Anno XI - Numero 53 - 29 luglio 2006 L’Intervista Parla il direttore Alain Lombard A Pag 2 La Storia dell’Opera Nata in un ristorante e rimasta incompiuta A Pag 6 Le Terme di Caracalla Alla scoperta del complesso termale insuperato per bellezza ed eleganza A Pag 8 -9 Il Finale postumo Le due versioni di Franco Alfano A pag. 12 e 13 TURANDOT di Giacomo Puccini Turandot 2 Il Parla il direttore d’orchestra Alain Lombard In Turandot alcune delle pagine più belle della musica di Puccini S olo dopo più di un anno, torna a confrontarsi con Turandot il direttore d’orchestra francese Alain Lombard, che già quest’opera ha diretto al Teatro Costanzi dal 28 aprile all’11 maggio dello scorso anno. In accordo con il direttore artistico Mauro Trombetta, ha voluto ancora una volta riproporre l’opera con il secondo finale di Franco Alfano, ovvero quello più corto. Infatti, come risaputo, Turandot rimase incompiuta alla morte di Puccini avvenuta a Bruxelles sabato 29 novembre 1924. A terminarla fu chiamato, appunto Franco Alfano, che realizzò un primo finale, poi ridimensionato per andare incontro alla vocalità dei cantanti ed alle pressioni di Toscanini. «E’ un’opera verso la quale ho sempre un grande affetto», dice il maestro Lombard. L’ho diretta moltissime volte ed ho anche realizzato una incisione con Montserrat Caballe, Mirella Freni e Josè Carreras, che ha riscosso un grandissimo successo, che si è guadagnata moltissimi premi». «Turandot è un’opera molto, molto difficile. Si deve avere una orchestra grande e solida. Tante volte ho lavorato su questo pezzo e sempre ho pensato a ciò che Puccini diceva. Voleva fare un’opera importantissima, che rimanesse un capolavoro assoluto. Ma la cosa che mi stupisce è che essa arriva dopo il Trittico (1918), che a mio avviso è di per se un capolavoro assoluto. Puccini aveva, quindi, già toccato il tema dell’orientalismo, tanto in voga all’epoca, con Madama Butterfly nel 1904 e quello d’ambientazione americana con La fanciulla del West (1910), ma egli voleva ritornare su ambientazioni “esotiche”». «E’ un’opera difficile da eseguire per l’orchestra – continua il Maestro Lombard - perché è una partitura estremamente raffinata, con l’uso di strumenti inconsueti, dal gong in poi. Come al solito Puccini ha realizzato una partitura molto precisa, con tutto appuntato, dai ~ ~ La Copertina ~ ~ La copertina della prima edizione del libretto di Turandot disegnata da Giulio Cisari. Milano, Edizioni Ricordi, 1926 Il G iornale dei G randi Eventi Direttore responsabile Andrea Marini Direzione Redazione ed Amministrazione Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma e-mail: [email protected] Editore A. M. Stampa Tipografica Renzo Palozzi Via Vecchia di Grottaferrata, 4 00047 Marino (Roma) Registrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore Ko dak Le fotografie sono realizzate in digitale con fotocamera Kodak DC290 tempi ad alcune note esplicative a margine. La musica, in alcuni punti – come con le tre maschere di Ping, Pong e Pang - è vicinissima a Gianni Schicchi. Personalmente adoro le maschere, soprattutto nel brano all’inizio del 2° atto e la considero una delle musiche più belle che Puccini abbia scritto». Al Teatro dell’Opera di Roma Tutandot fu rappresentata per la prima volta il 29 aprile 1926, appena quattro giorni dopo la prima rappresentazione assoluta del Teatro alla Scala del 25 aprile, con un cast formato da Bianca Scacciati, Rosina Torri e Francesco Merli, diretti dal maestro Edoardo Vitale. «Per quanto riguarda i finali, come detto si è deciso di riproporre il secondo finale di Alfano. «La prima versione del finale sarebbe stata troppo lunga e meno bella. Io quella versione l’ho eseguita tre o quattro volte, ma continuo a preferire la seconda versione, meno lunga. Questa seconda versione la presentiamo in versione integrale, senza alcun taglio, come ad esempio quello tradizionale delle maschere all’inizio del secondo atto». Di Turandot, oltre quelli di Alfano, esiste anche un altro finale, sempre commissionato da Casa Ricordi e realizzato da Luciano Berio, andato in scena a Los Angeles il 25 maggio del 2002. «Il finale di Berio lo conosco bene, l’ho studiato perché ad un certo punto ho pensato di cimentarmici. E’ magnificamente fatto, ma è molto differente dal lavoro e dallo stile di Puccini. Con questa regia, molto classica, non sarebbe andato bene». A Caracalla il Maestro Lombard ha esordito negli anni ‘80 con Aida. L’ultima volta in questa cornice è salito sul podio due anni fa per dirigere Il Trovatore di Verdi. «L’acustica qui a Caracalla è sempre un problema, perché l’ambiente è vasto, dispersivo, soprattutto con questo nuovo palcoscenico non “avvolto”, come quello di molti anni fa, dai ruderi dalle torri del Caldarium. L’acustica non è quindi del tutto naturale, ma devo dire che negli ultimi anni con l’amplificazione si sono fatti miracoli anche qui, in mezzo a questo spazio così aperto». Il Maestro Lombard vuole aggiungere una cosa. «Si, devo dire che sono rimasto molto colpito dal regista tedesco Henning Brock e dallo splendido lavoro che ha fatto qui con Giornale dei Grandi Eventi Le Repliche Martedì 1 agosto, ore Giovedì 3 agosto, ore Sabato 5 agosto, ore Domenica 6 agosto, ore Martedì 8 agosto, ore Mercoledì 9 agosto, ore 21,00 21,00 21,00 21,00 21,00 21,00 questo nuovo allestimento. Non lo conoscevo personalmente, anche se ne avevo sentito parlare, ma mi ha molto impressionato vederlo lavorare. Ha un talento enorme. Si vede che gli studi musicali – si è diplomato in clarinetto, n.d.r. – gli sono stati utili e che ha anche una grande esperienza con le opere liriche, anche se si è formato al Piccolo Teatro di Milano come assistente di Giorgio Strehler». Andrea Marini La Stagione 2006 al Teatro Costanzi 14 - 22 Novembre TRISTAN UND ISOLDE di Richard Wagner Gianluigi Gelmetti Henning Brockhause David Rendall, Janice Baird, Marianne Cornetti Direttore Regia Interpreti 7 - 14 Novembre Direttore Interpreti ~~ CARMEN di Georges Bizet Alain Lombard Rinat Shaham, Vincenzo La Scola, Giorgio Surian, Anna Laura Longo La Locandina ~ ~ Terme di Caracalla, 29 luglio - 9 agosto 2006 TURANDOT Dramma lirico in tre atti e cinque quadri Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni Musica di Giacomo Puccini Prima rappresentazione: Milano, Teatro Alla Scala 25 aprile 1926 Maestro concertatore Alain Lombard eDirettore Maestrodel Coro Andrea Giorgi Regia Hanning Brockhaus Scene e Costumi Ezio Toffolutti Movimenti Coreografici Maria Cristina Madau Disegno Luci Alessandro Santini Personaggi / Interpreti Giovanna Casolla / Gabriele Maria Ronge (1, 3, 6, 9/8) Calaf (T) Marcello Giordani / Carlos Ventre (1, 3, 5, 9/8) Liù (S) Anna Laura Longo / Cristina Barbieri (1, 5, 8/8) Timur (B) Michail Ryssov Ping (Bar) Filippo Bettoschi / Armando Ariostini (6, 8, 9/8) Pong (T) Mario Bolognesi Pang (T) Aldo Orsolini Altoum (T) Max Renè Cosotti Mandarino (Bar) Alberto Noli Il Principe di Persia Aurelio Cicero / Pasquale Carlo Faillaci (5, 6/8) / Massimiliano Nardone (8, 9/8) Il clown Jean Mening Turandot (S) ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Nuovo Allestimento Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 3 Una nuova Turandot per Caracalla L’azione si svolge a Pekino (così è riportato nel libretto originale, n.d.r.), al tempo delle favole ATTO PRIMO La Trama Davanti alle mura e al palazzo imperiale di Pechino – Al tramonto, un Mandarino annuncia alla folla che il Principe di Persia, non avendo sciolto i tre enigmi proposti dalla bella principessa Turandot a tutti i principi che aspirano alla sua mano, sarà decapitato pubblicamente dal boia al sorgere della luna. La folla, eccitata, travolge un vecchio e la giovane Liù che per lui invoca subito soccorso. Un giovane accorre e riconosce nell’anziano il proprio padre Timur, Re tartaro spodestato. I due si abbracciano, ma il giovane Calaf lo prega di non pronunciare il suo nome, poiché ha paura dei regnanti cinesi, usurpatori del regno del padre. La schiava Liù è molto devota a Timur ed alla famiglia, in quanto un giorno Calaf nella reggia le sorrise. Intanto il boia Pu-Ti-Pao, affilando la lama, si prepara all’esecuzione del Principe di Persia. Ai primi chiarori lunari, su note lugubri, giunge il corteo che accompagna la vittima al supplizio. La folla, prima eccitata, si commuove per questo giovane ed invoca la grazia per il condannato. Nella pallida luce si presenta, glaciale, la principessa Turandot che impone di fare silenzio e con un gesto imperioso ordina al boia di giustiziare il Principe. Calaf è impressionato dalla magica bellezza della Principessa e decide di tentare la prova dei tre enigmi. Timur e Liù cercano di trattenerlo, ma lui si lancia verso il grande gong. Tre bizzarre figure lo fermano: si tratta dei ministri del Regno, Ping, Pong e Pang, i quali provano a dissuadere Calaf, descrivendo il rischio dell’impresa. Anche Timur, invocando la pietà filiale e la giovane Liù, disperata ed in lacrime per il proprio amore segreto, tentano di far ragionare Calaf, il quale, ormai in preda ad una sorta di delirio, percuote per tre volte il gong, invocando ogni volta Turandot, al cui nome Liù, Timur ed i tre ministri rispondono con «la morte!». ATTO SECONDO Calaf, sembra voler rinunciare, provocando lo scherno della Principessa, ma finalmente intuisce la risposta e dice felice: Turandot! Conquistando la vittoria. Turandot, ormai vinta ma non doma, si getta ai piedi del padre e lo supplica di non consegnarla allo straniero, ma per l’Imperatore la parola data è sacra. Turandot inveisce contro il Principe, dicendogli che così egli conquista una donna riluttante e piena d’odio. Calaf spiega che cerca una donna che lo ami e quindi la libera dall’impegno, proponendole a sua volta una nuova sfida: lui è pronto a morire se lei riuscirà prima dell’alba ad indovinare il suo nome. Il nuovo patto è accettato, mentre risuona solenne l’inno imperiale. In un padiglione - E’ notte. Ping, Pong e Pang, chiusi nella loro tenda ripassano il protocollo nuziale e quello funebre per essere pronti ad ogni evenienza. Si lamentano che, come Ministri, devono accompagnare all’esecuzione troppe sfortunate vittime. Preferirebbero vivere tranquilli in campagna. Ma quando il sole sorge, si avviano ad assistere all’ ulteriore supplizio. Il piazzale della reggia con una grande scala dove è posto il trono imperiale - Tutto è pronto per il rito degli enigmi. L’imperatore Altoum invita il Principe ignoto a rinunciare, ma Calaf rifiuta tre volte. Il Mandarino (sulla stessa musica dissonante del primo atto, n.d.r.) bandisce la prova, mentre appare Turandot. La Principessa avanza guardando negli occhi il nuovo pretendente e spiega le ragioni del suo comportamento: molti anni prima il suo Regno fu invaso dai tartari ed una sua antenata cadde preda di uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot ha giurato che mai si lascerà possedere da un uomo. La Principessa invita Calaf a rinunciare alla prova, ma egli non vuole desistere. Il primo enigma viene proposto e Calaf lo risolve senza tentennamenti: la speranza! Turandot scende la scala e si avvicina a lui per il secondo enigma. Calaf pensa a lungo, ma poi risponde: il sangue! La folla, sperando nel successo, esulta, ma Turandot la obbliga al silenzio e, minacciosa, presenta il terzo enigma. ATTO TERZO Nel giardino della reggia - E’ una notte gravida di attesa ed in lontananza gli araldi portano in giro l’ordine della Principessa: Questa notte nessun dorma in Pechino! Il nome del principe ignoto deve essere scoperto. Calaf è sveglio e pregusta il vittorioso bacio a Turandot, immaginandola liberata dal gelo dell’odio. Giungono i Ministri che, per paura delle ire di Turandot, offrono a Calaf donne bellissime, ricchezze e gloria in cambio del suo nome, ricevendone però un secco rifiuto. Intanto Timur e Liù, insanguinati e logori, vengono trascinati davanti ai tre Ministri: sono sospettati di conoscere il nome del principe, visto che sono stati notati parlare con lui. Giunge Turandot. Liù, per cercare di salvare Timur, dice che solo lei conosce il nome dello straniero, ma non lo rivelerà. Iniziano le torture, ma Liù resiste e continua a tacere. Turandot è incredula: cosa dà tanto coraggio e forza alla giovane schiava? Liù le risponde che è semplicemente l’amore. Turandot resta turbata, ma poi ordina ai Ministri di carpire il segreto ad ogni costo. Liù, conscia di non poter resistere, strappa il pugnale ad uno dei torturatori e si uccide, cadendo ai piedi dell’amato Calaf. Con Timur e Calaf che compiangono Liù morta, si avvia il mesto corteo funebre. (Fin qui l’opera che Puccini riuscì a portare a termine prima della morte, avvenuta a Bruxelles il 29 novembre 1924) ———————————(Finale realizzato da Franco Alfano, sugli appunti pucciniani) Uscita la folla, Turandot e Calaf rimangono soli. Calaf, con l’impeto della passione, bacia la principessa. Questa dapprima lo respinge, ma poi gli confessa il “brivido fatale” e l’odio da cui fu colta la prima volta che lo vide ed anche di essere orami travolta dalla passione. Ma, orgogliosa, lo supplica di non umiliarla e di andarsene senza svelare il proprio nome. L’ignoto principe le dice, però, di essere Calaf, figlio del re Timur. Davanti al Palazzo Imperiale - E’ giorno. Tutti i dignitari ed una gran folla sono davanti al trono dell’Imperatore. Squillano le trombe per annunciare l’arrivo di Turandot, che annuncia di conoscere il nome dello straniero: il suo nome è Amore! e, tra le grida di festa dei presenti, si abbandona nelle braccia di Calaf. Jack Kerouac C ROM A . U N G R A N D E V I A G G I O. Scopri il suo spazio interno, il più grande della categoria, affidati alla sua sicurezza certificata 5 stelle EuroNCAP, ascolta i motori Multijet da 200, 150 e 120 CV tutti con filtro AntiParticolato. Perché con Croma non è importante solo dove vai, ma come ci arrivi. www.fiat.it Tratto da Sulla strada di Jack Kerouac, Arnoldo Mondadori Editore Consumi: da 6,1 a 9,7 l/100 km (ciclo combinato). Emissioni: CO2 da 160 a 229 g/km. DOBBIAMO A N D A R E E NON FERMARCI F I N C H É N O N S I A M O A R R I VA T I . DOVE ANDIAMO? NON LO SO, MA DOBBIAMO A N D A R E . Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot Marcello Giordani e Carlos Ventre Calaf, il giovane principe pronto alla sfida S aranno i tenori Marcello Giordani (29 luglio, 6 e 9 agosto) e Carlos Ventre (1, 3, 5, 9 agosto) ad interpretare il giovane principe Calaf. Fin dall'esordio a Spoleto nel ruolo del Duca di Mantova nel Rigoletto, l’estensione straordinaria della sua voce ha aperto a Marcello Giordani le porte dei più grandi teatri del mondo. Nel 1988 ha debuttato alla Scala di Milano come Rodolfo in La Bohème, poi all’Arena di Verona di nuovo in Rigoletto e al Metropolitan di New York nel ruolo di Nemorino in Elisir d’amore. Più di recente ha cantato nella Turandot alla Scala di Milano, nella Tosca alla Staatsoper di Vienna, nella Gioconda alla Carnegie Hall di New York. Tra i suoi impegni futuri è prevista l’inaugurazione della stagione 2006/07 del Met di New York con una nuova produzione di Madama Butterfly. Carlos Ventre ha cominciato a studiare musica all’età di 15 anni, seguito da Gino Bechi e Magda Oliviero. Il suo debutto è avvenuto alla Marcello Giordani Scala di Milano nel ruolo del Duca di Mantova in Rigoletto sotto la direzione del Maestro Riccardo Muti. Qui è tornato per interpretare Ismaele nel Nabucco, per poi esibirsi nei ruoli di Rigoletto al Teatro dell’Opera di Roma, La Bohème e Madama Batterfly a Trieste, la Traviata a Colonia, il Rigoletto a Tokio, Pollione ad Amsterdam. Le sue migliori interpretazioni le ha regalate interpretando il repertorio di Verdi, l’ultimo in ordine temporale è il ruolo di Riccardo in Un Ballo in maschera presso il teatro Filarmonico di Verona. Anna Laura Longo e Cristina Barbieri I Liù, schiava fragile e forte soprano Anna Laura Longo (29 luglio, 3, 6, 9 agosto) e Cristina Barbieri (1, 5, 8 agosto) si divideranno il ruolo di Liù. Il soprano Anna Laura Longo, milanese, diplomata in pianoforte e tecnica vocale,è un'artista di fama nazionale e internazionale. In Italia si è esibita al Teatro Comunale di Cagliari in Grande Duchesse de Gerolstein e in Rigoletto, al Teatro dell’Opera di Roma in Le Nozze di Figaro, La Favorita e Il Barbiere di Siviglia, al Teatro San Carlo di Napoli in Orfeo ed Euridice e ancora al Teatro Verdi di Trieste dove è stata Susanna nelle Nozze di Figaro. All’estero, invece, ha interpretato Nedda nei Pagliacci a Toronto; l’Otello al Cairo Opera Hause e Così fan tutte presso lo Stadttheatter di Berna. Una delle qualità maggiormente riconosciute alla Longo è l’estrema versatilità espressiva che le permette di interpretare con uguale intensità i diversi repertori. Cristina Barbieri si è diplomata in liuteria e successivamente in canto presso il conservatorio G. Frescobaldi di Ferrara. Vincitrice di numerosi concorsi, nel 1991 ha interpretato Nina in La Nina pazza per amore di Paisiello al Festival di Montepulciano e l’anno dopo ha cantato nel Don Carlo di Verdi nel ruolo di Cristina Barbieri Tebaldo, alla Stagione inaugurale del Bicentenario della Fenice a Venezia. Nel 1993 ha debuttato nel ruolo di Mimì per La Boheme di Puccini all’Opera Company di Philadelphia. Nella stagione estiva 1993-94 ha partecipato al Festival dei Due mondi di Spoleto interpretando il ruolo di Lauretta nel Gianni Schicchi di Puccini. Ha collaborato, infine, con diverse orchestre tra cui l’Orchestra della Rai Italiana, l’Orchestra Filarmonica Italiana e la Welsh National Orchestra. 5 Giovanna Casolla e Gabriele Maria Ronge A La vendicativa principessa Turandot vestire i panni della protagonista saranno i soprano Giovanna Casolla (29 luglio, 5 e 8, agosto) e Gabriele Maria Ronge (1, 3, 6, 9 agosto). Giovanna Casolla, dopo il diploma in canto e pianoforte presso il Conservatorio di San Pietro in Majella a Napoli, ha continuato gli studi con Michele Lauro e Walter Ferrari. Ha debuttato al Teatro Verdi di Trieste con la Campana sommersa di Respighi, proseguendo poi la carriera sui palcoscenici del Teatro Comunale di Bologna, del Giovanna Casolla Filarmonico di Verona e del S. Carlo di Napoli, qui con Placido Domingo. Nel 1982 si è esibita per la prima volta al Teatro Alla Scala di Milano nel Tabarro di Puccini e nella Fedora di Giordano. Nel 1986 ha debuttato al Metropolitan di New York come Eboli nel Don Carlo di Verdi e vi è tornata nel 1991 per Tosca con Placido Domingo. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui, nel 1991 il premio “Luigi Illica” e nel 1996 il premio “Cilea”. Nel 2006 ha cantato Turandot al Massimo di Palermo, Eboli in Don Carlo al Teatro Megaron di Atene ed ha inaugurato la stagione all’Arena di Verona come Santuzza in Cavalleria rusticana. Tra i prossimi impegni Gioconda a Santander. Gabriele Maria Ronge, nata ad Hannover in Germania è stata definita dal New Straits Times «uno dei più grandi soprani wagneriani del nostro tempo». Ha studiato canto con Nurit Goren e Friedel BackerBrill. Dopo diversi ingaggi nel suo Paese, ha inaugurato la sua carriera internazionale all’Opera di Parigi come Eva nel Meistersinger. Il suo debutto in Italia è stato al Massimo di Palermo come Isabella nel Liebesverbot (Divieto di Amare), per poi cantare a Bologna con Riccardo Chailly e al Teatro alla Scala di Milano sotto la direzione di Riccardo Muti. Michail Ryssov Timur, l’anziano re usurpato del suo potere P resterà la voce a Timur, Michail Ryssov. E' nato in Crimea e si è laureato presso il Conservatorio di Minsk, per poi approfondire gli studi a Milano, al Centro di Perfezionamento del Teatro alla Scala. Ha calcato i palcoscenici dei più grandi teatri tra cui la Deutsche Oper di Berlino, La Fenice di Venezia, il Sao Carlo di Lisbona, l’Arena di Verona e il Frankfurter Royal Opera di Londra. Ha collaborato, inoltre, con le migliori orchestre come la Berlin Filharmoniker, la Boston Symphony e la City of Birmingham Synphony. Michail Ryssov Pagina a cura di Jole Palumbo - Foto Corrado M. Falsini 6 Turandot L Storia dell’opera Il Giornale dei Grandi Eventi In un ristorante milanese la nascita di Turandot a composizione della Turandot, ultima opera di Puccini, si svolse tra il 1920 e il 1924, in quegli ultimi quattro anni di vita del Compositore tristemente segnati dalla malattia che lo condurrà alla morte. Dopo il successo del Trittico nel gennaio 1919 al Costanzi di Roma, Puccini si pose nuovamente con l’aiuto del fedele amico Giuseppe Adami alla ricerca di un soggetto per un’opera. Determinante per la nascita della Turandot fu però l’incontro con il giornalista Renato Simoni nell’autunno del 1919 a Torre del Lago, residenza amatissima dal Maestro, dove si dedicava alla sua grande passione, la caccia. Simoni, commediografo e critico drammatico sensibilissimo e raffinato, sembrò a Puccini il più adatto da affiancare ad Adami. L’intesa tra i due librettisti fu subito cordiale e produttiva: la prima proposta fu un testo tratto dalla riduzione teatrale dell’Oliver Twist di Dickens. L’opera, il cui titolo avrebbe dovuto essere Fanny, non piacque però a Puccini: l’ambientazione nello squallido clima dei sobborghi londinesi avrebbe potuto offrire solamente tematiche e situazioni già ampiamente utilizzate dal compositore, che invece aveva l’intenzione di “tentare vie non battute”. sembrò più volte propendere per l’atto unico. Inoltre occorreva « lasciare un po’ da parte Gozzi e lavorare di logica e fantasia». Il primo rimaneggiamento operato Nata in un ristorante milanese I biografi raccontano che la nascita della Turandot – soggetto così “regale” - avvenne, invece, in circostanza meno “nobile”: a tavola! Nel febbraio del 1920 Puccini e Simoni erano in un ristorante milanese, per ingannare il tempo in attesa che il Maestro prendesse un treno per Roma. Simoni disse: «E Gozzi? … se ripensassimo a Gozzi?… una fiaba che fosse magari la sintesi di altre fiabe più tipiche?… Non so… qualche cosa di fantastico e di remoto, interpretato con sentimento di umanità e presentato con colori moderni?». Puccini fece il nome di Turandot e Simoni mandò immediatamente a prendere il volume nella sua biblioteca, in modo che Puccini potesse portarlo con se in treno. La Turandot di Carlo Gozzi, rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1761 al teatro di San Samuele con la compagnia di Antonio Sacchi, affascinò subito il compositore per il carattere orientaleggiante che avrebbe potuto aprire più ampi e sfaccettati orizzonti. Puccini iniziò immediatamente a documentarsi, leggendo la versione in italiano del poeta Andrea Maffei - noto come librettista di Verdi - basata sulla traduzione in tedesco di Schiller. Puccini visionò anche riproduzioni sceniche e figurini di Max Reinhardt, il quale poco prima aveva curato la messa in scena della fiaba in Germania. Sull’argomento Puccini scrisse con entusiasmo a Simoni: «…in Reinhardt, Turandot era una donnina piccola piccola; attorniata da uomini di donnina viperina e con un cuore strano di isterica. Insomma io ritengo che Turandot sia il pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni di Gozzi. In fine: una Turandot attraverso il cervello moderno, il tuo, d’Adami e il mio». Difficoltà dietro l’angolo L’entusiasmo però era destinato ad essere frenato dall’effettiva difficoltà di ridurre la fiaba. L’epistolario pucciniano è il testimone delle difficoltà incontrate durante i quattro anni dedicati alla Principessa cinese. Puccini fu a lungo indeciso se costruire l’opera in uno, due o tre atti. La versione che né risultò fu quella in tre atti, ma il musicista in quest’ottica dai librettisti, fu la trasformazione delle quattro maschere della commedia italiana presenti nella fiaba - Tartaglia, Pantalone Truffaldino e Brighella - nei tre ministri cinesi Ping, Pang e Pong. L’altro cambiamento fondamentale fu l’introduzione della figura di Liù, non presente nella favola di Gozzi, con la funzione di umanizzare attraverso il suo sacrificio la figura della Principessa. Nella primavera del 1920 Puccini manifestava il suo sconforto ad Adami: «metto le mani al piano e mi si sporcano di polvere! La scrivania mia è una marea di lettere, non c’è traccia di musica. La musica? Cosa inutile. Non avendo il libretto come faccio con la musica? Ho quel gran difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena…». Nel Natale dello stesso anno i librettisti sottoposero il primo atto a Puccini, ma l’iniziale giudizio fu negativo. Dopo alcune modifiche, in cui si diminuirono molte cineserie, Puccini lo approvò ed iniziò a strumentarlo. Nel 1921, a distanza di un anno, il primo atto fu completato. Ben più faticosi, invece, furono gli altri due atti per i quali il Maestro fu spesso sul punto di abbandonare la composizione. L’11 dicembre 1922 amaramente scriveva ad Adami: «di Turandot niente di buono. Comincio a impensierirmi della mia pigrizia! Che io sia saturo di Cina per aver fatto il primo e quasi il 2° atto? Il fatto sta che non riesco ad attecchire niente di buono. Sono anche vecchio! Questo è sicuro…. A Milano deciderò qualcosa. Forse restituisco i soldi a Ricordi e mi liberi». I primi mesi del 1923 furono ancora molto difficili, ma in primavera il compositore, rinfrancato nello spirito e con nuovo entusiasmo, si dedicò a strutturare e musicare il secondo atto. Nel gennaio 1924 Puccini annunciò ad Adami l’inizio dell’orchestrazione del terzo atto. In aprile finalmente la composizione della Turandot era a buon punto ed il compositore né diede ancora notizia ad Adami: «Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più». Triste presagio L’autunno di quello stesso anno - 1924 - fu caratterizzato dall’incontro a Salsomaggiore e dalla riappacificazione con Arturo Toscanini, dopo lo screzio sorto a causa di una incomprensione, quando in aprile il direttore diede l’ordine di non ammetterlo alla prova generale della prima esecuzione postuma del Nerone di Boito al Teatro Alla Scala. Pochi giorni dopo i due si incontrano a Milano e Puccini fece ascoltare all’amico ritrovato il terzo atto di Turandot, fino al punto in cui Liù sacrifica la propria vita. Ad esecuzione terminata Puccini disse a Toscanini la frase che egli avrebbe dovuto pronunziare davanti al pubblico se lui fosse stato nell’impossibilità di concludere l’opera: «E qui, signori, il maestro è morto». Presagio sinistro. Il male alla gola, manifestatosi già da parecchi mesi, iniziò ad aumentare ed in ottobre Puccini si era recato a Firenze per essere visitato. La diagnosi atroce fu cancro alla gola. Come ultimo tentativo fu consigliata una cura presso una clinica specializzata in Belgio e Puccini si recò a Bruxelles per essere ricoverato. La sera del 28 novembre sopraggiunse una crisi cardiaca. Puccini lottò per la vita l’intera notte e il mattino successivo. Il 29 novembre 1924 verso mezzogiorno il cuore del maestro cessò di battere. Turandot, come il suo stesso creatore aveva funestamente previsto, era rimasta incompleta. Un finale postumo Gli editori di casa Ricordi, Clausetti e Valcarenghi, decisero allora di farla terminare dal musicista Franco Alfano. Questi pensò di utilizzare le trentasei pagine di abbozzi lasciati dal Maestro per il duetto e, nelle parti in cui gli schizzi non erano di aiuto, i temi precedentemente usati dal compositore all’interno dell’opera. Il lavoro, così completato, era pronto per andare in scena. Alla vigilia la recita rischiò, però, di essere annullata per un increscioso incidente diplomatico. Mussolini, in quei giorni a Milano, fu invitato alla “prima” dalla direzione della Scala. Il Duce impose come condizione che durante la serata fosse eseguito l’inno fascista in suo onore, dal momento che Toscanini nel 1923 si era rifiutato di eseguirlo davanti ad un gruppo di Camicie Nere. Ancora una volta Toscanini si oppose ed il Duce non prese parte alla “prima”. Il 25 aprile del 1926, dinanzi al commosso pubblico della Scala, la Turandot andò in scena. Il cast composto da Rosa Raisa nel ruolo di Turandot, Maria Bamboli in quello di Liù e Miguel Fleta in quello di Calaf, utilizzo le scene di Galileo Chini. Dopo la morte di Liù, Toscanini – come è noto - seguì la volontà di Puccini: interrompendo la musica e voltandosi verso il pubblico, con voce velata, disse: «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’arte». e poi: “viva Puccini!”. Subito scrosciarono gli applausi, mentre il sipario calava. Dalla sera successiva le recite proseguirono con il finale realizzato da Alfano. C.C. Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 7 L’esotismo ed il pittoresco in Puccini e Debussy P L’uso della Scala Pentatonica per evocare l’Oriente oco sembra accomunare due compositori quasi coetanei come Puccini (1858-1924) e Debussy (1862-1918). Il primo, ultimo grande rappresentante della linea di compositori italiani dedicatisi esclusivamente, o quasi, all’opera lirica; il secondo, nemico giurato dell’opera italiana e compositore di un’unica opera i cui punti di riferimento sono Wagner e Mussorgskij. Eppure entrambi, ancor più di altri compositori contemporanei, hanno subito profondamente il fascino dell’esotismo e in particolare dell’Estremo Oriente. Oltre a Madama Butterfly (1904) e a Turandot (rimasta incompiuta alla morte di Puccini), anche La fanciulla del West (1910) rivela un interesse per una cultura extra europea. La moda dilagante dell’esotismo nel corso di tutto l’Ottocento si riflette però in musica ai primi del secolo successivo sotto la sua forma più specifica: nella moda per il Giappone e per l’Oriente in generale. Forse più di qualsiasi altro compositore, Debussy si è immerso nel mondo del giaponismo, circondandosi di oggetti o stampe che talvolta ha scelto come frontespizio di alcune delle sue partiture più illustri, come La mer (1905), in cui nulla vi è di orientale nella sostanza. In termini specificamente musicali l’influenza del Giappone e dell’Estremo Oriente si riflette nell’uso frequente della scala pentatonica, cioè corrispondente Claude Debussy ai tasti neri della tastiera. Nella prima delle tre Estampes per pianoforte (1903), non a caso intitolata Pagodes, Debussy affida la mano destra e in parte anche la sinistra, esclusivamente ai tasti neri. Vi sono rari precedenti, come lo “Studio sui tasti neri” op.10, n.5 di Chopin. Ma in questo caso non è presente alcun elemento di esotismo, per via della chiara affermazione della tonalità maggiore di Sol bemolle. Nel caso di Debussy, invece, l’omaggio all’Oriente è evidente non solo dal titolo del primo brano, Pagodes, o da quello della raccolta, che allude alle stampe giapponesi, ma, come avviene nella Butterfly e Turandot, dallo stile stesso della musica. Tutto il brano fa uso non solo della scala pentatonica, ma di una successione di note da essa ricavata che si ripete sempre identica, salvo nel ritmo, come nella musica tradizionale cinese o giapponese, o nella musica indonesiana. L’interesse di Debussy – come poi di altri compositori del Novecento - per la m u s i c a orientale è stato fortemente stim o l a t o dalle orchestre di gamelan delle isole di Giava e Bali, che egli ebbe occasione di ascoltare rispettivamente durante le Esposizioni Universali di Parigi del 1889 e del 1900. La predilezione per le scale non europee si manifesta anche nel suo legame con la musica spagnola (La soirée dans Granade, La sérénade interrompue, La puerta del vino tra i pezzi pianistici, o Ibéria dalle Images per orchestra), ma si cristallizza nell’uso delle scale pentatoniche (tasti neri) e esatoniche (per toni), già in parte usate dai compositori russi. Anche Puccini a sua volta ha subito l’influenza dell’oriente, in parte mediata dall’influsso del suo collega francese. Adottando la scala esatonica ne La fanciulla del West il tono di esotismo necessario al soggetto ambientato in California è stato così garantito. Dopo la Butterfly, la nuova opera di Puccini testimonia di una continuità di interesse per il “non europeo”, essendo ambientata nella patria di Pinkerton, di cui la stessa Butterfly include l’inno nazionale. L’uso sistematico che opposizione si ritrovefece Debussy della scala ranno fino a Stravinskij, per toni in Pelléas et Mélisande, la cui prima e non solo in Petruska, precede di due anni quasi interamente strutquella della Butterfly, è turato su questa dialettica. Le interazioni tra certamente stato un fatquesta caratteristica di tore determinante nella scrittura con il mondo scelta stilistica pucciniadell’Estremo Oriente na adottata per la sua sono molteplici e sfoceopera “americana”. Del ranno nelle Trois poésies resto va notato che nelde la lyrique japonaise l’opera di Debussy la (1913) o nell’opera Le scala per toni è frequenRossignol (1914) dello temente combinata con stesso compositore frammenti della scala russo. In quest’ultima le pentatonica, certamente evocazioni di Cina e per suggerire un “esotiGiappone si fondono smo immaginario” leganell’impiego spesso carito al luogo indeterminacaturale della scala pento dell’azione del dramtatonica, che nella ma di Maeterlinck. Butterfly caratterizzava i Dunque i legami tra l’opera di Debussy e quelle personaggi giapponesi e di Puccini non sono cerin seguito definirà l’amtamente casuali. Ma bientazione cinese di mentre nel caso di Turandot. Il canto dell’uPuccini le scelte stilistisignuolo meccanico che sono dovute ai soggetti da lui prescelti, per Debussy l’impiego delle scale non europee va spesso oltre la semplice volontà di evocare il pittoresco dell’Oriente. La scala pentatonica si ritrova in numerosi brani pianistici i cui titoli non evocano necessariamente Giacomo Puccini un contesto orientale (Reflets dans l’eau, inviato dall’Imperatore prima delle Images, o del Giappone all’ImpeVoiles, La fille au cheveux ratore della Cina è affide lin, dal primo libro dei dato al suono nasale delPreludi). Il suo impiego l’oboe che esegue ostinaè suggerito dalla specifitamente una banale cità della tastiera del piamelopea pentatonica. noforte, con la sua oppoLa dimensione caricatusizione tra tasti bianchi e rale che in Puccini caratneri, anche se la scala terizzava in parte i pentatonica è talvolta parenti di Cio-Cio-San trasposta sui tasti bianviene usata da chi, come in“General Stravinskij per alludere Lavine” excentrique dal alla meccanizzazione dei secondo libro della natura da parte Preludi. Le conseguenze dell’uomo. stilistiche di questa Angelo Cantoni Turandot 8 C Il Giornale dei Grandi Eventi Tra gli antichi ruderi si legge ancora la sua passata gra Le Terme di Caracalla, lo stabilimento termale più on gli imponenti ruderi che sfiorano anche i trenta metri e conservano perfettamente la struttura originale scevri da rimaneggiamenti di epoche successive, le Terme di Caracalla costituiscono uno dei più grandi complessi termali dell’antichità, secondo per dimensioni solo allo stabilimento di Diocleziano - di circa un secolo posteriore - e forse a nessun altro per il fasto delle sue decorazioni, oggi purtroppo in parte perdute o disperse. Furono fatte costruire interamente dall’Imperatore a partire dal 212 d.C., in un quartiere periferico nella parte meridionale della Città, abbellita dai Severi con la via Nova tracciata in direzione delle nuove Terme a partire dal Septizodium, un grandioso ninfeo a più piani, simile alla scena di un teatro ellenistico, innalzato sulle pendici sud-occidentali del Palatino come monumentale quinta all’inizio della Via Appia. L’approvvigionamento idrico era assicurato da un ramo speciale dell’acquedotto dell’Aqua Marcia, chiamato Aqua Nova Antoniniana, che, oltrepas- sava la Via Appia sul cosiddetto “Arco di Druso”, poco prima della Porta San Sebastiano. Novemila operai per più di cinque anni lavorarono per sbancare le pendici dell’Aventino e realizzare un’enorme piattaforma quadrangolare di più di 300 metri di lato – che obliterò una ricca domus d’età adrianea con pavimenti a mosaico e affreschi di II stile alle pareti - sulla quale costruire, sopra i sotterranei per i magazzini, servizi ed impianti, il grande corpo centrale in opera cementizia con rivestimento di mattoni. Il cantiere si prolungò fin dopo la morte di Caracalla (217 d.C.), quando gli ultimi imperatori della dinastia, Elagabalo e Alessandro Severo, completarono il recinto esterno. Comprese da Aureliano all’interno delle mura e restaurate anche da Diocleziano, Costantino – un’iscrizione ce lo conferma - e Teodorico, le Terme funzionarono fino al 537 d.C. quando Vitige, re degli Goti, durante l’assedio di Roma, tagliò gli acquedotti al fine di prendere la città per sete. Da quel momento il complesso fu abbando- Ricostruzione del Frigidarium delle Terme di Caracalla nato perché troppo esposto ad attacchi esterni e lontano dal centro cittadino dove si andavano concentrando gli abitanti per paura degli invasori, divenendo cimitero per i pellegrini ammalati e ricoverati nel vicino Xenodochium dei Santi Nereo e Achilleo. Nel Medioevo le Terme diventarono una preziosa cava di materiali da costruzione e per un riuso di prestigio: capitelli figurati troviamo reimpiegati nel duomo di Pisa e nella chiesa di Santa Maria in Trastevere a Roma. Gli scavi del Cinquecento per volere di Paolo III Farnese riportarono in luce statue e gruppi scultorei colossali, perlopiù copie di originali ellenistici, che finirono nelle grandi collezioni di antichità del tempo, come quella Farnese, oggi ammirabile al M u s e o Archeologico Nazionale di Napoli: basti citare il celeToro bre Farnese, una “montagna di marmo” con il supplizio di Dirce che celava un sofisticato impianto idraulico per rendere ancora più realistica l’ambientazione pastorale dell’episodio, la Flora e l’Eracle in riposo, riferibile ad un capolavoro bronzeo di Lisippo, che faceva pendant con l’Ercole Latino, ora nella Reggia di Caserta, a testimoniare l’attaccamento dei Severi a questa divinità riecheggiata anche in uno dei capitelli del Frigidarium. Ma anche i centri storici delle città italiane si arricchirono di arredi provenienti dalle Terme: nel salotto buono di Firenze, in piazza Santa Trinità, si erge – dal 1563 per volere di Cosimo I de’ Medici una delle altissime colonne di granito che decoravano la Natatio, mentre le Mitreo, precisando le piante dei diversi ambienti. Eccezionali ritrovamenti sono avvenuti anche in anni recenti come la statua di Artemide esposta dal 1997 nell’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano. La vita alla Terme due splendide vasche pure di granito grigio del Frigidarium furono riutilizzate dal Rainaldi come fontane in piazza Farnese a Roma. Alla prima metà dell’Ottocento risalgono la scoperta nella palestra ed il distacco dei mosaici con atleti e giudici di gara, oggi ricomposti nel loro assetto originario in Vaticano presso il Museo Gregoriano Profano. Da allora continue campagne di scavo, hanno contribuito alla conoscenza del monumento, rivelando gli ambienti sotterranei ed il Le Terme erano aperte all’intera popolazione (comprese donne, liberti e schiavi, sebbene in orari e settori distinti) di giorno e talvolta anche alla luce delle fiaccole. Pur nel chiasso che derivava dalla frequentazione giornaliera di più di 9000 persone, andare alle Terme significava ritemprare il corpo e contemporaneamente divertirsi negli ambienti sontuosamente decorati (di marmi colorati, stucchi, mosaici e sculture) che regalavano alla gente comune l’impressione di trovarsi in una lussuosa residenza imperiale. L’entrata odierna corrisponde all’ingresso centrale di destra e consiglia un percorso pressoché uguale a quello previsto in antico, che immetteva nel quartiere degli spogliatoi (Apodyterium, dove per pochi soldi si potevano lasciare i vestiti e ricevere un asciugamano. Da qui si passava direttamente alla Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 9 Luoghi nascosti e purtroppo non visitabili andezza U ù bello dell’antichità I Sotterranei ed il Mitreo palestra per riscaldarsi con esercizi sportivi e giochi nel grande cortile scoperto, dal bel pavimento a mosaico policromo con motivo a dischi e girali vegetali all’intorno e squame al centro, delimitato su tre lati da un portico di colonne in giallo antico, coperto a volta, mentre sull’altro lato si aprivano cinque ambienti, di cui il centrale absidato, per attività ginniche indoor. Uscendo dalla palestra l’utente poteva ammirare nel grande emiciclo le realistiche immagini dei gladiatori e degli atleti più famosi dell’epoca immortalati in un tappeto musivo oggi ricomposto ai Musei Vaticani. Da li ci si poteva recare per la sauna al Laconicum (una sorta di bagno turco a pianta ellissoidale) od entrare, attraverso passaggi stretti e obliqui per evitare la dispersione del calore, nel Caldarium, la grande sala circolare del diametro di 34 metri, coperta da una cupola di poco inferiore a quella del Pantheon. La riscaldava un potente impianto a hypocaustum (con aria calda insufflata sotto il pavimento attraverso le suspensurae), bracieri in bronzo ma anche il calore del sole che fino al tramonto entrava dalle immense finestre ad arco. Il Caldarium era collegato al Tepidarium, una pic- cola sala quadrata con due vasche ai lati, la quale, come prescritto dalla medicina, consentiva al corpo di adattarsi gradualmente alla escursione termica del Frigidarium. Questo, era costituito dalla sala più fresca e grandiosa delle Terme, con i suoi 58 metri di lunghezza per 24 di larghezza, la cui complessa architettura fu anche ammirata e ripresa da Giuliano da Sangallo e dal Palladio, che vi si ispirò nelle sue chiese veneziane, ricostruita da Viollet Le Duc, e riproposta nelle magniloquenti stazioni ferroviarie delle metropoli americane. Completata da due ambienti laterali, comunicanti con le palestre, in cui si trovavano probabilmente le due vasche di piazza Farnese, la basilica era coperta da una maestosa volta a triplice crociera sostenuta da otto pilastri fronteggiati in origine da altrettante colonne di granito dai capitelli mirabilmente intagliati nel marmo bianco con figure e simboli divini in gran parte conservati. Colonne di granito, di cui l’unica superstite fu portata a Firenze, movimentavano, insieme a gruppi scultorei entro nicchie ed ai mosaici che dovevano creare un effetto iridescente riflettendosi nell’acqua, le facciate interne della Natatio, una rettangolare piscina a cielo aperto profonda circa un metro, cui sia accedeva scendendo una scalea dal Frigidarium. Si poteva così concludere degnamente la giornata alle terme con una nuotata distensiva e un bagno di sole nelle terrazze sopra le palestre, decorate dagli splendidi mosaici con Thiasos marino animato da Nereidi, tritoni, delfini e mostri acquatici cavalcati da eroti che ancora oggi possiamo apprezzare. Marina Piranomonte Soprintendenza Archeologica di Roma Direttrice complesso Terme di Caracalla n percorso affascinante per comprendere il funzionamento della complessa macchina delle Terme è la discesa nei sotterranei, una rete vasta ed articolata di ambienti di servizio che la Soprintendenza sta recuperando. Un dedalo di grandi gallerie selciate, larghe ed alte più di 6 metri e foderate in laterizio, consentiva il transito dei carri con i carichi di legname verso gli enormi depositi, precauzionalmente ventilati, con una capacità tale da rendere autosufficienti per alcuni mesi i forni e le caldaie dell’impianto di riscaldamento che consumavano 10 tonnellate di legna al giorno. Nelle strutture di costruzione trovava posto anche il sistema idraulico. La luce e l’aria che penetravano in questi spazi da lucernari, consentivano la frequentazione da parte degli addetti alle varie funzioni, non ultima quella della macinatura del grano nel coevo mulino ad acqua scoperto durante gli sterri degli inizi del Novecento al pari del Mitreo, il maggiore di Roma. Il santuario dedicato al culto di Mitra, antica divinità solare di origine persiana venerata soprattutto dagli eserciti come salvifica, è formato da una serie di cinque ambienti introdotti da soglie in travertino. La caratteristica più interessante del santuario per la sua unicità è la fossa posta al centro della stanza, collegata attraverso una scaletta e uno stretto corridoio alla sacrestia al di là della nicchia di fondo, Il Mitreo con la fossa sanguinis che doveva accogliere la solita immagine del dio tauroctono. Era destinata forse a un’apparizione spettacolare dalla botola o più probabilmente al sacrificio del toro che veniva ucciso su una grata in ferro posta sopra la buca, dentro la quale si trovava, vestito con una toga candida, l’iniziato, pronto a ricevere il rigenerante bagno di sangue dell’animale. Tale interpretazione ben si collega alla religiosità di Caracalla, “padre degli eserciti”, e della sua famiglia volta a un sincretismo che accomunava divinità classiche e orientali in un unico culto. Mar. Pir. DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA di Giosue Carducci Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino le nubi: il vento dal pian tristo move umido: in fondo stanno i monti albani bianchi di neve. Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti e de le madri le protese braccia te deprecanti, o dea, dal reclinato capo de i figli : Continui, densi, neri, crocidanti versansi i corvi come fluttuando contro i due muri ch'a più ardua sfida levansi enormi . e l'Aventino il reduce quirite guardava in alto la città quadrata dal sole arrisa, e mormorava un lento saturnio carme); Ed un ciociaro, nel mantello avvolto, grave fischiando tra la folta barba, passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco, nume presente. Poggiata il capo al Palatino augusto, tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia, per la Capena i forti omeri stende a l'Appia via. A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo. «Vecchi giganti, - par che insista irato l'augure stormo - a che tentate il cielo? » Grave per l'aure vien da Laterano suon di campane. se ti fu cara su 'l Palazio eccelso l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro l'evandrio colle, e veleggiando a sera tra 'l Campidoglio Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli quinci respingi e lor picciole cose : religïoso è questo orror : la dea Roma qui dorme. 14 e 24 Aprile 1877 - Dalle “Odi Barbare” – Libro Primo, IV 10 Turandot Il Giornale dei Grandi Eventi Le invettive del Maestro sulle speculazioni milanesi E Mascagni disse: «Lasciate Turandot com’è!» “P iango la perdita del caro Giacomo, che amai con affetto di fratello, con ammirazione di discepolo. Accolgano il conforto del rimpianto universale per l’uomo dalla sua opera fatto immortale”. Così il 29 novembre 1924 da Vienna, dove si trovava per una serie di concerti, Mascagni scriveva ad Elvira Puccini. Poche ore prima a Bruxelles l’amico Giacomo si era spento, distrutto dal tumore alla gola. La morte del grande collega e amico con il quale aveva in gioventù condiviso sogni e sofferenze, scosse profondamente il compositore livornese, il quale nelle lettere di quel periodo si espresse con forti accenti polemici. Vale la pena leggere ad esempio quella inviata il 4 dicembre alla figlia Emy: «…non so dirti quale colpo sia stato per me l’annunzio improvviso della morte di Puccini. Avevo notizie abbastanza buone: ero tranquillo il giorno; prima I avevo avuto tali notizie favorevoli, che con vera commozione avevo telegrafato all’Ambasciatore d’Italia a Bruxelles pregandolo di portare all’amico carissimo il mio saluto ed augurio. E invece..... E quale morte terribile, povero Giacomo! Io sono ancora molto impressionato e non riesco a rimettermi. Non posso crederci ancora. E sono anche molto addolorato ed avvilito che quei bottegaî dei Milanesi hanno già iniziato una speculazione su Puccini. Mentre la famiglia voleva che la salma andasse a Lucca, i bravi (?) milanesi l’hanno voluta a Milano.... e Toscanini ha messo a disposizione la tomba della propria famiglia.... Sono cose che fanno male.... Ed intanto si sta già preparando la speculazione sull’opera postuma. Prima con Boito, ora con Puccini!... Ho avuto molto dispiacere nell’apprendere, da un telegramma dell’Avv. Belli, che lo stesso Belli, unitamente a Gasco, abbiano affacciato l’idea di far terminare a me la Turandot. Meno male che, in una intervista che ebbi qui col corrispondente della “Tribuna”, espressi già il mio pensiero in proposito. Peccato che la “Tribuna” non l’abbia riportato esattamente, ma in ogni modo si capisce che io ho detto che l’opera deve essere eseguita così come si trova, anche se incompiuta: non si deve ripetere lo sconcio commesso col Nerone (l’opera che Boito lasciò incompiuta e che fu portata a termine da Tommasini e Smareglia sotto la supervisione di Toscanini, n.d.r.), tanto più che, per Puccini, sarebbe ancora una profanazione, perché Puccini è stato un vero e grandissimo musicista e non uno stitico che aspettava sempre l’aiuto e l’elemosina di qualcuno, e che in vita non la trovò.... e l’ha trovata dopo morto....». La morte di Liù è già un finale Mascagni, dunque, riteneva che Turandot dovesse rimanere come l’aveva lasciata Puccini. Una scelta dettata in lui dal Puccini e Mascagni ai funerali di Ruggero Leoncavallo rispetto nei confronti dell’amico, ma suggerita anche da considerazioni di tipo drammaturgico: la morte di Liù è già di per sé un “finale”, lascia la storia fra Calaf e Turandot sospesa, ma chiude coerentemente l’opera. Ma a proposito di Mascagni, può essere interessante riportare ancora la seguente lettera inviata il 22 dicembre alla figlia: «…io sono veramente sorpreso di tutta la speculazione che in Italia si fa sopra la sventura: la morte di Puccini ha svegliato nuove cupidigie e nuovissime ambizioni: la città di Milano vuole avere il monopolio delle salme degli uomini illustri. Hai letto il discorso del Sindaco Mangiagalli sul feretro di Puccini?... Non si può andare più in là in materia di speculazione e di réclame: ha detto che Verdi morì e fu sepolto in Milano; e, dopo Verdi, Boito morì e fu sepolto in Milano; ed oggi, per quanto Puccini sia morto all’estero, Milano ha la gloria di avere la sua salma.... Alla larga di questi necrofori jettatori! Mi aspettavo che continuasse, con l’augurio (?) di avere in Milano tutti i morti illustri, anche se la loro morte avviene lontana dalla..... necropoli lombarda..... Da Roma, il Marchese Monaldi mi perseguita con lettere e telegrammi per avere da me una prefazione al libro che egli scrisse sopra Puccini, e del quale sta preparando la seconda edizione, in occasione della morte del Maestro. Insomma, si specula in modo indegno; e non si capisce che io non intendo di prestarmi a questo basso giuoco. E non rispondo neppure: sono nauseato! [...]». Roberto Iovino Nella casa natale di Puccini a Lucca Tra i cimeli, il pianoforte su cui fu composta Turandot l 22 dicembre 1858, nelle prime ore della notte, Giacomo Puccini nasceva a Lucca, nella casa di corte S.Lorenzo, a Lucca. Fu battezzato il giorno successivo, al fonte battesimale dei SS. Giovanni e Reparata, con i nomi di Giacomo Antonio Domenico Michele Secondo Maria. Era infatti l’ultimo musicista di una singolare dinastia che in un arco temporale di un secolo e mezzo aveva dominato la vita musicale lucchese.Al momento della sua nascita abitavano la casa i genitori, Michele e Albina Magi, la nonna Angela Cerù, le sorelle Otilia, Tomaide (la terza nata, Temi, era vissuta meno di un anno), Maria Nitteti e Iginia, e una serva. Un anno dopo nascerà l’altra sorella Ramelde, sarà assunta un’altra serva, e più avanti nasceranno ancora Macrina e infine, dopo la morte del padre, Domenico Michele (Lucca, 1864 - Rio de Janeiro, 1891) anch’egli musicista. Giacomo, rimasto presto orfano di padre, visse in questa casa gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza, prima del trasferimento a Milano per proseguire gli studi. Restò sempre legato ai ricordi che lo legavano alla sua casa natale e si adoperò, quando le condizioni economiche glielo consentirono, affinché rimanesse di proprietà della famiglia. La famiglia Puccini, che nella prima metà del XVIII secolo si era stabilita a Lucca in un’abitazione posta in via Pozzotorelli, l’odierna via Vittorio Veneto, si era trasferita in corte S. Lorenzo intorno al 1815, poco dopo la morte improvvisa e prematura di Domenico, nonno di Giacomo e pregevole operista. Aveva voluto così la giovane vedova, Angela Cerù, per riavvicinarsi alla sua famiglia d’origine, che abitava nello stesso stabile. La famiglia Cerù - in particolare Nicolao, cugino del padre Michele - svolgerà un ruolo importante nella formazione di Giacomo. L’appartamento, piuttosto grande ma appena sufficiente per una famiglia numerosa come quella di Giacomo (in cui tutti, almeno il padre e i figli, facevano musica) aveva, come oggi, due ingressi sul medesimo pianerottolo, come testimonia una lettera del 1817 di Antonio, bisnonno di Giacomo. Oggi museo Oggi la casa natale di Giacomo Puccini custodisce oggetti a lui appartenuti: mobili di famiglia, un cappotto, preziose onorificenze che testimoniano gli straordinari successi ottenuti dal compositore in tutto il mondo. Sono anche esposti: autografi di importanti composizioni giovanili, la Messa a 4 voci (1880) e il Capriccio sinfonico (1883), una ricca collezione di lettere scritte e ricevute dal compositore tra il 1889 e il 1915 (destinatari e mittenti: la moglie Elvira, il figlio Antonio, Giulio Ricordi), e una serie di emozionanti testimonianze degli ultimi momenti di vita del compositore, che - a causa dell’operazione subita per l’asportazione del tumore alla gola - comunicava solo tramite brevi messaggi scritti. L’ultima opera, Turandot - la cui composizione fu interrotta appunto dalla morte dell’autore a Bruxelles, il 29 novembre 1924 - è evocata dalla presenza del pianoforte Steinway su cui l’opera fu composta, nella villa di Viareggio (una fotografia ritrae Puccini proprio davanti a questo strumento, con il figlio Antonio), e dallo splendido costume di scena per il II atto, donato alla Fondazione Puccini dalla celebre cantante Maria Jeritza, a ricordo del primo allestimento dell’opera al Metropolitan Opera House di New York, nel 1926. Il costume realizza il disegno studiato da Brunelleschi per la prima assoluta, poi sostituito da quello di Caramba. Si possono infine ammirare alcuni bei quadri, come i pregevoli ritratti di Giacomo Puccini senior e di sua moglie Angela Piccinini, eseguiti da un importante pittore lucchese, Giovanni Domenico Lombardi detto “L’omino”, in occasione delle loro nozze; come il ritratto di Antonio Puccini, probabilmente una copia d’epoca dell’originale custodito presso il Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna; od anche lo Stemma della famiglia, che il compositore non era disposto a lasciare in casa di altri parenti. E’ esposto, infine, lo stupendo ritratto di Giacomo Puccini, opera di Leonetto Cappiello, con dedica “A Giacomo Puccini con grande ammirazione e vera amicizia” e data “Paris, 11 gennaio 1899”. Mi. Mar. Il Turandot Giornale dei Grandi Eventi 11 Le origini dell’opera Turandot, dalla favola di Gozzi all’opera di Puccini L a prima della Turandot pucciniana risale al 25 aprile 1926. Siamo a Milano, al Teatro alla Scala, l’autore è morto da quasi due anni senza riuscire a terminare l’opera; altri porteranno a compimento la sua ultima fatica. Ma come è arrivata in Europa la storia della gelida principessa di Cina che ha affascinato Puccini? I suoi natali sul continente risalgono al veneziano Carlo Gozzi (1720-1806). Figlio di un’aristocratica famiglia in gravi difficoltà economiche fu il fondatore, insieme con il fratello Gasparo, di una delle istituzioni più conservatrici del Settecento italiano: l’Accademia dei Granelleschi di Venezia. Le sue posizioni conservatrici lo videro contrapporsi al pensiero illuminista e alle scelte artistiche dei contemporanei Goldoni e Chiari, innovatori importanti della Commedia dell’Arte e spesso portatori sulla scena anche di argomenti realistici d’ambientazione popolare e borghese. Nel 1762 Gozzi scrisse la favola teatrale di Turandot traendone l’argomento fiabesco dal ciclo persiano delle Mille e una notte e più precisamente da La storia del principe Calaf e della principessa di Cina. In questa prima trasposizione occidentale, coerentemente all’epoca storica in cui essa è prodotta, troviamo accanto ai personaggi principali anche la presenza delle più importanti maschere italiane: Tartaglia, Pantalone e Truffaldino. Il lavoro gozziano è un continuo alternarsi di passione e gioco sospesi fra realtà e irrealtà, atmosfera quotidiana e fantasia esotica. Probabilmente le maschere avevano il compito di creare un legame tra il pubblico veneziano e l’Oriente fittizio rappresentato sulla scena. Saranno proprio quelle Puccini nel 1923 in una delle ultime immagini atmosfere esotiche, evocatrici di mondi lontani, ad affascinare Puccini. Nel passaggio dalla favola all’opera il compositore fu però chiamato a risolvere più di un problema. Ad esempio, la presenza delle maschere, nel momento storico in cui compone Puccini, ha perso la sua valenza. Vanno quindi trasformate nel contrario di ciò che rappresentavano per Gozzi: non un ponte tra Occidente e Oriente ma un elemento propriamente cinese. Nascono così i tre dignitari di corte, dal nome un po’ faceto Ping, Pong, Pang, modellati sul genere dei fools shakesperiani, che assolvono alla funzione di commento ironico e disincantato, a volte cinico, della realtà che li circonda. Inoltre perché l’intera struttura reggesse, Puccini fu costretto a concentrarsi sulle linee essenziali della vicenda e a trascurare gli intrecci secondari della fiaba. La crudeltà di Turandot dovette quindi essere spiegata e riequilibrata. Fu necessario trasformare la Principessa da esecutrice tragica di un destino di vendetta, (quello che si rifà alla violenza subita dalla sua antenata Lo-uling), in un personaggio capace di esprimere un sentimento psicologicamente più sfaccettato, come quello della paura del maschio dominatore. Turandot non è infatti la vittima di un trauma ancestrale, da lei usato come pretesto, bensì una donna che vuole fare di se stessa un monumento di virtù. Fuggire l’uomo vuol dire conservare la purezza. Ignorare il sesso, la cui conoscenza porta alla perdita dell’innocenza, è certamente un metodo tra i più efficaci per evitare il confronto con l’umanità maschile. In virtù di una simile necessità Puccini e i suoi librettisti Carlo Gozzi introdussero il personaggio della sciava Liù che funziona da elemento patetico e permette, con il suo suicidio d’amore, lo “sgelamento” di Turandot. La soluzione degli enigmi da parte di Calaf e la morte della schiava fanno così convergere l’apparato simbolico della vicenda verso l’inevitabile discesa dell’algida principessa al livello degli uomini e verso il consueto lieto fine, per quanto amaro, delle favole. L’umanizzazione di Turandot è compiuta. E’ pur vero che Puccini morì subito dopo aver scritto il suicidio di Liù e che il trionfante finale con la principessa innamorata è opera di Alfano. In sordina possiamo legittimamente domandarci se il Maestro, avendone avuta la possibilità, avrebbe scelto lo stesso epilogo. Maria Elena Latini Le Opere di Giacomo Puccini e le loro prime esecuzioni Le Villi (31.5.1884 Teatro dal Verme, Milano) Le Villi [rev] (26.12.1884 Teatro Regio, Torino) Edgar (21.4.1889 Teatro alla Scala, Milano) Edgar [rev] (28.2.1892 Teatro Communale, Ferrara) Manon Lescaut (1.2.1893 Teatro Regio, Torino) La bohème (1.2.1896 Teatro Regio, Torino) Tosca (14.1.1900 Teatro Costanzi, Roma) Madama Butterfly (17.2.1904 Teatro alla Scala, Milano) Madama Butterfly [rev] (28.5.1904 Teatro Grande, Brescia) Edgar [rev 2] (8.7.1905 Teatro Colón, Buenos Aires) Madama Butterfly [rev 2] (10.7.1905 Covent Garden, Londra) Madama Butterfly [rev 3] (28.12.1905 Opéra Comique, Parigi) La fanciulla del West (10.12.1910 Metropolitan Opera, New York) La rondine (27.3.1917 Opéra, Monte Carlo) Il trittico: (Il tabarro - Suor Angelica - Gianni Schicchi) (14.12.1918 Metropolitan Opera, New York) Turandot (25.4.1926 Teatro alla Scala, Milano) Turandot 12 Il Giornale dei Grandi Eventi Le due versioni del finale postumo dell’opera L L’ingrato compito di Franco Alfano: a sera del 25 aprile 1926 va in scena al Teatro alla Scala di Milano la prima rappresentazione assoluta di Turandot di Giacomo Puccini. Appena conclusa la scena dello straziante corteo funebre per Liù, la musica si interrompe e Arturo Toscanini, dal podio, con una voce resa incerta dall’emozione, si rivolge al pub- Franco Alfano blico trepidante: «Qui finisce l’opera, Dopo qualche istante di perché a questo punto il stupore, gli spettatori maestro è morto. La morte prorompono in fragoin questo caso è stata più rosi applausi, gridando forte dell’arte». «Viva Puccini!». C Toscanini aveva deciso per la “prima”come volontà espressagli da Puccini - di onorare in questo modo la memoria del compositore, terminando l’esecuzione nel punto esatto in cui la mano del “Lucchese” si era fermata. (Il compositore era morto in seguito a complicazioni post-operatorie nel 1924 a Bruxelles, dove si era recato per curare un cancro all’esofago). Peraltro, lo stesso Toscanini era stato, insieme ai parenti del Proposta per un finale Uccidete Calaf! i ha provato subito dopo la morte di Puccini, Franco Alfano, ci ha provato recentemente Luciano Berio. Ma nell’opera degli enigmi, l’enigma centrale, quello dell’epilogo a lieto fine con la gelida Turandot che si scioglie per Calaf, rimane a tutt’oggi irrisolto. Il trionfo dell’amore, il mutamento della principessa di ghiaccio, per quanto lo si rallenti (e Berio ha inserito un breve interludio strumentale, quasi a voler concedere qualche minuto in più alla donna per la metamorfosi) rimane improvviso e inaspettato. Certo, la trasformazione repentina di Turandot era già in Gozzi, ma lì l’atmosfera fiabesca la giustificava. In Puccini la dimensione favolistica è appena evocata da Ping,Pong e Pang; nel resto si è in un dramma alquanto forte e vibrante che sfocia in commedia a lieto fine con qualche difficoltà. E così, dopo l’interruzione di Toscanini all’esecuzione dell’opera alla “prima assoluta” del 1926 al momento della morte di Liù dove l’aveva lasciata Puccini (così diversa dalla gozziana Adelma), dopo il finale (anzi il doppio finale: quello tagliato e quello intero) di Alfano, dopo l’ultima fatica di Berio, si potrebbe suggerire un ulteriore finale a sorpresa: la morte di Calaf. Calaf, in effetti, merita di morire. Egli, infatti, è - si badi bene - molto più crudele di Turandot. La Principessa fa decapitare i suoi spasimanti, ma non li conosce neppure. Ella mantiene un atteggiamento distaccato, li invita anche a desistere prima di leggere i fatidici tre enigmi. Se poi, volontariamente ed incoscientemente, quelli si lanciano nel “quiz”, la responsabilità è anche e soprattutto loro. Calaf, invece, getta allo sbaraglio il povero padre e la deliziosa Liù per un semplice capriccio. Guarda Liù che si suicida per salvarlo e non muove un dito. Manda in giro il padre cieco per il mondo senza alcuna pietà. Di quale umanità, dunque, è capace? Dalla morte di Calaf, Turandot avrebbe tutto da guadagnare. Manterrebbe la propria coerenza, dimostrando fino in fondo la propria crudeltà, giocando uno splendido tranello al suo spasimante e battendolo dopo averlo blandito e sedotto. Una gran donna. «O Padre Augusto… ora conosco il nome dello straniero. Il suo nome… è Calaf!» Uccidete Calaf. Avanti un altro! Roberto Iovino musicista e alla Casa Ricordi, fra coloro che avevano fortemente voluto che Tu r a n d o t v e n i s s e completata da un altro compositore. Infatti, sebbene nella musica strumentale un lavoro incompiuto possa esercitare un indiscutibile fascino e Giacomo Puccini nel 1924 mantenere comunque inalterato il (1921), non sarebbero suo impatto comunica- riuscite a procurargli. tivo, nel teatro musica- Compositore di rilievo, le, soprattutto a partire artista esuberante ed da quello tardo otto- entusiasta, Alfano si centesco, una grave era formato sulle orme mutilazione come la di Puccini, del quale mancanza del finale era anche divenuto poteva mettere in seria amico personale. Era discussione la fruibilità anch’egli un compositore legato alla Casa di un’intera opera. Lasciare in sospeso il Ricordi e si era affercorso dell’azione di mato con discreto sucavrebbe, cesso qualche anno Turandot, però, fatto traballare le prima con l’opera La colonne portanti dell’in- Leggenda di Sakuntala, tera struttura musicale e anch’essa di ambientazione orientale, che tutdrammatica dell’opera. I primi compositori che tavia il pubblico stava vennero contattati furo- già dimenticando. I no Riccardo Zandonai e committenti del lavoro Pietro Mascagni, i quali pensarono che l’indiaperò declinarono l’of- na Sakuntala sarebbe potuta efficacemente ferta. diventare sorella della cinese Turandot. La scelta cadde su Puccini aveva portato Alfano con sé, nella clinica di Fu invece il composito- Bruxelles dove si dovere napoletano Franco va operare, 36 fogli Alfano, allora cinquan- pentagrammati contetenne, che, seppure nenti gli appunti per il dopo molte perplessità, finale di Turandot, a cui accettò il gravoso com- contava di lavorare pito, che pure gli durante la convalescenavrebbe dato quella za. Quando Alfano li duratura fama che le prese in esame, si trovò sue altre opere, come di fronte un materiale Resurrezione (1904) o La confuso, pieno di canleggenda di Sakuntala cellature, tagli e som- Il Turandot Giornale dei Grandi Eventi 13 finire Turandot marie, quasi incomprensibili, annotazioni come «qui trovare la melodia tipica vaga insolita» oppure «Poi Tristano…». Quest’ultima frase è stata variamente interpretata: secondo Mosco Carner, grande biografo di Puccini, egli avrebbe voluto inserire in quel punto un intermezzo orchestrale, che avrebbe rievocato la magica atmosfera dell’opera wagneriana nel momento del bacio di Calaf. Secondo Teodoro Celli, invece, il compositore Figurino prima di Turandot avrebbe voluto ritornare al tema inserito nel concertato finale del primo atto, che sembra già ispirato al tema del mare nel Tristano. Delle 375 battute scritte da Alfano, appena 97 sono quelle originali di Puccini, desunte dalla sua bozza, e precisa- mente: l’inizio del duetto Principessa di gelo fino all’aria Del primo pianto, di cui il materiale tematico era solo accennato. Gli stessi cenni sommari riguardavano il tema degli ottoni che introducono il secondo quadro e la ripresa del tema del Nessun dorma nel coro finale. Le due versioni Il lavoro di Alfano fu completato e consegnato nel gennaio 1926 e Ricordi ne stampò uno spartito per canto e pianoforte. Questa edizio- ne rappresenta una vera rarità, di cui esistono solo 12 copie in tutto il mondo. Infatti venne ben presto ritirata dal mercato: Toscanini la rifiutò con la motivazione che in essa vi fosse «troppo Alfano e poco Puccini». Le discussioni e i malu- Bozzetto del secondo atto per la prima rappresentazione di Turandot mori non mancarono, ma alla fine la volontà dello scorbutico ed inflessibile direttore d’orchestra prevalse e 107 battute di Alfano vennero tagliate impietosamente, conducendo alla stesura di una seconda versione della partitura. Le parti tagliate non erano state scritte a caso da Alfano ed erano funzionali a rendere con gradualità e penetranza psicologica il progressivo mutamento interiore di Turandot, come per i fondamentali momenti successivi al bacio di Calaf o alla rivelazione del nome del principe. Toscanini, tuttavia, da grande conoscitore della vocalità, era anche consapevole che l’impegno richiesto ai cantanti nell’esecuzione della prima versione sarebbe stato eccessivo. Fu questa, probabilmente, la motivazione della sua impuntatura. La prima versione di Alfano fu riesumata solo nel 1982, in forma d’oratorio, alla Barbican Hall di Londra, dopo il ritrovamento della partitura negli archivi Ricordi e da allora è stata ripresa in diverse occasioni, l’ultima delle quali al Teatro del Giglio di Lucca, nel 2003. Alfano ebbe la sfortuna di nascere in un momento di crisi del melodramma, dove, per giunta, giganteggiava la figura di Puccini. Il suo carattere sanguigno e indipendente non gli consenti- La prima edizione di Turandot va di inseguire i gusti del pubblico ed egli pertanto di cercò imporre una sua idea di teatro musicale. Morì quasi dimenticato dalla critica, ricordato solo per il suo lavoro di completamento di Turandot, che, pur essendo stato compiuto con scrupolo e sensibilità, venne bistrattato da direttori d’orchestra e critici musicali. A. C. Turandot 14 F Il Giornale dei Grandi Eventi Franco Alfano, autore del finale postumo Storia di un compositore incompreso ranco Alfano visse in un momento storico dominato dalla confusione - si pensi ai due conflitti mondiali - che non lasciò molto spazio alle sue aspirazioni di operista, ostacolate dalla difficoltà di trovare libretti corposi, con intrecci affascinanti e coinvolgenti. Il compositore nasce a Napoli l’ 8 Marzo 1875. Studia al Conservatorio S. Pietro a Maiella e si perfeziona poi in composizione a Lipsia. Nel 1896, alla ricerca di un ambiente culturalmente più stimolante, si trasferisce a Berlino dove la vita musicale si nutre di interessanti scoperte stilistiche. Nel 1899 è a Parigi per mettere in scena due balletti presso le «Folies Bergères» e dove comincia a scrivere l’opera Resurrezione, portata poi a termine tra Mosca e Napoli. Gli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, dopo la morte di Wagner nel 1883, musicalmente erano stati espressione di un forte scossone stilistico di cui Alfano è testimone. Egli, insieme con la sua generazione, sentì la necessità di un rinnovamento nel campo del teatro lirico ormai da tempo sclerotizzato, nonché l’esigenza di spaziare anche nel mondo della musica sinfonico-strumentale. Resurrezione, il suo più valido successo, è un lavoro che rivela una grande vena teatrale oltre ad una naturale forza di linguaggio, entrambe preferite all’uso di melodie facilmente memorizzabili. Le pagine della sua musica risultano quindi molto dense sinfonicamente e spesso di difficile comprensione. Il principe Zilah, sua seconda opera, è un esempio di tale difficoltà d’ascolto. Si tratta di un lavoro interessante dal punto di vista musicale, affiancato però da un libretto mediocre. Nonostante gli insuccessi, Alfano continuò a lavorare freneticamente fra le due guerre. Franco Alfano Ragguardevole la sua produzione di musica da camera: sonate per violino e per violoncello e il Quartetto n° 2, ricco di contenuti poetici e di sonorità dolci e mediterranee. La sua opera maggiore è La Leggenda di Sakùntala, di cui scrive personalmente il libretto, in prosa e non in versi, tratta dal dramma di Kalidasa: Abhijnanasakuntala risalente al 400 a.C. circa. . L’azione, ambientata nell’India primordiale. Testo e musica sono nell’opera fortemente compenetrati e l’orchestrazione raggiunge uno sfarzo lussureggiante. La prima rappresentazione è al Teatro Comunale di Bologna, il 10 dicembre del 1921, ma la partitura originale andò distrutta durante la seconda Guerra mondiale. Sarà Alfano stesso a strumentarla nuovamente, sulla base della riduzione per canto e pianoforte, riproponendola nel 1952 al Teatro dell’Opera di Roma. Intraprende anche la carriera di insegnante: docente di composizione e direttore del Conservatorio di Bologna tra il 1916 e il 1923, diventerà poi direttore del Liceo Musicale di Torino, carica che manterrà fino al 1939. Tra le tappe più importanti della sua vita c’è, paradossalmente, proprio l’incontro con un grande libretto di cui è chiamato a musicare il finale. Nel 1925 infatti, su richiesta di Toscanini, la famiglia Puccini e l’editore Ricordi lo invitano a terminare la Turandot, capolavoro incompiuto di Puccini, morto l’anno precedente. Si tratta di un lavoro delicato: musicologi e musicisti hanno gli occhi puntati sul risultato. A questa parentesi seguono, tra il 1940 e il 1942, la Sovrintendenza al Teatro Massimo di Palermo e la cattedra di Studi per il teatro lirico al Conservatorio di Roma. Ultimo incarico della carriera didattica è la direzione del Liceo Musicale di Pesaro dal 1947 al 1950. Il suo ultimo lavoro è il Cyrano de Bergerac del 1936. Critica e pubblico ne apprezzano la ritrovata sobrietà dell’orchestra. Franco Alfano muore a San Remo, quasi dimenticato, il 27 Ottobre 1957. Ma. E. La. Carlo Gozzi, autore della fiaba Turandot Un aristocratico sedotto dal fiabesco Tradizionalista e antilluminista in filosofia ed in politica, purista e classicista in estetica, questa la sintesi del carattere aristocratico e conservatore, a tratti sprezzante, di Carlo Gozzi. Amante del fantastico, nelle sue Fiabe scritte tra il 1761 e il 1765, Gozzi risuscita nelle sue opere teatrali le maschere della commedia dell’arte, trasportandole nell’atmosfera dei racconti per bambini. Vissuto a Venezia tra il 1720 e il 1806, proveniva da una nobile famiglia decaduta e per tutta la vita dovette combattere con le difficoltà economiche. Nonostante l’intensa e produttiva attività di letterato, Gozzi si rifiutò sempre di trarne guadagno per una sorta di orgoglio aristocratico. Nel 1747 fondò con il fratello Gasparo l’Accademia dei Granelleschi, tra le istituzioni letterarie più conservatrici della sua epoca. Fu aspro critico di Goldoni, al quale rimproverava un difetto profondo di sensibilità morale: conte- stava nelle opere del suo avversario “virtù e vizi mal collocati, sovente il vizio trionfatore”, la mancanza di idealità poetica e l’insufficiente disciplina stilistica. Considerava Goldoni come “uno scrittore, levatolo dal dialetto veneto del volgo, nel quale era dottissimo, da porre nel catalogo dei più goffi, bassi e scorretti scrittori del nostro idioma”. La vena poetica che anima le Fiabe, rievoca nostalgicamente un mondo rarefatto di semplice grazia e gentilezza, infantile e popolare, cui l’occhio di Gozzi si rivolgeva con sguardo benevolo e ironico e con il senso di rimpianto tipico del “laudator temporis acti”. Questi sentimenti resero l’opera di Gozzi particolarmente gradita all’Europa dell’età romantica e le Fiabe incontrarono l’apprezzamento di Goethe, Schiller, Schlegel e Madame de Staël, fino a Wagner e ai De Goncourt. In Italia, tuttavia, il suo successo fu immediato quanto effimero. Tardiva, seppur fortunata, fu la ripresa di alcune delle sue Fiabe più riuscite da parte del teatro musicale: pensiamo a L’amore delle tre melarance, rielaborata da Mejerchol’d per l’omonima opera di Profi’ev nel 1921, Turandot, ripresa da Busoni (1917) e Puccini (1926) . Le ambientazioni magiche ed esotiche popolate di maghi e principesse offrivano, comprensibilmente, uno spazio ricco di possibilità per il melodramma. E’ pur vero che gli argomenti fiabeschi delle opere di Gozzi, tratti dalle Mille e una notte e dal Pentamerone del Basile, si appesantiscono a volte di ragioni satiriche e di spunti polemici, che fanno decadere sovente la fiaba dal poetico mondo irreale e fantastico in un pedantesco allegorismo. Un cospicuo gruppo di carte in gran parte inedite, appartenenti a Gasparo e Carlo Gozzi, individuato di recente da Fabio Soldini, noto studioso gozziano, è stato acquistato di recente dalla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Il materiale è in corso di riordino ed inventario e sarà quindi disponibile per la consultazione solo tra alcuni mesi. A. C. Il Giornale dei Grandi Eventi Dal mondo della musica 15 Novità in libreria nel 250° anniversario della nascita (3) Mozart tra pubblico e privato, tra storia e fantasia C ontinua, con questa terza puntata, l'analisi dei libri su Wolfgang Amadeus Mozart che, in questo anno del suo 250° anniversario della nascita, affollano le librerie. Le puntate precedenti sono state pubblicate su Il Giornale dei Grandi Eventi n° 28 /2006 (La Leggenda di Sakùntala) e n° 38 /2006 (Il Turco in Italia). Fino agli anni Cinquanta la lirica italiana era di tutti: per strada in molti canticchiavano le arie più celebri dei melodrammi, che nei salotti venivano suonate con il pianoforte, mentre i giovani leggevano i libretti deliziandosi dalle trame avvincenti e sanguigne. Le nonne raccontavano ai nipoti le favole tratte dalle trame di Puccini… spesso omettendo la conclusione a favore di un lieto fine. Così la musica si divulgava e la lirica era davvero la colonna sonora del Bel Paese. Oggi purtroppo avviene il contrario: basta la parola melomane con cui si definisce l'appassionato dell'opera per far pensare a qualcosa di struggente, di passato e malinconico. E mentre le platee diventano nidi per pochi appassionati, luoghi di nicchia, o raccoglitori di turisti, bisogna trovare nuovi mezzi per "sensibilizzare il grande pubblico", allontanato da prezzi proibitivi e da distrazioni più facili. Ecco allora le spettacolari manifestazioni di piazza, gli eventi luminescenti e pretenziosi che richiamano la gran folla. Ecco biografie e romanzi sui grandi personaggi del passato, costruiti seguendo il gusto dettato dalle telenovele dell'ora di pranzo; ed ecco i libri indagare su scandali, amanti, disastri finanziari che hanno coinvolto i grandi della musica. I l primo romanzo pubblicato da Rita Charbonnier ha come protagonista la sorella di Mozart, Maria Anna Walburga Ignatis Mozart, piccolo genio musicale che in coppia con il fratello Amadeus si esibì presso le corti europee e in giovinezza si cimentò anche nella composizione. Il suo rapporto con il fratello, complice ed affettuoso in infanzia, si raffreddò negli anni, fino a spegnersi del tutto. Eppure Nannerl può essere considerata uno dei migliori "agenti" del grande compositore: fu lei, infatti, che dopo la sua morte collaborò con biografi, autenticò le composizioni e sorvegliò la loro pubblicazione. Il romanzo è un'opera di finzione, tuttavia si ispira alla realtà storica: ne risulta una figura di donna che da prodigio musicale si trasforma in un'eroina travolta dalle passioni che lotta per conciliare gli aspetti della vita, e soprattutto l'amore, con uno straordinario talento musicale. (R. CHARBONNIER, La sorella di Mozart, Milano, Corbaccio, 2006, pp. 329, isbn 887972-759-1, € 16). vamente attraverso l'analisi del processo creativo che la personalità del compositore emerge in maniera seria e problematica con tutti i suoi misteri. Il volume è completato da una ricca cronologia e dagli indici delle opere e dei nomi. (W . HILDESHEIMER, Mozart, Milano, Bur, 2006, pp. 433, isbn 8817-00939-3, € 9,80). O A ltre alle novità, presentate nei due numeri precedenti del Giornale dei Grandi Eventi, nelle librerie sono esposti titoli di invitanti ristampe e vecchie edizioni. Un classico della bibliografia è Mozart, la stesura rivista ed ampliata di una conferenza tenuta nel 1956 da Wolfgang Hildesheimer in occasione del bicentenario mozartiano, pubblicata in tedesco nel 1977 e quest'anno ristampata per la prima volta da Rizzoli in edizione economica, con la traduzione di Donata Schwendimann Berra. Come a voler spurgare il nome del nostro eroe da tutte le superfetazioni, in primo piano torna la musica. Ed è esclusi- ncora precedente è Il Don Giovanni di Mozart, scritto tra Salisburgo e la Francia negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale e pubblicato la prima volta in francese nel 1942. Con rispetto e quasi soggezione per uno dei più celebri personaggi scaturiti dalla fantasia mozartiana, l'autore Pierre-Jean Jouve redige un'analisi lucida, ironica e spietata dell'opera e dei suoi personaggi. Il saggio, tradotto da Tea Turolla per i tipi di Adelphi, è diviso in capitoli che ricalcano la struttura del Don Giovanni e permettono di seguirne passo passo la musica ed il libretto. (P.-J. JOUVE, Il Don Giovanni di Mozart, Milano, Adelphi, 2001, pp. 187, isbn 88-459-15999, € 10,33). I nfine, anche in questa occasione segnaliamo un volume che riporta documenti d'epoca: si tratta dell'edizione italiana curata da Giorgio Pugliaro delle pagine biografiche pubblicate dopo la morte di Mozart da Friedrich von Schlichtegroll (1791) e Franz Niemetschek (1797). Con la raccolta di racconti e testimonianze di prima mano i due professori, ammiratori e conoscenti del musicista, ebbero il merito di affidare ai posteri le fonti primarie per tutta la saggistica posteriore. Fonti ancor più importanti perché scritte poco dopo un momento – quello della malattia e della morte – in cui la fama del Salisburghese presso il pubblico viennese aveva raggiunto il punto più basso della parabola discendente da cui si risolleverà solo alcuni decenni più tardi. (F. NIEMETSCHEK, F. VON SCHLICHTEGROLL, Mozart, a cura di G. Torino, P UGLIARO , E.D.T., 1990, pp. 107+17 illustrazioni b/n, isbn 88-7063-082-X, € 10,50). E.C.A.