UNIVERSITÀ DELLE TRE ETÀ COMUNE DI ALBENGA COMUNE DI BORGHETTO COMUNE DI CERIALE INGAUNI3 UNITRE COMPRENSORIALE INGAUNA anno accademico 2011-2012 CIRCOLARE DI INFORMAZIONE DELL’UNITRE COMPRENSORIALE INGAUNA - N. 3 - FEBBRAIO 2012 SEMEL IN ANNO... LICET INSANIRE A rmandino era il calzolaio di fiducia della mia famiglia. Un ometto di piccola statura, Armandino, ma di grande intelligenza. I calzolai dei miei tempi (anni 20) già non fabbricavano più scarpe; rimettevano “a nuovo” scarpe consunte dall’uso. Dell’antica professione calzaturiera rimanevano, nei loro laboratori, le forme di legno dei piedi (verniciate di un giallo tenerino), disseminate con negligenza sul pavimento... Destavano un poco di melanconia.... Dell’antica professione era rimasto il deschetto e quel pezzo di tronco cilindrico, appartenuto ad un albero, simile ad una gamba robusta di tavolino che il calzolaio sorreggeva verticalmente, tenuto fermo fra le sue gambe. Tale tronco terminava con un ferro nero, lucido dall’uso che, simile ad una lingua, veniva introdotto nella scarpa da risanare favorendo le eventuali battiture, forature, passate di spaghi, cuciture, lucidature. Era un attrezzo “micidiale” che procurava ai calzolai, a lungo andare, la distorsione del ginocchio; distorsione chiamata, appunto, la “sindrome del calzolaio”, che costringeva il soggetto ad una andatura, diremo, ondeggiante. Fortunatamente il mestiere non comportava lo stare in piedi e neppure troppi spostamenti, infatti, l’Armandino stava di norma sempre seduto su una seggiolina (alla quale egli stesso aveva accorciato, segandole, le gambe), davanti al suo deschetto: un tavolinetto col ripiano che gli arrivava giusto-giusto all’altezza dello stomaco. Il ripiano era in realtà un vassoio di legno, diviso a scomparti. Scomparto per le “brochette” (i chiodi), per la colla, per un lumino “a spirito” che l’Armandino accendeva quando gli neces- sitava scaldare un ferro a forma di ancorotto atto a stendere la cera. Poi vi era lo scomparto per i “trincetti” affilatissimi come gli strumenti del chirurgo, lo scomparto per la pece, gli spaghi, un martelletto speciale e le tenaglie; incombente sul deschetto pendeva una lampada quasi sempre accesa. Una lampada col suo bravo… piatto di metallo smaltato bianco che concentrava la luce sulle mani del calzolaio; una curiosità: una mezza mascherina di cartoncino appesa al predetto piatto, impediva che la luce battesse sul suo viso, soprattutto sui suoi occhi… Il deschetto, poi, aveva un cassettino appena sotto al predetto ripiano; era la “banca” contenente gli “spiccioli” che Armandino teneva ben divisi in due ciotole di legno. Sul pavimento, sotto al deschetto, teneva una bacinella piena di acqua nera: forse serviva per una lavatura della scarpa prima di “operarla” con trincetto ed altro… Non è finita: un chiodo piantato di fianco al tavolino sorreggeva fogli di giornale perché l’Armandino, quando ti consegnava la merce rimessa “a nuovo”, te la incartava per bene e te la porgeva con gentilezza. Il suo laboratorio aveva pareti annerite che odoravano di cuoi. Cuoi che, arrotolati, riposavano appoggiati ai muri in attesa di essere trasformati in suole e tacchi. Cuoi che guardavi con indifferenza, senza chiederti da dove potessero “saltar fuori”; erano cuoi e... basta. Non pensavi che erano pezzi anatomici appartenuti ad esseri viventi: buoi, vitelli, vacche le cui carni erano finite sui piatti e le cui pelli a confezionare scarpe. Pelli “conciate” con prodotti tannici che davano garanzia di tenuta d’acqua e che nello stesso tempo lasciavano respirare il piede. Armandino era il chirurgo della scarpa; sapeva scucire e ricucire, risuolare e rifare i tacchi. Solitario? Nel lavoro, sì: non voleva nessun aiutante. Ma nel laboratorio aveva quasi sempre un amico con cui chiacchierare: Lavorava e chiacchierava: tutti gli argomenti erano buoni. Perché Armandino, la sera, a letto, prima di spegnere la luce, leggeva tutti i fogli di giornale che gli arrivavano a tiro e una pagina della “Imitazione di Cristo” o dei “Fioretti di San Francesco” lasciatigli dalla mamma. Viveva in casa di una sua sorella che aveva sposato un ferroviere. La sera, dopo cena, ascoltavano la radio ma, Armandino, spesso si addormentava appoggiando la testa sulle braccia intrecciate sul tavolo di cucina. Venuta una cert’ora, lo dovevano svegliare. -Armandino, vai a letto!- E Armandino apriva gli occhi, alzava la testa, si guardava attorno smarrito, poi si alzava, sorrideva e: -Buona notte!- ... - e se ne andava trascinando un poco la sua gamba “sinfulina”. Ma la sera antecedente il “Giovedì grasso” Armandino chiudeva il laboratorio verso le sedici. Spenta la luce sopra il suo deschetto, abbassava la saracinesca e si incamminava, più svelto che poteva, verso casa. Diceva a sua sorella: -Stasera non mangio!- -Lo sappiamo!- rispondevano sorella e cognato. Armandino, raggiunta la sua cameretta, si toglieva il grembiule da lavoro, si spogliava del tutto e, avvolto in un asciugamano, se ne andava, svelto, al gabinetto a farsi una doccia. Una doccia sana, abbondante tale da portar via tutti gli afrori del cuoio, delle colle e delle vernici. Si asciugava per bene, poi allungava la mano all’armadio e, quasi con devozione, tirava fuori il suo frak col quale, molti anni addietro aveva festeggiato il suo primo “Giovedì di carnevale”. Camicia, polsini, papillon, Armandino, impomatati i capelli, dato il fard rosa alle guance, il rossetto alle labbra, afferrava il bastone dal pomo d’argento, calzava il cilindro, salutava: -Ciarea!- ed usciva. -Armandino va al veglione!- commentavano in casa. Armandino va al veglione!- dicevano gli inquilini delle scale. -Salve, Armandino!dicevano i passanti. -Tutti gli anni, per carnevale, Armandino esce di casa!-... Le scarpe nere dalle suole risuolate, risuonavano sul selciato. Giorgio INGAUNI3 Febbraio 2012 2 CERVELLO TEMPESTOSO: “Brain storming” ovvero: PENSIERI DI UN MALPENSANTE A “fine guerra 1945” apparve un libro di Virgilio Lilli; titolo: “Americanizzarci o morire?”. Il libro presentava il dilemma: Se non americanizziamo il nostro sistema di lavoro, siamo proprio destinati a morire, oppure “moriremo di fame” se ci americanizzeremo?... Dobbiamo, dunque, ricorrere alla “catena di montaggio” per produrre il nostro “pezzo” per poi, liberi, volare verso i nostri “minuti piaceri”? Oppure essere costretti a lavorare “giorno e notte” (come il ciabattino sul suo lavoro che deve ad ogni costo terminare per darlo finito?) MA NON C’È PIÙ L’AMORE PER IL LAVORO? Dice una massima del “Santo Saggio di turno” che “L’uomo è trasformatore di materia e creatore di forme”; mio padre, nato agli sgoccioli dell’800, artigiano falegname, aveva il piacere di scegliere e acquistare un’asse di legno grezzo (la materia venuta al mondo per essere soltanto “albero”), e di saperla trasformare in una sedia (la trasformazione in una forma utile). La “sognava” progettandola; poi la segnava col matitone sul legno stesso (portava il matitone sospeso sull’orecchio sinistro e il metro a stecche articolate nella tasca di dietro della tuta). Poi la sezionava, quindi la piallava, poi passava a segnare gli incastri da eseguire regolarmente “a coda di rondine”. Eseguiti, con colpetti di mazzuolo di legno, assiemava i pezzi: ne veniva fuori una sorta di traliccio talmente robusto che la colla (quella puzzolente di una volta, disfatta a caldo a bagnomaria) era un di più: soltanto una sicurezza. Passava al sedile, alla spalliera, rifiniva il tutto con la carta vetrata; metteva il manufatto sul banco e se lo ammirava. Se di legno pregiato, passava alla sua lucidatura a tampone di gommalacca e spirito; se di legno meno nobile, alla verniciatura con pittura ad olio. Asciugata, delicatamente metteva la sedia finita a terra: ora, contento la ammirava… quindi, si metteva ad attendere il cliente. Posso dire che si distaccava dalla sua sedia con un po’ di rimpianto: era la sua creatura. Tutto il lavoro dell’Uomo, fino ai primi del ‘900, procedeva pressappoco così: (falegname, fabbro, muratore, sarto, calzolaio…) Mia madre, nata agli sgoccioli dell’800, era classificata all’“Anagrafe”: atta a casa-casalinga. Di professione faceva la moglie di mio padre e la madre di me e di mio fratello. Era “di cucina” e, quindi, preparava continuamente colazioni, pranzi di mezzogiorno e le cene. Teneva alle pulizie e ai rifacimenti dei letti, in più aveva l’abilità di cucirsi i vestiti per sé e la biancheria per tutti noi di casa. All’uopo possedeva una macchina per cucire “Singer” mossa da un pedale. (Da giovanetta, durante la prima guerra mondiale, la mamma cuciva bandiere di segnalazione per le regie navi; possedeva ancora un cartellone, che custodiva gelosamente, con le bandierine disegnate e le lettere dell’alfabeto corrispondenti). Per i suoi vestiti ricorreva a certi giornalini (figurini, erano chiamati), che presentavano le seste da copiare sulle veline e da riportare a loro volta, spillandole, sulla stoffa nuova, acquistata dalla merceria. Terminata questa prima operazione di “vera trigonometria sferica”, prima di dare il primo taglio, chiamava una sua cugina per tenere con la stessa una specie di consulto. Terminato il quale, segnava la stoffa con un gesso piatto, da sarti, quindi poneva mano alle forbici. I pezzi tagliati venivano “imbastiti” con punti a mano molto lunghi e, quando il vestito era montato, procedeva alla “prima misura”. Altro consulto: -Qui va tirato su; qui lo riprenderei; mi pare che, da questa parte, penda un pochino...- Altri segni di gesso; riprese, attaccatura delle maniche, del colletto, del bavero eccetera. Finale per il taglio e rifinitura delle asole e per la scelta e l’attaccatura dei bottoni: ora il vestito era pronto. La mamma se lo ammirava davanti allo specchio grande; lo avrebbe indossato per andare alla Messa la Domenica e ai colloqui con i Professori di Scuola che, a quel tempo, si chiamavano “udienze” (come nei tribunali). Poi, il vestito, spazzolato e stirato, veniva riposto nell’armadio, pronto per la prossima occasione. Tutto il lavoro dell’Uomo, fino a circa metà del ‘900 procedeva pressappoco così: artigianalmente, dove il far da te era d’uso comune. Ma, purtroppo, era già comparso sulla Terra (verso il 1910) il Diavolo nelle vesti di un certo Henry Ford con la sua “illuminante” invenzione: la catena di montaggio; da allora il falegname del villaggio, solitario nel suo laboratorio profumato dalle essenze forti emanate dal legname, non avrebbe più costruito sedie, né le donne avrebbero cucito più i loro vestiti, preferendo sia il falegname quanto la casalinga acquistare bell’e pronti, e a scelta, l’uno la sedia, l’altra il vestito. Tutti: uomini e donne in fabbrica, trasformati in robot intenti ad eseguire, in serie, movimenti ripetitivi al fine di farsi “sfornare” dalle macchine “pezzi” dei quali si ignora la funzione e la destinazione. “Costruivo armi da guerra, senza saperlo”. Da qui: avvilimento, rancore, rabbia, lotta (di classe). Fermare la “catena di montaggio”? Utopia. Sarebbe come voler fermare la Scienza. Fermeremo la “robotica”? No di, certo; anche se paventiamo addirittura che succeda quel che Dukas predice nell’“Apprendista stregone”: il moltiplicarsi senza limite delle scope. Dicono gli “esperti” che stiamo andando incontro ad un tempo in cui tutti gli uomini dovranno assoggettarsi a cambiar genere di lavoro, per lo meno, tre volte nella vita. Saper fare di tutto attraverso una ferrea cultura di base data da una “Scuola” e più “Avviamenti Professionali”. Bene: per ora apriamo subito tante “Oasi di Lavoro promozionale”. All’“Università delle tre età” si frequenta volontariamente per aggiornarsi e ricuperare parte di quelle “arti” che avremmo voluto coltivare in altri tempi. “Non è mai troppo tardi” recitava il buon Maestro Manzi. L’offerta è allettante: tornare a quel lavoro fabbrile (fatto dalle mani), nato, seguito e visto finito, diritto e capitale proprio dell’uomo. - Impara l’arte e mettila da parte Oggi tutto è già pronto e inscatolato. Esiste ancora chi sa confezionare un pacco? Charles Chaplin nel 1936 diede alle sale cinematografiche la splendida “parabola antifordista” in cui il meccanico Charlot è vittima della “società dello sfruttamento” e della meccanizzazione” che fonda il proprio interesse sulla parcellizzazione del lavoro, riducendo l’uomo mera protesi di una macchina. Giorgio Malpensante 3 INGAUNI3 Febbraio 2012 LE MURA DEL SAN DOMENICO C redo nelle “mura di pietra” e nelle facoltà che loro hanno di impregnarsi di “visioni” e, in particolare di “voci”. “Visioni e voci” che, si dice, le mura vadano restituendo a piccole dosi. Credo che un vetusto edificio abbia titolo di parlare di cultura con la saggezza che egli sviluppa nel tempo. È per questo che mi sono ritrovato felice quando ho saputo che il “San Domenico” ci attendeva una seconda volta per accogliere la nostra università ingauna delle tre età. Anche la cultura vuole il suo scrigno… Nel prezioso volumetto che costituì sigillo accademico per l’anno 2000/1, trovo informazioni dovute alla ricerca eseguita dal corso “esegesi delle fonti”; gruppo coordinato dal grande Gerry Delfino, poeta e libraio in Albenga. Si dice, nel volumetto, che chiesa e convento sarebbero stati fondati dallo stesso san Domenico (morto a Bologna nel 1221) e che a testimonianza dell’avvenimento, il Santo avesse piantato un cipresso tenuto in grande venerazione e abbattuto per vetustà nel 1705. - I documenti parlano dell’arrivo dei frati domenicani soltanto alla fine del 1200. Non si sa il perché di questa lunga attesa, come non si sa del loro abbandono. Fatto sta che i sai bianchi e neri dei “Domenicani dell’Ordine dei Predicatori” sono spariti da molto tempo ma che, nelle antiche mura, nelle antiche scale, nelle stanze divise da ampi corridoi, pare... si senta, talora, come un fruscio di lane, uno scalpiccio di sandali, una specie di mormorii... come di preghiera... strane eco. E che le “lezioni” che si tengono prendano una svolta gratificante avvolta in un silenzio surreale. Che sia la scuola dell’eloquenza e dell’ascolto che vuole “spazi antichi”? Il primo San Domenico.- Ora mi trovo qui, ma per una misteriosa coincidenza, nel ‘47 mi trovai giovanissimo in Bologna (era il primo “convegno” dei “teatrini d’oratorio”) e fu in “San Domenico” che (ignorante e sprovveduto), mi trovai con altri attorno alla tomba del Santo che i frati vollero progettata ed ornata di statue di piccola dimensione scolpite da Michelangelo. Meraviglia. Ma in me, la meraviglia fu ingigantita dalle lezioni di scenografia tenute nei sotterranei e dalla presenza di un “pezzo unico” che illuminò il viso del regista-coreografo Anton Giulio Bragaglia: una sediainginocchiatoio. -Quella sedia, disse, collocata in scena è già di per sé stessa un Personaggio-. Fui così iniziato al Teatro; iniziato anche se poi, mi perdetti... per un po’. Perché, poi, mi ritrovai con l’antica arte alle prese con un Gruppo universitario di giovani dilettanti. E con essi un giovane volenteroso, pieno di eloquio e di gestualità. Gli affidai la parte di Firts nel “Giardino dei ciliegi”; sostenne la parte compenetrandosi nel vecchio servitore che si curava con cartine di ceralacca tritata. Lo perdetti di vista per qualche anno; lo ritrovai alla stazione ferroviaria: indossava il saio bianco e nero dei Domenicani: coincidenze. Il secondo San Domenico,- Negli anni 2004/ 5/6 fui in “San Domenico” di Albenga, e qui ebbi la sensazione di operare tra mura già conosciute. Nell’Aula magna si svolsero importanti incontri e la pedana alla quale accedemmo ci diede la possibilità di rappresentare inediti concerti di pagine poetiche riunite per argomenti. “Balthazar, ti piace. il presepio?”, “Io sono un istrione”. Nelle sale attigue fiorì, assieme alle altre arti, il “giornalino” documento di un prodotto artigianale gestito e impaginato con mezzi nostrani, ad opera di un gruppo di tecnici valorosi. Sarà l’ultimo San Domenico?- Dopo un ennesimo trasferimento nella Scuola di Via degli Orti, siamo di nuovo in San Domenico. Le antiche mura ci osservano con una certa diffidenza. Ridacchiano e sussurrano: -Ecco i Sor Pampurio sempre in cerca di nuovi appartamenti.....G. S. Nella cornice dell’ultimo San Domenico, si è svolta la Festa del Natale. C’erano quasi tutti gli Iscritti, i Docenti, il Direttivo. Ci ha onorato della sua visita il Signor Sindaco, gli Assessori e ci siamo scambiati gli Auguri. Ci hanno voluto assicurare la permanenza definitiva e promesso l’uso dell’Aula Magna... DALLA SEZIONE DI BORGHETTO S.S. DALLA SEZIONE DI CERIALE Siamo giunti al tredicesimo anno di attività per l’Unitre di Borghetto S. Spirito, aperto ufficialmente giovedì 27 ottobre 2011 in occasione dalla presentazione dello splendido libro del Prof. Giorgio Genta, «L’ ultimo viaggio del “Nostra Signora”: Storia di un naufragio in famiglia». Il libro, che narra le vicende familiari dell’Autore, è finalizzato alla raccolta di fondi per il sostegno del progetto dell’Associazione “Dopodomani onlus”, attiva da anni nel sostegno dei disabili gravi. I Docenti hanno illustrato i programmi dei corsi e hanno fornito informazioni agli studenti, che quest’anno hanno l’opportunità di frequentare ben 16 tra corsi e laboratori, con un importante numero di materie e discipline a disposizione, alcune delle quali introdotte per la prima volta. Come sempre il Comune di Borghetto sostiene le attività dell’Unitre mettendo a disposizione numerosi locali e convenzionandosi con le scuole ed altre associazioni locali per poter concedere l’utilizzo gratuito di altri spazi. Molte dunque le attività che si possono svolgere a costo zero per la nostra associazione anche presso strutture private (Ginnastica e tango) o comunque concesse al Comune (informatica, cucina). Accanto ai corsi anche un intenso programma di conferenze ed incontri aperti al pubblico, che offrono momenti di incontro ed approfondimento sui temi più vari: storia, religione, alimentazione, medicina alternativa, proiezione diapositive. Un ringraziamento dunque a tutti coloro che come Docenti, Conferenzieri o Assistenti si mettono a disposizione per permettere alla nostra sede di proseguire il proprio cammino. Sede di Borghetto S. Spirito È tornato il “Giornalino Unitre” che, anche se non ha raggiunto il suo massimo potenziale, è sempre un’occasione per incontrarci. Il nostro Presidente mi ha chiesto di scrivere due parole sulla sezione di Ceriale. Purtroppo due parole non bastano per descrivere i giorni in cui mi sono sentita orgogliosa dell’incarico di responsabile a Ceriale. Ne cito uno per tutti: Il giorno in cui abbiamo presentato il programma per l’apertura dei corsi e laboratori nella nuova sede dataci in uso dal Comune ho visto l’aula piena di nostri iscritti, sempre molto assidui, altri venuti da Albenga e Borghetto e molti cerialesi. Le sedie pur essendo molte non bastavano, ma tutti sono rimasti comunque malgrado il disagio, interessati ed attenti; allora ho capito che l’Unitre Comprensoriale Ingauna aveva raggiunto lo scopo per cui è nata: la diffusione sul territorio. Infatti la sua crescita è stata lenta ma costante. Qualcuno ha definito la sezione cerialese dell’Unitre una “nicchia di cultura” ma io che la vivo ogni giorno, so che è molto, molto di più. È l’Associazione in cui, Docenti, e Allievi credono, riuscendo a trasformare la solidarietà in amicizia, dando collaborazione attiva e partecipe. Questa è l’Unitre che mi piace e sono certa che con l’aiuto di tutti, prendendoci per mano, continueremo il cammino iniziato tanti anni fa perché molti ancora imparino a conoscerla ed apprezzarla. Noi a Ceriale ci stiamo provando. Barbara Faccini Evelina Lampugnani INGAUNI3 Febbraio 2012 4 PROPOSTE DAI COMITATI COMITATO GITE COMITATO FESTEGGIAMENTI Il Comitato “Gite” ha individuato due gite che ha presentato al Consiglio Direttivo ottenendone il parere favorevole. Si propongono, ora, all’attenzione dei soci i quali sono pregati di fare sapere a questa Segreteria o al Comitato stesso le loro eventuali adesioni. Domenica 18 marzo: Port Grimaud e Saint Tropez. (Gita – viaggio di istruzione voluta dal corso di Francese e di Arte) Come ormai d’abitudine il giorno 8 marzo, Festa della donna, si festeggia con un bel pranzo che non solo è riservato a tutte le donne, ma anche a tutti gli iscritti della nostra Unitre che vogliono unirsi per trascorrere una giornata in compagnia e allegria. Quest’anno si è deciso di ritrovarci alle ore 13 presso il “Ristorante Sport” di Cisano sul Neva dove ci aspettano i nostri docenti del corso di “Cucina Teorica” che siamo certi, ci prepareranno un menù con i fiocchi. Non occorre raccomandarvi di partecipare numerosi, sarà una giornata allegra e spensierata. Qui di seguito pubblichiamo il menù proposto con il relativo prezzo concordato. Non rimane che aderire perché vi aspettiamo numerosi!!! Il Comitato Festeggiamenti Data da precisare (tra il 24 maggio e il 2 giugno) Candelo in fiore e aurofodine romane Gita sociale al Ricetto di Candelo (Biella), risalente al 1300, costituito come deposito agricolo e rifugio in caso di guerra. La visita, interessante in sé, si arricchisce in questi giorni per la manifestazione “Candelo in fiore” Nel pomeriggio, visita alle aurofodine romane, enorme pietraia, residuo di lavatura di sabbie aurifere nella Bessa, vera e propria miniera a cielo aperto e al connesso Museo dell’oro di Vermogno. Il Comitato Gite 8 marzo: Festa della donna L’8 marzo non è, come si può pensare, una festa frivola, ma una ricorrenza che ha un forte significato “storico”. Ricorda infatti il tragico episodio dell’incendio (Triangle Factory Fire) di Boston del 1911, dove 146 operaie tessili morirono intrappolate nell’interno della fabbrica. Quindi, proprio perchè l’8 marzo non è un giorno qualunque ma ci riporta a questo tragico episodio e ci evidenzia il sacrificio e lo sfruttamento di tante donne, avvenuto ieri come purtroppo avviene anche oggi, voglio rivolgermi a tutte le donne della nostra Associazione per un breve pensiero di gratitudine più che per fare scontati auguri. Vi sono grato per l’infinità di valori che sapete esprimere: essere femminili ma anche determinate, dolci e coraggiose, sognatrici e pratiche, comunque sempre fantastiche ogni giorno dell’anno. Ancora auguri e tanta gratitudine. Un uomo non maschilista Il Presidente Gustavo Ravera Siamo al 2° incontro con l’inserto che se vorrete potrete raccogliere, così da poter realizzare un libro sulla memoria storica dell’Unitre Stanno arrivando molte comunicazioni Ricordiamo i riferimenti: tel. 339 8004283 mail: [email protected] Aperitivo di vino: Bianco Rustico di Cantina Antipasti misti della casa Primi Piatti: Ravioli (prod. Propria) ripieni di verdura e ricotta, al burro salvia e pinoli Tegame di melanzane al pesto e formaggi Secondi piatti: Coniglio al forno con olive Noce di vitello con crema di verdure Contorni: Carote e piselli Dolce: Tiramisù al caffè Vini: Dolcetto di Ovada Bonarda Oltrepò Pavese Acqua Caffè € 20,00 … e dopo il PROLOGO I° CAPITOLO Iniziamo il primo capitolo con la poesia di Beppe Cameirana (eletto rappresentante degli studenti 1994/97) perché ci trasmette il vero significato e gli scopi principali della nostra Associazione: Avrei potuto imparare molte cose nuove ma non lo sapevo. Avrei potuto salutare molte persone che incontravo ma non lo sapevo. Avrei potuto ridere e scherzare ma non lo sapevo. Avrei potuto tornare ragazzo ma non lo sapevo. Avrei potuto trovare nuovi entusiasmi ma non lo sapevo. Avrei potuto avere conforto nei momenti tristi ma non lo sapevo. Avrei potuto avere tanti veri amici ma non lo sapevo. Non lo sapevo. Ora lo so: Vado all’UNITRE (dal libretto verde 1996/97) Come detto nel prologo non terremo un ordine cronologico delle cose, le nostre memorie saranno per argomenti; parliamo di quello che l’Accademia di Umanità ha organizzato negli anni: Le feste Nel corso degli anni i vari membri dell’Accademia di Umanità hanno organizzato le feste più svariate: non solo gli auguri di Natale o la festa di chiusura dell’Anno Accademico ma anche la festa di carnevale, la “festa della Donna” ed in date diverse l’inaugurazione delle varie sedi in cui via via ci spostavamo (ne parleremo più avanti); e poi le gare di cucina con premi ai piatti più apprezzati, le tombolissime etc. con tanta partecipazione e grande divertimento per i soci. “Ma non finiva tutto a tarallucci e vino” come scherzosamente dicevamo perché ogni festa aveva uno scopo sociale “raccogliere fondi per chi più aveva bisogno”. L’amico Verrazzani, che tutti ricordiamo con tanto affetto, oltre a collaborare per la buona riuscita della Festa degli Auguri prese contatto con l’Associazione Medici senza Frontiere e quell’anno il ricavato della lotteria, i cui premi ci erano stati donati dalle varie attività commerciali, contattate ed invogliate dagli organizzatori dell’evento, andò a sostegno del volontariato in campo medico. Per l’8 marzo, festa della donna, non ci potevamo limitare alla mimosa, ad un pranzo sociale o ad un ballo quindi portiamo l’esempio dell’anno in cui nel salone di Piazza S. Domenico, dopo i brindisi e gli auguri, le Suorine indiane che alloggiavano presso il Seminario di Albenga ci proiettarono alcune immagini delle Missioni francescane in India e così, seguito dal cuore di tutti noi, il contributo di quella festa raggiunse i bimbi Indiani bisognosi di assistenza e cure. Per l’ultimo anno del 20° secolo cosa si inventarono i “Nostri” dell’Accademia di Umanità? “Il saluto di benvenuto alla Befana” ultima del millennio: una festa di “saluto” al Nuovo Millennio. A tutti venne regalato il segnalibro con la Befana sulla scopa realizzato da Pino Camoirano in esclusiva per l’UNITRE Ingauna. Tra i presenti vi erano molti volontari dell’Unitre che si erano alternati per tre giorni al banchetto per la vendita delle stelle di Natale e durante la festa furono gratificati dalla presenza del Presidente Nazionale dell’AIL Avvocato Sergio Bianchi di Genova che venne per ritirare il tangibile incasso a favore dell’Associazione Italiana Leucemie e per ringraziare calorosamente l’UNITRE tutta. Le manifestazioni e gli spettacoli Ricordiamo due importanti iniziative di apertura al sociale con divertimento finalizzato alla raccolta fondi: – Il concerto lirico del soprano Anna Maria Ottazzi presso il Cinema Teatro Ambra di Albenga che con le generose offerte dei presenti (iscritti e simpatizzanti UNITRE) ci permise di contribuire al viaggio della speranza di Matteo e Chiara: due fratellini non vedenti che accompagnati dai genitori si sono recati in America per un consulto di medici altamente specializzati in campo oculistico. – La presentazione da parte del Dott. Folco del libro di memorie su “la Storia del Santa Corona”. Il ricavato dei libri venduti si aggiunse al già raccolto per la realizzazione, in Santa Corona, di locali e di assistenza riservati ai Parenti degli ammalati ricoverati che arrivavano a Pietra Ligure da ogni parte d’Italia ed anche dall’estero.