Anno XI - Numero 53 - 29 luglio 2006
L’Intervista
Parla il direttore Alain Lombard
A Pag 2
La Storia dell’Opera
Nata in un ristorante
e rimasta incompiuta
A Pag 6
Le Terme di Caracalla
Alla scoperta del complesso
termale insuperato per
bellezza ed eleganza
A Pag 8
-9
Il Finale postumo
Le due versioni
di Franco Alfano
A pag. 12 e 13
TURANDOT
di Giacomo Puccini
Turandot
2
Il
Parla il direttore d’orchestra Alain Lombard
In Turandot alcune delle pagine
più belle della musica di Puccini
S
olo dopo più di un
anno, torna a confrontarsi con Turandot il
direttore d’orchestra francese Alain Lombard, che già
quest’opera ha diretto al
Teatro Costanzi dal 28 aprile
all’11 maggio dello scorso
anno. In accordo con il direttore
artistico
Mauro
Trombetta, ha voluto ancora
una volta riproporre l’opera
con il secondo finale di
Franco Alfano, ovvero quello più corto. Infatti, come
risaputo, Turandot rimase
incompiuta alla morte di
Puccini
avvenuta
a
Bruxelles sabato 29 novembre 1924. A terminarla fu
chiamato, appunto Franco
Alfano, che realizzò un
primo finale, poi ridimensionato per andare incontro
alla vocalità dei cantanti ed
alle pressioni di Toscanini.
«E’ un’opera verso la quale ho
sempre un grande affetto»,
dice il maestro Lombard.
L’ho diretta moltissime volte ed
ho anche realizzato una incisione con Montserrat Caballe,
Mirella Freni e Josè Carreras,
che ha riscosso un grandissimo
successo, che si è guadagnata
moltissimi premi».
«Turandot è un’opera molto,
molto difficile. Si deve avere
una orchestra grande e solida.
Tante volte ho lavorato su questo pezzo e sempre ho pensato a
ciò che Puccini diceva. Voleva
fare un’opera importantissima,
che rimanesse un capolavoro
assoluto. Ma la cosa che mi stupisce è che essa arriva dopo il
Trittico (1918), che a mio avviso è di per se un capolavoro
assoluto. Puccini aveva, quindi, già toccato il tema dell’orientalismo, tanto in voga all’epoca, con Madama Butterfly
nel 1904 e quello d’ambientazione americana con La fanciulla del West (1910), ma egli
voleva ritornare su ambientazioni “esotiche”».
«E’ un’opera difficile da eseguire per l’orchestra – continua il
Maestro Lombard - perché è
una partitura estremamente
raffinata, con l’uso di strumenti inconsueti, dal gong in poi.
Come al solito Puccini ha realizzato una partitura molto precisa, con tutto appuntato, dai
~ ~ La Copertina ~ ~
La copertina della prima edizione
del libretto di Turandot
disegnata da Giulio Cisari.
Milano, Edizioni Ricordi, 1926
Il G iornale dei G randi Eventi
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Andrea Marini
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Ko dak
Le fotografie sono realizzate
in digitale con fotocamera Kodak DC290
tempi ad alcune note esplicative
a margine. La musica, in alcuni
punti – come con le tre maschere di Ping, Pong e Pang - è vicinissima a Gianni Schicchi.
Personalmente adoro le
maschere, soprattutto nel brano
all’inizio del 2° atto e la considero una delle musiche più belle
che Puccini abbia scritto».
Al Teatro dell’Opera di
Roma Tutandot fu rappresentata per la prima volta il
29 aprile 1926, appena quattro giorni dopo la prima rappresentazione assoluta del
Teatro alla Scala del 25 aprile, con un cast formato da
Bianca Scacciati, Rosina
Torri e Francesco Merli,
diretti dal maestro Edoardo
Vitale.
«Per quanto riguarda i finali, come detto si è deciso di
riproporre il secondo finale
di Alfano. «La prima versione
del finale sarebbe stata troppo
lunga e meno bella. Io quella
versione l’ho eseguita tre o
quattro volte, ma continuo a
preferire la seconda versione,
meno lunga. Questa seconda
versione la presentiamo in versione integrale, senza alcun
taglio, come ad esempio quello
tradizionale delle maschere
all’inizio del secondo atto».
Di Turandot, oltre quelli di
Alfano, esiste anche un altro
finale, sempre commissionato da Casa Ricordi e realizzato da Luciano Berio, andato in scena a Los Angeles il
25 maggio del 2002. «Il finale
di Berio lo conosco bene, l’ho
studiato perché ad un certo
punto ho pensato di cimentarmici. E’ magnificamente fatto,
ma è molto differente dal lavoro
e dallo stile di Puccini. Con
questa regia, molto classica,
non sarebbe andato bene».
A Caracalla il Maestro
Lombard ha esordito negli
anni ‘80 con Aida. L’ultima
volta in questa cornice è salito sul podio due anni fa per
dirigere Il Trovatore di Verdi.
«L’acustica qui a Caracalla è
sempre un problema, perché
l’ambiente è vasto, dispersivo,
soprattutto con questo nuovo
palcoscenico non “avvolto”,
come quello di molti anni fa, dai
ruderi dalle torri del
Caldarium. L’acustica non è
quindi del tutto naturale, ma
devo dire che negli ultimi anni
con l’amplificazione si sono
fatti miracoli anche qui, in
mezzo a questo spazio così
aperto».
Il Maestro Lombard vuole
aggiungere una cosa. «Si,
devo dire che sono rimasto
molto colpito dal regista tedesco
Henning Brock e dallo splendido lavoro che ha fatto qui con
Giornale dei Grandi Eventi
Le Repliche
Martedì 1 agosto, ore
Giovedì 3 agosto, ore
Sabato 5 agosto, ore
Domenica 6 agosto, ore
Martedì 8 agosto, ore
Mercoledì 9 agosto, ore
21,00
21,00
21,00
21,00
21,00
21,00
questo nuovo allestimento.
Non lo conoscevo personalmente, anche se ne avevo sentito
parlare, ma mi ha molto
impressionato vederlo lavorare.
Ha un talento enorme. Si vede
che gli studi musicali – si è
diplomato in clarinetto,
n.d.r. – gli sono stati utili e che
ha anche una grande esperienza
con le opere liriche, anche se si è
formato al Piccolo Teatro di
Milano come assistente di
Giorgio Strehler».
Andrea Marini
La Stagione 2006 al Teatro Costanzi
14 - 22 Novembre
TRISTAN UND ISOLDE
di Richard Wagner
Gianluigi Gelmetti
Henning Brockhause
David Rendall, Janice Baird, Marianne Cornetti
Direttore
Regia
Interpreti
7 - 14 Novembre
Direttore
Interpreti
~~
CARMEN
di Georges Bizet
Alain Lombard
Rinat Shaham, Vincenzo La Scola,
Giorgio Surian, Anna Laura Longo
La Locandina ~ ~
Terme di Caracalla, 29 luglio - 9 agosto 2006
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Prima rappresentazione: Milano, Teatro Alla Scala 25 aprile 1926
Maestro concertatore Alain Lombard
eDirettore
Maestrodel Coro Andrea Giorgi
Regia Hanning Brockhaus
Scene e Costumi Ezio Toffolutti
Movimenti Coreografici Maria Cristina Madau
Disegno Luci Alessandro Santini
Personaggi / Interpreti
Giovanna Casolla /
Gabriele Maria Ronge (1, 3, 6, 9/8)
Calaf (T)
Marcello Giordani /
Carlos Ventre (1, 3, 5, 9/8)
Liù (S)
Anna Laura Longo /
Cristina Barbieri (1, 5, 8/8)
Timur (B)
Michail Ryssov
Ping (Bar)
Filippo Bettoschi /
Armando Ariostini (6, 8, 9/8)
Pong (T)
Mario Bolognesi
Pang (T)
Aldo Orsolini
Altoum (T)
Max Renè Cosotti
Mandarino (Bar)
Alberto Noli
Il Principe di Persia
Aurelio Cicero /
Pasquale Carlo Faillaci
(5, 6/8) /
Massimiliano Nardone (8, 9/8)
Il clown
Jean Mening
Turandot (S)
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Nuovo Allestimento
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
3
Una nuova Turandot per Caracalla
L’azione si svolge a Pekino (così è riportato nel libretto
originale, n.d.r.), al tempo delle favole
ATTO PRIMO
La Trama
Davanti alle mura e al palazzo imperiale di Pechino – Al tramonto, un Mandarino annuncia alla folla che il Principe di Persia, non avendo sciolto i tre enigmi proposti dalla
bella principessa Turandot a tutti i principi che aspirano alla sua mano, sarà decapitato pubblicamente dal boia al sorgere della luna. La folla, eccitata, travolge un vecchio
e la giovane Liù che per lui invoca subito soccorso. Un giovane accorre e riconosce nell’anziano il proprio padre Timur, Re tartaro spodestato. I due si abbracciano, ma il giovane Calaf lo prega di non pronunciare il suo nome, poiché ha paura dei regnanti cinesi, usurpatori del regno del padre. La schiava Liù è molto devota a Timur ed alla famiglia, in quanto un giorno Calaf nella reggia le sorrise. Intanto il boia Pu-Ti-Pao, affilando la lama, si prepara all’esecuzione del Principe di Persia. Ai primi chiarori lunari, su
note lugubri, giunge il corteo che accompagna la vittima al supplizio. La folla, prima
eccitata, si commuove per questo giovane ed invoca la grazia per il condannato.
Nella pallida luce si presenta, glaciale, la principessa Turandot che impone di fare
silenzio e con un gesto imperioso ordina al boia di giustiziare il Principe.
Calaf è impressionato dalla magica bellezza della Principessa e decide di tentare
la prova dei tre enigmi. Timur e Liù cercano di trattenerlo, ma lui si lancia verso
il grande gong. Tre bizzarre figure lo fermano: si tratta dei ministri del Regno,
Ping, Pong e Pang, i quali provano a dissuadere Calaf, descrivendo il rischio dell’impresa. Anche Timur, invocando la pietà filiale e la giovane Liù, disperata ed in
lacrime per il proprio amore segreto, tentano di far ragionare Calaf, il quale, ormai
in preda ad una sorta di delirio, percuote per tre volte il gong, invocando ogni
volta Turandot, al cui nome Liù, Timur ed i tre ministri rispondono con «la
morte!».
ATTO SECONDO
Calaf, sembra voler rinunciare, provocando lo scherno
della Principessa, ma finalmente intuisce la risposta e
dice felice: Turandot! Conquistando la vittoria.
Turandot, ormai vinta ma non doma, si getta ai piedi
del padre e lo supplica di non consegnarla allo straniero, ma per l’Imperatore
la parola data è sacra. Turandot inveisce contro il Principe, dicendogli che così
egli conquista una donna riluttante e piena d’odio.
Calaf spiega che cerca una donna che lo ami e quindi la libera dall’impegno,
proponendole a sua volta una nuova sfida: lui è pronto a morire se lei riuscirà prima dell’alba ad indovinare il suo nome. Il nuovo patto è accettato, mentre risuona solenne l’inno imperiale.
In un padiglione - E’ notte. Ping, Pong e Pang, chiusi nella loro tenda ripassano il
protocollo nuziale e quello funebre per essere pronti ad ogni evenienza. Si lamentano che, come Ministri, devono accompagnare all’esecuzione troppe sfortunate
vittime. Preferirebbero vivere tranquilli in campagna. Ma quando il sole sorge, si
avviano ad assistere all’ ulteriore supplizio.
Il piazzale della reggia con una grande scala dove è posto il trono imperiale - Tutto è
pronto per il rito degli enigmi. L’imperatore Altoum invita il Principe ignoto
a rinunciare, ma Calaf rifiuta tre volte.
Il Mandarino (sulla stessa musica dissonante del primo atto, n.d.r.) bandisce la
prova, mentre appare Turandot. La Principessa avanza guardando negli occhi
il nuovo pretendente e spiega le ragioni del suo comportamento: molti anni
prima il suo Regno fu invaso dai tartari ed una sua antenata cadde preda di
uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot ha giurato che mai si lascerà possedere da un uomo. La Principessa invita Calaf a rinunciare alla prova,
ma egli non vuole desistere. Il primo enigma viene proposto e Calaf lo risolve
senza tentennamenti: la speranza! Turandot scende la scala e si avvicina a lui
per il secondo enigma. Calaf pensa a lungo, ma poi risponde: il sangue!
La folla, sperando nel successo, esulta, ma Turandot la obbliga al silenzio e,
minacciosa, presenta il terzo enigma.
ATTO TERZO
Nel giardino della reggia - E’ una notte gravida di attesa ed in lontananza gli
araldi portano in giro l’ordine della Principessa: Questa notte nessun dorma
in Pechino! Il nome del principe ignoto deve essere scoperto. Calaf è sveglio
e pregusta il vittorioso bacio a Turandot, immaginandola liberata dal gelo dell’odio.
Giungono i Ministri che, per paura delle ire di Turandot, offrono a Calaf
donne bellissime, ricchezze e gloria in cambio del suo nome, ricevendone
però un secco rifiuto.
Intanto Timur e Liù, insanguinati e logori, vengono trascinati davanti ai tre
Ministri: sono sospettati di conoscere il nome del principe, visto che sono stati
notati parlare con lui.
Giunge Turandot. Liù, per cercare di salvare Timur, dice che solo lei conosce
il nome dello straniero, ma non lo rivelerà. Iniziano le torture, ma Liù resiste
e continua a tacere. Turandot è incredula: cosa dà tanto coraggio e forza alla
giovane schiava? Liù le risponde che è semplicemente l’amore. Turandot
resta turbata, ma poi ordina ai Ministri di carpire il segreto ad ogni costo.
Liù, conscia di non poter resistere, strappa il pugnale ad uno dei torturatori e
si uccide, cadendo ai piedi dell’amato Calaf. Con Timur e Calaf che compiangono Liù morta, si avvia il mesto corteo funebre.
(Fin qui l’opera che Puccini riuscì a portare a termine prima della morte, avvenuta a
Bruxelles il 29 novembre 1924)
———————————(Finale realizzato da Franco Alfano, sugli appunti pucciniani)
Uscita la folla, Turandot e Calaf rimangono soli. Calaf, con l’impeto della passione, bacia la principessa. Questa dapprima lo respinge, ma poi gli confessa
il “brivido fatale” e l’odio da cui fu colta la prima volta che lo vide ed anche
di essere orami travolta dalla passione. Ma, orgogliosa, lo supplica di non
umiliarla e di andarsene senza svelare il proprio nome. L’ignoto principe le
dice, però, di essere Calaf, figlio del re Timur.
Davanti al Palazzo Imperiale - E’ giorno. Tutti i dignitari ed una gran folla sono
davanti al trono dell’Imperatore. Squillano le trombe per annunciare l’arrivo di
Turandot, che annuncia di conoscere il nome dello straniero: il suo nome è Amore!
e, tra le grida di festa dei presenti, si abbandona nelle braccia di Calaf.
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Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
Marcello Giordani e Carlos Ventre
Calaf, il giovane principe
pronto alla sfida
S
aranno i tenori Marcello Giordani (29 luglio, 6 e 9 agosto) e
Carlos Ventre (1, 3, 5, 9 agosto) ad interpretare il giovane principe Calaf.
Fin dall'esordio a Spoleto nel ruolo del Duca di Mantova nel
Rigoletto, l’estensione straordinaria della sua voce ha aperto a
Marcello Giordani le porte dei più grandi teatri del mondo. Nel
1988 ha debuttato alla Scala di Milano come Rodolfo in La Bohème,
poi all’Arena di Verona di nuovo in Rigoletto e al Metropolitan di
New York nel ruolo di Nemorino in Elisir d’amore. Più di recente ha cantato nella Turandot
alla Scala di Milano, nella Tosca alla Staatsoper
di Vienna, nella Gioconda alla Carnegie Hall di
New York. Tra i suoi impegni futuri è prevista
l’inaugurazione della stagione 2006/07 del
Met di New York con una nuova produzione
di Madama Butterfly.
Carlos Ventre ha cominciato a studiare musica all’età di 15 anni, seguito da Gino Bechi e
Magda Oliviero. Il suo debutto è avvenuto alla
Marcello Giordani
Scala di Milano nel ruolo del Duca di Mantova
in Rigoletto sotto la direzione del Maestro Riccardo Muti. Qui è tornato per interpretare Ismaele nel Nabucco, per poi esibirsi nei ruoli
di Rigoletto al Teatro dell’Opera di Roma, La Bohème e Madama
Batterfly a Trieste, la Traviata a Colonia, il Rigoletto a Tokio, Pollione
ad Amsterdam. Le sue migliori interpretazioni le ha regalate interpretando il repertorio di Verdi, l’ultimo in ordine temporale è il ruolo di
Riccardo in Un Ballo in maschera presso il teatro Filarmonico di Verona.
Anna Laura Longo e Cristina Barbieri
I
Liù, schiava
fragile e forte
soprano Anna Laura Longo (29 luglio, 3, 6, 9 agosto) e Cristina
Barbieri (1, 5, 8 agosto) si divideranno il ruolo di Liù. Il soprano
Anna Laura Longo, milanese, diplomata in pianoforte e tecnica
vocale,è un'artista di fama nazionale e internazionale. In Italia si è esibita al Teatro Comunale di Cagliari in Grande Duchesse de Gerolstein e in
Rigoletto, al Teatro dell’Opera di Roma in Le Nozze di Figaro, La Favorita
e Il Barbiere di Siviglia, al Teatro San Carlo di Napoli in Orfeo ed Euridice
e ancora al Teatro Verdi di Trieste dove è stata Susanna nelle Nozze di
Figaro. All’estero, invece, ha interpretato Nedda nei Pagliacci a Toronto;
l’Otello al Cairo Opera Hause e Così fan tutte presso lo Stadttheatter di
Berna. Una delle qualità maggiormente riconosciute alla Longo è l’estrema versatilità espressiva che le permette
di interpretare con uguale intensità i diversi
repertori.
Cristina Barbieri si è diplomata in liuteria e
successivamente in canto presso il conservatorio G. Frescobaldi di Ferrara. Vincitrice di
numerosi concorsi, nel 1991 ha interpretato
Nina in La Nina pazza per amore di Paisiello al
Festival di Montepulciano e l’anno dopo ha
cantato nel Don Carlo di Verdi nel ruolo di Cristina Barbieri
Tebaldo, alla Stagione inaugurale del
Bicentenario della Fenice a Venezia. Nel 1993 ha debuttato nel ruolo di
Mimì per La Boheme di Puccini all’Opera Company di Philadelphia. Nella
stagione estiva 1993-94 ha partecipato al Festival dei Due mondi di
Spoleto interpretando il ruolo di Lauretta nel Gianni Schicchi di Puccini.
Ha collaborato, infine, con diverse orchestre tra cui l’Orchestra della Rai
Italiana, l’Orchestra Filarmonica Italiana e la Welsh National Orchestra.
5
Giovanna Casolla e Gabriele Maria Ronge
A
La vendicativa
principessa Turandot
vestire i panni della protagonista
saranno i soprano Giovanna
Casolla (29 luglio, 5 e 8, agosto)
e Gabriele Maria Ronge (1, 3, 6, 9 agosto).
Giovanna Casolla, dopo il diploma in
canto
e
pianoforte
presso
il
Conservatorio di San Pietro in Majella a
Napoli, ha continuato gli studi con
Michele Lauro e Walter Ferrari. Ha
debuttato al Teatro Verdi di Trieste con la
Campana sommersa di Respighi, proseguendo poi la carriera sui palcoscenici
del Teatro Comunale di Bologna, del Giovanna Casolla
Filarmonico di Verona e del S. Carlo di
Napoli, qui con Placido Domingo. Nel 1982 si è esibita per la prima
volta al Teatro Alla Scala di Milano nel Tabarro di Puccini e nella
Fedora di Giordano. Nel 1986 ha debuttato al Metropolitan di New
York come Eboli nel Don Carlo di Verdi e vi è tornata nel 1991 per
Tosca con Placido Domingo. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti,
tra cui, nel 1991 il premio “Luigi Illica” e nel 1996 il premio “Cilea”.
Nel 2006 ha cantato Turandot al Massimo di Palermo, Eboli in Don
Carlo al Teatro Megaron di Atene ed ha inaugurato la stagione
all’Arena di Verona come Santuzza in Cavalleria rusticana. Tra i prossimi impegni Gioconda a Santander.
Gabriele Maria Ronge, nata ad Hannover in Germania è stata definita dal New Straits Times «uno dei più grandi soprani wagneriani del
nostro tempo». Ha studiato canto con Nurit Goren e Friedel BackerBrill. Dopo diversi ingaggi nel suo Paese, ha inaugurato la sua carriera internazionale all’Opera di Parigi come Eva nel Meistersinger.
Il suo debutto in Italia è stato al Massimo di Palermo come Isabella
nel Liebesverbot (Divieto di Amare), per poi cantare a Bologna con
Riccardo Chailly e al Teatro alla Scala di Milano sotto la direzione di
Riccardo Muti.
Michail Ryssov
Timur, l’anziano re
usurpato del suo potere
P
resterà la voce a Timur,
Michail Ryssov. E' nato in
Crimea e si è laureato presso il
Conservatorio di Minsk, per poi
approfondire gli studi a Milano, al
Centro di Perfezionamento del
Teatro alla Scala. Ha calcato i palcoscenici dei più grandi teatri tra cui
la Deutsche Oper di Berlino, La
Fenice di Venezia, il Sao Carlo di
Lisbona, l’Arena di Verona e il
Frankfurter Royal Opera di Londra.
Ha collaborato, inoltre, con le
migliori orchestre come la Berlin
Filharmoniker, la Boston Symphony
e la City of Birmingham Synphony. Michail Ryssov
Pagina a cura di Jole Palumbo - Foto Corrado M. Falsini
6
Turandot
L
Storia dell’opera
Il
Giornale dei Grandi Eventi
In un ristorante milanese la nascita di Turandot
a composizione della Turandot, ultima opera di
Puccini, si svolse tra il 1920 e il 1924, in quegli
ultimi quattro anni di vita del Compositore tristemente segnati dalla malattia che lo condurrà alla
morte. Dopo il successo del Trittico nel gennaio 1919
al Costanzi di Roma, Puccini si pose nuovamente
con l’aiuto del fedele amico Giuseppe Adami alla ricerca di un soggetto per un’opera. Determinante per la
nascita della Turandot fu però l’incontro con il giornalista Renato Simoni nell’autunno del 1919 a Torre del
Lago, residenza amatissima dal Maestro, dove si dedicava alla sua grande passione, la caccia. Simoni, commediografo e critico drammatico sensibilissimo e raffinato, sembrò a Puccini il più adatto da affiancare ad
Adami. L’intesa tra i due librettisti fu subito cordiale e
produttiva: la prima proposta fu un testo tratto dalla
riduzione teatrale dell’Oliver Twist di Dickens. L’opera,
il cui titolo avrebbe dovuto essere Fanny, non piacque
però a Puccini: l’ambientazione nello squallido clima
dei sobborghi londinesi avrebbe potuto offrire solamente tematiche e situazioni già ampiamente utilizzate dal
compositore, che invece aveva l’intenzione di “tentare
vie non battute”.
sembrò più volte propendere per l’atto unico. Inoltre
occorreva « lasciare un po’ da parte Gozzi e lavorare di
logica e fantasia». Il primo rimaneggiamento operato
Nata in un ristorante milanese
I biografi raccontano che la nascita della Turandot –
soggetto così “regale” - avvenne, invece, in circostanza meno “nobile”: a tavola! Nel febbraio del 1920
Puccini e Simoni erano in un ristorante milanese, per
ingannare il tempo in attesa che il Maestro prendesse un treno per Roma. Simoni disse: «E Gozzi? … se
ripensassimo a Gozzi?… una fiaba che fosse magari la
sintesi di altre fiabe più tipiche?… Non so… qualche cosa
di fantastico e di remoto, interpretato con sentimento di
umanità e presentato con colori moderni?». Puccini fece
il nome di Turandot e Simoni mandò immediatamente a prendere il volume nella sua biblioteca, in modo
che Puccini potesse portarlo con se in treno. La
Turandot di Carlo Gozzi, rappresentata per la prima
volta a Venezia nel 1761 al teatro di San Samuele con
la compagnia di Antonio Sacchi, affascinò subito il
compositore per il carattere orientaleggiante che
avrebbe potuto aprire più ampi e sfaccettati orizzonti. Puccini iniziò immediatamente a documentarsi,
leggendo la versione in italiano del poeta Andrea
Maffei - noto come librettista di Verdi - basata sulla traduzione in tedesco di Schiller. Puccini visionò anche
riproduzioni sceniche e figurini di Max Reinhardt, il
quale poco prima aveva curato la messa in scena della
fiaba in Germania. Sull’argomento Puccini scrisse con entusiasmo a Simoni: «…in Reinhardt, Turandot era una donnina
piccola piccola; attorniata da uomini di donnina viperina e con un
cuore strano di isterica. Insomma io ritengo che Turandot sia il
pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni di
Gozzi. In fine: una Turandot attraverso il cervello moderno, il tuo,
d’Adami e il mio».
Difficoltà dietro l’angolo
L’entusiasmo però era destinato ad essere frenato
dall’effettiva difficoltà di ridurre la fiaba.
L’epistolario pucciniano è il testimone delle difficoltà incontrate durante i quattro anni dedicati alla
Principessa cinese. Puccini fu a lungo indeciso se
costruire l’opera in uno, due o tre atti. La versione
che né risultò fu quella in tre atti, ma il musicista
in quest’ottica dai librettisti, fu la trasformazione
delle quattro maschere della commedia italiana presenti nella fiaba - Tartaglia, Pantalone Truffaldino e
Brighella - nei tre ministri cinesi Ping, Pang e Pong.
L’altro cambiamento fondamentale fu l’introduzione
della figura di Liù, non presente nella favola di
Gozzi, con la funzione di umanizzare attraverso il
suo sacrificio la figura della Principessa.
Nella primavera del 1920 Puccini manifestava il suo
sconforto ad Adami: «metto le mani al piano e mi si
sporcano di polvere! La scrivania mia è una marea di lettere, non c’è traccia di musica. La musica? Cosa inutile. Non
avendo il libretto come faccio con la musica? Ho quel gran
difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena…». Nel Natale dello stesso
anno i librettisti sottoposero il primo atto a Puccini,
ma l’iniziale giudizio fu negativo. Dopo alcune modifiche, in cui si diminuirono molte cineserie, Puccini lo
approvò ed iniziò a strumentarlo. Nel 1921, a distanza di un anno, il primo atto fu completato. Ben più
faticosi, invece, furono gli altri due atti per i quali il
Maestro fu spesso sul punto di abbandonare la composizione. L’11 dicembre 1922 amaramente scriveva
ad Adami: «di Turandot niente di buono. Comincio a
impensierirmi della mia pigrizia! Che io sia saturo di Cina
per aver fatto il primo e quasi il 2° atto? Il fatto sta che non
riesco ad attecchire niente di buono. Sono anche vecchio!
Questo è sicuro…. A Milano deciderò qualcosa. Forse
restituisco i soldi a Ricordi e mi liberi».
I primi mesi del 1923 furono ancora molto difficili,
ma in primavera il compositore, rinfrancato nello spirito e con nuovo entusiasmo, si dedicò a strutturare e
musicare il secondo atto. Nel gennaio 1924 Puccini
annunciò ad Adami l’inizio dell’orchestrazione del
terzo atto. In aprile finalmente la composizione della
Turandot era a buon punto ed il compositore né diede
ancora notizia ad Adami: «Penso ora per ora, minuto
per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad
ora mi pare una burletta e non mi piace più».
Triste presagio
L’autunno di quello stesso anno - 1924 - fu caratterizzato dall’incontro a Salsomaggiore e dalla riappacificazione con Arturo Toscanini, dopo lo screzio sorto a
causa di una incomprensione, quando in aprile il
direttore diede l’ordine di non ammetterlo alla prova
generale della prima esecuzione postuma del Nerone
di Boito al Teatro Alla Scala. Pochi giorni dopo i due
si incontrano a Milano e Puccini fece ascoltare all’amico ritrovato il terzo atto di Turandot, fino al punto
in cui Liù sacrifica la propria vita. Ad esecuzione terminata Puccini disse a Toscanini la frase che egli
avrebbe dovuto pronunziare davanti al pubblico se
lui fosse stato nell’impossibilità di concludere l’opera: «E qui, signori, il maestro è morto». Presagio sinistro. Il male alla gola, manifestatosi già da parecchi
mesi, iniziò ad aumentare ed in ottobre Puccini si era
recato a Firenze per essere visitato. La diagnosi atroce fu cancro alla gola. Come ultimo tentativo fu consigliata una cura presso una clinica specializzata in
Belgio e Puccini si recò a Bruxelles per essere ricoverato. La sera del 28 novembre sopraggiunse una crisi
cardiaca. Puccini lottò per la vita l’intera notte e il mattino successivo. Il 29 novembre 1924 verso mezzogiorno
il cuore del maestro cessò di battere. Turandot, come il
suo stesso creatore aveva funestamente previsto, era
rimasta incompleta.
Un finale postumo
Gli editori di casa Ricordi, Clausetti e Valcarenghi,
decisero allora di farla terminare dal musicista
Franco Alfano. Questi pensò di utilizzare le trentasei
pagine di abbozzi lasciati dal Maestro per il duetto e,
nelle parti in cui gli schizzi non erano di aiuto, i temi
precedentemente usati dal compositore all’interno
dell’opera. Il lavoro, così completato, era pronto per
andare in scena. Alla vigilia la recita rischiò, però, di
essere annullata per un increscioso incidente diplomatico. Mussolini, in quei giorni a Milano, fu invitato alla “prima” dalla direzione della Scala. Il Duce
impose come condizione che durante la serata fosse
eseguito l’inno fascista in suo onore, dal momento
che Toscanini nel 1923 si era rifiutato di eseguirlo
davanti ad un gruppo di Camicie Nere. Ancora una
volta Toscanini si oppose ed il Duce non prese parte
alla “prima”.
Il 25 aprile del 1926, dinanzi al commosso pubblico
della Scala, la Turandot andò in scena. Il cast composto da Rosa Raisa nel ruolo di Turandot, Maria
Bamboli in quello di Liù e Miguel Fleta in quello di
Calaf, utilizzo le scene di Galileo Chini. Dopo la
morte di Liù, Toscanini – come è noto - seguì la
volontà di Puccini: interrompendo la musica e voltandosi verso il pubblico, con voce velata, disse:
«Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è
morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’arte». e poi: “viva Puccini!”. Subito scrosciarono gli
applausi, mentre il sipario calava. Dalla sera successiva le recite proseguirono con il finale realizzato da
Alfano.
C.C.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
7
L’esotismo ed il pittoresco in Puccini e Debussy
P
L’uso della Scala Pentatonica
per evocare l’Oriente
oco sembra accomunare due compositori
quasi
coetanei come Puccini
(1858-1924) e Debussy
(1862-1918). Il primo,
ultimo grande rappresentante della linea di
compositori
italiani
dedicatisi esclusivamente, o quasi, all’opera lirica; il secondo, nemico
giurato dell’opera italiana e compositore di
un’unica opera i cui
punti di riferimento
sono
Wagner
e
Mussorgskij.
Eppure
entrambi, ancor più di
altri compositori contemporanei, hanno subito profondamente il
fascino dell’esotismo e
in
particolare
dell’Estremo Oriente.
Oltre a Madama Butterfly
(1904) e a Turandot (rimasta incompiuta alla
morte di Puccini), anche
La fanciulla del West
(1910) rivela un interesse
per una cultura extra
europea. La moda dilagante dell’esotismo nel
corso di tutto l’Ottocento
si riflette però in musica
ai primi del secolo successivo sotto la sua
forma più specifica:
nella moda per il
Giappone e per l’Oriente
in generale. Forse più di
qualsiasi altro compositore, Debussy si è
immerso nel mondo del
giaponismo, circondandosi di oggetti o stampe
che talvolta ha scelto
come frontespizio di
alcune delle sue partiture più illustri, come La
mer (1905), in cui nulla vi
è di orientale nella
sostanza.
In termini specificamente musicali l’influenza
del
Giappone
e
dell’Estremo Oriente si
riflette nell’uso frequente della scala pentatonica, cioè corrispondente
Claude Debussy
ai tasti neri della tastiera.
Nella prima delle tre
Estampes per pianoforte
(1903), non a caso intitolata Pagodes, Debussy
affida la mano destra e
in parte anche la sinistra,
esclusivamente ai tasti
neri. Vi sono rari precedenti, come lo “Studio
sui tasti neri” op.10, n.5
di Chopin. Ma in questo
caso non è presente
alcun elemento di esotismo, per via della chiara
affermazione della tonalità maggiore di Sol
bemolle. Nel caso di
Debussy, invece, l’omaggio all’Oriente è evidente non solo dal titolo del
primo brano, Pagodes, o
da quello della raccolta,
che allude alle stampe
giapponesi, ma, come
avviene nella Butterfly e
Turandot, dallo stile stesso della musica. Tutto il
brano fa uso non solo
della scala pentatonica,
ma di una successione
di note da essa ricavata
che si ripete sempre
identica,
salvo
nel
ritmo, come nella musica tradizionale cinese o
giapponese, o nella
musica indonesiana.
L’interesse
di Debussy
– come poi
di altri compositori del
Novecento
- per la
m u s i c a
orientale è
stato fortemente stim o l a t o
dalle orchestre
di
gamelan
delle isole
di Giava e
Bali,
che
egli ebbe
occasione
di ascoltare
rispettivamente
durante
le
Esposizioni Universali
di Parigi del 1889 e del
1900. La predilezione
per le scale non europee
si manifesta anche nel
suo legame con la musica spagnola (La soirée
dans Granade, La sérénade
interrompue, La puerta del
vino tra i pezzi pianistici,
o Ibéria dalle Images per
orchestra), ma si cristallizza nell’uso delle scale
pentatoniche (tasti neri)
e esatoniche (per toni),
già in parte usate dai
compositori russi. Anche
Puccini a sua volta ha
subito l’influenza dell’oriente, in parte mediata
dall’influsso del suo collega francese. Adottando
la scala esatonica ne La
fanciulla del West il tono
di esotismo necessario al
soggetto ambientato in
California è stato così
garantito.
Dopo
la
Butterfly, la nuova opera
di Puccini testimonia di
una continuità di interesse per il “non europeo”, essendo ambientata nella patria di
Pinkerton, di cui la stessa Butterfly include l’inno nazionale.
L’uso sistematico che
opposizione si ritrovefece Debussy della scala
ranno fino a Stravinskij,
per toni in Pelléas et
Mélisande, la cui prima
e non solo in Petruska,
precede di due anni
quasi interamente strutquella della Butterfly, è
turato su questa dialettica. Le interazioni tra
certamente stato un fatquesta caratteristica di
tore determinante nella
scrittura con il mondo
scelta stilistica pucciniadell’Estremo
Oriente
na adottata per la sua
sono molteplici e sfoceopera “americana”. Del
ranno nelle Trois poésies
resto va notato che nelde la lyrique japonaise
l’opera di Debussy la
(1913) o nell’opera Le
scala per toni è frequenRossignol (1914) dello
temente combinata con
stesso
compositore
frammenti della scala
russo. In quest’ultima le
pentatonica, certamente
evocazioni di Cina e
per suggerire un “esotiGiappone si fondono
smo immaginario” leganell’impiego spesso carito al luogo indeterminacaturale della scala pento dell’azione del dramtatonica,
che
nella
ma di Maeterlinck.
Butterfly caratterizzava i
Dunque i legami tra l’opera di Debussy e quelle
personaggi giapponesi e
di Puccini non sono cerin seguito definirà l’amtamente casuali. Ma
bientazione cinese di
mentre nel caso di
Turandot. Il canto dell’uPuccini le scelte stilistisignuolo
meccanico
che sono dovute
ai soggetti da lui
prescelti,
per
Debussy l’impiego delle scale non
europee va spesso
oltre la semplice
volontà di evocare il pittoresco
dell’Oriente. La
scala pentatonica
si
ritrova
in
numerosi brani
pianistici i cui
titoli non evocano
necessariamente Giacomo Puccini
un contesto orientale (Reflets dans l’eau,
inviato dall’Imperatore
prima delle Images, o
del Giappone all’ImpeVoiles, La fille au cheveux
ratore della Cina è affide lin, dal primo libro dei
dato al suono nasale delPreludi). Il suo impiego
l’oboe che esegue ostinaè suggerito dalla specifitamente una banale
cità della tastiera del piamelopea pentatonica.
noforte, con la sua oppoLa dimensione caricatusizione tra tasti bianchi e
rale che in Puccini caratneri, anche se la scala
terizzava in parte i
pentatonica è talvolta
parenti di Cio-Cio-San
trasposta sui tasti bianviene
usata
da
chi, come in“General
Stravinskij per alludere
Lavine” excentrique dal
alla
meccanizzazione
dei
secondo
libro
della natura da parte
Preludi. Le conseguenze
dell’uomo.
stilistiche di questa
Angelo Cantoni
Turandot
8
C
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Tra gli antichi ruderi si legge ancora la sua passata gra
Le Terme di Caracalla, lo stabilimento termale più
on gli imponenti
ruderi che sfiorano
anche i trenta metri
e conservano perfettamente la struttura originale scevri da rimaneggiamenti di
epoche successive, le
Terme di Caracalla costituiscono uno dei più grandi
complessi termali dell’antichità, secondo per dimensioni solo allo stabilimento
di Diocleziano - di circa un
secolo posteriore - e forse a
nessun altro per il fasto
delle sue decorazioni, oggi
purtroppo in parte perdute
o disperse. Furono fatte
costruire
interamente
dall’Imperatore a partire
dal 212 d.C., in un quartiere periferico nella parte
meridionale della Città,
abbellita dai Severi con la
via Nova tracciata in direzione delle nuove Terme a
partire dal Septizodium, un
grandioso ninfeo a più
piani, simile alla scena di
un teatro ellenistico, innalzato sulle pendici sud-occidentali del Palatino come
monumentale quinta all’inizio della Via Appia.
L’approvvigionamento
idrico era assicurato da un
ramo speciale dell’acquedotto dell’Aqua Marcia,
chiamato Aqua Nova
Antoniniana, che, oltrepas-
sava la Via Appia sul cosiddetto “Arco di Druso”,
poco prima della Porta San
Sebastiano. Novemila operai per più di cinque anni
lavorarono per sbancare le
pendici dell’Aventino e
realizzare un’enorme piattaforma quadrangolare di
più di 300 metri di lato –
che obliterò una ricca
domus d’età adrianea con
pavimenti a mosaico e
affreschi di II stile alle pareti - sulla quale costruire,
sopra i sotterranei per i
magazzini, servizi ed
impianti, il grande corpo
centrale in opera cementizia con rivestimento di
mattoni. Il cantiere si prolungò fin dopo la morte di
Caracalla (217 d.C.), quando gli ultimi imperatori
della dinastia, Elagabalo e
Alessandro Severo, completarono il recinto esterno.
Comprese da Aureliano
all’interno delle mura e
restaurate
anche
da
Diocleziano, Costantino –
un’iscrizione ce lo conferma - e Teodorico, le Terme
funzionarono fino al 537
d.C. quando Vitige, re degli
Goti, durante l’assedio di
Roma, tagliò gli acquedotti
al fine di prendere la città
per sete. Da quel momento
il complesso fu abbando-
Ricostruzione del Frigidarium delle Terme di Caracalla
nato perché troppo esposto
ad attacchi esterni e lontano dal centro cittadino
dove si andavano concentrando gli abitanti per
paura degli invasori, divenendo cimitero per i pellegrini ammalati e ricoverati
nel vicino Xenodochium dei
Santi Nereo e Achilleo.
Nel Medioevo le Terme
diventarono una preziosa
cava di materiali da costruzione e per un riuso di prestigio: capitelli figurati troviamo reimpiegati nel
duomo di Pisa e nella
chiesa di Santa Maria in
Trastevere a Roma. Gli
scavi del Cinquecento per
volere di Paolo III Farnese
riportarono in luce statue
e gruppi scultorei colossali, perlopiù copie di originali ellenistici, che finirono nelle grandi collezioni
di antichità
del
tempo,
come quella
Farnese, oggi
ammirabile al
M u s e o
Archeologico
Nazionale di
Napoli: basti
citare il celeToro
bre
Farnese, una
“montagna di
marmo” con il
supplizio di
Dirce che celava un sofisticato impianto
idraulico per rendere
ancora più realistica l’ambientazione pastorale dell’episodio, la Flora e
l’Eracle in riposo, riferibile
ad un capolavoro bronzeo
di Lisippo, che faceva pendant con l’Ercole Latino,
ora nella Reggia di
Caserta, a testimoniare
l’attaccamento dei Severi
a questa divinità riecheggiata anche in uno dei
capitelli del Frigidarium.
Ma anche i centri storici
delle città italiane si arricchirono di arredi provenienti dalle Terme: nel
salotto buono di Firenze,
in piazza Santa Trinità, si
erge – dal 1563 per volere
di Cosimo I de’ Medici una delle altissime colonne di granito che decoravano la Natatio, mentre le
Mitreo, precisando le
piante dei diversi ambienti. Eccezionali ritrovamenti sono avvenuti anche in
anni recenti come la statua
di Artemide esposta dal
1997 nell’Aula Ottagona
delle
Terme
di
Diocleziano.
La vita alla Terme
due splendide vasche
pure di granito grigio del
Frigidarium furono riutilizzate dal Rainaldi come
fontane in piazza Farnese
a Roma. Alla prima metà
dell’Ottocento risalgono la
scoperta nella palestra ed
il distacco dei mosaici con
atleti e giudici di gara,
oggi ricomposti nel loro
assetto originario in
Vaticano presso il Museo
Gregoriano Profano. Da
allora continue campagne
di scavo, hanno contribuito alla conoscenza del
monumento, rivelando gli
ambienti sotterranei ed il
Le Terme erano aperte
all’intera
popolazione
(comprese donne, liberti e
schiavi, sebbene in orari e
settori distinti) di giorno e
talvolta anche alla luce
delle fiaccole. Pur nel chiasso che derivava dalla frequentazione giornaliera di
più di 9000 persone, andare
alle Terme significava
ritemprare il corpo e contemporaneamente divertirsi negli ambienti sontuosamente decorati (di marmi
colorati, stucchi, mosaici e
sculture) che regalavano
alla gente comune l’impressione di trovarsi in una lussuosa residenza imperiale.
L’entrata odierna corrisponde all’ingresso centrale di destra e consiglia un
percorso pressoché uguale
a quello previsto in antico,
che immetteva nel quartiere
degli
spogliatoi
(Apodyterium, dove per
pochi soldi si potevano
lasciare i vestiti e ricevere
un asciugamano. Da qui si
passava direttamente alla
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
9
Luoghi nascosti e purtroppo non visitabili
andezza
U
ù bello dell’antichità I Sotterranei ed il Mitreo
palestra per riscaldarsi con
esercizi sportivi e giochi nel
grande cortile scoperto, dal
bel pavimento a mosaico
policromo con motivo a
dischi e girali vegetali
all’intorno e squame al centro, delimitato su tre lati da
un portico di colonne in
giallo antico, coperto a
volta, mentre sull’altro lato
si aprivano cinque ambienti, di cui il centrale absidato,
per attività ginniche indoor.
Uscendo dalla palestra l’utente poteva ammirare nel
grande emiciclo le realistiche immagini dei gladiatori
e degli atleti più famosi dell’epoca immortalati in un
tappeto musivo oggi ricomposto ai Musei Vaticani. Da
li ci si poteva recare per la
sauna al Laconicum (una
sorta di bagno turco a pianta ellissoidale) od entrare,
attraverso passaggi stretti e
obliqui per evitare la dispersione del calore, nel
Caldarium, la grande sala
circolare del diametro di 34
metri, coperta da una cupola di poco inferiore a quella
del Pantheon. La riscaldava
un potente impianto a hypocaustum (con aria calda
insufflata sotto il pavimento attraverso le suspensurae), bracieri in bronzo ma
anche il calore del sole che
fino al tramonto entrava
dalle immense finestre ad
arco. Il Caldarium era collegato al Tepidarium, una pic-
cola sala quadrata con due
vasche ai lati, la quale,
come prescritto dalla medicina, consentiva al corpo di
adattarsi gradualmente alla
escursione termica del
Frigidarium. Questo, era
costituito dalla sala più fresca e grandiosa delle
Terme, con i suoi 58 metri
di lunghezza per 24 di larghezza, la cui complessa
architettura fu anche ammirata e ripresa da Giuliano
da Sangallo e dal Palladio,
che vi si ispirò nelle sue
chiese veneziane, ricostruita da Viollet Le Duc, e
riproposta nelle magniloquenti stazioni ferroviarie
delle metropoli americane.
Completata
da
due
ambienti laterali, comunicanti con le palestre, in cui
si trovavano probabilmente
le due vasche di piazza
Farnese, la basilica era
coperta da una maestosa
volta a triplice crociera
sostenuta da otto pilastri
fronteggiati in origine da
altrettante colonne di granito dai capitelli mirabilmente intagliati nel marmo
bianco con figure e simboli
divini in gran parte conservati. Colonne di granito, di
cui l’unica superstite fu
portata a Firenze, movimentavano, insieme a
gruppi scultorei entro nicchie ed ai mosaici che dovevano creare un effetto iridescente riflettendosi nell’acqua, le facciate interne della
Natatio, una rettangolare
piscina a cielo aperto profonda circa un metro, cui
sia accedeva scendendo
una scalea dal Frigidarium. Si
poteva così concludere
degnamente la giornata alle
terme con una nuotata distensiva e un bagno di sole
nelle terrazze sopra le palestre, decorate dagli splendidi mosaici con Thiasos marino animato da Nereidi, tritoni, delfini e mostri acquatici
cavalcati da eroti che ancora
oggi possiamo apprezzare.
Marina Piranomonte
Soprintendenza Archeologica di Roma
Direttrice complesso Terme di Caracalla
n percorso affascinante per comprendere il funzionamento della
complessa macchina delle Terme
è la discesa nei sotterranei, una rete vasta
ed articolata di ambienti di servizio che la
Soprintendenza sta recuperando. Un
dedalo di grandi gallerie selciate, larghe
ed alte più di 6 metri e foderate in laterizio, consentiva il transito dei carri con i
carichi di legname verso gli enormi depositi, precauzionalmente ventilati, con una
capacità tale da rendere autosufficienti
per alcuni mesi i forni e le caldaie dell’impianto di riscaldamento che consumavano 10 tonnellate di legna al giorno.
Nelle strutture di costruzione trovava
posto anche il sistema idraulico. La luce e
l’aria che penetravano in questi spazi da
lucernari, consentivano la frequentazione
da parte degli addetti alle varie funzioni,
non ultima quella della macinatura del
grano nel coevo mulino ad acqua scoperto durante gli sterri degli inizi del
Novecento al pari del Mitreo, il maggiore
di Roma. Il santuario dedicato al culto di
Mitra, antica divinità solare di origine
persiana venerata soprattutto dagli eserciti
come salvifica, è formato da una serie di
cinque ambienti introdotti da soglie in travertino. La caratteristica più interessante
del santuario per la sua unicità è la fossa
posta al centro della stanza, collegata attraverso una scaletta e uno stretto corridoio
alla sacrestia al di là della nicchia di fondo,
Il Mitreo con la fossa sanguinis
che doveva accogliere la solita immagine
del dio tauroctono. Era destinata forse a
un’apparizione spettacolare dalla botola o
più probabilmente al sacrificio del toro che
veniva ucciso su una grata in ferro posta
sopra la buca, dentro la quale si trovava,
vestito con una toga candida, l’iniziato,
pronto a ricevere il rigenerante bagno di
sangue dell’animale. Tale interpretazione
ben si collega alla religiosità di Caracalla,
“padre degli eserciti”, e della sua famiglia
volta a un sincretismo che accomunava
divinità classiche e orientali in un unico
culto.
Mar. Pir.
DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA
di Giosue Carducci
Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve.
Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, dal reclinato
capo de i figli :
Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch'a più ardua sfida
levansi enormi .
e l'Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco,
nume presente.
Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l'Appia via.
A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.
«Vecchi giganti, - par che insista irato
l'augure stormo - a che tentate il cielo? »
Grave per l'aure vien da Laterano
suon di campane.
se ti fu cara su 'l Palazio eccelso
l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l'evandrio colle, e veleggiando a sera
tra 'l Campidoglio
Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose :
religïoso è questo orror : la dea
Roma qui dorme.
14 e 24 Aprile 1877 - Dalle “Odi Barbare” – Libro Primo, IV
10
Turandot
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Le invettive del Maestro sulle speculazioni milanesi
E Mascagni disse:
«Lasciate Turandot com’è!»
“P
iango la perdita del caro
Giacomo, che amai con
affetto di fratello, con
ammirazione di discepolo.
Accolgano il conforto del rimpianto universale per l’uomo dalla sua
opera fatto immortale”. Così il 29
novembre 1924 da Vienna, dove
si trovava per una serie di concerti, Mascagni scriveva ad
Elvira Puccini. Poche ore prima
a Bruxelles l’amico Giacomo si
era spento, distrutto dal tumore
alla gola.
La morte del grande collega e
amico con il quale aveva in gioventù condiviso sogni e sofferenze, scosse profondamente il
compositore livornese, il quale
nelle lettere di quel periodo si
espresse con forti accenti polemici.
Vale la pena leggere ad esempio
quella inviata il 4 dicembre alla
figlia Emy: «…non so dirti quale
colpo sia stato per me l’annunzio
improvviso della morte di Puccini.
Avevo notizie abbastanza buone:
ero tranquillo il giorno; prima
I
avevo avuto tali notizie favorevoli,
che con vera commozione avevo
telegrafato
all’Ambasciatore
d’Italia a Bruxelles pregandolo di
portare all’amico carissimo il mio
saluto ed augurio. E invece..... E
quale morte terribile, povero
Giacomo! Io sono ancora molto
impressionato e non riesco a rimettermi. Non posso crederci ancora. E
sono anche molto addolorato ed
avvilito che quei bottegaî dei
Milanesi hanno già iniziato una
speculazione su Puccini. Mentre la
famiglia voleva che la salma andasse a Lucca, i bravi (?) milanesi
l’hanno voluta a Milano.... e
Toscanini ha messo a disposizione
la tomba della propria famiglia....
Sono cose che fanno male.... Ed
intanto si sta già preparando la
speculazione sull’opera postuma.
Prima con Boito, ora con
Puccini!... Ho avuto molto dispiacere nell’apprendere, da un telegramma dell’Avv. Belli, che lo stesso Belli, unitamente a Gasco,
abbiano affacciato l’idea di far terminare a me la Turandot. Meno
male che, in una intervista che ebbi
qui col corrispondente della
“Tribuna”, espressi già il mio pensiero in proposito. Peccato che la
“Tribuna” non l’abbia riportato
esattamente, ma in ogni modo si
capisce che io ho detto che l’opera
deve essere eseguita così come si
trova, anche se incompiuta: non si
deve ripetere lo sconcio commesso
col Nerone (l’opera che Boito
lasciò incompiuta e che fu portata a termine da Tommasini e
Smareglia sotto la supervisione
di Toscanini, n.d.r.), tanto più
che, per Puccini, sarebbe ancora
una profanazione, perché Puccini è
stato un vero e grandissimo musicista e non uno stitico che aspettava sempre l’aiuto e l’elemosina di
qualcuno, e che in vita non la
trovò.... e l’ha trovata dopo
morto....».
La morte di Liù è
già un finale
Mascagni, dunque, riteneva che
Turandot dovesse rimanere
come l’aveva lasciata Puccini.
Una scelta dettata in lui dal
Puccini e Mascagni ai funerali di Ruggero Leoncavallo
rispetto nei confronti dell’amico, ma suggerita anche da considerazioni di tipo drammaturgico: la morte di Liù è già di per
sé un “finale”, lascia la storia fra
Calaf e Turandot sospesa, ma
chiude coerentemente l’opera.
Ma a proposito di Mascagni,
può essere interessante riportare ancora la seguente lettera
inviata il 22 dicembre alla figlia:
«…io sono veramente sorpreso di
tutta la speculazione che in Italia si
fa sopra la sventura: la morte di
Puccini ha svegliato nuove cupidigie e nuovissime ambizioni: la città
di Milano vuole avere il monopolio
delle salme degli uomini illustri.
Hai letto il discorso del Sindaco
Mangiagalli sul feretro di
Puccini?... Non si può andare più
in là in materia di speculazione e di
réclame: ha detto che Verdi morì e
fu sepolto in Milano; e, dopo Verdi,
Boito morì e fu sepolto in Milano;
ed oggi, per quanto Puccini sia
morto all’estero, Milano ha la gloria di avere la sua salma.... Alla
larga di questi necrofori jettatori!
Mi aspettavo che continuasse, con
l’augurio (?) di avere in Milano
tutti i morti illustri, anche se la
loro morte avviene lontana dalla.....
necropoli lombarda..... Da Roma, il
Marchese Monaldi mi perseguita
con lettere e telegrammi per avere
da me una prefazione al libro che
egli scrisse sopra Puccini, e del
quale sta preparando la seconda
edizione, in occasione della morte
del Maestro. Insomma, si specula
in modo indegno; e non si capisce
che io non intendo di prestarmi a
questo basso giuoco. E non rispondo neppure: sono nauseato! [...]».
Roberto Iovino
Nella casa natale di Puccini a Lucca
Tra i cimeli, il pianoforte su cui fu composta Turandot
l 22 dicembre 1858, nelle
prime ore della notte,
Giacomo Puccini nasceva a
Lucca, nella casa di corte
S.Lorenzo, a Lucca. Fu battezzato il giorno successivo, al
fonte battesimale dei SS.
Giovanni e Reparata, con i
nomi di Giacomo Antonio
Domenico Michele Secondo
Maria. Era infatti l’ultimo
musicista di una singolare
dinastia che in un arco temporale di un secolo e mezzo aveva
dominato la vita musicale lucchese.Al momento della sua
nascita abitavano la casa i genitori, Michele e Albina Magi, la
nonna Angela Cerù, le sorelle
Otilia, Tomaide (la terza nata,
Temi, era vissuta meno di un
anno), Maria Nitteti e Iginia, e
una serva. Un anno dopo
nascerà l’altra sorella Ramelde,
sarà assunta un’altra serva, e
più avanti nasceranno ancora
Macrina e infine, dopo la morte
del padre, Domenico Michele
(Lucca, 1864 - Rio de Janeiro,
1891) anch’egli musicista.
Giacomo, rimasto presto orfano di padre, visse in questa
casa gli anni dell’infanzia e
della prima giovinezza, prima
del trasferimento a Milano per
proseguire gli studi. Restò sempre legato ai ricordi che lo legavano alla sua casa natale e si
adoperò, quando le condizioni
economiche glielo consentirono, affinché rimanesse di proprietà
della
famiglia.
La famiglia Puccini, che nella
prima metà del XVIII secolo si
era stabilita a Lucca in un’abitazione posta in via Pozzotorelli,
l’odierna via Vittorio Veneto, si
era trasferita in corte S. Lorenzo
intorno al 1815, poco dopo la
morte improvvisa e prematura
di Domenico, nonno di
Giacomo e pregevole operista.
Aveva voluto così la giovane
vedova, Angela Cerù, per riavvicinarsi alla sua famiglia d’origine, che abitava nello stesso
stabile. La famiglia Cerù - in
particolare Nicolao, cugino del
padre Michele - svolgerà un
ruolo importante nella formazione di Giacomo.
L’appartamento,
piuttosto
grande ma appena sufficiente
per una famiglia numerosa
come quella di Giacomo (in cui
tutti, almeno il padre e i figli,
facevano musica) aveva, come
oggi, due ingressi sul medesimo pianerottolo, come testimonia una lettera del 1817 di
Antonio, bisnonno di Giacomo.
Oggi museo
Oggi la casa natale di Giacomo
Puccini custodisce oggetti a lui
appartenuti: mobili di famiglia, un cappotto, preziose
onorificenze che testimoniano
gli straordinari successi ottenuti dal compositore in tutto il
mondo. Sono anche esposti:
autografi di importanti composizioni giovanili, la Messa a
4 voci (1880) e il Capriccio sinfonico (1883), una ricca collezione di lettere scritte e ricevute
dal compositore tra il 1889 e il
1915 (destinatari e mittenti: la
moglie Elvira, il figlio Antonio,
Giulio Ricordi), e una serie di
emozionanti testimonianze
degli ultimi momenti di vita
del compositore, che - a causa
dell’operazione subita per l’asportazione del tumore alla
gola - comunicava solo tramite
brevi messaggi scritti. L’ultima
opera, Turandot - la cui composizione fu interrotta appunto
dalla morte dell’autore a
Bruxelles, il 29 novembre 1924
- è evocata dalla presenza del
pianoforte Steinway su cui l’opera fu composta, nella villa di
Viareggio (una fotografia
ritrae Puccini proprio davanti
a questo strumento, con il
figlio Antonio), e dallo splendido costume di scena per il II
atto, donato alla Fondazione
Puccini dalla celebre cantante
Maria Jeritza, a ricordo del
primo allestimento dell’opera
al Metropolitan Opera House
di New York, nel 1926. Il costume realizza il disegno studiato
da Brunelleschi per la prima
assoluta, poi sostituito da
quello di Caramba.
Si possono infine ammirare
alcuni bei quadri, come i pregevoli ritratti di Giacomo
Puccini senior e di sua moglie
Angela Piccinini, eseguiti da
un importante pittore lucchese, Giovanni Domenico
Lombardi detto “L’omino”, in
occasione delle loro nozze;
come il ritratto di Antonio
Puccini, probabilmente una
copia d’epoca dell’originale
custodito presso il Civico
Museo Bibliografico Musicale
di Bologna; od anche lo
Stemma della famiglia, che il
compositore non era disposto
a lasciare in casa di altri parenti. E’ esposto, infine, lo stupendo ritratto di Giacomo Puccini,
opera di Leonetto Cappiello,
con dedica “A Giacomo Puccini
con grande ammirazione e vera
amicizia” e data “Paris, 11 gennaio 1899”.
Mi. Mar.
Il
Turandot
Giornale dei Grandi Eventi
11
Le origini dell’opera
Turandot, dalla favola di Gozzi
all’opera di Puccini
L
a prima della Turandot
pucciniana risale al 25
aprile 1926. Siamo a
Milano, al Teatro alla Scala,
l’autore è morto da quasi
due anni senza riuscire a terminare l’opera; altri porteranno a compimento la sua
ultima fatica. Ma come è
arrivata in Europa la storia
della gelida principessa di
Cina che ha affascinato
Puccini? I suoi natali sul
continente risalgono al
veneziano Carlo Gozzi
(1720-1806). Figlio di un’aristocratica famiglia in gravi
difficoltà economiche fu il
fondatore, insieme con il fratello Gasparo, di una delle
istituzioni più conservatrici
del Settecento italiano:
l’Accademia dei Granelleschi
di Venezia. Le sue posizioni
conservatrici lo videro contrapporsi al pensiero illuminista e alle scelte artistiche
dei contemporanei Goldoni
e Chiari, innovatori importanti della Commedia
dell’Arte e spesso portatori
sulla scena anche di argomenti realistici d’ambientazione popolare e borghese.
Nel 1762 Gozzi scrisse la
favola teatrale di Turandot
traendone l’argomento fiabesco dal ciclo persiano
delle Mille e una notte e più
precisamente da La storia del
principe Calaf e della principessa di Cina. In questa prima
trasposizione occidentale,
coerentemente all’epoca storica in cui essa è prodotta,
troviamo accanto ai personaggi principali anche la
presenza delle più importanti maschere italiane:
Tartaglia, Pantalone e
Truffaldino. Il lavoro gozziano è un continuo alternarsi
di passione e gioco sospesi
fra realtà e irrealtà, atmosfera quotidiana e fantasia esotica. Probabilmente le
maschere avevano il compito di creare un legame tra il
pubblico veneziano e
l’Oriente fittizio rappresentato sulla scena.
Saranno proprio quelle
Puccini nel 1923 in una delle ultime immagini
atmosfere esotiche, evocatrici di mondi lontani, ad affascinare Puccini.
Nel passaggio dalla favola
all’opera il compositore fu
però chiamato a risolvere
più di un problema. Ad
esempio, la presenza delle
maschere, nel momento storico in cui compone Puccini,
ha perso la sua valenza.
Vanno quindi trasformate
nel contrario di ciò che rappresentavano per Gozzi:
non un ponte tra Occidente
e Oriente ma un elemento
propriamente
cinese.
Nascono così i tre dignitari
di corte, dal nome un po’
faceto Ping, Pong, Pang,
modellati sul genere dei fools
shakesperiani, che assolvono alla funzione di commento ironico e disincantato, a volte cinico, della realtà
che li circonda.
Inoltre perché l’intera struttura reggesse, Puccini fu
costretto a concentrarsi sulle
linee essenziali della vicenda e a trascurare gli intrecci
secondari della fiaba. La
crudeltà di Turandot dovette
quindi essere spiegata e
riequilibrata. Fu necessario
trasformare la Principessa
da esecutrice tragica di un
destino di vendetta, (quello
che si rifà alla violenza subita dalla sua antenata Lo-uling), in un personaggio
capace di esprimere un sentimento psicologicamente
più sfaccettato, come quello
della paura del maschio
dominatore. Turandot non è
infatti la vittima di un trauma ancestrale, da lei usato
come pretesto, bensì una
donna che vuole fare di se
stessa un monumento di
virtù. Fuggire l’uomo vuol
dire conservare la purezza.
Ignorare il sesso, la cui conoscenza porta alla perdita
dell’innocenza, è certamente
un metodo tra i più efficaci
per evitare il confronto con
l’umanità maschile. In virtù
di una simile necessità
Puccini e i suoi librettisti
Carlo Gozzi
introdussero il personaggio
della sciava Liù che funziona da elemento patetico e
permette, con il suo suicidio d’amore, lo “sgelamento” di Turandot. La soluzione degli enigmi da parte di
Calaf e la morte della schiava fanno così convergere
l’apparato simbolico della
vicenda verso l’inevitabile
discesa dell’algida principessa al livello degli uomini e verso il consueto lieto
fine, per quanto amaro,
delle favole.
L’umanizzazione di Turandot è compiuta.
E’ pur vero che Puccini
morì subito dopo aver
scritto il suicidio di Liù e
che il trionfante finale con
la principessa innamorata è
opera di Alfano. In sordina
possiamo legittimamente
domandarci se il Maestro,
avendone avuta la possibilità, avrebbe scelto lo stesso
epilogo.
Maria Elena Latini
Le Opere di Giacomo Puccini
e le loro prime esecuzioni
Le Villi (31.5.1884 Teatro dal Verme, Milano)
Le Villi [rev] (26.12.1884 Teatro Regio, Torino)
Edgar (21.4.1889 Teatro alla Scala, Milano)
Edgar [rev] (28.2.1892 Teatro Communale, Ferrara)
Manon Lescaut (1.2.1893 Teatro Regio, Torino)
La bohème (1.2.1896 Teatro Regio, Torino)
Tosca (14.1.1900 Teatro Costanzi, Roma)
Madama Butterfly (17.2.1904 Teatro alla Scala, Milano)
Madama Butterfly [rev] (28.5.1904 Teatro Grande, Brescia)
Edgar [rev 2] (8.7.1905 Teatro Colón, Buenos Aires)
Madama Butterfly [rev 2] (10.7.1905 Covent Garden,
Londra)
Madama Butterfly [rev 3] (28.12.1905 Opéra Comique,
Parigi)
La fanciulla del West (10.12.1910 Metropolitan Opera,
New York)
La rondine (27.3.1917 Opéra, Monte Carlo)
Il trittico: (Il tabarro - Suor Angelica - Gianni Schicchi)
(14.12.1918 Metropolitan Opera, New York)
Turandot (25.4.1926 Teatro alla Scala, Milano)
Turandot
12
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Le due versioni del finale postumo dell’opera
L
L’ingrato compito di Franco Alfano:
a sera del 25
aprile 1926 va
in scena
al
Teatro alla Scala di
Milano la prima rappresentazione assoluta di Turandot di
Giacomo
Puccini.
Appena conclusa la
scena dello straziante corteo funebre per
Liù, la musica si
interrompe e Arturo
Toscanini, dal podio,
con una voce resa
incerta dall’emozione, si rivolge al pub- Franco Alfano
blico trepidante:
«Qui finisce l’opera,
Dopo qualche istante di
perché a questo punto il stupore, gli spettatori
maestro è morto. La morte prorompono in fragoin questo caso è stata più rosi applausi, gridando
forte dell’arte».
«Viva Puccini!».
C
Toscanini
aveva
deciso
per
la
“prima”come
volontà espressagli
da Puccini - di onorare in questo modo
la memoria del compositore, terminando l’esecuzione nel
punto esatto in cui la
mano del “Lucchese” si era fermata. (Il compositore
era morto in seguito
a
complicazioni
post-operatorie nel
1924 a Bruxelles,
dove si era recato
per curare un cancro
all’esofago).
Peraltro,
lo
stesso
Toscanini era stato,
insieme ai parenti del
Proposta per un finale
Uccidete Calaf!
i ha provato subito dopo la
morte di Puccini, Franco
Alfano, ci ha provato recentemente Luciano Berio. Ma nell’opera
degli enigmi, l’enigma centrale, quello
dell’epilogo a lieto fine con la gelida
Turandot che si scioglie per Calaf,
rimane a tutt’oggi irrisolto.
Il trionfo dell’amore, il mutamento
della principessa di ghiaccio, per
quanto lo si rallenti (e Berio ha inserito un breve interludio strumentale,
quasi a voler concedere qualche minuto in più alla donna per la metamorfosi) rimane improvviso e inaspettato.
Certo, la trasformazione repentina di
Turandot era già in Gozzi, ma lì l’atmosfera fiabesca la giustificava.
In Puccini la dimensione favolistica è
appena evocata da Ping,Pong e Pang;
nel resto si è in un dramma alquanto
forte e vibrante che sfocia in commedia a lieto fine con qualche difficoltà.
E così, dopo l’interruzione di
Toscanini all’esecuzione dell’opera
alla “prima assoluta” del 1926 al
momento della morte di Liù dove l’aveva lasciata Puccini (così diversa
dalla gozziana Adelma), dopo il finale
(anzi il doppio finale: quello tagliato e
quello intero) di Alfano, dopo l’ultima
fatica di Berio, si potrebbe suggerire
un ulteriore finale a sorpresa: la morte
di Calaf.
Calaf, in effetti, merita di morire. Egli,
infatti, è - si badi bene - molto più crudele di Turandot. La Principessa fa
decapitare i suoi spasimanti, ma non li
conosce neppure. Ella mantiene un
atteggiamento distaccato, li invita
anche a desistere prima di leggere i
fatidici tre enigmi. Se poi, volontariamente ed incoscientemente, quelli si
lanciano nel “quiz”, la responsabilità è
anche e soprattutto loro.
Calaf, invece, getta allo sbaraglio il
povero padre e la deliziosa Liù per un
semplice capriccio. Guarda Liù che si
suicida per salvarlo e non muove un
dito. Manda in giro il padre cieco per
il mondo senza alcuna pietà. Di quale
umanità, dunque, è capace?
Dalla morte di Calaf, Turandot avrebbe tutto da guadagnare. Manterrebbe
la propria coerenza, dimostrando fino
in fondo la propria crudeltà, giocando
uno splendido tranello al suo spasimante e battendolo dopo averlo blandito e sedotto. Una gran donna.
«O Padre Augusto… ora conosco il
nome dello straniero.
Il suo nome… è Calaf!»
Uccidete Calaf. Avanti un altro!
Roberto Iovino
musicista e
alla
Casa
Ricordi, fra
coloro che
avevano
fortemente
voluto che
Tu r a n d o t
v e n i s s e
completata
da un altro
compositore. Infatti,
sebbene
nella musica
strumentale
un
lavoro
incompiuto
possa esercitare
un
indiscutibile
fascino
e Giacomo Puccini nel 1924
mantenere
comunque inalterato il (1921), non sarebbero
suo impatto comunica- riuscite a procurargli.
tivo, nel teatro musica- Compositore di rilievo,
le, soprattutto a partire artista esuberante ed
da quello tardo otto- entusiasta, Alfano si
centesco, una grave era formato sulle orme
mutilazione come la di Puccini, del quale
mancanza del finale era anche divenuto
poteva mettere in seria amico personale. Era
discussione la fruibilità anch’egli un compositore legato alla Casa
di un’intera opera.
Lasciare in sospeso il Ricordi e si era affercorso dell’azione di mato con discreto sucavrebbe, cesso qualche anno
Turandot,
però, fatto traballare le prima con l’opera La
colonne portanti dell’in- Leggenda di Sakuntala,
tera struttura musicale e anch’essa di ambientazione orientale, che tutdrammatica dell’opera.
I primi compositori che tavia il pubblico stava
vennero contattati furo- già dimenticando. I
no Riccardo Zandonai e committenti del lavoro
Pietro Mascagni, i quali pensarono che l’indiaperò declinarono l’of- na Sakuntala sarebbe
potuta efficacemente
ferta.
diventare sorella della
cinese Turandot.
La scelta cadde su
Puccini aveva portato
Alfano
con sé, nella clinica di
Fu invece il composito- Bruxelles dove si dovere napoletano Franco va operare, 36 fogli
Alfano, allora cinquan- pentagrammati contetenne, che, seppure nenti gli appunti per il
dopo molte perplessità, finale di Turandot, a cui
accettò il gravoso com- contava di lavorare
pito,
che pure gli durante la convalescenavrebbe dato quella za. Quando Alfano li
duratura fama che le prese in esame, si trovò
sue altre opere, come di fronte un materiale
Resurrezione (1904) o La confuso, pieno di canleggenda di Sakuntala cellature, tagli e som-
Il
Turandot
Giornale dei Grandi Eventi
13
finire Turandot
marie, quasi incomprensibili, annotazioni
come «qui trovare la
melodia tipica vaga
insolita» oppure «Poi
Tristano…».
Quest’ultima frase è
stata variamente interpretata: secondo Mosco
Carner, grande biografo di Puccini, egli
avrebbe voluto inserire
in quel punto un intermezzo orchestrale, che
avrebbe rievocato la
magica atmosfera dell’opera wagneriana nel
momento del bacio di
Calaf.
Secondo Teodoro Celli,
invece, il compositore
Figurino prima di Turandot
avrebbe voluto ritornare al tema inserito nel
concertato finale del
primo atto, che sembra
già ispirato al tema del
mare nel Tristano.
Delle 375 battute scritte
da Alfano, appena 97
sono quelle originali di
Puccini, desunte dalla
sua bozza, e precisa-
mente: l’inizio del
duetto Principessa di
gelo fino all’aria Del
primo pianto, di cui il
materiale tematico era
solo accennato. Gli
stessi cenni sommari
riguardavano il tema
degli ottoni che introducono il secondo quadro e la ripresa del
tema del Nessun dorma
nel coro finale.
Le due versioni
Il lavoro di Alfano fu
completato e consegnato nel gennaio 1926 e
Ricordi ne stampò uno
spartito per canto e pianoforte. Questa edizio-
ne rappresenta una
vera rarità, di cui esistono solo 12 copie in
tutto il mondo. Infatti
venne ben presto ritirata dal mercato: Toscanini la rifiutò con la
motivazione che in essa
vi fosse «troppo Alfano e
poco Puccini».
Le discussioni e i malu-
Bozzetto del secondo atto per la prima rappresentazione di Turandot
mori non mancarono,
ma alla fine la volontà
dello scorbutico ed
inflessibile direttore d’orchestra prevalse e 107 battute
di Alfano vennero
tagliate impietosamente, conducendo
alla stesura di una
seconda versione
della partitura.
Le parti tagliate
non erano state
scritte a caso da
Alfano ed erano
funzionali a rendere con gradualità e
penetranza psicologica il progressivo
mutamento interiore di Turandot,
come per i fondamentali momenti
successivi al bacio
di Calaf o alla rivelazione del nome
del principe.
Toscanini, tuttavia,
da grande conoscitore della vocalità,
era anche consapevole che l’impegno
richiesto ai cantanti
nell’esecuzione della
prima versione sarebbe
stato eccessivo. Fu questa, probabilmente, la
motivazione della sua
impuntatura.
La prima versione di
Alfano fu riesumata
solo nel 1982, in forma
d’oratorio, alla Barbican Hall di Londra,
dopo il ritrovamento
della partitura negli
archivi Ricordi e da
allora è stata ripresa in
diverse occasioni, l’ultima delle quali al
Teatro del Giglio di
Lucca, nel 2003.
Alfano ebbe la sfortuna
di nascere in un
momento di crisi del
melodramma,
dove,
per giunta, giganteggiava la figura di
Puccini. Il suo carattere
sanguigno e indipendente non gli consenti-
La prima edizione di Turandot
va di inseguire i gusti
del pubblico ed egli
pertanto
di
cercò
imporre una sua idea
di teatro musicale.
Morì quasi dimenticato
dalla critica, ricordato
solo per il suo lavoro di
completamento
di
Turandot, che, pur
essendo stato compiuto
con scrupolo e sensibilità, venne bistrattato
da direttori d’orchestra
e critici musicali.
A. C.
Turandot
14
F
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Franco Alfano, autore del finale postumo
Storia di un compositore incompreso
ranco Alfano visse in un momento storico
dominato dalla confusione - si pensi ai due
conflitti mondiali - che non lasciò molto
spazio alle sue aspirazioni di operista, ostacolate
dalla difficoltà di trovare libretti corposi, con
intrecci affascinanti e coinvolgenti.
Il compositore nasce a Napoli l’ 8 Marzo 1875.
Studia al Conservatorio S. Pietro a Maiella e si perfeziona poi in composizione a Lipsia. Nel 1896,
alla ricerca di un ambiente culturalmente più stimolante, si trasferisce a Berlino dove la vita musicale si nutre di interessanti scoperte stilistiche.
Nel 1899 è a Parigi per mettere in scena due balletti presso le «Folies Bergères» e dove comincia a
scrivere l’opera Resurrezione, portata poi a termine tra Mosca e Napoli.
Gli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, dopo la morte di
Wagner nel 1883, musicalmente erano stati
espressione di un forte scossone stilistico di cui
Alfano è testimone. Egli, insieme con la sua generazione, sentì la necessità di un rinnovamento nel
campo del teatro lirico ormai da tempo sclerotizzato, nonché l’esigenza di spaziare anche nel
mondo della musica sinfonico-strumentale.
Resurrezione, il suo più valido successo, è un lavoro che rivela una grande vena teatrale oltre ad
una naturale forza di linguaggio, entrambe preferite all’uso di melodie facilmente memorizzabili.
Le pagine della sua musica risultano quindi
molto dense sinfonicamente e spesso di difficile
comprensione. Il principe Zilah, sua seconda
opera, è un esempio di tale difficoltà d’ascolto. Si
tratta di un lavoro interessante dal punto di vista
musicale, affiancato però da un libretto mediocre.
Nonostante gli insuccessi, Alfano continuò a
lavorare freneticamente fra le due guerre.
Franco Alfano
Ragguardevole la sua produzione di musica da
camera: sonate per violino e per violoncello e il
Quartetto n° 2, ricco di contenuti poetici e di
sonorità dolci e mediterranee.
La sua opera maggiore è La Leggenda di Sakùntala,
di cui scrive personalmente il libretto, in prosa e
non in versi, tratta dal dramma di Kalidasa:
Abhijnanasakuntala risalente al 400 a.C. circa. .
L’azione, ambientata nell’India primordiale.
Testo e musica sono nell’opera fortemente compenetrati e l’orchestrazione raggiunge uno sfarzo
lussureggiante. La prima rappresentazione è al
Teatro Comunale di Bologna, il 10 dicembre del
1921, ma la partitura originale andò distrutta
durante la seconda Guerra mondiale. Sarà Alfano
stesso a strumentarla nuovamente, sulla base
della riduzione per canto e pianoforte, riproponendola nel 1952 al Teatro dell’Opera di Roma.
Intraprende anche la carriera di insegnante:
docente di composizione e direttore del
Conservatorio di Bologna tra il 1916 e il 1923,
diventerà poi direttore del Liceo Musicale di
Torino, carica che manterrà fino al 1939.
Tra le tappe più importanti della sua vita c’è,
paradossalmente, proprio l’incontro con un grande libretto di cui è chiamato a musicare il finale.
Nel 1925 infatti, su richiesta di Toscanini, la famiglia Puccini e l’editore Ricordi lo invitano a terminare la Turandot, capolavoro incompiuto di
Puccini, morto l’anno precedente. Si tratta di un
lavoro delicato: musicologi e musicisti hanno gli
occhi puntati sul risultato.
A questa parentesi seguono, tra il 1940 e il 1942,
la Sovrintendenza al Teatro Massimo di Palermo
e la cattedra di Studi per il teatro lirico al
Conservatorio di Roma. Ultimo incarico della
carriera didattica è la direzione del Liceo
Musicale di Pesaro dal 1947 al 1950.
Il suo ultimo lavoro è il Cyrano de Bergerac del
1936. Critica e pubblico ne apprezzano la ritrovata sobrietà dell’orchestra.
Franco Alfano muore a San Remo, quasi dimenticato, il 27 Ottobre 1957.
Ma. E. La.
Carlo Gozzi, autore della fiaba Turandot
Un aristocratico sedotto dal fiabesco
Tradizionalista e antilluminista in filosofia ed in
politica, purista e classicista in estetica, questa la
sintesi del carattere aristocratico e conservatore,
a tratti sprezzante, di Carlo Gozzi.
Amante del fantastico, nelle
sue Fiabe scritte tra il 1761 e
il 1765, Gozzi risuscita nelle
sue opere teatrali le maschere della commedia dell’arte,
trasportandole nell’atmosfera dei racconti per bambini.
Vissuto a Venezia tra il 1720
e il 1806, proveniva da una
nobile famiglia decaduta e
per tutta la vita dovette
combattere con le difficoltà
economiche.
Nonostante
l’intensa e produttiva attività di letterato, Gozzi si rifiutò sempre di trarne guadagno per una sorta di orgoglio aristocratico.
Nel 1747 fondò con il fratello Gasparo
l’Accademia dei Granelleschi, tra le istituzioni letterarie più conservatrici della sua epoca. Fu
aspro critico di Goldoni, al quale rimproverava
un difetto profondo di sensibilità morale: conte-
stava nelle opere del suo avversario “virtù e
vizi mal collocati, sovente il vizio trionfatore”, la mancanza di idealità poetica e l’insufficiente disciplina stilistica. Considerava
Goldoni come “uno
scrittore, levatolo dal
dialetto veneto del
volgo, nel quale era dottissimo, da porre nel
catalogo dei più goffi,
bassi e scorretti scrittori
del nostro idioma”.
La vena poetica che
anima le Fiabe, rievoca
nostalgicamente
un
mondo rarefatto di semplice grazia e gentilezza,
infantile e popolare, cui
l’occhio di Gozzi si
rivolgeva con sguardo
benevolo e ironico e con
il senso di rimpianto
tipico del “laudator temporis acti”.
Questi sentimenti resero l’opera di Gozzi particolarmente gradita all’Europa dell’età romantica e
le Fiabe incontrarono l’apprezzamento di Goethe,
Schiller, Schlegel e Madame de Staël, fino a
Wagner e ai De Goncourt. In Italia, tuttavia, il suo
successo fu immediato quanto effimero.
Tardiva, seppur fortunata, fu la ripresa di alcune
delle sue Fiabe più riuscite da parte del teatro
musicale: pensiamo a L’amore delle tre melarance,
rielaborata da Mejerchol’d per l’omonima opera
di Profi’ev nel 1921, Turandot, ripresa da Busoni
(1917) e Puccini (1926) .
Le ambientazioni magiche ed esotiche popolate
di maghi e principesse offrivano, comprensibilmente, uno spazio ricco di possibilità per il melodramma. E’ pur vero che gli argomenti fiabeschi
delle opere di Gozzi, tratti dalle Mille e una notte e
dal Pentamerone del Basile, si appesantiscono a
volte di ragioni satiriche e di spunti polemici, che
fanno decadere sovente la fiaba dal poetico
mondo irreale e fantastico in un pedantesco
allegorismo.
Un cospicuo gruppo di carte in gran parte inedite, appartenenti a Gasparo e Carlo Gozzi,
individuato di recente da Fabio Soldini, noto
studioso gozziano, è stato acquistato di recente dalla Biblioteca Nazionale Marciana di
Venezia. Il materiale è in corso di riordino ed
inventario e sarà quindi disponibile per la consultazione solo tra alcuni mesi.
A. C.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Dal mondo della musica
15
Novità in libreria nel 250° anniversario della nascita (3)
Mozart tra pubblico e privato,
tra storia e fantasia
C
ontinua, con questa terza puntata,
l'analisi dei libri su
Wolfgang
Amadeus
Mozart che, in questo
anno del suo 250° anniversario della nascita,
affollano le librerie. Le
puntate precedenti sono
state pubblicate su Il
Giornale dei Grandi
Eventi n° 28 /2006 (La
Leggenda di Sakùntala)
e n° 38 /2006 (Il Turco in
Italia).
Fino
agli
anni
Cinquanta la lirica italiana era di tutti: per
strada in molti canticchiavano le arie più
celebri dei melodrammi, che nei salotti venivano suonate con il pianoforte, mentre i giovani leggevano i libretti
deliziandosi dalle trame
avvincenti e sanguigne.
Le nonne raccontavano
ai nipoti le favole tratte
dalle trame di Puccini…
spesso omettendo la
conclusione a favore di
un lieto fine. Così la
musica si divulgava e la
lirica era davvero la
colonna sonora del Bel
Paese.
Oggi purtroppo avviene
il contrario: basta la
parola melomane con
cui si definisce l'appassionato dell'opera per
far pensare a qualcosa
di struggente, di passato e malinconico. E
mentre le platee diventano nidi per pochi
appassionati, luoghi di
nicchia, o raccoglitori di
turisti, bisogna trovare
nuovi mezzi per "sensibilizzare il grande pubblico", allontanato da
prezzi proibitivi e da
distrazioni più facili.
Ecco allora le spettacolari manifestazioni di
piazza, gli eventi luminescenti e pretenziosi
che richiamano la gran
folla. Ecco biografie e
romanzi sui grandi personaggi del passato,
costruiti seguendo il
gusto dettato dalle telenovele dell'ora di pranzo; ed ecco i libri indagare su scandali, amanti, disastri finanziari che
hanno coinvolto i grandi della musica.
I
l primo romanzo
pubblicato da Rita
Charbonnier
ha
come protagonista la
sorella di Mozart, Maria
Anna Walburga Ignatis
Mozart, piccolo genio
musicale che in coppia
con il fratello Amadeus
si esibì presso le corti
europee e in giovinezza
si cimentò anche nella
composizione. Il suo
rapporto con il fratello,
complice ed affettuoso
in infanzia, si raffreddò
negli anni, fino a spegnersi del tutto. Eppure
Nannerl può essere considerata uno dei migliori "agenti" del grande
compositore: fu lei,
infatti, che dopo la sua
morte collaborò con biografi, autenticò le composizioni e sorvegliò la
loro pubblicazione. Il
romanzo è un'opera di
finzione, tuttavia si ispira alla realtà storica: ne
risulta una figura di
donna che da prodigio
musicale si trasforma in
un'eroina travolta dalle
passioni che lotta per
conciliare gli aspetti
della vita, e soprattutto
l'amore, con uno straordinario talento musicale. (R. CHARBONNIER, La
sorella
di
Mozart,
Milano,
Corbaccio,
2006, pp. 329, isbn 887972-759-1, € 16).
vamente attraverso l'analisi del processo creativo che la personalità del
compositore emerge in
maniera seria e problematica con tutti i suoi
misteri. Il volume è
completato da una ricca
cronologia e dagli indici
delle opere e dei nomi.
(W .
HILDESHEIMER,
Mozart, Milano, Bur,
2006, pp. 433, isbn 8817-00939-3, € 9,80).
O
A
ltre alle novità,
presentate nei
due numeri precedenti del Giornale dei
Grandi Eventi, nelle
librerie sono esposti
titoli di invitanti ristampe e vecchie edizioni.
Un classico della bibliografia è Mozart, la stesura rivista ed ampliata di
una conferenza tenuta
nel 1956 da Wolfgang
Hildesheimer in occasione del bicentenario
mozartiano, pubblicata
in tedesco nel 1977 e
quest'anno ristampata
per la prima volta da
Rizzoli in edizione economica, con la traduzione
di
Donata
Schwendimann Berra.
Come a voler spurgare
il nome del nostro eroe
da tutte le superfetazioni, in primo piano torna
la musica. Ed è esclusi-
ncora precedente
è Il Don Giovanni
di Mozart, scritto
tra Salisburgo e la Francia
negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale e pubblicato la prima
volta in francese nel 1942.
Con rispetto e quasi soggezione per uno dei più
celebri personaggi scaturiti dalla fantasia mozartiana, l'autore Pierre-Jean
Jouve redige un'analisi
lucida, ironica e spietata
dell'opera e dei suoi personaggi. Il saggio, tradotto
da Tea Turolla per i tipi di
Adelphi, è diviso in capitoli che ricalcano la struttura del Don Giovanni e
permettono di seguirne
passo passo la musica ed il
libretto. (P.-J. JOUVE, Il
Don Giovanni di Mozart,
Milano, Adelphi, 2001,
pp. 187, isbn 88-459-15999, € 10,33).
I
nfine, anche in questa occasione segnaliamo un volume
che riporta documenti
d'epoca: si tratta dell'edizione italiana curata
da Giorgio Pugliaro
delle pagine biografiche
pubblicate dopo la
morte di Mozart da
Friedrich
von
Schlichtegroll (1791) e
Franz
Niemetschek
(1797). Con la raccolta
di racconti e testimonianze di prima mano i
due professori, ammiratori e conoscenti del
musicista, ebbero il
merito di affidare ai
posteri le fonti primarie
per tutta la saggistica
posteriore. Fonti ancor
più importanti perché
scritte poco dopo un
momento – quello della
malattia e della morte –
in cui la fama del
Salisburghese presso il
pubblico
viennese
aveva raggiunto il
punto più basso della
parabola discendente
da cui si risolleverà solo
alcuni decenni più
tardi. (F. NIEMETSCHEK,
F. VON SCHLICHTEGROLL,
Mozart, a cura di G.
Torino,
P UGLIARO ,
E.D.T., 1990, pp. 107+17
illustrazioni b/n, isbn
88-7063-082-X, € 10,50).
E.C.A.
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