LA VICENDA VAJONT
Agli inizi del 20° secolo, la produzione e gestione di energia elettrica in
Italia si affermavano con fatica. Negli anni successivi la prima guerra
mondiale, alcune ditte private gestivano sia gli impianti di produzione
che quelli di smistamento ed erogazione.
Per il Nord Italia, una delle compagnie principali era la "Società
Altoadriatica di Elettricità", o "SADE", fondata nel 1905 da Giuseppe
Volpi, conte di Misurata.
Alla fine degli anni Venti iniziò una serie di studi di fattibilità per lo
sfruttamento idroelettrico di alcune valli tra Veneto e Friuli.
Già nel 1928, il Prof. Giorgio Dal Piaz, geologo, presentò una relazione
in base alla quale si proponeva, come valle utilizzabile allo scopo, quella
del torrente Vajont, proprio sul confine tra le due regioni.
La valle in questione, sufficientemente profonda, scendeva ripidamente
da est a ovest.
Il torrente Vajont sfociava poi nel fiume Piave, intorno a quota 465 mt
s.l.m. proprio di fronte alla cittadina di Longarone.
Teoricamente, la costruzione di una diga avrebbe permesso l’invaso di
acqua per 50 milioni di metri cubi, pari circa alla somma di tutti gli altri
invasi delle Dolomiti.
Il Conte Volpi di Misurata, ministro delle Finanze del governo
Mussolini fece approvare la legge che lo Stato versava a fondo perduto
il 50% del costo della costruzione di nuovi impianti idroelettrici
Nel 1943, sfruttando la situazione di disordine data dalla guerra e
dall’armistizio, la SADE poté ottenere, in modo più o meno illegale, le
concessioni statali per la realizzazione dell’impianto.
Tra il 1956 e il 1960 la diga fu effettivamente costruita, insieme
agli impianti sussidiari, in un continuo braccio di ferro, tra mosse
illegali della SADE e scarsa applicazione d’autorità da parte dello
Stato.
Al centro di questa competizione si posero, vittime innocenti, le
popolazioni abitanti intorno all’impianto: prima di tutto quelle dei
due paesi sulla sponda destra del bacino: Erto e Casso.
Si trattava di un migliaio di abitanti, riuniti in un solo comune e,
dal 1959, anche in Comitato.
Le loro terre erano state espropriate in modo più o meno forzoso
dalla SADE, per la realizzazione dell’impianto.
Quest’ultimo era stato frattanto modificato "in corso d’opera"
raggiungendo una quota massima di 721,60 mt. sul livello del
mare, contro i previsti 677 mt.
Progettista della diga era l’Ingegner Carlo Semenza.
La struttura in calcestruzzo idraulico armato costituiva la diga a
doppio arco più grande del mondo, all’epoca.
L’invaso massimo raggiungibile con la nuova quota, era di tre volte
quello iniziale: 150 milioni di metri cubi d’acqua circa.
L’impianto poteva raccogliere acqua non solo dal torrente Vajont,
ma anche da altri corsi d’acqua, come il Piave e gli altri bacini a
monte del Vajont.
Le manovre illegali della SADE si protrassero anche nel corso dei
primi collaudi: gli invasi venivano effettuati sulla base di tabelle
realizzate dagli stessi operatori, spesso senza attendere le necessarie
–preventive- concessioni governative.
Un fattore che poteva avere peso, era la sempre più probabile
nazionalizzazione degli enti di produzione dell’energia, che in
effetti avvenne nel 1963: dovendo perdere la proprietà
dell’impianto, la SADE sperava di venderlo a maggior prezzo dopo
un collaudo completo.
Il livello da raggiungere per il collaudo definitivo era di 715 mt.;
ma fin dalle prime prove, intorno a quota 680, si notarono
movimenti anomali sulla sponda sinistra del bacino.
La costa del Monte Toc, su cui, da quel lato, poggiava la massa
d’acqua, sembrava non riuscire ad assestarsi. Anzi, i rilievi
indicavano cedimenti progressivi.
Le perizie geologiche, eseguite, oltre che da Dal Piaz, dal Prof.
Leopold Müller, dai dott. Edoardo Semenza e Franco Giudici, e dal
consulente SADE Francesco Penta, fornirono pareri divergenti.
In generale si considerava la possibilità di una grande frana
profonda, poggiata da tempo immemorabile sul fianco del Monte
Toc.
Poteva essere solo un’ipotesi; era anche possibile che si trattasse sì
di una grande massa distaccata dal resto del monte; ma che non ci
fosse rischio di una caduta pericolosa.
L’enormità di questa frana era impressionante: se si fosse mossa
rapidamente, avrebbe potuto determinare danni incalcolabili.
I pareri divergenti tra gli scienziati riguardavano diversi aspetti del
problema.
Dal Piaz e Penta, separatamente, erano convinti che in realtà non
esistesse una "grande frana profonda".
I movimenti osservati sulla sponda sinistra del bacino erano
indubbi: ma si sarebbe trattato solo di spostamenti superficiali.
Oltretutto il Monte Toc era ben noto, da tempo immemorabile, per
l’inconsistenza superficiale dei suoi pendii.
Müller, Semenza e Giudici, dall’altra parte, sostenevano l’estrema
gravità della situazione. Secondo loro, la grande massa di frana
c’era; e sarebbe stata molto pericolosa, nel caso che il suo piano di
scivolamento fosse stato parallelo alla valle, e inclinato "anche
debolmente" verso il lago.
Semenza e Giudici avevano stimato una frana calcolabile in circa
200 milioni di metri cubi di roccia; su un fronte di oltre due
chilometri.
Müller però, su richiesta della SADE, suggerì un programma di
sollecitazioni dinamiche artificiali, tale da permettere il distacco
controllato della frana, qualora essa fosse stata superficiale.
Nel 1960, senza che gli organi istituzionali ne fossero informati, il
livello del lago artificiale fu fatto salire e scendere ripetutamente.
Si ebbero in effetti movimenti della frana, ma nessun distacco
significativo alla superfice. Si doveva concludere che la massa in
movimento fosse in effetti profonda?
Nel frattempo, continuavano indagini geologiche.
Il 4 novembre 1960, con una scossa tellurica, un piccolo
promontorio sulla riva sinistra del lago, si staccò inabissandosi. La
caduta spinse verso la riva destra una grande ondata d’acqua.
L’intero fianco del Monte Toc ebbe un cedimento. Guardando verso
l’alto, si vedeva bene una grande spaccatura del terreno. Una
fessura larga un metro si era aperta improvvisamente.
Il giorno dopo la SADE fece recintare il perimetro e si ebbe un
sopralluogo di emergenza, da parte dei tecnici. La popolazione,
nonostante il riserbo della Società, aveva acquisito molte
informazioni.
La spaccatura era evidentissima. Correva per circa 2500 metri
lungo tutta la costa del Monte Toc. Partiva da dietro la diga e
raggiungeva quasi il lato opposto della valle. Edoardo Semenza
riteneva che lo spessore variasse tra i 100 e i 250 metri, in
profondità.
C’erano tutti gli elementi per pensare che la frattura definisse le
dimensioni di un’unica, apocalittica massa di frana.
Il 3 febbraio 1961, in un rapporto geologico, il Prof. Leopold
Müller tirava le somme dei suoi studi sul Vajont, alla luce degli
ultimi avventimenti:
“A mio parere non possono esistere dubbi su questa profonda
giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume
della frana dev’essere quindi considerato di circa 200 milioni di
metri cubi. (…) Alla domanda se questi franamenti possono venire
arrestati mediante misure artificiali, dev’essere risposto
negativamente in linea generale; anche se, in linea teorica, si
dovesse rinunciare all’esercizio del serbatoio, una frana talmente
grande, dopo essersi mossa una volta, non tornerebbe tanto presto
all’arresto assoluto”.
La questione si faceva seria. Bisognava mettere in preventivo la
caduta effettiva di una frana; ma quanto grande, in realtà? E in che
modo? Le opinioni dei geologi continuavano a non essere concordi.
La SADE, che non accettava volentieri l’idea di un fallimento
assoluto, preferì tenersi sulle stime più favorevoli.
Müller aveva parlato di "circa 200 milioni" metri cubi; ma altri
calcoli erano meno preoccupanti. La SADE accettò dunque l’idea
di una frana: ma la ritenne più piccola, di soli 20 o 40 milioni di
metri cubi; e divisa in due grandi sezioni, che sarebbero cadute una
dopo l’altra. Inoltre, sebbene esistessero dati certi, non si volle
credere che la caduta sarebbe stata veloce. La velocità con cui la
frana – o le frane- fossero scese, determinava evidentemente una
gran parte degli effetti ambientali.
Inoltre, sempre secondo le valutazioni più ottimistiche, la frana o le
frane si sarebbero minutamente sgretolate nella caduta, in modo da
assumere una plasticità diversa da quella, tipicamente rocciosa, che
avevano da ferme.
Sulla base di queste considerazioni, nell’estate del 1961, la SADE
commissionò alcuni esperimenti riservati su un modellino in scala
1:200, dell’impianto. Le simulazioni si protrassero per un anno, e
furono condotte dal Prof. Augusto Ghetti, dell’Università di
Padova, presso il "Centro Modelli Idraulici" SADE a Nove di
Fadalto.
Frattanto, al Vajont, erano cominciati, da qualche mese, grandi
lavori, sempre riservati, per far fronte all’altro problema.
La caduta di una o più frane avrebbe ostruito del tutto, o solo in
parte, il lago artificiale; questo avrebbe ridotto le capacità di
esercizio dell’impianto.
Bisognava salvare il salvabile.
Il livello dell’acqua fu abbassato al di sotto della quota di 600 mt; e
si iniziò lo scavo, un po’ più in alto, per una "galleria di sorpasso".
Si sarebbe dovuto trattare di un collegamento a "sifone" per
regolare il livello dell’acqua nel caso che l’ostruzione del lago
avesse creato due invasi separati.
Il 10 maggio la SADE chiese autorizzazione all’invaso
sperimentale fino a quota 660.
Continuava però il controllo della frana.
Fra agosto e settembre, furono montati quattro piezometri per
rilevare il livello della falda freatica sul fianco del Toc; e si cercò di
analizzare la composizione profonda della roccia mediante
cunicoli.
Nonostante i movimenti della sponda – irregolari rispetto al
previsto- solo uno dei quattro piezometri si ruppe: segno che
c’erano movimenti diversi fra gli strati che attraversava. Gli altri tre
rilevatori rimanevano integri, e indicavano la loro quota di falda.
Visto che i piezometri penetravano per centinaia di metri nella
roccia, bisognava pensare che tutta quella profondità di massa fosse
immobile (frana inesistente); oppure che fosse tutta in movimento
(frana gigantesca).
Alla fine di ottobre morì il padre della diga: l’Ingegner Carlo
Semenza, padre anche di Edoardo, il geologo che aveva lanciato,
insieme a Müller, il monito sul destino dell’impianto.
Per seguire meglio l’andamento della situazione sul monte Toc, la
SADE aveva fatto installare, alla diga, una sofisticata stazione
sismografica; e i movimenti superficiali potevano essere osservati
meglio, otticamente, grazie all’attivazione di una rete di punti
luminosi.
Ma il successore di Semenza alla guida dell’impianto, l’ingegner
Alberico Biadene, pur tenendo conto della situazione, impedì che il
governo fosse avvertito del problema. Sui rapporti quindicinali che
la SADE doveva spedire al Ministero dei Lavori Pubblici, Biadene
fece cancellare alcune note sull’attività sismica.
Peraltro, da tempo, con le variazioni di livello del lago, era in
aumento anche l’attività sismica; scosse progressivamente più forti
e frequenti, venivano sentite in tutta la valle; ma la SADE tendeva
a minimizzare.
Il 20 aprile 1962 morì anche Giorgio Dal Piaz; scompariva così il
principale collaboratore di Semenza alla nascita del progetto: e
anche l’ultimo geologo che fosse discretamente aggiornato sul reale
stato di cose. Da questo momento in poi, la SADE non avrebbe più
commissionato indagini geologiche dettagliate.
L’8 giugno arrivò l’autorizzazione ministeriale per il livello di 700
mt; ma il 3 luglio, concluse le simulazioni sul modellino, il Prof.
Ghetti chiudeva i suoi lavori avvertendo:
“Già la quota di 700 mt può considerarsi di assoluta sicurezza nei
riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana”
Ghetti però basava le sue valutazioni su una frana non superiore, in
volume, a 40 milioni di metri cubi. Del resto suggeriva
esplicitamente di effettuare una serie di esperimenti per valutare gli
effetti di un’ondata che avesse eventualmente scavalcato la diga.
Soprattutto tenendo conto che a breve distanza, oltre il letto del
Piave, c’erano infrastrutture e centri abitati.
Il 17 dicembre 1962 venne raggiunto il livello di 700 mt., e si
fermò la salita. Le opinioni dei tecnici riguardo alla situazione
cominciavano a farsi tese. L’assistente governativo, Bertolissi,
comunicava insistentemente le sue perplessità. I rilevamenti
geodetici indicavano che la frana cominciava a muoversi in modo
sempre più "prossimo alla criticità".
Il 2 dicembre si iniziò un lento svaso.
Il 14 marzo 1963 gli impianti e le funzioni della SADE furono
trasferiti, per decreto presidenziale, al nuovo Ente Nazionale per
l’energia Elettrica "ENEL". Nei documenti ufficiali, l’impianto del
Vajont figurava come "funzionante", stato che avrebbe
effettivamente raggiunto solo dopo il collaudo a livello 715 mt. La
SADE doveva completare il collaudo prima che le complesse
pratiche del passaggio di proprietà fossero concluse: altrimenti
l’impianto sarebbe risultato inefficiente e sarebbe stato pagato a
prezzo minore.
Il 10 aprile terminarono le operazioni di svaso. L’acqua era scesa al
livello di 647,5 mt.
La frana continuava a dare segni di instabilità. Continui, piccoli
terremoti si propagavano nella valle. Si intensificavano le proteste e
le smentite ufficiali. La SADE aveva mostrato fair-play donando,
alle comunità di Erto e Casso, un edificio scolastico sul Monte Toc.
Si trovava in località Pineda, ed era stato costruito da tempo: ma la
SADE non aveva mai autorizzato il suo uso.
Una scuola elementare esisteva già a Casso; ma gli abitanti delle
case rurali sul Toc erano stati fino ad allora costretti a mandare i
figli dall’altra parte del lago, con un lungo giro.
Del resto, la situazione del Monte Toc si faceva davvero
preoccupante. Gli intonaci delle case si staccavano; comparivano
crepe nei muri, mentre porte e finestre non chiudevano più. I pozzi
nei cortili si svuotavano; e un’indicazione analoga arrivava dai
piezometri: i tre che avevano continuato a funzionare, indicavano la
falda freatica del Toc allo stesso livello del lago. Ciò significava
che la massa di frana era quasi completamente distaccata.
Il 20 marzo 1963 la ENEL-SADE inoltrò domanda per raggiungere
il livello di collaudo. L’autorizzazione ufficiale arrivò 10 giorni
dopo.
Il contrasto fra le popolazioni di Erto-Casso e la ENEL-SADE
raggiunse, nei mesi successivi, il culmine.
Il sindaco dei paesi, che aveva eliminato il divieto di accesso al
lago dopo la donazione della scuola di Pineda, ricevette una diffida
ufficiale della ENEL-SADE. Motivo era il "persistere del noto stato
di pericolo".
Frattanto, la strada di circonvallazione al lago, nella zona del Toc,
era evidentemente sconnessa, e alcuni tratti andavano fuori asse
anche per mezzo metro.
La scuola di Pineda, dopo appena un mese di funzionamento, era
lesionata in modo così grave da dover essere dichiarata inagibile.
Il 22 luglio il sindaco di Erto telegrafò alla Prefettura di Udine e
all’ ENEL di Venezia, chiedendo interventi immediati. Le scosse
sismiche continuavano, sempre più forti. Sulla riva del lago, dalla
parte del monte Toc, l’acqua diventava torbida e comparivano
estese chiazze di pulviscolo. Il telegramma denunciava "continui
boati e tremiti del terreno comunale".
Il 1° settembre fu raggiunto il livello di mt. 709,40.
Alla diga le informazioni erano preoccupanti. Biadene, che si
trovava già 10 metri oltre la "quota di sicurezza" fissata da Ghetti,
era quasi riuscito a raggiungere il sospirato collaudo; ma la frana
era troppo instabile. Non si poteva continuare in queste condizioni.
L’idea, a questo punto, era di fermare l’invaso. Se si fosse
mantenuto il livello a 710 mt per qualche giorno, forse la frana si
sarebbe assestata.
Il giorno dopo, alle 10,30 di mattina, una forte scossa di terremoto.
7° grado Mercalli; le case nella valle furono squassate
improvvisamente. Sul monte Salta una casa si sfasciò proprio al
centro del paese.
Al di là della diga c’erano cinque paesi; più di duemila abitanti. La
preoccupazione popolare diventò agitazione.
Il sindaco di Erto, quel giorno stesso, spedì una lettera alla ENELSADE: “…altri queste cose minimizzano, ma (…) per la gente di
Erto comportano, la sicurezza, la vita e gli averi. Questa
amministrazione (…) esige da codesto spettabile Ente la sicurezza
e la certezza che il paese non vivrà nell’incubo”.
Nessuna risposta.
Alla diga l’agitazione era prossima al panico.
Ci si ripeteva di stare calmi; ma i rilievi erano allarmanti. Il 2
settembre, tutta la grande frana del Toc, perfettamente unica ed
intatta, era scivolata, giù, con la scossa, di 22 millimetri.
La velocità di discesa aumentava di giorno in giorno. Il 2 settembre
la frana scese di altri 6,5 mm.
Durante le altre due prove di invaso, si era visto che la frana
tendeva ad assestarsi quando il livello dell’acqua restava fermo.
Sembrava l’unica soluzione possibile, anche se il rischio era
enorme.
Forse, se si fosse riusciti a ottenere qualche giorno di calma, si
poteva svasare delicatamente, e recuperare, se non altro, i 700 metri
fissati da Ghetti.
La situazione era critica; eppure, il 12 settembre, Biadene rispose
alla lettera del sindaco di Erto, in termini quasi sdegnosamente
tranquillizzanti. Tutto era assolutamente sotto controllo.
Il 15 settembre la frana avanzò di 12 mm. La velocità di cedimento
era raddoppiata in due settimane.
Il 18 settembre, alla diga, incontro al vertice. L’ingegner Biadene,
rappresentante della SADE e responsabile del ramo tecnicoamministrativo ENEL, fece il punto della situazione; con lui alcuni
tecnici ENEL-SADE, tra cui il direttore del cantiere al Vajont,
Mario Pancini; e i consulenti Caloi ed Oberti.
Si rinunciò definitivamente all’idea di raggiungere il livello 715; se
anzi la situazione non fosse migliorata, approfittando della
stabilizzazione del livello a 710, sarebbe stato necessario svasare.
Il 26 settembre la frana era scesa di altri 22 millimetri. Biadene
decise di iniziare lo svaso, che iniziò solo il giorno dopo, 27
settembre.
Bisognava togliere l’acqua, ma a questo punto non si sapeva più
come fare. Toglierla in fretta avrebbe potuto dare il colpo di grazia
e far precipitare la frana: toglierla piano, poteva ottenere lo stesso
risultato, per la sempre più profonda imbibizione della roccia.
Nell’incertezza, fu scelto di svasare per 70 cm al giorno. Era uno
svaso abbastanza rapido, e si poteva produrre un utile economico,
mettendo in funzione la nuova centrale elettrica del Colomber, a
Sovèrzene.
La massima capacità di assorbimento della centrale si aveva,
appunto, svasando dal lago acqua per 70 cm al giorno. Non si può
evitare il dubbio che, pure nella grave emergenza, alla ENELSADE cercassero di avere un utile.
Del resto, la popolazione continuava a non essere avvertita di nulla.
Il 1° ottobre, Pancini partì per le ferie. Ufficialmente lo sostituiva,
al Vajont, l’Ingegner Beniamino Caruso, responsabile degli
impianti SADE per il "Medio Piave"; quest’ultimo tuttavia non
aveva istruzioni.
Inoltre fu temporaneamente revocato il trasferimento, già concesso,
ad un geometra del cantiere: Giancarlo Rittmeyer. La situazione era
chiaramente anomala, e mancando Pancini, si riteneva opportuno
che rimanesse di guardia qualcuno esperto della situazione.
Il 2 ottobre la frana scese di 40 mm.
Biadene si recò a Roma per discutere la situazione con l’ingegner
Baroncini, direttore centrale delle costruzioni idrauliche ENELSADE.. Intanto, lo stesso giorno, il direttore provvisorio del
cantiere al Vajont, Caruso, visitò la diga. Si rese conto della
situazione, e cercò di contattare il Genio Civile di Belluno, ma
senza comunicazioni ufficiali e senza indicare chiaramente il
problema.
Frattanto, a Roma, si cercava di ottenere un sopralluogo da parte
del geologo Francesco Penta.
Martedì 8 ottobre. Mattina.
Verso le 10,30 Biadene e Caruso arrivarono alla diga. La situazione
peggiorava.
Dopo un paio d’ore, Biadene fece telegrafare, dalla sede centrale di
Venezia, al sindaco di Erto:
“Acceleramento movimento franoso zona Toc sinistra serbatoio
Vajont rende necessario sgombero delle persone. Segnaliamo
quanto sopra interessato provvedere urgentemente sgombero et
divieto permanenza persone zona sopra indicata. Divieto
accesso tutto serbatoio sotto quota 730 et transito strada
sponda sinistra Vajont fra Costa Gervasio e Località Pineda et
diga sbarramento”.
Se la stessa ENEL-SADE mandava un messaggio di tale gravità,
era chiaro che la situazione lo richiedeva. Lo stesso giorno, in tutto
il comune di Erto, furono affissi manifesti recanti l’ordinanza di
sgombero, da parte del Sindaco:
“Si porta a conoscenza della popolazione che gli uffici tecnici
della ENEL-SADE segnalano la instabilità delle falde del monte
TOC e pertanto è prudente allontanarsi dalla zona che va da
COSTA GERVASIO alla PINEDA.
La gente di Casso in modo particolare si premuri di
approfittare dei mezzi dell’ENEL-SADE per sgomberare la
zona… e siccome le frane del TOC potrebbero sollevare ondate
paurose su tutto il lago, si avverte ancora tutta la gente che è
estremamente pericoloso scendere sulle sponde del lago; le
ondate possono salire per decine di metri e travolgere,
annegando anche il più esperto dei nuotatori. Chi non
ubbidisce ai presenti consigli mette a repentaglio la propria
vita.”
Mercoledì 9 ottobre 1963 è una giornata limpida.
Qualcuno aspetta con impazienza la sera, per vedere in TV la
partita Real Madrid-Ranger Glasgow, che si preannuncia esaltante.
Qualcuno, fra i giovani, marina la scuola e approfitta del bel tempo
per una scampagnata.
Su al lago però l’atmosfera è molto tesa. Biadene ha il vice in ferie,
e decide che la situazione ne giustifica il richiamo. Gli scrive: “…in
questi giorni le velocità di traslazione della frana sono decisamente
aumentate […] le fessure del terreno, gli avvallamenti della strada,
l’evidente inclinazione degli alberi sulla costa che sovrasta La
Pozza, l’aprirsi della grande fessura che delimita la zona franosa, il
muoversi dei punti anche verso la "Pineda" che finora erano rimasti
fermi, fanno pensare al peggio. […] Il serbatoio sta calando di 1
metro al giorno e questa mattina dovrebbe essere a quota 700.
Penso di raggiungere quota 695 sempre allo scopo di creare una
fascia di sicurezza per le ondate […] Mi spiace darle tante cattive
notizie e di doverLa far rientrare anzitempo. […] che Iddio ce la
mandi buona.”
A mezzogiorno alcuni operai dell’ENEL si trovano sulla strada in
cima alla diga, per la loro pausa pranzo. Guardano su, verso il Toc,
e vedono muoversi la gigantesca massa di roccia.
Un’ora dopo, verso le tredici, dietro le baracche degli operai di
sponda sinistra il terreno si spacca. Compare una fessura larga
mezzo metro e lunga cinque. Si allarga in modo visibile.
Sulla strada di circonvallazione si moltiplicano le spaccature.
Fra le tre e le quattro, un operaio attraversa a piedi una zona del
Monte Toc dalle parti del torrente Massalezza. Segue un percorso a
monte, rispetto alla strada di circonvallazione.
Ad un certo punto vede alberi sradicarsi e cadere.
Alle quattro del pomeriggio la frattura dietro le baracche si è
allargata di un altro mezzo metro.
Prima di sera, tutta la frana è scesa di 20 centimetri. E continua ad
aumentare di progressione.
Intorno alle 17:00 la ENEL-SADE avverte Caruso di chiamare i
Carabinieri per bloccare il traffico nella zona.
Alle 17:50 telefonata tra Biadene, dalla diga, e il geologo Penta da
Roma. Biadene conferma che stanno svasando, e avverte della
necessità di raggiungere i 700 mt. Penta esorta a "non fasciarsi la
testa prima di essersela rotta", e invita alla calma.
La velocità di svaso, in una telefonata di poco dopo, è descritta da
Biadene come "compatibile con l’esercizio di Sovèrzene", e quindi
parrebbe di soli 0,70 cm al giorno; in realtà sembra che il 9 ottobre
il livello sia calato di 1,50 mt. I movimenti della frana intanto,
creano problemi al canale di scarico.
Ore 18:00. Chiude il cantiere. Biadene torna a casa, a Venzia.
Rittmeyer e i suoi uomini rimangono a controllare la situazione.
Con l’arrivo del buio, alla diga viene accesa una fotoelettrica, per
continuare la sorveglianza. Il malumore è palpabile; almeno in
quelli che conoscono bene la situazione. Una finestra della centrale
di controllo è stata smontata, per l’abbandono rapido.
Nel caso di una grossa frana, i tecnici dovrebbero saltar fuori dalla
palazzina sulla piattaforma, e correre, attraverso un tunnel, nella
roccia viva della montagna.
In un Caffè di Belluno, Caruso incontra il comandante dei
Carabinieri locali e chiede insistentemente che venga chiusa la
strada statale di Alemagna, nel tratto fra i centri di Ponte nelle Alpi
e di Castellavazzo. L’ufficiale telefona alla Caserma di Cortina
d’Ampezzo e fa trasmettere l’ordine al Maresciallo dei Carabinieri
di Longarone.
La strada viene effettivamente chiusa; ma i cinque paesi che essa
attraversa, e che si trovano proprio a valle della diga, non vengono
sgomberati; nessuno viene avvertito del pericolo.
Intorno alle 22:00, dalla diga Rittmeyer chiama Biadene a Venezia;
è piuttosto agitato. Comunica che la montagna sta cedendo a vista
d’occhio. Chiede istruzioni. Biadene cerca di calmarlo, ma lo esorta
a "dormire con un occhio solo".
Forse, nella telefonata, si intromette la centralinista di Longarone,
chiedendo se ci sia pericolo anche per quel centro. Biadene le
risponderebbe di non preoccuparsi, e di "dormire bene".
Un’altra simile intromissione potrebbe aver riguardato una
telefonata tra un rappresentante ENEL-SADE e la fabbrica
esistente proprio qualche centinaio di metri a valle della diga.
22:39. La frana cede di schianto. 260 milioni di metri cubi di roccia
si staccano all’unisono dalla monte Toc con un boato. Gli
elettrodotti dall’Austria vengono strappati dai tralicci, e coi lampi
azzurri dei corto-circuiti, illuminano a giorno tutta la valle.
Il parroco del paese di Casso, che sta lavorando in canonica, sente
il frastuono e la grande scossa di terremoto. Corre a una finestra
che affaccia sul lago, e la spalanca. Vede tutta la costa del Toc che
precipita verso valle in mezzo ai lampi. È una grande "M" alta più
di 100 metri e larga quasi tre chilometri, con boschi, campi coltivati
e case, che si abbatte verso il lago.
La frana si avventa sul lago, tutta intera senza sfaldarsi; poi una
zolla, quella più in basso, arriva al fondo valle e comincia a rotolare
verso il monte Salta, nella direzione opposta.
Il lago sembra scomparire in una enorme nuvola bianca; ma è in
realtà una colonna d’acqua alta più di 250 metri. Si alza in verticale
fino a 950 metri, inclinata verso il paese di Casso. Rocce della
massa di centinaia di chili partono verso il cielo come granelli di
sabbia.
La costa su cui si trova Casso ha un grosso sperone intorno a quota
800. Visto da lontano sembra quasi una lama. La colonna d’acqua
che sale verso il paese ci finisce contro, e viene tagliata a metà.
Il grosso dell’ondata si accumula sopra la diga, e vi si abbatte.
L’ondata ha scavalcato la diga. 50 milioni di metri cubi d’acqua,
precipitano a piombo per i 261 metri della diga.
La valle è strettissima e tortuosa, in quel punto. La massa d’acqua
viene compressa e spinta in fuori ancora più veloce. Esce a 100
chilometri orari, ed è alta 70 metri.
Quando l’onda irrompe nel greto del Piave, migliaia di ciottoli
vengono sparati via in avanti. A Longarone si sente un boato. Il
vento è fortissimo; dai tetti volano via i coppi e le tegole, sui muri
arrivano le sventagliate di sassi dal Piave; qualcuno degli abitanti,
forse, è colpito e ucciso.
Alcuni che non sanno dove andare, istintivamente corrono nella
direzione opposta, verso il pendio della montagna che hanno di
fronte.
L’aria, compressa davanti all’ondata, è un’onda d’urto. Scaraventa
cose e persone in avanti, alla cieca.
Gli edifici si sbriciolano quando arriva l’acqua. Le case, le chiese.
Della grande chiesa parrocchiale di Longarone viene giù tutto, non
si salva nemmeno l’altare.
Portici, osterie, piazze e strade vengono cancellati in una montagna
di macerie sotto il muro d’acqua. Un’altra chiesa è colpita e si
sfascia. Rimane l’abside attaccato al campanile.
Le persone scampate all’onda d’urto vengono colpite da interi
cornicioni, colonne, mura spinte violentemente contro di loro.
Mobili, vestiti, persone, animali, frammenti di ogni tipo vengono
scagliati in cima agli alberi.
La stazione della ferrovia si sbriciola; le traversine dei binari
vengono divelte e i binari si piegano per decine e decine di metri.
La Caserma dei Carabinieri è spazzata via fino alle fondamenta.
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Vajont