S. IGNAZIO DI LOYOLA fondatore (1491-1556) Iñigo López de Loyola nacque nell'antichissimo castello della famiglia Loyola, non lontano dalla cittadina di Azpeitia nella provincia basca di Guipúzcoa. Ci sono stati dubbi sulla data di nascita, ma la maggior parte degli studiosi più autorevoli ora afferma che avvenne nel 1491. I genitori, Beltrán Yanez de Onaz y Loyola e Marina Sáenz de Licona y Balda, appartenevano a uno dei casati più nobili e stimati di quella zona. Il nome Inigo era comune tra i baschi, e fu solo quando si recò a Parigi e a Roma che Inigo de Loyola cominciò a usare il nome Ignacio, o Ignazio, con cui ora è noto, più facilmente identificabile al di fuori della regione basca. Nel 1506, Ignazio lasciò la sua casa per diventare paggio presso Juan Velásquez de Cuéllar, tesoriere del re di Castiglia e membro promll1ente della nobiltà castigliana, che viveva ad Arévalo, tra Avila e Valladolid. Presso di lui, Ignazio ricevette l'istruzione di corte del tempo, accompagnando il padrone nei suoi viaggi insieme alla corte, e senza dubbio fece tutto il possibile per farsi notare dal re e dai suoi uomini e assicurarsi una carriera che gli avrebbe garantito una buona rendita finanziaria. Scriverà in seguito il suo segretario: «Sebbene fosse devoto, non viveva in modo conforme alla fede, né si teneva lontano dai peccati; allora era particolarmente assorto nei giochi e nelle questioni di donne e nelle risse e cose d'armi» (Caraman). Ignazio stesso, più tardi, affermò che fu in quel periodo che cominciò a leggere avidamente la letteratura cavalleresca e romanzesca che iniziava a' circolare in Spagna: racconti di conquista e di gloria conseguita con gesta valorose e con sacrificio, di cavalieri coraggiosi e leali, devoti, soprattutto, all'amore per le loro donne; l'ideale cavalleresco comprendeva sempre una componente fortemente erotica (Caraman). È spesso citato un incidente avvenuto nel 1515 per illustrare il suo comportamento senza regole durante questi anni: in occasione di una visita a Loyola, fu coinvolto in una violenta rissa in seguito al1'attacco sferrato, insieme a suo fratello Pedro López, sacerdote, contro alcuni membri del clero; il caso finì in tribunale ed emerge dagli atti che non si trattava di una momentanea rissa di strada, ma di un agguato notturno premeditato, poiché Ignazio indossava l'armatura e portava spada, pugnale e pistola. Pur accettando alcune esagerazioni in questi resoconti e nelle reminiscenze di un santo che guarda al suo passato di giovane non devoto, Ignazio era ovviamente un esempio abbastanza tipico della gioventù del tempo: si godeva la vita, era fiero, e tentava di diventare famoso. 1 I suoi progetti improvvisamente sembrarono messi in pericolo nel 1516, alla morte di re Ferdinando, quando gli successe suo nipote, il lontano Carlo di Borgogna. Velásquez perse la sua posizione e influenza a corte e dovette ritirarsi, pesantemente indebitato, per morire 1'anno seguente. Ignazio, che sembrava stanco della vita di corte, partì per Pamplona, la capitale della Navarra, e ottenne un posto nell’esercito di Antonio Manrique de Lara, duca di Nájera e viceré di Navarra, con cui era imparentato. Intraprese la sua prima azione militare nel 1520, partecipando alla repressione di una rivolta scoppiata nella stessa Nájera, e la seconda nel 1521 allorché i francesi invasero la Navarra e assediarono Pamplona, partecipando alla difesa della fortezza cittadina. Il consiglio cittadino, temendo la rovina che le truppe francesi, più numerose, avrebbero causato, in caso di un assedio prolungato, voleva la pace, ma Ignazio decise di resistere (atto di gran coraggio o solo una sciocchezza avventata?). Durante 1'assedio fu colpito da una palla di cannone, che gli spezzò una gamba e ferì 1'altra; la città fu vinta, le guarnigioni si arresero e Ignazio fatto prigioniero dai francesi. La gamba fu curata con i metodi del tempo e dopo circa due settimane Ignazio poté far ritorno a Loyola; quando vi giunse la gamba gli doleva molto, e s'ammalò gravemente. Si confessò e implorò l'aiuto di S. Pietro, promettendo di dedicargli la vita di cavaliere, nel caso fosse guarito. Ignazio guarì, ma la gamba si deformò come risultato del secondo intervento, perciò chiese che un osso prominente gli venisse amputato; desiderava anche provocare un intenso dolore principalmente per vanagloria, a quanto pare. Gradualmente la salute migliorò, anche se fu necessario un periodo di convalescenza di nove mesi prima di poter tornare a essere attivo. È importante capire che tipo di persona era Ignazio prima di questo periodo di inattività, poiché la convalescenza causò un profondo cambiamento in lui e rappresentò l'inizio della sua conversione, che, ovviamente, non lo trasformò totalmente in un altro individuo; all'inizio, infatti, poteva sembrare che avesse solo trasferito le sue doti di cavaliere al servizio di un altro padrone, conservando il suo desiderio di avventura, con lo stesso coraggio e determinazione che aveva avuto in precedenza. È ironico che la conversione di un uomo così attivo fosse stata causata dalla lettura: mentre era in convalescenza, chiese alcuni racconti romanzeschi per passare il tempo, ma poiché non se ne trovavano, gli fu data una copia della Vita di Cristo di Lodolfo di Sassonia e una traduzione spagnola della Legenda aurea. \ All'inizio si stancò di leggere racconti di punizioni corporali e di abnegazione, ma lentamente fu colpito da alcuni dei "cavalieri di Dio", come erano chiamati nell'edizione spagnola. S. Francesco (4 ott.) aveva condotto una giovinezza dissoluta simile alla sua, amava danzare e cantare, ma poi dimostrò 2 coraggio quando incontrò il sultano e scambiò i suoi bei vestiti con gli stracci di un mendicante; inoltre era diventato la guida di uomini e donne a lui devoti. S. Domenico proveniva dalla zona vicino ad Arévalo e, ancora una volta, aveva usato le sue doti per istituire un grande ordine (nonostante Ignazio fosse disgustato del modo in cui si castigava con una catena, ogni notte). Un altro santo che lo attraeva era S. Onofrio, un principe persiano che aveva poi trascorso molti anni nel deserto come eremita (la sua dedizione totale a ciò in cui credeva era l'aspetto che lo colpiva maggiormente). La conversione non avvenne subito: quando era stanco di leggere le vite dei santi, sognava, come affermò, «tutto ciò che avrebbe ottenuto ponendosi al servizio di una certa signora [...] e le gesta militari che avrebbe intrapreso per lei». Era così attratto da queste "vanità" che non prendeva in considerazione l'impossibilità della loro realizzazione, poiché la dama era di altissimo lignaggio e probabilmente non lo avrebbe voluto come corteggiatore. Gradualmente si accorse che le sue fantasie di seguire la via della santità lo. soddisfacevano più a lungo di quelle della vita di corte e cominciò a pensare alla necessità di pentirsi per i peccati commessi; forse un pellegrinaggio a Gerusalemme sarebbe stato un primo passo (non esistevano mezze misure per Ignazio, e Gerusalemme gli avrebbe portato sia il brivido dell’avventura che la pace del pentimento). Una notte in cui non riusciva a dormire, gli apparve la Madonna, che lo riempì di un'immensa gioia per diverse ore e gli fece provare vergogna e totale repulsione per il modo in cui aveva vissuto fino allora, di conseguenza decise di cambiare stile di vita. Molto tempo dopo, scrisse che dopo aver avuto questa visione, non subì più le tentazioni della carne. Appena ristabilito, partì per Barcellona (con 1'aiuto del duca di Nájera, che gli offrì un impiego importante), per imbarcarsi per Gerusalemme come un umile pellegrino. Mentre era in viaggio, si fermò al santuario di Monserrat per una veglia davanti alla cappella della Madonna, dove scambiò i suoi abiti cavallereschi con quelli di un pellegrino. Non si sa cosa successe a Monserrat, ma è possibile che gli incontri con i monaci e la confessione generale che fece lo convinsero a rimandare il pellegrinaggio finché non avesse fatto ulteriori progressi nel suo nuovo modo di vivere, perciò si ritirò nella vicina Manresa, in eremitaggio. Uno dei monaci gli donò una copia di un'opera scritta dal riformatore monastico García Jiménez de Cisneros, 1'Exercitatorio de la Vida Espiritual (Manuale della vita spirituale). Trascorse a Manresa dieci mesi, vivendo all'inizio in un ospizio malridotto, chiedendo cibo nelle strade, ritirandosi talvolta in un luogo tranquillo vicino al fiume (ma non visse mai in una caverna, come affermarono successive 3 leggende), in generale pregando e studiando il modo di progredire nella vita spirituale che aveva scelto. Anche se non fu totalmente solo, poiché conobbe degli amici e un gruppo di donne benestanti che si prendevano cura di lui, fu un periodo molto intimo per lui. Fece esperienza della gioia della conversione e della profonda depressione che colpisce chi è scrupoloso, quest'ultima certamente favorita dal severo regime di digiuno e di penitenza corporale. Durante alcuni attacchi di febbre, dovette essere assistito e gradualmente la sua confusione interiore si attenuò; cominciò a provare quella pace fondamentale che godette per il resto della vita, basata sulla consapevolezza di agire secondo il volere di Dio. I santi furono sostituiti dalla Trinità nelle sue meditazioni e nelle motivazioni delle sue azioni, ed egli successivamente definì 1'inizio della sua vita mistica a Manresa come la sua "Chiesa primitiva". Manresa fu anche fondamentalmente importante nello sviluppo dei suoi Esercizi spirituali, destinati a diventare il contributo personale più ricco alla spiritualità occidentale. Prima di arrivare a Manresa aveva già iniziato a prendere appunti su ciò che leggeva e sulle sue esperienze personali mentre intraprendeva il cammino della conversione, e mantenne quest'abitudine durante i dieci mesi del suo "eremitaggio". Per la prima volta lesse l’Imitazione di Cristo, opera importante della devotio moderna dell'Europa settentrionale, che gli offrì un «modello d'interiorità coltivato intensamente» (Evennet). Non importa quanto possa essere stato influenzato dalle sue letture, a ogni modo. Ignazio produsse qualcosa che era «tanto originale nell’espressione come nel concetto e nel progetto generale» (ibid.). Gli Esercizi spirituali. - risultato dei suoi appunti, delle preghiere, delle sofferenze e delle esperienze mistiche -, un manuale per guidare le persone alla perfezione nella vita spirituale, un concentrato realistico delle sue esperienze, assai diverso dagli scritti mistici tradizionali poiché era destinato all'uso pratico, rappresentò uno stadio nel progresso spirituale di Ignazio alla ricerca del suo ruolo. Per un periodo aveva pensato di entrare a far parte di un ordine di clausura per condurre una vita di preghiera e di penitenza (prese in considerazione un vicino monastero cistercense), ma il suo temperamento lo portava a essere attivo e fu contatto con gli altri. Dopo la sua prima conversione, durante la convalescenza, amava parlare con gli altri delle sue esperienze e scoprì che li influenzava spiritualmente; è chiaro che a Manresa cominciò a svolgere questo apostolato, specialmente in favore delle donne che si prendevano cura di lui e gli Esercizi erano anche intesi ad aiutare gli altri a trarre un insegnamento dalle sue esperienze. 4 Gli Esercizi spirituali contengono due elementi centrali: un esame sistematico della coscienza, inflessibile nel porre in rilievo la condanna dei vizi inveterati, e un approccio preciso alla meditazione come forma di preghiera intesa a fissare 1'attenzione della mente in modo intenso su un particolare episodio della Bibbia o su qualche concetto dottrinale, e a ottenere risultati pratici nella vita individuale. Chi segue gli Esercizi spirituali è costretto a scegliere tra i "due modelli": Cristo o il mondo, oppure a persistere in un debole "non so". Tutto ciò non era stato elaborato completamente, al momento in cui Ignazio lasciò Manresa nel 1523; furono necessarie alcune modifiche allorché cominciò ad attrarre i suoi primi compagni grazie agli Esercizi spirituali, e quando l'Inquisizione, nel 1526, li esaminò per controllare che non contenessero eresie; alcuni anni dopo fu intrapresa a Parigi una revisione generale. Ad ogni modo, egli aveva già stabilito che la conversione personale e la santificazione individuale erano i punti centrali della riforma, e che dovevano continuare a rappresentare il fine della sua vita apostolica: nessuna grande strategia per ricostruire la Chiesa avrebbe potuto avere significato senza questi due principi fondamentali. Ignazio alla fine raggiunse Gerusalemme nel settembre del 1523, dove trascorse circa tre settimane, abbastanza a lungo perché la Terra Santa soddisfacesse le sue necessità spirituali, e sufficienti anche a fargli scoprire che il suo progetto segreto di convertire i musulmani, durante il pellegrinaggio, era impraticabile. I francescani gli ordinarono di partire per evitare la cattura e persino la morte per mano dei turchi. Ritornato in Spagna decise di aver bisogno di una certa istruzione formale, se voleva che la sua attività missionaria avesse successo (al momento non conosceva il latino e non aveva mai studiato teologia). All'età di trent'anni intraprese lo studio del latino e delle materie umanistiche, e sviluppò anche la sua vocazione condividendo le sue vedute spirituali con altri e introducendo alcuni di loro al primo stadio degli Esercizi. Cominciò a parlare della moderazione che mancava nella sua vita spirituale a Manresa: bisognava praticare solo penitenze moderate, come consigliò in una lettera: «Il Signore non ti comanda di fare cose difficili e dannose alla tua salute, ma solo di vivere con gioia in Lui, dando al tuo corpo ciò che è dovuto» (Caraman). In seguito sviluppò questo concetto di moderazione in un principio più ampio da usare nella guida delle anime: successivamente come confessore 1'applicò all'interpretazione della teologia morale, e spinse i suoi seguaci ad accettare usi e costumi locali. Dopo la sua morte, i membri della Compagnia 5 furono frequentemente accusati di essere «confessori indulgenti». Dopo aver studiato latino per due anni, Ignazio lasciò Barcellona per iniziare gli studi universitari ad Alcalá. Con lui partirono tre giovani e nella città universitaria radunò un gruppo molto vario di discepoli (il domestico di un sacerdote, mogli di artigiani, un vignaiolo, uno o due apprendisti e alcune prostitute). Iniziò a indossare l'abito clericale (aveva ricevuto la tonsura da giovane); non molto tempo dopo le autorità della Chiesa cominciarono a sospettare questo nuovo gruppo, credendo che fosse un’altra setta di "illuminati", o alumbrados, che affermavano di aver avuto rivelazioni speciali da Dio e che si credevano superiori agli altri cristiani. Ignazio fu chiamato a comparire davanti all'Inquisizione, ma fu rilasciato a condizione che i suoi seguaci non si vestissero come se fossero membri di un ordine. L’anno seguente seguirono altri interrogatori più severi sulle sue azioni e sui suoi insegnamenti, in particolare sulle lezioni o gli esercizi che faceva fare alla gente semplice, che includevano la raccomandazione di ricevere la santa comunione ogni quindici giorni. Gli inquisitori non trovarono niente che non fosse ortodosso, sia nel suo insegnamento che nelle sue azioni, anche se gli fu ordinato di vestirsi come un semplice studente e di non organizzare più incontri prima di aver compiuto altri quattro anni di studio. Contrario ad accettare questa limitazione allo svolgimento del suo ministero, decise di trasferirsi a Salamanca per continuare gli studi, ma presto dovette affrontare nuovi problemi: trascorse tre settimane in prigione, mentre il suo libro di Esercizi era sotto esame. Il verdetto fu uguale al precedente. Ignazio capì che non aveva altra scelta: avrebbe dovuto lasciare la Spagna, poiché aveva bisogno di studiare, ma nel frattempo non voleva porre fine al suo apostolato, perciò decise di trasferirsi a Parigi, dove giunse all'inizio del 1528. L’impatto che il suo sviluppo spirituale ricevette nei sei anni che trascorse a Parigi fu totale: entrò in contatto con il mondo più vasto dell'umanesimo cristiano, della riforma basata sulla Scrittura e del dibattito intellettuale generale; studiò arte, filosofia e si laureò. In termini accademici fu l'archetipo di un tardo divulgatore, e la sua Compagnia era destinata a distinguersi per la sua erudizione e il suo ruolo nello sviluppo di una più elevata istruzione cattolica; i più alti incarichi della Compagnia erano riservati solo ai più eruditi. A Parigi si unirono a lui alcuni seguaci che sarebbero diventati il nucleo della Compagnia: Francesco Saverio (3 dic.), Alfonso Salmarón, Diego Laínez, Simon Rodrigues, Nicolás Bobadilla del Camino e Pietro Favre (1 ago.), con i quali nella cappella di Montmartre fece voto di condurre una vita di povertà e di castità e di recarsi a Gerusalemme per convertire i musulmani o dovunque il papa avesse loro chiesto. 6 Si convinse della necessità dell'organizzazione per rendere efficace il processo di riforma; perfezionò gli Esercizi, presentandoli ai suoi compagni. Un certo numero di spedizioni efficaci nelle Fiandre e a Londra, per ottenere donazioni, gli diede un po' di sicurezza sul piano finanziario, ma la sua salute era stata permanentemente danneggiata dai suoi eccessi penitenziali giovanili, e quando lasciò Parigi nel 1535, dovette tornare in Spagna per tre mesi per ristabilirsi, durante i quali persuase le autorità a effettuare un progetto urbano in aiuto dei poveri, come aveva visto fare in alcune città delle Fiandre. I compagni promisero di rincontrarsi a Venezia nel giro di due anni e poi di partire per Gerusalemme. Ignazio si recò a Venezia prima degli altri, dove studiò teologia privatamente e incontrò alcuni importanti riformatori con cui discusse lo stato della Chiesa, due dei quali successivamente entrarono nella Compagnia. Ignazio continuava a usare gli Esercizi, e ad accrescere la sua abilità come guida spirituale tramite corrispondenza. Quando il gruppo di Parigi (a quel tempo formato da nove membri, e che comprendeva Claudio Le Jay, Pascasio Broët e Giovanni Codure, due dei quali avevano eseguito gli Esercizi guidati da Favre) lo raggiunse, lavorò con lui in quella città per alcuni mesi nell’ospizio degli incurabili, svolgendo compiti umili e assistendo quelli che morivano di tifo o sifilide. Dovettero rinviare il progetto di recarsi a Gerusalemme, perché i turchi controllavano il Mediterraneo orientale; approfittarono del ritardo per farsi ordinare sacerdoti e svolgere un lungo ritiro spirituale insieme (Ignazio lo chiamò la sua "seconda Manresa"), poi si divisero in gruppi di due o tre per lavorare in città diverse. Prima di lasciare Venezia decisero di chiamarsi Compagnia di Gesù, in linea con le congregazioni e le confraternite che erano esistite per anni in varie zone dell'Europa settentrionale e con la Compagnia del Divino Amore che era stata fondata a Brescia da S. Caterina da Genova (15 set.). In nessun senso la parola "compagnia" aveva sfumature militari in questo contesto, e Ignazio non si basava sulla sua esperienza di soldato, nell'organizzare i suoi seguaci in questo modo (anzi, "organizzazione" è probabilmente una parola troppo forte per definire il gruppo di confratelli a questo punto della loro storia, il cui legame più intenso era il loro desiderio comune di conversione e santità personale). Ignazio, Laínez e Favre partirono per Roma verso la fine del 1537; a La Storta, circa venti chilometri dalla città, Ignazio ebbe una importante esperienza spirituale: mentre stava pregando la Madonna di «porlo accanto a suo Figlio», fece esperienza di «un tale cambiamento nella sua anima e vide così chiaramente che 7 Dio Padre lo aveva posto vicino a suo figlio Cristo, che la sua mente non poté dubitare che Dio Padre lo avesse davvero accolto vicino a suo Figlio» (Autobiografia). Per Ignazio questo fu il segno che stava aspettando: il lavoro che stava svolgendo insieme ai suoi compagni aveva l'approvazione divina; non è chiaro se avesse pensato, prima di quest' esperienza, di organizzare il gruppo in un ordine o in una congregazione formale e non si sa neanche se avesse quest'intenzione persino dopo l'episodio avvenuto a La Storta, ma di una cosa era certo: il nome Compagnia di Gesù era giusto perché esprimeva il loro rapporto di servizio a Cristo. A Roma i tre iniziarono a insegnare catechismo ai bambini, a confessare e a predicare; la loro ortodossia fu tuttavia messa in dubbio di nuovo, ma un'indagine giudiziaria li prosciolse da tutte le accuse. Furono raggiunti dal resto del gruppo e nell'inverno 1538-1539 ebbero l'opportunità di svolgere il loro apostolato di carità, poiché la città fu colpita da carestia, nell’assistere centinaia di malati e affamati. Avevano già offerto i loro servizi a papa Paolo III (1534-1549), che era diventato un tenace sostenitore del loro stile di vita e voleva inviarli in luoghi differenti (le città dove avevano già svolto la loro attività chiedevano il loro ritorno e il re del Portogallo chiese loro persino di recarsi nelle Indie). Erano certi che questi incarichi sarebbero diventati sempre più frequenti, e si trovarono ad affrontare la questione di come poter mantenere la loro unità in tali circostanze; se si fossero organizzati in un ordine, avrebbero dovuto obbedire a due superiori, il papa e il responsabile eletto a capo dell'ordine. Mentre la Compagnia s'ingrandiva, tuttavia, non ci si poteva aspettare che il papa stesso discutesse con loro ogni dettaglio. Nel giugno del 1539 i compagni, dopo aver pregato e discusso a lungo, decisero di eleggere un superiore al quale avrebbero pronunciato il loro voto di obbedienza e a Ignazio fu chiesto di redigere lo schema di una costituzione per loro. Scrisse ciò che egli stesso definì una "formula", o stile di vita, piuttosto che una regola, ma che conteneva già dei suggerimenti per le costituzioni successive: il dovere della Compagnia era di insegnare il catechismo, predicare, confessare, tenere conferenze, assistere malati e carcerati. Un superiore eletto avrebbe dovuto esercitare la sua autorità con un consiglio e ogni membro dipendeva direttamente dal papa «senza esitazioni, indecisioni o scuse». Non si parlava di recitare l'Ufficio insieme, né di osservare precise ore di preghiera o penitenze prescritte (tutte caratteristiche delle regole tradizionali la cui assenza, insieme al voto speciale d'obbedienza al papa, provocò obiezioni quando fu presentata la formula per l'approvazione). Ignazio fu irremovibile sulla questione dell’'Ufficio; la soluzione per lui era la flessibilità, e la capacità dei 8 compagni di recarsi ovunque fosse necessario in qualsiasi momento (come disse in un'altra occasione, avrebbero sempre dovuto avere «un piede nella strada, pronti ad affrettarsi da un luogo al l'altro»). Ci volle più di un anno per ottenere l'approvazione del papa, che fu garantita in una bolla del settembre 1540, in cui qualificava il nuovo ordine con il nome Compagnia di Gesù. Ignazio fu eletto superiore nel 1541 e il 22 aprile i sei compagni che si trovavano a Roma pronunciarono i voti. È interessante notare, alla luce dell’attività successiva della Compagnia in seno alla Riforma cattolica, che la formula non faceva nessun riferimento al protestantesimo o a nessun altro compito speciale che i suoi membri potessero svolgere nel combatterlo: Ignazio non si considerava un paladino contro l'eresia e non elaborò mai nessuna strategia per controbatterla; era più interessato a convertire i musulmani e a evangelizzare i pagani dei paesi lontani. Ignazio trascorse il resto della sua vita a Roma, guidando la Compagnia e svolgendo il suo apostolato presso i poveri, le prostitute, gli ebrei, i malati e gli orfani della città, per i quali aprì una casa e organizzò una confraternita che la gestisse. Istituì anche una casa per prostitute che cercavo di redimersi, la casa di Santa Marta. Si tenne in contatto con i membri della Compagnia per lettera: avrebbero dovuto mandargli trimestralmente dei rapporti sulle loro attività e lui avrebbe inviato loro un resoconto del lavoro che gli altri stavano svolgendo. Sfruttò questi rapporti per propagandare il loro apostolato e per reclutare nuovi membri per la Compagnia (furono particolarmente utili, in questo caso, le lettere di Francesco Saverio, che era partito per l'India, primo missionario gesuita). Oltre alle lettere burocratiche usuali, Ignazio scrisse a re e regine, a nobildonne di gran fama, a coloro che gli chiedevano consiglio spirituale, a quelli che avrebbero potuto sostenere le sue opere di carità a Roma: nel complesso queste lettere «rivelano la sua umanità quasi con la stessa intimità degli Esercizi spirituali, e riflettono l'intera gamma delle sue idee e come si svilupparono negli ultimi sedici anni della sua vita» (Caraman). Sono state tramandate circa settemila di queste lettere, non tutte, per ammissione, scritte direttamente da lui, che, nonostante il loro stile formale (e Ignazio rivedeva almeno una volta ogni lettera che scriveva, stando molto attento a come esprimeva il suo pensiero) sono cariche di umanità e amicizia, sebbene non contengano parole confidenziali, né aspetti propri della natura umana o discorsi frivoli; paragonate alle lettere intense di S. Teresa d'Avila (15 ott.), sono scritti prosaici di un uomo che controlla totalmente le sue emozioni, che non dimentica mai se stesso o l'importanza di ciò che sta scrivendo (Rahner). Il suo costante carteggio non significava che Ignazio interferisse nel 9 lavoro dei suoi membri; anzi una delle caratteristiche della Compagnia era che egli concedeva e incoraggiava molto l'iniziativa personale. La sua libertà nel dirigere la Compagnia era molto, diversa da qualsiasi stile di governo autocratico; insisteva che i membri prendessero le decisioni senza rivolgersi a lui: «Lascio ogni cosa al tuo giudizio», scrisse a Rodrigues in Portogallo nel 1542 «e considererò migliore qualunque tua decisione» (Caraman). Guidò la Compagnia, piuttosto che governarla, poiché tutti i suoi membri avevano fatto gli Esercizi spirituali e questa era l'unica garanzia di cui aveva bisogno: un individuo totalmente libero di agire avrebbe servito meglio Dio, e pochi superiori religiosi possono aver detto così fermamente ai membri del loro ordine di dimenticare le regole e fare ciò che avessero ritenuto più opportuno (Bossy). Esisteva un ovvio contrasto tra questa flessibilità e l'importanza che Ignazio attribuiva all'obbedienza totale come virtù fondamentale per i membri della Compagnia, ma nella maggior parte dei casi si trattava di uno stato di conflitto creativo, ed egli riuscì a concedere all'individuo la massima libertà d'azione sul posto, insistendo contemporaneamente sulla totale subordinazione del volere individuale al superiore. Gli studiosi hanno visto in questo un modello tipicamente militare di comando e delega; senza forzare troppo l'analogia, funzionava perché l'esercito di Ignazio era composto interamente di ufficiali. Non si può mettere in dubbio l'alto valore che attribuiva all’obbedienza, e le sue opere su quest’argomento abbondano del linguaggio tradizionale tipico di questo tema: il religioso avrebbe dovuto essere quasi cadaver (simile a un cadavere), totalmente a disposizione del suo superiore; avrebbe dovuto obbedire "ciecamente" ed essere uno strumento nelle mani di qualcun altro, mentre i superiori avrebbero dovuto allontanare quelli che disobbedivano. Non si trattava di una questione teoretica per Ignazio, poiché era molto preoccupato per ciò che stava accadendo in Portogallo, dove la condotta rilassata di Bobadilla stava causando seri problemi, comportamento che secondo Ignazio era dovuto a una mancanza basilare di disciplina. La lunga lettera che scrisse su quest'argomento nel 1553, e le sezioni che incluse nelle Costituzioni mostrano chiaramente il suo pensiero: «Il terzo modo di sistemare la questione (di accettare l'obbedienza) [...] è presupporre e credere, in modo molto simile a come siamo soliti fare nelle questioni di fede, che ciò che il superiore esige corrisponde al comando di Dio, nostro Signore, e al suo santo volere. Poi procedere ciecamente, senza domande di nessun tipo [...] con la volontà pronta a obbedire» (lettera del 1553). L'obbedienza era per Ignazio allo stesso tempo la miglior forma d'abnegazione e il segno più sicuro del suo raggiungimento, un sacrificio volontario degli individui che si offrono a Dio, il 10 quale crea una condizione d'amore e di gioia spirituale, non di timore. Il modello, qui, come sempre per Ignazio, è Gesù, la cui «obbedienza fino alla morte» ha dimostrato la sua totale accettazione della volontà del Padre. Quest'insistenza sull'importanza dell'obbedienza riguarda anche il superiore: i subalterni devono aver fiducia in lui in quanto guida e tramite con Cristo, ed egli deve tenere in considerazione il loro talento personale e valutare l'opportunità di affidare loro compiti particolari nella Compagnia, cosa che anche Ignazio faceva. La posizione e il ruolo del superiore furono definiti più chiaramente quando Ignazio lavorò alle Costituzioni tra il 1544 e il 1550, aiutato dal suo segretario, Giovanni de Polanco, che leggeva e commentava tutte le bozze. Questi scritti furono arricchiti dalle problematiche suggerite dai membri della Compagnia che interpretavano la formula originale, interrogativi che riguardavano la povertà, l'obbedienza, i voti e l'autorità dei superiori locali. Girolamo Nadal viaggiò per tutta l'Europa per raccogliere le varie opinioni sulle bozze, e in un incontro speciale a Roma i membri professi approvarono una versione che Ignazio poi promulgò, benché continuasse ad apportare revisioni per il resto della sua vita. In essa erano conservati gli elementi basilari della formula: l'assenza dell'Ufficio in coro; nessun tempo fissato per la preghiera e il digiuno, nessun abito speciale o penitenza prefissata. Il noviziato era esteso a due anni invece di uno, come avveniva di solito, ed era seguito da un periodo di studio, detto scolasticato, da un altro anno di probazione; la professione dei voti avveniva solo dopo questo lungo processo di preparazione. Il superiore generale era eletto a vita (con un sistema di tipo monarchico, fortemente centralizzato, senza strutture elettorali, né. capitoli generali convocati regolarmente, ma delegando i superiori). Non tutti questi elementi erano originali della Compagnia, ma nel complesso generarono un nuovo tipo di ordine, adatto sia alle necessità esterne della Chiesa che alla perfezione interiore dei membri della Compagnia. La quantità di studi imposti ai giovani membri durante il tirocinio era molto maggiore che in altri ordini, e i voti solenni erano differiti finché fosse stata dimostrata l'idoneità dei candidati a tali studi. Ignazio credeva nella necessità di un clero istruito, proprio come si era convinto, a suo tempo, di dover studiare prima di portare il Vangelo agli altri. I primi collegi della Compagnia furono aperti a Padova nel 1542, Bologna nel 1546 e Messina nel 1548, ma Ignazio desiderava istituirne soprattutto a Roma. Il primo fu aperto nel 1551: s'insegnavano la grammatica, le materie umanistiche e la dottrina cristiana; nel 1553 furono aggiunti corsi di filosofia e teologia in vista dell'ordinazione presbiterale, così 11 nacque la famosa università gregoriana. Ignazio istituì anche un collegio tedesco a Roma nel 1552, per preparare i giovani al sacerdozio, che così avrebbero potuto lavorare per la riforma della Chiesa nel loro paese. Nei dieci anni successivi alla sua morte furono aperti collegi in Spagna, Portogallo, Francia, Germania, India, Brasile e Giappone. L'impatto a lungo termine sull'istruzione del clero e sullo sviluppo generale dell'istruzione secondaria in tutta Europa fu inestimabile. Oltre a ciò . che rivelano le lettere che Ignazio scrisse da Roma, alcune componenti della sua vita spirituale sono rivelate in due opere, l'Autobiografia, o Reminiscenze, che dettò nel 1553 e nel 1555, e il Diario spirituale del 1544-1545. L'Autobiografia riguarda gli anni dal 1521, dal periodo di Pamplona fino al suo arrivo a Roma nel 1538, i suoi "anni di pellegrinaggio"; come li chiamava, e descrive la sua conversione che è unica, anche se i lettori devono ricordare che questo racconto era il risultato di una serie di reminiscenze, e non si sa quanto fosse stato alterato dai segretari che lo trascrissero sotto dettatura. Il Diario, d'altro canto, è un racconto personale delle sue esperienze mistiche e del suo progresso spirituale, sotto forma di appunti giornalieri, difficili da interpretare, ma che rivelano le sue esperienze di unione mistica con Dio e mostrano che il suo misticismo era totalmente incentrato sulla Trinità. Ignazio descrisse un’esperienza in cui si sentì «sopraffatto da una grande devozione alla SS. Trinità, provando un eccesso d'amore e versando abbondanti lacrime, senza vedere distintamente le persone [...] ma percependo in una splendente luminosità una singola essenza» (Caraman). Faceva queste esperienze principalmente mentre si preparava a celebrare la Messa, o durante la celebrazione stessa, e il segno esteriore era di solito un pianto incontrollato (sembra che abbia provato pochissimi altri fenomeni fisici mistici), tuttavia le lacrime divennero un tale problema che dovette chiedere al papa di commutargli il dovere di celebrare l'Ufficio con la recita del rosario. Ignazio era sempre diffidente verso i racconti di fenomeni mistici (con cui Satana, secondo lui, poteva facilmente ingannare gli individui) e sconsigliava fortemente ai membri della Compagnia di puntare ai livelli più alti della preghiera contemplativa, che spesso distraevano l'individuo dall'azione e lo illudevano. Ignazio morì improvvisamente il 31 luglio 1556, dopo ripetute malattie durante i tre anni precedenti; fu sepolto accanto all'altare maggiore in Santa Maria della Strada, chiesa successivamente abbattuta e sostituita da quella del Gesù, dove sono conservate le spoglie. Una citazione dalla sua ultima lettera, scritta poco prima della morte, 12 sembra riassumere la sua vita: «Possa Egli con la sua infinita e suprema bontà degnarsi di concederci la sua grazia abbondante, così da farci conoscere il suo santissimo volere per poterlo compiere in modo perfetto». Ignazio fu canonizzato nel 1622, insieme a S. Teresa d'Avila, S. Filippo Neri (26 mag.), S. Francesco Saverio, e all'umile contadino S. Isidoro (15 mag.). Al tempo della morte d'Ignazio, la Compagnia aveva già intrapreso una varietà sorprendente di attività apostoliche oltre a lavorare in mezzo agli emarginati della società, predicando e insegnando il catechismo in ogni occasione possibile. Erano al servizio della Santa Sede per ogni richiesta: nel 1542 due membri della Compagnia, Salmarón e Broët, furono inviati dal papa in Irlanda per un'inchiesta; alcuni teologi di gran fama del Concilio di Trento erano gesuiti; Francesco Saverio era partito per l'India e paesi più lontani nel 1541; S. Pietro Canisio (21 dic.) e altri svolgevano la loro attività in Germania, Austria, e Polonia. Nel 1555, un gruppo di loro fu mandato missionario in Etiopia, con istruzioni scritte da Ignazio, «uno dei documenti missionari più illuminati di ogni epoca» (Caraman). In Italia la Compagnia possedeva ventidue case o collegi, in Spagna e Portogallo diciannove, e in Giappone cinque. Sebbene un’espansione così rapida incontrasse le sue difficoltà, avvalora il giudizio di Evennett che la Compagnia sarebbe diventata «la forza più potente, attiva, modernizzante, umanistica, e flessibile della Controriforma». 13 SANT'IGNAZIO DI LOYOLA 1491-1556 Nel 1555 tutti i professori dell'università di Barcellona scrissero a Ignazio di Loyola - già celebre fondatore della Compagnia di Gesù - la seguente lettera: «Reverendo Padre, quando consideriamo le tue opere e le confrontiamo con quelle dell’antichità, tu ci appari davvero beatissimo, perché Cristo ti ha eletto (...) per sostenere con vigore i vecchi edifici ecclesiastici che minacciano di rovinare per vecchiezza e per incuria dei loro architetti, e per costruirne di nuovi. È quanto han fatto in altri tempi Antonio e Basilio, Benedetto, Bernardo, Francesco e Domenico e molti altri illustri personaggi che veneriamo come santi e nominiamo con onore. Verrà un tempo - lo speriamo e lo desideriamo - nel quale tu sarai invocato nello stesso modo per le tue grandi opere, e la tua memoria sarà sacrosanta in tutto il mondo». Ignazio aveva allora sessantaquattro anni; sarebbe morto l'anno dopo. Proprio nello Studium Generale di Barcellona egli, a trentatré anni, era tornato sui banchi di scuola, lasciati ai tempi dell’adolescenza. La difficoltà più grande nel riprendere in mano la grammatica latina non era l'età piuttosto avanzata, ma il fatto che aveva la mente tutta assorbita dal pensiero di Dio. A una scelta così difficile e ostinata, l'aveva spinto un solo motivo che Ignazio, nella sua Autobiografia, spiega semplicemente con queste parole: «Il pellegrino pensava tra sé che cosa avrebbe fatto. Finì per risolversi a studiare per un certo tempo, per poter aiutare le anime». «Pellegrino» era il nome che egli s'era dato da quando il Signore l'aveva attratto a Sé. E da quel coraggio - di riprendere a studiare come un ragazzo, a trentatré anni -dipendeva (tale è il mistero della storia cristiana) l'avvenire stesso del cattolicesimo: tutta quella immensa rete «missionaria» di collegi, scuole, università, attività culturale, umanistica, scientifica e teologica, con cui i gesuiti avrebbero risollevato le sorti della Chiesa dopo la crisi protestante e avrebbero predicato il Vangelo «fino agli estremi confini della terra», quei confini che allora apparivano per la prima volta in tutta la loro impensata vastità. Fino a trent' anni Ignazio era stato un tipico gentiluomo spagnolo. Era nato a Loyola, in terra basca, nel 1491. A sedici anni era stato mandato a vivere dalle parti di Avila, presso un nobile parente che aveva una posizione di prestigio alla corte dei Re Cattolici. Divenne così «un giovane brillante e raffinato, molto amante degli abiti sfarzosi». Ignazio stesso-raccontando la sua vita - inizia con queste parole: «Fino a ventisei anni, fu un uomo dedito alle vanità del mondo. Suo diletto preferito era il maneggio delle armi, con un grande e vano desiderio di procacciarsi fama» (Autobiografia, 1). A venticinque anni era passato al servizio del viceré di Navarra, proprio quando Francesco I di Francia si preparava ad attaccare quel regno. Venne posto l'assedio a Pamplona. La città era divisa e pronta a cedere, tanto che i rinforzi rinunciarono a entrare nella città che avrebbero dovuto 14 difendere. Inigo (questo era il suo vero nome), invece, si rifiutò di tornare indietro, reputandola cosa disonorevole. Alla testa di pochi uomini, riuscì ad entrare in città e ad asserragliarsi nella fortezza. "Ma i francesi ebbero presto il sopravvento e diedero l'attacco al castello. Fu Inigo a imporre la resistenza e tutti «furono trascinati dal suo coraggio e dalla intrepidezza». I bombardamenti francesi durarono sei ore. Poi si giunse all’assalto di spada. Fu allora che un proiettile colpì Inigo ferendolo a una gamba. Finita la battaglia, fu riportato a casa, ma la ferita era così grave e le prime cure furono così disastrose che l'eroe si trovò in fin di vita, tanto che gli fu amministrata l'estrema Unzione. Lo stesso Ignazio racconta che le sue ossa, «o perché mal ricomposte la prima volta, o perché mosse durante il viaggio, impedivano la cicatrizzazione. Si ricominciò allora quella carneficina. Ma il malato, come durante gli strazi subiti precedentemente, e che avrebbe dovuto subire in seguito, non disse parola né diede altro segno di dolore, se non stringendo forte i pugni» (Autobiografia, 2). Contro l'aspettativa di tutti, guarì; ma gli era rimasto un osso sporgente e zoppicava nel camminare. Ignazio voleva poter cavalcare, voleva poter indossare ancora «i suoi stivali molto attillati ed eleganti». Benché le ossa si fossero ormai saldate, decise di farsi operare nuovamente. Leggiamo ancora il racconto: «Non si dava pace, perché voleva continuare la vita mondana e pensava che ciò lo rendeva deforme. Chiese ai medici se si potesse nuovamente tagliare. Essi risposero che certamente si poteva tagliare, ma che i dolori sarebbero stati più atroci di quelli già sofferti perché l'osso era già sano e l'operazione era lunga. Ciò nonostante egli decise di sottoporsi a quel martirio per il proprio capriccio. Suo fratello maggiore era assai preoccupato e diceva che egli non avrebbe potuto sopportare un simile dolore. Il ferito invece lo sopportò con la solita forza d'animo. Si incise la carne, si segò l'osso sporgente, poi si usarono vari rimedi perché la gamba non restasse così corta: si applicarono unguenti e apparecchi che la tenessero in trazione. Un vero martirio. Ma Nostro Signore gli ridiede salute a poco a poco» (Autobiografia, 4-5). Abbiamo insistito - come fece lo stesso Ignazio - su questo racconto perché esso delinea le qualità dell'uomo e la sua tempra: una forza d'animo incredibile posta al servizio di valori così fragili! A dire il vero, non era solo vanità: nel cuore di Inigo c'era un segreto che spiegava tutto, anche se ancora oggi non è stato pienamente svelato. Lui stesso racconta che, durante la convalescenza, c'era un pensiero che «talmente gli aveva rapito il cuore da tenerlo occupato sognando per tre o quattro ore di seguito, senza nemmeno accorgersene. Immaginava le imprese che avrebbe voluto compiere in onore di una signora, i mezzi che avrebbe usato per raggiungere il paese dove abitava, le parole che avrebbe detto, i fatti d'arme che avrebbe compiuto in suo onore. Era talmente perduto in simili progetti che non s'accorgeva quanto fosse impossibile realizzarli; perché quella dama non era di nobiltà ordinaria: non era né contessa né duchessa, ma di rango assai più elevato» (Autobiografia, 6). Sembra che si trattasse della infelice principessina Catalina, sorella di Carlo v, che sarebbe poi andata sposa a Giovanni III, re del Portogallo. 15 Fu durante la forzata immobilità della convalescenza che il Signore Gesù decise di impadronirsi del cuore di Ignazio e di finalizzare al bene della sua Chiesa tanta energia e capacità di dedizione. Fin dalla giovinezza Inigo s'era appassionato ai romanzi di cavalleria: chiese che gliene portassero alcuni, per aiutarsi a passare il tempo, ma nel Castello di Loyola non si riuscì a trovarne: gli portarono la Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia e l'incantevole Legenda aurea (Flos Sanctorum) di Jacopo da Varagine. La prima cosa che il malato scoprì era che esisteva un altro mondo (quello di san Francesco, san Domenico e di molti altri santi) dove ugualmente si amava, si combatteva, si soffriva e si acquistava gloria: ma per un altro Signore, e per un altro Amore. E questo «nuovo mondo» si imponeva in tutta la sua urgenza e serietà con questa domanda che gli martellava dentro: «E se io facessi ciò che ha fatto san Francesco, o quello che ha fatto san Domenico?» (n. 7). Nota l'Autobiografia: «Tutto il suo ragionamento si riduceva a questo: san Domenico ha fatto questo, ebbene devo farlo anch'io; san Francesco ha fatto quest'altro, ebbene devo farlo anch'io». Ma poi veniva ripreso dalle antiche immaginazioni e dagli antichi amori. Tuttavia Ignazio ebbe la fortuna di sapersi guardare dentro, e osservò una sorta di «legge» che regola la vita dello spirito. Osservò che, quando pensava a Dio e ai santi, dapprima faceva fatica, ma poi restava pieno di gioia. Viceversa, quando pensava agli eroismi mondani e alle passioni cavalleresche, dapprima provava immediato piacere e soddisfazione, ma alla fine restava triste e inquieto. Senza ancora saperlo Inigo s'era inoltrato negli spazi dell’anima, in quella avventura interiore nella quale sarebbe poi diventato maestro. Decise dunque di attuare la sua nuova vocazione: appena guarì, divenne «il. pellegrino», deciso a giungere fino alla culla dell’avvenimento cristiano, in Terra Santa. La prima tappa fu il Santuario di Monserrat dove preparò per iscritto la sua confessione generale: ci impiegò tre giorni. Alla sera del 24 marzo 1522, vigilia dell’Annunciazione «in tutta segretezza se ne andò da un povero, si spogliò dei suoi vestiti, di cui gli fece dono, e indossò una tunica di sacco mal tessuto e assai ruvido» (n. 18 e 16); poi iniziò, davanti all'altare della Madonna, la sua «veglia d'armi»: una intera notte di preghiera, sempre in piedi o in ginocchio, per diventare cavaliere di Dio e della Vergine Santa. Si recò quindi a Manresa, una città che Ignazio definì poi «la mia chiesa primitiva». Qui gli accaddero le cinque visioni che lo plasmarono dal punto di vista cristiano. È un momento importante. Prima della conversione Inigo si riteneva, tutto sommato, un buon cristiano - nonostante le sue debolezze - ed era fiero della sua fede. Ma, dopo la conversione, egli diventa cristiano: la luce della rivelazione lo afferra e dilaga nel suo cuore e nella sua intelligenza; la pretesa e la novità dell’avvenimento cristiano lo afferrano e lo dominano. Parliamo di «visioni», ma Ignazio insisterà sempre che non si trattò di immagini o di forme distinte (nemmeno quando vide Cristo o Maria), ma piuttosto 16 di illuminazioni interiori. La sua formula è questa: «Vide con gli occhi interiori». La prima «visione» riguardò la Trinità: il mistero vivo, caldo, delle tre Persone divine lo penetrò con una tale forza e un tale struggimento di cuore che egli pianse a lungo, e ciò gli capiterà poi spesso nella vita (cfr. n. 28). La seconda «visione» riguardò la Creazione: «Gli si rappresentò nell'intelletto, accompagnato da grande allegria spirituale, il modo con cui Dio aveva creato il mondo» (n. 29). La terza «visione» riguardò «come nostro Signore stava nel Sacramento dell'altare» (n. 29). La quarta «visione» riguardò «l'umanità di Cristo e la figura di Maria» (n. 29). La quinta «visione» riguardò il significato di tutta l'esistenza, e fu così importante che «in tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni suonati, sommando tutti gli aiuti di Dio e tutto ciò che ha imparato, anche riunito tutto assieme, non gli pare di aver appreso tanto come in quella sola volta». Essa accadde lungo le rive del fiume Cardoner. Ascoltiamone il racconto, sempre dall’Autobiografia: «Camminando così assorto nelle sue devozioni, egli si sedette un momento, rivolto verso l'acqua che scorreva in basso, e stando lì seduto, cominciarono ad aprirglisi gli occhi dell'intelletto. Non già che avesse una visione, ma capì e conobbe molte cose della vita spirituale, della fede, e delle Scritture, con una tale luce che tutte le cose gli parevano nuove» (n. 30). Un confidente di Ignazio lo udì dire che gli sembrò allora «d'essere un altro uomo e che l'intelletto fosse diverso da quello di prima». Trinità, Creazione, Eucaristia, Umanità di Cristo e di Maria, il significato unitario di tutto (oggi diremmo: «una cultura nuova»): furono le basi dogmatiche e spirituali su cui Ignazio poté iniziare la sua costruzione. Notiamo di passaggio un tema che meriterebbe di essere lungamente approfondito: sono esattamente i punti cardinali su cui è entrato invece in crisi il pensiero teologico di Lutero. Il Riformatore protestante fu così preoccupato del problema della sua salvezza» (della salvezza individuale del credente) che ridusse tutto il cristianesimo a un esclusivo faccia a faccia tra l'uomo e Dio: faccia a faccia che accade - per così dire - in Cristo (e perciò Lutero parlava di sola fede), ma con una tale angosciosa preoccupazione di sé che a Lutero sfuggì l’«interezza» del dono di Dio. Amò Cristo, ma non «tutto ciò che è di Cristo»: il mondo vivo, caldo, amoroso di Dio (la vita trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo) quasi gli sfuggì; il mondo vivo caldo, amoroso di Cristo (la sua Chiesa, ricca di grazie e di doni, nonostante le sue debolezze) ugualmente gli sfuggì. Ignazio invece si lascerà assorbire dal «mondo di Dio» e diverrà il Santo della Trinità (nel suo Diario egli ha addirittura segnato quante lacrime accompagnassero ogni giorno la sua preghiera, i suoi colloqui con le tre divine Persone - tanto da temere di perdere la vista). Allo stesso modo Ignazio si lascerà assorbire dal mondo di Cristo, fino a diventare «il Santo della Chiesa», il Santo della costruzione ecclesiale bella, ben organizzata e attiva, nella quale ognuno deve saper versare il sangue vivo della sua totale disponibilità a servire. Ma torniamo a quei primi passi. Il suo immediato progetto restava comunque quello di recarsi in Terra 17 Santa e di restarvi per sempre. Vi si recò infatti, ma pur cogliendo l'essenziale del viaggio, la decisione di restare si rivelò irrealizzabile (venne addirittura minacciato di scomunica, se non ripartiva). Ci era andato per respirare la stessa aria che aveva respirato Cristo, vedere gli stessi luoghi, le stesse città, percorrere gli stessi sentieri. Meditava e ricostruiva nel suo intimo paesaggi, suoni, immagini, odori: tutto ciò che serviva a tener desto il realismo dell'Incarnazione. Addirittura, quando tornò aveva imparato a esprimersi come pensava che avesse fatto Gesù (ad esempio: usando il «voi» nel rivolgersi alle persone!). Su questa esperienza di «immersione» nell’ambiente vivo di Cristo incarnato egli fondò la sua pedagogia: il mistero di Cristo va accostato «come se fossimo presenti e partecipando alla totalità del suo mistero». Il nostro Papini giustamente ha commentato: «Ignazio ha ricondotto i cristiani alla familiarità visiva, uditiva, quasi tattile e spirante, di Cristo figlio del Dio vero; il suo metodo sopprime l'illusione dei secoli e fa di tutti i cristiani obbedienti i contemporanei di Pilato e di san Giovanni». Poiché egli non poteva più fermarsi nella terra di Gesù, gli restava una sola conclusione: obbedire alla Parola con cui Cristo ha inviato i suoi discepoli nel mondo. Ignazio volle restare sempre con Cristo «lasciandosi inviare missionariamente», secondo la promessa evangelica: «andate in tutto il mondo... Io sarò con voi». Tornò dunque indietro e decise di prepararsi per la «missione», pagando tutto il prezzo necessario. Si iscrisse - nonostante l'età - all’università di Alcalà, poi a Salamanca, poi a Parigi, e dovunque radunava attorno a sé dei compagni e li educava al suo metodo: capacità di «esercitarsi» a guardare dentro il proprio spirito, poi di offrirsi totalmente a Cristo, poi di acquisire una disponibilità assoluta a qualunque missione. Portava con sé un libretto, da lui stesso composto, che ampliava e sistemava man mano che passavano gli anni e cresceva la sua esperienza: gli Esercizi Spirituali, «Esercizi perché l'uomo vinca se stesso e ordini la sua vita...». Un mese di meditazioni e di lavoro interiore: quattro settimane per imparare-sotto la guida di un maestro - ad orientarsi verso un fine degno dell'uomo, per decidere il proprio «arruolamento» come soldati di Cristo, il grande e vivo Re (Ignazio non rinnega la sua origine e la sua funzione!), per conformarsi al Signore Gesù, ai misteri della sua vita, ai suoi sentimenti. Ignazio guidava egli stesso i suoi amici, uno per uno, in questo duro ed esaltante lavoro degli Esercizi da cui uscivano rinnovati. Subì alcuni processi da parte dell'Inquisizione, dato che pretendeva insegnare cose spirituali senza aver studiato e senza essere prete. Ma non trovarono nulla da rimproverargli. A Salamanca, a una signora che lo commiserava per esser finito nelle celle dell'Inquisizione, rispose con umile certezza e fierezza: «Salamanca non ha tanti ceppi e catene quante io ne desidero per amore di Dio». D'altra parte Ignazio insisteva sul suo buon diritto: «Noi non predichiamo, ma con alcuni parliamo familiarmente delle cose di Dio, come facciamo dopo mangiato con alcuni che ci invitano». A Parigi riuscì a radunare un gruppetto stabile di «amici del Signore», tutti 18 giovani di particolare valore: il più difficile da conquistare fu Francesco Saverio che Ignazio «perseguitò» a lungo, ripetendogli le parole del Vangelo: «Che giova all'uomo guadagnare tutto il mondo se poi perde se stesso?». L'accusa che gli rivolsero nell’ambiente dell'Università fu la seguente: «Seduttore degli studenti» (n. 78). Nel 1537 Ignazio e i primi compagni poterono finalmente essere ordinati sacerdoti e poco dopo assunsero il nome di «compagni di Gesù». Il senso ultimo di questo appellativo risultò però dalla visione che Ignazio ebbe mentre viaggiava verso Roma. Aveva deciso che, per un anno intero dopo l'ordinazione sacerdotale, non avrebbe celebrato la Messa in modo da potervisi preparare degnamente. E la preparazione consisteva in una preghiera ripetuta ininterrottamente nella quale chiedeva alla Santa Vergine «di volerlo mettere col Suo Figliolo». Ed ecco che, giunto a una cappella in località detta «La Storta», vicino a Isola Farnese, «facendo orazione, ha sentito tale mutazione nell’anima sua e ha visto tanto chiaramente che Iddio Padre lo metteva con Christo Suo Figliolo, che non gli basterebbe l'animo di dubitare di questo: che Dio Padre lo metteva col suo Figliolo». Dobbiamo comprendere bene questa particolare «mistica ignaziana». In un’altra versione di questo stesso episodio, Ignazio precisò che Dio Padre «lo metteva con Cristo» e poi gli diceva: «Voglio che tu ci serva». «Servire» fu la grande parola di Ignazio: Cristo è un Re venuto nel nostro misero mondo per conquistarlo e arricchirlo, per ricondurlo al Suo Dio e Creatore; ma la sua opera non è ancora compiuta: Egli ha bisogno di amici fidati e di cooperatori generosi. Per questo Ignazio inventò un modo nuovo di consacrarsi a Dio: pur stimandoli moltissimo, non volle per i suoi né le lunghe preghiere corali, né le penitenze e gli usi monastici, ma una sola cosa: una obbedienza assoluta come disponibilità a lasciarsi inviare e utilizzare dovunque la Gloria di Cristo lo esigesse. Perinde ac cadaver, come un cadavere nelle mani di chi ti rappresenta Cristo e ti indica la sua volontà. Formula dura e urtante se non si capisce che essa indica l'abbandono totale, a corpo morto, nel più ardente, generoso e attivo amore. A Roma i nuovi «compagni di Gesù» cominciarono contestando un celebre predicatore quaresimalista, dell’ordine agostiniano, che insegnava dal pulpito dottrine luterane. In cambio furono essi stessi accusati d'essere eretici, e processati: ne uscirono con fama di santità. Solo quando tutto fu finito si presentarono al Papa, mettendosi a sua totale disposizione, secondo il voto che avevano fatto. Anche questa fu una scelta di ferrea consequenzialità: se Ignazio non poteva stare là dove Cristo era vissuto in terra, doveva stare là dove c'era il suo Vicario: con la stessa dedizione, con la stessa obbedienza, con la stessa disponibile energia, con lo stesso amore. La prima messa Ignazio la celebrò la notte di Natale del 1538 a Santa Maria Maggiore, all’altare del presepio: così si ricongiungeva, misticamente ma realmente, a quella «origine» presso la quale voleva sempre restare. Da allora la storia di Ignazio diventa la storia della «Compagnia di Gesù». Egli non si muoverà più da Roma, e da lì - dal cuore della cristianità e dalla 19 prossimità fisica e spirituale al Vicario di Cristo - i suoi figli muoveranno alla conquista del mondo, mentre il Santo li seguirà con la sua autorità forte e dolce. Ignazio era un organizzatore nato: l'apostolato veniva organizzato col sistema delle «opere» e delle «confraternite», secondo i diversi bisogni in cui egli decideva di impegnare i suoi figli e fratelli. La loro selezione era severa, sulla base del principio che «chi non era buono per il mondo non era buono nemmeno per la Compagnia», e che «per la Compagnia era buono soltanto chi sapeva vivere e farsi valere anche nel mondo». Dovevano essere in prima linea, dovevano riconquistare le posizioni perdute (nell'Europa protestantizzata) e quelle non ancora conquistate, nei vasti spazi delle missioni in India, Congo, Etiopia, Giappone. Ritorna qui prepotente il nome e il ricordo di san Francesco Saverio che, in Ignazio, aveva trovato «il suo vero e unico padre, nel cuore di Cristo». In quel 1540 Ignazio era a letto malato quando chiamò Francesco per dirgli che il re del Portogallo chiedeva quattro «compagni»per i suoi domini nelle Indie. Egli ne aveva promessi due, e uno di quelli designati era venuto meno per malattia. «Benissimo, eccomi pronto!», aveva risposto Francesco: era così iniziato quel suo leggendario viaggio in terra di missione, che sarebbe durato undici anni. Non possiamo raccontare ora la sua straordinaria avventura (si dice che quando la flotta d'Oriente sbarcava a Lisbona, si dava al re questo resoconto della lontana situazione: «L'India è in pace, perché là c'è Padre Francesco»), ma possiamo percepire - come di riflesso un aspetto essenziale dell’opera di Ignazio. Si tratta della passione con cui Francesco Saverio visse la sua appartenenza alla «compagnia». Anche se solitario nelle lande più sperdute, egli si sentiva legato ai suoi fratelli, più che a una famiglia di sangue: «Noi, stando quiscriveva nelle sue letteresiamo opera di voi tutti». E, della Compagnia, voleva conoscere tutto: chiedeva che gli inviassero dall'Europa «lettere sì lunghe che bisognassero otto giorni per leggerle»; e anch'egli non avrebbe mai smesso di scrivere: «Quando incomincio a parlare della Compagnia non so più come uscire dall'argomento, non so più come finire la mia lettera..., ma bisogna terminare, mio malgrado, perché i vascelli devono partire. Non trovo migliore conclusione che giurare a tutti della Compagnia che se io dovessi dimenticarla, che si dissecchi prima la mia mano destra!». «Compagnia di Gesù, compagnia d'Amore», questa era la bella definizione che ne dava, e non temeva di apparire sentimentale, quando narrava: «Vi faccio sapere, fratelli carissimi, che dalle lettere che mi avete scritto ho ritagliato i vostri nomi, scritti dalla vostra stessa mano e, assieme alla formula della mia professione, li porto sempre con me, per la consolazione che ne ricevo»: infatti teneva tutto in una piccola custodia che portava sul petto. Come è ovvio, egli sentiva soprattutto, con indicibile fede e passione, la «compagnia» di Ignazio. Conclude così una lettera che gli invia: «Termino pregando la santa carità vostra, venerando Padre dell’anima mia, mentre vi scrivo, in ginocchio per terra, come se foste davanti a me, di raccomandarmi molto a Dio Nostro Signore... perché mi doni la grazia di conoscere in questa vita la Sua santissima volontà, e la forza di compierla fedelmente. Amen. La stessa preghiera faccio a tutti quelli della 20 Compagnia. Vostro minimo e inutile figlio, Francesco». La tenerezza del «Padre» non era minore: «Tutto tuo, senza poterti mai dimenticare. Ignazio», così gli scriveva... E Francesco: «Con le lacrime ho letto queste parole e con le lacrime le trascrivo ricordandomi del tempo passato e del molto amore che sempre avete avuto e avete per me... Mi scrivete di quale grande desiderio abbiate di vedermi, prima di terminare questa vita. Dio sa quale emozione hanno suscitato nell'anima mia queste parole...». Non sono espressioni estenuate di un nostalgico sentimentale: sono 1'attaccamento forte e invincibile di un credente che si inoltrava, per Cristo, là dove nessuno era ancora giunto, rischiando continuamente torture e morte. Forse 1'espressione che meglio unisce il Maestro al Discepolo, nella stessa passione per la stessa obbedienza, è in queste parole di Francesco: «È peggio della morte il vivere lasciando Cristo, dopo averlo conosciuto per seguire le proprie opinioni o inclinazioni... Non vi è al mondo una pena simile a questa». Ma torniamo a Ignazio, che sarà canonizzato lo stesso giorno di questo suo figlio prediletto. Alla passione missionaria egli legava, in forma ugualmente stringente, quella educativa. Perciò volle che i suoi figli diventassero gli educatori delle nuove generazioni cristiane: nelle corti dei re e dei nobili, come nelle più prestigiose università, come nei più piccoli villaggi. Uno dei loro più celebri educatori - Juan Bonifacio - quand' era ancora giovanissimo insegnava lettere umanistiche a Medina del Campo, verso la metà del secolo XVI. Usava dire che «formare i bambini significa rinnovare il mondo!». E non sapeva quanta ragione avesse: tra quei ragazzi della sua scuola c'era il piccolo Juan de Yepes, il futuro Dottore mistico, san Giovanni della Croce. I primi collegi gesuiti in Italia furono fondati a Padova nel 1542, a Bologna nel 1546, a Messina nel 1548. In particolare - per l'enorme prestigio e influenza che acquisterà in brevissimo tempo - ricordiamo quel «Collegio Romano» aperto nel 1551: «Schola de grammatica, d'humanità e dottrina cristiana gratis», si leggeva simpaticamente sul cartello posto sulla prima casa affittata allo scopo. Cinque anni dopo questo collegio sarà già riconosciuto come Università (è l'attuale «Gregoriana»). Prima che Ignazio muoia, e dunque in poco più di un decennio oltre alle normali case per la formazione e la vita dei suoi membri - la Compagnia avrà aperto ventun collegi in Italia, diciotto in Spagna, quattro in Portogallo, due in Francia, cinque in Germania, cinque in India, tre in Brasile, uno in Giappone. E l'intero Istituto conterà già undici Province religiose, con un migliaio di membri. Quando le preoccupazioni, soprattutto quelle economiche, si facevano assillanti, Ignazio esclamava: «In confronto al tesoro di speranze che possediamo, tutto è poca cosa. Dio che ce le dà, non le deluderà» . Intanto il Fondatore viveva a Roma, nel centro della cristianità, desideroso 21 che tale città diventasse «l'esempio e non lo scandalo del mondo». Guidava la vita della sua «Compagnia» con una sola parola d'ordine nella quale compendiava tutta la sua spiritualità: «Ad maiorem Dei Gloriam»: cercava sempre e in ogni modo di accrescere la Gloria di Dio. Servire Cristo, servire la Chiesa: e raggiungere in questa assoluta dedizione le più alte vette della contemplazione. Assomigliare ai più grandi mistici, ma dentro la più obbediente dedizione a Cristo nella concretezza della sua Chiesa. Coniarono per lui una nuova formula: «In actione contemplativus»: contemplativo nell’azione. Celebri sono rimaste le sue Regole per sentire con la Chiesa, che scandalizzano tutti i ben pensanti perché le può capire solo chi è preda di un grande amore e di una grande fede. Annotava dunque Ignazio: «Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica. Perché crediamo che quello Spirito che ci governa e ci sorregge, per la salvezza delle nostre anime, sia lo stesso in Cristo Nostro Signore, che è lo Sposo, e nella Chiesa, che è la sua sposa. Infatti la nostra Santa Madre Chiesa è retta e governata dallo stesso Spirito e Signore Nostro il quale dettò i dieci Comandamenti» (Per il vero criterio che dobbiamo avere nella Chiesa militante, XIII Regola). «Lodare più che criticare. Costruire più che demolire»: questo era il suo motto, rivelatore della sua particolare sensibilità ecclesiale. Era l'alba de131luglio 1556 quando a Roma si sparse velocemente la voce: «È morto il Santo!». Era accaduto quello che Ignazio attendeva ormai da cinque anni, da quando s'era ammalato gravemente. «Allora - scrisse egli nell’Autobiografia - pensando alla morte egli provava una tale allegria e una consolazione spirituale così grande, perché stava per morire, che si scioglieva in lacrime. Questo stato gli divenne talmente continuo che molte volte lasciava di pensare alla morte per non provare tanta consolazione» (n. 33). Una delle descrizioni più simpatiche che ci restano di lui è quella di un padovano che lo conobbe e lo descrisse così: «Un espannoleto, picolo, un poco zopo, che ha l’ochi alegri». I santi - anche quando sono grandi e geniali - attraversano il nostro mondo con semplicità e familiarità. Ma seguendoli, incontriamo Dio. Tratto da: “Il grande libro dei RITRATTI DEI SANTI” di Antonio Maria SICARI - Ed. Jaca Book 22 Ignazio di Loyola Spagnolo di nascita e di educazione, il fondatore della Compagnia di Gesù fu uno dei protagonisti della riforma cattolica nel XVI secolo e il maestro di una nuova spiritualità di cui sono testimonianza i celebri Esercizi spirituali Inigo Lòpez de Loyola era nato nell'estate del 1491 nella casa della famiglia vicino ad Azpeita, un paesino in una verde vallata del Paese Basco. I Loyola erano uno dei casati più potenti della provincia di Guipúzcoa: possedevano una fortezza padronale circondata da vasti campi, prati, ferriere. Inigo, che aveva perso la madre subito dopo la nascita, era destinato alla carriera sacerdotale, tant'è vero che aveva ricevuto la tonsura durante l'infanzia. Ma lui era affascinato dalla vita cavalleresca alla quale si erano già dedicati due fratelli. Sicché il padre poco prima di morire, nel 1506, lo mandò ad Arévalo, in Castiglia, nel palazzo di don Juan Velázquez de Cuellar, che era il ministro dei Beni del re Ferdinando il Cattolico, perché ricevesse un’educazione cavalleresca. Accompagnando spesso come paggio Juan Velázquez nelle cittadine dove si trasferiva la corte, che era allora itinerante, Inigo acquisì quelle buone maniere che saranno un suo tratto e influiranno sullo stile della Compagnia di Gesù. Viveva secondo il costume dei cavalieri di corte leggendo poemi, corteggiando dame. Pare avesse un temperamento esuberante e che un giorno avesse commesso, durante un carnevale ad Azpeita, un qualche eccesso, forse una bastonatura o un'insidia notturna andata a vuoto, tant' è vero che subì un processo penale insieme con il fratello, don Piero, che non si concluse mai con una sentenza grazie probabilmente a un intervento dall'alto. Morto Juan Velázquez nel 1517, il giovane si trasferì presso don Antonio Manrique, duca di Najera e viceré di Navarra, al servizio del quale si trovò persino a combattere durante la rivoluzione dei Comuneros, che si opponevano agli abusi dei funzionari di Carlo V, e poi nella difesa del castello di Pamplona assediato dai francesi, dove fu ferito il 20 maggio 1521 da una palla di cannone. Trasportato nella sua casa a Loyola dovette subire due dolorose operazioni alla gamba che rimase leggermente più corta dell'altra obbligandolo a zoppicare per tutta la vita. Durante la convalescenza gli capitarono fra le mani due libri, la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine e la Vita del Cristo di Lodolfo Cartusiano, che a poco a poco lo convinsero che l'unico vero Signore al quale si poteva consacrare la fedeltà cavalleresca era Gesù stesso. Per cominciare, sentiva il bisogno di andare a pregare a Gerusalemme: quel pellegrinaggio lo avrebbe illuminato sul suo futuro. Nel febbraio 1522 partiva da Loyola dirigendosi verso Barcellona dove si sarebbe imbarcato per l'Italia, prima tappa del viaggio. E siccome sulla strada si trovava il santuario di Montserrat, vi salì per pregare la Vergine. Prima di arrivarci fece un voto di castità perpetua: era il primo passo verso una vita religiosa. A Montserrat Inigo si trattenne qualche giorno, facendo un'ampia confessione e scambiando le sue vesti lussuose con quelle di un povero. Ora era pronto a scendere nella vicina Barcellona: ma un’epidemia di peste che aveva colpito la città catalana lo obbligò a fermarsi nella cittadina di Manresa dove per una serie di circostanze rimase circa un anno. Fu proprio a Manresa che, vivendo poveramente in un profondo raccoglimento interiore, ebbe la prima illuminazione sulla futura Compagnia e cominciò a scrivere, nell'isolamento di una grotta dei dintorni, una serie di meditazioni e di norme che, rielaborate successivamente, formarono i celebri Esercizi spirituali i quali ancora oggi sono la vera fonte di energia dei Gesuiti e dei loro allievi perché insegnano tramite un direttore spirituale a compiere un itinerario di tre o quattro settimane trascorse in preghiera e in silenzio, nell'allontanamento totale dal mondo, in meditazioni ordinate e in un esame di coscienza per tendere al dominio delle passioni e alla comunione con il Signore. 23 Dopo un breve soggiorno a Barcellona Inigo s'imbarcò per l'Italia e, dopo aver ottenuto la benedizione del papa, approdò in Terrasanta dove avrebbe voluto restare se il superiore dei Francescani, che aveva autorità apostolica, non glielo avesse proibito. Al ritorno capì che il primo passo da fare sulla strada dell'apostolato era di approfondire le sue scarse conoscenze teologiche; sicché a trentatré anni decise di cominciare dalle fondamenta, studiando dapprima grammatica latina a Barcellona e poi dedicandosi agli studi universitari ad Alcalá e infine a Salamanca: ma non era destino che li completasse in Spagna dove per una serie di equivoci gli impedirono più volte di predicare o di parlare su materie dogmatiche sospettando che facesse parte di una setta eretica. Decise allora di proseguire gli studi a Parigi dove giunse nel 1528. Fu proprio a Parigi che, studiando filosofia e teologia, conobbe i suoi primi compagni con i quali il 15 agosto' 1534 fece il voto di vivere in povertà, predicando e servendo negli ospedali; di recarsi a Gerusalemme e restarvi per aiutare fedeli e infedeli; e qualora non fossero riusciti ad andare in Terrasanta, di tornare dal papa e obbedire ai suoi ordini. E a Parigi, nel 1535, decise di latinizzare il suo nome in Ignatius, che non aveva alcun rapporto con Inigo, ma ricordava l'omonimo martire di Antiochia di cui egli apprezzava l'amore per il Cristo e l'obbedienza alla Chiesa, i due cardini della Compagnia di Gesù che stava nascendo. Il progetto di recarsi in Terrasanta sfumò a causa della guerra tra Venezia e i Turchi, sicché Ignazio si presentò con i suoi compagni al papa, il quale disse loro: «Perché desiderate tanto andare a Gerusalemme? Per portare frutto nella Chiesa di Dio l'Italia è una buona Gerusalemme». Tre anni dopo Paolo III dava l'approvazione canonica alla Compagnia di Gesù e cominciava a inviare in tutta l'Europa e successivamente in Asia e in altri continenti quelli che inizialmente venivano chiamati Preti Pellegrini o Preti Riformati e poi furono detti Gesuiti. Si realizzava cosi la vocazione 'missionaria di Ignazio e della sua Compagnia che da Roma si irradiava in tutto il mondo cominciando nella povertà, nella carità e nell' obbedienza totale alla volontà del pontefice quella riforma della Chiesa che sarebbe stata coronata dal concilio di Trento. Ignazio, che nel 1536 era stato ordinato sacerdote, aveva creato un ordine dalla struttura monarchica; basato su un centro motore, il padre generale eletto a vita e capace di mantenere l'unità e l'efficienza in tutta la Compagnia; e aveva fissato criteri di prudenza nell'accettazione di nuovi religiosi con un lungo noviziato e un secondo periodo di preparazione in modo da saggiare bene le disposizioni del candidato. «Lo scopo della Compagnia» scriveva «non è solo attendere con la 'grazia divina alla salvezza e perfezione dell'anima propria, ma con la stessa grazia cercare intensamente di essere d'aiuto alla salvezza e alla perfezione di quella del prossimo.» Siccome uno dei gravi problemi della Chiesa da riformare era, oltre alla restaurazione di una vita autenticamente evangelica fra i sacerdoti e i religiosi, l'esigenza di preparare teologicamente e culturalmente la gioventù, sia laica che clericale, per ovviare alla grave decadenza culturale fra i cattolici, Ignazio fu spinto a poco a poco dalle circostanze a trasformare la Compagnia anche in un ordine docente con i celebri collegi che si sono caratterizzati fino ad oggi per l'alto livello letterario e scientifico, l'approfondimento della tradizione classica in una prospettiva cristiana e un programma razionale di studi che è diventato un modello anche per le scuole non religiose. Mentre i suoi compagni si sparpagliavano in tutto il mondo, Ignazio secondo la volontà del papa rimaneva a Roma dove non solo coordinava l'attività dell'ordine ma si adoperava per creare patronati per poveri, malati e bisognosi, per proteggere con appositi istituti le giovani che volevano redimersi o erano in pericolo e per aiutare i bambini orfani: per questo motivo venne soprannominato l'apostolo di Roma. Nonostante i dolori lancinanti allo stomaco, dovuti a una calcolosi biliare e a una cirrosi epatica mal curate, si limitava a quattro ore di sonno per avere il tempo per tutti i suoi impegni e per non trascurare la preghiera e la 24 celebrazione della messa. Quando il male si aggravò, dovette rinunciare alla direzione della Compagnia: era il 1551. Cinque anni dopo, il 31 luglio 1556, sua festa liturgica, moriva in una modestissima cameretta che si conserva ancora adesso nel palazzo accanto alla chiesa del Gesù dove è sepolto nell'altare situato nel braccio sinistro del transetto. L'urna in bronzo che ne contiene le reliquie è adorna di rilievi dell'Algardi dove Ignazio appare accanto alle figure più rappresentative della Compagnia di Gesù. L'altare è coronato dalla statua che, fusa in argento da Pierre Le Gros nel 1697 e poi distrutta, venne rifatta nel 1804 in stucco argentato da Antonio Canova. Tutta la chiesa è ricca di testimonianze iconografiche sul santo, fra le quali l'affresco del Baciccia che rappresenta la sua gloria, e quelli di Andrea Del Pozzo. Il ritratto più fedele di sant'Ignazio, custodito attualmente nella Casa generalizia dell'Ordine, fu dipinto da Jacopino del Ponte, allievo di Andrea del Sarto, nello stesso giorno della morte. Da questo dipinto e da altri, che si ispirarono alle maschere funebri, Ignazio appariva originariamente con tonaca e mantello neri, talvolta con la berretta quadrata, il volto severo ed emaciato. Successivamente nella celebrazione barocca la sua figura fu arricchita da sontuosi paramenti sacerdotali, da dorature e pietre preziose mentre corone di raggi circondavano i suoi attributi più frequenti, dal cuore ardente al libro delle Costituzioni dell'ordine, dalla sigla della Compagnia di Gesù al motto A.M.D.G., «Ad maiorem Dei gloriam». Tratto da: “SANTI D’ITALIA” di Alfredo CATTABIANI - Ed. BUR 25