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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
RODOLFO RIDOLFI
Per l’amor dei poeti
o principessa dei sogni segreti
appunti su Dino Campana
Edizioni Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini”
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© Rodolfo Ridolfi
© Dicembre 2005
Tutti i diritti riservati.
Senza regolare autorizzazione dell’autore è vietata la riproduzione,
anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo
effettuata, compresa la fotocopia.
In copertina: Francesco Galeotti
“Omaggio a Dino Campana”
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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
INTRODUZIONE
Ho scelto come titolo di questi miei appunti su Dino Campana
“Per l’amor dei poeti o principessa dei sogni segreti” per due
motivi.
Nel manoscritto de Il più lungo giorno Dino Campana titola
questa lirica, inserita fra L’invetriata e La notte di fiera, Sul
torrente notturno. La speranza, un vero e proprio scrigno dei
sogni, delle speranze, delle illusioni e delle disillusioni del
“Grande Marradese”. L’esaltazione della Poesia come unico
antidoto alla forza inarrestabile di un percorso già scritto. “Solo
la poesia ci salverà”.
La seconda motivazione riguarda le sensazioni più autentiche
che mi hanno spinto a questo lavoro, e fra queste l’amore per
la Poesia e la nostra meravigliosa lingua. Questo mio scritto
nasce appunto “dall’amor dei poeti”. La mia raccolta giovanile, dal titolo assai presuntuoso Weltanschauung del 1970, racchiude nella voglia di Poesia il programma del mio interesse
più vero: arrivare a Campana, pur muovendo scolasticamente
da D’Annunzio, poco amato, e transitando per Pascoli, più che
dignitoso. Oggi per me Campana visto sempre più da vicino e
sempre più contaminato da Dante, Leopardi, Verlaine e
Whitman, diventa il gigante che si è rivelato nella sua poesia.
In queste mie pagine, coltivo l’ambizione, come tanti appassionati “campaniani”, di aggiungere qualcosa di autentico sul piano critico e di vero su quello più semplicemente biografico.
Lo studio e la ricerca sull’appassionante vicenda letteraria ed
umana del “grande poeta di Marradi” è infine il tentativo, un
po’ egoistico e per alcuni forse, riduttivo, di ricordare come,
nella dimensione universale che la Poesia di Dino Campana ha
raggiunto, un po’ del suo sangue sia rimasto lassù, fra le rocce
di Marradi, mescolandosi idealmente con il nostro.
Marradi, dicembre 2005
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L’AUTORE
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PREFAZIONE
di Christophe Mileschi
Pochi poeti hanno suscitato schieramenti critici, pro o contro,
così appassionati, verrebbe quasi da dire, così… accaniti come
Campana. I contro hanno a lungo dominato il campo, contribuendo, nella scia dei primi e famosi detrattori, a portar avanti
tutta una serie di giudizi (e pregiudizi) e di concetti (e preconcetti) che non resistono ad una lettura attenta, seria ed equa
della poesia del “Marradese”. Col passare degli anni, appare
ormai fin troppo ovvio che chi decretò Campana troppo folle,
o troppo rozzo, o troppo incolto – e via dicendo – per esser
detto poeta genuino, ben poco aveva da dirci sul testo (che alla
fine è quello che ci resta e vale, e con cui dobbiamo fare i conti),
ma molto ci diceva (magari inconsciamente) su sé stesso, sulla
propria insofferenza nei confronti dell’esplosivo e geniale
autodidatta, sui propri difficili rapporti con la cultura, con l’audacia artistica ed intellettuale, con la nozione stessa di poesia,
sulla propria paura della “follia”, e sulla propria riluttanza ad
accogliere, in una tradizione poetica italiana che non aveva
avuto (e non voleva) i suoi maudits, una voce decisamente
anomala. Dico «anomala», ma meglio dovrei dire, considerando l’etimologia, «enorme». La poesia di Campana, infatti, non
è a-normale, non è affatto priva di norme, e non potrebbe comunque esserlo (un discorso, per quanto sconvolto, presuppone necessariamente un codice, un sistema di regole e valori,
non solo grammaticali); è poesia «e-norme», poesia in movimento, in fuga fuori dalle norme: da quelle vigenti a quei tempi (norme sociali, certo, si pensi alla vita scandalosa di Dino;
norme estetiche anche, linguistiche, e poi concettuali, nazionali, spazio-temporali, epistemologiche…), ma pure (ed è l’aspetto più sconcertante, più terribile, più duraturo anche di quanto
Campana ha lasciato) dalle norme che il testo stesso, per farsi,
assume, accetta per buone, ma sempre provvisoriamente, ricusandole poi, anzi: contemporaneamente, nel suo disfarsi. E Campana sapeva, sapeva perfettamente, e comunque molto meglio
di chi credette di poterlo liquidare convocando D’Annunzio, la
psichiatria o la propria scienza catalogale, di scrivere così, e
perché scriveva così:
Fabbricare fabbricare fabbricare,
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare e disfare
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Fare e disfare è tutto un lavorare.
Ecco quello che so fare.
In questa nenia di pochi versi, posteriori ai Canti Orfici, Campana racchiude con mirabile lucidità e concisione gli annessi e
connessi della propria poetica. Il rifiuto di fabbricare poesia, di
fabbricare e basta, di produrre versi applicando qualche metodo, sfornandoli da qualche stampo. Rifiuto che è anche – agli
albori dell’era (che è tuttora e più che mai la nostra) della
mercificazione della letteratura, quella che Campana chiamò
l’industria del cadavere – una precisa presa di posizione ideologica; la natura (qui il mare, in altri testi la montagna, la
pampa, l’acqua sorgiva, la stessa roccia, ferma solo in apparenza…) come modello (irraggiungibile) dell’arte più autentica, perché sempre travagliata dal movimento, dalla tensione
centrifuga. L’improponibilità, perciò, di un’arte che si rapprenda
in canoni definitivi (siano essi «tradizionali» o d’avanguardia),
che diventi «scuola», emani «manifesti», promulghi nomenclature estetiche (da qui la convinzione che Campana, nella sua
tragica coerenza, non abbia lasciato testi teorici, il che non vuol
dire che la sua poesia non sia altamente teorizzabile). E, in positivo, l’affermazione della propria scelta poetica ma anche esistenziale: fare e disfare, non arrestarsi mai paghi del proprio
operato, nonostante la fatica, la sofferenza, e tendere sempre a
una vita-poesia che piega, che piega e non posa, specchio della
vita del clochard di Marradi, e del periodare del suo canto. E
a chi pensasse di poter asserire che la sua poesia sgorga spontanea (e perciò, sempre un po’ sospetta) dai recessi dell’anima,
della follia o della rozzezza montanara, Campana risponde: il
«fare e disfare è tutto un lavorare», la poesia campaniana è
frutto di vigile sforzo, i suoi canti monumenti di tenacia solitaria, sapientemente pensati e organizzati, come la critica più
attenta sta ormai, del resto, sempre meglio accertando.
Nella forma dei versi sopraccitati, così falsamente facile e ludica,
vi è poi qualcos’altro: l’implicito distacco dalla propria arte (gli
ormai noiosi canti orfici, li chiamerà l’autore in una lettera dal
manicomio), una forma di autoironia, la consapevolezza di
quanto irrilevanti siano, alla fine, la vita dell’uomo e tutta la
sua arte, dinnanzi all’immensità del tempo e dello spazio.
Sbaglia dunque di grosso, chi si ostina a vedere in Campana il
tipo del poeta ingenuo, grezzo, incolto, e via dicendo. I suoi
canti cercano, sì, di accordarsi, forse di fondersi con una musica primordiale, una tellurica melodia, ma sanno, come ben
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pochi poeti del suo tempo seppero, che il traguardo non esiste,
che la poesia non consegue risultati (come il mare non si ferma
mai in una posa), e il poeta è colui che senza tregua cerca, fa
e disfa e rifà, tenendo presente la molteplicità dei possibili
discorsi, delle possibili rappresentazioni, e la loro irrimediabile
insufficienza, colui che vive e scrive sapendo che vivere e scrivere vuol dire errare attraverso “la lunga notte piena degli inganni delle varie immagini”.
La poesia di Campana è ricchissima di splendide formule, che
dimostrano che l'Autore aveva maturato in modo non comune
una insolita esperienza umana: esistenziale e culturale. È davvero sorprendente che, per lo meno in Italia, qualcuno, anche
fra i critici più autorevoli, continui a non riconoscere nel poeta
marradese una delle più grandi, lucide, profonde intelligenze
poetiche, non solo del suo tempo. In Francia, c’è chi non ama
Rimbaud, Lautréamont, Nerval, Breton o Aragon; ma a nessuno verrebbe in mente, per giustificare il proprio giudizio, di
dichiarare che non sono veri e propri poeti, o sono poeti solo
a metà, o sono poeti sì, ma finché non versano nella pazzia
(nel caso di Artaud, per esempio).
Da anni ormai, molti si impegnano in un disfare i più rappresi
luoghi comuni della critica campaniana, per aprir il campo ad
altri discorsi. Non avrebbe senso citare i nomi di tutti gli studiosi, poeti, artisti, ed altri operatori culturali, che vi hanno contribuito, mossi dalla passione, dalla convinzione che a
Campana fosse toccato una sorte ingiusta in vita ma anche, e
più, in arte. In questa sede, basti dire che la nascita del Centro
di Studi Campaniani ha segnato una tappa decisiva di questo
processo, che possiamo ben chiamare di riabilitazione. Le numerose iniziative e manifestazioni promosse dal Centro stanno
legittimando ormai altre immagini di Campana-uomo, scevre
di false mitologie; mentre i lavori critici, come questo di Rodolfo
Ridolfi, continuano a dimostrare che Campana, come poeta, era
quanto mai consapevole del contesto in cui scriveva e delle
poste (anche metaletterarie) in gioco nella scrittura; ben lungi
dall’essere sceso impreparato dalle sue montagne, Campana si
inseriva in realtà, prima di tutti gli altri, nel concerto della poesia e del pensiero mondiale, parlando a noi, hic et nunc, della
nostra condizione errabonda, cantando la nostalgia infinita della
notte chiomata di muti canti, pallido amor degli erranti.
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Poesia
LETTERATURA È VITA!
Ho sofferto là sulle rovine
dignitose
della sporca era dannunziana.
Sono qui presente a questa vita
umile di sempre
che Pascoli ha segnato
con il tratto profetico della sua penna.
Torneremo lassù
per sentire insieme con animo
nuovo
i Canti Orfici.
Da WELTANSCHAUUNG di Rodolfo Ridolfi
(Editrice Mondo Letterario - Milano, 1970)
Stefano Scheda “L'incontro di Regolo” 1997
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LA VITA
“Dino Campana era tarchiato, di mezza statura, si sarebbe detto
un mercante, a giudicarlo dall’apparenza, un eccentrico mercante
con magri affari. Le commesse dei bar, i camerieri e gli estranei
lo guardavano con circospetta ilarità. Aveva una lunga capigliatura biondo-rosso, folta e ricciuta, che gli incorniciava un viso di
salute; due baffetti che s’arrestavano all’angolo delle labbra, e una
barbetta economica che non s’allontanava troppo dal mento.”
Nasce a Marradi, ultimo comune della Provincia di Firenze
(Romagna Toscana) nella valle del Lamone, il 20 agosto 1885,
da Giovanni, maestro elementare, e da Francesca Luti (detta
Fanny), casalinga. La sua casa natale era in via Celestino Bianchi (nel quartiere vicino al Fiume detto l’Inferno) poi bombardata e distrutta durante la seconda guerra mondiale. Ha vissuto
gran parte dei suoi giorni marradesi nella casa “Campana” di
Via Pescetti. Il padre fu sempre affettuoso e comprensivo con
lui; la madre, invece, definita con un po’ troppa fantasia
“un’Emma Bovary senza il coraggio dell’adulterio”, dicono
smettesse di seguire il primogenito Dino alla nascita del secondo figlio Manlio, avvenuta nel 1888. Il rapporto fra Dino e la
madre diventa un rapporto difficile, quasi di rifiuto. “Dopo la
nascita di Manlio, il Cocco”, scriverà Giovanna Diletti Campana, “Dino passò in seconda, o per meglio dire in terza linea.
Ninni (Manlio), sempre Ninni, solo Ninni”.
Per questo, probabilmente, il poeta non sentì mai la madre realmente vicina e nutrì nei suoi confronti una forma d’intenso
odio-amore che sfogava in ricorrenti atti di aggressione. Proprio di “aggressività morbosa” in famiglia comincia a dar prova il giovane Campana - secondo quanto riferì il padre al
professor Brugia (direttore del manicomio di Imola) - già nel
1900. Quello della malattia mentale di Campana è uno dei
capitoli della sua vita più difficili da penetrare per comprendere meglio il suo universo. Da un lato, infatti, si è cercato di
allontanare il problema del poeta “pazzo” senza neanche
affrontarlo minimamente; dall’altro, invece, si è fatto ricorso
troppo spesso alla nevrosi di Campana per ricercare nella sua
opera il frutto della favorevole congiuntura genio-follia.
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L’elemento biografico della pazzia nulla toglie o aggiunge alla
grandezza della sua opera. Bisogna tuttavia tener conto, nell’analizzare quest’aspetto di Dino Campana, che in quegli anni
ai Sindaci e ai Regi Pretori era dato l’incarico di disporre l’ammissione dei “dementi” nei manicomi provinciali per un periodo d’osservazione. Basterebbe questo per capire quanto
approssimativa e arbitraria poteva essere una diagnosi così
delicata come quella della malattia mentale, sebbene la decisione per l’ammissione in via definitiva negli ospedali di
degenza spettasse agli psichiatri del tempo (ligi al principio che
un sano in un manicomio non danneggia nessuno, salvo se
stesso, mentre un demente dimesso è sempre un rischio, soprattutto per il medico che prende la decisione). Campana,
quando era in uno stato di turbamento, non scriveva una sola
riga, figuriamoci quando era pervaso dai momenti di crisi. In
questa situazione Campana dopo i frequenti ma saltuari soggiorni in vari ospedali psichiatrici, fu internato definitivamente
nell’Ospedale di Castel Pulci nel gennaio 1918 dove, alternando periodi di lucidità a ricadute, morì dopo un’agonia di sei
ore il 1 marzo 1932 per una presunta setticemia acuta contratta
improvvisamente non si sa bene se per una ferita causata da
un filo spinato, da un coltello da cucina o da un ferro da calza.
Come un pazzo dei tanti, Campana fu sotterrato nel “cimiterino” di San Colombano, prossimo al manicomio. Il destino
delle spoglie di Campana sarebbe stato quello di essere disperse, se non fosse stato per l’intervento di Piero Bargellini. Quest’ultimo si preoccupò di raccogliere il denaro sufficiente
affinché la salma non fosse dispersa e le si trovasse una sistemazione migliore. Piero Bargellini si fece promotore di una
sottoscrizione per raccogliere il denaro sufficiente a riscattare i
resti del poeta dalla fossa comune cui erano destinati. Ma il
risultato della questua fu misero e il progetto sarebbe rimasto
tale se non fosse intervenuto il Ministro Bottai a far restaurare
una cappella della vicina chiesa di Badia a Settimo e a disporre tutto affinché le ossa di Campana avessero la loro degna
sepoltura, ed il segno della sua tomba restasse. Il 3 marzo 1942,
a dieci anni dalla sua morte, Bargellini aveva invitato i fedeli
di Campana alla sua tomba. E sulla piazza della stazione di
Firenze, Bottai aveva dato loro appuntamento alle nove. “Con
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Bottai era Lazzari. E c’erano Papini e Attilio Vallecchi,
Bargellini, E. Montale, Russo, De Robertis, Falqui, Timpanaro,
Lisi. E Ottone Rosai, e Fallacara, con Papini, i soli a ricordare
il volto vivo di Campana. E poi Gatto, Luzi, Parronchi,
Bigongiari, Bo, Seroni, Berti, Santi, Hermet, Conti.” “Nel 1944,
purtroppo, il campanile della Badia fu distrutto e così anche
“la cappellina” scomparve, e fra le macerie s’intravedeva la
lapide di Dino Campana spezzata”. Il 7 dicembre 1946 si trovò
una nuova sistemazione ai piedi della navata sinistra della
chiesa restaurata. Continuiamo a pensare che forse luogo migliore per la sua sepoltura sarebbe stato fra i suoi monti.
Circa gli studi di Campana, sappiamo che frequentò le elementari a Marradi, dove lo zio Torquato era direttore didattico, poi
studiò nel Convitto dei Salesiani di Faenza (1897-98) e nel Liceo-Ginnasio “Torricelli” (1899-1901); lo troviamo anche al Liceo “D’Azeglio” di Carmagnola (Torino) dove ottiene la licenza.
Nel 1903 si iscrive alla facoltà di Chimica pura di Bologna, l’anno dopo passa a Chimica farmaceutica e si trasferisce a Firenze, all’istituto di Studi Superiori; al quarto anno torna a Chimica
pura (1906-1907).
Era stato lo zio Torquato ad indirizzare Dino agli studi scientifici ma Campana, pur attratto dal genere di studi universitari
che seguiva (in cui i procedimenti di separazione delle sostanze in base alle loro proprietà, la loro conseguente descrizione
e trasformazione in altri elementi composti, rimandano ad
un’ipotetica assimilazione alchemica di pensiero) non fu mai
veramente dedito alla Chimica. Di Dino Campana ricorda nel
suo libro l’amico Mario Bejor di Bagnacavallo: “Non lo vidi mai
al tavolo da gioco, mai alterato dal vino o da liquori: come ho
già detto, il suo eccitante favorito, necessario, era il caffè.
Aveva vissuto un anno in montagna, segregato dal genere
umano intellettuale, presso il montanaro Pietro Donatini di
Cignato di Marradi. Correva tutto il giorno pei monti, spesso
col fucile; e gli avveniva anche – nelle sue trasposizioni del reale
– d’uccidere un agnello, che aveva un padrone, e pretendere di
cuocerlo a mò di selvaggio fra gli sterpeti. A notte si metteva
a scrivere al chiarore d’un lume a petrolio, su la piccola tavola
lasciatagli libera dai montanari andati a riposare; la cucuma del
caffè, sola amica, presso. Lasciò lassù, quando dovette andarsene,
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per la ribellione dei locatori alle stravaganze preoccupanti del Mat
Campana. Un desiderio nostalgico di quel modo di vivere gli era
rimasto e lo si sentiva uscire in queste espressioni: “Andare sulla
vetta della montagna ed arrostirsi la pecora uccisa!”
In questo amore per la natura selvaggia e per la solitudine che
vi si accompagna, si coglie in lui un aspetto d’anima nordica
che pure il suo volto, biondo rame dagli occhi celesti di smalto, rifletteva. Partecipò e diede la sua attività alla festa delle
matricole. L’amico Gildo, studente di medicina, lo trovò con
meraviglia a Genova. Mi ripetè al ritorno, stupefatto ancora,
quello che il Campana gli aveva risposto alla sua domanda se
sarebbe tornato a Bologna: “Bologna! Città di beghine e di ruffiani, mai un omicidio, mai un fatto di sangue!”
Era il commiato. Tornò invece, durante la guerra, dopo il suo
infelice ritorno dalle armi. L’incontrai nel vestibolo dell’aula di
lettere, quella di Carducci. Triste all’aspetto, spento nello spirito. Mi confidò il suo disagio; e con affettuosa dedica “il vecchio amico” mi donò il suo libro, nel quale erano aggiunte a
penna Toscanità ed Olimpia. Possiedo di Dino l’autografo
della Chimera, nella prima sua redazione, scritta nel retro
d’un vecchio orario murale della facoltà di Chimica-Farmaceutica per l’anno 1911-12".
Campana si dedica soprattutto allo studio dei grandi della letteratura, anche straniera, direttamente sui testi originali, grazie
alla sua conoscenza delle lingue (francese, inglese, tedesco,
spagnolo), conoscenza non scolastica e sistematica e tutt’altro
che superficiale: “Leggevo molto qua e là” dirà Campana al
Pariani. “Carducci mi piaceva molto, Pascoli, D’Annunzio,
Poe anche; l’ho letto molto Poe. Dei musicisti ammiravo molto
Beethoven, Mozart, Schumann. Verdi anche mi piace; Spontini,
Rossini… Volevo studiare Chimica, ma poi non studiai più
nulla perché non mi andava; mi misi a studiare il piano. Un
po’ scrivevo, un po’ suonavo il piano”.
Afferma Mario Bejor: “Egli frequentò le lezioni di Galletti –
dove talvolta andammo assieme e dove talvolta lo trovai (come
in quel 1916, come ebbi a ricordare più sopra) – e se anche è
dimostrato che egli non s’interessò per il trapasso in Segreteria,
rimane pur sempre che dal 1912 al 16 nelle sue permanenze a
Bologna non frequentò altra aula”.
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Poeta “rozzamente colto” lo definisce Pasolini e continua dicendo che “particolarmente precisa era la sua cultura pittorica”, dando l’opportunità di definire meglio, in questo modo,
l’ampiezza e l’ecletticità della cultura di Campana e di
puntualizzare un altro dei suoi interessi culturali preminenti,
la pittura. Nelle opere di Campana le descrizioni paesaggistiche,
che acquistano sempre un senso di magia e non si risolvono
mai nella riproduzione o nella “maniera”, risentono di un amore
particolare nutrito dal poeta per l’arte di Michelangelo e
Leonardo e rivelano un’adesione cubista e metafisica. Campana fu amico di Soffici (il quale aderì al movimento futurista,
poi al cubismo, ripiegando infine su posizioni tradizionali) che
esercitò la sua attività di letterato, principalmente come critico
d’arte vivace e brillante (diffuse in Italia la poesia di Rimbaud).
Conobbe Costetti per il quale aveva posato nel 1913, per un
ritratto) e fu in buoni rapporti con Primo Conti (di cui resta una
piccola corrispondenza dell’aprile 1918 con Raimondi circa il ricovero del comune amico poeta a San Salvi e poi a Castel Pulci.
Nel 1907 Campana interrompe gli studi di Chimica pura per
compiere uno dei suoi viaggi. Ungaretti mette in discussione
la veridicità di questi viaggi, in aderenza ad una presunta assimilazione di Campana al gusto rimbaudiano dei viaggi fantastici, ma sbaglia. Abbiamo prove del suo viaggio in Francia
e di quello in Sud America e della sua permanenza in Argentina e in America Latina, compiuto nella primavera-estate del
1908, del suo imprigionamento a Bruxelles per tre mesi, e poi
a S. Gills per vagabondaggio, e infine nell’asilo degli alienati
di Tournay per le sue stravaganze. Di tutti questi viaggi rimangono numerosissime tracce nei Canti Orfici, l’unica opera compiuta di Campana. I primi lavori letterari risalgono al 1907 e
tutti i suoi esperimenti poetici sono raccolti nel Quaderno; esperimenti accantonati presumibilmente nel 1912, quando Campana inizia la stesura dei Canti Orfici.
L’8 dicembre pubblica nel Papiro, foglio goliardico bolognese,
La chimera, Le cafard e Dualismo; nel febbraio sul Goliardo,
Torre rossa-scorcio, e la prima stesura degli otto capitoli iniziali de La Notte. Nel 1913 consegna ai direttori di Lacerba,
Papini e Soffici, il manoscritto de Il più lungo giorno che Soffici, in un trasloco, smarrisce. Il manoscritto rappresenta una
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fase di avvicinamento ai Canti Orfici che la leggenda,
assecondata dallo stesso poeta, vuole riscritti a memoria. Nel
1914 Campana a Marradi, grazie ai suoi amici, in particolare
Luigi Bandini e Camillo Fabroni (Camill de’ sass), si accorda
con il tipografo locale Bruno Ravagli per la stampa dei Canti
Orfici che vende nei caffè letterari “Paskosvki” e le “Giubbe
Rosse” a Firenze, e “San Pietro” a Bologna. “Però prima di
consegnare il libro scruta la fisionomia dell’interlocutore, strappa qua e là alcune pagine...”. “Tanto - gli dice - tu queste non
le capiresti”. Solo nel 1928 si avrà la prima ristampa dei Canti
Orfici curata da Bino Binazzi. Nel frattempo Campana aveva
scritto il Canto proletario italo-francese, che viene pubblicato
sul foglio goliardico bolognese II cannone e Toscanità, pubblicato sulla Riviera Ligure.
Nel 1915, allo scoppio della guerra spera di potersi arruolare
volontario ma viene riformato all’Ospedale militare di Firenze.
Trasferitosi nell’aprile del 1916 a Lastra a Signa, conosce Sibilla
Aleramo. L’amore, che lo lega alla donna, dura, ricambiato, fino
all’inverno dell’anno successivo e ne rimangono testimonianze
nella raccolta delle Lettere. Poi tutto cambia; qualcosa si spezza. Sibilla Aleramo sarà l’ultimo dei suoi sogni e delle sue
ossessioni. Il 12 gennaio, a Lastra a Signa, Campana viene portato nell’ambulatorio dell’ufficiale sanitario con l’ordinanza del
Sindaco per l’ammissione in manicomio. La tragedia dell’ultimo dei germani in Italia (forse l’ultimo dei poeti) è
definitivamente conclusa. La famiglia e la maggioranza dei suoi
concittadini non compresero subito il genio di Campana.
La famiglia e Marradi per lungo tempo cercarono di rimuovere quella imbarazzante presenza tacendo. Mio padre, classe 1919
amico d’infanzia di Lello Campana, cugino di Dino non ricorda che qualcuno di casa Campana avesse parlato di Dino. Scoprì Campana ed i Canti Orfici quando nel 1936 Bruno Ravagli,
il tipografo, consegnò a sua madre Agnese, che aveva un negozio di alimentari, due pacchi, legati con il fil di ferro, di
venticinque copie, dei Canti Orfici. Copie che andarono perdute durante il periodo bellico.
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CANTI ORFICI
Fra le iniziative più importanti e significative che il “Centro
Studi Campaniani” aveva il dovere di realizzare, vi era la
stampa anastatica dei Canti Orfici, edizione di Marradi - B.
Ravagli del 1914, che è stata realizzata nel 1994 nello stesso
numero di copie (mille) che, l’otto giugno del 1914, Luigi
Bandini commissionò al tipografo marradese Bruno Ravagli
versando un anticipo di 110 lire (lo stampatore ne voleva
200 ma la sottoscrizione di quarantaquattro marradesi realizzò quella somma).
Nell’ottantesimo anniversario di quell’importante avvenimento, quella ristampa ricordò come nella vicenda umana e poetica di Dino Campana il rapporto con la sua terra natale non fu
soltanto un rapporto difficile e spesso di emarginazione, ma
anche un rapporto di grande amore, segnato da alcune amicizie sincere, come furono quelle con Luigi Bandini e Anacleto
Francini. I Canti Orfici nell’edizione del 1914 sono una testimonianza storica di quest’indelebile legame fra Campana e la
Romagna Toscana che nessuna leggenda e strumentale deformazione, potrà cancellare dagli animi e dalle menti più sensibili ed intelligenti. Quella ristampa, corredata dalla prefazione
di Pedro Luis Ladròn De Guevara, dell’Università di Murcia,
volle anche sottolineare l’universalità della poesia di Dino Campana. Noi del “Centro Studi” immaginammo che quell’evento
editoriale, pensato non soltanto come azione culturale ma anche come atto di affetto di Marradi nei confronti del suo grande poeta, potesse coincidere con il ritorno di Dino Campana
nella sua terra natale, in una delle “Due Case” di cui scriveva
ad Emilio Cecchi l’11 agosto 1917.
Scrivendo la presentazione della “anastatica”, come già accadde sull’Eco delle Scalelle nel 1952 (ventesimo anniversario della morte di Dino Campana) e nel foglio “20 Agosto” del 1955
(settantesimo anniversario della nascita di Dino Campana) e
nelle altre significative ricorrenze del 1985 e del 1992, nutrimmo la speranza per il “Ritorno” che non c’è stato.
Da quel momento ci siamo dedicati allo studio ed alla ricerca
sul grande “Marradese” come mai era accaduto prima.
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“II dottore, il farmacista, il prete, l’ufficiale della posta il maestro… “tutti quegli idioti di Marradi” compongono l’affresco
della “Tragedie”. Il tempo ha sgretolato la saldezza del contesto, allontanato la leggenda e ha lasciato comparire lo splendore essenziale. Da un paese che suona come una maledizione,
secondo l’immaginario popolare, esce un poeta solitario che,
nella natura, trova il rifugio contro gli ottusi rifiuti. Questo rifugio è: “la notte con porte aperte sull’infinito”.
Per quanto contrari agli eccessi, non possiamo negare come la
vicenda umana di Dino Campana sia costellata da una odiosa
retorica che la famiglia e i benpensanti della provincia (Marradi)
hanno determinato, costringendolo alle numerose ed avventurose partenze e ad immancabili ed irosi rientri.
Ma alla fine i Canti Orfici sono pieni di versi meravigliosi, ed
hanno per tutti noi, che ci siamo avvicinati al mistero
campaniano e alla purezza della sua lirica con la presunzione
che solo chi vive i luoghi ed i percorsi di questo lembo di terra
fra Romagna e Toscana può conoscerli meglio, il sapore del
ricordo affettivo più caro.
Dino Campana disse a Paolo Toschi mostrandogli la bozza dei
Canti Orfici: “Voglio che lo legga anche Lei, il mio volume; non
posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze, tanto fra
i poeti non si fanno complimenti”. E Toschi scrive: “oggi sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo o a
penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero.”
Il ritrovamento delle bozze di stampa dei Canti Orfici ci ha
consentito di dare vita al progetto, che cullavamo da tempo, di
un’edizione dei Canti Orfici che riproponesse la lezione originale, quella del 1914, integrata da quelle poche correzioni autografe di Campana, contenute nelle bozze di stampa, ma
ignorate dal tipografo Ravagli.
Il 20 agosto 2004 pubblicammo quella edizione impreziosita dagli importanti ed originali contributi di Paolo Berruti, Luigi
Bonaffini, Fiorenza Ceragioli, Pedro Luis Ladron De Guevara e
Christophe Mileschi, tutti autorevoli membri del nostro comitato scientifico.
Con quel lavoro il “Centro Studi” ha voluto insistere, senza illudersi di illuminare “il segreto umano” del poeta, sui tratti
distintivi della poesia campaniana che maggiormente resistono
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al tempo. Una poesia, quella di Campana, che si snoda lungo
i sentieri, le strade ed i mari della “partenza e del ritorno”
(C’è molto Nerval in questo).
I Canti Orfici, DIE TRAGÖDIE DES LETZTEN GERMANEN
IN ITALIEN “Tragedia dell’ultimo Germano in Italia”, si aprono con una dedica a Guglielmo II, “imperatore dei Germani”.
Un omaggio ad un popolo idealizzato nella aspirazione al
superuomo di Nietzsche e al suo condottiero, con il quale terminò la grande gloria tedesca e l’impero, od un dispetto al
farmacista, al sindaco, all’arciprete ecc., ecc. di Marradi come
certifica, in modo autografo, sulla copia dei Canti Orfici donata a Giuseppe De Robertis il 23 novembre del 1914? Anche questa rimane una delle apparenti contraddizioni campaniane che ci
spingono ad una incessante ricerca sulle mille sfaccettature del
nostro Poeta e sulle contemporanee diverse chiavi di lettura.
È tuttavia certo che il “Germano” rappresenta per Campana la
purezza morale, come "l’Adamo" per Whitman. Campana è un
irriducibile e da questa irriducibilità prende via un processo che
porta il “Germano” verso molteplici passaggi e “tradimenti”. Fin
dall’inizio degli Orfici, nel sottotitolo, esso si lega all’Italia, in
epigrafe, invece, viene connesso all’immaginario americano di
Whitman. Campana parla del «Germano (ideale non reale)» e
scrive: “Se vivo o morto lei si occuperà ancora di me la prego
di non dimenticare le ultime parole - They were all torn and
covered with the boy’s blood - che sono le uniche importanti
del libro. La citazione è di Walt Whitman che adoro nel “Song
of Myself ”quando parla della cattura del flour of the race of
rangers.” Dalla “race of rangers” al “Germano”, agli italiani
Dante, Leopardi e Segantini (Il germano inteso come emblema
dell’uomo superiore), tra America, Germania e Italia, questi intrecci tracciano un contesto, percorso da idee ricorrenti: passaggio, purezza, condanna, esilio. Campana sceglie di definirsi
“Germano” e non usa mai il termine “Tedesco”. Compie questa scelta perché è coerente con il suo intento di creare una
figura che sia simbolo di una purezza e di una nobiltà di spirito rare ed inattuali. Per questo Campana usa il vocabolo più
dotto e letterario, quello dal sapore più antico. Se “tedesco” è
un termine che si basa sull’appartenenza concreta a una terra,
“germano” è segnato da una profondità temporale che rende
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più sfumati i tratti territoriali. Bisogna anche tener presente
come nell’Italia del primo Novecento, “tedesco” fosse aggettivo vago e carico di segni ostili e negativi. È netta la differenza
tra il “Germano” del sottotitolo (ripreso ne La Notte dalla
figura di Faust) e la descrizione che troviamo, nella prosa
Firenze, nell’atmosfera fumosa e cupa di un’osteria: «Tre tedeschi irsuti sparuti e scalcagnati seggono compostamente
attorno ad un litro. Uno di loro dalla faccia di Cristo è rivestito da una tunica da prete che tiene raccolta sulle ginocchia». I Canti Orfici vogliono provare la tragedia,
letteraria prima ancora che umana, di un superstite, il poeta appunto, puro e senza patria in un’Italia senza “purezza”. “Cercavo idealmente una patria non avendone”. La
citazione finale, dal Song of Myself di Whitman, riferita in
modo non proprio preciso, per Campana significava “Erano
tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo”. Una purezza
perduta appunto che determina la tragedia di chi sa bene che
“solo la Poesia ci può salvare”, ma la poesia si è persa, è stata
contaminata e va ricercata e ripristinata assolutamente.
L’ispirazione goethiana è trasferita in «un’aurea perfettamente nietzschiana», lo snodarsi della sua vicenda umana
e poetica è vissuto come un percorso affidato al destino.
Campana, come tutti, deve rassegnarsi ed accettare gli effetti che esso determina.
Dino Campana ha per Nietzsche un’ammirazione totale; l’ideologia nietzschiana rappresenta la guida della sua vita, al pari
di una religione mitica. C’è in Campana un’adesione convinta
alla filosofia di Nietzsche, al suo orfismo, alla bibbia dello
Zarathustra, della Nascita della tragedia e della Gaia Scienza:
manuali di vita pratica, oltre che di poetica. Campana tenta
disperatamente di vivere questa sorta di vangelo nietzschiano,
di attuarlo genuinamente, in modo diverso da D’Annunzio,
«con la dedizione e l’innocenza del credente, dell’iniziato, dell’uomo che vuole elevarsi idealmente verso la bellezza
apollinea». Ha improntato la sua breve vita a questa ideologia,
«nella sofferenza e nella miseria dell’infelice ai margini della
società, nel deserto zarathustriano, nella poesia crepuscolare che
in un solo istante abolisce il tempo e riporta tutto alla più semplice armonia».
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In quest’ottica, in questa fuga verso mete sconosciute, si trovano le condizioni per accedere all’universo segreto e nascosto
delle cose. Il titolo Canti Orfici, con il suo chiaro richiamo al
mito di Orfeo, ci rivela che la parola e il canto poetico rappresentano per il “Marradese” un modo di fuggire dall’umano e
una ricerca continua e assoluta verso il divino. Per farsi creatore, il poeta deve accettare di realizzare una perdita di identità, anticipando la morte.
Orfeo, con la sua discesa agli inferi alla ricerca di Euridice,
realizza questa esperienza della morte anticipata; ma Euridice
è anche simbolo del divino, tanto che la sua resurrezione rappresenterebbe un ritorno immediato del divino stesso alla coscienza umana. Orfeo, attraverso il suo canto, ha accesso agli
inferi; la sua parola poetica ne placa i mostri e tuttavia è destinato a fallire voltandosi indietro a guardare Euridice, così la
perde e la condanna al silenzio.
Quel voltarsi indietro, quel voler guardare ad ogni costo, testimoniano la volontà di assoluto e allo stesso tempo condannano alla perdita del divino, a cui si può accedere soltanto con
l’iniziazione al mistero. In tal modo la poesia, perduto il divino, potrà farsi solo nostalgia del divino stesso. ].atti non fummo a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”,
dice Dante nel XXVI canto dell’Inferno ricordando come gli
uomini abbiano, nella loro memoria, nella loro cultura, l’esigenza di un mondo che non si appiattisca sul suo lato brutale
e materiale, ma si proietti in un’ansia di miglioramento, in una
tensione etica che possa dare un senso alla vita. Il richiamo ad
Orfeo nel titolo del libro di Campana diventa significativo in
quanto apre la strada ad una nuova verifica della poesia come
spazio, fuori del limite del tempo e della storia, in cui la parola
gioca tutte le sue possibilità espressive, e, soprattutto, ci offre una
chiave di lettura per capire la continua ricerca del poeta di vette
spirituali e divine attraverso l’inevitabile passaggio della notte.
Campana piega lo scritto a superare i vincoli cui è legato e
inventa un processo di discontinuità del segno linguistico che
punta al recupero della mobilità della parola. Nel linguaggio
poetico campaniano la parola è una realtà fisica da sperimentare e non uno strumento. L’indefinito e l’incertezza segnano
la realtà notturna degli Orfici. Sembrare ed essere, sogno e
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realtà, desiderio e morte giocano sul baratro della voragine
infernale e, attraverso il cinema e la velocità, presenze cruente
e salvifiche si accendono sull’orizzonte “scheletrico del mondo”. Il verso spazia nei ricordi dell’infanzia del mondo, si riversa nel mito e questo perde le sue caratteristiche fuori del
tempo e dello spazio. Nella poesia la realtà si trasforma ed il
verso conduce lo spirito verso l’ignoto. La poesia è lo spazio
aperto in cui si compie il percorso tra materia e immaginario.
Uno spazio che diventa orfico per il viaggio conoscitivo del
poeta Campana consapevole che il poeta Orfeo, attraverso la
conoscenza di cui è depositario conduce alla virtù. I Canti si
aprono con La Notte, vita vissuta e trasfigurata come strumento di introspezione e riflessione, che ci regala straordinarie pagine liriche, dove classicismo e modernità si fondono e riversano
sul lettore attento musica e colore, ma anche un fiume di citazioni culturali di grande spessore. II poeta discende nei propri
inferi: "Dioniso riguarda, esamina e sublima, condensa, pospone, onirico, il mondo arido e dolce dei piaceri sterili… Solo
addolcendo il luogo dell’amore, ove meandri e labirinti si stravolgono". Il simultaneo, il senza-soluzione di continuità è orfico,
quindi può essere cantato. Il femminile si rappresenta tra canti e
urli come notte, come corpo scuro, non scrutabile, con “chioma
di muti canti”. Un simbolo svuota ogni possibilità d’uso profondo; si svela allora una “cinematografia sentimentale notturna” antro della Sibilla nel quale furiosamente perdersi.
Eugenio Pardini “Crepuscolo Mediterraneo” 1994.
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FAENZA: “RICORDO UNA VECCHIA
CITTÀ, ROSSA DI MURA E TURRITA”
L’inizio si affida alla memoria e all’inconscio; i ricordi e le
impressioni, pur partendo dal reale, non tardano a divenire
simboli. Faenza ritorna continuamente nel corso dei Canti, essa
fu infatti, per Campana, un punto di riferimento per tutta la
sua infanzia e adolescenza. Faenza è il luogo dove "il corso del
tempo fu sospeso", la sede della grossa torre barocca che porta
i simboli dell’antica fede, la città carica di storia dove persino
i volti delle ragazze richiamano un passato a suo modo perfetto, ma divenuto indecifrabile. Sono immagini pittoriche, anzi
“scorci cinematografici”.
Il lunghissimo viale dei platani a Faenza (Lo Stradone) è dominato dalla torre barbara, emblema vivo di un mito lontano
e selvaggio entro il quale si agitano ricordi di zingare, grandi
figure romane, profili bizantini e divini primitivi, e la campana argentina della limpida sera sembra evocare eteree dolcezze
spirituali, subito contrastate dal ricordo malinconico e decadente
delle prostitute della casa di appuntamento. Nell’antico silenzio delle strade, circondate da chiese e conventi, una misera
umanità lacera e servile striscia abiezione ed umiltà davanti a
minacciosi volti barbuti di frati, cupi come il destino di questi
infelici mendicanti.
L’immagine della città viene riportata attraverso alcuni dei suoi
elementi architettonici come una “grossa torre barocca” o i suoi
“Palazzi rossi”. La città si anima di “qualche cosa di danzante”, presenze femminili attraversano le sue piazze come creature misteriose e affascinanti. Faenza sembra racchiudere un
simbolismo magico e oscuro, come se le sue mura e le sue
strade significassero per il poeta qualche cosa di molto diverso
da un semplice centro cittadino: “Ascolto: la grossa torre barocca ora accesa mette nell’aria un senso di liberazione”. La
torre suscita in Campana una sensazione di liberazione, come
se lo staccasse dalla sua condizione umana e terrena. Questa
torre ha un orologio che dalla sua posizione dominante segna
l’inevitabile passare del tempo e illuminando una piccola Madonna bianca “porta illuminati i simboli del tempo e della fede”.
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L’unica presenza umana è rappresentata da “matrone piene di
fascino” che il poeta percepisce quasi come elementi
architettonici, sospesi in un atmosfera onirica. Quelle figure
femminili conferiscono alla situazione una nota di vita, qualche cosa di “danzante”. “La piazza ha un carattere di scenario
nelle logge ad archi bianchi leggeri e potenti”.
Faenza torna nuovamente nei Canti con figure femminili, molto diverse dalle adolescenti di Firenze. “Passa la pescatrice
povera nel caffè concerto, rete sul capo e le spalle di velo nero
tenue fitto di neri punti per la piazza viva di archi leggeri e
potenti. Accanto una rete nera a triangolo a berretta ricade su
una spalla che si schiude: un viso bruno aquilino di indovina
uguale alla notte di Michelangiolo" e poi “Ofelia la mia ostessa
è pallida e le lunghe ciglia le frangiano appena gli occhi: il suo
viso è classico e insieme avventuroso”. Queste donne rimandano certamente alla pittura e alla poesia. Faenza è per Campana
un simbolo: “La vita ha qui un forte senso naturalistico. Come
in Spagna. Felicità di vivere in un paese senza filosofia”. Faenza
sembra incorporare l’idea dello slancio vitale e primario della
danza, ma come la Spagna è abitata da gente immediata, sanguigna, assolutamente terrestre. Poteva sfuggire al grande
marradese la vocazione propria di Faenza ad essere l’ “Atene
della Romagna” ed ecco allora: “II museo. Ribera e Baccarini.
Nel corpo dell’antico palazzo rosso affogato nel meriggio sordo l’ombra cova sulla rozza parete delle nude stampe scheletriche”. Spicca ancora una volta sulla scenografia campaniana
l’elemento artistico e la danza, “Durer, Ribera”. “L’eco dei secchi accordi chiaramente rifluente nell’ombra che è sorda. Ragazzine alla marinara, le lisce gambe lattee che passano a scatti
strisciando spinte da un vago prurito bianco”. “Un delicato
busto di adolescente, luce gioconda dello spirito italiano sorride, una bianca purità virginea conservata nei delicati incavi del
marmo. Grandi figure della tradizione classica chiudono la loro
forza fra le ciglia”. E così lo spirito italiano si fa depositario
della grande tradizione classica.
I lampi del poeta intrecciano ricordi di amori faentini e bolognesi nel profumo, un po’ lascivo, di rose spampanate e nella
volgarità debordante, scomposta e opulenta delle vecchie
ruffiane che ci conducono con la mente alle sculture di Botero.
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Si sovrappongono i primi sogni delle giovani sartine incuriosite dal mistero e la fuga oltre le Alpi, le scintille raminghe di
amori improvvisi nel nitore delle vette e la sensualità selvaggia della Pampa che rivive nella sfiancata lussuria del ritorno,
abbandonato e spossato nelle forme dell’amore evanescente. “Io
vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora…” La Verna,
Campigno, Stia, Marradi, La Falterona, Dante e la sua poesia
di movimento e “Laggiù nel crepuscolo la pianura di
Romagna… dove si perde il grido di Francesca… guerriera,
amante, mistica, benigna di nobiltà umana, antica Romagna”.
Ed è cristiana l'ospitalità dei contadini che offrono l’acqua al
poeta-viandante arso di sete e limpido (di raccoglimento inconscio e serenità conventuale) lo sguardo della ragazzina dall’ampio cappello di paglia. A La Verna una richiesta di aiuto al Santo
Francesco da parte di una peccatrice pentita, in anni lontani
già nota al poeta, grafita sulle pareti del corridoio della Via
Crucis, evoca in lui un sospiro di nostalgica purezza mistica,
di angeli e gigli e inconscia preghiera alla Vergine Maria.
II corridoio, percorso da fredde correnti d’aria, sente viva la
presenza del Santo, ombra di Cristo.
L’anima del poeta, improvvisamente sola, cerca un appoggio,
un appiglio, una fede, nella triste ora mentre una campana dalla
semplice chiesetta francescana tintinna nel chiostro. Ancora una
volta la tensione che lo anima non riesce a placarsi: “pare il
giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore”. Qui il ricordo dantesco, più che un richiamo alla tradizione, ha l’aspetto di una evocazione disgiunta dai confini dello spazio e del
tempo: “L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora.
Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba.
Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo
è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti!… il tempo è
scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la
gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni
giorno l’ombra...”.
Pure qui le gore e l’acqua, le stesse che compaiono sullo sfondo delle pitture di Leonardo e che il poeta sembra sentire, insieme a Dante, Goethe, S. Francesco d’Assisi e Michelangelo,
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particolarmente vicino è il suo compagno di viaggio, anche lui
«giurò fede all’azzurro» riaffermando la propria dedizione all’arte dopo «la sorda lotta notturna» della quale si legge, in
II più lungo giorno: «…poi che ne la sorda lotta notturna / La
più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene / Noi
ci svegliammo piangendo: ed era l’azzurro mattino. / Ombre
d’eroi veleggiavano: eran colonne d’azzurro / I puri pensieri
dell’alba o cuore ricorda: ricorda, e piangendo / Giurammo
ancor fede all’azzurro». Mi torna in mente un altro luogo del
manoscritto, solo uno dei tanti che, in maniera più o meno
esplicita, elevano il pittore a misura dell’essere del poeta nel
mondo: “…Su lo sfondo le Alpi un bianco delicato mistero:
forse così tu tra gli scogli chiara gora vegliata dal sorriso del
sogno? Forse così tu il riso di Simonetta e di Beatrice sull’acque specchianti del lago estatico dell’oblio Leonardo fìngevi?
Le Alpi sullo sfondo un bianco delicato mistero per la verginità dei miei pensieri salivo o immagini di sogno, chiusi occhi
stanchi di amare il tuo Cristo Leonardo! Pallide immagini
doloranti di ricordi oscuri prima che il sogno nel dolore si facesse carne!”.
“La Falterona verde nero e argento: la sua solenne tristezza che
si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature, e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù
sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a
mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del
paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra
i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda:
limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi:
la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio
memoria della poesia toscana che fu. Tu già avevi compreso o
Leonardo, o divino primitivo!”
Campana ama Leonardo come si ama qualcuno che abbia lo
stesso sentire, l’identica passione. I dipinti del grande artista
del Rinascimento ricordano che quelle rocce e quei laghi e la
classicità dei profili, dolci nella «linea delle labbra», sereni nella «linea del sopra ciglio nero», appartengono ad un tempo perduto forse per sempre, recuperabile nel richiamo nostalgico
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dell’arte. In essa sola il poeta sa di poter essere. Quando il passato è rinnegato in nome di un presente vissuto, quando l’arte
è rinchiusa nei musei che i futuristi vogliono distruggere e la
poesia agonizza nel cordoglio retorico di una letteratura bugiarda e venduta al pragmatismo imperante che sprofonderà il
paese nella catastrofe della grande guerra, la sola reazione
possibile è rivivere il passato nella perfezione artistica. Leonardo
è «divino» perché «primitivo» «…perché ha divinamente raffigurato gli elementi primi…». Campana intende liberarsi nella
sacralità della natura caotica e barbarica, cui rare figure umane, come la grossa prostituta, danno una nota grottesca alla
Botero, ma che, d’altronde, solo da altre e più lievi figure possono trarre un sospiro di pietà e Caterina, la consolatrice, la
pura, assiste “con dolce pianto un dolore di madre con le onde
e le linee che della pittura toscana fecero poesia”. La delicatezza della natura è intonata al canto dell’usignolo e all’armonia
del frusciare delle foglie e dello scorrere del fiume, ma al poeta
più simile è l’alto volo dei falchi e il loro squittire.
L’acqua è l’elemento primordiale, ma anche la regina del paesaggio, scavato su strati di roccia. La musica dell‘acqua è quella del
ricordo di Campana, del mondo e dei sogni, nell’inesausta lotta
alla paura e alla morte. La patria del cuore è la terra di Romagna,
sognata e adorata, dalla immobile ieraticità bizantina, ma anche
sede e viva interprete di passioni e di guerre, e ispiratrice di poeti.
Il ricordo della fanciullezza ha il profumo dell’incenso e delle
preghiere del crepuscolo ma anche del desiderio lontano di glorie del mito del viaggio (“lontani miracolosi destini”) che le
esperienze vissute hanno resa solo temporanea evasione a quel
ritorno, in cui il futuro si confonde col presente ed il passato,
ed ogni attimo è parte dell’eterno in cui si dissolve. Marradi,
la piccola patria, è la culla dell’anima del poeta, che ivi ritorna
dopo “anni di pellegrinaggio e la musica del fiume è la colonna sonora che fa da sottofondo allo scorrere di un paesaggio in
cui un caleidoscopio di colori sorride al sorgere del giorno…
mentre la neve è caduta sugli alti monti lontani.”
Le pagine più suggestive e poetiche sono quelle dove si fondono richiami alla tradizione e il desiderio di avanguardia.
Campana soffre intimamente il contrasto e la lacerazione
della solitudine e della incomprensione, e, questa sofferenza,
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determina atmosfere più elevate e sfumate, incomprensibili alle
anime mediocri.
Non c’è in Campana l’esasperato tecnicismo del “grammofono” D’Annunzio, ma una sincera consapevolezza di quotidiane intime lotte, anche interiori e della ricerca di un vero amore.
Da questa condizione, dove materia e spirito si incontrano e si
confondono, scaturiscono le malinconiche e notturne fioche luci
dei postriboli, dalla cui fatiscente atmosfera esce a tratti il senso di latina “pietas” per quelle infelici giovani ed una pungente nostalgia per la purezza della propria infanzia.
Quanta ironia c’è nella “Giornata di un nevrastenico” dove, con
pochi tratti di penna, Campana dipinge il microcosmo di Bologna (la dotta e sacerdotale). La monotonia della nebbia di dicembre avvolge i sibili dello scalo merci e gli antichi bastioni
rossi e le studentesse, a gruppi, sotto i portici, hanno un atteggiamento superficiale di compiacimento del proprio ruolo.
“Tutto mi è indifferente” “Tutto fonde come la neve in questo
pantano” e la descrizione di un ennesimo amore si chiude con
una invocazione a Satana, che ha tutto l’aspetto della citazione
letteraria, del richiamo a Carducci per una intenzione non
blasfema quanto evocativa di cupe e pessimistiche atmosfere,
in cui il ricordo di Ofelia e della sua ingenua purezza di innocente vittima del destino, sembra assumere valore autobiografico nella disperazione della tragedia del vivere umano, cui il
poeta non può opporre che la purezza del suo canto. “L’irregolare Campana incontra Regolo misterioso alter ego “mendicante” alla deriva del mondo e inquieta presenza. Con lui ci si
abbandona “all’irreparabile” ...l’ultima follia vivere. “Immagini di un viaggio e della montagna”: L’angelo appare nello scorcio “giusto” del sogno. “Voi siete macchiati del mio sangue
innocente”… sangue di fanciullo è il colophon campaniano da
Foglie d’erba.
C’è più mondo in Dino Campana che nei racconti di cento
esploratori.
C’è più conoscenza e vera cultura nel “Marradese” che nelle
ripetitive e noiose dissertazioni di cento baroni del sapere, c’è
più genialità e futuro nel nostro Poeta che in mille complicatissimi congegni scientifici. È per questo che non ci stanchiamo di leggerlo, è per questo che lo sentiamo vivo e vicino.
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Lanfranco Materiale “Ricordo una vecchia città...” 2005.
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LA CHIMERA
Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
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CAMPANA: IDEE E POLITICA
Neuro Bonifazi afferma che Dino Campana è stato guidato dalla
ideologia nietzschiana, intesa come la ragione mitica, alla
iniziazione della vita e della poesia, ha avuto una cultura straordinaria, conosceva molte lingue e leggeva testi stranieri nella
loro lingua originale. Ha, in un certo senso, messo in pratica il
dettato nietzschiano, più che per il “superuomo”, per quella
sua capacità di elevarsi idealmente verso “la bellezza apollinea”,
nobilitarsi alla luce dell’assoluto contro tutte le viltà e le povertà del quotidiano (solo così possono spiegarsi i suoi comportamenti, gli atteggiamenti, le sue fughe, i suoi viaggi).
Racconta Mario Bejor: “Si stimava iniziato ad una espressione
d’arte superiore; non accessibile ai comuni poeti, Canti Orfici,
orchestra della natura, si lanciava a perdersi; e pazzamente talvolta smaniava, prima di dar fuori, purificati, la sua opera, il
suo pensiero…. Mi leggeva un giorno, là, nella mia cameretta,
un brano di prosa, che poi incluse nei suoi Canti. Dalle Alpi
Apuane l’ispirazione l’aveva portato a rievocare la Pietà di
Michelangelo in San Pietro a Roma: “E quelle ginocchia cedevano, cedevano al sacro peso… Si tacque, poi, volto a me, con
fare concitato, chiese: “Chi è, chi è...; e al mio prudente mutismo, rispose con slancio: “L’Italia! ”
Nelle memorie del Pariani viene invece negata questa allegoria,
in cui identifica l’Italia nella giovane Madonna.
– “Si piegano, s’incurvano le giovani ginocchia!…” e la voce
forte ed addolorata esprimeva tutto il poeta mutato in un solo
sentimento. I due che egli riconosceva maestri, senza dichiararlo, ma da come s’esprimeva, erano Nietzsche per la filosofia, Verlaine per la poesia; dell’uno prendeva la dedizione, talvolta
malata per eccesso, e dell’altro il superamento violento, egoistico
esplodente a tratti in furori di distruzione. Nietzsche gli procuro
anche, per richiesta traduzione d’un passo difficile, una ricompensa di cinquanta lire da un professore dell’Università.”
Il Comune di Marradi a lungo è stato oggetto di fortissime critiche per non aver fatto molto per onorare la memoria di Dino
Campana. Il ministro della Cultura Bottai, sollecitato da
Bargellini, fu invece decisivo, per dare a Campana nel 1942,
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dieci anni dopo la morte, una sepoltura dignitosa ed il giusto
e solenne riconoscimento insieme a tutti gli uomini della cultura del tempo.
Negli anni ‘50 a Marradi, durante i Consigli Comunali, ci furono addirittura dei Consiglieri che non volevano sentir parlare
di Campana considerandolo non solo “È Mat”, ma addirittura
un precursore del fascismo. E quando i cittadini di Marradi
lanciarono l’idea di onorare questo Dino Campana, si opposero per due anni consecutivi, nel 1952 e nel 1953, allo stanziamento in bilancio di cinquecento mila lire per le celebrazioni.
Ai soliti “idioti” di Marradi si aggiunse la Giunta provinciale amministrativa che ritenne di depennare il capitolo di bilancio con
il pretesto che le finanze del Comune di Marradi erano deficitarie. Anche in tempi più recenti, negli anni Ottanta, la proposta
di introdurre accanto a Marradi, Campana, come nuovo nome
del Comune, fu contestata e respinta da coloro che ritenevano
più importanti le “castagne”. Quando si decise di titolare una
via a Sibilla Aleramo, due signore del Consiglio Comunale non
esitarono a manifestare il loro dissenso “morale”, astenendosi.
Emblematiche del clima degli anni ‘50 sono due lettere del senatore Emilio Sereni e del sindaco in merito all’intitolazione di
una via a Dino Campana che alla fine avvenne nel 1954 al ponte
di Villanzeda con una commemorazione del marradese
professor Sergio Zacchini che ricorda: “avevo letto i Canti Orfici in
seconda ginnasio e nella commemorazione ricordai i luoghi
campaniani e Campigno e citai “...L’azzurro si apre tra questi
due alberi, il noce è davanti alle finestre della mia stanza…”.
Ecco la lettera indirizzata all’onorevole Emilio Sereni dal Sindaco:
«Caro Senatore,
Ci è stato proposto da più cittadini di intitolare una via del
nostro capoluogo al defunto poeta Dino Campana.
Dino Campana era marradese e noi ben volentieri aderiremmo
alla richiesta. Desideriamo però sapere da te se il valore di
Campana è tale da meritare il riconoscimento. Ciò anche in
rapporto al momento politico attuale.
Grazie. Cordialmente,
f/to: II Sindaco»
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Il Senatore Comunista Sereni così rispondeva al Compagno Sindaco di Marradi:
«Caro Compagno,
penso che sia giusto intitolare a Dino Campana una via del
vostro capoluogo.
Dino Campana è indubbiamente un nome autorevole della
poesia moderna e ormai passato storia della letteratura.
Non c’è nessun riserbo politico nei sue confronti. Tanto più che
la sua pazzia toglieva ogni responsabilità ad ogni sua posizione politica, né, d’altronde, ne ebbe mai dichiaratamente reazionarie.
Sarebbe bene fare inaugurare la via ad uno scrittore toscano.
Vedete di scrivere a Romano Bilenchi, a Firenze, se volesse lui
parlare per l’occasione.
f/to: Sereni»
Dino Campana fu un uomo spesso frainteso. La varietà e le
contraddizioni delle sue prese di posizione in pochi anni (dall’interventismo all’antibellicismo, dal germanesimo al patriottismo italiano, all’accanimento filofrancese, dall’aristocraticismo
al populismo) hanno alimentato l’immagine di un poeta confuso sul piano delle idee, della politica e della società, tanto
che più volte, i suoi discorsi “politici” sono stati considerati
dal potere e dalla cultura ufficiale, ad esso asservita, appendici
legate alla contingenza dell’epoca, da tenere ben distinte e separate dal poeta “puro”. Delle idee autentiche di Dino, Mario
Bejor ricorda: “Lo scalpore sollevato dalla dedica posta ai suoi
Canti Orfici nel momento in cui gran parte della gioventù studentesca italiana si schierava per il liberalismo-democratico
francese, è noto a tutti; come pure i pettegolezzi susseguenti”.
A Guglielmo II imperatore dei Germani…
No, non fu generata dalla rabbia messagli in corpo dall’ottusità
degli interventisti del suo paese; un poeta serio come Dino, sacerdote della propria arte, non pone una menzogna ed uno
sberleffo sulla fronte della propria creatura: la prima, l’attesa,
l’adorata. No, signori critici, Campana vedeva nell’esplosione
tedesca l’inizio di quella “volontà quale potenza” su un mondo
mediocre, borghesissimo, che lo stomacava. Per lo stesso concetto
filosofico, in lui linfa spirituale, s’arruolò volontario, perché
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anche per l’Italia, sua amata, era venuto il momento di “forare
la giubba rossa delle stelle” pure per la “volontà di potenza”. “II
nemico non importa”; è l’atto per sé che vale. Lasciò correre le
chiacchiere e le avvalorò anche con il suo silenzio, perché fu
intimorito dallo scandalo; ed alle copie che ancora aveva presso
di sé strappò il foglio del frontespizio con la dedica.
Direttamente o indirettamente, l’interpretazione di Soffici, secondo cui il “Germano” è poco più che un incidente di percorso, ha resistito fino ai giorni nostri. Il “Germano” sembra essere
difficilmente accettabile per la critica più strettamente letteraria, perché costringe a travalicare i confini della letteratura. Per
troppo tempo il modo di leggere Campana è stato quello di
confinarlo nell’ambiente dell’ermetismo fiorentino e della “poesia pura”, privo di qualsiasi interesse per i discorsi “politici”.
Gianfranco Contini, ad esempio, pur affermando di voler lasciare la biografia di Campana, e dunque anche i suoi gesti
“politici”, fuori dalla valutazione della sua poesia, finisce per
emettere una sentenza impropria e politica: «Questo anarchico,
questo bohémien non seppe liberare l’uomo d’ordine che era
in lui». Anche Ruggero Jacobbi, estimatore di Campana poeta,
non gradisce la dimensione civile e politica di Dino Campana,
che bolla come poco autentica, giungendo ad usare espressioni
molto forti quando parla di Campana «decadente come persona e cittadino», «popolano», «provinciale». La grandezza della
poesia campaniana confligge con il mondo esterno ed i gesti
del Campana “politico”, non possono essere rimossi o relegati
nel mondo della “pazzia”, perché non sono in sintonia con la
cultura egemone e dominante, impegnata ad accaparrarsi un
grande poeta che lo vorrebbe, però, epurato o addirittura
modificato strumentalmente a seconda degli interessi del momento. La dedica sul libro al Kaiser, a guerra iniziata, la conversione ad un’idea di democrazia, italo-francese, ed infine il
sostegno al nazionalismo, è questo Dino Campana. La sua non
è poesia ideologica, ma per questo il Campana “politico”, con
le sue idee, è capace di darci il sapore di un’epoca, e con le sue
«istintive ripulse», il «continuo sfuggire», la «sistematica protesta» ci fa riflettere.
Se allarghiamo lo sguardo oltre i Canti Orfici, anche
all’epistolario e ai frammenti sparsi o inediti, salta agli occhi
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una quantità di discorsi “politici”, tutti ai margini dell’opera
campaniana, come il frontespizio e la dedica “germanici”.
Questo insieme di considerazioni “politiche” potrebbe forse essere qualcosa di più di un velleitarismo dell’individuo Campana,
indicando invece un collegamento della scrittura con una dimensione politica più profonda e decisiva di quanto non sembri indicare. Pier Paolo Pasolini parlava di una «sostanziale innocuità
di fronte al reale che è stata strumentalizzata dalla cultura di
destra», la quale si sarebbe subito impadronita di Campana.
“La follia della Destra è sempre stata formale e retorica: ecco
dunque un folle “vero” che faceva al caso suo.” Pur con tutta
la cautela del caso, dobbiamo denunciare la strumentalità dei
letterati italiani tradizionali, primi fra tutti gli ermetici, che
hanno visto in lui l’espressione vivente e politicamente pericolosa dell'aspirazione nietzscheana al superuomo interiore,
spiritualista e delirante. Campana non fa della poesia “civile”
o “politica”. I Canti Orfici non parlano delle cose della politica, che pure stavano trascinando l’Europa verso la catastrofe,
mobilitando, oltre a masse enormi di popolazione, anche la
quasi totalità del mondo intellettuale. La politica, in Campana,
non è tanto il contenuto della poesia, ma nemmeno soltanto
un contesto che la colpisce di riflesso. C’è, con buona pace di
chi non gradisce, tutta una tradizione illustre di poesia civile
italiana che, dalle origini, era giunta fino al tempo di Campana, passando per la mediazione classicistica di Carducci e le
esperienze più decadenti di Pascoli (populismo contadino) e
D’Annunzio (estetismo della politica); perfino i futuristi vi si
riallacciavano, proponendo una poesia che aveva la politica e
gli eventi storici tra i suoi oggetti più frequentati una poesia
civile sui generis, certo, e d’assalto, ma che raccoglieva e
rilanciava l’eloquenza e la retorica tipiche della tradizione italiana; una poesia che pretendeva di farsi portavoce e sprone
dei destini della nazione. Non a caso Filippo Tommaso
Marinetti scrisse anche il testo del Movimento politico futurista
e un Manifesto del partito politico futurista. Campana mantiene, sull’Europa, sulla guerra, sulle “razze”, sulla questione nordsud, la nettezza di certe sue prese di posizione, confermando
un rapporto, sottotraccia ma evidente, tra letteratura e politica.
Certo, quella di Campana non è una poesia con la politica per
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oggetto, ma letteratura che nasce dal contatto con la dimensione politica. La sua devozione a Nietzsche fin da giovanissimo
è testimoniata anche da Mario Bejor, suo compagno a Bologna:
“Egli, sacerdote di Nietzsche, esaltatore di Nietzsche, di cui s’era
saturato, in così umile, mesto sembiante da destare l’ilarità in
chi non l’avesse compreso!
Si perdeva volontieri e a lungo ad illustrare le teorie estetiche
di quel filosofo, che leggeva con facilità nella lingua originale”. L’ispirazione è Nietzsche, attraverso le figure del
“Germano” e dell’“Italia” che determinano la Tragedia, echeggiando un “vecchio triplicismo” e implicazioni culturali patrimonio comune del decadentismo; ma questo non è che il punto
di partenza, la materia di cui Campana si serve per far scattare
procedimenti poetici e politici assolutamente originali. Il
“Germano” non è dunque “un incidente di percorso e una
boutade di provincia”, come sostiene Soffici. Il significato della
Tragedia dell’ultimo Germano in Italia e la dedica al Kaiser, è
Campana stesso a spiegarla: “Ora io dissi: «Die Tragedie des
letzen Germanen in Italien», mostrando di avere conservato la
purezza morale del Germano che è stata la causa della loro morte
in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico non
naturalistico (cercavo idealmente una patria non avendone).
Il “Germano” inteso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante, Leopardi, Segantini). Un forte senso di appartenenza ad una comunità, più grande nei rapporti fra
l’individuo e la società. Il passaggio dal germanesimo al
populismo patriottico, dalle figure del “Germano” e del “boy
whitmaniano” a quella del “povero italiano” emigrante, risultano quindi coerenti al sogno di una comunità di patria.
L’Italia del Canto proletario e il “povero italiano” si accomunano, così al “boy” e al “Germano” in quanto vittime di un
“assassinio” subìto. Massacro, non solo simbolico, ma letterale,
se si pensa al fronte e alla trincea. In quest’ottica, i Canti Orfici
sono anche un “piccolo libro contenente poesie patriottiche”
pensando alla “patria” come ad un fine che il movimento della
vita e della scrittura di Campana non riesce mai ad intercettare.
La prova? A M.N. (A Mario Novaro) è un componimento continuamente rimaneggiato, riscritto e pubblicato in forma
frammentaria ed incompiuta (con numerose righe di sospensione)
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nel maggio 1916 su La Riviera Ligure, con l’indicazione
Domodossola 1915. In una lettera a Cecchi dell’8 aprile 1916,
Campana, dopo aver riportato il secondo e il terzo gruppo di
versi della poesia, scrive: «così comincia una poesia nazionale
che continua in un rude canto popolare». Il fatto sorprendente
è che la poesia, nella versione spedita a Novaro per la pubblicazione, reca in calce la firma: Dino Campana - Poeta
germanicus, la quale verrà mantenuta anche nella versione
stampata sulla rivista, benché lo stesso Novaro, in una lettera
dal fronte della Carnia dell’aprile 1916, avverta: «Nasconda il
poeta germanicus». Campana infatti aveva premesso alla poesia una precisa raccomandazione: «Sic per l’ortografia e per l’integrità».
Ma come torri d’acciaio
Nel cuore bruno della sera
Il mio spirito ricrea
Per un bacio taciturno.
Campana cominciò nel Taccuino il lungo lavoro compositivo
della Canzone dandole per titolo: Canto proletario italo-francese. Le stesure occupano pagine e pagine, fitte di correzioni e
varianti, che si accavallano a penna e a lapis. Il Canto proletario italo-francese, il cui titolo era in origine Canto dell’espatriato, ha tra i molti motivi che lo compongono elementi del
paesaggio alpino e della fatica degli italiani per il traforo del
Sempione. La successiva indicazione Domodossola 1915,
prelude l’espatrio di Campana in Svizzera avvenuto nella primavera del 1914 e poi in quella del 1915. Il Taccuino attesta
una lunga elaborazione del 1915, ma Campana chiederà di
pubblicare il canto soltanto l’anno seguente. Nel febbraio del
1915 Campana è a Torino, e vi resta un mese circa, per poi
trasferirsi a Domodossola e di lì in Svizzera, a Ginevra, dove
lavora fino a maggio come operaio presso il Comitato delle
Società italiane. L’entrata in guerra dell’Italia, dichiarata ufficialmente il 24 maggio, lo spinge a fare ritorno in patria per
arruolarsi volontario, ma invano. Alla visita medica Campana
verrà riformato, subendo in seguito un breve ricovero in clinica. Dunque Canto dell’espatriato, ha un significato preciso,
presto ulteriormente specificato in Canto proletario italo-francese: la condizione del poeta è, anche materialmente, la stessa
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di quella numerosissima umanità proletaria che non vede altra
via di scampo se l’uscire dalla propria terra, lo scegliere “il
partito dei deboli”, come lo chiama Campana, ossia la partenza. Emerge un Campana inedito, attento alla questione sociale.
Campana è consapevole che l’immagine dell’Italia si regge su
fondamenta fragili, lontane dal principio di innocenza degli
umili. L’immagine del “popolo italiano”, in parte ripresa anche nella prosa Arabesco-Olimpia, è allusivamente rivelatrice:
Nel verde si spostarono le rondinelle
Sotto il ponte in riva al secondo fiume
Per conche l’acqua lucente
Come un secondo cadavere
II bianco il rosso il verde.
Iller Incerti “Dino Campana” 1995
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“IL SANGUE DEL RAGAZZO”
WALT WHITMAN, MARIETTA ALBONI,
DINO CAMPANA E GENOVA
Dino Campana chiude gli Orfici con una citazione a colophon
da Walt Whitman:
«They were all torn / and cover’d with / the boy’s / blood».
Il poeta si identifica in quel ragazzo, vittima innocente e pura
di un mondo impuro e colpevole. Carlo Pariani nelle sue Vite
non romanzate scrive: “… L’epigrafe finale tradusse così: Erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo”, aggiunse
È una poesia di un americano, Walt Withman”. A Sibilla
Aleramo che scrivendogli aveva parlato di Whitman e si era
fatta bella con lui per aver recensito Foglie d’erba (dieci anni
prima aveva usato due versi di Whitman: “Dammi il tuo tono
o morte, / perch’io possa accordarmici”, come epigrafe al suo
Dialogo con la Psiche del museo di Napoli, prosa scritta in un
momento di crisi esistenziale durante i viaggi tra il 1908 e il
1909 nelle zone terremotate in Calabria e Sicilia, che avrebbe
visto la luce trent’anni dopo la sua morte), Campana risponde
da Rifredo di Mugello il 22 luglio 1916:
“Egregia Sibilla
Vorrei scrivervi ma non posso. Sono orribilmente annoiato.
Conoscete Walt Whitman? Non capisco come facciate a vivere
a Firenze e a conoscere certa gente. Non parlo di Cecchi che
stimo e di Baldini (uno dei pochi amici di Dino sul quale mai
si riversarono le sue ire). Studierò un tipo di voi. Bisognerebbe
che avessi il vostro ritratto. Guardatevi da S. Francesco. Una
pecorella e voi? Vi preferisco così. Mi avete riconosciuto per
italiano: credo, egregia Sibilla, che non avrò eredi. Anderò col
mio famoso fardello dove anderò. Finita la guerra non esisterò
più ammesso che esista ancora. Vi prego, se potete di trovarmi
qualche acquirente per il mio libro. Lo invierò immediatamente. Vi bacio la mano”.
Perché Walt Whitman e chi era Whitman?
Conservo gelosamente una dedica autografa di Lello Campana, cugino di Dino, del 7 settembre 1971, l’anno successivo alla
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pubblicazione del mio libretto di poesie Weltanschauung e l’anno prima della stampa del suo ben più importante Malinconie
Ingabbiate. Al caro Rodolfo con affetto.
Amico di una sera
e di una vita
ipodermoclisi
per me
di gioventù e furore
tu per il mondo vai
grazie di stasera
son fermo
aspetto l’ultimo tranvai.
Lello Campana, anch’egli poeta e grande appassionato di armi,
mio buon amico nonostante la differenza di età, più volte,
parlandomi di poesia, mi raccontava del suo cugino e dell’avventuroso viaggio di Dino nel Sud America.
“Quando partì da Genova (“…l’aveva accompagnato mio padre Torquato”) aveva con se una lettura che lo entusiasmava
Leaves of Grass di Walt Whitman e la pistola belga calibro 38”,
che, aggiungeva Lello, “ho usato tanto anch’io”.
Genova è con Faenza la città più importante degli Orfici. In
Liguria Dino Campana trovò sempre straordinaria ispirazione
e diversi amici tra i quali Camillo Sbarbaro che lo ospitò nella
sua casa di Genova, in Via Montaldo. Le riviste letterarie della
Liguria si sono sempre occupate di Campana con grande scrupolo ed attenzione. L’aspetto genovese dei Canti Orfici, che ha,
in quello straordinario poema che è Genova, la sua più alta e
lirica espressione, introduce per la prima volta nella poesia italiana un’immagine moderna della città che supera e travolge
lo stereotipo monumentale per farci vivere la città ligure come
città della gente, di una folla in movimento, fra vicoli e postriboli, con effetti e giochi di luce che la rendono viva e palpitante, dinamica, operosa e meccanica, nel ritmo incalzante del suo
porto. Un dinamismo che esplode dal monte al mare, come cascata di vita cittadina. La velocità, il ritmo, un recondito spirito
futuristico e marinettiano abbracciano la città.
Il poeta ama Genova più di ogni altra città italiana e sembra
essere corrisposto in un modo così intimo da cantarla con una
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lirica così alta che nessuno era riuscito prima ad esprimere.
Ricorda Mario Bejor nel suo Dino Campana a Bologna: “Del
suo girovagare ricordava, ammaliato, Genova; ed avendo io
pure di quella città un ricordo di sogno, mi scrisse su brevi
foglietti due poesie ispirate a quel porto, e forse in precedenza
composte. Le ho rimesse al fratello, Dott. Manlio. Tutte e due
incomplete si perdono in un ecc. ecc., che per Campana aveva
il significato di congedo all’anima invitata ed inoltrata dai versi precedenti fino alla presenza della poesia eterna, cosmica,
inesprimibile, nella quale egli si immergeva, perdendosi”…
“O città fantastica o gorgo di fremiti sordi...”
Campana conosce molto bene l’opera di Whitman, anzi dice di
adorarlo. La sua lirica, infatti, e la sua stessa vita spesso si
confondono dentro Le foglie d’erba, ma l’America di Whitman
sono gli States, l’Argentina è molto diversa. Nella lettera a
Cecchi, Marradi 1916, Campana scrive “…la prego di non dimenticare le ultime parole They were all torn and covered with
the boy’s blood che sono le uniche importanti del libro. La citazione è di Walt Whitman che adoro nel Song of Myself quando parla della cattura del flour of the race of rangers”.
Walt Whitman nacque nel 1819 a West Hills, Long Island, da
una famiglia modesta che nel 1823 si trasferì a Brooklyn.
Whitman frequentò la scuola pubblica dal 1823 al 1830. Poi il
ragazzo imparò il lavoro di tipografo, e dal 1835 lo troviamo a
New York impiegato in una tipografia. Fece in seguito il maestro elementare, il fattorino, il giornalista. Campana, come il
poeta americano, fa cento mestieri e viaggia molto. Whitman e
Campana sono due grandi uomini di cultura fuori dalle baronie
accademiche. A New York, Whitman edita il quotidiano Aurora e l’Evening Tattler, poi torna a Brooklyn e scrive per il Long
Island Star. Nel febbraio del 1848, un avvenimento destinato a
lasciare tracce profonde nella poesia di Whitman: un viaggio
che lo porta per la prima volta lontano dal New England, sino
a New Orleans. Resta a New Orleans sino a maggio, poi ritorna a Brooklyn risalendo il Missisipi e navigando sui Grandi
Laghi. Nel 1833, dopo anni in cui poco lasciava intravedere un
futuro di poeta, proprio come Dino Campana, pubblica la prima edizione di Foglie d’erba.
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Il libro non porta il nome dell’editore, né quello dell’autore;
include un ritratto di Whitman in abito da operaio, e consiste
di dodici poesie senza titolo e una prefazione. La seconda edizione, con il nome dell’autore, è pubblicata nel 1836.
Whitman come Campana adora la musica e il canto.
“The teeming lady comes,
The lustrous orb, Venus contralto, the blooming mother,
Sister of loftiest gods, Alboni’s self I hear.”
In quegli anni ascoltai, in buona edizione, tutte le opere italiane e le altre allora in voga, la Sonnambula, I Puritani,
Der Freischutz, Gli Ugonotti, La figlia del reggimento, Faust,
La stella del Nord, Polluto, ecc. Tra quelle che gustavo maggiormente erano l’Ernani, il Rigoletto e Il trovatore di Verdi,
insieme alla Lucia, la Lucrezia e La favorita di Donizetti, il
Masaniello di Auber o il Guglielmo Tell e La gazza ladra di
Rossini. Andai a sentire l’Alboni ogni volta che cantò a New York
o nelle vicinanze.
Marietta Alboni (Anna Maria Marzia Alboni), che ha vissuto e
studiato a Cesena prima di diventare una primadonna dell’Opera di Parigi, era nata nel 1826 a Città di Castello (PG) da genitori romagnoli là trasferitisi, e ritornati a Cesena, terra d'origine,
nei primi anni '30. Marietta Alboni è considerata una delle più
celebri cantanti liriche della storia, forse il più grande contralto
di tutti i tempi. Voce straordinaria per timbro, sonorità ed estensione, vantò una tecnica di formazione altrettanto eccezionale. La
sua voce copriva due ottave dal sol basso al do acuto.
Allieva prodigio, della quale Rossini scrisse in una lettera indirizzata a Donizetti nel 1843: “la natura ha dotato questa ragazza di molti mezzi”. Walt Withman la cita più volte nei suoi
lavori, ebbe a dire di lei tra l’altro: “forse suoni più dolci mai
uscirono da labbra umane” e nella raccolta di poesie Foglie
d’erba la chiama “Orbe lucente, Venere contralto”.
Withman nel 1860 va a Boston per la terza edizione del suo
libro, la prima con un editore ufficiale, Thayer and Eldridge.
Nel 1861 scoppia la Guerra di Secessione e Whitman è a
Washington, prima è volontario in un ospedale militare, poi
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impiegato al Dipartimento degli Interni. Nel 1867 esce la quarta edizione di Foglie d’erba e nel 1868, per la prima volta, una
scelta delle poesie di Whitman è pubblicata a Londra. La quinta edizione è del 1871. Nel 1873 Whitman rimane parzialmente
paralizzato; nello stesso anno muore sua madre e il poeta si
trasferisce dal fratello George a Camden, nel New Jersey. La
sesta edizione del libro è del 1876, la settima del 1882. Intanto
Whitman compie qualche viaggio: va a St. Louis, poi
nell’Ontario a trovare il dottor Bucke, che scriverà il primo studio critico su di lui. Nel 1884 affitta una casa in Mickle Street,
a Camden. Nel 1888 ha un’altra paralisi e l'anno successivo appare l’ottava edizione di Foglie d’erba. Nel 1891 Whitman comincia la preparazione della cosiddetta “deatb-bed edition” che
sarà pubblicata nel 1892. Nello stesso anno, il 26 di marzo,
muore a settantadue anni. Viene sepolto nel cimitero di
Harleigh, a Carriden, New Jersey. Emily Dickinson, dice “egli
è già morto ed è stato sepolto più volte, ha «attraversato» molteplici funerali. Ha prefigurato molti addii, mai completamente
convinto che si tratti dell’ultimo, anzi sempre più certo che
finché le Foglie d’erba vivranno l’addio non si verificherà mai”.
Ciò non tanto per un’orgogliosa affermazione della propria
importanza di poeta, quanto per l’infinita espansibilità nel tempo e nello spazio del modello di comunicazione poetica che
egli propone. Withman canta gli Stati Uniti d’America e sa che
la vita di quella nazione “attende di essere trattata nel modo
gigantesco e generoso che merita” È certa una cosa: la poesia
withmaniana, tra esaltazioni e denigrazioni, ha attraversato un
secolo e mezzo, influenzando tutta la poesia americana, ma
anche quella che attinge ad altre radici da T. S. Eliot a Ezra
Pound, da F. Garcia Lorca a J. L. Borges, Pablo Neruda, fino a
Dino Campana e Cesare Pavese, che si laureò con una tesi su
Whitman e da lui attinse l’ispirazione di Lavorare stanca.
Whitman è il centro della letteratura statunitense. Foglie d’erba nacque da una serie di libriccini di appunti, (la mente ci
porta subito ai Taccuini campaniani) ispirati da letture, esperienze e osservazioni. Le sue fonti letterarie furono ampie: da
Omero a Eschilo, da Dante a Shakespeare, Milton e i romantici
inglesi, dagli antichi poemi indù alla Saga dei Nibelunghi e alla
Bibbia. Dal primo gruppo di dodici lunghe poesie, Foglie
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d’erba si sviluppò in successive nove edizioni, crescendo biologicamente, come per accumulo, fino a raccogliere circa cinquecento testi poetici. I suoi versi sono l’espressione di una forte
fiducia nell’individuo; l’umanità sembra brillare di una felicità
primitiva capace di creare l’ideale di una nazione di “puri”, i
quali non conoscono il peccato delle origini. L’accostamento con
i “divini primitivi” di Campana non è forzato; Whitman conosceva le teorie di Elias Hicks, un predicatore quacchero eretico
che professava una credenza costituita dalla fusione di motivi
gnostici, orfici ed entusiastici. Questo aspetto, e le letture delle
teorie epicuree e dell’idealismo tedesco porta il poeta ad un
atteggiamento di ingenuo ottimismo.
La poesia di Foglie d’erba è ispirata a gente comune, fatta di
muratori, marinai, calzolai, tagliaboschi… Whitman è, insomma, solamente un poeta come lo fu Campana, ma come per
Campana, i suoi versi, radicati in una terra e in un popolo,
sono in grado di parlare a chiunque. Scrive Campana ad Alfredo Reghini, Maestro Venerabile della Massoneria “mistico,
mago, e matematico”, sottoscrittore per il conferimento della
cittadinanza di Firenze a Dino Campana: “Il diario della nuova Italia… dovrebbe raccogliere gli articoli importanti già apparsi mettendoli in luce di attualità con gli avvenimenti della
vita individuale e nazionale di oggi. La realtà come attuazione
dello spirito”. Come Campana, Whitman è stregato dalla natura, con i suoi campi aperti, le tempeste, le montagne e il mare,
ma anche dall’«opera dell’uomo» che «è egualmente grande nell’artificiale». In particolare egli sofferma lo sguardo su strade,
ruggenti locomotive in fuga, linee telegrafiche e linee di piroscafi, tutti lacci che annodano e collegano i vasti spazi del globo. L’ispirazione di Whitman esprime una sorta di vitalismo
elettrico (chi è più elettrico di Dino?). Whitman in Foglie d’erba usa l’inusuale aggettivo elettrico 20 volte, anche come sinonimo di “spirituale”; sono “elettrici” il corpo, la città, l’anima, la
vita, la voce… L’elettricità scorre come una linfa. Il poeta percepisce il suo scorrere non solo nel suo corpo, ma anche nelle vene
del suo Paese. Questo flusso deve dar vita a una “letteratura
vigorosa e ancora insospettata”. Egli canta la vita immensa in
passione, pulsazioni e forza “passion, pulse, and power” (Dediche). Molto dopo Whitman, i futuristi punteranno a creare
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un’arte nuova, a misura di un mondo dominato dalle scosse
elettriche e dalla rapidità e quindi libera da regole grammaticali e di bello stile. Scrive Dino Campana a Papini “La vostra
speranza sia: fondare l’alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche delle selvagge
anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di
lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi. Giornalisti e filosofi come siete a Firenze”. Alla luce di queste osservazioni, leggendo con attenzione l’opera di Whitman, ci si rende
conto che la vastità e l’«elettricità» delle immagini che escono
dalla sua penna sono la proiezione viva di un desiderio. Essa
è «vera» perché poetica e non perché biografica; seguendo
l’emergere dell’io si colgono passaggi di grande intensità, capaci di valutare anche le delusioni che l’io ideale è costretto a
subire, (è così anche per Campana). Basta leggere Relitti Marini: “Deluso, respinto, piegato a terra, / Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca, / Conscio ora che tra tante vane
parole, i cui echi ricadono su me, non ho mai avuto la minima
idea di chi o che cosa io sia, / Ma che di fronte a tutte le mie
arroganti poesie il mio vero Io (real Me) resta intatto, inespresso,
tuttora inattinto, / E, ritiratosi lontano, mi irride con beffarde
congratulazioni e inchini, / Con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola che ho scritto, / In silenzio indicando questi
canti, e poi la sabbia che m’è sotto i piedi, / M’avvedo che
non ho mai nulla capito, neppure una cosa, e che nessuno vi
riesce, / La natura, qui, in vista del mare, approfittando di me
per scagliarsi su me e ferirmi, / Perché ho avuto l’audacia
d’aprir bocca e cantare.” La poesia di Whitman, come quella
di Dino Campana, è permeata della Divina Commedia, che
Whitman raccontò di avere letto in un bosco. La lettura all’aperto, fece sì che Whitman non si sentisse schiacciato da questo
capolavoro. Il vagabondo, giornalista autodidatta e girovago,
che, a differenza di Campana visse a lungo, affascinò ed influenzò Dino. Whitman poeta per poeti, dunque, oltre che, come
voleva, poeta per la gente comune e ci ha consapevolmente consegnato un’opera aperta, così come aperta concepiva la realtà americana, paradigma, prima ancora che metafora, di storia in divenire.
Whitman è autore di una poesia che sembra brulicare di idee.
Essendo poeta, Whitman sapeva che ”le idee sono pericolose;
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ma ne subiva il mediocre adescamento; essendo incline ad apprezzare la stupidità, se ne lasciava intossicare”. Uno dei versi
più famosi di Whitman è quello in cui, interrogato da un fanciullo su che cosa sia l’erba, avanza l’ipotesi che sia «lo stendardo della sua vocazione fatto col verde tessuto della
speranza». «O forse è il fazzoletto del Signore in un ricordo
profumato lasciato cadere di proposito...» «or a handkerchief
designedly dropped». Ecco: questo misterioso «handkerchief»
del Signore un dono profumato lasciato cadere «di proposito»
come «remembrancer», per non farsi dimenticare.
Che Campana conoscesse molto bene Leaves of Grass è dunque un dato di fatto, ed è anche certo che a questo libro Campana attribuiva un valore molto particolare. Solitamente,
quando si parla dell’influenza di Whitman su Campana, si
tende a ricordare l’incoraggiamento che ne sarebbe venuto a
liberarsi delle strutture metriche tradizionali, e il valore esemplare che l’esperienza metrico-ritmica di “such a master of
English free verse” avrebbe assunto per la metrica dei Canti
Orfici. In realtà, se è vero che il “verso libero” di Whitman ha
rappresentato per molti, soprattutto per i futuristi, un punto di
riferimento fondamentale in molte esperienze di rinnovamento
metrico nella lirica in lingua italiana della prima parte del
Novecento, non è però altrettanto esatto sostenere la stessa cosa
a proposito di Campana. La metrica dei Canti, molto distante
dal “verso libero”, è frutto di una fusione di metri tradizionali
in modo particolare, l’endecasillabo.
In altre parole l’influsso di Whitman sui Canti, sicuramente
presente, anzi profondo, non si esprime soltanto sul piano della
metrica; Whitman racconta dell’assassinio a tradimento dei
quattrocentododici che si erano arresi, di fronte alle forze nemiche soverchianti, dopo aver trattato una resa onorevole. Nel
resoconto del massacro spicca, anche perché chiude il brano, la
scena che ha colpito la fantasia di Campana fino all’immedesimazione. Se il sangue del boy chiudeva i Canti Orfici (connotandoli tragicamente), questo avveniva anche raccogliendo
le suggestioni di un altro testo delle Leaves of Grass. Ed a
quest’ultimo, probabilmente, Campana sommava le suggestioni
della sezione Drum Taps del libro di Whitman, dove il racconto delle esperienze di infermiere durante la Guerra di secessione
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è costellato di sangue, morti e feriti (quasi sempre giovani, e,
appunto, “boys”, con risultati di una violenza quasi
espressionistica). Campana, come Whitman, vuole lasciare nelle proprie pagine il segno visibile di sé stesso ma, diversamente da Whitman, le tracce che lascia non possono essere riassunte
e sublimate nell’armonia di una collettività che progredisce
verso la propria libertà. Campana, nel complesso del suo libro,
finisce tuttavia per ricavare da Whitman tratti di entusiasmo
che connotano il “bardo” e il “vate” che si intravede anche nei
Canti Orfici. Un tentativo di comunicarci l’esaltazione dell’uomo
nuovo, che nell’impossibilità di affermarsi lascia i segni della
propria tragedia. Nel finale di Pampa, si possono cogliere diversi riferimenti a Whitman, e in particolare quello svilupparsi
di fantasticherie e riflessioni sul destino degli uomini durante
il bivacco notturno nella prateria (tipico di parecchie poesie di
Whitman, soprattutto nella citata sezione Drum Taps): “Mi ero
alzato sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta
e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al
cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.”
Ci si accorge di nuovo di come Campana utilizzi elementi
discordanti della sua cultura creando loro una nuova coerenza:
qui la possibilità dell’“uomo libero” (che nasce, probabilmente
non a caso, nella Pampa, cioè nel nuovo mondo americano)
s’intreccia con la dichiarazione della sparizione dal cielo dell’ombra di Dio. Questa sparizione non è altro che il compimento
e il superamento della “morte di Dio” che, mettendo fine alla
decadenza dell’Occidente e al nichilismo, inaugura la possibilità del superuomo predicato da Zarathustra. Nei Canti Orfici
è la riconciliazione con la natura e con la terra a consentire la
nascita dell’uomo libero.
“E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con
delizia l’uomo nuovo nascere”.
Campana conserva poco di Carducci e ancora meno di D’Annunzio; la chiave fondamentale dei Canti Orfici sta proprio nello
Zarathustra e quel tanto di ottimistico, di antitetico al
“maledettismo” che troviamo nei Canti Orfici, è letterariamente molto legato alla suggestione del poeta statunitense, anche se
le due esperienze sono radicalmente diverse. Whitman ha uno
stile fondato sull’elenco, il catalogo. La sua scrittura si articola su
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un movimento di sviluppo lineare, quello dello scrittore spettatore lungo una strada; infatti la finzione che inaugura molte delle
poesie è proprio quella del poeta che cammina (o magari che vola
sopra gli Stati Uniti) ed elenca via via ciò che vede.
Whitman ha una incrollabile fiducia nella realtà e nel
radicamento in una collettività da cui attinge visioni e rappresentazioni poetiche.
Questa fiducia nella realtà (e soprattutto nella realtà e solidità
delle proprie visioni poetiche) è necessariamente dipendente
dalla fiducia in una metafisica che, non solo garantisce un’esperienza poetica, ma soprattutto fonda una morale ed una politica condivise da tutta la collettività. In questo senso Whitman
è lontano dallo sradicamento sociale spesso tipico del poeta,
ma è noto come sia necessario distinguere bene per comparare
la poesia di uno statunitense della seconda metà dell’Ottocento a quella degli europei dello stesso periodo. Campana interpreta Whitman trasformando la sicurezza entusiastica del Song
of Myself nella finale identificazione autosacrificale della figura del boy (che è anche, si ricorderà, l’Orfeo fatto a pezzi dalle
Menadi). Nel testo dei Canti Orfici la ripetizione è funzionale
ad un movimento perpetuo, e per questo non produce monotonia. Ma questa instabilità è propria di un poeta, Campana,
che predilige l’ostentazione del sacrificio legata ad un evidente
narcisismo.
Ed infine potremmo affermare, a buona ragione, che i Canti
Orfici sono un canto di un “Myself” impossibile, di un poeta
che cerca e perde la propria Euridice, ma cerca anche se stesso,
e finisce, come Orfeo, lacerato e diviso.
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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
SULLA PRESENZA DI
MICHELANGELO BUONARROTI
NELLA POESIA DI DINO CAMPANA
La musica, il colore, la pittura, la scultura e l’architettura sono
palpabilmente presenti nella “poetica campaniana”. Nella sua
opera, che è traduzione letteraria della sua alta cultura, decisivo è il rapporto con la pittura e con la scultura. Giotto,
Michelangelo, Raffaello, Leonardo sono fra le citazioni dei Canti
Orfici che Campana predilige. Nel libro Vita non romanzata di
Dino Campana del 1938, Carlo Pariani ricorda come La Notte
nei Canti Orfici si divida in sedici capoversi, e nel nono il nome
del Buonarroti richiami il plastico atteggiamento di una scultura: “Michelangelo fece la Notte”. “Venne la notte…: poi che
Michelangelo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di
cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara
sotto il peso di tutto il sogno umano, e lo sbattere delle pose
arcane e volente delle barbare travolte regine antiche aveva
udito Dante spegnersi nel grido di Francesca…”.
La reminiscenza michelangiolesca è fortissima. Si pensi alle figure femminili, viste sovente come ultime rappresentanti di una
serie infinita che risale fino alle donne antiche, che quasi sempre appaiono con volti e posture che richiamano le arti figurative di altri secoli. Ricordo, ad esempio, le cariatidi de La Notte,
la Notte di Michelangelo, le figure bizantine. Talora queste
immagini sono esplicite, come la Chimera “suora” della
Gioconda leonardesca, altre volte possiamo ritrovare una traccia chiarificatrice del testo degli Orfici in altri suoi scritti. Condotto da imperscrutabili stati d’animo, Dino vagherà nelle
grandi città d’Italia e d’Europa come tra i silenzi delle nevi
alpine, o ancora nella dolcezza severa dei paesaggi autoctoni
(tra il presagio dei suoi “divini primitivi”, Dante, Leonardo,
Michelangelo, Frate Francesco) o nel vastissimo soffio della
Pampa argentina: unico sincero tentativo d’evasione, questo,
verso un più aperto orizzonte ove tentar di collocare, una volte per sempre, la propria inattuata (ed inattuabile) realtà.
Per questo è possibile collocare Campana in una regione culturale tra classicismo e modernità, tra Michelangelo e Leopardi
tra Whitman, Verlaine, Rimbaud e Marinetti.
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SUR LA PRESENCE DE
MICHEL ANGE BUONARROTI
DANS LA POËSIE DE DINO CAMPANA
La musique, la couleur, la sculpture et l’architcture sont
palpablement présentes dans la“poétique campanienne”. Dans
son oeuvre, qui est la traduction littéraire de sa haute culture,
decisifs sont les rapports avec la peinture et la sculpture, Giotto,
Michel-Ange, Raphaël Léonard sont entre les citations des Chants
Orphiques que Campana préfère. Dans le livre “Vie non romancée
de Dino Campana” de 1938 Carlo Pariani rappelle comme “La
Nuit” dans les “Chants Orphiques” se divise en seize alinéas, et
dans le neuviçme, le nom de Buonarroti rappelle le comportement
plastique d’une sculpture: “Michel-Ange fit la Nuit”. ”Vint la nuit:
après que Michel Ange eut replié sur ses genoux fatigué de
marcher, celle qui plie et ne se repose pas, reine barbare sous le
poids de tout songe humain, et le choc des poses arcanes et
violentes d’ antiques reines barbares bouleversèes, Dante l’avait
entendu s’éteindre dans le cri de Francesca…”.
La réminescence michel-angelesque est trçs forte, il suffit de
penser aux figures féminines, vues souvent comme d’ultimes
représentantes d’une série infinie qui remonte jusq’ aux femmes
antiques, qui presque toujours apparaissent avec des visages
et des postures qui rappellent arts plastiques d’autres siècles.
Je rappelle, par exemple, les cariatides de La Nuit, la Nuit de
Michel Ange, les figures byzantines. Parfois ces images sont
explicites, comme la Chimçre «soeur» de la Joconde de Leonard,
d’autre fois nous pouvons retrouver une trace révélatrice du
texte des Orphiques dans d’autres de ses écrits. Conduit par
d’impénétrables états d’âme, Dino vaguera dans le grandes
villes d’Italie et d’Europe comme entre les silences des neiges
alpines. Ou encore, dans la douceur sévère des paysages
autoctones (entre le présage de ses «divins ancêtres», Dante,
Leonard, Michel Ange, Frçre François) o? dans le très vaste
souffle de la Pampa argentine: unique sincère tentative
d’évasion, ceci, vers un horizon plus ouvert o? tenter de placer,
une fois pour toutes, sa propre irréalisée (et irréalisable) realité.
Pour cela, il est possible de placer Campana dans une séries
culturelle, entre le classicisme et le modernisme, entre MichelAnge, Leopardi, Whitman, Verlaine, Rimbaud et Marinetti.
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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
“…O POESIA PIÙ NON TORNERAI:
VOLEVO NEL PAESAGGIO
COLLOCARE DEI RICORDI”
Veggente, visionario, orfico, germanico, mediterraneo, allucinato, fantastico vagabondo dello spirito, poeta della notte, poeta
barbaro, “Rimbaud della Romagna”. Queste formule con cui i
critici hanno cercato di chiarire la personalità poetica di Dino
Campana non riescono a pieno, nessuna, ad illuminare “il segreto umano” del poeta perché, come tutte le definizioni, limitano in un ambito troppo angusto la materia dell’arte e
dimenticano il rapporto materia e forma da cui nasce il canto.
Non intendo avventurarmi, in questa sede, nei meandri di questa ricerca, mi limiterò a sottolineare come appropriato e
condivisibile sia l’idea del critico d’arte Vittorio Sgarbi là dove
sostiene che tra i tratti distintivi della poesia campaniana che
maggiormente resistono al tempo e sopportano il nostro
irrefrenabile processo di attualizzazione, c’è l’indelebile forza
culturale ed artistica di esprimere “il sapore d’epoca”. Questa
caratteristica, applicata al paesaggio, rende a lunghi tratti la
poesia campaniana un mirabile obbiettivo fotografico e spesso
cinematografico che si posa sull’immagine cogliendone l’anima e colorandola con uno stato d’animo consapevole, che spesso si trasforma in un vero e proprio “stato di grazia”, Campana
affermava di voler “nel paesaggio collocare dei ricordi”. Sul
paesaggio aleggia una misteriosa lontananza, prossima a quella di leopardiane memoria del Canto del pastore errante. Come
il Leopardi, Campana sentì il fascino delle ore crepuscolari, della
luna immota sui campi, delle stelle silenti, del canto che si perde
nelle strade solitarie, della finestra illuminata nel buio della
notte mediterranea, del silenzio occhiuto dei fuochi.
Leopardiana è anche la trasfigurazione fantastica della donna
e spesso l’atmosfera lirica. In Campana “l’attimo” è colto nella
sua fuggevolezza, ma non spenge nell’animo l’ansia disperata
di libertà destinata a rimanere insoddisfatta. Scriveva la
Inghilleri: “Non illuminazione che fende le zone oscurate della
mente, non vaticinio dettato dalle misteriose forze
dell’inconoscibile, ma transumata ebbrezza fuor dei sensi in
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un’aura pura da umane miserie in quell’ebbrezza in cui all’uomo giunge più dolce il suono della vita mentre le voci di dolore si sono mutate in canto. Il linguaggio poetico libero da ogni
legame permette zone di silenzio perché più alto risuoni il
canto, campi d’ombra che fanno più splendido il colore.” I Canti
Orfici sono un grande album di un paesaggio influenzato da
citazioni culturali tutte importanti, Dante, S. Francesco, Giotto,
Michelangelo, Leonardo, Piero della Francesca, ma anche un
modo rivoluzionario di leggere, d’impaginare di mettere a fuoco e di riprendere e fotografare il paesaggio, senza che questo
perda il valore pittorico e letterario. Una poesia, quella di
Campana, che si snoda lungo i sentieri, le strade ed i mari della
“partenza e del ritorno”. Un itinerario giocato su punti di luce
in continuo movimento, spesso accompagnato ad una moderna e percettibile sensazione di “scorci di taglio decisamente
cinematografico”.
“Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di
un triangolo desolato s’illumina il Castello, più alto e più lontano… (Marradi)
“La Chiesa ha un portico a colonnette quadrate di sasso intero
nudo ed elegante, semplice e austero, veramente toscano: tra i
cipressi scorgo alti portici…” (Sulla Falterona).
“La Falterona verde, nero e argento… ribollimenti arenosi di
colline laggiù sul piano di Toscana” (Campigna, foresta della
Falterona).
“…L’azzurro si apre tra questi due alberi, il noce è davanti alla
finestra della mia stanza…” (Presso Campigno). Potrei continuare a cogliere la dolcezza severa dei paesaggi toscani (tra il
presagio dei suoi “divini primitivi”, Dante, Leonardo,
Michelangelo, Frate Francesco) o quella barbarica e bizantina
della Romagna, o nel vastissimo soffio della Pampa argentina.
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I WANTED TO PLACE MY MEMORIES
IN THE LANDSCAPE
Seer, visionary, visual, Orphic, Germanie, Mediterranean, hallucinated, fantastic spiritual vagabond, poet of the night, barbarian poet. No one of these epithets with which crìtìcs have
attempted to encapsulate the poetic personality of Dino
Campana fully succeeds in illuminating “the human secret” of
the poet because, like all definitions, they attempt to confine
too narrowly the matter of art, forgetting the relationship between matter and form from which song is born. It is not my
intention here to penetrate into the intricacies of this research;
I limit myself to stressing how appropriate and convincing the
idea of the art critic Vittorio Sgarbi appears to be when he
maintains that, among the distinctive features of Campana’s
poetry which weather best and stand up to our relentless process of actualisation, is the indelible cultural and artistic force
with which he expresses “the flavour of the time”. This characteristic, applied to the landscape, renders the broad strokes
of Campana’s poetry a wonderful photographic, and frequently
cinematographic lens, which lingers on the image, grasping its
soul and colouring it with a conscious “state of mind” which
is frequently transformed into a veritable “state of grace”;
Campana himself declared that he wished “to place memories
in the landscape”. Hovering over this landscape is an aura of
mysterious distance very close to that of Giacomo Leopardi’s
“Canto del pastore errante” (Song of the wandering shepherd).
Like Leopardi, Campana felt the attraction of the twilight hours,
of the moon motionless above the fields, of the silent stars, of
the song losing itself among the deserted streets, of the window lit up in the dark of the Mediterranean night, of the vigilant silence of fires. Also akin to Leopardi is the fantastic
transfiguration of woman, and the frequently lyric atmosphere.
Campana succeeds in grasping the fleeting moment, but this
does not manage to extinguish in his soul the desperate yearning for freedom which is destined to remain unsatisfied. As
Inghilleri wrote “not illumination which rends open the darkened areas of the mind, not a prophecy dictated by the mysterious forces of the unknowable, but an intoxication migrating
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beyond sense, in a pure aura of human misery, in that intoxication in which man hears more sweetly the sound of life, while
the voices of pain are transformed into song. Free of all bonds,
the poetic language enables areas of silence where the song
sounds louder, fields of shadow which make the colour more
brilliant.”
The Canti Orfici is a great album illustrating a landscape influenced by cultural references which are entirely Tuscan - Giotto,
Michelangelo, Leonardo, Piero della Francesca - but also a revolutionary mode of reading, of making up, of focusing and
shooting and photographing the “landscape” without this losing its pictorial and literary value. Campana’s is a poetry which
unwinds along the footpaths, roads and seaways of “departure and homecoming”. An itinerary playing on points of light
in continual movement, frequently accompanied by a modern
and perceptible sensation of “views of a decidedly
cinematographical slant”.
“The moming smiles on the mountain peaks. On high, on the
cusps of a desolate triangle the Castle brightens, higher and
more distant... (Marradi).
“...The Church has a portico with squared pillars of solid stones,
naked and elegant, simple and austere, truly Tuscan: among
the cypresses I glimpse tall porticoes...” (On Mount Falterona).
“The Falterona, green, black and silver… sandy effervescence
of hills down there on the Tuscan plain” (Campigna, Falterona
forest).
“…The azure opens between these two trees. The walnut tree
stands before the window of my room..”
(Near Campigno).
We could go on gathering examples of this austere gentleness
of the Tuscan landscapes (amidst the portents of its “divine
primitives” Leonardo, Michelangelo, Friar Francis) or of the
barbaric and Byzantine nature of Romagna, or of the vast
reaches of the Argentine Pampas.
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DINO CAMPANA E LA SARDEGNA
DI SEBASTIANO SATTA
Forse è per una coincidenza assolutamente involontaria, o forse per l’inconscia volontà di ripercorrere uno dei tanti
inimmaginabili e magici percorsi di Dino Campana, che subito
dopo l’annuale e rituale celebrazione del “Grande Orfico” (in
occasione della ricorrenza della sua nascita, il 20 agosto) sono
partito da Marradi per le vacanze in Sardegna con un pensiero
fisso: provare a comprendere come verosimilmente Campana
avesse vissuto il contatto con l’isola, in occasione di uno dei
suoi viaggi nell’inverno del 1915. Campana scrive a Papini, in
una lettera del primo febbraio di quell’anno, «la Sardegna è un
paese arido e scoraggiante: sono ora a Torino»; e a Soffici
maggio 1915 da Ginevra: «Quando partii da Firenze andai in
Sardegna».
Sicuramente Campana non arrivò in Sardegna casualmente, e
non solo perché sua cognata era sarda, ma guidato dalla grande determinazione di verificare di persona le immagini, le suggestioni, gli stimoli letterari ricevuti da Sebastiano Satta (morto
a Nuoro nel 1914) i cui Canti Barbaricini erano ben noti al grande marradese. Si ricordi la citazione di un verso della lirica Tedio (in “Chiacchierata serale”): «Era il granito delle tombe la
rosa centifoglie», che Campana scrive nel periodo torinese subito dopo essere stato in Sardegna.
Due anni dopo quella visita-soggiorno in Gallura, a proposito
della Sardegna e della sua Prosa in poesia, contenuta nel Taccuino (del quale conservo una copia della preziosa edizione del
1949 curata dal Matacotta), Campana scrive da Marina di Pisa
nell’ottobre 1916 a Sibilla Aleramo: «…Laggiù nei tramonti…
una volta in Sardegna entrai in una casa con fuori una vecchia
lanterna di ferro che illuminava la parete di granito. Fuori la via
metteva sulla costa pietrosa che scendeva dall’altipiano al mare.
Questo ricordo che non ricorda nulla è così forte in me! La costa
bianca di macigni aveva bevuto il tramonto muto e rosso che
chiudeva l’isola e ora colla lanterna rugginosa solo le stelle
sull’altipiano brillavano a me e a Garcia. Io baciai la parete di
granito senza pensare e non so ancora perché. Ricordo che in
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quella casa stava la sarda moglie dell’alcolizzato amico dell’amico del nostro amico.
Bevemmo il moscato bianco salmastro di Sardegna ed è idiota
come mi ricordo di tutto questo».
La Sardegna di Campana è un quadro intenso e vero della
Gallura, della Maddalena, dell’Altipiano di Tempio con sullo
sfondo i monti di Aggius. Prosa in poesia riempie quasi cinque fogli del suo Taccuino e inizia la sua suggestiva descrizione con il motivo “bizantino”, a lui così caro, e che ricorre nella
Notte dei Canti Orfici (il Taccuino è successivo alla pubblicazione dei Canti Orfici, Marradi-Ravagli 1914).
Prosa in poesia con alcune pennellate racchiude, insieme all’incalzare della poesia campaniana (che trasmette subito a chi
la legge il movimento delle onde del mare), una Sardegna vera
e forte, una cultura antica legata con la sua originalità «a’n
vecchio bon sangue italiano».
Tutta mediterranea, dai toni forti e nello stesso tempo intriganti
e magici, la Sardegna, pur non accolta nei Canti Orfici perché
scoperta e vissuta dopo il 1914, come la Toscana, la Romagna,
la Liguria e il Piemonte, appartiene a pieno titolo ai “luoghi
campaniani”. In una lettera dell’agosto 1913 a Sibilla Aleramo,
Campana scriveva: «Dalle rupi di Campigno, nelle cui rupi
pietrose abita permanentemente il falco io spero di superarle e
di volare sopra di esse con tutta la fierezza e la forza dell’aquila. Fra tutti gli aeroplani moderni, anche il mio seguirà il suo
destino. O la morte o la Gloria!». Campigno non è poi così
lontano dagli aspri picchi della Sardegna. Campana riuscì a
volare in quella terra immergendosi in quella antica e straordinaria cultura, armato della sua grande sensibilità, della sua
straordinaria conoscenza, di un Taccuino e di una matita per
immortalare l’isola, nella gloria di un frammento della sua
poesia.
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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
«Un verde bizantino
Sopra un occhio dorato »
Descrivo le lastre a quadri
Dell’isola Maddalena
«Per scale di granito
Ci sono i vecchi lampioni
E pure si trova le femmine
All’isola Maddalena
Per scale di granito
Un organetto che sona
E signorine donate
A ‘n vecchio bon sangue italiano
Un verde bizantino
Sopra un occhio dorato
Sopra le lastre a losanga
Dell’isola Maddalena
La Giuseppina si affaccia
E tutta vestita di rosso
La casa è di granito
E sona l’organetto
Sotto l’insegna di ruggine
Sopra le lastre a losanga
Dell’isola Maddalena
Nel rantolo dell’ancora
Che stanca le bandiere
Si stanca sul granito
Sopra le lastre a quadri
Dell’isola Maddalena
Coll’ombra dell’occhio dorato
L’abete che riparte
Con cigoli di carene
Dell’ancora portandosi
Solo il segnale la sera
Ch’è stanca la bandiera
Ai monti lontani di Aggius
Ondeggia la rossa bandiera».
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CHIACCHIERATA SERALE DI DINO CAMPANA
Forse se qui non avesse abitato il mio amore io non avrei mai
scoperto. Pure abitando il mio amore qui… È inutile descrivere ciò…
Cioè un mazzo di fiori secchi all’angolo con una grande insegna sulle vetrate ed io guardare le vetrate in punta di piedi se
qui fosse il mio amore e non c’era.
- La via era scura e stretta all’angolo della grande piazza - Riprese.
Perché descrivere ciò?
Pure per quanto secco fosse quel mazzo di fiori sentii una gran
pace venire sopra di me.
Così passavamo davanti alle grandi lettere nere dell’insegna
colorata e quando ci volgemmo dalla vetrata ci parve una ragazza leggera e bianca passare davanti al cristallo e forse gli
angoli della bocca chiusa e amorosa davanti all’insegna dell’albergo dell’Agnello per la via scura e stretta in curva all’angolo
della grande piazza. «Era il granito delle tombe la rosa
centifoglie» mentre a noi le stelle parevano spuntare ad una ad
una dietro i giocattoli giganteschi delle Alpi. Le Alpi.
Il monolite dell’obelisco bianco, i due Gemelli pagani all’entrata dell’immenso palazzo nell’arco romano le ali e gli angeli
gotici a cui la luna insanguinava gli angoli della bocca mentre
passavano dei profumi di muschio i volti troppo fieri di essere
pallidi forati da stelle troppo azzurre come la ragazza che si
levò come si leva un’ombra davanti alla vetrata all’angolo della
grande piazza all’insegna dell’albergo dell’Agnello per la via
curva all’angolo della grande piazza.
TEDIO DI SEBASTIANO SATTA
In altra terra, o patria, io bevvi il vino De’ tuoi colli: e rividi,
in una gaia Visione, la fulgida giogaia Di Montalbo e il mio
bel monte vicino.
Cantava il capinera e il cardellino Presso la fonte lungo la
giuncaia, E, nel sogno, odorava il rosmarino Lungo i filari dove
l’uva invaia.
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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
O patria, o sogno! Ora nel cuor mi tace Anche questo desìo,
che in più romito Angolo il mio pensiero si raccoglie.
Pur là vi canta, nella vitrea pace
De l’alba, un nido: e s’apre tra il granito
Delle tombe la rosa centifoglie.
SEBASTIANO SATTA
Poeta tra i massimi della Sardegna, avvocato, giornalista, nacque a Nuoro nel 1867. Durante il servizio militare a Bologna,
ebbe modo di conoscere l’opera poetica del Carducci. Studiò
giurisprudenza a Sassari, dove collaborò con il quotidiano L’Isola. Laureatosi, esercitò la professione di avvocato penalista,
distinguendosi per le profonde competenze in campo giuridico e per l’ispirata eloquenza.
Satta fu anche un appassionato poeta in lingua sarda e italiana: sono particolarmente importanti i Versi ribelli, raccolta di
poesie con la quale esordì, nel 1893; l’ode Primo maggio, del
1896; i Canti barbaricini, del 1910; i Canti del Salto e della Tanca,
pubblicati postumi nel 1924.
Le poesie di Satta scaturiscono da una profonda umanità e da
una forte coscienza sociale. Egli amò intensamente la Barbagia,
terra natale, rude e bellissima al tempo stesso, apprezzandone
ogni suo aspetto, anche quello più fosco. Non nascose mai di
nutrire simpatia e rispetto per la folta schiera di banditi che,
per sfuggire alla cattura, si davano alla macchia, vivendo una
vita dura, misteriosa e affascinante; dopo tutto, secondo Satta,
i banditi altro non erano che degli uomini divenuti simili ad
animali randagi, che manifestavano con le loro gesta fuorilegge una barbarica ribellione ad un ordine sociale ingiusto e inaccettabile. La poesia sattiana mette dunque in luce tutta la
tragedia della sfortunata Sardegna, immortalata come madreprefica, o meglio, “madre in bende nere che sta grande e fiera
in un pensier di morte”.
Sciagure familiari, ristrettezze economiche ed una salute cagionevole avevano reso non facile la sua vita. Colpito da paralisi,
il poeta visse gli ultimi sei anni in dolorosa immobilità, morendo a Nuoro nel 1914, a 47 anni.
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CINEMA E VELOCITÀ IN DINO CAMPANA
Cinema e velocità sono aspetti molto marcati della modernità
di Campana. La tradizione letteraria (Dante, Leopardi, Carducci,
Pascoli) e pittorico-scultorea (Leonardo, Michelangelo,
Ghirlandaio, Della Robbia) sono sorgenti dalle quali Campana
attinge per la sua poesia. La modernità ed in modo particolare
la velocità ed il cinema sono strettamente legati al Futurismo.
Certamente Campana non condivideva il punto 10 del Manifesto del Futurismo “Noi vogliamo distruggere i Musei e le Biblioteche” e neppure il punto 3 “Noi vogliamo esaltare il
movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa
perché la letteratura aveva fino ad allora esaltato l’immobilità
pensosa, l’estasi ed il sonno”. Campana dice: ”Ogni tanto scrivevo dei versi balzani ma non ero futurista. Il verso libero
futurista è falso, non è armonico. È una improvvisazione senza
colore e senza armonia. Io facevo un poco di arte. I Futuristi li
trovavo vuoti.” Ciò nonostante Campana è molto vicino al
Cubismo ed al Futurismo. Il punto 4 del Manifesto futurista,
quello della nuova bellezza, la velocità ed il cinema, lo coinvolge molto e caratterizza in più parti la sua poesia che è sintesi fra modernità e tradizione. Campana è il primo poeta - non
so se ce ne sono altri - che dedica una poesia ispirata al Giro
d’Italia, la cui prima edizione è del 1909, Giro d’Italia in bicicletta (1º arrivato al traguardo di Marradi), con taglio decisamente futurista, come pure confermerà un’altra versione della
stessa poesia dedicata, col titolo Traguardo, a Marinetti. Il tema
del cinema in Campana è stato accennato da molti critici che
parlano, di volta in volta, di tecnica cinematografica, di consapevole procedimento cinematografico che annulla la dimensione cronologica. Nel manoscritto Il più lungo giorno la prima
composizione appare con il titolo Scorci bizantini e notti cinematografiche e cancellato si può leggere in alto: Cinematografia sentimentale che doveva essere il titolo della parte che
diventerà La Notte. Nel 1895 i Fratelli Lumière costruirono la
camera portatile e filmarono le prime scene esterne; la prima
ripresa in movimento avvenne a Venezia su una gondola nel
1897. Le proiezioni avvenivano nei caffè concerto e nelle fiere
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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
in apposite baracche. Trasferiamoci a Faenza e vediamo un po’
quello che succedeva all’inizio del ‘900. Il settimanale Il Lamone,
periodico faentino che usciva la domenica, il 21 maggio del 1905
scriveva: “Il cinematografo che è stato presentato ieri sera all’Arena Borghesi, richiamò molto pubblico e ottenne un lieto
successo”. Lo stesso settimanale il 17 settembre dello stesso
anno annuncia la proiezione dell’assedio e capitolazione di Port
Arthur (Guerra russo-giapponese). La diffusione del cinema
continua in Romagna il 24 settembre 1905 Il Lamone: “il grande cinematografo Lumière si è installato con un grandissimo
padiglione nella Piazza Pasi del Borgo D’Urbecco”.
Torniamo ai Canti Orfici dove nella Notte rinveniamo una delle
prime descrizioni dello stato d’animo che il cinematografo muto
produce nello spettatore che si trova di fronte al grande schermo. Il poeta si trova in una fiera (Le fiere del bestiame si svolgevano a Faenza la seconda domenica di luglio che, in
quell’anno, cadde il 9 luglio, la domenica d’Agosto prima di
Sant’Elena, in quell’anno, il 20 agosto, compleanno di Campana). Sarà Faenza oppure Marradi come ha minuziosamente
descritto e cercato di provare Franco Scalini nel suo libro “Nell’odore pirico di sera di Fiera” Ambientazione della sera di fiera
e della festa d’estate e altre note campaniane? Personalmente
sono portato a considerare il 22 luglio del 1906 la sera di Fiera
(Festa) e Marradi il luogo.
I fuochi d’artificio (in fondo alla piazza delle scuole, Via
Umberto Iº) sono finiti, nell’aria l’odore della polvere, il silenzio dopo il forte rumore dei fuochi, gli occhi stanchi di guardare il cielo ed il poeta scopre che è accanto ad una ragazza.
Non sappiamo se ci sia un rapporto fra loro, neanche se si
conoscono; la ragazza si sente attirata da una baracca dove
offrono le più grandi invenzioni del momento, il cinematografo, (presso l’ospedale di Marradi, all’inizio del campo dell’artiglieria) e decide di entrare e dietro di lei l’uomo e gli spettatori
che già sono seduti rivolgono lo sguardo verso chi entra quando lo spettacolo è cominciato. E lì ci sono le vedute ed appaiono “dei panorami scheletrici del mondo” che non sono altro
che le città attraverso il cinema muto, i soldati morti a Port
Arthur e le odalische. E si sente l’odore della segatura (che si
usa per asciugare il fondo della baracca) e le donne sono
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stupite per quella invenzione che permette loro di vedere Parigi e Londra e la battaglia di Muckden senza uscire dal paese
(Marradi). E si esce dalla baracca come ci si è entrati senza
sapere dove andare e con quella sensazione di essere fuori dal
tempo “Noi guardammo intorno doveva essere tardi”. La ragazza è “presso di me” perché è immobile alla porta della
baracca, ma ognuno prenderà la sua strada. “Sentii con una
punta di amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato
vicino”, e raccoglie un’altra delle sensazioni che ancor’oggi il
cinema ci procura: la vicinanza di una persona sconosciuta nel
buio, come non sarà possibile in altre circostanze, perché quella situazione si verifica soltanto nell’intimità della coppia. Molto
probabilmente, come sostiene Franco Scalini, Campana prenderà il treno per Parigi. C’è in Pampa un altro spaccato di velocità cinematografica che assume una forte connotazione lirica.
La poesia del poeta di Marradi non è mai visionaria né
tantomeno frutto di effetti della follia, ma scaturisce dalla grandezza poetica e dalla dimensione culturale di Dino Campana
che parte sempre dalla realtà quotidiana per creare uno stile
ed una poesia così alta, fuori dal tempo e dallo spazio, come
soltanto i grandissimi della letteratura hanno saputo fare.
Oggi il cinema guarda a Campana: la sua poesia, la sua vita il
rapporto epistolare ed amoroso con Sibilla sono sceneggiature
pronte per la cinematografia ed infatti sono già stati realizzati
quattro films su di lui.
Inganni, regista e sceneggiatore Luigi Faccini, 1984, con Bruno Zanin e Olga Karlatos e Mattia Sbragia, prodotto da
Futura Film Off Limits, durata 96’. Il film ha partecipato a
un numero rilevante di Festival fra cui: Valencia, Avellino,
Gand, Nairobi, Madrid, Buenos Aires, ma è stato visto pochissimo nelle sale.
Il più lungo giorno, regista e sceneggiatore Roberto Riviello,
1999, con Gianni Cavina (Dino Campana), Luca Gai (Dino da
bambino), Tazio Torrini (Dino adolescente), Luca Biagini (Giovanni Campana), Enrica Maria Modugno (Fanny), Roberto
Nobile (dott. Pariani), Enzo Brogi (Manlio), Giuseppe Battiston
(zio Mario), prodotto da Antonio e Pupi Avati per la DUEA
film.
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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
Dino Campana, regia e sceneggiatura di M. Moretti, interpreti: Ugo Fortini (Dino Campana giovane), Fabrizio Celiai (Dino
Campana in manicomio), Maria Jutta Pick (Sibilla), 1974. Pellicola restaurata nel 1999.
Un viaggio chiamato amore, regia: Michele Placido; soggetto
e sceneggiatura: H. Sch Ribon, M. Placido; fotografia: L. Bigazzi,
musica: C. Crivelli; interpreti. L. Morante (Aleramo), Stefano
Accorsi (Dino Campana), Alessandro Haber (Andrea Cena),
Calate; (Leonetta
Cecchi Pieraccini),
Diego Ribon (Emilie
Cecchi); prodotto da
Cattleya / Rai C
Stream, 2002.
Emilio Tadini
“Firenze” 1997
GIRO D’ITALIA IN BICICLETTA
(Iº ARRIVATO AL TRAGUARDO DI MARRADI)
Dall’alta ripida china precipite
Come movente nel caos d’un turbine
Come un movente grido del turbine
Come il nocchiero del cuore insaziato.
Bolgia di roccia alpestre: grida di turbe rideste
Vita primeva di turbe in ebbrezze:
Un bronzeo corpo dal turbine
Si dona alla terra con lancio leggero.
Oscilla di vertigine il silenzio dentro la muta catastrofe di
rocce ardente d’intorno.
- Tu balzi anelante fuggente fuggente nel palpito indomo
Un grido fremente dai mille che rugge e scompare con te
Balza una turba in caccia si snoda s’annoda una turba
Vola una turba in caccia Dionisos Dionisos Dionisos.
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NE LA SERA DEI FUOCHI
Ne la sera dei fuochi de la
festa d’estate. Ne la luce deliziosa e bianca, quando i nostri orecchi riposavano
appena nel silenzio e i nostri
occhi erano stanchi de le girandole di fuoco, de le stelle
multi colori che avevano lasciato un odore pirico, una
vaga gravezza rossa nell’aria,
e il camminare accanto ci
aveva illanguiditi esaltandoAlessandra Binini 1997
ci di una nostra troppo diversa bellezza, lei fine e bruna, pura negli occhi e nel viso,
perduto il barbaglio della collana dal collo ignudo, camminava
ora a tratti inesperta stringendo il ventaglio. Fu attratta verso
la baracca: la sua vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella luce diffusa, ed io seguii il suo pallore segnato sulla
sua fronte dalla frangia notturna dei suoi capelli. Entrammo.
Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e dalla festa, si volsero verso di noi. Profondamente limpidi nella
luce. E guardammo le vedute. Tutto era di un’irrealtà spettrale.
C’erano dei panorami scheletrici di città. Dei morti bizzarri
guardavano il cielo in pose legnose. Una odalisca di gomma
respirava, sommessamente e volgeva attorno gli occhi d’idolo.
E l’odore acuto della segatura che felpava i passi e il sussurrio
delle signorine del paese attonite di quel mistero, “È così Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden”. Noi guardavamo
intorno: doveva essere tardi. Tutte quelle cose viste per gli occhi
magnetici delle lenti in quella, luce di sogno! Immobile presso
a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo
fascino si approfondiva, sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d’amarezza tosto
consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque
come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa.
davanti al panorama-scheletrico del mondo.
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IL PIÙ LUNGO GIORNO
Nella straordinaria e drammatica vicenda umana e poetica di
Dino Campana, la consegna del manoscritto a Giovanni Papini
ed Ardengo Soffici nell’inverno del 1913, il suo smarrimento,
le insistenti, quanto inutili, richieste di Campana per riottenerlo,
sono avvolte nella leggenda e fanno parte del mito. Il ritrovamento de Il più lungo giorno, avvenuto in modo banale, casuale ed insperato per merito della vedova di Soffici,
(ufficialmente, probabilmente fu lo stesso Soffici a ritrovarlo)
nella casa di Poggio a Caiano, ci ha restituito questa preziosissima prova dell’impianto originario della poetica campaniana
che “i cari sciacalli del cupolone fiorentino” non avevano saputo ed in parte, non avevano voluto cogliere fino in fondo
“impegnati com’erano a fare le puttane alla serata futurista”.
Campana aveva una cultura straordinaria ed il culto per la
perfezione filologica e questo fatto è largamente testimoniato
dalla tragicità con la quale vive la perdita del manoscritto, tanto da far pensare fino al suo ritrovamento che Il più lungo
giorno contenesse una più alta espressione della poesia
campaniana rispetto ai Canti Orfici, soprattutto perché Campana, in questo contribuendo ad alimentare il mito, affermava
di aver ricostruito a memoria il testo del manoscritto consegnato a Soffici e Papini. Fortunatamente così non è stato, anche se, come dimostrano alcuni testi che compaiono sia nel
manoscritto che negli Orfici, lo smarrimento aveva costretto il
“grande marradese” a fare a meno dell’ultima stesura che aveva dovuto, effettivamente, ricostruire a memoria prima di trasmettere a Luigi Bandini, il suo amico marradese che cercherà
senza successo di convincere l’editore Vallecchi a pubblicarli, il
testo per l’edizione del 1914. “Caro Gigino - scriveva Campana
nell’autunno del 1913 - mi trovo disperato e sperso per il mondo. Ti mando il manoscritto che spero sarà comprensibile. Esso
testimonia qualche cosa in mio favore, forse testimonia che io
non ho meritato la mia sorte. A chi altro mandarlo? Tu mi hai
conosciuto e mi hai compatito, spero che lo farai ancora. Dunque
abbiti i miei più cari saluti e più vivi ringraziamenti. Sarà quello
che sarà: sarà quello che deve essere: ma noi ci siamo conosciuti
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e ci amiamo. Scrivimi fermo posta Berna Svizzera. Tuo Dino”.
Dal punto di vista critico il manoscritto de Il più lungo giorno
è significativo perché rappresenta un importante momento di
avvicinamento all’elaborazione dei Canti Orfici nell’edizione
marradese del 1914 stampata dalla tipografia Ravagli, l’unica
riconosciuta e accettata da Dino Campana: la lezione originale.
Personalmente mi ha sempre affascinato il fatto che Scorci
bizantini insieme a Morti cinematografiche fossero i sottotitoli
de La Notte ne Il più lungo giorno. Cinematografia sentimentale era l’originario titolo de La Notte a voler significare come
la dimensione cronologica venisse annullata nei picchi della
poesia di Campana che, uscendo dal tempo, si conquistava
insieme all’universalità l’immortalità.
Stefano Mercatali
“Crepuscolo Mediterraneo”
1995
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Maurizio Rogai
”La Notte”
1996
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LA VERITÀ SUL RITROVAMENTO DEL
MANOSCRITTO DE “IL PIÙ LUNGO GIORNO”
La vicenda del manoscritto è nota. Nel Novembre del 1913 Dino
consegna a Papini a suo dire la sola e unica copia delle sue
poesie; per disattenzione o altro, Ardengo Soffici (codirettore
della rivista Lacerba) smarrì il manoscritto del poeta di Marradi, e a nulla valsero le minacce e le preghiere che a più riprese
Campana rivolse sia a Papini (al quale era stato consegnato il
manoscritto) che a Soffici. Questa sparizione, casuale o voluta,
provocò nel poeta delusione, disperazione, rabbia; ma anche
un frenetico desiderio di vedersi stampato, di realizzare il suo
sogno di poeta. Soffici in un trasloco lo perse, costringendo il
poeta (che ha sempre dichiarato che quello scritto era l’unica
copia di cui disponeva) a un lavoro di rielaborazione che in
pochissimi mesi portarono ai Canti Orfici come sono stati pubblicati. Rinvenuto fra le carte di Soffici (probabilmente dallo
stesso Soffici), il manoscritto campaniano è stato studiato a
fondo, con la conclusione che la perdita da parte di Soffici
costrinse e impose a Campana una rielaborazione, in pochi
mesi, su testi che conservava (alcuni, per esempio, nel Quaderno), che lo porterà alla sintesi ultima e più matura dei Canti
Orfici. Il più lungo giorno vergato con particolare cura, quasi
sicuramente nella soffitta della sua casa a Marradi, dove il poeta
si ritirava per studiare e per scrivere, come testimonia nel 1957
il fratello Manlio, fu consegnato da Dino Campana a Papini e
Soffici per un’ eventuale pubblicazione. Siamo nel 1914, la guerra è già scoppiata e Dino a settembre arriva a piedi a Firenze
per vendere il suo libro alla gente seduta ai tavolini delle Giubbe
Rosse e a quelli del Paszkowski. Dino vede il suo libro accettato, forse più per gioco che per un reale interesse, e si permette anche di strapparne qualche pagina, prima di consegnarlo
all’acquirente che non l’aveva completamente convinto di poter capire tutta la sua poesia. Il capolavoro dei Canti Orfici fu
stampato soltanto grazie alla sottoscrizione avvenuta nel 1914
fra i quarantaquattro concittadini del poeta. Alla comunità
marradese va dunque il merito di avere reso possibile la pubblicazione del grande capolavoro letterario del ‘900.
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Nel 1964 muore Ardengo Soffici e, fin dal 1965, Luigi Cavallo
nota tra le carte di Soffici a Poggio a Caiano, il manoscritto
smarrito. Per vari motivi i familiari di Ardengo Soffici non ritennero opportuno dare subito notizia del ritrovamento, che fu
data soltanto nel 1971 con un articolo di Mario Luzi sul Corriere della Sera del 17 giugno intitolato “Un eccezionale ritrovamento fra le carte di Soffici. Il quaderno di Dino Campana”.
L’autografo, risultato di grande utilità per gli studi campaniani,
venne consegnato agli eredi del poeta. Nel 1973, a cura di
Archivi-Roma, d’intesa con la Casa Editrice Vallecchi di Firenze, fu pubblicata la riproduzione anastatica de Il più lungo
giorno con prefazione di Enrico Falqui e testo critico di
Domenico De Robertis.
Nel 2001, essendo da parecchio tempo esaurita la edizione
Archivi - Vallecchi, il Centro Studi Campaniani “Enrico
Consolini”, di Marradi curò una nuova edizione dell’importante
manoscritto. Luigi Cavallo, critico d’arte e profondo conoscitore di Soffici e di Rosai (possiede la copia autografa dei Canti
del 1914 donata da Dino Campana ad Ottone Rosai completa
di dedica al Kaiser) curatore fra l’altro dell’esposizione su Soffici che si svolse a Firenze alla Galleria Pananti dal 4 ottobre al
15 novembre 2001, cui fu affidato l’archivio Soffici dall’anno
della scomparsa del maestro, ha fatto luce sulla verità del ritrovamento de Il più lungo giorno una versione più rusticana
come la definisce, dei Canti Orfici. Cavallo ha più volte affermato e scritto di avere visto il manoscritto a Poggio a Caiano
fra le carte di Soffici già nel 1965, conservato in posizione privilegiata insieme alle lettere di Mussolini. Quindi, non un ritrovamento, quello del ’71, ma una scelta di opportunità. In
questa operazione di restituzione ritardata del manoscritto, fu
coinvolto Mario Luzi. Luzi scelto come persona degna e Valeria Soffici chiese a Cavallo cosa ne pensasse. “Io premetti perché fosse lui” afferma Cavallo ed aggiunge: “Molto probabilmente Soffici aveva individuato il manoscritto da tempo,
forse nel 1947 quando riordinò le sue carte nel secondo dopoguerra ma non aveva ancora deciso cosa farne”. “Sì io lo vidi
agli inizi del 1965, Valeria (Soffici Gattai figlia di Ardengo) e
Maria (la moglie) volevano riconsegnarlo agli eredi che purtroppo ne hanno fatto mercato”, mi ha detto Cavallo. Non c’è
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necessità di nessuna polemica; d’altro canto Soffici aveva offerto a Sigfrido Bartolini tanti documenti del suo immenso archivio e fra questi poteva finirci anche il manoscritto de Il più
lungo giorno. La critica e tutti noi avevamo accettato la versione, del “miracolo” che ha permesso di chiarire tutto o quasi.
Dopo la scomparsa di Soffici, nel 1971 la vedova, signora Maria
Soffici, riordinando le carte del marito (materiale di notevole
interesse, è da supporre, per le fitte relazioni che intrattenne
con artisti e scrittori di mezza Europa), ritrova il famoso fascicolo; Mario Luzi ne dà notizia al mondo, su cinque colonne
nelle pagine del “Corriere della Sera”, il 17 giugno dello stesso
anno, immaginando meraviglie da una improbabile
riapparizione del testo perduto, mentre invece abbiamo dovuto prendere atto che le cose, per la verità, non sono andate
proprio così. Ma qual è il rapporto fra il manoscritto del Il più
lungo giorno e i Canti Orfici? Come dicono Enrico Falqui (nella introduzione) e Domenico De Robertis (nel commento critico al testo), in effetti il manoscritto appare come una bella copia,
uno “status” non definitivo del testo, una redazione ordinata
del materiale proveniente da altre carte, alle quali sicuramente
Dino attinse anche per la redazione finale del suo libro. In
pratica i Canti Orfici riprendono per circa due terzi con poche
varianti la struttura e il testo del manoscritto, perdendo per
strada solo alcune poesie che sono state recuperate e pubblicate in altre carte venute alla luce prima del ritrovamento. La
storia della ricostruzione a memoria dell’intero libro è da considerarsi pura leggenda. Luzi sostiene: Molto emozionata, la
figlia Valeria mi comunicò la notizia ma alla mia impazienza
di vedere il reperto oppose la necessità del consenso materno.
In realtà madre e figlia erano molto comprese della responsabilità del ritrovamento, ma infine maturò tra loro la convinzione che il primo dovere fosse di rendere pubblica la cosa, ed è
proprio ciò che vado facendo. Intanto si sono l’una e l’altra,
d’accordo con gli altri due figli, orientate e confermate nel
proponimento di donare il quaderno a una importante Biblioteca e sperano che non sorgano ostacoli a questo loro disegno.
Le notizie che ci dà Luigi Cavallo nell’articolo pubblicato nel 2002
su Il Giornale sono davvero sorprendenti. Quando Valeria Soffici
mi cercò per comunicarmi il ritrovamento del manoscritto
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campaniano tra le carte del padre, non mi disse che il fortunato evento si era verificato sei anni prima secondo la data memorizzata da Cavallo. Ma Luigi Cavallo insiste di aver visto
tra le carte di Ardengo Soffici, vicino alle lettere a Mussolini, a
Poggio a Caiano il manoscritto de “Il più lungo giorno”. Il 3
marzo 2005 Luigi Cavallo mi ha scritto una lettera e mi ha
inviato l’articolo pubblicato dal Giornale che qui di seguito riporto: “Il manoscritto dei “Canti Orfici” fu ritrovato nell’archivio di Soffici nel ’65. Molto dopo infatti affiorò il manoscritto
di un’altra poesia di Campana, Domodossola 1915, tuttora nell’archivio di Poggio (riprodotta nel volume di Campana curato
da Gabriel Cacho Millet - Le mie lettere sono fatte per essere
bruciate, 1978). Di quel ritrovamento furono comunque informati i figli di Soffici, Valeria e Sergio, e il genero di Papini,
intimo di famiglia, Barna Occhini”.
Si tenga presente in ogni caso che Maria Soffici, anche con
qualche sottolineatura vivace di carattere, si dichiarava unica
proprietaria e custode delle carte del marito, finché ebbe forze.
Era tale il suo attaccamento a ogni foglio che Ardengo aveva
toccato, da far scattare una sorta di gelosa ritrosia per ogni richiesta di pubblicazione. Il rispetto per l’autografo di Campana consigliava di non affrettare la diffusione della notizia, di
sondare a fondo nelle carte, di non divulgare quel ritrovamento in tempi del tutto inadatti, senza per questo che “venisse in
mente che si stava commettendo un arbitrio grave nei confronti della storia di Campana”, come scrive Luzi. L’intenzione era
di non dare appigli per mescolare fatti di carattere squisitamente
letterario con argomentali politici, vista la damnatio memoriae
da cui era stata afflitta la figura di Soffici. Le infauste vicende
politiche del Sessantotto giustificarono ulteriore prudenza. Vedendo nell’insieme quanto accadde, mi sembra che per la famiglia Soffici fosse più che lecito attendere anni meno sinistri,
e una voce adeguata come quella di Mario Luzi per rendere
pubblico il ritrovamento del manoscritto. L’autografo venne
consegnato agli eredi del poeta. Nel 2004 è andato all’asta ed
è divenuto proprietà della “Fondazione Cassa di Risparmio di
Firenze” che a sua volta lo ha consegnato alla “Biblioteca
Marucelliana” di Firenze.
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IL PIANOFORTE DI DINO CAMPANA
“BEL AMÌ E PAPE GURIOLI”
“Pape” Gurioli appartiene a quel gruppo ristretto di giovani,
oggi quarantenni, (Massimo Barzagli, Cesare Fabbri, Stefano
Mercatali, Maurizio Rogai ed altri) che essendo pervasi da
spirito artistico e culturale erano molto attratti dal carisma di
Enrico Consolini. Da Enrico hanno mutuato l’amore per Dino
Campana. Pape è un musicista “puro”, come se ne incontrano
pochi. Nel quadro della ricerca su Campana e, più in generale,
sulla cultura di questo lembo di Romagna Toscana, ci siamo
imbattuti spesso su Anacleto Francini, anch’egli marradese,
conosciuto come “Bel Ami”, commediografo, autore di numerose commedie-operette e giornalista, autore fra l’altro della famosissima canzone “Creola”.
Anacleto Francini, “primo, di una bella famiglia italiana”, come
lui stesso scrisse nacque a Marradi il 25 agosto 1887; Campana
era nato il 20 agosto di due anni prima. In una foto-ricordo
della III classe elementare maschile, scattata il 10 Giugno 1894,
Francini appare insieme a Dino Campana; e Dino Campana farà
parte del “Coro degli ubriachi” nella commedia musicale II
Marciapiede dell’Agosto 1910 e nello Zibaldone, commedia
satirica del 1911, avrà la parte del Pedagogo.
A Torino Campana lavorerà come strillone nel 1918 per la
Gazzetta del Popolo, giornale di cui Francini era redattore capo.
Di Francini, il grande poeta orfico ha scritto il 2 Febbraio del
1915 a Papini: “un toscano austero della vecchia razza, non mai
contenuto di quello che fa, un autentico e vigorosissimo temperamento d’artista, un altissimo ingegno”. Giampaolo Gurioli,
“Pape”, da quel sensibile artista che è, ha colto il collegamento
fra Campana e Francini e nella sua musica, che è consapevole
ricerca ed esaltazione delle sue radici, non ha mancato di sottolineare questo percorso e questo intreccio fra il suo modo di
fare musica richiamando Francini e onorando Campana anche
attraverso l’opera di uno scultore geniale quale è Luigi Ontani.
Ricordo a questo proposito il suo concerto “D'Inno Campana
Piano” nel cortile del Palazzo delle Esposizioni a Faenza nel
1997. “L’omaggio che farò con il “D’Inno Campana Piano” -
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raccontò - sarà il tentativo di mettere insieme e fondere l’esperienza di Luigi Ontani, che ha realizzato il ‘logo’ della mostra
ispirandosi appunto a Dino Campana, intrecciandola con l’esperienza di un uomo di cultura marradese come Anacleto
Francini, autore di ‘Creola’, che ha lavorato con il nome di “Bel
Amì". Da questo trittico di suggestioni ne uscì una musica, che
partendo dalla famosissima canzone “Creola”, trasportò tutti
gli ascoltatori fra la lirica di Campana e le immagini affidate
alla ceramica di Luigi Ontani liberandoli dal limite del tempo
e dello spazio. “Pape” Gurioli, pianista e compositore, figlio
dell’eclettico musicista Cinto, che in realtà si chiamava Marco,
nel suo brano “A Marè” ha voluto immortalare i rintocchi delle
campane di Marradi. Quelle della “Naja” che scandisce le ore
dalla “cupola rossa con il suo leone” della torre comunale,
quelle della Chiesa delle Domenicane, quelle della Chiesa di
San Lorenzo e la campanella che segnava l’inizio delle lezioni
nella scuola elementare “Giovanni Pascoli”, oggi Centro “Dino
Campana”. Una melodia impressa nella mente dell’artista fin
dall’età di sei anni. Tutto questo sarebbe, soltanto un cenno ad
un illustre marradese dell’oggi ed un omaggio a Marradi, originale e degno di nota, se non fosse che Pape Gurioli deve
anche la sua genialità all’esercizio su quel magico strumento
che è il pianoforte verticale lasciatogli dal padre che (come si
legge nei documenti e nella corrispondenza) lo aveva acquistato, a rate per tre mila lire, da Manlio Campana, fratello del poeta
Dino.
C’è scritto, infatti, nella ricevuta rilasciata a Marradi il 25 agosto 1947 a firma Manlio Campana: “Ricevo dal sig. Giacinto
Gurioli lire millecinquecento in conto pagamento pianoforte.
Restano ancora lire millecinquecento". Dalle Campane a Dino
Campana, al suo pianoforte, quello della casa dello zio Torquato
in Via Pascetti dove Campana trascorreva i suoi giorni
marradesi. È lì che imparerà a suonare il pianoforte “Volevo
studiare chimica, ma poi non studiai più nulla perché non mi
andava; mi misi a studiare il piano “confesserà al Pariani ed
ancora “…un po’ scrivevo un po’ sonavo il piano”. “…Stiedi
in Argentina facendo il pianista…”. “Dei musicisti ammiravo
molto Beethoven, Mozart, Schumann. Verdi anche mi piace;
Spontini, Rossini. Eh! Questi li so tutti; suonavo sempre la
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musica italiana in Argentina”. Fra i cento mestieri esercitati,
proprio come Walt Whitman, Campana fu pianista nei bordelli
di Buenos Aires. Molti hanno messo in dubbio il viaggio di
Campana in Argentina e fra le argomentazioni addotte, insieme a quella delle tende gialle nella pampa, qualcuno ha voluto
sottolineare come avesse potuto Campana essere pianista a
Buenos Aires, senza conoscere il pianoforte e dove l’avesse
imparato: “suonavo il piano nei caffè dell’Argentina quando
non avevo denaro, suonavo nei ritrovi, nei bordelli”. L’arcano
è svelato il pianoforte esiste ed a conservarlo gelosamente provvede Pape Gurioli a Marradi.
William Catellani “Dualismo” 1997
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CAMPANA A RAVENNA: ALLIEVO DEL 40º
REGGIMENTO FANTERIA DAL 4 GENNAIO
DEL 1903 AL 4 AGOSTO DEL 1904
La notizia che vuole Dino Campana nei primi otto mesi del
1904 presso l’Accademia Militare di Modena è infondata ed
inequivocabilmente smentita dai dati del Registro di Leva del
Distretto militare di Firenze, “anno 1885”, e da altri documenti
che dimostrano come il poeta non frequentò l’Accademia militare e non pensò mai di diventare ufficiale superiore in servizio permanente. Una comunicazione del Distretto militare di
Firenze, 18 dicembre 1903, avvisava: «il giovane Campana
Dino… che la domanda da lui inoltrata per l’ammissione nel
plotone allievi Ufficiali del 40º Reggimento Fanteria, di stanza
in Ravenna, venne accolta favorevolmente e che dovrà trovarsi
alla sede del reggimento stesso il giorno 4 Gennaio prossimo
alle ore 9». Campana fu dunque allievo ufficiale volontario a
Ravenna. Questo importante particolare certifica come il poeta
di Marradi volesse diventare, almeno per il periodo della ferma obbligatoria, sottotenente, ovvero, quello che oggi definiamo un ufficiale di complemento. Il plotone allievi ufficiali di
cui fece parte costitutiva, fra l’altro, un distaccamento del 40º
Reggimento Fanteria “Bologna”: istituzione militare che dal 1900
al 1905 ebbe sede a Bologna, da cui prese il nome per esservi
stata costituita durante la seconda guerra d’indipendenza. Il foglio matricolare di Campana e il registro per l’estrazione della
leva della classe 1885, documenti conservati presso l’Archivio
di Stato di Firenze, sono chiari al riguardo. Campana, “Possidente” e “benestante”, secondo documenti inediti dell’ Archivio della Provincia di Firenze, stava svolgendo il servizio
militare a Ravenna dopo aver deciso di anticiparlo di un paio
d’anni e di compierlo come sottotenente. Il Poeta aveva approfittato di particolari agevolazioni previste dalle leggi e dai regolamenti del tempo per facilitare l’ingresso temporaneo nei
quadri inferiori dell’esercito ai giovani di buona condizione
sociale. La decisione di diventare ufficiale subalterno, in linea
con il personaggio, anche Rimbaud fu soldato volontario, va
correlata con la iscrizione alla Facoltà di Scienze dell’Università
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di Bologna. Nell’autunno del 1903 Campana, matricola a chimica pura, presenta la domanda di arruolamento come consentiva l’art. 48 della Legge sul Reclutamento al 40º Reggimento
Fanteria “Bologna”, direttamente «al corpo nel quale aspira[va]
prestare servizio». Questa scelta molto probabilmente fu determinata dal bisogno profondo di sentirsi accettato e di rientrare
nella “normalità” (Più tardi nel 1911 cercherà di ottenere l’ammissione agli esami di concorso per la carriera di allievo delegato di pubblica sicurezza) e dalla consapevolezza che, una
volta rientrato al reggimento bolognese dopo aver seguito il
corso allievi ufficiali presso il distaccamento di Ravenna, avrebbe potuto studiare con maggiore serenità usufruendo della maggiore libertà e indipendenza di cui godevano i sottoufficiali
rispetto ai soldati. Sul foglio matricolare si può leggere come
Campana (classe 1885) si arruolasse prima del tempo e fosse
inserito nel contingente dei nati nel 1883. Il 4 aprile 1904 conseguì i galloni rossi di caporale. La riga successiva del documento riporta la seguente annotazione: «Cessò dalla qualità di
allievo ufficiale per non aver superato gli esami al grado di
sergente, lì 4 agosto 1904». Campana, da Ravenna, fu rispedito
direttamente a casa senza nemmeno aver ottenuto il grado
intermedio di sergente. Sempre sul suo foglio matricolare si
legge: «Prosciolto dal servizio per applicazione dell’art 353
dell’Istruzione complementare al regolamento sul reclutamento». Questo articolo racchiude forse le vere ragioni dell’espulsione di Campana dal corso allievi ufficiali: problemi
caratteriali, il manifestarsi dell’irrequietezza e dell’impulsività?
Oppure, progressiva disaffezione da parte sua per quella vita
in divisa fatta di interminabili addestramenti quotidiani all’uso
delle armi e di lezioni ripetitive sull’impiego tattico e strategico della fanteria? Le autorità militari rilasciarono, tuttavia, una
dichiarazione di buona condotta, poi trascritta sul suo foglio
matricolare che gli avrebbe consentito, una volta giunto il
momento della chiamata del contingente di leva al quale apparteneva, di poter completare l’adempimento del servizio
militare nel Regio Esercito con il grado di caporale. L’anno
seguente, con dieci giorni di preavviso, Campana fu chiamato
alle armi, e il 24 novembre 1905 si recò alla Caserma del
Carmine di Firenze, dove richiese ed ottenne il rinvio di un
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anno del servizio militare per motivi di studio. Dopo undici
mesi, leggiamo ancora sul foglio matricolare: «Chiamato alle
armi per prestare il servizio con la classe 1886 e non giunto
perché ricoverato al manicomio di Imola, lì 23 ottobre 1906».
L’undici novembre Campana fu congedato d’ufficio, pur mancando la sua firma in calce al verbale (“dichiarazione Mod. 46”)
redatto dalla competente commissione d’inchiesta. I due ufficiali e l’ufficiale medico della suddetta commissione stimarono
superfluo un viaggio fino a Imola per vedere il caporale Campana che venne congedato “perché al manicomio”. Ciò nonostante Campana «Nel 1915 partecipa alla campagna
interventista» e si presenta al Distretto militare di Firenze perché vuole arruolarsi come volontario per il fronte ma, dopo un
accertamento delle sue condizioni presso l’Ospedale militare del
Maglio, viene riformato una seconda volta. Campana non si
arrende. Dopo due anni, qualche settimana prima di essere ricoverato nel manicomio di Castel Pulci,
da dove non uscirà
più, tenta nuovamente
ed invano la via dell’arruolamento volontario. I documenti confermano quanto Campana
racconterà al Pariani e cioè che era stato riformato tre volte: l’ultima il 19 dicembre del 1917. Dino
Campana morirà il 1 marzo 1932. Per una svista
assai curiosa, non la sola, il timbro “mandato in
congedo assoluto” è della fine del 1945, quando lui era morto ormai da più di tredici anni.
Piero Strada
“Immagini del viaggio
e della montagna” 1992
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LUIGI BANDINI E DINO CAMPANA
A noi il prof. Bandini è carissimo non solo per il suo alto fascino culturale, ma anche per l’attenzione quotidiana dedicata al
caro amico, scorbutico quanto si vuole, ma sempre amico, Dino
Campana. Il poeta orfico, potè infatti pubblicare a Marradi, nel
1914, i suoi Canti Orfici grazie al grande interessamento dell’amico “Gigino” che aveva colto tutta la sublimità di quell’impegno poetico. Fu proprio Bandini che trattò con lo stampatore
Bruno Ravagli e lo persuase a stampare la poesia campaniana
che rivoluzionerà il ‘Novecento’ culturale italiano e mondiale.
È Lui, infatti, insieme a Camillo Fabroni il testimone del contratto di Campana con lo stampatore Bruno Ravagli, è lui il
garante per gli impegni assunti dalle parti. Sì lui, l’amico carissimo di Dino il quale, da Berna nell’autunno-inverno del 1913,
in preda ad una crisi dell’animo profonda, gli inviò il manoscritto dei “Notturni” come al solo essere che avrebbe saputo
leggerli e capirli, come il solo che avrebbe potuto aiutarlo. E lo
aiutò. Luigi Bandini, “Gigino”, era pregato anche dal padre di
Campana, Giovanni, il quale lo considerava il solo capace di
fare qualcosa di buono e di bello per il suo disgraziato figliolo.
Bandini era considerato a buona ragione il più idoneo e il più
capace di dare risposte soddisfacenti a tutti coloro che, ragguardevoli o meno, chiedevano notizie sul Poeta e sulla sua poesia.
Anche il sindaco del Paese indicava il professor “Gigino” a
quanti desideravano essere informati sul poeta dei Canti Orfici.
Le testimonianze più significative del rapporto fra Bandini e
Campana si possono rinvenire nelle “carte Bandini”, come il
biglietto da Berna senza data, probabilmente dell’autunno del
1913, che preannuncia l’invio del manoscritto dei Notturni.
Contratto per la stampa del libro Canti Orfici (presso la Tipografia Bruno Ravagli di Marradi):
Io sottoscritto m’impegno di stampare mille copie del libro Canti
Orfici del Sign. Dino Campana entro il mese di Luglio p.v. alle
seguenti condizioni:
Primo: il prezzo combinato è di Lire quaranta al foglio di sedici pagine ciascuna delle quali avrà un formato di stampa di
centimetri sedici per sette in caratteri corpo dieci. La copertina
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dovrà essere in carta a mano grigia con titolo in rosso. Il libro
sarà legato e pronto per vendere.
Secondo: all’atto del contratto mi vengono versate Lire
centodieci (110) e per garanzia del restante mio avere il signor
Campana mi lascia in deposito le copie stampate che io conserverò fino a che non mi sia ricoperto del mio avere mediante
la vendita. M’impegno però a far pervenire appena stampate
venti copie all’autore e di consegnare ai componenti la nota
dei sottoscrittori consegnatami e da me e dai signori Campana
e Bandini firmata le quarantaquattro copie già pagate.
Terzo. Il prezzo del libro è di lire due e cinquanta ai rivenditori solamente concederò lo sconto in caso però se entro il 1914
non mi sarò interamente ricoperto del mio avere avrò piena
libertà di vendita a qualunque prezzo.
Data del presente contratto sette Giugno Millenovecentoquattordici, sottoscritto in Marradi Bruno Ravagli accettato in ogni
sua parte da me Dino Campana
Luigi Bandini testimoni - Fabroni Camillo teste.
Degna di nota la cartolina postale del padre di Dino Campana,
Giovanni, a Bandini in risposta alla cartolina e alla lettera di
Bandini a Giovanni Campana del 1924 e la lettera di Bandini a
Giovanni Papini l’11 marzo del 1927 nella quale l’amico di Dino
dice:
“...Grande è stato l’influsso che Ella ha avuto sulla mia anima,
e più in verità, per quello che è stato in passato che non per
quello che è attualmente... L’uomo Papini. Influsso che ella non
ignora quanto sia stato potente in tutta la gioventù italiana di
allora. Allora io parlavo di Lei con un mio compaesano che
Ella ha ben conosciuto, infelicissimo amico... Dino Campana. E
merito mio se è stato salvato quel poco che egli ha prodotto,
attraverso quell’orribile edizione di “Canti Orfici” che Ella conosce; brutta quanto si vuole, ma pure la sola che gli riuscì di
far stampare. Merito mio intendo per questo; che è dubbio se,
senza una mia paziente opera di mediazione ininterrotta, lo
stampatore l’avrebbe portata a termine... Aveva mandato a me,
non completo, il manoscritto dalla Svizzera. Temeva che gli
venisse sottratto dalla polizia, o temeva forse per la sua vita
stessa; conservo il biglietto piuttosto enigmatico con il quale
mi preavvertì dell’invio. Poco dopo giunse lui stesso in Paese...
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Un giorno mi disse: “Non hai detto che le mie cose ti piacciono? Dunque se sei meno fetido filisteo di quello che in verità
sembri, mi devi tu stesso aiutare per farle pubblicare... In lui,
così come io l’ho conosciuto, c’era, non l’incapacità di distinguere fra sogno e realtà, che sarebbe stata già follia, ma come
un sordo perpetuo rancore verso la necessità della distinzione.
Era come se egli volesse la realtà concreta del suo fantasma
poetico, e, nonostante ogni evidenza, non si adattasse al fallimento di questo suo volere... Dirò che gli diveniva realmente
vissuta l’esperienza, il mito dell’anima divina, eterna, universale, impigliata nei lacci di una realtà, non straniera, ma fattasi
lontana; dell’anima esule decaduta? Certo qualche cosa di molto
vicino a questo era in lui, in quella sua ansia di liberazione.
Ma era piuttosto un gran senso panico, per cui dovevano le
cose stesse liberarsi con lui, assurgendo con lui al cielo lirico,
partecipi d’eternità. E quando il miracolo si compiva, quando
la risposta agognata gli veniva dalle cose, la sua anima celebrava vere feste di felicità.”
Al marradese Bandini la letteratura italiana deve molto più di
quanto qualche pseudo intellettuale dei giorni nostri, avvezzo
a rincorrere il luogo comune di una Marradi tutta ostile a
Campana, non immagini neppure lontanamente. A questi
cultori dell’improvvisazione e della superficialità, che scrivono
senza sapere, consigliamo un viaggio di approfondimento dentro le carte Bandini e dentro i documenti conservati presso il
Centro Studi Campaniani di Marradi. Proprio a Falqui dobbiamo muovere un appunto, nella sua cronistoria ci riferisce che
ad un certo punto Campana «combina con il tipografo locale
Bruno Ravagli la stampa dell’opera». Ma come sarebbe stato
possibile per il poeta, spiantato, senza una lira in tasca affrontare quelle ingenti spese? Ebbene c’era stato allora un vero,
grande amico per Campana: Luigi Bandini afflitto da una grave deformità fisica, ma di rarissima intelligenza. Allora studiava
da solo e sarebbe diventato un filosofo che alcuni oggi ancora
ricordano per un prezioso e corposo saggio su Shaftesbury, e
perché fu lui ad inaugurare la collana dei saggi di Einaudi, con
«Uomo e valore», una riaffermazione della dignità dell’uomo
nell’imperante fascismo, un manifesto morale per i giovani
intellettuali di allora. Giuliano Innamorati, avuti dall’erede del
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Bandini gli inediti, li pubblicò su Paragone Letteratura (n. 90/
1957) accompagnandoli da un’esegesi critica del testo.
Dunque nella vita disperata del poeta ci fu qualcuno che ebbe
veramente fede in lui, un qualcuno così poco importante da
non meritare di essere scovato e citato dal Falqui nella sua
cronistoria dei Canti Orfici, un qualcuno così poco importante
senza il quale forse i Canti non avrebbero visto la luce.
Sono cose che capitano ai poeti veri, a quelli che vengono riconosciuti dopo la morte e sono cose che capitano a chi aiuta i
poeti al di fuori dell’economico «do ut des» delle amicizie letterarie.
Giovanni Costetti “Ritratto di Dino Campana” 1913
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“CAMPANA DAL VIVO”
In occasione della ricorrenza del settantesimo anniversario della
morte di Dino Campana, (Castelpulci 1 marzo 1932), il Centro
Studi Campaniani pubblicò il libro curato da Pedro Luis Ladrón
De Guevara Mellado, Campana dal vivo. Nel libro il ricordo del
Poeta scorre nella memoria di molti coprotagonisti della vicenda umana e letteraria di Dino Campana, amplificandosi ed imprimendosi nella fantasia del lettore che diventa attento
ascoltatore delle testimonianze narrate che concorrono a realizzare quel Campana dal vivo che è l’obiettivo di fondo che Ladron
De Guevara insegue con intelligenza e profonda conoscenza. Il
centro campaniano, ha partecipato con grande convinzione a
questa originale operazione culturale che De Guevara ha pensato e realizzato. Campana è indubbiamente mito e spesso i confini tra realtà, immaginazione e sogno sfumano a tal punto da
consentire diversi e variegati modi di interpretare e di farsi coinvolgere dalla lirica e dalla vicenda campaniana fino a consentire
le più impensabili trasfigurazioni dello scorrere effettivo e del
susseguirsi drammatico ed ironico della breve vita del grande
marradese. Sarebbe meglio continuare il percorso senza voltarsi
indietro ma noi, con Orfeo, preferiamo volgere lo sguardo alla
conoscenza anche a rischio di rimanere impietriti. La vita dell’autore dei Canti Orfici attraversa fisicamente la nostra quotidianità e questa è una grande fortuna, un vero privilegio che ci
impone di corrispondere con uno sforzo di sempre maggior
conoscenza, di ulteriore produzione e divulgazione di tutto
quanto può servire ad offrire Campana dal vivo ad una platea
sempre più ampia di amanti della poesia alta e pura. II colore,
la musica, l’arte materica sono palpabilmente presenti in Campana che li trasfigura in un simbolismo onirico, ma nel contempo
autenticamente vero. De Guevara, che è uno dei più attenti conoscitori del valore dei colori nella poetica campaniana, con
questo importante lavoro ci offre tutte insieme queste preziose
testimonianze e questi scritti sulla vita e sulla poesia dell’ultimo
“grande poeta barbarico”, magico interprete di una terra in cui si
fondono i tratti di una antica cultura etrusca con quella celtica per
dar vita ad una poesia dove i valori classici ed una grande modernità si compenetrano in una forma ed in una purezza irripetibili.
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IL CATALOGO DEGLI SCRITTI:
IMPORTANTE BIBLIOGRAFIA CAMPANIANA
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, ha assegnato al Centro Studi Campaniani di Marradi il Premio della Cultura. L’ambitissimo
riconoscimento ha premiato la nostra attività che, mai come nel
quinquennio 1998-2003 aveva prodotto un contributo così importante di ricerca e di studio sul grande poeta di Marradi.
Questo approfondito e minuzioso lavoro di catalogazione
bibliografica, curato con pazienza da Franco Scalini, ha concluso un periodo d’oro dell’attività editoriale del Centro e segnato l’inizio di nuovi e sempre più prestigiosi impegni a favore
degli studiosi e degli appassionati di Dino Campana.
Il “catalogo degli scritti”, pubblicato insieme ad una appendice che ha incuriosito i ricercatori e gli studiosi ad ulteriori esplorazioni “nell’universo campaniano”, è stata la prima, minuziosa
e completa bibliografia, dopo quelle che ci offrirono insigni
campanisti come: Enrico Falqui nell’ormai lontano 1960 e nel
1973, Cesare Galimberti nel 1966, e Antonio Corsaro e Marcello
Verdenelli nel 1985 in occasione del centenario della nascita di
Dino Campana. Il catalogo curato da Franco Scalini integra, per
numero e per qualità di riferimenti, le precedenti fatiche e
aggiorna la bibliografia al 2002. Non solo abbraccia il periodo
compreso fra il 1912 ed il 2002, ma è tutto riferito a materiali
consultabili presso il “Centro Studi Campaniani Enrico
Consolini”.
In questi anni l’attenzione nazionale ed internazionale su Dino
Campana, sugli Orfici, sul Taccuinetto, sul carteggio, sia pure
con chiavi di lettura diversificate, ha incoraggiato una miriade
di iniziative su Campana e la sua poetica ed ha determinato
una diffusione popolare della figura e della poesia del “grande
marradese” soprattutto fra le giovani generazioni.
Iniziative e confronti culturali di grande profilo, come il Convegno organizzato dall’Università degli Studi di Macerata
“o poesia tu più non tornerai: Campana moderno” al quale
il Centro ha dato il suo contributo e del quale sono stati
pubblicati gli “atti”, e pubblicazioni come quella che abbiamo
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proposto agli studiosi, ai ricercatori, a tutti gli appassionati della
poesia campaniana rappresentano gli strumenti indispensabili
per il difficile, ma nello stesso tempo piacevolissimo, percorso
del sapere campaniano.
Gian Ruggero Manzoni “A Dino Campana” 1997
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DA MARIO BEJOR A
“LADRA POESIA” DI FRANCESCO
Oltre a suonare il piano Campana doveva seguire i corsi di
Chimica a Bologna dove ebbe fra i suoi amici Mario Bejor autore
di Dino Campana a Bologna 1911-1916, nonno di Francesco
cantautore e poeta che ha reso con la Canzone “Ladra Poesia”,
quello che con modestia eccessiva definisce “piccolo omaggio
al Poeta”. La scelta di Francesco Bejor di scrivere una canzone
dedicata al poeta marradese nasce da una storia familiare, da
un processo osmotico che vede un nipote ricordare, attraverso
il velo di un grande poeta, la vita e le esperienze del nonno
Mario. Mario Bejor, fu collega d’Università di Dino Campana
e scrisse il testo dedicato al periodo bolognese del poeta, ultimato il 29 dicembre 1941 edito in cinquecento copie numerate
dalla società tipografica editrice di Bagnacavallo nel settembre
1943. Il CD, edito dalle edizioni musicali e discografiche
Galletti-Boston di Faenza, è stato realizzato grazie alla Cassa
di Risparmio di Ravenna, il Centro Studi Campaniani “Enrico
Consolini”, il Circolo e l’Accademia degli Incamminati. Le
parole e la musica di Bejor sono state impreziosite dall’arrangiamento del musicista Pape Gurioli, che vi ha inserito richiami musicali di grande spessore culturale, che traggono
ispirazione dalla vita di Campana e dalle sue poesie. Vi troviamo Genova, (il fischio di un piroscafo, dà l’inizio al Brano),
poi il tango argentino, per ricordarci la “Pampa” vista da Dino,
il tutto intessuto di modernità e di futurismo. Ad eseguire le
musiche un gruppo di giovani musicisti, alcuni dei quali hanno partecipato agli MTV Music Awards con Laura Pausini:
Fabio Sartoni (marradese) alla batteria, Mirko Guerra chitarre,
Camilla Missio contrabbasso elettrico, Stefano Fariselli sax soprano. Alla stesura dei cori di Annamaria Rizzi ha partecipato
Martino Giorgini. La parte grafica del CD, curata dal Laboratorio immagine di Giampaolo Ossani, utilizzando una stampa
realizzata per il salone del libro di Parigi del 2003, che ritrae Campana nella foto di gruppo del Liceo Torricelli di
Faenza, risce a dare graficamente l’idea, affiancando a lato
del poeta Francesco Bejor ed il nonno Mario, di quel
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processo osmotico, di quel velo, che è stato l’ispirazione,
l’incipit, di questo lavoro.
“…il vecchio amico DINO CAMPANA” è la dedica con la
quale si apre il libro di Mario Bejor ‘Dino Campana a Bologna
1911-1916’.
“…Comparve fra noi, se la memoria non m’inganna, sul finire
dell’inverno 1911-12; portato dalla comune origine regionale,
non da preesistenti amicizie. In sul principio ci trattò in massa
più come un elemento a lui necessario che variata compagnia
nella quale inserirsi. Noi si formava un gruppo di giovani sui
venti-ventitrè anni, liberi dai legami di famiglia, i più, venuti dalle
province limitrofe, iscritti all’Università e affratellati dall’amore
dell’arte. Ristretti a mezzi, tanto da obbligarne qualcuno nelle
strettoie d’un impiego, si trascorreva la sera, e quasi sempre pure
la notte, ad eccitare i nostri sogni in atteggiamenti, espressioni,
confidenze ad ognuno diversi e caratteristici; ma che portavano
commiste l’influenze accentuate di D’Annunzio – L’immaginifico,
Corrado Brando, La Voce, il Quartier Latin.
Pasti da ottanta centesimi alla “Cervetta”, stretti, a gomito a
gomito, attorno alla tavola circolare, che ospitava noi emilianiromagnoli, in faccia a quella rettangolare dei calabri-siciliani.
Quanta freschezza di spirito, scintillio d’ingegno sprizzavano e
s’intrecciavano in quell’umile, appartata camera, durante quei
pasti frugali! “...passar filosofi e poeti...”
Sfide tumultuose al gioco del bigliardo e delle carte, nelle quali il freddo interesse cedeva al prorompere di vivacissime discussioni politiche e letterarie, a pirotecnici, fantastici programmi
di divertimenti e simposi, a progettate estrose avventure galanti. Serotini ritrovi in via Rizzoli, al bar “Ideal” soprannominato da noi “delle vergini”, dove il nostro elemento
imperava e manteneva un regime d’esuberante chiasso. Passeggiate agresti notturne o prolungate permanenze in case
ospitali. Ecco come si spendeva il nostro massimo impulso
vitale: “Era il maggio odoroso; e tu sollevi così menare il
giorno!”
Al quale impulso, una disinteressata, nebulosa idealità comune, dava un tocco di grazia anche nei momenti più bruschi.
In una sera dunque, mentre, dopo cena, si passeggiava sotto i
portici solitari di via Farini, accennando in coro a stornelli to-
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scano-romagnoli, ecco mettersi a capo del gruppo uno, improvvisamente apparso: aspetto campagnolo, tarchiato, capelli fluenti sulle spalle alla decadente, barba corta rossigna,
cappelluccio tondo e stivali rozzi; e con voce stentorea, alternata di toni gravi ed acuti, battendo il grosso tacco ritmicamente
al canto, richiedere a gesti risoluti, imperiosi da noi una serietà
ed un impegno da corale liturgico. Amava, come poi dimostrò,
il canto, nel quale espandeva tutto sé stesso: canto popolare,
portato giù dai suoi monti di Marradi e di Palazzuolo. E ne
ricordava altri, primordiali nenie, raccolti in Argentina; ma
questi ultimi preludevano a tristezze gravi, improvvise, nelle
quali s’immiseriva, taciturno.
Mi fu presentato da Olindo Fabbri, di Sarsina; mite, caro compagno, al quale la sorte, col suo indifferente piede, portò la
stessa morte dell’altro. Questi, già randagio studente di chimica-farmaceutica, ancora i selvaggi venti dei suoi monti, delle
pampas, dell’oceano fra i capelli; Olindo, mite pascoliano, iscritto in lettere all’Università ed impiegato alla Cassa di Risparmio per scarsezza di mezzi; io – gli studi presto troncati –
sorretto dalla retribuzione d’un modesto impegno, formammo
in breve un piccolo nucleo nel gruppo e la reciproca simpatia
fece sbocciare le confidenze.
Per la verità, Campana, sciatto all’aspetto e rude nei modi, non
destava simpatia; ma la sua personalità artistica, decisamente superiore, ed il completo disinteresse nelle cose dello spirito come
negli atti della vita, s’imposero alla mia ammirazione. Il mio sereno riconoscimento, la mia schietta umiltà gli diedero la certezza dei miei sentimenti; ed egli, diffidentissimo sotto manifestazioni
d’ingenua semplicità infantile, trovò in me un appoggio morale
e mi si legò di vera amicizia. Abitavo allora in via Castiglione, in
una piccola camera affittata, piano terreno, la finestra posta in
alto, aperta sotto il portico. Dino non suonava mai alla porta; ma
con un balzo s’aggrappava ad una sbarra dell’inferriata, ed issandosi su lo sporto del parapetto – a scapito dei vestiti e delle
scarpe, che incalcinava – tamburellava per richiamo sui vetri.
Mario Bejor racconta ancora quando Campana, studente di
chimica all’Università di Bologna, trovandosi un giorno casualmente alla stazione ferroviaria, vide in partenza il treno per
Milano: “Sentii che in quello fuggiva la mia vita! Vi balzai su,
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e non avendo che due soldi in tasca, mi nascosi nel gabinetto
e mi vi chiusi fino a Milano. Passai poi in Svizzera a piedi; e
di là a Parigi”. Campana considerava Parigi il centro della più
alta ed intensa espressione letterario-artistica dell’epoca: “Là
pulivo le vetrine per mangiare e m’accomunai a tre nichilisti
russi: due uomini ed una donna”.
Al ritorno a Bologna, voleva studiare lettere.
Nutriva per il professor Galletti un rispetto di scolaro a maestro; ben raro a trovarsi, ed addirittura incredibile in uno scapigliato di tale fatta; ma in lui si nascondeva, gettato in fondo,
un grande timido.
Una sera però in camera mia, mentre come al solito si preparava una macchina di caffè, del quale era ghiottissimo e
che beveva a mezzi litri gli avvenne di propagare l’accensione al bottiglione dell’alcool, pieno d’essenza. La fiamma
sprizzò livida fuori in lunga lingua con un rumore, che
annunciava a me, inesperto, catastrofi. Campana, calmo,
guardò, poi col grosso dito pollice tappò la bottiglia. Tutto
si spense; niente scoppiò. E a me, muto “Sono stato studente di chimica”.
Bejor ricorda di Dino Campana come sui monti di Marradi,
avesse inseguito giovanette e ragazze, barbaro e selvaggio,
“spaurendo quelle e ponendole in angosciosa fuga” e come
invece a Bologna “contrapponendosi al costume dei compagni, mai s’abbandonò a facili, carnali, venali amori; anche quando per condiscendenza seguì la compagnia, e tanto
meno li desiderò. Certe donne, che una volta erano le prime a riempire la vuota forma muliebre, scottante nel cuore
e nei sensi dei giovani, gli erano necessarie nel paesaggio
suo poetico; e non oltre.
Prediligeva Verlaine del quale aveva tradotto poesie con tale
aderenza e perfetta espressione poetica italiana da sfidare le
simili magie di D’Annunzio. Nella traduzione de “II bacio” di
Verlaine che Campana dedica alla cuginetta “la bellezza nobile
del verso rivestiva la chiara espressione dei parigino, rendendo
la poesia migliore dell’originale. Se avete presente il ritratto di
Rimbaud schizzato a penna da Verlaine, rileverete il portamento,
l’acconciatura – più la barbetta –, il vestire simili di Campana; ma questi non ebbe mai concetti od espressioni
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borghesi commisti all’arte, come invece avvenne sovente a quei
decadenti anche quando toccarono il sublime”.
IL BACIO
Baiser! Rose trémière au jardin des earesses!
Vif accompagnement sur le clavier des dents!
Des doux refrains qu’Amour chante en les coeurs ardents
Avec sa voix d’archange aux langueurs charmeresses?
Sonore et gracieux Baiser, divin Baiser! Volupté nonpareille,
ivresse inénarrable! Salut! l’homme, peuché sur ta coupé
adorable, S’ y grise d’ un bonheur qu’ il ne sait épuiser.
Comme le vin du Rhin et comme la musique,
Tu consoles et tu berces, et le chagrin
Expire avec la moue en ton pli purpurin…
Q’un plus grand, Goethe ou Will, te dresse un vers classique.
Moi, je ne puis, chétif trouvère de Paris,
T’offrir que ce bouquet de strophes enfantines:
Sois bénin et, pour prix, sur les lévres mutines
D’Une que je connais, Baiser, descends, et ris.
Antenore Rovesti “Faenza” 1997
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CAMPANA: “IL RUSSO” TORNA A CASA
L’associazione faentina Cosmopolite è stata artefice della collaborazione fra Ipertesto ed il Centro Studi Campaniani di Marradi. Grazie a Cosmopolite che opera ispirandosi a principi di
solidarietà, di tutela della dignità delle persone e interviene in
particolare nell’area dell’Europa Orientale, che ha fatto da tramite fra l’editore della federazione russa Igor Abramicev, che
fra l’altro parla un buon italiano, ed il Centro Studi Campaniani
di Marradi, nel n. 2 della rivista Ipertesto, a pag. 28 e 30 compaiono due articoli critici sulla Poesia di Dino Campana e a
pag 33 una scheda sul Centro Campaniano di Marradi, tutto
rigorosamente in caratteri cirillici. La rivista letteraria Ipertesto
è distribuita nella città di Ufa, capitale della Repubblica Autonoma di Bashkiria nella Federazione Russa, un milione e
centomila abitanti, 1200 chilometri circa ad est di Mosca. Evidentemente l’editore Abramicev, estimatore di Campana, è rimasto affascinato da “il Russo”, violinista e pittore. Curvo
sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente… La penna scorreva, strideva spasmodica: perché era uscito per salvare altri
uomini? Curvo, sull’orlo della stufa la testa barbuta, il russo
scriveva, scriveva, scriveva…”
Fuori dalla prigione il poeta ha di nuovo un contatto con una
umanità misera e derelitta. “In un ampio stanzone pulverulento
turbinavano i rifiuti della società”, questi esseri umani vengono osservati da Campana, il quale però non riesce a trovare un
punto di contatto con loro e ciò gli provoca un senso di
estraneità. Questi uomini, che rappresentano il lato della poetica campaniana più infernale e maudit, si oppongono in modo
netto e profondo all'ammirazione del poeta per la natura intatta e vigorosa del Sud America o per le altezze spirituali della
poesia. Questi esseri umani dai volti disfatti dal vizio e dalla
lussuria, incarnazioni di un'umanità gretta, diventano simbolo
di una parte dell’anima di Campana e quindi ne sono quasi
un ritratto. L’autore sa di appartenervi, sa che il suo essere è
scisso in due parti, una tesa al sublime e alla perfezione della
creazione poetica, l’altra frequentatrice di bassi fondi e osterie
malfamate.
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“Il russo”, in questo passo, è proprio l’emblema di questa condizione: delinquente, in carcere come Campana, ma allo stesso
tempo scrittore che nei suoi lavori trascrive tutta la sua sofferenza e il dolore della vita.
“In un angolo una testa spasmodica, una barba rossastra, un
viso emaciato disfatto, coi segni di una lotta terribile. Era il
russo, violinista e pittore. Curvo sull’orlo della stufa scriveva
febbrilmente. Su quest’uomo grava la colpa, la colpa per qualcosa che non è specificato e diventa quindi colpa universale e
generale, quasi una condizione inscindibile dall’esistenza”. I frati diventano, con la loro presenza maligna e diabolica i garanti
di questa colpa e quindi condizione necessaria perché la colpa
esista.
Russo era condannato. Da diciannove mesi rinchiuso, affamato, spiato implacabilmente doveva confessare, aveva confessato. E il supplizio del fango! Con la loro placida gioia i frati, col
loro ghigno muto i delinquenti gli avevano detto quando con
una parola, con un gesto, con un pianto irrefrenabile aveva a
volta a volta scoperto un po’ del suo segreto.
Campana si sente solidale verso “il russo”, perché sente di condividere con lui la stessa condizione di dolore.
“Parlava: quando, mentre mi fissava cogli occhi spaventati e
vuoti, io cercando nel Fondo degli occhi grigio opachi uno
sguardo, uno sguardo mi parve di distinguere, che li riempiva:
non dì terrore: quasi infantile inconscio, come di meraviglia”.
Dalle sbarre della sua cella, Campana osserva lo sbocciare della primavera e nel rosso crepuscolo, il suo sguardo si perde
per la città turrita. In quest’ultima parte domina il colore rosso, simbolo di sangue: “il Russo era stato ucciso”. L’apoteosi
della religione cristiana sembra essersi compiuta, il Russo come
Cristo, diventa agnello sacrificale per salvare l’umanità dai suoi
peccati. Vittima di un crudele destino.
“Il pulviscolo d’oro che avvolgeva la città parve ad un tratto
sublimarsi in un sacrificio sanguigno… Una dolcezza acuta, una
dolcezza di martirio, del suo martirio mi si torceva pei nervi.
La penna scorreva strideva spasmodica: perché era uscito per
salvare altri uomini?”
Campana come il Russo trova nella scrittura e nella creazione
artistica l’unico modo per esorcizzare il grumo interiore di
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dolore esistenziale “…In quanto poeti e scrittori essi sono
veggenti, ovvero riescono a vedere oltre le apparenze sensibili
per penetrare nei misteri dell’esistenza, riescono a decifrare i
geroglifici della vita e a coglierne l’essenza, ovvero, il dolore”.
Il brano si chiude con frasi ironiche e beffarde, per sottolineare
il cinismo con cui il martirio degli uomini si compie: “Non essendovi in Belgio l’estradizione legale per i delinquenti politici
avevano compito l’ufficio i frati della Carità Cristiana”.
Iller Incerti “Il Russo” 1991
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ARTISTI PER DINO CAMPANA 1998
Realizzare quel catalogo che come Centro Studi abbiamo patrocinato, promosso e pensato, è stato indubbiamente un traguardo molto importante. Dare vita ad un Museo d’arte
contemporanea ispirato ai “Canti Orfici” ed alla poesia
campaniana è una ambizione che abbiamo perseguito con grande determinazione e con grande impegno poiché avevamo ed
abbiamo chiaro il concetto di come la poesia di Dino Campana
sia universalmente riconosciuta per la sua purezza e per il suo
afflato artistico perché si fonde nella musica e nei colori che
evoca, nei sentimenti e nelle sensazioni che stimola, nella ricchezza di cultura che esprime.
Dopo avere indirizzato la nostra opera di ricerca e di studio ai
documenti d’archivio, dopo esserci occupati della ristampa
anastatica dei Canti del 1914, della produzione teatrale ispirata
a Campana, dell’allestimento della mostra permanente, delle
pubblicazioni e dei documenti e del Premio letterario, realizzammo quella esposizione d’arte contemporanea che, dopo la
fase itinerante che ha coinvolto città e luoghi campaniani, ha
trovato una definitiva collocazione a Marradi, in quell’edificio
scolastico che vide Campana alunno all’inizio del ‘900 ed il
padre Giovanni e lo zio Torquato insegnanti.
Il colore di Dino Campana ha trovato e trova quindi una sua
naturale continuità nelle opere degli artisti che hanno voluto
aderire al nostro progetto e che non finiremo di ringraziare di
cuore insieme a Matilde Hernandez, appassionata e competente studiosa campaniana e fervida ispiratrice del progetto. Del
progetto per il museo il catalogo è il documento fondamentale
e per la sua preziosità va ad arricchire il patrimonio campaniano
che il Centro Studi, di concerto con il Comune di Marradi, si
prodiga per difendere ed accrescere.
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FANTASIA SU UN QUADRO
D’ARDENGO SOFFICI
Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D’America: la rossa velocità Di luci funambola che tango
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfa:
Che guarda nel café chantant
D’America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé.
LE VELE LE VELE LE VELE
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza...
Ne l’ultimo schianto crudele...
Le vele le vele le vele
MARRADI
“Il vecchio castello che ride sereno sull’alto
La valle canora dove si snoda l’azzurro fiume
Che rotto e muggente a tratti canta epopea
E sereno riposa in larghi specchi d’azzurro:
Vita e sogno che in fondo alla mistica valle
Agitate l’anima dei secoli passati:
Ora per voi la speranza
Nell’aria ininterrottamente
Sopra l’ombra del bosco che la annega
Sale in lontano appello
Insaziabilmente
Batte al mio cuor che trema di vertigine.”
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ENRICO CONSOLINI E DINO CAMPANA:
“PANCREAS”
In occasione del decimo anniversario della scomparsa di Enrico Consolini, il Centro Studi a Lui titolato ha ritenuto di ricordarne la memoria con la ristampa anastatica di Pancreas
(Fantasie cosmiche 1970), la raccolta di scritti e poesie di Enrico Consolini, impreziosita da cinque fogli inediti scritti da
Enrico nel periodo 1984-1988.
Enrico rimarrà, per tutti noi, una grande ed indimenticabile
figura di intellettuale, uno studioso attento ed appassionato di
Dino Campana, cui Marradi deve l’idea e la realizzazione del
Premio letterario e le tante iniziative culturali che lo fanno ricordare per la sua passione civile, per la sua riconosciuta intelligenza e per il suo impegno di Sindaco. L’iniziativa editoriale
della quale ci siamo fatti carico non ha solo un intento
commemorativo, ma vuole soprattutto sottolineare come Pancreas, Fantasie cosmiche, il lavoro giovanile che Enrico fece
stampare nel 1970 quando aveva appena 25 anni, rappresenti
un modo ed uno stile straordinariamente elegante e maturo di
scrivere. La nitidezza ed i chiaro scuri, le tinte forti e le tinte
delicate della sua prosa e della sua poesia ricordano Campana
e Whitman. La sottile ironia che pervade l’opera di Consolini
rappresenta una delle caratteristiche umane ed oratorie che chi
ha conosciuto l’autore di Pancreas, coglie immediatamente.
La ristampa, che si deve alla preziosa collaborazione della sorella di Enrico, Marisa ed alla moglie Nara che ci ha concesso
cinque importanti fogli inediti di poesie e prose di Enrico nella
sua grafica semplice ed essenziale, vuole essere un importante
documento “marradese” da conservare gelosamente. I fogli
scritti da Enrico Consolini, nel periodo 1984-1988, sono pagine
letterarie e poetiche di grande valore ed interesse, si ricollegano
in una armonica continuità artistica e letteraria a Pancreas, ma
sono anche una testimonianza della ulteriore maturazione della sensibilità dell’autore, della sua attenta conoscenza dell’animo umano e dei sentimenti, del suo grande amore per la cultura
e della sua compiuta visione del mondo. È sempre Campana il
crocevia, quasi ossessivo, di Consolini che, meglio di ogni altro, sente ed interpreta quasi teatralmente la poesia del
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“grande marradese”. Per questo motivo nessuna iniziativa ci è
sembrata più appropriata per ricordare Enrico della pubblicazione di “questa parte del suo animo e della sua vita” che ci
sono mancati così prematuramente, lasciandoci ancor oggi una
grande nostalgia ed un grande rimpianto. Oggi coltiviamo l’idea
di rappresentare anche a Marradi, al Teatro degli Animosi, la
riduzione teatrale di “Pancreas” che un amico, un campaniano
autentico ed un affermato artista di Teatro, come Ugo De Vita
ha scritto e portato in scena.
LEONE
Io lo ricordo al sole
(Paralizzato sotto le logge)
Sulla vetta il leone
Vomita al sogno
La sua pace di metallo
Al vento (cigolando)
Dal campanile moro
Una Rapida mossa di volo
In viaggio verso i massi
Una sera finito il mercato
Si staccò una lacrima
Dalla cornice rotta
Di palazzo cannone
E cadde sulla piazza
Come un fulmine. Era lunedì
Ma sui cortili scavati
A beffeggiar l’alterigia patema
Dei monti abbattuti dalla spada
Calò una pace mortale
Come un lenzuolo insanguinato
Di sogni.
FIORI
Fiori membrane
E femmine puttane
Sul prato che sorride dottorale
L’ottica fonte della vanità (naturale)
Una fiumana di petali in cornice
Ricamati dalla psicologia disastrosa
Dei romantici di moda.
“Da Pancreas” “Fantasie Cosmiche” 1970
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DINO CAMPANA E SIBILLA ALERAMO:
“I GIORNI DEL VINO E DELLE ROSE”
Per il Centro Studi è stato, non solo doveroso, ma anche motivo di orgoglio concorrere alla presentazione di un lavoro di
un “campaniano” appassionato e tenace come Ivo Morini.
Un lavoro composito, fatto di azioni sceniche, di lettere da
riproporre teatralmente e di una selezione di liriche. Nel suo
sforzo di ricerca e nella sua produzione, Morini non poteva
ignorare una pagina affascinante, intrigante e altamente lirica,
quale quella scaturita dalla relazione fra Dino Campana e Sibilla
Aleramo. Morini conosce bene i luoghi che si trovano nelle
vicinanze di Firenzuola: Rifredo, Il Barco, Casetta di Tiara e
quindi ne intuisce, meglio di altri, l’influenza scenografica. Non
ci sorprendono quindi i risultati di questo suo lavoro che riesce a cogliere i toni di straordinaria poesia, che si confondono
e spesso sfumano in un autentico delirio amoroso, quali quelli
contenuti nello scambio epistolare fra Dino e Sibilla. Dalle lettere di Sibilla ricaviamo appassionate e tenere dichiarazioni
d’amore, ma anche sofferenza e dolore: “Dicevi ch’eri tu che
mi amavi, Dino! Sono io, sono io che amo te. Che dipendo dalla
tua vita. Non chiedo altro. Ti adoro. Vivo perché m’hai detto
che il mio amore, di cui non hai bisogno, ti è però caro. Adorato”. “Dino, io e te ci siamo amati come non era possibile
amarsi di più, come nessuno potrà mai amare di più ... Dino,
fa di salvare nella tua anima il ricordo del nostro amore, poiché non hai saputo voler salvare l’amore nella vita, fa di portarlo nell’eternità com’io lo porterò.” “Ho una grande
malinconia, un grande amore, una parola, non so quale, da dire.
Non so quel che la vita vuole da me. Se debbo resistere in
questa solitudine, in questa preghiera di ogni istante… rinunciare a vederti”. Siamo in presenza della testimonianza scritta di una
vicenda tragica che si chiuderà per Campana nel manicomio, non
prima però di aver espresso l’incanto della sua poesia, e per
Sibilla nel tentativo, per la verità frammentario, di intonazioni
e di spunti lirici. Dalle “lettere” emerge una irripetibile, interessante e contraddittoria idea della vita e dell’arte.
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Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti
Nella lettera della madre di Campana a Sibilla, la singolare
umanità del “figliolo” è fonte di ansie e di preoccupazioni,
anche economiche, dovendo la famiglia provvedere al sostentamento economico di Dino: “Solo chiedeva il suo mensile che
cera freddo e la spesa della legna in più. A posta corrente il
babbo gli mandò le trenta lire quindicinali… Circa il venti ebbe
le altre ottanta lire, e il primo di marzo altre trenta… È un benedetto figliolo che bene non può stare, ai nostri occhi, fa il
possibile per stare male e fare star male i suoi”. “Noi a nulla
siamo riesciti, solo vediamo che ha bisogno di mettere ad effetto quando dice di partire; ci siamo indotti a passarle quanto
le nostre misere forze lo permettono per evitare in lui e a noi
cose spiacevoli”.
Nelle lettere di Campana, che Sibilla giudica più tardi “il documento straziante della follia”, è la malattia a fondare la sua
condizione, di personaggio negativo, perché il poeta raccoglie
in sé tutti i valori negativi della società. Campana ostenta continuamente l’irregolarità, lo sradicamento, il vagabondaggio, la
solitudine, la sfortuna, l’indigenza, il carcere. “I’ai trop souffert
et quelque peu de mon sang est reste colle aux rochers de là
haut”, “Come sapete ho la testa vuota. Piena del vento iemale
che empie questa valle d’inferno”. “Ho sofferto molto più di
ora”, la speranza “di liberarmi da questa catena di dolori e di
miserie, di darmi il modo di andarmene lontano”. “Volevo
morire” “Sono troppo stanco e troppo ammalato”.
È l’inferno della malattia a compromettere ogni rapporto, a rendere impossibile l’amore tra il poeta, vittima della sorte e della
società del suo tempo, e Sibilla: “Povero Dino, come lo rivedo
sempre qual era, in quei giorni del nostro primo incontro,
immagine della felicità ebbra, e la follia ch’era in lui, non mi si
manifestò che un mese o due di poi, e per un anno la tragedia
avviluppò ambedue, in un diverso aspetto e grado. Perché non
ho mai scritto quella che è stata forse la storia più allucinante
della mia vita? Ho, adombrata la figura di Dino nel soggetto
di un film rimasto inedito, e anche in una sola “scena di Francesca Diamante.” “Penso a Campana, alle sue magnifiche membra d’atleta, che racchiudevano uno spirito che il vento della
vita spense. Tutta la sera m’è ondeggiata alla memoria l’immagine di lui, della sua pazzia, e quell’altipiano deserto, in quelle
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prime poche notti estive del nostro amore che son rimaste le
più pervase d’infinito ch’io abbia vissuto”. Nei Canti Orfici, non
c’è traccia della malattia che rende impossibile la poesia, come
Campana dichiara nell’epistolario: “Sono troppo stanco e troppo ammalato per cercar di comprendere. Prendo il partito dei
più deboli, il mio solito partito: parto. Regalo a chi ne ha bisogno quel poco di poesia che può esser sorta in te dal nostro
amore. Non posso dirti altro che questo. Mia cara sono realmente ammalato non ho potuto sopportare l’attesa delle tue
lettere... Io ti amo tanto e rimpiango la poesia solo perché essa
saprebbe baciare il tuo corpo di psiche e il tuo viso roseo e
nero colla bocca sfiorita di faunessa. Perdonami se non voglio
essere più poeta neppure per te. Sai che neppure le acque e
neppure il silenzio sanno più dirmi nulla – e senti la mia infinita desolazione”. Sibilla appare invece in questo epistolario
animata da una ideologia, esaltatrice della vita e dell’uomo, che
si fonda sull’appassionata lettura di Nietzsche. Molto più tardi, il 26 gennaio 1941, Sibilla ancora dichiara: “Nietzsche... Per
quanti anni mi ha accompagnato! Anche quando non portavo
nelle valigie, nel mio lungo periodo randagio Zarathustra o
l’Origine della Tragedia, sempre avevo con me un suo ritratto,
insieme a quello di Ibsen, a quello di Whitman. Solo quest’ultimo viso era bello e chiaro, consolatore; gli altri due, accigliati, staccati; ma Ibsen, mi era come il simbolo della mia coscienza,
mai rinnegata al tempo in cui avevo lasciato marito e figlio per
essere ‘in pace con me stessa’ come scrissi nella chiusa di Una
donna; e in quanto a Nietzsche, m’era caro, gli volevo infinitamente bene, quasi l’avessi incontrato vivo, ultimo grande sofferente, grande martire, lui che sferzava tutti i sottomessi, tutti
i succubi, e, ad ogni apertura di pagina, sferza ancora oggi
anche me se ‘stanchezza del vivere mi tenta’. La tensione spirituale e la tragedia che si spinge alle soglie della distruzione
sono altissime in tutto l’epistolario. Più tardi in Orsa Minore
(1938) Sibilla annota: “Siamo nati per guardare con i ‘nostri’
occhi la vita, e perché in questo senso ogni essere umano può
fare della propria esistenza una cosa originale, un’opera d’arte” e in un altro luogo: “Io ho sempre vissuto, filosoficamente,
nel concetto del relativo, dell’umano, dell’apparenza, parallelo
però ad un costante senso del mistero e dell’armonia universale.
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Fede nell’organismo ideale che chiamiamo vita, io, filosoficamente, non l’ho mai avuta. Ho avuto fede sempre soltanto
in me perché mi son sentita sempre la sola realtà in un mondo
di vaghe forme. Tutta la vita non è che il riflesso del mio essere. E questo mio essere non ha finalità, non si traccia alcun
codice, ma vive, ossia cresce, e guarda intorno crescere il mondo delle apparenze… Io sono. E così come sono, mi piaccio…
Non ho da render conto della mia esistenza che a me stessa…
Io sono la schiava del mio istinto di grandezza”. Nelle Lettere
affiora la stessa tensione eroica legata all’idea del “superuomo”,
emerge lo stesso spirito dell’Ulisse di Dante, con l’orgoglio di
essere una donna “poeta” e un’anticipazione, un annuncio del
tipo che vivrà sulla terra, fra secoli, della donna libera, spirituale, nonostante l’angoscia del rapporto amoroso: “Io, che non
vorrei, che mai avrei voluto cambiarmi con un’altra creatura,
io che so, il mio valore, so anche tutta la mia miseria, so che se
tu domani mi scrivessi che è stato un sogno, che ti sei svegliato, che non mi ami, troverei nel mio orrore da chinare il capo…
Dino tutto quanto ho vissuto e voluto, dopo aver benedetto
ogni sforzo e ogni martirio credendo ogni volta di crescere e
d’adunar luce in me, come mi trovo davanti a te!”
In questa ideologia, esaltatrice della vita e della propria grandezza umana e poetica, l’amore non è solo pura effusione
sentimentale, passione delirante e angosciosa, ma l’unica possibilità di attingere l’assoluto, come Sibilla scrive in Amo dunque sono: “Cercavo l’amore come il più certo tramite per
giungere a Dio. Con la persuasione assoluta che soltanto per
suo mezzo mi sarebbe dato di accostarmi al principio divino
all’essenza invisibile dell’universo… Mi son sentita diversa da
ogni altra, insostituibile, sola e di me stessa signora… Perché
io son nata poeta, non santa. Tutti i poeti, anche i più grandi,
anche gli iniziati come Dante e Goethe, non han forse richiesto
il soccorso d’amore, e non forse mediante l’amore son penetrati nei regni occulti, o li hanno, col loro canto, creati? L’esperienza d’amore è il mezzo per attingere al divino, all’essenza
dell’universo, è il tema su cui s’incentra, nella perfetta coincidenza di arte e vita, non solo l’epistolario, ma tutta l’opera di
Sibilla. La poetessa, infatti, confessa in “Amo dunque sono”:
“Tutto, nella mia vita, si trasforma in cosa d’arte, perfino sul
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limite della morte, perfino l’allucinatoria visione della posterità”. D’altronde anche la protagonista del Romanzo Una donna
(1906), molti anni prima affermava: “Io mi trovai colla penna
sospesa in cima alla prima pagina del quaderno. Oh, dire, dire
a qualcuno il mio dolore, la mia miseria; dirlo a me stessa anzi
solo a me stessa, in una forma nuova, decisa, che mi rivelasse
qualche angolo ancora oscuro del mio destino!” Un libro, il
libro… Ah,… la visione di quel libro che sentivo necessario, di
un libro d’amore e di dolore, che fosse straziante e insieme
fecondo, inesorabile e pietoso, che mostrasse al mondo intero
l’anima femminile moderna… e sapesse trarre da ciò la pura
essenza, il capolavoro equivalente ad una vita” Più tardi, in
Orsa Minore Sibilla chiarisce e corregge questa affermazione:
“Quando ho scritto questa frase, “un capolavoro equivalente
ad una vita”, invertivo l’ordine comune dei termini, e parlavo
forse da vera donna, per cui la vita sta sempre sopra l’arte”.
L’ardore e il dolore della vicenda biografica di Sibilla, compresa la passione per il poeta folle, attraverso l’epistolario, tracciano il quadro dell’identificazione dell’arte con la vita e la
celebrazione del compito di donna-poeta. Solo in alcuni brevi
frammenti si esaltano nella poesia gli elementi “dell’attrazione
e della fusione che erano stati infinitamente più profondi e
tragici; ma appunto perciò vennero subito consunti, incendiati”.
Anche successivamente in Orsa Minore la vitalità del ricordo,
la prevalenza biografia annullano la capacità di “essere liberi
d’ascoltare il proprio pianto e d’innamorarsene sino al tramutarlo in canto”. Sibilla nel Diario di una donna confessa: “Forse per questo, per non recidere da me la vitalità del ricordo,
non ho mai raccontato quei miei mesi favolosi col poeta folle”,
“Morirò senza aver raccontato, risuscitato, il nostro amore”.
Sibilla Aleramo ha il merito di aver conservato gran parte della
corrispondenza inerente la sua storia d’amore con Dino Campana, insieme ad alcuni versi e scritti, qualche cartolina e una
copia con dedica dei Canti. Franco Matacotta di Fermo, il suo
giovane amante del 1936, che si laureò con una tesi su
Ungaretti, Aleramo e Campana, è il primo ad avere a disposizione i documenti e le carte riguardanti Campana e, prima della
pubblicazione di Campana-Aleramo, Lettere Vallecchi 1958, nel
marzo 1941, su Prospettive, firmò un commento agli inediti
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campaniani, scrivendo: “Pagine e pagine di lettere ch’io rileggo, foglietti laceri e stinti, taluni come segnati dall’impronta
delle lacrime, scritti su tavole di osterie e di caffè durante il
suo vagabondaggio tra le colline del Mugello e le montagne
del Piemonte o nelle soste di Firenze, nell’anno del suo ultimo
disperato amore, gridi di passione e di rivalsa, suppliche, singhiozzi, imprecazioni, e ancora gridi di rinuncia suprema,
mentre la pazzia già lo stava attanagliando, confessioni che una
strana ventura ha voluto io fossi il primo a risollevare dall’ombra del passato, e che un giorno, forse, la donna a cui furono
dirette si risolverà a far pubbliche per devozione allo spirito
della poesia che pure in lei arde”. L’articolo conteneva alcune
parti della tesi di laurea e qualche pagina nuova. L’8 aprile 1946,
tramite Sibilla, Matacotta consegna ad Angioletti alcuni inediti
campaniani, dei quali l’Aleramo non coglie l’importanza ed il
valore, che il 25 aprile vengono pubblicati su La Fiera Letteraria. Fra questi, sia pure in forma parziale, la famosa lettera
che chiude con le parole “le mie lettere sono fatte per essere
bruciate”. In particolare la prima lettera non ancora stampata,
viene citata da Matacotta su La Fiera Letteraria del 31 luglio
1949. La relazione fra Sibilla e Franco Matacotta finisce nel 1947
ma questo non impedisce nel 1949 alle edizioni Amici della
Poesia di Fermo (l’indirizzo della casa editrice coincide con
quello della sua abitazione e l’intervento dell’Aleramo è certo)
la pubblicazione del volume, intitolato Taccuino, Matacotta
contenente anche i versi che Dino aveva scritto per Sibilla
(I piloni fanno il fiume più bello, Sul più illustre paesaggio, In
un momento e Vi amai nella città dove per sole), tutti datati in
modo errato estate 1916. Nel 1958 Sibilla smentisce quanto
aveva sempre affermato ed accetta di pubblicare le sue lettere
e quelle di Dino. Il volume è curato da Gallo e la Prefazione è
di Luzi. Franco Matacotta, con manifesto disappunto della scrittrice che gli scrive “Franco, chi ti ha dato il permesso di pubblicare i miei ritratti e la lettera inedita di Dino? Codesta lettera
doveva evidentemente essere fra le tante carte che tu hai sottratto dal mio armadio prima di lasciare la soffitta. E come
mai, tu letterato, interpreti l’ultima frase di tale lettera come
una disposizione testamentaria, mentre è semplicemente il singhiozzo d’un poeta. E tu, proprio tu, mi accusi di violazione!
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Io diedi il consenso, l’anno scorso, della pubblicazione al caro
e nobilissimo Niccolò Gallo”), pubblica la versione integrale
della lettera che contiene “…Come delle torri d’acciaio…” e
chiude con “le mie lettere sono fatte per essere bruciate”.
Sibilla muore il 13 gennaio 1960. La prima lettera di Sibilla a
Campana, quella di Dino da Livorno e, probabilmente, altri
interessanti documenti si trovano presso l’Archivio Matacotta.
La condizione di Campana, ma soprattutto la consapevole disparità fra la grandezza della sua poesia rispetto all’onesto
tentativo dell’Aleramo grava sulle liriche che Sibilla scrive per
il poeta, soffoca la sua scrittura, la rende consapevole di aver
composto, rispetto a Campana, i versi brutti della poesia.
C’è un ramo in fiore, le poesie che Sibilla compone per Campana, raccolte nelle Lettere e riprese poi in altre opere poetiche, mancano di risonanza lirica. L’eccesso d’ardore e di dolore
accende e tende il linguaggio, si arresta alla confessione, all’annotazione troppo realistica. L’ideale di un’arte intimamente
autobiografica, d’istinto e d’effusione, nella quale la donna
vorrebbe trarre, dal sentimento, una originale e viva poesia,
naufraga e frana insieme al convincimento “della inesistenza
della donna in arte finché ella non abbia preso possesso di se
medesima, non abbia espresso il proprio valore spirituale, oggi
ancor sconosciuto, indipendentemente da ogni suggestione dello
spirito maschile ... Finora l’uomo ha creato, la donna no”. L’impossibilità dell’amore con tutto il dramma di sofferenza e di
follia, diviene l’impossibilità della poesia a cui Sibilla affida tutto
quanto essa ha sofferto e goduto: “Miei versi/mia nobiltà, /
voi soli / di tutto quanto, / alla vita donai, / voi soli restate”.
La poesia di Sibilla è al di fuori della “tragedia” di Campana;
ma alle suggestioni dell’opera del poeta si deve, soprattutto
nella prima raccolta Momenti, la scelta della costruzione per
sostenere ed accrescere la trama sonora e riprenderla ritmicamente, la predilezione per l’uso musicale dell’interpunzione, per
gli aggettivi, soprattutto di colore, per le continue riprese di
temi dannunziani e di un lessico che proviene dalla poesia decadente. L’attenzione letteraria, cinematografica e teatrale sul
rapporto fra Campana e l’Aleramo, di questi ultimi anni è una
vera e propria “campanamania”, testimone della resistenza
assoluta del poeta di Marradi alla corrosione del tempo, della
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sua purezza poetica e della sua modernità. Mentre scorrevo il
testo di Morini, I giorni del vino e delle rose, una piacevole
lettura, ma anche una nuova testimonianza dell’amore di Ivo
Morini per Dino Campana, per una improvvisa associazione
di idee mi sono ricordato di un vecchio volume Il Tesoretto,
Almanacco dello Specchio del 1942. In quella edizione, subito
dopo il titolo I poeti – l’Arte ed un disegno di Arturo Tosi,
compaiono quattro liriche: Donna Genovese, A una T… Dagli
occhi Ferrigni, Une Femme Qui Passe, Furibondo, ed allora ho
pensato che in fondo la poesia di Dino Campana è, per tanta
parte, “cinematografia sentimentale” in versione tridimensionale,
come anche il lavoro di Morini conferma. Cinema, fotografia,
musica e teatro sono aspetti molto marcati della modernità di
Campana.
IN UN MOMENTO
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose.
P.S. E così dimenticammo le rose.
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“LA NOTTE DELLA COMETA”:
VASSALLI USA CAMPANA
Ancora una volta il Corriere della Sera, come era già accaduto
nel settembre del 1989, nel agosto del 1997 e nel novembre 2003,
ha pubblicato il solito, ripetitivo, articolo di Sebastiano Vassalli
che pretende di essere l’erede di Dino Campana e offende tutti
coloro che non accettano la sua “verità”. Già nell’agosto del
1997 scrissi in modo molto sbrigativo e burocratico: “In merito
alla stanca polemica personale di Sebastiano Vassalli nei confronti di Marradi che ciclicamente si ripresenta senza nessuna
novità di rilievo (ricordo che quanto riportato dai giornali nei
giorni scorsi è contenuto nel libercolo di Lolini-Vassalli edito
dall’Obliquo nell’aprile del lontano 1988 e poi ripreso e ristampato per i tipi dell’Einaudi con il titolo Belle lettere) mi sento
autorizzato a riproporre, senza nulla aggiungere, la lettera che
inviai a Vassalli il 28 settembre 1989. Come presidente del
Centro Studi Campaniani, sono a disposizione di Vassalli e di
tutti coloro, che per ignoranza, hanno una visione distorta del
rapporto Campana-Marradi. Se Vassalli vorrà venire a Marradi
presso il Centro potrà documentarsi e discutere con noi
recuperando preziose informazioni ed un livello di conoscenza
su Campana che in anni ed anni di studi ed approfondimenti,
veri o presunti, evidentemente non ha ancora conseguito…”.
Il 28 settembre 1989 avevo scritto: “Egregio Vassalli, a suo tempo (1985 mi pare) ho letto il Suo romanzo La Notte della Cometa… sono uno che ha la fortuna, forse per lei la sventura, di
essere nato a Marradi (posto da incubo o antica volta specchio
velato?) e pur dovendo vivere la maggior parte del mio tempo
lontano, sono molto affezionato a quel piccolo mondo assassino fra Firenze e Marradi che mi ha concesso il privilegio dall’ottobre del 1988 di essere Sindaco. A lei le risaie della pianura
vercellese e la coltivazione del giardino a noi marradesi gli archi,
i ponti, la Madonnina, la Filanda, Campigno, monte Filetto....
La Notte della Cometa è un buon romanzo, naturalmente a lei
non interessa niente che glielo dica un comunissimo lettore, le
basta, come a tutti quelli che operano nel “vostro mondo” il
successo di critica e le copie vendute…; io comunque approfitto
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per dirle che delle vere o presunte inesattezze, delle minuscole
o macroscopiche bugie, degli irrilevanti o stravolgenti errori,
del suo scarso o immane sforzo di lavoro e di ricerca non intendo occuparmi. Trovo il suo libro piacevole, ricco di versi e
prose campaniani e ritengo che sia stato molto importante per
riportare attenzione su Dino Campana. Magari penso che sia
lei che ottiene dignità occupandosi di Campana e non viceversa, magari penso che lei non sia il depositario della “verità” e
neppure della riscoperta campaniana, magari penso che il
Comune di Marradi, quando nell’80 iniziò ad occuparsi di
Campana in maniera più organica, riprendendo segnali e timide iniziative che già si erano manifestate negli anni ’50, 60',
’70, non avesse a disposizione il materiale epocale indotto dal
suo romanzo (recensioni, critiche, ritagli di giornali e copie di
nastri delle televisioni di tutto il mondo) per espropriarla di
una primogenitura totalizzante della quale lei pare convinto.
Ma ciò che penso non è sicuramente per lei rilevante e d’altra
parte il motivo di questa mia è un altro: “Marradi”, non il
Comune, non i suoi abitanti, non la lirica di Dino Campana,
ma il “libercolo” (per il valore quantitativo s’intende) edito dall’Obliquo nell’aprile del 1988, speravo sinceramente che lo
avesse scritto tutto il carneade Lolini. La mia speranza purtroppo è stata vana, il “volumetto” è anche il suo. Allora in una
confidenza-verità, che nessun archivista riuscirà a smontare né
tanto meno i grandi critici del Ticino o gli eccelsi letterati della
“Voce adriatica”, le dico che fa proprio “schifo”. Forse contiene più verità del Suo romanzo, forse il lavoro di ricerca è stato
più attento e puntuale, forse lavorare a quattro zampe è una
cosa più difficile, ma il prodotto è veramente scadente… Mi
scuso di averle rubato tempo prezioso, ma a me bastava questo sfogo da uomo libero, capace di ribellarsi ad un potente
della penna come lei è (lo voglia o no). Non sono affatto convinto, che lei sia il nuovo Campana, ma sicuramente uno dei
tanti vice-Narciso”. Vassalli afferma in tempi più recenti: “Consegno la memoria di Dino ai film melensi, alle biografie deliranti o troppo circospette, ai “chissà!” e alle strizzatine d’occhi,
ai premi letterari a lui intitolati e alla compagnia di villeggianti che ogni estate si riunisce a Marradi per assegnarli….” ed
ancora “hanno vinto loro. Tra il premio e il Centro Studi
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Campaniani, che ha sede in Comune, ogni estate si crea una
compagnia di villeggianti.
È lì che si è formato quel partito marradese che tiene insieme
tutte le falsità sulla vita di Campana….” Ancora balle e
macroscopiche inesattezze. Tutto nasce per il romanzo, uscito
nel 1984, La notte della cometa, un romanzo non una biografia, mancando qualsiasi riscontro a moltissime notizia date di
fantasia, e fondate sul “personalissimo immedesimarsi” dell’autore con il poeta di Marradi. La notte della cometa è un romanzo dove documenti pochi e invenzione narrativa, novantanove per cento, sono mescolati. Nel settembre del 1983 Vassalli
trascorse parecchi giorni a Marradi prima di pubblicare il suo
romanzo nel novembre del 1984 e di presentarlo, insieme al
sindaco Enrico Consolini, il 9 febbraio del 1985 nell’aula magna
della scuola media dove al romanziere furono contestate alcune vistose fandonie presenti nel romanzo-verità. A chi gli chiedeva come mai durante il suo soggiorno a Marradi, non si fosse
recato in Comune per prendere visione dei documenti
campaniani venuti alla luce già da tempo, e che ad esempio
Gabriel Cacho Millet aveva continuamente consultato per le sue
opere, Vassalli rispose di non essersi recato in Comune per il
semplice motivo che gli era stato detto che a Marradi non
avrebbe trovato nulla, nessun documento. Nel 1988, come ho
già ricordato Vassalli, con Attilio Lolini, pubblica un libretto
intitolato «Marradi» (che include anche testi già compresi in
un racconto pubblicato sull’Unità del 27 agosto 1985 dal titolo
«Vita con Sebastiano»).
Chi lo ha letto rimane interdetto per l’odio, la violenza, le
menzogne, le invettive, gli insulti e le calunnie che contiene.
Di Marradi Vassalli ignora la storia, la vita intellettuale, l’alto
numero di personaggi che si sono distinti nei vari campi dell’arte, della letteratura e delle scienze. Fra l’altro ai tempi di
Campana, Marradi era uno dei Comuni più evoluti e moderni
d’Italia, dotato di energia elettrica, che veniva prodotta, per l’uso
industriale e l’illuminazione, nella centrale idroelettrica costruita
dall’ing. Lorenzo Fabbri. Il paese vantava un teatro all’italiana
edificato alla fine del ‘700, quattro tipografìe, un moderno attrezzato ospedale, tre banche, fabbriche di laterizi, un grande e
moderno mulino a cilindri, tre filande della seta. In questo
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contesto l’appellativo di «zotici» attribuito da Vassalli ai
marradesi di fine ‘800 (pag. 21 de La notte della cometa) risulta gratuito ed antistorico. Per l’approfondimento degli ormai
famosi errori e per le fanfaluche vassalliane rimando all’impietosa analisi di Franco Scalini, (Presidente del Centro Studi
Campaniani “E. Consolini”, dal 1988 al 1993) nel suo Aspetti
comici del romanzo La notte della cometa e osservazioni sui
falsi contenuti. Risposta a Sebastiano Vassalli dal paese di Dino
Campana. Scalini segnala con dovizia di documentazione citata, ventidue macroscopici errori e frottole contenute ne La notte
della cometa. Vassalli insiste a fantasticare di un Campana tormentato con l’elettroshock: ma la pratica terapeutica è stata attivata nel 1938, e Campana è morto nel 1932; sulla sifilide del
poeta, ipotesi del tutto priva di riscontri oggettivi; descrive l’albergo di Marradi dove alloggiò nel 1983 affermando che è l’albergo dove si incontrarono Dino e Sibilla ignorando che
all’epoca non esisteva; fa confusione fra «Casetta» in comune
di Firenzuola e «Casetta di Tiara», che è invece in comune di
Palazzuolo sul Senio, dove soggiornarono, nel 1916, Dino Campana e Sibilla Aleramo; afferma che Dino Campana fu cadetto
dell’Accademia Militare di Modena, mentre Campana non fu
mai in quell’Accademia, ma a Ravenna; racconta di Campana
che nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1910, avvenimento della
cometa, si aggira per Piazzale Michelangelo a Firenze, ignorando che quella notte il poeta non poteva essere a Firenze,
perché si trovava in Belgio. Parla dello zio di Dino Mario, come
di un maniaco sessuale.
Per quanto si possa essere benevoli e tolleranti, è impossibile
quindi accettare l’idea che Vassalli sia il depositario della verità certificata su Campana.
Ogni studioso, ogni appassionato di Campana sa bene che negli
ultimi venti anni moltissimi hanno lavorato sodo per restituire
a Campana e, quel che più conta, alla sua poesia interpretazioni attendibili, finalmente libere dalle incrostazioni leggendarie
del mito del poeta pazzo. E’ quindi stupefacente che lo scrittore ligure ignori l’immenso lavoro di qualche centinaio di instancabili ricercatori e studiosi di documenti e testimonianze
campaniane. Studiosi che hanno contribuito a far emergere nuove sfaccettature, piccoli o grandi frammenti di un Campana più
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vero. L’elenco occuperebbe molto spazio (rimando al prezioso
Catalogo degli scritti (1912-2002) del nostro Centro Studi
Campaniani). Vassalli, è il furbetto di turno o il misantropo
prigioniero di una catena di errori, inesattezze, assurdità? Eppure il suo libro rincorre una personalissima chimera. Lo scrive lui stesso che se Dino non ci fosse stato lo avrebbe comunque
inventato come personaggio di romanzo, quindi è consapevole
di aver scritto un romanzo, anche se, senza i versi e le prose
poetiche di Dino Campana, che Vassalli ripropone a piene mani,
non avrebbe ottenuto il successo registrato.
Nino Beghelli “Mio antico cuore” 1991
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RINGRAZIAMENTI
Questo volume è stato possibile per il contributo di idee, di
suggerimenti, e per la collaborazione di moltissime persone.
Molte di loro, forse, non se ne sono neppure accorte, ma io sento
comunque il dovere di ringraziarle: Anna e Mirna Gentilini e
tutti gli altri del Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini”,
Raffaella e Giuliana Ridolfi, Silva Gurioli, Emilia Chiarini ed
Elisabetta Giovannardi. Utilissimi mi sono stati “Documentazione Campaniana - Catalogo degli scritti curato da Franco
Scalini ed i libri ed i saggi dei componenti il Comitato Scientifico a partire da Christophe Mileschi autore della Prefazione
e con lui Paolo Berruti, Luigi Bonaffini, Fiorenza Ceragioli,
Pedro Luis Ladron de Guevara, Giorgio Luti e Mario Graziano
Parri, tutti autorevolissimi docenti universitari, ma soprattutto
“campanisti” insigni. Per la biografia campaniana fondamentali sono stati i testi di: Carlo Pariani, Mario Bejor, Enrico Falqui,
Gabriel Cacho Millet, Gianni Turchetta, Luigi Cavallo ed i tanti
documenti d’archivio consultati.
Sono grato agli artisti: Nino Beghelli, Alessandra Binini, William
Catellani, Iller Incerti, Francesco Galeotti, Lanfranco Materiale,
Gian Ruggero Manzoni, Stefano Mercatali, Eugenio Pardini,
Maurizio Rogai, Antenore Rovesti, Stefano Scheda, Piero Strada, Emilio Tadini, Enrico Visani, perché con la riproduzione
delle loro opere, tutte di proprietà del Centro Studi Campaniani,
che si aggiungono a quella famosissima di Giovanni Costetti,
ho potuto impreziosire la mia pubblicazione. Un ringraziamento
particolare ai giornalisti: Vittorio Feltri, Massimiliano Lussana,
Riccardo Mazzoni, Gabriele Canè, Mauro Manunza, Nicola
Coccia, Paolo Guidotti, Franco Fregni, Emanuele Conti, Maria
Neri, Mario Scarponi, Francesco Donati ed alle redazioni dei
quotidiani: Libero, Il Giornale, La Repubblica, La Nazione,
Il Resto del Carlino, L’Unione Sarda, La Voce di Romagna, e
Il Corriere di Romagna, che hanno ospitato alcuni miei articoli
su Dino Campana che sono stati l’incipit per questo libro.
L’AUTORE
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INDICE
Introduzione .................................................................................................................................... »
Prefazione di Christophe Mileschi ............................................................................................. »
Letteratura è vita! .......................................................................................................................... »
La vita .............................................................................................................................................. »
Canti Orfici ..................................................................................................................................... »
Faenza: “Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita” ............................................ »
La Chimera ..................................................................................................................................... »
Campana: idee e politica ............................................................................................................. »
“Il sangue del ragazzo” Walt Whitman, Marietta Alboni, Dino Campana e Genova .. »
Sulla presenza di Michelangelo Buonarroti nella poesia di Dino Campana ................... »
Sur la presence de Michel Ange Buonarroti dans la poësie de Dino Campana ............ »
“…O poesia più non tornerai: volevo nel paesaggio collocare dei ricordi” ................... »
I wanted to place my memories in the landscape ................................................................ »
Dino Campana e la Sardegna di Sebastiano Satta ................................................................ »
Chiacchierata serale di Dino Campana .................................................................................... »
Tedio di Sebastiano Satta ............................................................................................................. »
Sebastiano Satta ............................................................................................................................. »
Cinema e velocità in Dino Campana ........................................................................................ »
Giro d'Italia in bicicletta .............................................................................................................. »
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Ringraziamenti ............................................................................................................................... »
Bibliografia ...................................................................................................................................... »
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R ODOLFO R IDOLFI
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Finito di stampare
coi tipi della Tipo-Litografia Fabbri s.n.c.
di Modigliana (Fc)
Dicembre 2005
ISBN 88-88562-04-4
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Per l`amor dei poeti o principessa dei sogni segreti