LA VICENDA VAJONT Agli inizi del 20° secolo, la produzione e gestione di energia elettrica in Italia si affermavano con fatica. Negli anni successivi la prima guerra mondiale, alcune ditte private gestivano sia gli impianti di produzione che quelli di smistamento ed erogazione. Per il Nord Italia, una delle compagnie principali era la "Società Altoadriatica di Elettricità", o "SADE", fondata nel 1905 da Giuseppe Volpi, conte di Misurata. Alla fine degli anni Venti iniziò una serie di studi di fattibilità per lo sfruttamento idroelettrico di alcune valli tra Veneto e Friuli. Già nel 1928, il Prof. Giorgio Dal Piaz, geologo, presentò una relazione in base alla quale si proponeva, come valle utilizzabile allo scopo, quella del torrente Vajont, proprio sul confine tra le due regioni. La valle in questione, sufficientemente profonda, scendeva ripidamente da est a ovest. Il torrente Vajont sfociava poi nel fiume Piave, intorno a quota 465 mt s.l.m. proprio di fronte alla cittadina di Longarone. Teoricamente, la costruzione di una diga avrebbe permesso l’invaso di acqua per 50 milioni di metri cubi, pari circa alla somma di tutti gli altri invasi delle Dolomiti. Il Conte Volpi di Misurata, ministro delle Finanze del governo Mussolini fece approvare la legge che lo Stato versava a fondo perduto il 50% del costo della costruzione di nuovi impianti idroelettrici Nel 1943, sfruttando la situazione di disordine data dalla guerra e dall’armistizio, la SADE poté ottenere, in modo più o meno illegale, le concessioni statali per la realizzazione dell’impianto. Tra il 1956 e il 1960 la diga fu effettivamente costruita, insieme agli impianti sussidiari, in un continuo braccio di ferro, tra mosse illegali della SADE e scarsa applicazione d’autorità da parte dello Stato. Al centro di questa competizione si posero, vittime innocenti, le popolazioni abitanti intorno all’impianto: prima di tutto quelle dei due paesi sulla sponda destra del bacino: Erto e Casso. Si trattava di un migliaio di abitanti, riuniti in un solo comune e, dal 1959, anche in Comitato. Le loro terre erano state espropriate in modo più o meno forzoso dalla SADE, per la realizzazione dell’impianto. Quest’ultimo era stato frattanto modificato "in corso d’opera" raggiungendo una quota massima di 721,60 mt. sul livello del mare, contro i previsti 677 mt. Progettista della diga era l’Ingegner Carlo Semenza. La struttura in calcestruzzo idraulico armato costituiva la diga a doppio arco più grande del mondo, all’epoca. L’invaso massimo raggiungibile con la nuova quota, era di tre volte quello iniziale: 150 milioni di metri cubi d’acqua circa. L’impianto poteva raccogliere acqua non solo dal torrente Vajont, ma anche da altri corsi d’acqua, come il Piave e gli altri bacini a monte del Vajont. Le manovre illegali della SADE si protrassero anche nel corso dei primi collaudi: gli invasi venivano effettuati sulla base di tabelle realizzate dagli stessi operatori, spesso senza attendere le necessarie –preventive- concessioni governative. Un fattore che poteva avere peso, era la sempre più probabile nazionalizzazione degli enti di produzione dell’energia, che in effetti avvenne nel 1963: dovendo perdere la proprietà dell’impianto, la SADE sperava di venderlo a maggior prezzo dopo un collaudo completo. Il livello da raggiungere per il collaudo definitivo era di 715 mt.; ma fin dalle prime prove, intorno a quota 680, si notarono movimenti anomali sulla sponda sinistra del bacino. La costa del Monte Toc, su cui, da quel lato, poggiava la massa d’acqua, sembrava non riuscire ad assestarsi. Anzi, i rilievi indicavano cedimenti progressivi. Le perizie geologiche, eseguite, oltre che da Dal Piaz, dal Prof. Leopold Müller, dai dott. Edoardo Semenza e Franco Giudici, e dal consulente SADE Francesco Penta, fornirono pareri divergenti. In generale si considerava la possibilità di una grande frana profonda, poggiata da tempo immemorabile sul fianco del Monte Toc. Poteva essere solo un’ipotesi; era anche possibile che si trattasse sì di una grande massa distaccata dal resto del monte; ma che non ci fosse rischio di una caduta pericolosa. L’enormità di questa frana era impressionante: se si fosse mossa rapidamente, avrebbe potuto determinare danni incalcolabili. I pareri divergenti tra gli scienziati riguardavano diversi aspetti del problema. Dal Piaz e Penta, separatamente, erano convinti che in realtà non esistesse una "grande frana profonda". I movimenti osservati sulla sponda sinistra del bacino erano indubbi: ma si sarebbe trattato solo di spostamenti superficiali. Oltretutto il Monte Toc era ben noto, da tempo immemorabile, per l’inconsistenza superficiale dei suoi pendii. Müller, Semenza e Giudici, dall’altra parte, sostenevano l’estrema gravità della situazione. Secondo loro, la grande massa di frana c’era; e sarebbe stata molto pericolosa, nel caso che il suo piano di scivolamento fosse stato parallelo alla valle, e inclinato "anche debolmente" verso il lago. Semenza e Giudici avevano stimato una frana calcolabile in circa 200 milioni di metri cubi di roccia; su un fronte di oltre due chilometri. Müller però, su richiesta della SADE, suggerì un programma di sollecitazioni dinamiche artificiali, tale da permettere il distacco controllato della frana, qualora essa fosse stata superficiale. Nel 1960, senza che gli organi istituzionali ne fossero informati, il livello del lago artificiale fu fatto salire e scendere ripetutamente. Si ebbero in effetti movimenti della frana, ma nessun distacco significativo alla superfice. Si doveva concludere che la massa in movimento fosse in effetti profonda? Nel frattempo, continuavano indagini geologiche. Il 4 novembre 1960, con una scossa tellurica, un piccolo promontorio sulla riva sinistra del lago, si staccò inabissandosi. La caduta spinse verso la riva destra una grande ondata d’acqua. L’intero fianco del Monte Toc ebbe un cedimento. Guardando verso l’alto, si vedeva bene una grande spaccatura del terreno. Una fessura larga un metro si era aperta improvvisamente. Il giorno dopo la SADE fece recintare il perimetro e si ebbe un sopralluogo di emergenza, da parte dei tecnici. La popolazione, nonostante il riserbo della Società, aveva acquisito molte informazioni. La spaccatura era evidentissima. Correva per circa 2500 metri lungo tutta la costa del Monte Toc. Partiva da dietro la diga e raggiungeva quasi il lato opposto della valle. Edoardo Semenza riteneva che lo spessore variasse tra i 100 e i 250 metri, in profondità. C’erano tutti gli elementi per pensare che la frattura definisse le dimensioni di un’unica, apocalittica massa di frana. Il 3 febbraio 1961, in un rapporto geologico, il Prof. Leopold Müller tirava le somme dei suoi studi sul Vajont, alla luce degli ultimi avventimenti: “A mio parere non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume della frana dev’essere quindi considerato di circa 200 milioni di metri cubi. (…) Alla domanda se questi franamenti possono venire arrestati mediante misure artificiali, dev’essere risposto negativamente in linea generale; anche se, in linea teorica, si dovesse rinunciare all’esercizio del serbatoio, una frana talmente grande, dopo essersi mossa una volta, non tornerebbe tanto presto all’arresto assoluto”. La questione si faceva seria. Bisognava mettere in preventivo la caduta effettiva di una frana; ma quanto grande, in realtà? E in che modo? Le opinioni dei geologi continuavano a non essere concordi. La SADE, che non accettava volentieri l’idea di un fallimento assoluto, preferì tenersi sulle stime più favorevoli. Müller aveva parlato di "circa 200 milioni" metri cubi; ma altri calcoli erano meno preoccupanti. La SADE accettò dunque l’idea di una frana: ma la ritenne più piccola, di soli 20 o 40 milioni di metri cubi; e divisa in due grandi sezioni, che sarebbero cadute una dopo l’altra. Inoltre, sebbene esistessero dati certi, non si volle credere che la caduta sarebbe stata veloce. La velocità con cui la frana – o le frane- fossero scese, determinava evidentemente una gran parte degli effetti ambientali. Inoltre, sempre secondo le valutazioni più ottimistiche, la frana o le frane si sarebbero minutamente sgretolate nella caduta, in modo da assumere una plasticità diversa da quella, tipicamente rocciosa, che avevano da ferme. Sulla base di queste considerazioni, nell’estate del 1961, la SADE commissionò alcuni esperimenti riservati su un modellino in scala 1:200, dell’impianto. Le simulazioni si protrassero per un anno, e furono condotte dal Prof. Augusto Ghetti, dell’Università di Padova, presso il "Centro Modelli Idraulici" SADE a Nove di Fadalto. Frattanto, al Vajont, erano cominciati, da qualche mese, grandi lavori, sempre riservati, per far fronte all’altro problema. La caduta di una o più frane avrebbe ostruito del tutto, o solo in parte, il lago artificiale; questo avrebbe ridotto le capacità di esercizio dell’impianto. Bisognava salvare il salvabile. Il livello dell’acqua fu abbassato al di sotto della quota di 600 mt; e si iniziò lo scavo, un po’ più in alto, per una "galleria di sorpasso". Si sarebbe dovuto trattare di un collegamento a "sifone" per regolare il livello dell’acqua nel caso che l’ostruzione del lago avesse creato due invasi separati. Il 10 maggio la SADE chiese autorizzazione all’invaso sperimentale fino a quota 660. Continuava però il controllo della frana. Fra agosto e settembre, furono montati quattro piezometri per rilevare il livello della falda freatica sul fianco del Toc; e si cercò di analizzare la composizione profonda della roccia mediante cunicoli. Nonostante i movimenti della sponda – irregolari rispetto al previsto- solo uno dei quattro piezometri si ruppe: segno che c’erano movimenti diversi fra gli strati che attraversava. Gli altri tre rilevatori rimanevano integri, e indicavano la loro quota di falda. Visto che i piezometri penetravano per centinaia di metri nella roccia, bisognava pensare che tutta quella profondità di massa fosse immobile (frana inesistente); oppure che fosse tutta in movimento (frana gigantesca). Alla fine di ottobre morì il padre della diga: l’Ingegner Carlo Semenza, padre anche di Edoardo, il geologo che aveva lanciato, insieme a Müller, il monito sul destino dell’impianto. Per seguire meglio l’andamento della situazione sul monte Toc, la SADE aveva fatto installare, alla diga, una sofisticata stazione sismografica; e i movimenti superficiali potevano essere osservati meglio, otticamente, grazie all’attivazione di una rete di punti luminosi. Ma il successore di Semenza alla guida dell’impianto, l’ingegner Alberico Biadene, pur tenendo conto della situazione, impedì che il governo fosse avvertito del problema. Sui rapporti quindicinali che la SADE doveva spedire al Ministero dei Lavori Pubblici, Biadene fece cancellare alcune note sull’attività sismica. Peraltro, da tempo, con le variazioni di livello del lago, era in aumento anche l’attività sismica; scosse progressivamente più forti e frequenti, venivano sentite in tutta la valle; ma la SADE tendeva a minimizzare. Il 20 aprile 1962 morì anche Giorgio Dal Piaz; scompariva così il principale collaboratore di Semenza alla nascita del progetto: e anche l’ultimo geologo che fosse discretamente aggiornato sul reale stato di cose. Da questo momento in poi, la SADE non avrebbe più commissionato indagini geologiche dettagliate. L’8 giugno arrivò l’autorizzazione ministeriale per il livello di 700 mt; ma il 3 luglio, concluse le simulazioni sul modellino, il Prof. Ghetti chiudeva i suoi lavori avvertendo: “Già la quota di 700 mt può considerarsi di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana” Ghetti però basava le sue valutazioni su una frana non superiore, in volume, a 40 milioni di metri cubi. Del resto suggeriva esplicitamente di effettuare una serie di esperimenti per valutare gli effetti di un’ondata che avesse eventualmente scavalcato la diga. Soprattutto tenendo conto che a breve distanza, oltre il letto del Piave, c’erano infrastrutture e centri abitati. Il 17 dicembre 1962 venne raggiunto il livello di 700 mt., e si fermò la salita. Le opinioni dei tecnici riguardo alla situazione cominciavano a farsi tese. L’assistente governativo, Bertolissi, comunicava insistentemente le sue perplessità. I rilevamenti geodetici indicavano che la frana cominciava a muoversi in modo sempre più "prossimo alla criticità". Il 2 dicembre si iniziò un lento svaso. Il 14 marzo 1963 gli impianti e le funzioni della SADE furono trasferiti, per decreto presidenziale, al nuovo Ente Nazionale per l’energia Elettrica "ENEL". Nei documenti ufficiali, l’impianto del Vajont figurava come "funzionante", stato che avrebbe effettivamente raggiunto solo dopo il collaudo a livello 715 mt. La SADE doveva completare il collaudo prima che le complesse pratiche del passaggio di proprietà fossero concluse: altrimenti l’impianto sarebbe risultato inefficiente e sarebbe stato pagato a prezzo minore. Il 10 aprile terminarono le operazioni di svaso. L’acqua era scesa al livello di 647,5 mt. La frana continuava a dare segni di instabilità. Continui, piccoli terremoti si propagavano nella valle. Si intensificavano le proteste e le smentite ufficiali. La SADE aveva mostrato fair-play donando, alle comunità di Erto e Casso, un edificio scolastico sul Monte Toc. Si trovava in località Pineda, ed era stato costruito da tempo: ma la SADE non aveva mai autorizzato il suo uso. Una scuola elementare esisteva già a Casso; ma gli abitanti delle case rurali sul Toc erano stati fino ad allora costretti a mandare i figli dall’altra parte del lago, con un lungo giro. Del resto, la situazione del Monte Toc si faceva davvero preoccupante. Gli intonaci delle case si staccavano; comparivano crepe nei muri, mentre porte e finestre non chiudevano più. I pozzi nei cortili si svuotavano; e un’indicazione analoga arrivava dai piezometri: i tre che avevano continuato a funzionare, indicavano la falda freatica del Toc allo stesso livello del lago. Ciò significava che la massa di frana era quasi completamente distaccata. Il 20 marzo 1963 la ENEL-SADE inoltrò domanda per raggiungere il livello di collaudo. L’autorizzazione ufficiale arrivò 10 giorni dopo. Il contrasto fra le popolazioni di Erto-Casso e la ENEL-SADE raggiunse, nei mesi successivi, il culmine. Il sindaco dei paesi, che aveva eliminato il divieto di accesso al lago dopo la donazione della scuola di Pineda, ricevette una diffida ufficiale della ENEL-SADE. Motivo era il "persistere del noto stato di pericolo". Frattanto, la strada di circonvallazione al lago, nella zona del Toc, era evidentemente sconnessa, e alcuni tratti andavano fuori asse anche per mezzo metro. La scuola di Pineda, dopo appena un mese di funzionamento, era lesionata in modo così grave da dover essere dichiarata inagibile. Il 22 luglio il sindaco di Erto telegrafò alla Prefettura di Udine e all’ ENEL di Venezia, chiedendo interventi immediati. Le scosse sismiche continuavano, sempre più forti. Sulla riva del lago, dalla parte del monte Toc, l’acqua diventava torbida e comparivano estese chiazze di pulviscolo. Il telegramma denunciava "continui boati e tremiti del terreno comunale". Il 1° settembre fu raggiunto il livello di mt. 709,40. Alla diga le informazioni erano preoccupanti. Biadene, che si trovava già 10 metri oltre la "quota di sicurezza" fissata da Ghetti, era quasi riuscito a raggiungere il sospirato collaudo; ma la frana era troppo instabile. Non si poteva continuare in queste condizioni. L’idea, a questo punto, era di fermare l’invaso. Se si fosse mantenuto il livello a 710 mt per qualche giorno, forse la frana si sarebbe assestata. Il giorno dopo, alle 10,30 di mattina, una forte scossa di terremoto. 7° grado Mercalli; le case nella valle furono squassate improvvisamente. Sul monte Salta una casa si sfasciò proprio al centro del paese. Al di là della diga c’erano cinque paesi; più di duemila abitanti. La preoccupazione popolare diventò agitazione. Il sindaco di Erto, quel giorno stesso, spedì una lettera alla ENELSADE: “…altri queste cose minimizzano, ma (…) per la gente di Erto comportano, la sicurezza, la vita e gli averi. Questa amministrazione (…) esige da codesto spettabile Ente la sicurezza e la certezza che il paese non vivrà nell’incubo”. Nessuna risposta. Alla diga l’agitazione era prossima al panico. Ci si ripeteva di stare calmi; ma i rilievi erano allarmanti. Il 2 settembre, tutta la grande frana del Toc, perfettamente unica ed intatta, era scivolata, giù, con la scossa, di 22 millimetri. La velocità di discesa aumentava di giorno in giorno. Il 2 settembre la frana scese di altri 6,5 mm. Durante le altre due prove di invaso, si era visto che la frana tendeva ad assestarsi quando il livello dell’acqua restava fermo. Sembrava l’unica soluzione possibile, anche se il rischio era enorme. Forse, se si fosse riusciti a ottenere qualche giorno di calma, si poteva svasare delicatamente, e recuperare, se non altro, i 700 metri fissati da Ghetti. La situazione era critica; eppure, il 12 settembre, Biadene rispose alla lettera del sindaco di Erto, in termini quasi sdegnosamente tranquillizzanti. Tutto era assolutamente sotto controllo. Il 15 settembre la frana avanzò di 12 mm. La velocità di cedimento era raddoppiata in due settimane. Il 18 settembre, alla diga, incontro al vertice. L’ingegner Biadene, rappresentante della SADE e responsabile del ramo tecnicoamministrativo ENEL, fece il punto della situazione; con lui alcuni tecnici ENEL-SADE, tra cui il direttore del cantiere al Vajont, Mario Pancini; e i consulenti Caloi ed Oberti. Si rinunciò definitivamente all’idea di raggiungere il livello 715; se anzi la situazione non fosse migliorata, approfittando della stabilizzazione del livello a 710, sarebbe stato necessario svasare. Il 26 settembre la frana era scesa di altri 22 millimetri. Biadene decise di iniziare lo svaso, che iniziò solo il giorno dopo, 27 settembre. Bisognava togliere l’acqua, ma a questo punto non si sapeva più come fare. Toglierla in fretta avrebbe potuto dare il colpo di grazia e far precipitare la frana: toglierla piano, poteva ottenere lo stesso risultato, per la sempre più profonda imbibizione della roccia. Nell’incertezza, fu scelto di svasare per 70 cm al giorno. Era uno svaso abbastanza rapido, e si poteva produrre un utile economico, mettendo in funzione la nuova centrale elettrica del Colomber, a Sovèrzene. La massima capacità di assorbimento della centrale si aveva, appunto, svasando dal lago acqua per 70 cm al giorno. Non si può evitare il dubbio che, pure nella grave emergenza, alla ENELSADE cercassero di avere un utile. Del resto, la popolazione continuava a non essere avvertita di nulla. Il 1° ottobre, Pancini partì per le ferie. Ufficialmente lo sostituiva, al Vajont, l’Ingegner Beniamino Caruso, responsabile degli impianti SADE per il "Medio Piave"; quest’ultimo tuttavia non aveva istruzioni. Inoltre fu temporaneamente revocato il trasferimento, già concesso, ad un geometra del cantiere: Giancarlo Rittmeyer. La situazione era chiaramente anomala, e mancando Pancini, si riteneva opportuno che rimanesse di guardia qualcuno esperto della situazione. Il 2 ottobre la frana scese di 40 mm. Biadene si recò a Roma per discutere la situazione con l’ingegner Baroncini, direttore centrale delle costruzioni idrauliche ENELSADE.. Intanto, lo stesso giorno, il direttore provvisorio del cantiere al Vajont, Caruso, visitò la diga. Si rese conto della situazione, e cercò di contattare il Genio Civile di Belluno, ma senza comunicazioni ufficiali e senza indicare chiaramente il problema. Frattanto, a Roma, si cercava di ottenere un sopralluogo da parte del geologo Francesco Penta. Martedì 8 ottobre. Mattina. Verso le 10,30 Biadene e Caruso arrivarono alla diga. La situazione peggiorava. Dopo un paio d’ore, Biadene fece telegrafare, dalla sede centrale di Venezia, al sindaco di Erto: “Acceleramento movimento franoso zona Toc sinistra serbatoio Vajont rende necessario sgombero delle persone. Segnaliamo quanto sopra interessato provvedere urgentemente sgombero et divieto permanenza persone zona sopra indicata. Divieto accesso tutto serbatoio sotto quota 730 et transito strada sponda sinistra Vajont fra Costa Gervasio e Località Pineda et diga sbarramento”. Se la stessa ENEL-SADE mandava un messaggio di tale gravità, era chiaro che la situazione lo richiedeva. Lo stesso giorno, in tutto il comune di Erto, furono affissi manifesti recanti l’ordinanza di sgombero, da parte del Sindaco: “Si porta a conoscenza della popolazione che gli uffici tecnici della ENEL-SADE segnalano la instabilità delle falde del monte TOC e pertanto è prudente allontanarsi dalla zona che va da COSTA GERVASIO alla PINEDA. La gente di Casso in modo particolare si premuri di approfittare dei mezzi dell’ENEL-SADE per sgomberare la zona… e siccome le frane del TOC potrebbero sollevare ondate paurose su tutto il lago, si avverte ancora tutta la gente che è estremamente pericoloso scendere sulle sponde del lago; le ondate possono salire per decine di metri e travolgere, annegando anche il più esperto dei nuotatori. Chi non ubbidisce ai presenti consigli mette a repentaglio la propria vita.” Mercoledì 9 ottobre 1963 è una giornata limpida. Qualcuno aspetta con impazienza la sera, per vedere in TV la partita Real Madrid-Ranger Glasgow, che si preannuncia esaltante. Qualcuno, fra i giovani, marina la scuola e approfitta del bel tempo per una scampagnata. Su al lago però l’atmosfera è molto tesa. Biadene ha il vice in ferie, e decide che la situazione ne giustifica il richiamo. Gli scrive: “…in questi giorni le velocità di traslazione della frana sono decisamente aumentate […] le fessure del terreno, gli avvallamenti della strada, l’evidente inclinazione degli alberi sulla costa che sovrasta La Pozza, l’aprirsi della grande fessura che delimita la zona franosa, il muoversi dei punti anche verso la "Pineda" che finora erano rimasti fermi, fanno pensare al peggio. […] Il serbatoio sta calando di 1 metro al giorno e questa mattina dovrebbe essere a quota 700. Penso di raggiungere quota 695 sempre allo scopo di creare una fascia di sicurezza per le ondate […] Mi spiace darle tante cattive notizie e di doverLa far rientrare anzitempo. […] che Iddio ce la mandi buona.” A mezzogiorno alcuni operai dell’ENEL si trovano sulla strada in cima alla diga, per la loro pausa pranzo. Guardano su, verso il Toc, e vedono muoversi la gigantesca massa di roccia. Un’ora dopo, verso le tredici, dietro le baracche degli operai di sponda sinistra il terreno si spacca. Compare una fessura larga mezzo metro e lunga cinque. Si allarga in modo visibile. Sulla strada di circonvallazione si moltiplicano le spaccature. Fra le tre e le quattro, un operaio attraversa a piedi una zona del Monte Toc dalle parti del torrente Massalezza. Segue un percorso a monte, rispetto alla strada di circonvallazione. Ad un certo punto vede alberi sradicarsi e cadere. Alle quattro del pomeriggio la frattura dietro le baracche si è allargata di un altro mezzo metro. Prima di sera, tutta la frana è scesa di 20 centimetri. E continua ad aumentare di progressione. Intorno alle 17:00 la ENEL-SADE avverte Caruso di chiamare i Carabinieri per bloccare il traffico nella zona. Alle 17:50 telefonata tra Biadene, dalla diga, e il geologo Penta da Roma. Biadene conferma che stanno svasando, e avverte della necessità di raggiungere i 700 mt. Penta esorta a "non fasciarsi la testa prima di essersela rotta", e invita alla calma. La velocità di svaso, in una telefonata di poco dopo, è descritta da Biadene come "compatibile con l’esercizio di Sovèrzene", e quindi parrebbe di soli 0,70 cm al giorno; in realtà sembra che il 9 ottobre il livello sia calato di 1,50 mt. I movimenti della frana intanto, creano problemi al canale di scarico. Ore 18:00. Chiude il cantiere. Biadene torna a casa, a Venzia. Rittmeyer e i suoi uomini rimangono a controllare la situazione. Con l’arrivo del buio, alla diga viene accesa una fotoelettrica, per continuare la sorveglianza. Il malumore è palpabile; almeno in quelli che conoscono bene la situazione. Una finestra della centrale di controllo è stata smontata, per l’abbandono rapido. Nel caso di una grossa frana, i tecnici dovrebbero saltar fuori dalla palazzina sulla piattaforma, e correre, attraverso un tunnel, nella roccia viva della montagna. In un Caffè di Belluno, Caruso incontra il comandante dei Carabinieri locali e chiede insistentemente che venga chiusa la strada statale di Alemagna, nel tratto fra i centri di Ponte nelle Alpi e di Castellavazzo. L’ufficiale telefona alla Caserma di Cortina d’Ampezzo e fa trasmettere l’ordine al Maresciallo dei Carabinieri di Longarone. La strada viene effettivamente chiusa; ma i cinque paesi che essa attraversa, e che si trovano proprio a valle della diga, non vengono sgomberati; nessuno viene avvertito del pericolo. Intorno alle 22:00, dalla diga Rittmeyer chiama Biadene a Venezia; è piuttosto agitato. Comunica che la montagna sta cedendo a vista d’occhio. Chiede istruzioni. Biadene cerca di calmarlo, ma lo esorta a "dormire con un occhio solo". Forse, nella telefonata, si intromette la centralinista di Longarone, chiedendo se ci sia pericolo anche per quel centro. Biadene le risponderebbe di non preoccuparsi, e di "dormire bene". Un’altra simile intromissione potrebbe aver riguardato una telefonata tra un rappresentante ENEL-SADE e la fabbrica esistente proprio qualche centinaio di metri a valle della diga. 22:39. La frana cede di schianto. 260 milioni di metri cubi di roccia si staccano all’unisono dalla monte Toc con un boato. Gli elettrodotti dall’Austria vengono strappati dai tralicci, e coi lampi azzurri dei corto-circuiti, illuminano a giorno tutta la valle. Il parroco del paese di Casso, che sta lavorando in canonica, sente il frastuono e la grande scossa di terremoto. Corre a una finestra che affaccia sul lago, e la spalanca. Vede tutta la costa del Toc che precipita verso valle in mezzo ai lampi. È una grande "M" alta più di 100 metri e larga quasi tre chilometri, con boschi, campi coltivati e case, che si abbatte verso il lago. La frana si avventa sul lago, tutta intera senza sfaldarsi; poi una zolla, quella più in basso, arriva al fondo valle e comincia a rotolare verso il monte Salta, nella direzione opposta. Il lago sembra scomparire in una enorme nuvola bianca; ma è in realtà una colonna d’acqua alta più di 250 metri. Si alza in verticale fino a 950 metri, inclinata verso il paese di Casso. Rocce della massa di centinaia di chili partono verso il cielo come granelli di sabbia. La costa su cui si trova Casso ha un grosso sperone intorno a quota 800. Visto da lontano sembra quasi una lama. La colonna d’acqua che sale verso il paese ci finisce contro, e viene tagliata a metà. Il grosso dell’ondata si accumula sopra la diga, e vi si abbatte. L’ondata ha scavalcato la diga. 50 milioni di metri cubi d’acqua, precipitano a piombo per i 261 metri della diga. La valle è strettissima e tortuosa, in quel punto. La massa d’acqua viene compressa e spinta in fuori ancora più veloce. Esce a 100 chilometri orari, ed è alta 70 metri. Quando l’onda irrompe nel greto del Piave, migliaia di ciottoli vengono sparati via in avanti. A Longarone si sente un boato. Il vento è fortissimo; dai tetti volano via i coppi e le tegole, sui muri arrivano le sventagliate di sassi dal Piave; qualcuno degli abitanti, forse, è colpito e ucciso. Alcuni che non sanno dove andare, istintivamente corrono nella direzione opposta, verso il pendio della montagna che hanno di fronte. L’aria, compressa davanti all’ondata, è un’onda d’urto. Scaraventa cose e persone in avanti, alla cieca. Gli edifici si sbriciolano quando arriva l’acqua. Le case, le chiese. Della grande chiesa parrocchiale di Longarone viene giù tutto, non si salva nemmeno l’altare. Portici, osterie, piazze e strade vengono cancellati in una montagna di macerie sotto il muro d’acqua. Un’altra chiesa è colpita e si sfascia. Rimane l’abside attaccato al campanile. Le persone scampate all’onda d’urto vengono colpite da interi cornicioni, colonne, mura spinte violentemente contro di loro. Mobili, vestiti, persone, animali, frammenti di ogni tipo vengono scagliati in cima agli alberi. La stazione della ferrovia si sbriciola; le traversine dei binari vengono divelte e i binari si piegano per decine e decine di metri. La Caserma dei Carabinieri è spazzata via fino alle fondamenta.