«Mio padre era un falsario del bene» PERSONE A Parigi Adolfo Kaminsky non portava la stella gialla, ma i suoi documenti parlavano da soli. «Tutto era vietato agli ebrei», ricorda la figlia Sarah. Tra un arresto e un rilascio, le circostanze portarono Kaminsky a fabbricare la sua prima carta di identità. Fu l’inizio della sua vita da falsario di documenti, il più geniale e acuto del Novecento. Adolfo mise il suo talento a disposizione delle più nobili cause: dagli ebrei sotto il nazismo all’emigrazione clandestina verso Israele, dal sostegno all’Fln algerino alle lotte rivoluzionarie in America Latina, fino all’opposizione alle dittature di Franco, di Salazar e dei Colonnelli greci. Costruì identità fittizie a coloro che si trovavano in difficoltà, pezzi di carta preziosissimi per fuggire dalla violenza, dai soprusi, dalle guerre e dalle ingiustizie. S di Marina Gersony arah Kaminsky è nata nel 1979 a Sidi M’hamed, in Algeria, e vive in Francia da quando aveva tre anni. È attrice di professione e autrice di sceneggiature. La sua particolare bellezza – pelle ambrata, occhi color smeraldo e riccioli scuri – è frutto di un matrimonio misto. Sua madre Leïla, una tuareg dell’Algeria del Sud, è figlia di un imam progressista che ha studiato diritto all’università di Algeri, si è battuta per la decolonizzazione dell’Africa e si è interessata all’arte contemporanea e alla fotografia. Il padre, Adolfo Kaminsky, un ebreo ashkenazita di origini russo-ucraino-georgiane, è un “maestro di strada” che aiuta i giovani malfattori a reinserirsi, trovando loro un lavoro e insegnando fotografia. Almeno questo è quello che per molti anni ha creduto la figlia Sarah. Fino a quando, tra un sospetto e l’altro, ha 152 scoperto un articolo di giornale che titolava: L’ex falsario si rifà una verginità. E ancora: Un vecchio falsario vigila oggi sulla moralità dei giovani. Ex sostenitore degli Algerini dell’Fln contro la Francia, si occupa del reinserimento dei nostri giovani delinquenti magrebini. Un falsario? E chi lo avrebbe mai immaginato, pensò Sara incredula, decidendo di indagare sul passato di questo padre enigmatico e misterioso. Ne parlò con lui, chiese spiegazioni e la sua collaborazione. Di fronte a lei non c’era più soltanto l’adorato genitore dall’aria mite, tanto più anziano di lei (lui 86 anni, lei 32), bensì un uomo coraggioso che aveva dedicato la propria esistenza al servizio delle nobili cause. «Ricordo di aver visto delle lettere», osserva Sarah rivolgendosi al padre. «Una in particolare destò il mio interesse. Ti erano molto grati per il tuo lavoro di spionaggio e nel controspionaggio dell’esercito francese nel 1945». «Mio padre un agente segreto, mi dissi. Così, secondo i punti di vista, sentivo parlare di falsario, partigiano, eroe, traditore, agente segreto, fuorilegge, mudjaid…». La giovane si butta a capofitto per ricostruire questa storia «di clandestinità, di passione e azione politica, di ansia e di paura». Parla a lungo con il padre, rintraccia i suoi vecchi amici ancora vivi, spulcia numerosi archivi, raccoglie documenti e testimonianze. Da tutto questo lavoro nasce il libro Adolfo Kaminsky. Una vita da falsario (Angelo Colla editore, trad. Giuliano Corà, pagg. 224, € 18). Commenta Sarah nel prologo: “La morte, il tempo, mi indicavano le ragioni per le quali dovevo scrivere questo liAdolfo Kaminsky. east . europe and asia strategies numero 39 . dicembre 2011 153 I l giovane economizzò i suoi salari e mise in piedi un piccolo laboratorio. Nel frattempo erano state promulgate le prime leggi del regime di Vichy: gli ebrei non avevano più diritto di possedere un conto corrente postale, né un libretto di risparmio. La vita iniziava a essere dura, non si trovavano i beni di prima necessità e i rifornimenti erano sempre più difficili. Grazie al suo laboratorio chimico il giovane era ormai in grado di fabbricare e distribuire gratuitamente del lucido da scarpe, del sapone col carbonato di sodio e delle candele di paraffina molto utili per le frequenti interruzioni di corrente. Intanto sua madre era morta in circostanze misteriose, forse assassinata, mentre il resto dei Kaminsky fu costretto a lasciare la 154 casa, requisita dall’amministrazione militare tedesca. Da quel giorno, oltre al sapone, alle candele e al sale, Adolfo si mise a fabbricare prodotti più pericolosi per corrodere le linee telegrafiche e telefoniche e far arrugginire i binari, e anche piccoli detonatori. «Partecipando ai sabotaggi – ricorda oggi – per la prima volta non mi sentivo più del tutto impotente di fronte alla morte di mia madre. Avevo perlomeno la sensazione di vendicarla. E mi sentivo orgoglioso. Ero nella Resistenza». Poco dopo i tedeschi lo arrestarono insieme al fratello minore, mentre si trovavano in tintoria. Li fecero salire su un camion, dove avevano riunito il resto della famiglia: destinazione Drancy, il più importante campo di transito per ebrei catturati sul suolo francese (zona occupata e amministrazione Vichy). Qui, rinchiusi in un blocco di cemento lugubre circondato da filo spinato, in meno di quattro anni passarono 70mila ebrei di molte nazionalità: 67mila di essi vennero deportati, nella stragrande maggioranza, ad Auschwitz. “Campi di lavoro”, dicevano i tedeschi. I Kaminsky si salvarono grazie alle lettere scritte all’ultimo momento dal fratello di Adolfo, Paul. Erano tutte uguali, con i loro nomi, la data e la destinazione e chiedevano che l’Argentina reclamasse la loro liberazione. Dopo tre mesi di reclusione Adolfo si ritrovò in una Parigi sempre più feroce e antisemita, devastato inoltre dai sensi di colpa per essersi salvato. «A Drancy ho scoperto gli ebrei e la loro diversità, li ho amati, mi sono amato attraverso di loro, mi sono sentito ebreo, e questa identità non mi ha più abbandonato». Un’appartenenza che tuttavia non lo convinse a emigrare in Israele: «Avevo immaginato un Paese laico, non sopportavo che il nuovo Stato scegliesse di fondarsi sulla religione e l’individualismo». A Parigi Adolfo non portava la stella gialla, ma i suoi documenti parlavano da soli. Non poteva andare in albergo, né tornare in Normandia o comprarsi da mangiare. Tutto era vietato agli ebrei: si trattava di una libertà illusoria. Dopo varie peripezie, tra un arresto e un rilascio, le circostanze lo portarono a fabbricare la sua prima carta di identità. Fu l’inizio della sua lunga vita da falsario di documenti, il più geniale, acuto e finora sconosciuto del Novecento. Adolfo mise il suo talento a disposizione delle più nobili cause: dagli ebrei sotto il nazismo all’emigrazione clandestina verso Israele dei superstiti dei cameast . europe and asia strategies pi di concentramento, dal sostegno all’Fln nella guerra di voro. «Se avevo paura? Sì, all’epoca ne avevo: ero stato indipendenza algerina alle lotte rivoluzionarie in Ameminacciato, anche se non avevo fatto nulla. A quel punrica Latina, fino all’opposizione alle dittature di Franco, to decisi che era meglio agire. Il rischio era alto, ma valedi Salazar e dei Colonnelli greva la pena rischiare per qualci. Per non dimenticare le cosa di ancora più importante. guerre di decolonizzazione in Non sono un eroe, ma non Africa. Costruì identità fittizie avrei mai sopportato di rimaa coloro che si trovavano in nere inerte di fronte alle persodifficoltà, pezzi di carta prene in pericolo». ziosissimi per fuggire dalla Adolfo racconta di quella violenza, dai soprusi, dalle volta in cui i nazisti avevano guerre e dalle ingiustizie. Per preparato una gigantesca retamantenersi faceva il fotografo, ta che prevedeva lo svuotaperché la fabbricazione di domento simultaneo, entro tre cumenti falsi non l’ha certo argiorni, di alcuni istituti per ricchito. Ai soldi poi non avebambini, oltre trecento: «Reva mai dato troppo peso. stare sveglio, il più a lungo «Quello che mi premeva era la possibile. Lottare contro il libera circolazione dei popoli sonno. Il conto è presto fatto. – racconta oggi Adolfo alla fiIn un’ora io fabbrico trenta doglia – forse per via dell’infancumenti falsi. Se dormo zia che ho avuto, o della mia un’ora, muoiono trenta persoeredità familiare, degli anni di ne. Dopo due notti di lavoro, esilio che i miei genitori aveun lavoro minuzioso e interBinari della ferrovia che arriva vano subito… In quelle occaminabile, l’occhio appiccicaal campo di concentramento di Auschwitz. sioni compresi veramente il to al microscopio, il mio pegsignificato del termine “docugior nemico è la fatica. Trattemento”, questo pezzo di carta che, per una famiglia come nere il respiro perché la mano non tremi. Fabbricare dola mia, errabonda da un esilio all’altro per decenni, si ricumenti falsi è un lavoro meticoloso, un vero lavoro da velava particolarmente difficile da ottenere». orefice. Più di ogni altra cosa quello che mi fa paura è l’errore tecnico, un dettaglio minimo che possa essermi sfugdocumenti di questo “falsario del bene” hanno salvagito. Un solo secondo di distrazione può rivelarsi fatale, to numerosissime vite: bambini, donne, uomini e ane da ogni documento dipendono la vita o la morte di un ziani. Giorni e notti trascorsi a lavorare nei laboratori imessere umano». provvisati, clandestini, nascosti o semiufficiali (da una Questo e molto di più è Adolfo Kaminsky, un Giusto tra parte l’attività pubblica di fotografo, dall’altra quella sei Giusti dei nostri tempi. Oggi è un signore anziano con la greta di falsario). In solitudine, immerso nell’oscurità a barba bianca, un sorriso limpido e puro e lo sguardo affamiscelare inchiostri, contraffare, copiare, cancellare, ticato; un sorriso e uno sguardo che hanno fatto girare la schiarire e scurire, un lavoro certosino di altissima pretesta a molte donne bellissime e di spessore. Ma questo è cisione, con gli occhi che bruciavano e la tensione a milun altro dei molti capitoli della sua vita straordinaria, che le, sempre con un nodo in gola e la paura di essere scomeriterebbe un libro a parte. Non a caso, diversi produtperto. Solo pochissimi complici fidati erano al corrente, tori si sono fatti avanti per accaparrarsi i diritti per un e chissà se poi tutti erano davvero leali in tempi di doppi film. Conclude Kaminsky: «Ho deciso di raccontare la giochi, spie, agenti segreti camuffati. Neppure i familiari mia storia perché ritengo sia importante che i giovani didovevano sapere, un solo errore avrebbe potuto costargli ventino coscienti del fatto che si può fare qualcosa. Anla vita, quella degli altri e mettere a repentaglio tutto il lache nelle situazioni più disperate». InfoPhoto bro, e in fretta. Prima che fosse troppo tardi. Prima che lui si spegnesse, con i suoi segreti, con la sua storia, affinché gli enigmi della sua vita non rimanessero senza risposta”. Ma chi è Adolfo Kaminsky, l’uomo dalla doppia, tripla e forse quadrupla vita? La sua storia parte da lontano ed è simile a quella della maggior parte degli ebrei nell’Europa dell’Est del secolo scorso: una storia di fughe, violenze, partenze repentine, ripetuti esili, spesso dettati dalla costrizione. I genitori di Adolfo, entrambi russi ebrei, si erano conosciuti a Parigi nel 1916. Sua madre era sfuggita ai pogrom e il padre, simpatizzante marxista che scriveva per il giornale del Bund, era stato costretto all’esilio in Francia. Quando i bolscevichi presero il potere in Russia il governo francese ordinò l’immediata espulsione di tutti i russi ritenuti dei “rossi”. Fu così che la coppia emigrò in Argentina, dove nacquero Adolfo e i suoi fratelli. In seguito i Kaminsky, ormai di nazionalità argentina, ritornarono in Europa, prima a Parigi e poi in Normandia presso uno zio. Gli avvenimenti del 1938, l’annessione dell’Austria da parte della Germania e le voci sulla caccia agli ebrei, che annunciavano l’imminenza della guerra, accelerarono i ricongiungimenti. Adolfo iniziò a lavorare non ancora quattordicenne, con in tasca il solo diploma elementare: prima dallo zio, poi presso una fabbrica di cruscotti d’aereo finché, infine, rispose a un’offerta per diventare apprendista tintore. Tra smacchiatori, colori e tinture, si appassionò alle formule e ai processi chimici, mentre la sera, di nascosto, faceva i suoi esperimenti, grazie ai quali perfezionò l’arte della contraffazione. Ben presto si interessò alla decolorazione degli inchiostri. Oggi racconta: «Avevo trovato la mia strada». I . numero 39 . dicembre 2011 155