Il Ganassi
Anno 15 Numero 12
In questo numero:
Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
Editoriale
È passato un altro anno di attività per noi della FIMA, dedicato soprattutto
alla preparazione del festival e dei corsi di Urbino, che in questi tempi di
difficoltà economiche richiede sempre maggiori energie e attenzione: i margini economici per mantenere viva una manifestazione così complessa si vanno sempre più assottigliando, è dunque fondamentale gestirla al meglio.
Un avvenimento davvero importante per l’attività e la storia della fondazione
è stato la presentazione dell’ultimo numero della rivista Recercare, dedicato a
Giancarlo Rostirolla per il suo settantesimo compleanno, avvenuta il 9 luglio
presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma. Forse i soci più giovani non conoscono Giancarlo, ritengo dunque importante ricordare che senza di lui oggi
non esisterebbero non solo i corsi di Urbino, da lui ideati 44 anni fa, ma anche la FIMA stessa e tante altre iniziative editoriali, musicologiche e associazionistiche. Gli interventi di Marcus Engelhardt, direttore della sezione musicale dell’Istituto Storico Germanico di Roma, di Marco Di Pasquale, primo
curatore della rivista Recercare, di Arnaldo Morelli, attuale direttore, di Renato Meucci, presidente onorario della FIMA e del sottoscritto, hanno tutti
sottolineato oltre ai meriti indiscussi e ben noti dello studioso un’altra dote
eccezionale: la generosità. Sia nel mettere a disposizione i risultati delle sue
ricerche sia nell’affidare incarichi di responsabilità, molto spesso a giovani
alle prime armi individuati dal suo intuito come idonei e affidabili. Cosa
accaduta a tutti noi che eravamo lì, per la quale lo ringraziamo di cuore.
Vorrei poi proporre alcune riflessioni maturate in seguito alla recente scomparsa di Gustav Leonhardt e Monserrat Figueras, due figure veramente importanti, che hanno rappresentato due modi diversi di concepire
l’interpretazione della musica antica. Gustav Leonhardt innanzitutto, il nordico, a volte considerato un po’ freddo, che ha interrogato le fonti e gli strumenti del passato con nobile distacco. Per parlare dei meriti e delle influenze
che Leonhardt ha esercitato non solo sugli interpreti ma anche sul pubblico
della musica antica occorrerebbe ben altro spazio e competenza. Basti dire
qui che Leonhardt ha proposto tra i primi un lavoro di ‘pulizia’ della sonorità
della musica del passato, operando in modo simile ad un restauratore di dipinti antichi che restituisce all’osservatore i colori e la profondità offuscati
dalla patina del tempo. Per renderci conto dell’eredità che quest’uomo ha
lasciato suggerisco la visione e l’ascolto di un’esecuzione da lui diretta
dell’Actus Tragicus di Bach (è facilmente rintracciabile su Youtube) risalente
a diverse decine di anni fa: di fronte a un Leonhardt già brizzolato siedono
Frans Brüggen e Walter Van Hauwe ai flauti dolci, Ton Koopman all’organo,
Jaap ter Linden al violoncello; alla viola da gamba mi sembra di riconoscere
Wieland Kuijken, mentre tra i cantanti spicca un giovane René Jacobs. Fa
certamente impressione vedere tanti musicisti, che in seguito hanno realizzato delle carriere strabilianti, essere lì tutti insieme sotto la direzione apparentemente dimessa di Leonhardt; ed è anche una chiara prova dell’influenza
che egli ha esercitato durante il secolo passato e della forza del suo messaggio.
Monserrat Figueras, con la lunga vicenda dell’ensemble Hesperion XX, insieme al marito Jordi Savall, ha dato vita ad un nuovo modo di fare musica antica, che univa ad una solida preparazione filologica la ricerca di orizzonti nuovi: il canto, i suoni e gli strumenti del mediterraneo, così legati alle culture
orientali ed africane. Ne è nato un vero e proprio nuovo ‘sound’, che si è
imposto come contraltare della visione ‘nordica’ influenzando fortemente il
gusto degli ascoltatori della musica antica. Filologia autentica o raffinata operazione di marketing? Forse non lo sapremo mai, ciò che conta è la capacità
di attrazione verso repertori preziosi e altrimenti sconosciuti che questo
(Continua a pagina 15)
Editoriale
Articoli
Donatella Melini
Questioni di iconografia
musicale: la musica e i
musicisti nella pittura
veneziana tra XVI e XVIII
secolo
Dario Luisi
La tenuta del violino dall’inizio
del XVII alla fine del XVIII
secolo. Saper leggere le fonti
originali, una questione di
mento?
Giuditta Albanese
Lessico musicale e
metamusicalità nei libretti
d'opera di Giovanni Bertati
Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
Questioni di iconografia musicale: la musica e i musicisti nella pittura veneziana tra
Una nuova luce sull’Ars Nova di Francesco Landini
XVI e XVIII secolo
di Anna Chiappinelli
di Donatella Melini
Le immagini pittoriche veneziane realizzate tra il XVI e il XVIII
secolo sono estremamente dense di soggetti musicali (siano questi
strumenti, ritratti di musici, concerti o descrizioni di cerimonie
civili o religiose) tanto da far nascere, non a torto come si vedrà,
l’idea che esistesse tra l’artista visivo e la musica una speciale
“affinità elettiva” che proprio nel mondo culturale veneziano
dovette trovare un adeguato spazio di realizzazione. Del resto la
musica, come è ben noto, occupava un ruolo importante in tutti
gli ambienti della città: dalla Cappella di San Marco alle grandi
cerimonie ufficiali, dal carnevale alle messe in scena teatrali, dalle
Accademie alle case private dei nobili come dei cittadini o del
popolo.
Lo stretto rapporto tra l’arte visiva e la musica era, tra l’altro, auspicato anche da diversi teorici dell’arte del Cinquecento, tra i
quali i veneziani Paolo Pino e Ludovico Dolce. Nei propri trattati
(rispettivamente Dialogo di Pittura di Messer Paolo Pino, nuovamente
dato in luce del 1548 e Dialogo della pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l’Aretino, nel quale si ragiona della dignità della pittura e di tutte le
parti necessarie che a perfetto pittore si convengono del 1557)
essi, infatti, individuarono le doti essenziali del pittore perfetto –
tali, quindi, da consentirgli l’elevazione all’interno della gerarchia
sociale – che, oltre alla tecnica artistica, si concretizzavano nella
rettitudine morale e nell’erudizione sia poetica che musicale.
Palo Pino raccomandava infatti:
Non per ciò voglio ch’il nostro pittore assiduamente s’eserciti nel dipingere,
ma divertisca dall’operare, intrattenendosi et istaurandosi con la dolcezza
della poesia, over nella soavità della musica di voce et istromenti diversi, o con
sue altre virtù, dil che ciascuno vero pittore debbe esser guarnito. (in BAROCCHI, 1979, VI, p.1352)
Pino e Dolce proponevano, quindi, una figura di artista in grado
di muoversi a proprio agio negli ambienti della società colta secondo quei principii che qualche anno prima (1528), erano stati
delineati da Baldassarre Castiglione a proposito della figura del
“cortegiano”. E’ interessante notare che in questo trattato, che
godette di un’enorme diffusione e fortuna, si auspicava non solo
una variegata competenza musicale ma anche una conoscenza
della pittura nonostante questa, all’epoca, fosse ancora annoverata
tra le discipline meccaniche e per questo, nel mondo raffinato in
cui l’aspirante nobiluomo doveva muoversi, poteva sembrare
apparentemente sconveniente:
[…] voglio ragionar d’un'altra cosa, la quale io, perciò che di molta importanza la estimo, penso che dal nostro Cortigiano per alcun modo non debba
esser lasciata indietro; e questo è il saper disegnare, ed aver cognizion dell’arte
propria del dipingere. Né vi meravigliate s’io desidero questa parte, la quale
oggidì forse par mecanica e poco conveniente a gentiluomo: ché ricordomi aver
letto che gli antichi, massimamente per tutta Grecia, voleano che i fanciulli
nobili nelle scole di pittura dessero opera, come a cosa onesta e necessaria, e fu
questa ricevuta nel primo grado dell’arti liberali […]. (in BAROCCHI,
1979, I, p.119)
Castiglione raccoglieva e ufficializzava un atteggiamento che a
Venezia senz’altro era consolidato, per lo meno stando alle considerazioni che il grande Albrecht Dürer (artista straordinario e,
come è noto, ottimo osservatore degli usi e dei costumi) scrisse
all’amico Wilibald Pirkheimer in merito alle proprie frequentazioni durante il secondo soggiorno veneziano del 1506:
2
[…] gentili compagni eruditi, buoni liutisti e suonatori di piffero e flauto,
intenditori di pittura e di nobile animo ( DÜRER, 1929, p. 123)
Un’osmosi culturale, quindi, tra arte e musica che costituisce la
chiave di lettura della rappresentazione del mondo musicale in
tanti quadri veneziani giunti fino a noi. In genere la resa assolutamente coerente soprattutto degli strumenti musicali è una prerogativa che – ben al di là delle normali capacità di ritrarre la realtà
dell’oggetto musicale – denota la frequentazione di un particolare
ambiente e, possibilmente, un approccio diretto dello strumento.
Questo è il motivo per cui da molti quadri veneziani è oggi possibile addirittura ricavare disegni tecnici per la ricostruzione organologica istituendo paralleli significativi con reali strumenti musicali giunti fino a noi che furono costruiti nelle grandi botteghe
liutarie attive a Venezia già dagli ultimi decenni del Quattrocento.
Senza dubbio uno tra i primi artisti veneziani che mostrò uno
spiccato interesse per gli strumenti musicali e per il loro corretto
uso fu Giovanni Bellini (1432 ca. - 1516) che nelle diverse versioni del tema della Madonna col Bambino e Santi - come ad esempio la Pala di San Giobbe eseguita intorno al 1480; il Trittico dei Frari
del 1488; la Pala di San Zaccaria del 1505 – si mostrò attento non
solo al dettaglio organologico ma anche alla corretta postura degli
strumentisti e alla resa dei diversi ensemble. Un’attenzione per il
fare musicale che fu propria anche di altri artisti che, di fatto,
risentirono (chi in maniera diretta, chi in maniera indiretta) della
sua influenza. Tra questi uno dei più noti (anche se per alcuni
aspetti, ancora misterioso) fu Giorgione da Castelfranco (14771510) che, come testimoniò anche Giorgio Vasari nel celeberrimo
Le vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti (Firenze 1550 e 1568),
fu maestro in entrambe le arti:
[…] quantunque egli fusse nato d’umilissima stirpe, non fu però se non
gentile e di buoni costumi in tutta sua vita. Fu allevato in Vinegia e dilettossi continovamente de le cose d’amore e piacueli il suono del liuto mirabilmente
e tanto, che egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente, che egli
era spesso per quello adoperato a diverse musiche e ragunate di persone nobili.
(VASARI, 1991, p. 568)
Simile competenza in entrambe le discipline fu propria anche di
Sebastiano del Piombo (1485 ca- 1547) allievo sia del Bellini che
del Giorgione:
Non fu, secondo che molti affermano, la prima professione di Sebastiano la
pittura, ma la musica: perché oltre al cantare si dilettò molto di sonar varie
sorti di suoni, ma sopra il tutto il liuto, per sonarsi in su quello strumento
tutte le parti senz’altra compagnia, Il quale esercizio fece costui essere un
tempo gratissimo a’ gentiluomini di Vinezia, con i quali, come virtuoso,
praticò sempre dimesticamente. Venutagli poi voglia, essendo anco giovane,
d’attendere alla pittura, apparò i primi principii da Giovan Bellino allora
vecchio. E doppo lui […] si acconciò con Giorgione, col quale stette tanto che
prese in gran parte quella maniera (VASARI, 1991, p. 881)
Un interessante caso di rapporto pittura-musica è costituito dal
Concerto campestre (1511 ca. - ill.1) oggi conservato al Louvre. La
sua attribuzione è ancora oggi oggetto di dibattito tra coloro che
assegnano la tela al Giorgione e altri che l’ascrivono al catalogo di
Tiziano Vecelio giovane. Il trattamento dell’allegoria profana evidenzia molteplici legami con gli ambienti intellettuali frequentati
da Giorgione come la cerchia che si riuniva intorno a Caterina
Cornaro nella villa di Asolo resa famosa anche dagli scritti di Pietro Bembo o i circoli aristocratici veneziani legati ai Contarini, ai
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Vendramin o ai Marcello affascinati dall’antichità e amanti delle
immagini criptiche destinate a pochi iniziati. Anche l’accurata
descrizione, in questo Concerto, del liuto e del flauto a becco è
meglio associabile alle competenze strumentali, almeno a questa
altezza cronologica, del maestro di Castelfranco piuttosto che a
quelle di Tiziano anche se, per la cromia e il particolare taglio
compositivo questa opera si avvicina ad altre giovanili del Vecelio
a cominciare dagli affreschi realizzati per la Scuola del Santo a
Padova. Si tratta di un problema attributivo che, probabilmente,
difficilmente troverà una definitiva soluzione nel solo campo
della critica d’arte ma che, forse, potrà avvantaggiarsi di qualche
nuova pista d’indagine proprio a partire dagli studi di taglio iconografico-musicale:
la rappresentazione del liuto, del gesto del suonatore, sembrano essere lontani
dalle altre raffigurazioni di strumenti presenti in altri lavori ritenuti di Tiziano. Nessuna opera a me nota di Tiziano evidenzia una tale fedeltà nel
cogliere un esecutore in atto di suonare (TOFFOLO, 1995, p. 99)
È pur vero, però, che anche Tiziano (1490-1576) fu sedotto dal
fascino della musica e degli strumenti verso la quale manifestò
grande interesse confermato, oltre che da diversi quadri, anche da
una lettera, del 1540, scritta da Pietro Aretino che testimonia il
rapporto tra il pittore e il noto cembalaro Alessandro Trasuntino
il quale, in cambio di un ritratto, “gli costruì un arpicordo” (TOFFOLO, 1987, p.164).
Che il tema del concerto a questa altezza cronologica fosse una
peculiarità della pittura veneziana, è espresso anche da Buckhardt
che vi riconobbe un tratto distintivo dell’iconografia lagunare così
rilevante da:
indurre anche pittori di altre scuole a trattare la medesima tematica e forse si
potrebbe rintracciarla per tutta l’Italia. (BUCKHARDT, 1993, p. 232)
È da notare che gli strumenti musicali compaiono in egual misura sia nelle opere profane che in quelle a soggetto sacro a testimonianza, quindi, della volontà degli artisti veneziani di inserire
nell’opera una realtà musicale aggiornata così come doveva essere
quella che si trovavano essi stessi a vedere e/o a vivere personalmente indipendentemente dalla tradizione iconografica del soggetto raffigurato.
Bonifacio de’ Pitati (1487- 1553) nel Convitto del ricco Epulone (ill.2)
– tela databile intorno al 1543-45 raffigurante la parabola del
Vangelo di Luca (XVI, 19-31) – rappresentò in primo piano
l’esecuzione di un concerto privato, ossia uno dei passatempi
favoriti della vita veneziana in villa. Epulone seduto ad un tavolo,
in compagnia di due giovani donne riccamente vestite, assiste
all’esecuzione di un ensemble costituito da una liutista, un suonatore di viola da gamba tenore e, alle spalle dei due, un suonatore
di cornetto (si intravede il bocchino a tazza) intenti a leggere da
un libro-parte tenuto da un paggio di colore.
Ancora un concerto profano, pur formalmente inserito in un
contesto religioso, è quello dipinto da Paolo Caliari, detto il Veronese (1528-1588), per il refettorio del convento dei benedettini di
San Giorgio Maggiore tra il 1562 e il 1563 e che oggi è conservato
al Louvre: Le nozze di Cana. Nel grande telèro, come è noto, il
pittore ambientò nell’età contemporanea il primo miracolo pubblico di Cristo soffermandosi sui minimi dettagli delle figure, degli usi e dei costumi della Venezia della seconda metà del Cinquecento. In primo piano (ill.3), occupando uno spazio prospettico
basso, è ritratto un concerto di cinque strumenti di cui quattro ad
arco e uno a fiato. A proposito della fortuna di questa opera merita una segnalazione la lettura che se ne diede a partire dalla metà
del Seicento. Marco Boschini (1674) e circa un secolo dopo Antonio Maria Zanetti (1771) individuarono negli strumentisti rispettivamente il Veronese stesso (in abito bianco) e Tintoretto (alle sue
spalle) - entrambi alle prese con una viola da gamba tenuta di
traverso - Tiziano (in piedi e in abito rosso) mentre suona un
violone, Jacopo Bassano intento a suonare il cornetto e un altro
strumentista, “non identificato”, che suona una violetta da braccio. E’ interessante sottolineare che il modo di impugnare le due
viole era assolutamente realistico e trova indiretta conferma nella
stigmatizzazione proposta da Silvestro Ganassi. Nel suo trattato il primo ad essere dedicato specificamente alla viola - in due volumi intitolato Regola rubertina, che fu pubblicato tra il 1542 e il
1543, il “sonator della illustrissima signoria di Venetia” scrisse:
il più grato e bello tener ditto strumento quanto e con il modo che v’ho descritto (stretto tra le gambe n.d.r.) rispetto di tenerla per traverso come fanno
alcuni che certamente appresso di me è brutto modo.” (GANASSI, Parte I.
p.5)
L’associazione pittore-esecutore all’interno del telèro ha resistito
per decenni (persino secoli!) sebbene in studi recenti (BESCHI,
1999-2000, pp.171-191) sia stata reputata assolutamente priva di
fondamento. Tuttavia essa ci fornisce un’ulteriore conferma di
quanto fosse stretto il legame tra arte e musica nella società veneziana in questo periodo, tanto da potere ritenere plausibile che
famosi pittori si cimentassero pubblicamente in esecuzioni musicali.
Ancora Paolo Caliari, dipinse intorno al 1575, la pala raffigurante
Lo sposalizio di Santa Caterina (ill.4) per la chiesa veneziana di Santa
Caterina. Destinata ad abbellire l’altare maggiore, fu un’opera
molto celebrata anche dai contemporanei (come, ad esempio, il
Sansovino) che ne misero subito in risalto lo splendido cromatismo. Il racconto iconografico è quello tradizionale: il piccolo
Gesù in braccio a Maria porge alla Santa inginocchiata e riccamente vestita, l’anello che suggella le nozze mistiche tra la Vergine martire di Alessandria e Cristo. Nella tela del Veronese, a sinistra della scena principale, ma, di fatto, in primo piano per lo
spettatore che guarda, si nota la presenza di un ensemble musicale, disposto sui gradini del palazzo, composto da due liutisti e due
cantanti che forniscono un raffinato accompagnamento sonoro
alla scena. Anche se gli strumentisti sono raffigurati come angeli,
e quindi coerentemente con il tema religioso, anche in questo
caso non c’è dubbio che si tratti di veri e propri esecutori che con
grande perizia suonano liuti a sei cori, dotati di regolari legacci e
di una rosetta (ben visibile nel liuto in posizione intermedia) intagliata secondo una prassi liutaria ben consolidata. Anche il modo
di impugnare gli strumenti e la posizione di entrambe le mani
sono coerenti con quella che poteva essere la prassi esecutiva del
tempo. Mentre il liutista più in alto sembra momentaneamente
distratto dalla scena sacra che si sta svolgendo davanti a lui, il suo
compagno è intento a eseguire la musica scritta sul libro-parte
(nel realistico formato oblungo) in mano ai due cantori; uno di
questi batte il tempo con la mano sinistra. Ai loro piedi, adagiato
sull’ultimo scalino, si intravede il corpo di una viola da gamba di
taglia tenore fornita di sei corde (anche se si leggono poco), ponticello, cordiera, bottone ferma-cordiera, fori a C e fasce di legno
marezzato.
Per quanto riguarda, invece, la raffigurazione di singoli musicisti e
compositori, i pittori veneziani si mantennero abbastanza fedeli
agli standard del ritratto tout-court con tutte quelle piccole varianti e sfumature di pose e atteggiamenti che nel tempo vennero
sperimentate tanto a Venezia quanto in altre zone d’Italia e
d’Europa. I personaggi venivano ritratti sia in posizione frontale
che leggermente di tre quarti e naturalmente corredati di attributi
“musicali”: circondati da strumenti musicali oppure intenti a impugnarne uno in particolare o dotati di spartiti o singoli fogli musicali. Questi ingredienti che conferivano la qualifica di
“musicista” al soggetto ritratto, potevano mancare qualora il per3
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sonaggio fosse dotato di acclarata rinomanza (basti pensare, ad
esempio, a Willaert, a Andrea e Giovanni Gabrieli a Monteverdi) tanto che poteva bastare la sua sola persona (al limite intenta
a stringere un piccolo rotolo di musica) a testimonianza della
raggiunta fama musicale. Naturalmente nella galleria di “valenti
musici” tra Cinque e Seicento non mancarono anche le donne
che, grazie ad illustri precedenti quali Ippolita Sforza o Isabella
d’Este (giusto per citarne alcune tra le più famose), godettero di
un rilevante spazio nella vita culturale del tempo.
Baldassare Castiglione riguardo l’educazione femminile aveva
scritto:
[…] voglio che questa donna abbia notizie di lettere, di musica, di pittura e
sappia danzar e festeggiare, accompagnando con quella discreta modestia e
col dar bona opinione di sé ancora le altre avvertenze che son state insegnate
al cortegiano. (in LORENZETTI, 2003, p.126)
musicale che, come abbiamo visto, fu una costante nella Serenissima. In particolare Longhi, fu molto apprezzato dai suoi
contemporanei proprio per la sua capacità obbiettiva (e quindi
anche un po’ impietosa) di ritrarre, su tele di piccolo formato, la
realtà quotidiana. Un’abilità che trovò un significativo parallelo
con il teatro goldoniano, così come venne, del resto, direttamente testimoniato dallo stesso commediografo. Nel poema
Componimenti per le felicissime Nozze di Sue Eccellenze il Sig. Alvise
Priuli e la Signora Lucrezia Manini del 1756, parlando dell’amico
Pietro Longhi, Goldoni scrisse:
Anca lu el cerca verità e natura,
Le so figure le xe là parlanti;
E co se tratta de caricatura,
I so quadri xe vivi
E somiglianti. (GOLDONI, 1995, vol. XIII, vv.64-68)
Un esempio in tal senso è costituito da Marietta Robusti (15541590) figlia del noto pittore Jacopo detto il Tintoretto e, non a
caso, citata da Carlo Ridolfi nelle Meraviglie dell’Arte (1648) dedicato ai pittori della scuola veneziana - come esempio perfetto di ideale di donna della fine del Cinquecento. Ottima pittrice
(era stata anche invita a recarsi presso la corte di Filippo II di
Spagna) esibì anche un grande talento nell’ambito musicale. Nel
1580 Marietta (ill.5) si ritrasse in piedi, leggermente di tre quarti,
vestita “con discreta modestia” così come la voleva il padre che,
pur dotandola di un’ottima cultura, di fatto la controllava in
maniera molto stretta obbligandola a vestire abiti estremamente
castigati (spesso di foggia maschile) e negandole il permesso di
recarsi in Spagna.
Nell’autoritratto la pittrice, appoggiata ad uno strumento a tastiera, guarda in maniera intensa lo spettatore al quale mostra un
piccolo libro sul quale è riportato il madrigale a quattro voci
Madonna per voi ardo di Philippe Verdelot.
All’incirca sessant’anni dopo, nel 1636, un’altra musicista, Barbara Strozzi (1619 – 1664), fu ritratta (ill.6) da Bernardo Strozzi
(del quale non era parente). Definita “virtuosissima cantatrice”dal
compositore Nicolò Fontei (che per lei scrisse la raccolta musicale Bizzarie poetiche), Barbara fu una delle più famose e importanti compositrici della Venezia del Seicento. In questo dipinto
la si vede ritratta anch’essa in una posa di tre quarti (come Marietta) ma dotata di un abbigliamento, di un’acconciatura e di
una serie di gioielli che la rendono estremamente avvenente
secondo uno schema associabile al modello della “cortigiana
onesta” (LORENZETTI, 2003, p. 147), ossia di quel tipo di donna
che riesce a catalizzare attorno a sé, nel suo salotto, intellettuali,
uomini di stato ed ecclesiastici grazie alla sua beltà ma anche e
soprattutto alla sua raffinatissima cultura. Barbara è in piedi
attorniata dagli strumenti del proprio sapere musicale: una viola
da gamba tenore con relativo archetto dotato di un prezioso
nasetto in avorio, una viola da braccio appoggiata, nascondendola in parte, a quella che sembra essere una lettera e, ancora
una volta, un libro-parte.
Ancora una particolare attenzione all’esecuzione strumentale, si
può rilevare nelle innumerevoli scene della vita quotidiana veneziana del Settecento siano queste private o pubbliche. Molti
artisti si soffermarono a testimoniare la passione per la musica
così come era vissuta in ambienti domestici, ritraendo intere
famiglie (animali da compagnia compresi) sia di nobili come di
cittadini (con liuti, tiorbe, viole e cornetti, intorno ad una spinetta o un clavicembalo) intente a fare musica d’insieme.
Artisti come Pietro Longhi (1702-1785) si specializzarono proprio in queste scene di vita domestica restituendoci, con una
maestria davvero straordinaria, la possibilità di cogliere in maniera precisa e minuziosa la familiarità e l’interesse per il mondo
Oltre all’ambiente privato, diversi pittori ritrassero quella Venezia che ancora oggi è, sicuramente, la più conosciuta: quella del
carnevale. Giandomenico Tiepolo (1727-1804) in questo campo
fu uno tra i maestri più rinomati. Intorno al 1754 (ill.7) ritrasse
una movimentata e affollata scena di carnevale, ambientata in
una piazza in prossimità della laguna, che mostra al centro della
scena una coppia di danzatori intenti a ballare un minuetto; sulla
destra una piccola formazione orchestrale composta da tre viole
da braccio, una chitarra, un violone e due strumenti a fiato forse
due trombe (si intravedono le campane dell’estremità); sul parapetto dietro ai danzatori, un suonatore di tiorba.
Un panorama sonoro quello veneziano assolutamente variegato
e costante, dunque, che ancora Goldoni in poche righe seppe
cogliere e tramandarci:
Si cantava nelle piazze, nelle vie e sui canali. I mercanti cantavano quando
finivano il lavoro, i gondolieri cantavano quando aspettavano il padrone.
(DUBY ET LOBRICHON, 1991, p.138).
Un sottofondo musicale che era tutt’uno, quindi, con la vita sia
dei singoli cittadini che della comunità veneziana tutta. A Venezia si celebravano ogni anno una quarantina di feste pubbliche e
per ognuna di queste (sia che ufficialmente si trattasse di una
cerimonia religiosa o piuttosto di stato) era previsto un elaborato cerimoniale, anche musicale, che coinvolgeva tutta la città
nello sforzo comune di consegnare al mondo l’immagine di una
città libera e magnificente. E’ proprio questa immagine che ancora oggi ci affascina e che possiamo cogliere grazie all’impresa
dei pittori di Venezia che seppero:
edificare questi temi nella scenografia di un racconto storico: (i
pittori) hanno così definito, più che una raccolta iconografica,
un vero e proprio stile veneziano, di cui la ragione d’essere era il
sogno della dominazione universale della loro città. (DUBY ET
LOBRICHON, 1991, p.12).
Bibliografia
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Einaudi.
BESCHI, L. (1999/2000). Un’immagine della Musica in Paolo
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Cana, in «Imago Musicae», XVI/XVII.
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Venezia.
BUCKHARDT, J. (1993). Il ritratto nella pittura italiana del Rinascimento, Bologna, Bulzoni,.
DOLCE, L.(1557). Dialogo della pittura di M. Lodovico Dolce,
intitolato l’Aretino, nel quale si ragiona della dignità della pittura e
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di tutte le parti necessarie che a perfetto pittore si convengono, Venezia, G.Giolitto de Ferrari,.
DUBY, G. - LOBRICHON, G. (1991). Vita e fasti di Venezia
attraverso la pittura, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale.
DÜRER, A. (1920), Schriftlicher Nachlass, Berlino.
GANASSI, S. (1542). Regula Rubertina. Parte I: Regola che insegna sonar de viola darcho tastada, Venezia.
GOLDONI C. (1955), Tutte le opere, Milano, Mondadori.
LORENZETTI, S. (2003). Musica e identità nobiliare nell’Italia del
Rinascimento, Firenze Olschki.
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PINO, P. (1548). Dialogo di Pittura di Messer Paolo Pino, nuovamente dato in luce, Vinegia, Pavolo Gherardo.
RIDOLFI, C. (1648). Le meraviglie dell’arte ovvero le vite degli
illustri pittori veneti e dello stato, Venezia,.
TOFFOLO, S. (1987). Antichi strumenti veneziani. 1500/1800:
quattro secoli di liuteria e cembalaria, Venezia, Arsenale.
TOFFOLO, S. (1995). Strumenti musicali a Venezia nella storia
dell’arte dal XIV al XVIII secolo, Cremona, Turris.
VASARI, G. (1991). Le vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti, Napoli, Orsa Maggiore.
ZANETTI, AM. (1771). Della pittura veneziana, Venezia.
Illustrazioni
Ill. 1 - Giorgione (attribuito a), Concerto campestre, Venezia 1511 ca,
Paris, Musée du Louvre
Ill. 2 - Bonifacio de’ Pitati detto Bonifacio Veronese, Convitto del ricco
Epulone, Venezia 1543-45, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Ill. 3 - Paolo Caliari detto il Veronese, Nozze di Cana, Venezia 1562-63,
Paris, Musée du Louvre
Ill. 4 - Paolo Caliari detto il Veronese, Sposalizio di Santa Caterina, Venezia 1575 ca, Venezia, Gallerie dell’Accademia
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Ill. 5 - Marietta Robusti, Autoritratto, Venezia 1580, Firenze, Galleria
degli Uffizi
Ill. 6 - Bernardo Strozzi, Ritratto di musicista (Barbara Strozzi),
Venezia (?) 1636 ca, Dresda, Gemäldegalerie
Ill.7 - Giandomenico Tiepolo, Il Minuetto o scena di Carnevale, Venezia (?) 1754 ca, Paris, Musée du Louvre
Il Ganassi
Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
C.P. 6159 00195 Roma
Anno 15, Numero 12
Direttore Responsabile
Andrea Damiani
Redazione
Giovanni Cappiello
Hanno collaborato
Giuditta Albanese, Dario Luisi, Donatella Melini,
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Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
La tenuta del violino dall’inizio del XVII alla fine del XVIII secolo
Saper leggere le fonti originali, una questione di mento?
di Dario Luisi
Premessa
Questo articolo è un riassunto, opportunamente modificato ed in
parte integrato nelle sue parti, della mia tesi di Master dal titolo
“Wie man die Violin halten, und den Bogen führen müsse.”[1] (Posizione e
tenuta del violino e dell’arco dall’inizio del XVII alla fine del XVIII secolo.
Presentazione, chiave di lettura ed analisi delle fonti storiche), effettuata
presso l'Università di Musica e Arti Figurative di Graz, Austria,
nel Giugno del 2009. Il testo integrale, corredato di tutte le fonti
originali relative anche alla tenuta dell'arco è reperibile presso:
http://www.darioluisi.com/musica/writtenworks/
writtenworks.html
L'oggetto dell'analisi, il mento?
Nell'ambiente violinistico (e non solo) dedito all'esecuzione di
musiche eseguite con l'ausilio di strumenti storici, si può constatare come negli ultimi decenni si sia sviluppata un'accentuata contrapposizione tra i sostenitori di una tecnica della tenuta dello
strumento denominata impropriamente “chin-off”[2], che trova
le sue origini principalmente in Sigiswald Kuijken e nella scuola
moderna del violino storico propria delle Fiandre, ed una filosofia
di pensiero (ed azione) che tende ad integrare, sostituire o addirittura a migliorare questa tecnica con elementi moderni che pur
facendo riferimento ad alcuni aspetti storici riguardanti l'uso e la
funzione principale del mento, ne stravolgono spesso il significato.
Un apporto rilevante donato a quest'ultima è stato dato anche da
importanti musicologi che affrontando l'argomento sono purtroppo partiti dal presupposto che la tecnica moderna della tenuta
del violino sia quella (la migliore) cui fare riferimento nel leggere
ed interpretare le fonti originali, commettendo così un errore
grossolano; un'eccellente dimostrazione di questo procedere è
rappresentata in maniera esemplare dalla seguente lettura o meglio interpretazione di questo passo del trattato violinistico di M.
P. de Monteclair: “Le Violon se tient de la main gauche le manche pose
entre le pouce et le doit suivant; il ne faut pas le trop serer parce que cela
roidiroit les doits et le poignet: Pour le tenir ferme et qu’il ne vacile point, il
faut bien apuier le bouton qui tient les cordes contre le col sous la jouie
gauche.” [3] qui, l'interpretazione data da David Boyden è la seguente: “Diese Formulierung ist etwas zweideutig, doch muß daraus verstanden werden, daß die Violine von der linken Wange festgehalten
wird”[4].
In questo caso il musicologo non riesce ad arrendersi all'evidente
chiarezza e semplicità del testo originale e ne modifica radicalmente il significato nella sua interpretazione, adattandolo ad
un'ottica moderna dove, se il mento (o in questo caso addirittura
la guancia) viene in qualche modo menzionato, deve inevitabilmente assumere un ruolo attivo, principale e costante nella tenuta
dello strumento.
La musicologa Greta Moens-Haenen[5] arriva in questa ottica di
incredulitá addirittura a teoricizzare che non appena il violino
(anche se tenuto dalla mano sinistra) viene ad essere posizionato
sotto il mento, non è da escludersi un suo coinvolgimento “a
priori” nella tenuta dello strumento.
Storicamente, e quindi analizzando in maniera pragmatica e non
interpretativa le fonti originali, si può notare che al contrario
dell'odierno osservatore, in questo caso due musicologi importanti e “di tendenza”, l'attenzione del trattatista non è assolutamente
centrata sull'uso o meno del mento, bensì, dopo un'inizio in cui
solo la mano sinistra si occupa della tenuta o presa dello strumento ed il violino viene posizionato “da qualche parte” tra la vita e
collo, il mento viene, dopo essere stato inizialmente ignorato, ad
essere talvolta menzionato come aiuto, mentre solamente alla fine
del periodo di osservazione (1667 - 1798) intervenire lentamente
e progressivamente (in un arco di tempo che durerà più di centocinquant'anni) a coadiuvare ed infine a sostituire la mano sinistra
nel suo compito, assumendone così il suo ruolo, quello della tenuta o “presa” dello strumento. Quindi, mentre nel sei e settecento lo strumento viene tenuto (principalmente o esclusivamente)
dalla mano sinistra, nell'ottocento questo compito viene rilevato
sempre più dal mento, come è infine abituale nella nostra epoca, e
lo ripeto, solamente nella nostro epoca.
Quanto questo processo sia durato lo si evince persino dalle parole di Ivan Galamian, che nel 1962 (!) scrive addirittura:
„Andere überlassen das Stützen des Instrumentes der linken Hand, indem
sie die Violine auf das Schlüsselbein legen, während das Kinn bei bestimmten
Lagenwechsel aktiv wird.“[6].
Alcune considerazioni
Dopo aver analizzato con attenzione i trattati menzionati precedentemente è necessario, prima di trarre le conclusioni necessarie
ed arrivare ad un esito riguardante una visione il più oggettiva
possibile, porre alcune considerazioni finali che forse non sono
ancora state fatte e che sono utili alla comprensione generale delle
stesse:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
Non esisteva nel sei- settecento una tipologia unica di
suonatore di violino, questa era differenziata in base
all'epoca, all'area geografica ed all'istruzione ottenuta,
perlopiù tramandata oralmente, quindi senza l'ausilio di
metodi e trattati.
È possibile raggiungere alti livelli tecnici e musicali indipendentemente dalla tecnica violinistica usata. La tecnica
era (ed è) relativa al repertorio in uso, ovvero la più sviluppata ed evoluta del suo tempo.
Per i violinisti dell'epoca non esistevano tecniche alternative tra cui scegliere, la propria tecnica violinistica (e
quella del proprio maestro) era quella vigente e preponderante.
La nostra odierna deve essere una posizione di osservatore e di studioso delle epoche e delle tecniche passate,
non di giudice. Il paragonare continuamente le tecniche
storiche a quelle odierne, per noi abituali, porta solo a
delle valutazioni viziose.
“Sotto il mento”, “sotto la guancia”, “sopra l'ascella”,
“sulla clavicola” od altre indicazioni simili relative alla
parte del corpo limitrofa al mento, si riferiscono meramente al posizionamento “geografico” dello strumento.
Tenere lo strumento con la mano sinistra e posizionarlo
sotto il mento non significa assolutamente tenere lo
strumento con il mento.
I risultati negativi del cambiamento di tecnica ed impostazione violinistica, per esempio il passaggio da quella
moderna ad una storica, sono imputabili esclusivamente
alla capacità di assimilazione, messa in opera e studio, e
assolutamente non alla tecnica stessa, quale essa sia.
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Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
Il quadro offerto dalla panoramica dei trattati e dalle testimonianze esaminate ci mostra una varietà enorme di possibilità
riguardanti la tenuta del violino tra l'inizio del XVII° e la fine
del XVIII°secolo, questa varietà è per la nostra mentalità e logica odierna difficile da accettare.
Questa panoramica varia dalla tenuta del violino premuto contro le “short ribbs” di Nicola Matteis riportataci da Roger North
[7] ed anche, in riferimento agli italiani in genere, da John Lenton[8], a quella quasi moderna di Francesco Galeazzi[9].
Due sono allora gli aspetti innegabili che emergono da quest'analisi: l'innalzamento progressivo della posizione dello strumento, da sopra la vita a sotto il mento (inteso come punto d'orientamento e non come presa dello strumento stesso), ed il concetto di presa e tenuta standard dello strumento con la mano sinistra, tra dito pollice ed indice; quest'ultimo aspetto dell'impostazione di base non è poi così lontano da quello odierno, nonostante la nostra memoria tenda in questo campo a non funzionare molto bene, come l'esempio precedente riferito a Galamian
ben dimostra.
Le tre tenute o prese del violino, dal 1667 al 1798
Qui di seguito sono riportate le tre tenute, ovvero prese
“fisiche”, dello strumento, indipendentemente dal posizionamento dello stesso, che, come abbiamo visto, può variare d'altezza; nel caso del primo periodo (1667 – 1712) questo aspetto
è d'importanza fondamentale, dato che il posizionamento del
violino su di una parte del petto esclude a priori qualsiasi coinvolgimento del mento. Sono state considerate circa 30 fonti
tratte dai metodi analizzati (circa 45) e dalle testimonianze di
Roger North; per quanto riguarda Robert Crome e John Lenton, queste, in mancanza della fonte originale, sono state ricavate da: Malcolm Boyd e John Rayson in “Early Music” (Lenton) e
da: Enzo Porta in“Il Violino e la storia”, Torino EDT 2000
(Crome).
1)
2)
3)
Tenuta esclusiva del violino con la mano sinistra e
senza ausilio del mento (posizionamento del violino
tra area della vita e collo)
Tenuta del violino con la mano sinistra e con l'ausilio
del mento esclusivamente durante i cambiamenti di
posizione (posizionamento nell'area del collo, con
mento sopra la prima o quarta corda)
La tenuta continua del violino col mento
(posizionamento sotto il mento)
Conclusione
Putroppo, a mio avviso, si è assistito negli ultimi decenni ad
un'inasprimento forse eccessivo nella contrapposizione tra
queste due filosofie e ad una focalizzazione senz'altro fuorviante
su di un'aspetto, il mento, che solamente nel tardo ventesimo
secolo ha raggiunto l'importanza che oggi gli si attribuisce.
Quest'impoverimento del discorso sulla tecnica violinistica, ci
ha portati a trascurare ben altri aspetti che seppur dipendenti da
una corretta applicazione delle tecniche violinistiche storiche
sono ben più importanti dell'uso o meno del mento nell'esecuzione storicamente informata, come per esempio l'uso delle posizioni, dei portamenti, l'importanza della tecnica e della tenuta
dell'arco, il fraseggio, l'articolazione e non ultima, l'utilizzazione
di strumenti costruiti secondo rigorosi criteri storici in ogni loro
parte, corde ed archetti compresi. È comunque mia profonda
convinzione che in un'esecuzione storicamente informata una
coerenza nell'applicazione delle conoscenze nel campo delle
tecniche strumentali storiche e in quelle costruttive8
organologiche sia d'obbligo per comprendere ed affrontare al
meglio il repertorio musicale che ci si propone. Questa conoscenza e la sua applicazione possono e devono poter influenzare
le possibilità interpretative e musicali dell'artista.
Note
[1] Johann Adam Hiller: „Anweisung zum Violinspielen, für Schulen,
und zum Selbstunterrichte.“, Leipzig 1792 (Come si debba tenere il Violino e condurre l'Archetto)
[2] Un termine per me più corretto dovrebbe essere “left-handhold”, in contrapposizione per esempio a “chin-hold”
[3] Michel Pignolet de Montéclair:“Méthode facile pour aprendre a
Joüer du Violon”, (Paris 1711/12)(Il violino viene tenuto dalla
mano sinistra, col manico posato tra il pollice ed il dito seguente
(l'indice); non si deve stringere troppo (la mano) perchè questo irrigidirebbe le dita ed il polso: Per tenerlo fermo (il violino) e perchè non vacilli, bisogna ben premere il bottone che tiene le corde contro il collo sotto
la guancia sinistra.)
[4] David D. Boyden:“The History of Violin Playing from its Origin
to 1761”, London 1965 (Ed.ted. Mainz 1971)(Questa asserzione
è un poco ambigua, ciononostante se ne deve trarre la conclusione che il
violino venga tenuto stabilmente dalla guancia sinistra)
[5] Greta Moens-Haenen: “Deutsche Violintechnik im 17. Jahrhundert”, Graz 2006
[6] Ivan Galamian: „Grundlagen und Methoden des Violinspiels“ (Ann Arbor, 1962, ted. Hamburg 1988) (Altri affidano
la tenuta dello strumento alla mano sinistra, appoggiando il violino
sulla clavicola e facendo intervenire attivamente il mento durante particolari cambi di posizione.)
[7] John Wilson: „Roger North on Music”, Novello 1959
[8] John Lenton: „The Gentleman Diversion or the Violin Explained“, London 1694
[9] Francesco Galeazzi: „Elementi teorico-pratici di Musica, Con un
saggio sopra l’arte di suonare il Violino“, Roma 1791 (sec. edizione Ascoli 1817)
Bibliografia
Fonti primarie:
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Anonimo, VI Book of Nolens Volens, or The most Compleat tutor to ye
Violin, Being an Introduction to Learners on ty Instrument Digested in ye
most plain & easy Method yet Extant….., London, Walsh, 1715
Antoine Bailleux, Methode Raisonnée pour apprendre à Jouer du Violon“, Paris, 1798
C.R. Brijon, Réflexions sur la Musique, et la vrai manière de l’exécuter
sur le Violon, Paris, 1763
S. De Brossard, Fragments d'une méthode de violon, ms 1712
Charles Burney , The Present State of Music in France and Italy”,
London, 1771
Charles Burney, A General History of Music”, London, 1789
Giuseppe Cambini, Nouvelle Méthode Theorique et Pratique Pour le
Violon, Paris 1795
Robert Crome, The Fiddle New Model’d, or a Useful Introduction for
the Violin, Exemplify’d with Familiar Dialogues, London, 1740
Michel Corrette, L’Ecole d’Orphée, Methode Pour Apprendere facilement a joüer Du Violon Dans le goût Francois et Italien…, Paris 1738
Johann P. Eisel, Musicus autodidactos, oder Der sich selbst informirende
Musicus, Erfurt, 1738
Georg Falck, Idea boni cantoris, das ist Getreu und gründliche Anleitung, Nürnberg 1688
Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
Ivan Galamian, Grundlagen und Methoden des Violinspiels , (Ann
Arbor, 1962, ted. Hamburg 1988)
Francesco Galeazzi, Elementi teorico-pratici di Musica, Con un saggio
sopra l’arte di suonare il Violino, Roma, 1791 (sec. edizione Ascoli,
1817)
F. Geminiani, The Art of Playing on the Violin, London, 1751
F. Geminiani, Gründliche Anleitung oder Violin Schule ou Fundament
pour le Violon, composé par Mons.r Geminiany, Vienna (C.Torricella),
1782
José Herrando, Arte y puntual explicacion del modo de tocar el violin
….., Madrid 1757
John Lenton, The Gentleman Diversion or the Violin Explained“,
London, 1694
Johann Adam Hiller, Anweisung zum Violinspielen, für Schulen, und
zum Selbstunterrichte.“, Leipzig 1792
George S. Löhlein, Anweisung zum Violinspielen mit praktischen
Beyspielen, Leipzig, 1797
J.F.B.C. Majer, Neu-eröffneter Theoretisch- und Praktischer Music-Saal,
Nürnberg, 1741 (2a Edizione)
Daniel Merck, Compendium musicae instrumentalis Chelicae: Kurtzer
Begriff, welcher Gestalten die Instrumental Music auf der Violin, Pratschen, Viola da gamba und Bass gründlich und leicht zu erlernen seye,
Augsburg, 1695
M. P. de Montéclair, Méthode facile pour aprendre a Joüer du Violon,
Paris, 1711/12
Leopold Mozart, Gründliche Violinschule“, Nürnberg, 1756
Georg Muffat, Introduzione al „Florilegium secundum“, Passau, 1698
Johannes J. Prinner, Musikalischer Schlisl, ms 1677
Francesco Rognoni, Selva de Varii Passaggi”, Milano, 1620
Ignaz Schweigl, Grundlehre der Violin, zur Erleichterung der Lehrer
und zum Vortheil der Schüler“, Wien, 1794 (Prima Parte) e 1795
(Seconda Parte)
Daniel Speer, ….Musicalisches Kleeblatt / Worinnen zu ersehen / wie
man züglich und in kurzer Zeit…. III. Allerhand Instrumenta greiffen /
und blasen lernen kan., Ulm, 1697, 2° edizione
Louis Spohr, Violinschule,, Wien 1832
Theod.-Jean Tarade, Traité du Violon, ou Regles pour cet Instrument“,
Paris, 1778
Giuseppe Tartini, Regole per arrivare a ben suonare il violino“, prima
del 1771 (ms.)
Gasparo Visconti, Nolens Volens, The Third Book for the Violin,
Being an Introduction for the Instructing of Young Practisioners on that
Delightfull Instrument ……. By Seignr. Gasperini.., London, Walsh,
1706
Fonti secondarie:
David D. Boyden, The History of Violin Playing from its Origin to
1761, London, 1965
M. Boyd & J.Rayson, Early Music”, London 1982/II
Walter Kolneder, Georg Muffat zur Aufführungspraxis, BadenBaden, 1990
Walter Kolneder, Das Buch der Violine, Atlantis MusikbuchVerlag, 1972
Greta M.-Haenen, Deutsche Violintechnik im 17. Jahrhundert, Graz,
John Playford, A Breif Introduction to the Skill of Musick, London, 2006
Enzo Porta, Il Violino e la storia, Torino, EDT, 2000
1658
John Wilson, Roger North on Music, Novello 1959
Peter Prelleur, The Art of Playing on the Violin, London, 1731
Tavola riassuntiva sulla tenuta del violino (dove menzionata) nelle fonti analizzate
Anno
Autore
Tenuta violino
Posizione violino
Uso mento
Note
1667
Playford
mano sinistra
sul petto, poco sotto
la spalla
non citato
indica posizione del pollice
per effettuare i cambiamenti di posizione
1677
Prinner
sotto il mento
--
sempre per cambiamenti cita virtuosi che tengono il
violino sul petto
1688
Falck
pollice e indice
sul petto
non citato
-
1694
Lenton
un poco più alto del
petto
non citato
sconsiglia il posizionamento del violino sotto il mento
1695
Merck
--
sotto il petto a sinistra
non citato
attenzione a non fare smorfie con naso, mento e bocca; non russare o fare versi
1697
Speer
--
--
non citato
spostare la mano per cambiare posizione
1706
Visconti
mano sinistra,
-nell'incavo di pollice
ed indice
non citato
--
mano sinistra
non citato
per non far „vacillare“ o
per tenere fermo, premere
contro il collo
1711/12 Monteclair
contro il collo, sotto
la „guancia“
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Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
1712
Brossard
mano sinistra
contro la spalla, un po’
sotto la „guancia“
non citato
tenere „ben fermo“ lo strumento premendo lo stesso contro la spalla
1715
Anonimo
(vedi Visconti)
–
--
uguale Visconti 1706
1731
Prelleur
mano sinistra
--
non citato
--
1732/41
Majer
poll. e indice
sul petto
non citato
uguale a Falck (1688)
1738
Corrette
mano sinistra
(sulla spalla?)
necessario
per cambiamenti
tenere „necessariamente“ col mento
per i cambiamenti di posizione, specialmente per scendere
1738
Eisel
(mano sinistra?)
--
non citato
uso di posizioni solo spostando la
mano
1740
Crome* (a)
mano sin.
sul petto
non citato
--
1740
Crome* (b)
mano sin.
sul petto (?)
(sempre)
„modo migliore“
1751
Geminiani
(pollice e indice?)
sotto la clavicola (?)
non citato
uso e posizione pollice durante cambiamenti
1756
Mozart* (a)
pollice e indice
sul petto
non citato
posizione „bella ma difficile“
1756
Mozart* (b)
pollice e indice
sotto il mento
cambiamenti posizione „comoda“
1757
Herrando
pollice e indice
sotto il mento
sempre
--
1761
L’Abbé le fils pollice e indice
sulla clavicola
non citato
quarta corda sotto il mento
1763
Brijon
mano sinistra
sulla clavicola
non citato
--
1778
Tarade
mano sinistra
--
non citato
uso del palmo della mano „mano piatta“
1781
Löhlein
mano sinistra
contro la spalla sinistra
per standard „alcuni violinisti usano appoggiare il
non citato
mento durante difficoltà (di cambiamento)“
1782
Geminiani/
Torricellaº
--
tra clavicola e mento
non citato
Uso e posizione pollice durante cambiamenti
1791
Galeazzi
Mento
--
sempre
cita tecnica „di una volta“ (senza mento)
1792
Hiller* (a)
Mozart (a)
Mozart (a)
non citato
„ottenibile solo attraverso studio intenso“
1792
Hiller* (b)
pollice e indice
contro il collo, sopra l'ascella, sotto il mento
cambiamenti „modo migliore“
1795
Cambini
Pollice-indice
sulla clavicola
cambiamenti „tenere il resto del manico appoggiato al palmo della mano in modo che il
polso tocchi il corpo dello strumento“
1798
Bailleux
Pollice-indice
sotto mento
cambiamenti --
* Crome, Mozart e Hiller citano due tenute differenziate.
º traduzione in tedesco del metodo di Geminiani
Esposte in percentuale, le tre tenute ottengono nell'arco di questi 131 anni i seguenti valori percentuali:
Tenuta solo mano: ca. 70 %
Tenuta mano con ausilio saltuario del mento: ca. 20%
Tenuta principale con mento: ca. 10%
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Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
Lessico musicale e metamusicalità nei libretti d'opera di Giovanni Bertati
di Giuditta Albanese
Il quesito che ci si pone al primo impatto con l'analisi musicolessicale di un librettista del Settecento è in che modo sia possibile integrare con un contributo originale la letteratura e le
ricerche preesistenti. L'analisi linguistica dei libretti è un campo sterminato e presenta vari livelli di approccio, sotto forma
di scatole cinesi: ogni singolo lemma analizzato offre spunti e
apre possibilità di vario genere, da considerazioni prettamente
linguistiche ad altre storiche, culturali, sociali, grammaticali,
tenendo ben presente la situazione del melodramma
dell’epoca nelle varie aree geografiche, la preparazione personale del librettista, la sua familiarità con la musica, nonché la
sua estrazione socio culturale e, prima di ogni altra cosa, le
esigenze teatrali; per questo motivo si è deciso di restringere
l'analisi al lessico musicale, dai nomi degli strumenti alle pratiche vocali ed esecutive, dalla danza alle forme operistiche.
Non vanno sottovalutate le costrizioni legate alle leggi del
ritmo e della rima che inducono Bertati ad optare per un sinonimo piuttosto che per la forma magari più diffusa, a proposito si pensi alla coppia cembalo/spinetta alternati in base alle
esigenze linguistiche. È una sorta di analisi dall'interno, dal
particolare al generale; si parte dall'analisi di un termine (scelto
in base alla ricorrenza, alla particolarità, all'utilizzo non convenzionale...) per arrivare a considerazioni di carattere superiore riguardanti il corpus bertatiano, la librettistica del '700, le
pratiche musicali, strumentali, impresariali del teatro italiano.
Innanzi tutto perchè Bertati. La scelta non è stata casuale, né
dettata esclusivamente dai gusti personali, ma ha avuto luogo
sulla base di una serie di considerazioni: dopo Goldoni, Bertati è il librettista veneto del '700 più prolifico (è necessario poter analizzare un nutrito numero di libretti per poter poi svolgere un'analisi attendibile), tranne pochi casi i suoi libretti sono tutti reperibili nelle varie biblioteche italiane, la sua estrazione socio culturale medio-alta permette di inquadrarlo bene
nel contesto veneziano del suo tempo, inoltre l'influenza di
Goldoni (di pochi anni più anziano) è immediata e interessante.
Fondamentale è spiegare con cura la metodologia usata per
avviare il mio studio, ovvero la compilazione delle tabelle.
Quest'ultime costituiscono non solo un punto di partenza o
un supporto preliminare, ma uno degli elementi costitutivi del
mio lavoro in quanto registrano un nutrito numero di lemmi
(circa trecentocinquanta termini strumentali, teatrali, relativi
alle pratiche vocali, all'impresariato, alla danza e via dicendo) e
già ad un primo sguardo sono rivelatrici di situazioni interessanti. Una precisazione importante riguarda i libretti: sono
stati presi in considerazione solo quelli delle prime rappresentazioni, per evitare di incorrere in possibili manomissioni da
parte altrui e di modifiche postume consistenti.
Basta uno sguardo superficiale e preliminare alle tabelle per
intuire che i libretti metamusicali, ovvero incentrati su vicende
teatrali, conterranno come previsto una quantità di termini
musicali molto elevata rispetto agli altri, più tecnici e settoriali
(nella tipica situazione in cui il maestro di canto segue la virtuosa si fa largo uso di termini riguardanti le pratiche vocali
per esempio), ma paradossalmente questi risulteranno meno
interessanti rispetto a sporadiche apparizioni in contesti non
specificatamente musicali dunque con accezioni diverse e degne di analisi.
Il lessico utilizzato in questi libretti ha come caratteristica
principale il plurilinguismo, intendendo per questo la presenza
di vari registri linguistici e stilistici, tecnicismi, larga presenza
di termini settoriali e al tempo stesso la colloquialità che facilmente si instaura all'interno di una compagnia teatrale; la ricchezza e la preziosità di questo lessico sta nel suo ruolo di
rappresentanza di un'epoca storico-artistica. Possiamo affermare quasi con certezza che Bertati abbia portato in scena,
tramite i suoi personaggi, le pratiche e le abitudini musicali e
strumentali coeve, prendendo spunto dal repertorio di situazioni del Teatro alla moda di Marcello, offrendo così un panorama di quella che era l'attualità dell'epoca. Non tanto dunque i
singoli termini risulteranno interessanti (tranne espressioni e
lemmi tratti dal lessico settoriale come volata, gorgheggio,
contrappunto, strillata, fefaut, alamirè...), ma una gamma di
situazioni che riflettono e fanno luce sulle pratiche dell'epoca,
stereotipate e trasformate in satira. Al contrario, termini tecnici inseriti in contesti non metamusicali, risulteranno più interessanti in quanto non giustificati semplicemente dalla drammaturgia.
Particolare importanza e ricorrenza hanno le associazioni lessicali che sono state riportate nelle tabelle come gruppi di termini come “bere e cantare”, “canto e suono”, “cantare e ballare”; sono bastati pochissimi libretti per capire che determinate
associazioni lessicali, veri e propri topoi, assumono un'importanza primaria negata ai termini stessi considerati singolarmente :“suonare”, “cantare”, “musica”, “ballo”, “canto”, hanno una ricorrenza frequentissima, ma non offrono particolari
spunti di riflessione in quanto vengono utilizzati nella quotidianità delle azioni ai fini drammatici.
Il caso più ricorrente è quello del brindisi finale, nel momento
in cui l'azione volge al termine, il lieto fine viene celebrato con
“suoni, canti” e calici traboccanti: Mirandolina, nell'esempio
che segue, dirige il brindisi distribuendo i bicchieri colmi di
vino e invita i partecipanti a cantare una canzone a bere, una
composizione intonata solitamente durante i momenti di convivialità, forse composta appositamente o diventata con il
tempo una sorta di brindisi, filastrocca in musica da cantare
insieme, un primo esempio di stornelli a doppio senso.
Mirandolina (Venezia, 1773)
Atto I, Scena XII
Mirandolina: A lui si dia un bicchiere:
un altro anche a Giulietta:
e una canzone a bere
dobbiamo insiem cantar.
Tutti: cantiamo, si, beviamo
vogliamo allegri star
Nelle opere giocose del Settecento, accade spesso che la musica accompagni e risolva questioni mediche o stregonerie con il
suo potere magico derivante a volte dal suono di uno strumento altre dal canto. Il rapporto tra musica e medicina risale
alla tradizione greca che tramanda una vasta aneddotica di
esperienze terapeutiche affidate alla musica, unico antidoto
capace di ribaltare i temperamenti e guarire dalle malattie,
soprattutto quelle psichiche e cerebrali.
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Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
Gli umori contrarj (Venezia, 1798)
Atto II, scena ultima
Antonino: un dolce stromento
che flebile suoni
gli calma del cerebro
le gran convulsioni
che il forte rumore
in lui và a destar.
Policronio: Rosina, fa presto
qua chiama Giorgetto,
e il suo clarinetto
ci venga a suonar.
Rosina ritorna con il suonatore
Rosina: allegri signori
è qui il suonator
Ant: pian, piano cominciate
suonate dolcemente,
e poi più allegramente
siccome accennerò
Il Suonatore suona e ad poco a poco, Candido và riavendosi, movendosi
secondo il suono, e si alza.
[...]
Tutti: del musical stromento
vedete il gran portento
chi effetto tal non vede
certo no 'l crede no
La rima scontata, quasi banale, “Giorgetto e il suo clarinetto”,
non induce a particolari riflessioni, mentre la scelta dello strumento obbliga a riflettere su alcuni fattori: Antonino suggerisce solo che lo strumento debba essere “dolce”, dunque viene escluso per esempio un tamburo storicamente più idoneo
ad accompagnare occasioni del genere (magie, incantesimi,
riti...), il clarinetto è uno strumento maneggevole e facile da
portare in scena e la sua presenza ne attesta la familiarità al
vocabolario del pubblico dell'opera nonostante lo strumento
fosse entrato da poco nell'organico strumentale d'orchestra
dell'opera italiana. Franco Piperno, nel saggio “Per due note
fecciose, quante vane parole” Lessico musicale nella librettistica settecentesca di soggetto meta teatrale[1], documenta la presenza dei “dolci
clarinetti” nell'opera L'impresario burlato[2] precedente di un
solo anno, attestandone un uso non più esotico ma consapevole: «Già parmi di sentire un'eco intorno/ di bassi, di
violini/ co' dolci clarinetti, oboè, fagotti/ far concenti interrotti,/ accordando al mio pezzo già bel bello/ un amabile e
caro ritornello» (I/12).
Nella scena che segue, tratta da La fata capricciosa gli strumenti
sono ancora protagonisti della guarigione dalla pazzia, male
che può essere curato esclusivamente con la musica, interessante è la similitudine iniziale tra la guarigione e la tarantella
come rimedio esorcizzante dal morso della tarantola.
La fata capricciosa (Venezia, 1789)
Atto II, scena ultima
Arm: non lo posso guarir dalla pazzia
la musica soltanto
risanare lo può, come coloro
che morsicati son dalla tarantola
ora si faccian dunque
suonar vari stromenti,
e noi stiamoci attenti
a quel che più lo penetra e l'alletta
che scuotendosi allora
ritornerà nel suo cervello ancora.
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Bru, Flo...: non si perdano i momenti.
Un ripieno di stromenti
faccia l'aria rimbombar...
l'orchestra suona un ripieno
[…]
Bru: zitto zitto che per me
credo meglio l'Oboè.....
suona l'oboe solo
Cas: dirò anch'io da uomo dotto,
che si provi ora il fagotto....
suona il fagotto solo
Flo: io direi che piu fracasso...
far dovesse il cotrabasso
suonano li contrabassi soli
Arm: crederò per fare effetto
che la musica più bella
forse sia la tarantella
e provarla si potrà.
Viene suonata la tarantella alla pugliese a quel suono Fausto si va a
poco a poco destando.
[…]
Fausto a poco a poco al suon della tarantella alzandosi in piedi fa moto
di ballare, e balla, e poi canta alla Pugliese.
Dopo vari tentativi mirati e precisi in cui vengono testati gli
strumenti prima in un ripieno e poi singolarmente (richiamati
all'ordine con molta attenzione alla rima), si scoprirà che rimedio efficace per la guarigione è rappresentato dalla tarantella, intesa come musica e ballo. Nelle didascalie Bertati sottolinea che la tarantella alla pugliese dovrà essere realmente eseguita, mentre Fausto ridestato e in via di guarigione, ballerà e
canterà alla pugliese. L'opera viene rappresentata a Venezia,
dunque la tarantella assume connotati esotici e viene accolta
come genere lontano, quasi una turcheria.
È interessante immaginare che Bertati abbia inserito il canto
alla pugliese anche per ragioni “pratiche”: “Molti cantanti
famosi provenivano dalla Puglia, terra notoriamente ricca di
talenti musicali ma scarsa di allestimenti operistici”[3] dunque
per dare la possibilità al cantante di interpretare al meglio
quella che potrebbe essere la propria aria di baule dai connotati regionali.
Funzione istituzionale e militaresca hanno gli strumenti utilizzati in un contesto militare: la tromba, accompagnata spesso
da aggettivi che la qualificano come guerriera tromba, il tamburo, identificato spesso tramite il suo suono, il tapatà, i corni, o
più genericamente i militari strumenti, annunciano battaglie,
avvisano di pericoli imminenti, precedono l'arrivo di generali
e comandanti, avvertono il popolo dei pericoli incombenti,
suonano marce militari e spesso funebri.
Lo squillare della tromba o il battere del tamburo hanno anche una funzione che potremmo definire “pratica”, nel senso
che questi suoni fuori scena, alludono a luoghi lontani e fanno riferimento ad una zona extradiegetica fisicamente non
presente sul palcoscenico e altrimenti non rappresentabile.
Come accennato, mentre in un contesto metateatrale, la musica ha il duplice ruolo di soddisfare le esigenze primarie dell'opera, una sorta di primo livello, e al tempo stesso fungere da
componente drammaturgica, materia dell'opera nell'opera, in
altri libretti diventa elemento semiotico, ovvero segno, tramite, espediente per dire altro:
Infatti, così come il linguaggio e la letteratura
rinviano al mondo esterno, così la musica è
veicolo di significati: essa è in grado d'imitare i
Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
versi degli animali e il movimento, di evocare
l'infinito, di caratterizzare l'allegria o la tristezza, la quiete o la melanconia, di suggerire una
certa successione di stati d'animo…[4]
Caso limite è la situazione in cui la musica diventi il luogo dei
doppi sensi, delle allusioni esplicite, ma tra i due estremi, musica nei libretti metamusicali e musica come campo da cui
attingere metafore e similitudini, c'è una gamma di situazioni
interessanti.
Dedicare didascalie o versi per descrivere la provenienza di un
personaggio, il suo stato d'animo, lo stato sociale, l'estrazione
o ancora la professione, rappresenta un problema per un librettista come Bertati preoccupato più a creare situazioni dinamiche e ricche di verve piuttosto che concentrarsi a scandagliare caratteri e a scavare nell'inconscio dei personaggi per
evidenziarne la psicologia più profonda, dunque le abitudini
musicali, la scelta della canzonetta da cantare, l'intonazione, la
predisposizione e la familiarità alle pratiche strumentali, si
caricano di valore descrittivo e connotativo.
Anche l'onomastica sfrutta il lessico musicale per evidenziare
caratteristiche “sonore” dei personaggi, accentuando la vivacità e l'allusività tipiche del linguaggio comico in direzione parodica e satirica: le capacità canore di una fanciulla, i difetti di
pronuncia come la balbuzie, una grossa pancia simile a quella
di un calascione, sono notizie che permettono di caratterizzare
immediatamente il personaggio leggendone appena il nome;
connotati e trasparenti sono i nomi nell'Opera nuova: Placido
(impresario), Saetta (conte), Regina e Graziosa (canterine),
Zerbino (buffo).
Gli strumenti musicali sono anche un espediente per descrivere il carattere, l'estrazione socio-culturale, perfino inclinazioni
morali, dei personaggi, Bertati connota la fanciulla popolana
tramite lo strumento che suona, il chitarrino ad esempio, ciufoli,
zampogne, ciaramelle e flautini, ziffoli (a volte nella forma zuffoletto,
zuffolotto) sono rappresentanti di un contesto campagnolo e
popolare, essendo strumenti poveri, semplici e pastorali, mentre i personaggi “seri”, la coppia di innamorati, gli aristocratici
e i reali saranno sempre accompagnati da strumenti nobili e
colti come l'arpa, la cetra, il liuto, crotali e sistri.
L'organologia è un altro ambito importante, principalmente
per quanto riguarda la sfera dei doppi sensi e delle metafore:
“sentirsi vuoto come un flauto”[5], deridere il rivale in amore
dandogli del “salterio scordato”, avvertire gli altri dell'imminente “rottura delle corde del proprio violone”[6], sono espressioni colorite e dall'impatto comico assicurato potendo
immaginare quasi sicuramente il gioco effettivo di richiami con
l'orchestra a rafforzarne l'effetto.
Il tamburo è lo strumento più menzionato nei libretti di Bertati
sia secondo l'uso e il significato proprio, che con accezioni
non propriamente musicali: lo troviamo ad annunciare battaglie e nemici, dà il nome a chi lo suona in ambito militare,
accompagna minacce più o meno sonore...
Aboalcascem: Giudizio; o ch'io meschino
vado della mia pelle
a formar un tamburro; e coi, Signore
in un sacco legate
Ve ne andrete a pescar dentro l'Eufrate.
I due esempi documentano un modo di dire che ricorre spesso nei libretti di Bertati, una sonora e colorita espressione di
minaccia basata sulla struttura dello strumento con la pelle
tirata, tesa e battuta .
Amore e dovere (Venezia,1800)
Atto I, scena VI
a 4: nello stomaco la bile
và suonandomi un tamburo.
La forza delle donne (Venezia, 1778)
Atto II, scena IX
timur: […]
quel bel visetto amabile
dentro al pensier mi sta
e fammi nelle viscere
sentir il tapatà.
La fedeltà fra le selve (Roma, 1789)
Atto II, scena ultima
Tutti: dall'allegrezza dallo stupore
il cor mi balza dentro il petto,
e quel furbetto del dio amore
tamburri e timpani battendo va
Il secondo gruppo di esempi invece considera il tamburo sotto l'aspetto prettamente sonoro: i moti interiori, le emozioni e
gli stati d'animo vengono paragonati al ritmo costante dello
strumento. Nel primo caso è la rabbia, la bile a giustificare il
paragone, mentre negli altri due sembra essere il battito del
cuore, il suo palpitare, ad essere paragonato ai colpi dello strumento. Nel libretto La forza delle donne (es.2) il tamburo non
viene nemmeno nominato, ma la sua presenza viene esplicitata direttamente dal suo suono, dal tapatà, come se si trattasse
di un vero colpo del cuore.
Le metafore strumentali sottintendono spesso allusioni erotiche, come quella della coppia di innamorati nel libretto Gli
umori contrarj (Venezia, 1798),“io verseggiando,/ ei tasteggiando” che esprime quel desiderio di complicità, di accordo e di
complementarierà e il desiderio di Aurelia di incontrare “Uno,
che per esempio, l'estro qual or m'ispira le corde della lira mi
stasse a tasteggiar”si traduce in desiderio amoroso e fisico. Più
esplicite sono le battute a doppio senso tra padre e figlio in un
momento di complicità maschile nella scena XIII dello stesso
libretto, Antonino si confida con il padre Candido raccontandogli del prevedibile insuccesso amoroso :
Atto I, scena XIII
Il marito geloso (Venezia, 1781)
Atto II, scena XIV
[...]
Don Cireneo: geloso impertinente
s'io fossi un suo servente
un tamburo farei della tua pelle
Gli intrighi del Serraglio (Milano, 1800)
Atto I, scena XVI
Quel.che.suc.ce.de.rà.
Ant.: ma se ricalcitrà
al dovere coniugale. E se parlandole
di quel ch'è convenevole
le vien subito nausea. E poi per muoverla
a qualche affetto tenero
vorrebbe c'io dovessi
suonarle un istromento.
Can.: Oh si: il pif.fe.ro, ov.vero. il zuf.fo.lotto.
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Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
La metafora è abbastanza chiara ed esplicita e non occorre di
essere spiegata, va sottolineato però l'uso della glossa esplicativa definitoria ovvero che marca l'allusione suggerendo un
sinonimo di piffero simile per forma ed utilizzo.
La metafora orchestrale più riuscita e più ricca di spunti della
produzione di Bertati è sicuramente quella tratta da Lo sposo
disperato ( Venezia, 1777, musica di Anfossi):
Atto II, scena VI
Don Eustachio: […]
Voi dovete lasciarvi
diriggere da me, giusta il contratto.
Io so quel che va fatto, e non va fatto.
Io sono della casa
ottimo direttore;
e quanto importi
star alla direzione
ve lo faccio capir col paragone.
Per esempio, questa casa
A un Orchestra assomigliate.
Ch'io sia il Maestro di Cappella
fra di voi v'immaginate:
che il violone siate voi,
e mia figlia l'Oboè.
Quegli amici che qua vengono
de'violini il luogo tengono
son le trombe i servitori;
e un concerto far si dè.
Ecco io batto a tempo giusto.
Tutti suonano in un tuono.
Che armonia! Che dolce suono!
Vi fa proprio consolar.
Ma il violone non va a tempo:
ma poi strilla l'Oboè:
tocca l'uno il Fefaut,
tocca l'altro Alamirè;
i violini si confondono.
E le trombe mal rispondono.
Ecco qua che confusione,
che vi fa da spiritar!
Il concerto è rovinato,
il maestro è disperato:
tutti ridono, vi burlano,
e vi andate a far squartar.
Scena VII
Canziano: io non capisco affatto
queste sue conclusioni.
Ma capisco però che se il concerto
se n'và com'altri vuole
e non saria la mia intenzione,
si romperan le corde al mio Violone.
In breve, Don Eustachio, padre di Donna Aurora, invita il
povero Canziano, sposo della figlia, ad accontentarsi del proprio ruolo e non interferire con il resto delle vicende. Analizziamo i ruoli: Don Eustachio si autoproclama direttore prima
e poi Maestro di Cappella, in effetti l'intera vicenda è organizzata a tavolino dal nobile (dal matrimonio combinato alle
varie coperture) al fine di ristabilire la situazione economica
della sua famiglia. Donna Aurora sarà l'oboe, strumento parte integrante dell’orchestra dalla fine del ‘600, quando era
utilizzato, al pari degli altri strumenti a fiato, soprattutto per
rinforzare la sonorità degli archi. Solo nella prima metà del
14
‘700 all’oboe cominciarono ad essere affidate parti autonome,
ed in molti casi quasi solistiche, di pari passo con il miglioramento delle tecniche costruttive ed esecutive in atto a
quell’epoca (J. S. Bach, più di tutti, comprese le possibilità
espressive dell’oboe, utilizzandolo come strumento concertante in numerose composizioni). Questo nuovo ruolo dello
strumento potrebbe trovare un corrispettivo nell'atteggiamento indipendente e libero di Donna Aurora che in più
occasioni afferma di voler scegliere da sola le proprie compagnie in completa autonomia. Il marchese e il conte saranno i
violini, regalando un po' di brio alla composizione, i servitori
sono le trombe, pronte ad avvisare e a far da sentinelle, infine
il povero Canziano sarà il violone. Bertati al contrario di Goldoni utilizza il più moderno contrabbasso ma il più delle volte
opta per l'arcaico violone, anche per risolvere delle rime in
maniera più immediata (il suffisso -one trova sicuramente più
possibilità di rime).
Inizia il concerto, tutti suonano nella stessa tonalità e a tempo
giusto, dunque l'accordo tra gli strumenti è lo stesso che dovrebbe esserci tra i protagonisti, guidati dalle bacchette di
Don Eustachio, ma elemento di disturbo, quello che manda
all'aria l'armonia è il violone, provocando una catena di errori
e stonature nell'orchestra. In questo momento il violone diventa protagonista, condizionando, seppur negativamente,
l'intero concerto: la frattura più profonda si ha tra violone e
oboe, il primo infatti “tocca il fefaut”, l'altro l'alamirè. Fefaut= F fa ut (fa) Alamire= A la mi re (la).
Gli strumenti utilizzati come termini di paragone da Don
Eustachio formano l'orchestra tipica del medio Settecento, vi
sono i registri acuti (violini) l'oboe e i registri bassi (violone)
mentre marginali sono corni e trombe (infatti rappresentano
personaggi di contorno): questo realismo conduce sicuramente a delle corrispondenze tra il libretto e la musica, Anfossi
certamente avrà partecipato alla scrittura di questa scena suggerendo l'organico e le indicazioni tecniche riguardanti l'armonia.
In questa breve presentazione ho cercato di evidenziare la presenza di alcune macrocategorie che spesso vanno ad intersecarsi
scambiandosi elementi, fino a confondersi tra di loro: musica
come accompagnamento di altre azioni, elemento socioconnotativo, musica protagonista assoluta dei libretti metamusicali, bacino e repertorio di doppi sensi e allusioni; queste funzioni spesso convivono nella stessa scena musicale, nella stessa
parola, creando un meccanismo complesso sia dal punto di vista
drammaturgico che scenico. Quel che emerso dalla lettura
dell'intero corpus di libretti è la spiccata inclinazione registica del
letterato, il sapersi muovere con sapienza e praticità sulle pagine
e sul palcoscenico dell'opera buffa, il saper fornire a tutti i collaboratori operistici uno schema di gioco dagli incastri perfetti che
raramente lasciava possibilità d'errore.
Note
[1] In corso di stampa.
[2] Napoli 1797, Francescantonio Signorotti, musica di Luigi
Mosca
[3] Reinhard Strohm, L'opera italiana nel Settecento, Marsilio,
Venezia, 1991, pag.14.
[4] Jean Jaques Nattiez, Musica e significato, in Enciclopedia
della Musica Einaudi, Il suono e la mente, vol.IX, Milano,
2006, pag. 208.
[5] Essere affamato
[6] corde è stato censito nella sola forma plurale, mancando la
forma singolare, come suggerisce anche Franco Piperno
(op. cit) a proposito del lessico goldoniano.
Bollettino della Fondazione Italiana per la Musica Antica
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(Continua da pagina 1)
ensemble ha esercitato.
Queste riflessioni, oltre al dispiacere per la scomparsa di due personalità così rilevanti mi portano a formulare un nuovo interrogativo. È evidente che con il nuovo secolo ci stiamo trovando di fronte ad un cambio generazionale nell’ambito della musica antica:
fatto trascurabile in confronto ai rivolgimenti globali che stanno avvenendo e che ci attendono, ma si sa, noi musicisti siamo un po’
egocentrici, e spesso ci appare importante ciò che non lo è per tutti. E dunque la domanda che mi pongo è se le motivazioni che
hanno ispirato chi ha iniziato a fare indagine sulla prassi esecutiva possano essere trasmesse ai nostri allievi, sia nei conservatori dove
oggi la musica antica viene insegnata sia in situazioni quali i corsi di Urbino, dove è possibile confrontarsi con docenti e compagni di
corso che spesso provengono da molto lontano. Mi pongo questa domanda perché è evidente che spesso e volentieri questo slancio
nella ricerca appare un po’ spento, in favore di abitudini ormai consolidate e non più messe in discussione. L’augurio è invece che
ciò possa essere realizzato, la mia convinzione è che una ricerca sulla prassi esecutiva e sugli strumenti di qualsiasi epoca e latitudine
costituisca un forte stimolo ad andare avanti senza accontentarsi dei risultati raggiunti e a volte senza preoccuparsi delle critiche.
Ma veniamo alla nostra attività sul campo, l’apertura del 44° festival di Urbino: il Palazzo Ducale è pronto per ospitare i concerti che
anche quest’anno spero saranno graditi al pubblico di allievi e di visitatori che accorreranno per ascoltare Enrico Baiano al clavicembalo; l’ensemble Tetraktys; il duo Marcello Gatti-Giovanni Togni; Luca Guglielmi all’ organo; Paolo Pandolfo alla viola da gamba;
Paul O'Dette al liuto; Michael Form al flauto dolce; Rinaldo Alessandrini al clavicembalo; l’Ensemble Musica Antiqua Roma con
Riccardo Minasi al violino; e infine l’Orchestra FIMA diretta da Susanne Scholz.
Un piccolo motivo di rammarico rispetto al festival sta nel fatto che la meravigliosa mostra ospitata a Palazzo Ducale intitolata “La
Città Ideale – L’utopia del Rinascimento a Urbino tra Piero della Francesca e Raffaello” si sia chiusa l’8 luglio, rendendone così impossibile la visita a quanti parteciperanno ai corsi e al festival. Ho potuto vederla in occasione di un viaggio di lavoro a Urbino e ne
sono rimasto fortemente impressionato. Oltre alla “città ideale” che fa parte della collezione di Palazzo Ducale era possibile vedere
quella di Baltimora. A questi due capolavori che danno il titolo alla mostra le curatrici hanno accostato varie opere marchigiane della
stessa epoca, in cui erano evidenti alcuni sorprendenti scorci di città. Certo, l’appassionato ricercatore di dettagli e testimonianze
musicali rimane all’inizio deluso: la maggior parte di queste tavole emana piuttosto il silenzio, un silenzio assoluto che in qualche
modo esalta l’armonia dell’architettura e la perfezione delle geometrie e delle prospettive. Avevo anche pensato che questa armonia
di proporzioni unita al silenzio costituisce il presupposto ideale per la musica, ne vuole essere colmata. Avevo sperato che i nostri
concerti avrebbero potuto servire a questo scopo permettendo ai visitatori di soddisfare il senso rimasto a digiuno, l’udito. Purtroppo non è stato possibile, il gioco delle date non ci è stato favorevole, ma si sa, non si può avere tutto dalla vita. Andrea Damiani
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Anno XV, Numero 12 - Fondazione Italiana per la Musica Antica