Corriere del Ticino
GIOVEDÌ 1. OTTOBRE 2009
PRIMO PIANO
3
Anniversario
La Cina celebra
una marcia
lunga 60 anni
Il 1. ottobre 1949 Mao proclamava
la nascita della Repubblica popolare
Pechino inizia oggi i festeggiamenti per il 60.anniversario della rivoluzione comunista. Lo fa con toni trionfali che mirano ad esaltare
l’antica civiltà cinese e la rapida modernizzazione del Paese. Il partito si definisce ancora comunista, ma è una struttura di mero potere autoritario, avendo fatto da tempo suicidio ideologico: oltre il 70
per cento del Prodotto interno lordo viene dall’economia privata.
FESTEGGIAMENTI L’attuale
presidente Hu Jintao e l’ex
presidente Jang Zemin (rispettivamente in basso a destra e a
sinistra della foto Keystone)
brindano all’anniversario.
PAGINA A CURA
DI FERNANDO MEZZETTI
) Otto giorni di festa in tutto il
Paese e parata militare nella capitale con 56 reggimenti, nuovi
missili nucleari e sistemi d’arma
avanzati. La Repubblica popolare celebra oggi i propri 60 anni in
toni trionfali, con l’esaltazione
dell’antica civiltà cinese e della
propria rapida modernizzazione.
Festeggiamenti di ogni genere: in
quasi tutti i cinema, filmone da
30 milioni di euro su questi decenni trascorsi, realizzato da una
decina di registi di fama con 200
attori di prima grandezza; a Pechino, un epico musical con 3.200
attori e cantanti. «La Cina si alza
in piedi», è il grido con cui Mao
Zedong, dal rostro della Città
Proibita, proclamò il primo ottobre 1949 la nascita della repubblica popolare: presentava una
Cina nuova, in rottura col passato, riscattata dalle umiliazioni inferte da occidentali e giapponesi, portatrice di antica civiltà, ma
decaduta nell’impatto con la modernità. Il trionfalismo attuale ha
significato ben più vasto: non solo piena indipendenza, avendo
anche ristabilito la sovranità su
Hong Kong (1997) e Macao
(1999), ma per potenza economica e prodigioso sviluppo, con il
quale in pochi anni la sua immensa popolazione è uscita da
fame e arretratezza. Si esalta la
Cina totale, con un fondo di fiero nazionalismo per i traguardi
conseguiti e col recupero di Confucio, che, vissuto 500 anni pri-
ma di Cristo, ha permeato il pensiero e la cultura collettivi.
La repubblica popolare è nata
due volte. Con Mao nel ‘49 e dopo la sua morte, avvenuta il 9 settembre 1976. La prima, chiusa e
enigmatica, dell’eguaglianza in
basso; la seconda che grida «arricchirsi è glorioso», sorta nel
1978, dopo due anni di lotte interne, col ritorno al potere di
Deng Xiaoping, che Mao aveva liquidato per tre volte: iniziava allora la fine del maoismo, con l’avvio di apertura e riforme. La prima nasceva in piena guerra fredda, schierandosi nel campo socialista guidato da Stalin, che alla fine del conflitto mondiale aveva ristabilito in Cina i possedimenti della Russia zarista, i quali torneranno a Pechino solo dopo la sua morte. La seconda sorge in strettissimo rapporto con gli
Stati Uniti, pur avviato da Mao e
Zhou Enlai nel ‘71 contro l’Unione Sovietica, il cui primo frutto fu
l’ingresso di Pechino all’ONU nel
seggio fino ad allora occupato dai
nazionalisti rifugiatisi nel ‘49 a
Taiwan.
Nella prima, dopo le iniziali stragi e deportazioni di massa, le difficoltà per la costruzione economica furono aggravate dalle campagne politiche volute per trent’anni dal Grande Timoniere. Nel
1957, la lotta antidestrista, per cui
tecnici, scienziati, intellettuali,
furono «mandati giù», deportati
nelle campagne a «imparare dai
contadini»: rivalsa di classe, ma
sperpero di conoscenza preziosa. Dal 1958 al 1961 il «grande balzo in avanti», con collettivizzazione integrale dell’agricoltura e
della stessa esistenza umana nelle Comuni del popolo e rudimen-
tali «altiforni da cortile» per una
immaginaria industrializzazione: almeno trenta milioni di morti di fame in tre anni. Infine, il disastro della rivoluzione culturale, dal 1966 al 1976, lanciata da
Mao contro un apparato che, pur
omaggiandolo, l’aveva di fatto
emarginato. È la Cina del «Libretto rosso» coi pensieri di Mao, agitato da milioni di giovani ignari i
quali, chiuse per anni scuole e
Università, si impegnavano nella lotta di classe, benché capitalisti e ceto medio fossero stati da
anni eliminati.
La seconda repubblica si forma
liquidando Mao e la sua eredità.
Niente lotta di classe, ma sviluppo economico e modernizzazione. Abolisce le Comuni, dando la
terra ai contadini, avvia un’economia di mercato, si apre agli investimenti stranieri (circa 700 miliardi di dollari in dieci anni), istituisce la Borsa, stimola l’iniziativa privata, sviluppa l’istruzione,
diventa fabbrica del mondo, anche di prodotti ad alta tecnologia, arriva ai primi posti nel commercio mondiale e fa scorrerie a
caccia di materie prime; le riserve, 14 milioni di dollari nel 1978,
oggi superano duemila miliardi,
metà dei quali in bond del Tesoro USA, branditi con moniti a Washington.
Da 250 dollari all’anno nel 1980, il
reddito pro capite è arrivato ora
a 3.000, circa 6.000 a parità di potere d’acquisto. La società di
eguali si è diversificata. Pur nei
vantaggi per tutti, si hanno vincitori e vinti: 350 mila milionari in
IL PARTITO COMUNISTA CINESE E IL RUOLO DI MAO ZEDONG
In un documento la condanna del Timoniere
) Il grande assente dalle grandiose celebrazioni per i 60 anni
della Repubblica popolare è colui che l’ha fondata e per trent’anni impersonata: Mao Zedong. Il
suo gigantesco ritratto continua
a dominare l’immensa piazza
Tiananmen da sopra l’ingresso
della Città Proibita, ma la Cina
odierna ha poco o nulla a che fare con lui. Il Grande Timoniere
ieri sacrale è oggi solo una sorta di
icona pop, il suo Libretto rosso
un tempo tanto sventolato, i suoi
busti e bustini in porcellana da
maneggiare con cura senza mai
inavvertitamente afferrarli per il
collo pena il gulag, le sue immagini riprodotte su mille oggetti,
sono ora solo roba da chincaglieria: finita nel bric-à-brac della storia, non solo metaforicamente.
Se la Repubblica popolare ha due
storie, quella con Mao e quella
del dopo Mao, il Timoniere è
morto due volte. La prima, il 9 settembre 1976. Morì dopo uno spaventoso terremoto, che fece oltre
200 mila morti, e prima di
un’eclissi di sole: due eventi carichi di oscuro presagio nella
mentalità collettiva, premonitori
di un cambio di dinastia. Un mese dopo furono arrestati sua moglie e tre alti esponenti di vertice
che con lei, sotto la di lui direzione, erano stati protagonisti della
rivoluzione culturale: la «banda
dei quattro». Saranno quattro anni dopo processati e condannati
a vari anni di carcere e lei si toglierà la vita nel 1990.
La seconda morte è stata a fuoco
lento, ma incalzante e inesorabile. Comincia col ritorno al potere
nel ’77 di Deng Xiaoping, che lui
aveva liquidato per tre volte, l’ultima poco prima di morire nell’aprile 1976. Si sviluppa con una
battaglia filosofica lanciata da
Deng, «cercare la verità nei fatti»,
non nei suoi dogmi, affiancata da
una «campagna di liberazione del
pensiero», cioè liberarsi di suoi
precetti e tabù fino ad allora inculcati, fino al varo delle riforme
a fine 1978, con l’abolizione delle Comuni del popolo, cessione
ai contadini dell’uso della terra in
enfiteusi con totale libertà di colture e l’apertura al mondo. Mentre le campagne si monetizzano
e consumano, comincia a fiorire il
piccolo commercio, la de-maoizzazione si intensifica, con denunce degli orrori della rivoluzione
culturale e del ruolo del despota,
e allontanamento di coloro che
lui aveva insediato in posti di potere. Tutto ciò culmina il 27 giugno 1981 in un solenne documento pubblico del partito sul ruolo
di Mao, paragonabile alla denuncia di Krusciov contro Stalin nel
1956, con la differenza che questa restò segreta in Russia, mentre il primo fu fatto studiare a tutta la Cina e reso noto al mondo.
Nel documento si rende omaggio a Mao per la vittoria della rivoluzione nel 1949, ma lo si bolla
per i suoi quasi trent’anni di potere fino al 1976, segnati «dal suo
arbitrio personale»: la «lotta anti-
destrista» nel ’57 portata a conseguenze estreme e dannose; il
«grande balzo in avanti», del
1958-1961, lanciato dissennatamente, «causando grandi sofferenze e perdite per il Paese e il popolo», (trenta milioni di morti di
fame), alleviate solo dopo che
Mao si era ritirato «in seconda linea». Infine la rivoluzione culturale da lui impersonata e lanciata, con la quale «ha causato immensa catastrofe al partito, allo
Stato, al popolo». In sostanza: un
grande guerrigliero e rivoluzionario, ma disastroso uomo di Stato; una sciagura per la Cina che
sia sopravvissuto a sé stesso dopo
la presa del potere. La condanna
del Timoniere come parricidio
ideologico, cui si aggiungerà il
suicidio ideologico del partito con
la completa apertura all’economia di mercato e il decollo economico e sociale della Cina. Ancora autoritaria, malgrado molti
spazi di libertà individuale, ma
non più comunista.
euro, una classe media di circa
300 milioni con potere d’acquisto di livello europeo e l’immensa popolazione rurale con reddito pro capite di 700 dollari. Il potere è stato messo in pericolo nel
1989 dalle manifestazioni sulla
Tiananmen, represse con la strage. Ma mentre in Europa crollavano i regimi socialisti e nel ‘91
scompariva l’Unione Sovietica,
nel ‘92 Deng, scomparso poi nel
‘97, per non fare questa fine, rilanciava con maggior audacia le
riforme, fino a che la proprietà
privata è stata legittimata nella
costituzione.
Il partito si definisce ancora comunista, ma è una struttura di
mero potere autoritario, avendo
fatto da tempo suicidio ideologico: oltre il 70 per cento del PIL
viene dall’economia privata. Non
è più il partito di contadini e operai, ma anche di imprenditori e
manager, esaltati dal Quotidiano del popolo come «nuovo strato di 50 milioni di persone che
possiedono o gestiscono patrimoni per 1.300 miliardi di dollari, creano ogni anno sei milioni
di posti di lavoro, contribuiscono per un terzo alle entrate tributarie». Su 73 milioni di iscritti,
con ammissione altamente selettiva, oltre tre milioni sono capitalisti. Il partito unico si è aperto a loro volendo rappresentare
tutta la società, risolvendo al proprio interno le diversità di interessi e le latenti tensioni sociali
e etniche. Il sistema resta quindi autoritario, esposto a tutte le
critiche sui diritti umani. Esso dichiarava nel 1980 che «350 milioni di persone non hanno di
che mangiare, di che vestirsi, dove dormire». Oggi sono «soltanto» 30 milioni, dato confermato
dagli enti internazionali. Affermando quindi di soddisfare diritti umani primari, avendo liberato moltitudini dalla fame e dall’arretratezza, Pechino ammonisce i critici che «assicurare benessere a un miliardo e 300 milioni di persone è il maggior contributo alla stabilità e alla pace
mondiale». La Cina in crescita
preoccupa molti. Ma l’incubo di
una Cina destabilizzata e nel caos sarebbe peggio.
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