TEATRO POLITICO—TEATRO DELLA POLIS: L’ESPERIENZA DELLE ALBE DI RAVENNA Franco Nasi University of Chicago La nostra natura consiste nel movimento; il riposo totale è la morte. —B.Pascal La mia comunicazione è divisa in un prologo, tre atti e un epilogo. Il prologo riguarda l’ultima parola del titolo, Ravenna. I tre atti sono su tre momenti dell’esperienza del Teatro delle Albe: il primo, che chiamo del teatro politico, va dal 1983, anno di nascita della compagnia, al 1986; il secondo, in cui le parole chiave sono teatro politttttttico e teatro di carne, si occupa del periodo che va dal 1987 al 1994; il terzo ha come sottotitolo teatro della polis e va dal 1995 al 1999. L’epilogo tratta di custodi e di musei. PROLOGO GEOGRAFICO Ravenna è una delle poche città dell’Emilia Romagna senza una struttura urbanistica chiara. La via Emilia segna l’organizzazione viaria di tutte le città della regione, da Piacenza a Rimini. Ravenna e Ferrara sono le uniche che non si trovano sul decumano romano. Ferrara ha comunque avuto con il progetto urbanistico di Biagio Rossetti una sua limpida ripianificazione rinascimentale. Ravenna invece, nata dalle paludi, come Venezia, con le numerose piazze, le rotonde, i vicoli ricorda una città labirinto nella quale si prova immediatamente un imbarazzante senso di disorientamento. Ravenna è una città labirintica che galleggia ancora faticosamente, nonostante l’inarrestabile e lentissimo effetto della subsidenza. Il Mausoleo di Teodorico si ergeva un tempo su una collina ed era visibile da lontano nel mare: una specie di faro o una statuaria icona della potenza del capo degli Ostrogoti. Oggi, tristemente, l’edificio è diversi metri al di sotto del livello stradale, seminascosto dagli alberi, inghiottito dalla terra sabbiosa della palude. A causa della subsidenza si deve spesso scendere per entrare negli edifici antichi, ma, nonostante la discesa, il livello dell’attuale pavimentazione non corrisponde quasi mai a quello originale. Così i mosaici delle cupole dei battisteri e dei mausolei o delle pareti sovrastanti le navate laterali delle basiliche sono osservati da una falsa prospettiva, come se ci si trovasse sospesi su un’impalcatura, costruita nel mezzo dell’edificio. Al disorientamento urbanistico si aggiunge un disorientamento nella percezione prospettica. A pochi minuti dal Mausoleo, sulla strada che porta al mare, si distendono gli impianti petrolchimici. Sono chilometri di tubi d’acciaio, di enormi cisterne illuminate, di altissimi camini che lanciano abbaglianti lingue di fuoco. Ordinate, efficienti, freddissime, queste strutture fanno vivere per un attimo una dimensione futura. Il disorientamento qui non è più solo spaziale, ma anche temporale. Prima di arrivare al mare, si passa attraverso la polverosa e triste fascia di pineta, che porta ben marcati i segni del degrado ambientale e che la rende ancor più adatta alle cacce infernali di Nastagio degli Onesti (Dec., V, 8) e lontanissima dalla "divina foresta spessa e viva . . . che d’ogni parte auliva" che Dante richiama a proposito del Paradiso terrestre (Purg., XXVIII, 2,6). Infine il mare. Un mare che in inverno conserva ancora i toni grigi, malinconici di certe riprese felliniane, ma che in estate cerca, un poco pateticamente, di indossare i colori sgargianti e falsi di una riviera "usa e getta" che, in effetti, si affaccia su un mare che è ancora, pericolosamente, sul punto di trasfomarsi in una enorme pattumiera senza vita. Ma, nonostante le alghe rosse che rubano l’ossigeno ai pesci e le tracce di pertrolio che galleggiano, è ancora possibile ascoltare in questo mare il rumore delle onde, il rumore delle acque. È in questa città labirinto, porto industriale aperto all’oriente, immerso nella surreale e immobile pianura padana, con i suoi mosaici ieratici e ipnotizzanti, in cui si è proiettati incessantemente in epoche diverse, in cui la morte è sempre lì, incombente, nell’aria e nell’acqua, che nel 1983 quattro teatranti, Ermanna Montanari, Marcella Nonni, Luigi Dadina, Marco Martinelli decidono di dar vita a una nuova compagnia, le Albe: un nome augurale di cui, in quello scenario di drammatico tramonto, sembrava ci fosse un gran bisogno. ATTO PRIMO. TEATRO POLITICO Rha-ama significa in antico fenicio Rumore di acque. Da quella espressione, secondo alcune ipotesi, deriverebbe il nome Ravenna. Rumore di acque è anche il titolo del primo volume di testi teatrali pubblicato da Martinelli, penna e regista delle Albe, nel 1986. È a Ravenna, nel 2061, dopo la fine della terza guerra, che si ambienta il terzo testo del volume che dà il titolo a tutta la raccolta. In questo Apologo sulle città grige, come recita il sottotitolo, si racconta la vicenda di un gruppo di militari alla ricerca di un replicante disertore. Non trovandolo, e rischiando di venire giustiziati loro stessi, cercano di convincere Galy Gay, "persona del luogo" a sostituirsi al replicante per ingannare i superiori. In cambio promettono a Galy Gay un elefante, un vero elefante, un loxodonta africana, come ormai non se ne vedono più al mondo. Un mondo, quello descritto da Martinelli, insterilito da piogge radioattive, dove non ci sono più animali e dove si conosce solo la realtà della propria città: Non sappiamo più bene come stia il mondo. Oggi conosciamo soltanto quello che accade in città, è vietato oltrepassare i confini, i mezzi di comunicazione sono stati distrutti, dipendiamo esclusivamente dal Comando e dai soldati che là accampano. (135–36) In questo mondo orwelliano Ravenna è tornata a brulicare di orientali, come ai tempi in cui l’armata romana del Levante assicurava la difesa dell’Adriatico: cinesi e americani, mezzisangue e replicanti, la popolazione di Ravenna / Rha-ma realizza la sua antica vocazione cosmopolita, ma a quale prezzo! In qual modo! (135) La trilogia drammaturgica che segna l’inizio dell’esperienza delle Albe si ispira dall’opera di Philip Dick: Mondi Paralleli (1983), Effetti Rushmore (1984) e Rumore di acque (1986). L’opera di Dick ha offerto grandi sollecitazioni al gruppo per riflettere sui temi del doppio, della maschera, dell’apparenza, che già Martinelli e Montanari avevano sondato con compagnie precedenti (Teatro Maranathà, 1977–1981, e Linea Maginot, 1981–1983), con la realizzazione, tra le altre, di opere di Beckett e Büchner. Accanto a questi temi, si viene configurando sempre più precisamente l’impegno per l’ecologia. Il mondo, o meglio Ravenna, è un cimitero: Descrivere Ravenna, quello che ne è rimasto, quello che poi è stato ricostruito, è un’impresa noiosa. La risparmio a me e a voi. Posso solo dirvi che degli antichi monumenti sono rimasti Teodorico, perfettamente integro, e un brandello di Galla Placidia . . . Come dire, solo tombe! (134–35) Nel cielo della città delle acque ci sono due lune, una delle quali falsa, accesa e spenta da chissà chi, in modo che gli abitanti possano scommettere su quale delle due sia quella vera. Le stagioni non esistono più: ci sono solo le piogge radioattive e i locali in cui rifugiarsi "Temporale estivo? Chissà. Chi riesce più a distinguerle, le stagioni?" (160). Anche il ciclo dell’anno è confuso, irriconoscibile. Accanto a queste opere, nel 1986, le Albe producono uno spettacolo apparentemente minore, con due soli attori in scena: Confine. È una sorta di monologo di Ermanna Montanari, ispirato da una raccolta di racconti su un circo minimo di Marco Belpoliti. Confine, e siamo di fronte di nuovo a un riferimento topografico, è per il gruppo un punto di svolta, un limite da superare. Se posso semplificare: in Rumore di acque c’è una ricerca teatrale fatta di parole, di sdegno, di sogni, di ironia, di ragione. È un teatro che parla con la testa e con il cuore, in cui Philip Dick sta accanto a Dante, Bateson e Brecht. È un teatro politico, con una sola "t"; scritto con grande sensibilità e amore per le parole, in cui già si individuano alcune caratteristiche della scrittura dram-maturgica di Martinelli: capacità di giocare con le parole e di renderle leggere e pesantissime allo stesso tempo; accostamenti di lacerti e citazioni colte a frasi idiomatiche o tratte dalla pubblicità televisiva secondo certe modalità proprie della pop art; dialogo diretto tra palcoscenico e platea, con frequenti e ironici straniamenti dall’azione drammatica; commistione dei generi teatrali e di stili; e, nei testi pubblicati, presenza di una voce narrante che non si limita soltanto a dare le indicazioni di scena tra un dialogo e l’altro, ma che interviene narrativamente e criticamente nella vicenda. Un teatro politico che non si accontenta certo delle soluzioni propagandistiche o riduttive (è lontano per questo dal teatro di Fo, al quale il lavoro di Martinelli è stato a volte accostato e semmai ricorda per certe "azioni in strada" il Living), ma che tende a mostrare i problemi con uno sguardo prospettico d’insieme, uno sguardo filosofico, apocalittico, in cui l’esistenzialismo ante litteram di Büchner si mescola a un inquieto panteismo francescano, l’intento didascalico di Brecht si intreccia al disincantanto interrogarsi sull’essere e l’apparire di Beckett o di Dick. Un teatro che non dà risposte né ricette, ma che solleva questioni. Scrive Claudio Meldolesi nel 1988: Quando due anni fa si è cominciato a parlare di teatro politico, le Albe hanno potuto mettere in campo un’esperienza decennnale. Da sempre [. . .] erano su quella linea: in senso prima cattolico-goscista, poi büchneriano, maoista, dickiano, blochiano, verde, antirazzista. Tanti sensi per un unico impegno, costante nel tempo, di rifiuto delle separatezze intellettuali ed estetiche. (116) Con Confine bussa alla porta un altro mondo: il mondo della fisicità, della mitologia più occulta, degli archetipi. Il testo di Belpoliti sulla pagina è kafkiano; l’ossessione del corpo che accomuna gli artisti minori di un circo minimo di provincia è lucida, mentale, adamantina nella sua razionalità. Ermanna Montanari lo trasforma riscrivendolo col proprio corpo, con la propria voce. Scrive la Montanari in una pagina biografica apparsa su Il semplice: Cominciai a far teatro. Non avevo, allora, un’idea precisa di cosa volesse dire far teatro. Conoscevo solo il teatro cosiddetto tradizionale [. . .] Mi esaltava vedere in scena gli attori e le attrici, persone in carne e ossa che si muovevano, agivano, che recitavano davanti al pubblico. Ma come recitavano? Qui il mio entusiasmo diminuiva. L’impressione era che stessero facendo il compito, come a scuola, senza energia, senza piacere profondo, che parlassero con parole di altri senza sentirle proprie [. . .] Quegli attori mi apparivano senza dramma, superflui, forse non gli era mai capitato di sentirsi estranei, rospi. Grotowski un giorno ci ha detto che se non avvertiamo profondamente il nostro essere rospi, non diventiamo mai principi, non saremo mai baciati. ("Mi sono ridotta" 60–61) Con Confine, il teatro delle Albe affianca e intreccia alla mente e al cuore la carne: il corpo dell’attore viene gettato sulla scena, sulla pagina, nella mente dello scrittore. Il testo drammaturgico non basta più a se stesso, non può scriversi indipendentemente dal corpo che lo fa vivere sulla scena. Il teatro delle Albe vuole diventare l’altro, il rospo, l’estraneo. Questo volere è un imperativo etico, un dovere-volere morale ed estetico ad un tempo. Il teatro si deve sporcare e, secondo Martinelli, per farlo deve Esibire il corpo, il corpo dell’animale, di noi animali. Non esibisce la razionalità, la testa. Anche quella, ad un secondo livello, ma il primo impatto vero con un attore è come si muove, la faccia che ha il tono di voce. Tutte caratteristiche animali. Il teatro è una scienza della vita, della biologia del sangue, dei nervi. Non solo di chi fa ma anche di chi ascolta, di chi recepisce l’evento.[. . . ] Non possiamo creare se non scendiamo dentro alla profondità. Anche di noi stessi. E questo per forza di cose è doloroso. Per forza di cose ci si ammacca i ginocchi. E solo l’artista che ha i ginocchi sbucciati è un vero artista. ("Il cammino dall’idea all’opera" 56–57). ATTO SECONDO. TEATRO POLITTTTTTTICO, TEATRO DI CARNE Tra il 1987 e il 1988 le Albe producono due spettacoli che cercano di sviluppare le intuizioni di Confine e di inglobare nella poetica del gruppo alcune nuove sollecitazioni. Se come spettacoli sollevano alcune perplessità, essi costituiscono tuttavia due chiari manifesti di quello che il gruppo intendeva sperimentare: I brandelli della Cina che abbiamo in testa, ispirato a Diario di un pazzo dello scrittore cinese Lu Hsün e Ruh. Romagna più Africa uguale. In una Breve nota delle Albe sulle Albe stesse—Aprile ‘87, pubblicato nel libretto di sala de I Brandelli, si trovano due concetti chiave che saranno presenti nella poetica del gruppo negli anni a venire: teatro di carne e teatro politttttttico. In Ruh la direzione del viaggio si sposta: dalla Cina all’Africa. All’origine dello spostamento una scoperta geologica e un incontro che portano al teatro interetnico. In entrambi gli spettacoli si inizia un lavoro di scavo verso le radici linguistiche, verso il dialetto, che diventerà un altro nodo fondamentale della poetica delle Albe. Teatro di carne L’attore è al centro della scena esplosa: è l’animale-anomalo: vive sulla sua superficie e nel suo profondo le distruzioni di fine millennio: non incarna l’uomo soltanto, incarna il vivente [. . .] L’attore del teatro di carne lotta contro i fantasmi invisibili: sente i morsi sulla pelle, tenta di decifrarli, tracce, per capire a chi appartengano i denti che mordono, e comunque: non vuole essere mangiato!!! Insieme a lui gridano animali e foreste, la Terra divorata dai pesticidi, l’Aria arrugginita, il Mare avvelenato, il Vento che non soffia, i Popoli merce di scambio. Si dirà: ma questa è ideologia! No, questa è ribellione che si fa carne, teatro, pensiero. (I Brandelli 4–5) Il teatro di carne inizia non tanto da una teorizzazione astratta, anche se indubbiamente nella citazione il tono è quello della dichiarazione perentoria. Come avviene spesso nelle dichiarazioni di poetica, la definizione è una esplicitazione di un modo del fare. I fantasmi con cui lottano gli attori sono gli stessi spiriti con cui aveva lottato Raffé, la protagonista di Confine, così come gli attori che non vogliono essere divorati sono quelli che Martinelli mette in scena ispirandosi a Lu Hsün. I personaggi di Martinelli sono persone (e qui ci aiuta l’ambiguità della parola che vale come essere individuale reale, ma anche, etimologicamente, come maschera di scena) in carne e ossa molto prima di essere maschere sulla carta. Il teatro di carne nasce da una presenza reale, da una commistione o con—fusione inscindibile tra corpo e parola, tra attore e testo, tra persona e maschera. Una con-fusione che è tratto comune a tutta la storia del teatro occidentale, come sostiene Martinelli citando Goldoni (e si veda "Luci e mondo" 7) e ricordando l’opera di Terenzio, Shakespeare, Pirandello, e che è fortemente presente nella sperimentazione teatrale novecentesca, con toni e accenti diversi, da Stanislavskij a Grotowski, dal Living Theater ad Artaud. Proprio Artaud dedica un breve scritto alla "Situation of the flesh" e alla poetica dello scrittore attore regista francese le Albe guarderanno con sempre più attenzione a partire dalla seconda metà degli anni ottanta. Teatro politttttttico Perché politttttttico? Sette possibili risposte: 1. Polittico, con due t, etimologicamente significa "dalle molte piegature": con sette t esalta le innumerevoli piegature del reale: non di ideologie i fervidi abbisognano, ma di un pensiero forte, complesso, politttttttico!!!!!! 2. È l’errore di un tipografo impazzito. 3. È una licenza poetica. 4. È l’arrotarsi del grido sui denti e sulla lingua, sulle t come lame, un bimbo che si incaglia, un irriducibile entusiasta, un guerrigliero nel Terzo Mondo. 5. È il sapere che non possiamo "cambiare il mondo" (leggi: RIVOLUZIONE), ma "qualcosa in qualche angolo, qualcosa di noi, di un qualcun altro, dispersi su un pianetino che ruota attorno a un sole di periferia di una galassia tra le tante, arrestare una lacrima, curare qualche ferita, sopravvivere, essere odiosi a qualcuno, saper dire di no, piantare il melo anche se domani scoppiano le bombe, perdersi in un quadro di Shiele, aver cura agli amici, scrivere certe lettere anziché altre (leggi: RIVOLUZIONE). 6. È pensare che "la poeticità è una battaglia disperata." 7. È umor nero. (I Brandelli 11–12) Ci sono due modi di pensare la filosofia e la politica che questa programmatica elencazione sembra avere di mira: da un lato il dogmatismo di un certo teatro ideologico e settario, così di moda negli anni settanta, ma che ancora resiste negli anni ottanta, quelli del craxismo egemone (magari camuffato e ormai inserito nelle spartizioni di potere), dall’altro il pensiero debole, postmoderno. Si parla qui di un pensiero forte che sappia sognare, un pensiero capace di sollecitare quesiti, inquietudini, per nulla tranquillizzante. Un pensiero, dunque, che percuota la realtà e la faccia apparire per quello che è, con le sue contraddizioni, le maledizioni, gli incantamenti. In una recente pagina Ermanna Montanari ritorna su quel manifesto: A Marco e a me, ai nostri compagni delle Albe, il teatro politico non è mai piaciuto. Almeno quel teatro politico conosciuto in gioventù, negli anni ‘70. Arrogante, dava risposte facili agli orrori della polis e pretendeva l’assenso dello spettatore. Non si curava degli abissi della psiche, dei suoi "desideri infiniti" (Santa Teresa D’Avila), sapeva già tutto in anticipo, come un maestro pedante ci faceva la lezione, omologando la scena a un comizio. Al contrario [ . . .] in Italia gli anni ‘80 sono stati anni di amnesia collettiva, di rifugio nella stupidità e nel conto in banca. Neanche questo ci piaceva; gli orrori, i nodi della polis erano ancora lì, sotto i nostri occhi, dentro i nostri cervelli, irrisolti [. . .]. Da questo doppio rifiuto nacque, lentamente, il politttttttico [. . .] Il politttttttico non era un teatro di risposte. Chi era in scena non aveva soluzioni da offrire, ma solo ferite da esibire, infezioni che riguardavano al tempo stesso la psiche e la polis. Il politttttttico era questa immedicabile relazione, e proprio lì stava la sua testarda, asinina ragion d’essere. ("The open page" 19) Teatro interetnico L’esperienza di collaborazione con un gruppo di giovani senegalesi che entrano a far parte della cooperativa delle Albe inizia con una scoperta geologica. Riprendo dallo spettacolo Ruh. Romagna più Africa uguale uno dei numerosi racconti di questa scoperta: Il Prologo va rifatto / perché ho dimenticato un particolare decisivo: / la Romagna è Africa! / Questa è scienza, non fantascienza / è qualità costante nel tempo. / Il sottosuolo / che regge Ravenna e Bagnacavallo / Godo e tutte le altre città romagnole / è africano! / Secondo le ultime avanzate ricerche geologiche / la Romagna è un pezzo d’Africa / andato alla deriva in epoche antichissime / una zattera scura / che si è staccata dal continente madre / e ha veleggiato fin qua. / Questa spiaggia / e il mare che qui sotto ribolle / sono neri, sono neri, sono neri! (Ravenna africana 84) Dopo avere appreso che la madre terra romagnola è africana (una specie di illuminazione sulla via di Damasco), l’incontro con la comunità dei senegalesi a Ravenna fu un fatto naturale. Tre di loro Iba Babou, Abibou Ndiaye e Khadmin Thiam, venditori ambulanti fino al 1987, divennero soci della cooperativa delle Albe, e Ruh, lo spettacolo d’esordio in cui le Albe Bianche e le Albe Nere (come poi si chiamarono) lavoravano insieme, divenne il primo spettacolo prodotto da un teatro interetnico in Italia. Con teatro interetnico non si intende soltanto il fatto che accanto ad attori bianchi ci sono attori neri, o che gli argomenti trattati nelle rappresentazioni riguardano la condizione di sfruttamento degli immigrati e il colonialismo europeo in Africa. Non basta fare iniziare uno spettacolo con attori senegalesi che rappresentano se stessi mentre cercano di vendere accendini tra le file della platea, sconcertando il pubblico, che è venuto a teatro, in un ambiente dorato e vellutato, anche per trovare un luogo di evasione dalle seccature del mondo. Nè basta lasciare che un gruppo di senegalesi indossi i vestiti dei rivoluzionari e con striscioni e inni, dal pulpito del palcoscenico, educhi il pubblico occidentale sui misfatti coloniali antichi e passati e sulle connivenze che ancor oggi i politici del Nord del mondo mantengono con i criminali governanti dell’Africa. Queste cose in Ruh ci sono; ma il teatro interetnico, nelle intenzioni delle Albe, non vuole essere solo un teatro "politically correct," dove assicurata l’inoffensività dell’apparenza (o del significante), e recitato un convenzionale e rassicurante mea culpa, la vita al di fuori della rappresentazione artistica è lasciata a se stessa; né vuole essere un teatro genericamente impegnato o di denuncia. Il teatro interetnico è piuttosto un’esperienza totalizzante, "di gruppo" o "di base," come si diceva negli anni settanta e come le Albe hanno voluto intendere la vita teatrale sin dall’inizio: un teatro che non termina il suo compito né cessa di esistere quando cala il sipario: Le leggi compositive di una comunità teatrale come la nostra non riguardano soltanto l’arte scenica, riguardano da vicino la struttura produttiva. Non siamo solo quello che recitiamo, siamo anche ciò che mangiamo. Si recita come si mangia, si mangia come si recita. Quando abbiamo pensato alla Romagna africana, la prima domanda che ci siamo posti, immediatamente, riguardo al lavoro, non era attorno ai problemi formali, ma: in che modo Iba, Abib e Khadim entrano a far parte delle Albe? La risposta non ha tardato: Iba, Abib, Khadim saranno Albe fino in fondo, come noi, con il nostro stipendio, in un rapporto da pari a pari. (Ravenna africana, 12) Nel giro di poco più di un anno ai primi tre attori senegalesi subentrano nella cooperativa Mandiaye N’Diaye, Mor Awa Niang e El Hadiy Niang. La sostituzione non è indolore: il teatro interetnico diventa luogo di scambio ma anche di contrasti, di dubbi, di tensioni (si vedano per questo le belle pagine di Luigi Dadina, in Ravenna Africana, e di Martinelli e Mandiaye N’Diaye in Saltatori di muri). Negli interventi del gruppo di quegli anni si parla sempre più spesso di meticciato. Il termine sembra pertinente e si accorda con la poetica del teatro politttttttico, così come viene tratteggiata da Martinelli: La mescolanza degli opposti genera il politttttttico, perché mescolare gli opposti è segno di vitalità: sacro e profano, magia e razionale, corpo e scrittura, e quindi bianco e nero, la lingua di Dante e della televisione e le lingue dei villaggi, wolof e romagnolo, il tragico e il comico. (Ravenna africana, 14–15) Forse non è un caso che Martinelli ponga l’accento sull’espressione "mescolanza degli opposti": il rapporto che si dà è dialettico, nel senso di attraversamento, di superamento, ma anche di mantenimento. Questo atteggiamento dialettico giustifica, credo, da un lato l’apertura al diverso, ma anche il rifiuto risoluto a una consolante omogeneizzazione e la conseguente, e quasi inizialmente imprevista, indagine sulla propria identità. L’esperienza delle Albe diviene un momento di maggiore presa di contatto con la propria cultura ancestrale, ctonia, con i riti del proprio luogo, con la forza della propria lingua più antica. E questo vale sia per gli attori delle Albe bianche, che si immergono nella rilettura della propria tradizione (e da qui la riscoperta dei Maggi dell’Appennino tosco-emiliano, del Fulêr romagnolo, dei dialetti), sia per le Albe nere (con le storie popolari che trovano il loro fuoco espressivo nella figura del Griot e degli animali). All’immagine del viaggiatore che con curiosità si avvicina all’altro, che entra nei luoghi dell’altro, li visita, li assaggia e li soppesa, si affianca la figura dello speleologo, di colui che, sollecitato dalla scoperta delle differenze, ritorna a casa, nel proprio territorio e si inabissa nel sottosuolo, alla ricerca della propria identità più nascosta e, eventualmente, di una affinità elettiva profonda, archetipica con l’altro. Le maschere e le voci Negli anni che seguono, i frutti di questa ricerca bidirezionale, dello spostamento geografico di superficie fra Dakar e Ravenna e dell’inabissamento nel sottosuolo, sono incredibilmente abbondanti. Tra il 1988 al 1995 sono prodotte numerose opere che si possono forse convenientemente organizzare secondo i seguenti accorpamenti: 1. La trilogia dell’Arlecchino senegalese (Siamo asini o pedanti, Lunga vita all’albero, I 22 infortuni di Mor Arlecchino) 2. La trilogia delle maschere romagnole (Bonifica, I Refrattari, Incantati) 3. La ricerca sulla voce di Ermanna Montanari (Rosvita, Cenci, Lus) 4. La ricerca sulla narrazione di Luigi Dadina e Mandiaye N’Diaye (Nessuno può coprire l’ombra, Griot Fulêr, Narrazione della pianura). Non c’è spazio per entrare nei dettagli di ciascuno di questi spettacoli. Dovrò pertanto limitarmi ad alcuni rilievi piuttosto generici relativi a questa vasta produzione, partendo dalla maschera più popolare delle Albe. 1. L’arlecchino senegalese nasce in un sogno, nella "farsa filosofica" Siamo asini o pedanti (1989). Un "uomo in completo," vestito cioè in giacca e cravatta, ma anche in-completo, capace cioè di vedere e sentire solo una parte delle cose che gli stanno attorno, è interessato all’acquisto di un animale prodigioso, un asino parlante, per ricavarne poi proventi con la televisione. L’asino, che oltre a parlare, per via delle enormi orecchie asinine è condannato ad ascoltare tutto quello che succede, soprattutto i lamenti, e a commuoversi, è di proprietà di tre immigrati senegalesi che, a malincuore, decidono di venderlo. L’uomo in completo arriva alla casa dei tre immigrati, contratta a lungo per l’animale, lo acquista; ma intanto si fa tardi e gli immigrati vogliono trascorrere con l’animale un’ultima notte, imponendo così all’uomo di restare a dormire. Durante il sonno l’uomo ha un incubo in cui i ruoli sociali si ribaltano: gli uomini neri diventano carabinieri, controllori dell’ordine e dei permessi di soggiorno mentre l’uomo in completo deve dimostrare di avere le carte in regola per esistere. In un altro momento del sogno, sotto un immaginario tendone del circo Watutsi, quello stesso sotto cui si esibiva Raffé di Confine, compare un Arlecchino senegalese, "unico inimitabile artista" del circo, che inizia una sfrenata danza africana: Io Arlecchino vengo dalle montagne / dove la fame è nera nera nera / tanto nera da mangiarsi le unghie le mani / le braccia / il petto la pancia le gambe le caviglie / tutto quanto fino a scomparire! Io Arlecchino sono venuto in questa città / perché m’han detto / c’è lavoro c’è lavoro c’è lavoro. / Cancaro! Se c’è lavoro per gli altri / ci sarà anche per me! [. . .] Io Arlecchino cerco un padrone / che sia gentile dolce mieloso tiramisù / mascarpone zuppa inglese torta nuziale!!!!!! / Sono disposto a tutto per lui / purché mi dia da mangiare quando ho fame / da bere quando ho sete / e da . . . (gesto eloquente) insomma, ci siamo capiti! (Siamo asini o pedanti 33) L’Arlecchino, nella tradizione originaria della commedia dell’arte, è un bergamasco che lascia i territori poveri della Lombardia per cercare lavoro nella ricca Repubblica di Venezia. È perennemente affamato, afflitto dalla fame atavica dello zanni, usa un linguaggio approssimativo, è astuto e ingenuo ad un tempo. Mor Awa Niang, griot e "vu cumprà" autentico, con il proprio corpo, la propria voce, la propria fame rivitalizza la maschera di Arlecchino, che già nel teatro settecentesco aveva cominciato a smarrire le caratteristiche originarie dell’emigrato "morto di fame" per assumere le più tranquillizzanti movenze "aristocratiche" e melanconiche degli arlecchini francesi alla Watteau o Picasso. Mor non si nasconde dietro una maschera: è lui stesso la maschera: la soglia fra il vero immigrato e il prototipo è talmente stretta che i due coincidono. Che l’attore si identifichi con la maschera, con la sua storia, è difficile a dirsi, ma che la maschera si identifichi con l’attore è assai evindete: coerentemente con la poetica del teatro di carne, la maschera assume le sembianze dell’attore, il tipo (l’Arlecchino africano) diventa l’attore, con il rischio (e questo potrebbe essere un limite della poetica stessa del teatro di carne) che la maschera viva unicamente in quell’attore. È difficile immaginare un altro attore recitare Mor Arlecchino. La figura dell’Arlecchino nero diventa una sorta di icona del teatro delle Albe e raggiunge la sua piena maturità artistica nello spettacolo I ventidue infortuni di Mor Arlecchino tratto da un canovaccio di Goldoni riscritto da Martinelli, e messo in scena dalle compagnie delle Albe e del Tam di Padova, con la regia Michele Sambin. Qui innovazione e tradizione sembrano intrecciarsi in modo assai fecondo sia per lo spettacolo in sé, sia per le direttrici future del gruppo (per questo si rimanda a An African Harlequin in Milan e ai saggi critici che accompagnano la traduzione inglese del testo di Martinelli e del canovaccio di Goldoni). 2. Sempre figli di Confine e della "ricerca dello speleologo" sono le altre due maschere rappresentative delle Albe; maschere anch’esse di carne, attori-autori che si fanno persone di scena: Daura e Arterio. Compaiono per la prima volta nel "polittico in sette quadri" Bonifica (1989) che rappresenta, come ha scritto Antonio Attisani, una sorta di viaggio in un "inferno" che abbiamo dentro casa, in "una realtà più vera e più profonda che sta dietro cose note, vicine, anzi nostre" (7). Daura è la madre, una figura esile, sensibile, che crede ai sogni e che desidera che nulla cambi nella sua terra: una sorta di vestale della lingua, dei riti, delle credenze della Romagna. Arterio è il figlio, una figura possente, accecato dalla pubblicità della televisione e del progresso, che vorrebbe risolvere i problemi del mondo, a cominciare da quelli ecologici, con la stessa spavalda, risoluta insensatezza dei cavalieri delle gesta boiardesche. Le due figure sembrano agli antipodi, a cominciare dalla differente struttura dei loro mondi mentali, che si palesa, con evidenza, nello stile diversissimo del loro parlare. I monologhi di Arterio hanno un andamento incalzante e vigoroso, basato su elencazioni spesso in crescendo, farciti dei luoghi comuni del linguaggio giornalistico più dozzinale. Le meditazioni di Daura sembrano stemperare la concitazione della voce di Arterio, con il loro tono salmodiante, la struttura sintattica lineare, il lessico ingenuo. Vale la pena di leggere un monologo di Arterio, recitato tutto d’un fiato, nel quale Martinelli, ritorna su un tema, quello della morte del mare (che in Bonifica sembra coincidere drammaticamente con la figura della madre Daura), già centrale in Rumore di acque: Per anni ho portato avanti questo bagno con mia madre che dal nome di lei abbiamo chiamato Bagno Daura. Adesso non si guadagna più il mare si è ridotto al vomito di un gigante alla gente non piace non ha tutti i torti bagnarsi nel vomito di un gigante non è affare di tutti i giorni non sempre le novità risultano gradevoli. I turisti tedeschi sono diminuiti del trantaquattro per cento i russi sono aumentati del diciotto gli ungheresi vanno benino e presto arriveranno cecoslovacchi e bulgari e vivaddio anche i rumeni. Sto riflettendo sulla storica apertura dell’est è l’occasione del prossimo secolo ma per ora il flusso della perestroika è insufficiente a garantire solidità per l’immediato futuro ergo vendo il bagno come anni fa vendemmo la terra per acquistare questo bagno e chiamarlo Bagno Daura [. . .] (25) Penso a una bonifica totale a una bonifica che passi alla storia non un coperchio di terra non tiene seppellire quell’orrore sotto una stesa lucida e precisa di cemento armato (44). A questa ininterrotta proposizione fa da contrappunto la voce oracolante, con prestiti lessicali dai Salmi, il Cantico dei Cantici, il Nuovo testamento, di Daura, la madre, che spiega in un sogno allo scettico Arterio la possibilità che perfino nel deserto ci siano temporali: Quest’acqua che viene giù a torrenti / è benedetta e santa / e tutti la benedicono / I cristiani e i musulmani / e quelli che non ci credono / e tutte le bestie e tutti gli alberi / e tutte le pietre del deserto la benedicono / il sole e la luna la benedicono / e anch’io la benedico / perché è un’acqua santa e benedetta / farà crescere diecimila vigne nel deserto / ogni vigna porterà diecimila rami / ogni ramo diecimila sarmenti / ogni sarmento diecimila grappoli / ogni grappolo ci darà venticinque misture di vino. / Sì, mio diletto, il miracolo si rinnova / perché in queste nozze del drago con il deserto / l’acqua si tramuta in vino, del più buono / quelli che verranno e ne berranno / o troveranno ottimo / il deserto si riempirà di ubriachi / che ballano . . . ballano . . . ballano (35). Non si potrebbe pensare a due maschere più in antitesi, eppure, in questo inferno romagnolo, il legame di sangue fra i due è morboso e sembra possa sciogliersi solo nel sangue. Bonifica, in cui i sogni di Daura si intrecciano con i quadri di vita quotidiana, si conclude con un deragliamento del sogno nella realtà e con un oniricoreale matricidio. 3. Parallelamente Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Mandiaye N’Diaye svolgono un percorso di ricerca personale come attori-autori-registi. Montanari sposta il luogo della rappresentazione in spazi appartati, intimi. Rosvita (1991) e I Cenci (1993) sono presentati per la prima volta nella piccola soffitta di un antico palazzo rinascimentale di sant’Arcangelo, alla presenza di un numero limitato di spettatori. In questa sorta di cella monastica o carceraria medievale, oscura e raccolta, l’azione drammatica si trasforma in un rito liturgico in cui si rappresentano espressivamente, non tanto narrativamente, gli incubi di Beatrice Cenci o le riflessioni della monaca Rosvita sulla scrittura, il peccato, la malattia. Montanari mette in gioco qui tutte le potenzialità del suo corpo e della sua voce: "Io mi arrovello. Mi arrovello su me stessa. / Di me stessa cerco la misura. / Sono diventata per me un terreno aspro / che mi fa sudare" (Rosvita, 28), recita l’attrice-autrice mentre impersona Rosvita, la fragile monaca che, senza successo, vorrebbe reggere le tavole della legge con la stessa sicurezza mostrata dall’allegoria della Sinagoga, una splendida figura femminile di Konrad Witz, meticolosamente riprodotta per lo spettacolo sul muro della cella. Continua in Rosvita la ricerca sul corpo come strumento rituale iniziato in Confine e che giungerà agli esiti felicissimi del canto di Lus (1995), attraverso un lungo lavoro sull’espressività del dialetto romagnolo (lingua terrigna e aspra, con poeti come Raffaello Baldini e Nevio Spadoni a ispirare storie e parole), sulle modulazioni della voce, che spazia dai suoni nasali più acuti alle note più basse del diaframma, sul rapporto strettissmo fra tensione del corpo e delle corde vocali, fra nervi e suoni. Con la ricerca fonetica della Montanari, che ricorda seppure in modi personalissimi quella di Carmelo Bene, e in cui la parola a volte si dà come puro suono, giunge a compimento una delle intuizioni programmatiche esplicitate nella dichiarazione di poetica di I brandelli della Cina, quando Martinelli scriveva di un "Teatro in-cantato," in cui la musica non fosse una ancilla del testo, ma momento essenziale di un teatro "polisensoriale" (6). Qui addirittura la narrazione delle storie di Rosvita, di Beatrice Cenci, di Belda diventa una sorta di pre-testo, una conoscenza che lo spettatore aquisisce attraverso fogli di sala, recensioni, altri testi che pre-ludono alla espressività e interpretatività dell’azione scenica (play). Montanari ripropone inoltre da un’ottica diversa (e si veda il saggio di Teresa Picarazzi) il conflitto madre/figlio che costituiva il polo centrale di tensione narrativa nelle vicende di Daura e Arterio. Spesso i personaggi femminili della Montanari rivivono in modo drammatico il rapporto della figlia con l’autorità paterna sia essa di sangue (nel parricidio di Beatrice Cenci) oppure spirituale (nella scena dell’ex prostituta Taide e del suo mentore religioso Panfunzio in Rosvita o nel maleficio della strega/guaritrice Belda nei confronti del prete/giudice in Lus) Come avveniva nel teatro politico delle Albe, Ermanna Montanari non assume l’atteggiamento riduttivo e ideologizzato di chi vuole ordinare il mondo per categorie chiuse e manichee. Il contrasto padre figlia pure lacerante non è tipizzato: sulla scena il rapporto è sempre sofferto, a volte surreale, spesso tragico, sia per le figlie, che agiscono, sia per i padri, chiusi nei loro silenzi tetragoni, spesso immobili e spettrali. É in questa angosciosa compresenza di disgusto e di amore, di dichiarazioni e dinieghi, di suoni sospirati e di urla agghiaccianti che sta la forza magnetica dei canti di Ermanna Montanari. 4. Sempre nel breve manifesto de I brandelli della Cina si parlava anche di "teatro di scrittura"(8). Allora Martinelli esplicitamente auspicava un teatro capace di confrontarsi con la pagina degli scrittori. Credo di non forzare le cose se intendo quel "teatro di scrittura" come teatro di narrazione, epico; un modo di fare teatro che talune nuove convenzioni della post-avanguardia avevano nascosto in soffitta. Recentemente Martinelli è ritornato su quel punto chiave della poetica del gruppo: Già dalla prima metà degli anni Ottanta, io e i miei compagni delle Albe eravamo presi dal fascino delle storie: da un teatro che fosse anche narrazione. All’epoca, pochi volevano sentir parlare in questo modo: del testo e della parola si diffidava parecchio. ("É finito il tempo" 100–101) In questa direzione particolarmente feconda sembra andare la ricerca di Dadina e N’Diaye, che segue alla produzione di Lunga vita all’Albero (1990). Nel "Maggio epico" sono in scena due cantastorie: "Durante Verduzzi, questo è il mio nome / cantastorie da sette generazioni / nell’Appennino ho vissuto e cantato / di piazza in piazza in cortile in contrada / vagabondo come Ulisse / prima con mio nonno e con mio padre / poi solo con mio padre / poi solo con me stesso / adesso solo e basta / perché non so neanche più / me stesso dove sia / a raccontare storie di santi e paladini" (17–8); e Mor Arlecchino Batocio, anche lui cantastorie per elezione: "La nostra è una famiglia di griot: Mio nonno era griot, anche il nonno di mio nonno era griot. Andavano nei villaggi, ballavano nelle feste, cantavano tante storie alla gente. Mio babbo non ha fatto il griot: perché? [. . .] Perché non si guadagnava abbastanza. Non si mangiava più, capisci questa parola Verduzi? Ma-gna-re!" (21). Mentre Dadina sposta la ricerca dall’Appennino dei maggiarini alla Romagna dei fulêr (i raccontatori di favole itineranti), N’Diaye e gli altri attori delle Albe nere indagano invece la tradizione dei Maestri della parola dell’Africa occidentale. Il lavoro prevede oltre alla fase di scavo nel proprio territorio, un confronto continuo con l’altro. Questo porta alla creazione di uno spettacolo, Griot Fulêr, che debutta a Diourbel, in Senegal nel 1993 e che vede in scena tre artisti italiani e tre senegalesi. Le coincidenze fra i due tipi di narratore, sia a livello diegetico che contenutistico, sono sorprendenti. Non solo ci sono affinità fra i ritmi del raccontare o le strutture profonde delle narrazioni, ma sono simili perfino certe pratiche rituali, come, ad esempio, "il maleficio dell’orma tagliata" praticata sia nella tradizione popolare senegalese che in quella romagnola (e che viene descritto sia in Griot Fulêr che in Lus). "L’incontro tra il griot e il fulêr è stato magico" (Dadina, N’Diaye 21): una specie di incontro tra due speleologhi che, partiti da caverne diverse, si trovano inaspettatamente insieme in una galleria profonda al di fuori del tempo, oscura, defilata, dove la lingua parla con il ritmo del respiro e del battito del cuore anziché con quello dello spot pubblicitario, dove le parole si portano addosso il suono straordinario della ingenuità e non la presuntuosa vuotaggine della letteratura industriale. TERZO ATTO. IL TEATRO DELLA POLIS Ho assistito a Griot Fulêr, poco dopo la prima di Diourbel, al "Rasi" di Ravenna. Il teatro era stato preso d’assalto da un numero incredibile di giovani vestiti come si vestono i giovani quando vanno a un concerto punk-rock: giubbotti di pelle nera, borchie, capelli colorati ecc. Un pubblico insolito per uno spettacolo interetnico di cantastorie. E infatti i giovani non erano lì per quello. La serata prevedeva due momenti: la performance teatrale delle Albe e il concerto dei Mau Mau, un gruppo musicale torinese fra i più innovativi e seguiti nei primi anni novanta. Una trovata apparentemente bizzarra da parte degli organizzatori che sembravano chiedere ai fans del gruppo di pagare, oltre al biglietto, l’ulteriore sacrificio di dover assistere, prima del concerto, a uno spettacolo di teatro, luogo che per la maggior parte di loro è sinonimo di noia. Quando i tamburi hanno cominciato a suonare e le fiaccole dei cantastorie a illuminare la scena, è successo un piccolo miracolo, uno di quelli che, come dice una poetessa, "certo non cambieranno il mondo," ma che si vedono con piacere e sorpresa. Il pubblico ha cominciato subito a inter-agire con i cantastorie, come avrebbe fatto di lì a poco con i musicisti rock. Il teatro, tempio della finzione e della menzogna, con un piccolo trucco, era riuscito a rapire per un poco dei giovani (e siamo certi che per alcuni era la "prima volta"), e aveva offerto loro uno spettacolo teatrale che condivideva con la musica dei Mau Mau molte affinità poetiche (dalla narratività, alla ricerca sulla lingua e sulle musiche etniche). Questo aneddoto ci porta al terzo atto, in cui racconterò brevemente come il teatro politico delle Albe trovi una sua concreta attuazione nella pratica di gestione delle attività e degli spazi teatrali di una città. Nel 1991 il Teatro delle Albe e la Compagnia Drammatico Vegetale danno vita a una nuova cooperativa, alla quale il Comune di Ravenna, con una lungimiranza non frequente nelle amministrazioni pubbliche, dà in gestione i due maggiori teatri della città. La cooperativa programma le attività teatrali del comune, produce spettacoli propri e, soprattutto cerca di rivitalizzare la città con il teatro o, viceversa, il teatro con la città. Martinelli non perde l’occasione per stilare una nuova dichiarazione di intenti, un altro piccolo manifesto: La scommessa di Ravenna Teatro è quella di uno stabile corsaro. Uno stabile che corre, alla lettera! Uno stabile in movimento! Non un carrozzone fermo, impantanato, lottizzato come ce ne sono tanti. Ma una casa del teatro: fuorilegge. Fuori dalle leggi mortali della noia, del teatro come museo delle cere, del potere dei mestieranti." ("Per uno stabile corsaro" 3). Il titolo del manifesto è paradossale in sé, con i due termini in antitesi: "stabile" come luogo di stabilità, di solidità statuaria, e "corsaro," che designa il veliero che combatte di corsa, velocemente, senza arrestarsi. Il termine "corsaro" rimanda immediatamente a Pier Paolo Pasolini, un autore certamente da sempre molto presente nella poetica di Martinelli, basti pensare a Incantati o all’ultimo Polacchi, e sulla cui influenza occorrerebbe soffermarsi più a lungo. Venne utilizzato per la prima volta nella collaborazione teatrale fra le Albe e il Kismet di Bari, organizzatori di una rassegna teatrale intitolata "Silenzi Corsari" che aveva luogo contemporaneamente nelle due città. Voleva essere un modo per accorciare l’Italia legando Nord e Sud, per interrogarsi su che cosa si possa fare in questi anni novanta, così atrocemente rumorosi e inutilmente loquaci: Una convinzione ci sorreggeva e ci sorregge: è necessario per sopravvivere saper praticare il silenzio, una forma attiva, personale, meditata, di silenzio: non rifugiandoti tra i monti, ma restando in città, dentro al Grande Rumore, creandoti una tua silenziosa disciplina di lavoro, in modo da riuscire a sentire la tua voce, prima di tutto, e poi anche quella degli altri. Se sentirai le voci in mezzo al Gran Rumore (mica quello dei santi: almeno quella del vicino, per cominciare), allora forse sarai sulla strada giusta, e potrai cominciare a muoverti, ma sì, a correre e creare, e solo allora il tuo sarà diventato un vero silenzio corsaro. ("Per uno stabile corsaro" 3) "Stabile" rimanda ad altri termini altrettanto significativi per le Albe come casa e città. Il teatro come casa è un’idea alla quale la compagnia è particolarmente affezionata, legata a un modo di fare teatro che deriva dalle esperienze dei gruppi di base degli anni settanta. Ricordiamo ancora la splendida Casa Büchner a Rimini, all’interno del Festival di Sant’Arcangelo che l’allora Linea Maginot allestì nel 1982. In una casa teatrale l’atto performativo rimane senz’altro il momento culminante, tuttavia il prima e il dopo dello spettacolo sono momenti altrettanto vitali. Wordsworth, un autore spesso citato da Martinelli, era solito dire che i poeti non dovrebbero preoccuparsi di rispondere alle aspettative del pubblico, ma piuttosto di crearsi un proprio pubblico, educandolo al nuovo. La casa del teatro è il luogo in cui questo lentamente può avvenire. Lo si può fare offrendo nella stagione del teatro "istituzionale" anche spettacoli di ricerca a un pubblico che si aspetta di vedere soltanto gli autori consacrati dalla tradizione e gli attori consacrati dalla televisione. Lo si può fare mettendo a disposizione delle scuole della città la professionalità e l’entusiasmo di attori e registi, le strutture e gli strumenti per l’allestimento di spettacoli e, soprattutto, per contribuire alla formazione di un gusto per il teatro (ma per questo si rimanda all’articolo di Cristina Ventrucci). Il prima e il dopo dello spettacolo hanno dunque profondamente a che fare con la città: Se dico polis non intendo un’astrazione storica: so bene che viviamo nell’epoca dei grandi media e delle metropoli, nell’epoca del virtuale, ma se dico polis intendo realtà fisiche visibili. Facce. Le facce dei trecento adolescenti che a Ravenna partecipano ai laboratori delle scuole superiori, dai licei agli sitituti tecnici: le conosco tutte. Fanno parte della mia vita di regista, di direttore artistico, di scrittore, così come le facce di tanti ateniesi erano parte viva dell’immaginario e della scrittura di Aristofane. [. . .] Con questi adolescenti costruiamo insieme eventi scenici sorprendenti. Giochiamo, affrontiamo il tutto con la stessa vitalità che richiede una partita di calcio, un concerto rock. [. . .] Io amo tutto questo, credo che contenga un segreto essenziale del teatro. Ma forse questo è possibile solo in realtà medio-piccole, circo-scritte, città come Ravenna coi suoi 130.000 abitanti (130.000 come gli abitanti, schiavi compresi, dell’atene del V secolo)? ("Per uno stabile corsaro" 3) Con una struttura organizzativa più consistente (coordinata da Marcella Nonni, una dei quattro fondatori del gruppo), Le Albe possono allestire spettacoli di maggiore impegno scenico. Dal 1995 al 1999 i progetti principali riguardano classici della tradizione occidentale. L’interesse di Martinelli per Aristofane (già autore di riferimento ne I Refrattari) o di Montanari per Euripide è coerente con l’idea di un teatro per la polis (Ravenna come Atene), ed è affine a quanto fatto da altre realtà teatrali della ricerca, dai Magazzini a Thierry Salmon a Mario Martone. Il percorso di avvicinamento di Martinelli "trittico da Aristofane" parte da un seminario sulla commedia arcaica di Aristofane, tenuto a Cisternino, con il Teatro Kismet di Bari, nell’estate del 1994, che porta all’adattamento, sempre con il Kismet, degli Uccelli di Aristofane, per giungere alla fine al debutto di All’inferno!, un nuovo testo tratto da Pluto, Uccelli, Lisistrata, nel quale sono chiamate a collaborare tre gruppi teatrali: Albe, Tam, Kismet. Martinelli non vuole solo metter in scena Aristofane né svolgere su di lui una operazione di filologia. La sua intenzione è di resuscitare lo spirito vivo dei suoi testi, tagliando, allargando, riscrivendo, spunti dall’ansia di dialogare con gli antenati. Aristofane non è polvere da museo: quando comincia a scrivere, a diciassette anni, Aristofane è un adolescente infuriato contro la guerra e gli orrori civili, ebbro di vita, devoto di Dioniso. Il comico non è per lui un diversivo superficiale: è l’altra faccia del tragico, è lo squillo di tromba contro la morte. Per resuscitare Aristofane c’è bisogno di Totò e dei fratelli Marx come di Artaud" (Foglio di sala, 5) Anche lo spettacolo I Polacchi (una rivisitazione dell’Ubu Roi di Jarry) è il punto di arrivo di un percorso di avvicinamento articolato. Il lavoro su Jarry segna, oltre che a un unanime ed entusiastico consenso della critica, anche una verifica concreta che il lavoro sulla città ha una ricaduta evidente non solo nel prima e dopo l’evento teatrale, ma anche nello stesso spettacolo. Mentre ne I polacchi sono in scena come palottini, l’esercito di padre e madre Ubu, dodici ragazzi delle scuole che avevano partecipato ai workshop e agli allestimenti di cui si è detto, Perhindérion (prologo e viaggio iniziatico a Jarry percorso durante Ravenna Festival 1998), prende fisicamente possesso della città, e di alcune sue pratiche di spettacolo come se fosse un Mistery Play medievale. Nel "trittico peregrinante," che si svolge attorno e dentro al teatro, sono coinvolti la banda comunale, quattro giovani sciucarèn che a torso nudo fanno cantare le loro fruste nell’aria, otto coppie di bambini della scuola di ballo liscio che, vestiti da scheletrini, eseguono polche e mazurke attorno a una enorme testa di Dioniso; questi tre gruppi fungono da intermezzo che accompagna il pubblico-orante alle tre stazioni della misteriosa rappresentazione della storia di una madre (Varia, Madonna, Daura) e di un figlio (Emmanuel, San Giorgio, Arterio). Sono i temi di Bonifica (che viene ripresa alla nella seconda "stazione" del pellegrinaggio), rivisitati con lo sguardo di Jarry, raccontati ora come rito teatrale originario, coralmente, con la lingua della città (il dialetto di Varia e Daura), nei suoi luoghi, con le sue pratiche di spettacolo e il suo drappello di accoliti. Come ha scritto Quadri "questa affascinante storia [. . .] ha disegnato con la sua crudeltà una discesa agl’inferi da rappresentazione medievale, ma al di fuori del tempo e dentro al mito." In questa ritualità urbana sembra consistere la nuova nozione delle Albe di teatro politico: esso diventa il teatro della polis, un teatro della polis in movimento, capace di leggersi dentro, a fondo, di guardare alla propria tradizione più comunale, più campanilistica, più carnale, più terrigna, ma anche di ascoltare quello che viene da fuori, le narrazioni dei nuovi abitanti provenienti dall’Africa, le voci delle vie dei canti, delle dee. Questo profondo radicamento nella città è elemento comune a molte altre esperienze per certi versi omologhe a quella delle Albe (pensiamo ai Teatri Uniti di Napoli, al Kismet di Bari, alla Valdoca o la Raffaello Sanzio di Cesena, al Tam di Padova, al prolifico panorama palermitano): l’obiettivo è di produrre una cultura teatrale che sia coltura di vita. Ancora Martinelli: Penso al Rasi (uno dei due teatri della città) come a un luogo di Coltura Teatrale. Mi piace questo parlare del nostro lavoro come un lavoro contadino. Mi piace la lentezza, la necessità della lentezza, biologica, stagionale, straniera in un’epoca che si sacrifica alla velocità industriale e modaiola, usa e getta, produci e consuma e dimentica. Penso a un teatro che nasce dagli antichi riti di fertilità della terra, penso a un teatro di terra, dialettale e epico (la terra è sempre un dialetto!), penso alla possibilità del racconto e della visione. [. . .] Mi piace la con-fusione. Penso che un’autentica Coltura Teatrale la si fa se non si ha l’animo dei mercanti, ma nello stesso tempo se si accetta la sfida di far vivere un teatro Dentro la città, non come corpo separato, isola felice e infelice, ma come luogo ricco di tensioni vitali, battagliero, spazio per incroci e innesti, organismo vivente, animale che Respira insieme alla città. Penso a un impegno vero, politico, per quel che politico vuol dire, legato alla polis. ("Coltura teatrale" 19–20) EPILOGO SUL CUSTODE E LA POLVERE Da Ravenna, una città labirinto, negli anni settanta, cominciarono a muoversi alcuni giovani: pensavano, forse ingenuamente, di vivere di teatro in una città che voleva vivere di chimica e che invece sprofondava sempre più nelle sue sabbie mobili e nel suo mare pieno di alghe rosse. Dopo vent’anni quel gruppo di teatranti continua a muoversi sullo stesso palcoscenico. "Vive ai margini," come del resto tutto il teatro vive ai margini. "Fa il custode" ma non di una città museo, non il custode che ogni tanto dà "una spazzolata ai monumenti, una riverniciatina ai capolavori del passato": è un "custode" che si "aggira inquieto come in un labirinto" che "interroga se stesso e i monumenti, il tempo presente e le opere antiche, e in quest’ansia di conoscenza, crea: soffre, gode, capisce, non capisce, si interroga: crea." ("È finito il tempo . . ." 106). Questi teatranti hanno assunto il ruolo di custodi della città labirinto, dei suoi monumenti, della sua lingua. Ne custodiscono il fuoco e la carne, ne celebrano la liturgia fatta di tragedia e di comicità, ne ripetono il rito eterno di odio amore per i padri e le madri, ossessionati dalla consapevolezza che la chiusura in sé, la mancanza di movimento, la polvere sono sinonimo di morte. Ancora Martinelli, nel libretto di sala della sua ultima regia del Miles di Plauto, del Teatro Kismet di Bari: Questa dovrebbe essere la nostra ossessione, la preghiera quotidiana degli attori e dei registi e di tutti coloro che lavorano nel teatro: Signore, liberaci dalla polvere! La polvere non ricopre soltanto i classici, ma invade pure le nostre scene, il nostro lavoro, le nostre relazioni, facendo del teatro un’attività stanca e inutile, fredda, lontana dagli interessi e dai grovigli della comunità umana, la polis di fine millennio. Liberaci dalla polvere che ci fa opachi. Che, privandoci di luce, impedisce di mantenere viva la funzione essenziale del teatro, quella di celebrare il mistero della vita: come canta il coro delle Rane di Aristofane, "mescolare cose gravi e cose buffe, questo significa celebrare i nostri misteri." ("L’ultima cena del soldato . . ." 5) Testi citati Alighieri, Dante. La divina commedia. Ed. N. Sapegno. Firenze: La Nuova Italia, 1968. Attisani, Antonio. 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