ASSOCIAZIONE
DIMORE STORICHE ITALIANE
XXXII Assemblea Nazionale
Firenze, 24 - 27 Aprile 2009
Sezione Toscana
XXXII Assemblea Nazionale
Firenze, 24 - 27 Aprile 2009
Sezione Toscana
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Organi Centrali dell'Associazione Dimore Storiche Italiane:
Presidente Onorario:
Niccolò Pasolini dall'Onda
Presidente:
Aldo Pezzana Capranica del Grillo
Vice Presidenti:
Ippolito Calvi di Bergolo
Luciano Filippo Bracci
Consiglio Nazionale:
Ippolito Bevilacqua Ariosti
Prospero Colonna
Giuliano Malvezzi Campeggi
Carlo Marenco di Santarosa
Nicola de Renzis Sonnino
Emanuela Varano
Presidenti delle Sezioni Regionali:
Massimo Lucà Dazio
Annibale Berlingieri
Francesco Zerbi
Cettina Lanzara
Francesco Cavazza Isolani
Sergio Gelmi di Caporiacco
Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini
Giovanni Battista Gramatica di Bellagio
Camillo Paveri Fontana
Maddalena Trionfi Honorati
Nicoletta Pietravalle
Filippo Beraudo di Pralormo
Rossella Arditi di Castelveterre
Bernardo Tortrici di Raffadali
Niccolò Rosselli Del Turco
Antonia Marzani di Sasso e Canova
Clara Caucci von Saucken
Giorgio Zuccolo Arrigoni
Abruzzo
Basilicata
Calabria
Campania
Emilia Romagna
Friuli Venezia Giulia
Lazio
Liguria
Lombardia
Marche
Molise
Piemonte e Valle d'Aosta
Puglia
Sicilia
Toscana
Trentino Alto Adige
Umbria
Veneto
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Consiglio di Presidenza:
Aldo Mario Arena
Mario Lolli Ghetti
Arturo Nattino
Stefano Passigli
Probiviri:
Aimone di Seyssel d'Aix
Novello Cavazza
Francesco Marigliano Caracciolo
Carlo Patrizi di Ripacandida (suppl.)
Vieri Torrigiani Malaspina (suppl.)
Revisori dei Conti:
Ferdinando Cassinis
Luciana Faina Masetti Zannini
Maria Termini, Francesco Bucci Casari (suppl.)
Francesco Schiavone Panni (suppl.)
Coordinatore dei Gruppi Giovanili:
Valeria Bossi Fedrigotti von Lutterotti
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Comitato Direttivo della Sezione Toscana:
Presidente:
Niccolò Rosselli Del Turco
Vice Presidenti:
Agostino Agostini Venerosi Della Seta
Nicola Leone De Renzis Sonnino
Segretario:
Massimo Conti Donzelli
Consiglieri:
Rosanna Angelini
Margherita Anselmi Zondadari Scarampi di Pruney
Federico Barbolani di Montauto
Maria del Carmen Bürgisser Mazzarosa Devincenzi
Bernardo Gondi
Luigi Malenchini
Neri Martini Bernardi
Aloisia Marzotto Caotorta
Leopoldo Mazzetti
Valentino Mercati
Lorenzo Niccolini Sirigatti
Patrizia Pampana Guayana di Bagnacavallo
Andrea Pannocchieschi d’Elci
Vanni Pozzolini
Maria Luisa Ruschi Noceti Fontana
Andrea Todorow di San Giorgio
Alessandro Torrigiani Malaspina
Pietro Torrigiani Malaspina
Costituiscono la Giunta Esecutiva
Delegato per Arezzo
Delegato per Lucca
Delegato per Massa Carrara
Delegato per Pisa
Delegato per Siena
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La Sezione Toscana ha organizzato le visite nelle dimore grazie
all'impegno e alla collaborazione dei consoci:
Marchesi Piero e Francesca Antinori
Piazza Antinori 3, 50123 Firenze
Conte Professore Neri Capponi
Via dei Bardi 36, 50125 Firenze
Marchesa Sveva Gaetani dell’Aquila d’Aragona Cavalletti
Via G.Mangili 12, 00197 Roma
Contessa Lucrezia Corsini Miari Fulcis
Via del Salviatino 1, 50014 Maiano Fiesole (FI)
Principi Don Filippo e Donna Giorgiana Corsini
Via il Prato 58, 50123 Firenze
Duchi Don Duccio e Donna Clotilde Corsini
Via San Piero di Sotto 1-3, 50026 San Casciano Val di Pesa (Firenze)
Marchesa Bona de' Frescobaldi Marchi
Via S.Spirito 13, 50125 Firenze
Signor Gianfranco Luzzetti
Via degli Scopeti 10, 50026 S.Casciano Val di Pesa (FI)
Marchese Lionardo Lorenzo Ginori Lisci
Via de' Ginori 11, 50129 Firenze
Conte Architetto Piero Paolo Guicciardini
Via dei Guicciardini 15, 50125 Firenze
Baronessa Maria Luisa Maestrelli Locatelli De Hagenauer
Lungarno Corsini 4, 50123 Firenze
Marchese Luigi Malenchini
Via de' Benci 1, 50122 Firenze
Marchesa Francesca Malenchini Ginori Lisci
Via de’ Benci 1, 50122 Firenze
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Signora Grazia Marchi
Via Santo Stefano 75, 40125 Bologna
Signora Mariella Marchi Pallavicino
Via Curtatone 2, 50123 Firenze
Dottor Ingegnere Carlo Marchi
Via Trento 16, 50129 Firenze
Marchese Giuseppe Paternò Castello di San Giuliano
Via dei Serragli 8, 50124 Firenze
Marchese Puccio Pucci di Barsento
Via dei Pucci 4, 50122 Firenze
N. D. Principessa Isabella Fabrizia Ruffo di Calabria Becherucci
Borgo Pinti 68, 50121 Firenze
N. D. Contessa Livia Sanminiatelli Branca di Romanico
Lungarno Corsini 10, 50123 Firenze
Conte Fabio Sanminiatelli
Lungarno Corsini 10, 50123 Firenze
Marchese Raffaele Torrigiani di Santa Cristina
Via del Campuccio 53, 50125 Firenze
Marchese Alessandro Torrigiani Malaspina
Via dei Serragli 144, 50124 Firenze
Marchese Vieri Torrigiani Malaspina
Via dei Serragli 144, 50124 Firenze
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La Sezione Toscana ringrazia per la collaborazione:
Soprintendenza per il Polo Museale Fiorentino
Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze
Associazione Culturale Città Nascosta
Giovanna Ciampi
Massimo Conti Donzelli
Gerardo Gondi
Lorenzo Manzani
Irene Borin Da Campo
Paolo Palmerini
Don Simone Nencioni
L’emblema della XXXII Assemblea Nazionale A.D.S.I. è stato realizzato dallo Studio di
Architettura del Consocio Architetto Agnese Mazzei.
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Aldo Pezzana Capranica del Grillo
Presidente dell'Associazione Dimore Storiche Italiane
Le assemblee nazionali dell'A.D.S.I. si svolgono a rotazione nelle varie regioni d'Italia, il che
è anche un modo per far conoscere ai Soci ed ai loro accompagnatori nuove bellezze del Paese
e visitare dimore storiche normalmente non aperte al pubblico.
Quest'anno l'assemblea si tiene a Firenze e non si poteva scegliere meglio. Delle incomparabili bellezze artistiche e storiche del capoluogo toscano è inutile parlare. L'efficienza della
Sezione Toscana e del suo infaticabile Presidente è a tutti nota.
Coloro che interverranno, e speriamo siano numerosi, potranno utilizzare per il loro soggiorno oltre agli alberghi, le “Residenze d'Epoca” fiorentine.
Le “Residenze d'Epoca” sono una ospitalità, definita da una legge della Regione Toscana,
che consente l'utilizzo di dimore storiche in una forma paralberghiera, molto utile per dare
un reddito alla dimora senza alterarne il carattere abitativo.
Naturalmente, oltre ai Soci che offrono l'ospitalità nelle loro dimore, è prevista la visita di altri
palazzi e ville, che troverete descritti in questo libretto. Sono ben 28 i Soci che accoglieranno
i partecipanti all'assemblea.
I percorsi turistico - culturali sono certo una parte importante delle nostre assemblee, tuttavia
i Soci debbono tenere ben presente che l'assemblea è il momento più importante della vita
dell'Associazione: in essa i Soci hanno l'opportunità di discutere dei grandi problemi della
vita associativa e fare sentire le loro voci agli organi direttivi nazionali.
Pertanto io spero che alle visite previste durante lo svolgimento dei lavori assembleari partecipino solo gli accompagnatori, mentre i Soci non disertino la sala delle riunioni.
Le dimore storiche sono una parte molto importante del patrimonio culturale della Nazione
e speriamo perciò in una presenza alla nostra assemblea dei rappresentanti del potere politico
nazionale e regionale.
In questo libretto troverete l'elenco degli enti e delle società che hanno dato un sostegno
economico: ad essi va il più sentito ringraziamento mio e dell'Associazione.
A Niccolò Rosselli Del Turco ed a tutti i componenti del Consiglio Direttivo della Sezione
Toscana i miei complimenti per l'entusiasmo con il quale si sono dedicati all'organizzazione
dell'assemblea e per il risultato raggiunto.
A tutti i Soci che interverranno ed ai loro familiari che li accompagneranno il mio più cordiale
saluto.
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Niccolò Rosselli Del Turco
Presidente della Sezione Toscana dell’Associazione Dimore Storiche Italiane
La Sezione Toscana di A.D.S.I. rivolge un caloroso saluto ai Soci intervenuti a questa edizione fiorentina dell'Assemblea annuale della nostra amata Associazione.
Ringraziamo tutti gli enti che hanno voluto sostenerci economicamente nell'organizzare
l'iniziativa: la Società CHOPARD, la Banca Cassa di Risparmio di Firenze spa, la Camera di
Commercio di Firenze, la Banca Passadore e la Società TRASS.
Infine ringraziamo i Consoci che hanno voluto donare un omaggio di benvenuti a Firenze
agli ospiti arrivati da lontano: Wanda Ferragamo ed i suoi figli (Feroni Finanziaria Spa),
Valentino Mercati (Aboca Spa), i fratelli de' Frescobaldi (Marchesi de' Frescobaldi Spa).
La Sezione Toscana ha già organizzato l'Assemblea Nazionale in due precedenti occasioni.
La prima fu a Firenze nel 1982, poche settimane in anticipo rispetto all'approvazione della
fondamentale Legge 512. Si trattò anche della prima assemblea organizzata lontano da
Roma e con accoglienza in dimore storiche di associati. Vi parteciparono circa 40 Soci ed una
trentina di accompagnatori.
La seconda volta fu nel 1977 a Lucca. I numeri furono sbalorditivi: parteciparono oltre 200
Soci e quasi altrettanti accompagnatori, in 4 giornate dense di visite ed eventi. Si riuscì anche
ad ottenere la presenza di un rappresentante del Governo, nella persona dell'allora Sottosegretario per i beni culturali Willer Bordon. Ci fu una serata, quella presso la Villa Bruguier di
Segromigno in Monte, in cui si raggiunsero 430 presenze tra Soci ed ospiti.
Quest'anno, anche a causa dell'importanza dell'appuntamento per via delle modifiche allo
Statuto Sociale, abbiamo deciso di tenere nuovamente i lavori assembleari a Firenze. Siamo
nella città che ha il massimo numero di associati: i Soci ordinari sono 272, gli aderenti 26 e 24
gli aderenti giovani.
Complessivamente sono 28 i Soci che, tra visite ed accoglienza nelle Residenze d'Epoca, vi
ospitano. Ad essi va il sentito ringraziamento della Sezione Toscana.
Siamo anche nella città che ha una delle maggiori concentrazioni di beni culturali del mondo.
Per quanto ci interessa, i complessi vincolati presenti nel territorio comunale sono 812. Noi
valutiamo che circa 500 possano definirsi dimore storiche. Quindi i nostri palazzi, torri e
ville, con le loro collezioni, biblioteche ed archivi, contribuiscono a costituire per Firenze un
importante segmento di quanto concorre a fare della città un crocevia fondamentale dell'attenzione mondiale di chi ama la cultura in tutte le sue manifestazioni: qui oltre ai beni
culturali vi sono Istituti italiani e stranieri e numerose espressioni di creatività, che partecipano a formare quello che oggi si definisce una città d'arte.
Tutto questo influisce in modo sostanziale sull'economia cittadina e toscana in genere.
Infatti, anche se a Firenze il distretto industriale, agricolo e dei servizi forma una delle
maggiori economie nazionali, il settore dei beni culturali è parte fondamentale di questo
complesso, determinando uno dei maggiori turismi d'arte del nostro paese. Tutti gli anni si
registrano in città quasi 3.000.000 di arrivi per circa 7.500.000 presenze, soltanto nelle 920
strutture alberghiere ed extra-alberghiere (complessivamente 40.000 posti letto). A questi
vanno aggiunti i numerosi turisti accolti in appartamenti di affitto, che sfuggono alle statisti-
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che (ad esempio gli studenti universitari sia italiani che dei 35 istituti nord-americani presenti
in città).
Nel panorama dell'accoglienza turistica si inserisce anche la nostra Associazione, che volle
fortemente l'introduzione nella legge regionale del turismo della fattispecie di accoglienza
denominata Residenza d'Epoca. Si tratta di piccole strutture ricettive, realizzabili soltanto in
edifici storico-artistici soggetti alla legge nazionale di tutela (cioè il Codice dei Beni Culturali):
in Firenze ve ne sono circa 30 per oltre 500 posti letto.
Un momento di rammarico deriva dalla pessima urbanistica ed edilizia realizzate negli ultimi
60 anni. Chi arriva a Firenze con il treno o con l'auto provenendo dalle uscite autostradali di
ponente, ha un ben triste panorama delle nuove periferie di quella che in epoche passate
veniva chiamata la città del fiore.
Vi auguro a tutti buona permanenza! Attendo anche il vostro giudizio su quanto complessivamente la Sezione Toscana ha fatto per ben integrare nelle attività del territorio le Dimore
Storiche, non solo come ideale sfondo dell'incomparabile panorama fiorentino, ma come
parte vitale di questa antica città. Naturalmente auspico che il vostro giudizio possa essere
positivo!
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Palazzo Corsini, lungarno Corsini 10
Nel panorama tradizionale e conservatore dell'architettura fiorentina, palazzo Corsini costituisce una novità assoluta, in particolare per la scelta - di gusto barocco - di porre in evidenza
la facciata sul fiume, quasi ad accompagnarlo.
E sul fiume si apre anche il cortile, molto ampio, a cui si accede da un portone sormontato da
uno stemma e fiancheggiato da colonne. Al di sopra del portone c'è una balaustra, che
percorre la parte centrale della facciata del palazzo all'altezza del piano nobile, e al di là della
quale si vede il corpo centrale dell'edificio, assai arretrato rispetto al fiume, con le sue due ali
laterali. Al tutto fa da sfondo il coronamento del tetto, con vasi a cratere di tipo antico e
statue, secondo un gusto tutto settecentesco, decorativo e scenografico, che ricorda l'idea del
giardino e delle quinte di scena di un teatro. L'intera facciata è animata e mossa dal vuoto del
cortile, in modo da impedire qualsiasi accenno di monotonia.
Ai primi del Cinquecento l'area dell'attuale palazzo era di vari proprietari tra cui spiccava
Bindo Altoviti, l'importante banchiere mecenate di artisti e grande nemico dei Medici. L'inimicizia con i Medici portò nel 1555 alla confisca dei suoi beni, e tra questi le case di via del
Parione, che furono donate in un primo tempo al marchese di Marigano e in seguito a don
Giovanni, figlio di Cosimo I ed Eleonora degli Albizi. Fu questi ad apportare i primi
miglioramenti alle case ed a acquistarne altre, tanto da potersi dire l'iniziatore del palazzo.
Morto Don Giovanni la proprietà passò nel 1621 al principe don Lorenzo e in seguito a
Giovan Carlo, che nel 1640 vendette il palazzo vecchio e nuovo del Parione a Maddalena
Machiavelli, vedova di un Corsini. Sarà lei a lasciarlo in eredità al figlio Bartolomeo Corsini, a
far quindi entrare il palazzo tra le proprietà della famiglia a cui appartiene ancora.
I lavori di trasformazione, cioè quelli che porteranno il palazzo all'aspetto odierno, furono
voluti da Bartolomeo e dai suoi successori e si svolsero lungo l'arco di quasi un secolo (dal
1650 al 1735 circa). Vari furono gli architetti che vi si alternarono. I primi lavori sembra siano
stati diretti da Alfonso Parigi il giovane responsabile dei lavori dal 1652, che aveva partecipato
agli ampliamenti di palazzo Pitti. A questi probabilmente seguirono prima Ferdinando
Tacca e poi, tra il 1679 e il 1681, Pierfrancesco Silvani, che in quegli anni lavorava anche alla
cappella di famiglia nella chiesa del Carmine. All'architetto Antonio Ferri è comunemente
attribuita la facciata sul lungarno e il prospetto sul cortile, lo scalone d'onore ed il grande
salone monumentale al piano nobile.
Al cortile, uno dei più ampi di Firenze, si può accedere tanto dal portone sul lungarno,
quanto da via del Parione. Da questo lato, oltre un androne da cui parte anche lo straordinario
scalone per il piano nobile, si apre un loggiato, controparte della balaustra che si affaccia sul
fiume dalla parte opposta del cortile. Dal grande loggiato si entra negli appartamenti chiamati estivi in quanto rinfrescati da un sistema d'aereazione che immetteva al centro di ogni
stanza, aria fresca, proveniente dagli scantinati. Soffitti e pareti furono inizialmente affrescati
da Jacopo Chiavistelli e Antonio Giusti tra il 1688 e il 1697. Andrea Scacciati dipinse le
decorazioni floreali, Rinaldo Botti quelle architettoniche, Andrea Landini si occupò invece
delle grottesche. Poi, fra il 1776 e il 1792 i locali furono rinnovati da Stefano Fabbrini e dai
suoi collaboratori. Sorprendente e affascinante la “grotta del Ninfeo” ideata da Antonio
Ferri, decorata con madreperle, stucchi, spugne, conchiglie e tessere di vetro colorate da Carlo
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Marcellini e dipinta da Alessandro Gherardini. Corredata da una fontana e da vari giochi
d'acqua, recentemente ripristinati dopo un lungo periodo di inattività.
Lo scalone, unico nel suo genere a Firenze, a due rampe parallele, viene messo a punto
intorno al 1730 da Girolamo Ticciati con la collocazione entro una nicchia, nel pianerottolo
intermedio, della statua di Clemente XII, opera di Carlo Monaldi. Coperto con una volta a
forma di cupola, è impreziosito da decorazioni a stucco con lesene ioniche e da sfondati
prospettici di mano di Jacopo Chiavistelli eseguiti nel 1695. Nello stesso anno Carlo Marcellini
si occupa di restaurare e sistemare le statue dei gladiatori. Al centro il grande stemma Corsini
Rinuccini introduce al salone del trono la cui preziosa e ricca decorazione scultorea prelude al
grande affresco di Anton Domenico Gabbiani con “la gloria della famiglia Corsini” dove la
maquette del palazzo è sorretta in cielo dalle figure allegoriche del Valore, dell'Architettura e
dell'Ingegno. I vasti ambienti interni, - un susseguirsi di stanze, salotti, sale, camere affrescate
e stuccate fra cui non dimentichiamo la galleria Aurora prima fra tutte ad essere decorata dalla
mano di Alessandro Rosi e Bartolomeo Neri, ed ancora la sala da ballo di Alessandro
Gherardini, la cappella del primo piano dipinta nel 1826 da Luigi Catani,- ci trasportano in
un'atmosfera che lascia immaginare lo sfarzo e la sontuosità di allora. Non possiamo tralasciare di ricordare che il palazzo è anche la sede della più importante quadreria privata di
Firenze i cui capolavori, sono stati rimossi per effettuare lavori di restauro.
Oggi il palazzo è tornato a svolgere il ruolo per il quale è stato pensato e costruito, quello di
rappresentanza.
Grazie agli imponenti lavori di ristrutturazione e restauro compiuti dagli attuali proprietari,
la contessa Lucrezia Corsini Miari Fulcis, la contessa Livia Sanminiatelli Branca e il conte Fabio
Sanminiatelli, nel palazzo si svolgono ricevimenti esclusivi, sfilate, gala dinner, servizi fotografici, mostre ed esposizioni, tornando così ad essere un monumento non solo visitato ma
anche studiato da numerosi studenti e professori di varie facoltà universitarie.
1) Palazzo Ximenes Panciatichi, borgo Pinti 68
L'origine del palazzo risale ai due noti architetti Giuliano (1445-1516) e Antonio da Sangallo
(1455-1534), che possedevano diverse case nella zona acquistate in parte nel 1490 dai monaci
cistercensi. Nel 1498 commissionarono la costruzione del nuovo palazzo, un edificio di
pianta pressoché quadrata, con annesso un ampio orto, la cui lunghezza era circa il doppio di
quello attuale. Lo storico Giorgio Vasari racconta di come in questo palazzo i due fratelli
“condussero in Fiorenza nelle lor case una infinità di cose antiche di marmo bellissime …”,
facendo del palazzo una sorta di museo personale, pari a quelli dei potenti signori che
servirono nella loro vita; vi figuravano statue antiche e moderne, dipinti di celebri artisti quali
Sandro Botticelli, Paolo Uccello e Antonio del Pollaiolo.
Il complesso rimase di proprietà dei Sangallo fino al 1603 quando Jacopo e Giovanni vendettero la dimora con il giardino a Sebastiano di Tommaso Ximenes d'Aragona (1568-1633).
Gli Ximenes d'Aragona, intraprendenti ebrei di origine portoghese che avevano accumulato
una cospicua fortuna tramite i commerci con le Americhe, si erano trasferiti a Firenze nella
seconda metà del Cinquecento. A seguito di ingenti investimenti nel Granducato di Toscana,
Sebastiano ricevette in dono dal Granduca Ferdinando I dei Medici il feudo di Saturnia con
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titolo marchionale, coprì diverse cariche pubbliche, tra le quali quella di senatore nel 1625, e,
nel 1593, sposò Caterina, figlia di Raffaello de' Medici, marchese di Castellina.
Sebastiano Ximenes, oltre a risistemare il giardino, incaricò un artefice di grido, l'architetto
Gherardo Silvani, di rimodernare il palazzo, ingrandirlo verso sud e dotarlo di una nuova
facciata caratterizzata, al piano terra, da un portale centrale affiancato da due coppie di finestre
inginocchiate, e, al primo piano, da finestre trabeate laterali e un terrazzo centrale, sul quale si
apre una porta-finestra sormontata dallo stemma di famiglia.
Dopo l'intervento del Silvani il palazzo ed il giardino non subirono variazioni di rilievo,
salvo abbellimenti e decorazioni dell'atrio e delle sale al piano nobile, incluso il rinomato
salone da ballo, fino a poco dopo la metà del Settecento, quando Ferdinando Ximenes, nato
nel 1747 e rimasto presto orfano del padre Anton Francesco, avendo ereditato l'immenso
patrimonio familiare direttamente dal nonno nel 1753, ampliò l'edificio verso lo spazio
verde retrostante. La nuova fabbrica articolata intorno ad un ampio cortile rettangolare preceduto da un grande androne, si affaccia sul giardino con un loggiato al piano terra, coronato
da una serliana. Furono realizzate le due belle scale simmetriche a fasce curvilinee degradanti
che si fronteggiano nel grande atrio di accesso. Il centro del cortile fu decorato da una statua
di Ercole che lotta contro il leone, attribuita dall'architetto Francesca Screti allo scultore carrarese
Giovanni Baratta, nato nel 1660 e allievo di Giovan Battista Foggini, e ai lati da due statue in
marmo rappresentanti Apollo e Diana Cacciatrice.
L'ampliamento promosso da Ferdinando comportò conseguentemente una riduzione del
giardino che, probabilmente, venne sistemato in base alle nuove esigenze funzionali ed
estetiche. Lo spazio verde fu suddiviso in aiuole di forma rettangolare allungata e coronato,
sulla testata, da una fontana con “prospetto” che fungeva da quinta scenica all'ingresso del
palazzo, seguendo il tradizionale schema del giardino urbano fiorentino.
Nel 1775, in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose attuata dai Lorena, gli
Ximenes ingrandirono la proprietà, acquistando il contiguo noviziato di San Salvatore. Il
noviziato era stato fondato nel 1632 dai Padri Gesuiti di San Giovannino, i quali avevano
ricevuto in eredità il grande complesso dal Cavaliere Benedetto Biffoli, con l'obbligo di
istituirvi un noviziato.
Ferdinando, che era malauguratamente affetto da squilibrio mentale fin da giovanissimo,
viaggiò spesso all'estero, e fu proprio in occasione di un soggiorno a Parigi che gli fu fatta
sposare per procura la sedicenne Charlotte de Lesteyre, figlia di Gian Carlo, marchese di
Saillant e conte di Combour, gentiluomo di camera del re di Francia Luigi XVI. La giovane
era anche nipote per parte di madre del conte di Mirabeau, alle prese con debiti di gioco.
La famiglia de Lesteyre riuscì ad entrare nell'amministrazione dei beni del marchese, grazie
anche all'aiuto del chirurgo personale di Ferdinando, Giovanni Utis, che era riuscito a far
nominare suo fratello Antonio amministratore per conto dei de Lesteyre dell'intero patrimonio familiare Ximenes d'Aragona.
I legami tra i de Lesteyre e i rivoluzionari sono testimoniati anche dal fatto che nel 1796
l'ambasciata francese a Firenze fu trasferita proprio nel palazzo Ximenes di Borgo Pinti; qui
fu poi ospitato Napoleone nella notte tra il 30 giugno e il primo luglio 1796, in occasione
della sua visita a Firenze, e qui pure si insediò nei primi giorni di aprile del 1799 (dopo la fuga
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del Granduca) il Ministro Residente della Repubblica Francese, il cittadino Reinard. Circa la
visita di Napoleone, che a quell'epoca non aveva ancora fondato il Regno d'Etruria e si
trovava in Toscana per cercare le parentele con le quali costruire le sue pretese di nobiltà,
racconta la cronaca dell'epoca:
“………… Napoleone entrò a Firenze, accompagnato dal suo Stato Maggiore e da una scorta di dodici
dragoni in alta uniforme. Dopo essersi alloggiato al Palazzo Ximenes presso il ministro francese Giot, ed
aver passato la notte, il mattino successivo era in programma un pranzo a Palazzo Pitti, ospitato dal
Granduca Ferdinando III di Toscana di Asburgo-Lorena. I due avevano in comune l'età di ventisette anni
ma i caratteri e gli interessi opposti. Con una carrozza degna di un monarca, Napoleone lasciò il Palazzo
Ximenes accompagnato oltre che dalla scorta personale da cento soldati dello sparuto esercito toscano, su
sua esplicita richiesta, prima del pranzo visitò la Galleria Granducale degli Uffizi, il Corridoio Vasariano
e la Galleria Palatina di Palazzo Pitti, accompagnato dal direttore della collezione Tommaso Puccini. Le
cronache ricordano come il futuro imperatore rimase colpito dalla Venere Medici, al punto di chiedere
ironicamente al Puccini se lo Stato di Toscana avrebbe dichiarato guerra se "qualcuno" avesse pensato di
trasferire a Parigi quel capolavoro. Durante il pranzo ciascuno cercò di rimanere su un effimero livello di
cordialità evitando il più possibile di esprimere il proprio pensiero, mentre la sera Napoleone assistette a uno
spettacolo teatrale, poi tornò al Palazzo Ximenes e riparti il mattino dopo. Napoleone aveva messo gli
occhi su quella statua, così ad un suo preciso ordine, dopo l'occupazione francese e la fondazione del Regno
d'Etruria, la statua prese la via per il Louvre.”
Alla morte del marchese Ferdinando, ultimo discendente maschio della famiglia Ximenes, il
palazzo e il giardino passarono nel 1816 ai figli Bandino (1764-1821) e Pietro Leopoldo
(1766-1818) della sorella di Ferdinando, Vittoria, che si era sposata con Niccolò Panciatichi,
esponente di un'importante famiglia pistoiese trasferitasi a Firenze nel XVII secolo,
I nuovi proprietari, che avevano assunto il cognome Panciatichi Ximenes, ristrutturarono il
noviziato di San Salvatore e lo integrarono al palazzo, in modo da creare un'unica unità
immobiliare. I lavori, eseguiti tra il 1839 e il 1840, furono progettati dall'architetto Niccolò
Matas che tuttavia conservò nel giardino l'originario impianto all'italiana.
Nella seconda metà dell'Ottocento, il complesso fu ridotto con la costruzione del quartiere
della Mattonaia e il conseguente prolungamento di via del Mandorlo, oggi via Giusti, fino a
piazza d'Azeglio: la proprietà Panciatichi Ximenes fu così tagliata in due e fu distrutto l'antico
giardino dei Gesuiti conservatisi fino ad allora.
Dopo i tagli dovuti al prolungamento della strada di via del Mandorlo, nella seconda metà
del XIX secolo, Marianna Panciatichi, ultima discendente della famiglia, sposata ad Alessandro Anafesto Paolucci delle Roncole, donna colta e studiosa di scienze naturali, fece ampliare
e restaurare il palazzo, con l'aggiunta di un nuovo fronte verso mezzogiorno, e fece trasformare il giardino in un parco romantico secondo una configurazione che ancora oggi lo
caratterizza. Spiccati elementi ottocenteschi nel giardino sono la grande aiuola centrale e i
vialetti di ghiaia che le girano attorno e che permettono di avere visuali diverse del palazzo.
Estintisi i Panciatichi con la morte di Marianna, sempre per mancanza di eredi maschi e
quindi per linea femminile, il palazzo passò prima ai Rabitti-San Giorgio, poi da questi alla
famiglia padovana degli Arrigoni Degli Oddi, l'ultima dei quali, Oddina, andò sposa a
Francesco Ruffo di Calabria, principe di Scilla, e successivamente alla figlia e attuale proprieta-
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ria, Isabella Fabrizia Ruffo di Calabria Becherucci, moglie del compianto Cavaliere del Lavoro
Ing. Raffaele Becherucci, imprenditore industriale con la passione per il restauro.
Dopo le ultime manomissioni avvenute nel 1934, quando il Conte di San Giorgio, allora
proprietario dell'immobile, vendette una parte dell'antico giardino lungo via Giusti per
costruirvi un edificio con più appartamenti, il palazzo soffrì gravi danni durante l'alluvione
dell'Arno del 4 novembre 1966, che provocò la distruzione di tutti gli arredi laccati veneziani
che adornavano il piano terreno.
Nel corso del 2001/2002, in occasione di un matrimonio di famiglia dell'attuale proprietaria,
e successivamente nel triennio 2005/2007, tutto il piano nobile del palazzo, compreso lo
scalone di onore, è stato oggetto di un attento lavoro di restauro ad opera dell'Ingegnere
Becherucci, che ha permesso il ritorno del salone da ballo centrale (200 mq x 11 m di altezza),
e di tutte le sale e stanze adiacenti, al loro primitivo splendore, ritrovando stucchi, decorazioni e colori settecenteschi. La struttura è impreziosita da arazzi con stemmi, quadri e busti
antichi, mobili di valore e lampadari e applique settecenteschi autentici.
Il piano nobile è stato diviso in due parti, ciascuna con un proprio ingresso separato: il
salone, con lo scalone di onore e le quattro sale adiacenti, e il rimanente delle stanze, formanti
un appartamento a sé stante, dove è andata ad abitare la famiglia della proprietaria.
Approfittando dei lavori di restauro, il salone da ballo centrale con alcune sale adiacenti,
compreso il sottostante mezzanino, è stato aggiornato dal punto di vista tecnologico, per
ospitare manifestazioni di vario genere, quali convegni, ricevimenti, matrimoni e dotato dei
necessari servizi, tra cui l'aria condizionata, un efficiente sistema di illuminazione diretta e
indiretta, efficienti servizi per gli ospiti e un intero circuito separato per il catering comprensivo di un'ampia cucina rispondente alle più strette normative, spogliatoi e servizi igienici, al
fine di ottimizzare la logistica e favorire il servizio di catering.
Il salone può ospitare fino a 210 persone a sedere e oltre 450 in piedi, nel rispetto della
normativa specifica.
Il palazzo è dunque tornato pienamente a vivere, riprendendo quel ruolo che lo aveva visto
importante protagonista della vita fiorentina per quasi cinque secoli della sua storia.
2) Palazzo Gerini, via Ricasoli 42
Verso la fine del XV secolo la famiglia Da Gagliano, che possedeva alcune case in via del
Cocomero, l'attuale via Ricasoli, commissionò a Baccio d'Agnolo (1462-1543) la costruzione
di una più grande dimora. Del progetto di Baccio restano oggi solo il cortile interno, che
doveva essere in asse con un portone centrale, e la parte alta della facciata con le finestre dal
bugnato regolare, disposte ad intervalli piuttosto larghi.
Nel 1579, l'edificio fu acquistato da Antonio di Filippo Salviati, famiglia di antica origine che
fin dalla metà del XIII secolo ebbe un ruolo di primo piano nella Firenze politica, economica
e sociale del tempo. Un ramo di questa famiglia, aveva acquistato nel 1546 lo splendido
palazzo Portinari Salviati in via del Corso, ora della Banca Toscana, affrescato da Alessandro
Allori nel 1572-1578.
Acquistato il palazzo in via del Cocomero, Antonio di Filippo Salviati promosse, una decina
di anni dopo, importanti lavori di ristrutturazione e decorazione dell'intero edificio. Sono
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state fatte varie ipotesi sull'autore del progetto, tra le quali il nome del giovanissimo, all'epoca,
architetto Gherardo Silvani (1579-1675), che lavorò spesso per la famiglia Salviati. L'occasione dell'intervento fu probabilmente le seconde nozze che Antonio Salviati celebrò nel 1593
con Lucrezia Guadagni, nobile fiorentina. L'architetto eliminò il portale centrale di Baccio
d'Agnolo sostituito da due entrate laterali. La facciata, che si impone con nobile e misurata
eleganza, distinguendosi dal tessuto edilizio della strada, è articolata su più piani e un mezzanino, e su molteplici assi di aperture. Il ritmo delle finestre e dell'aggettante cornicione
marcapiano è bloccato da pilastrate di bozze in pietra forte lavorate a gradina di due dimensioni alternate. Il cornicione marcapiano, che forma il davanzale alle finestre del piano nobile,
con la sua orizzontalità riequilibra l'accentuata altezza e l'assialità verticale delle aperture decorate da bozze rustiche. Raffinate le finestre inginocchiate al piano terra protette da belle
inferriate in ferro battuto che, in lunga fila e con ritmo ravvicinato, si svolgono da un portone
all'altro.
Per la parte decorativa, Antonio di Filippo Salviati si avvalse del più aggiornato artista nel
panorama coevo del tempo: Bernardo Barbatelli detto il Poccetti (1553-1612), insieme agli
allievi, affrescò, tra il 1596 e il 1600, sette stanze al piano terreno, altre sette al primo piano e
la cappella al piano nobile. Dello splendido ciclo decorativo del Poccetti, rimangono oggi
solamente la cappella e quattro ambienti al piano terra, le altre decorazioni sono scomparse
sotto gli affreschi e le ristrutturazioni avvenute nel corso del Settecento e dell'Ottocento.
Splendidi sono gli interventi e le numerose commissioni promosse dai marchesi Gerini,
successivi proprietari fino all'Ottocento inoltrato. Già nel corso del Cinquecento la famiglia
Gerini, attraverso attività mercantili estese in Puglia, in Levante e anche a Londra dove
avevano fondato un'agenzia di cambio in società con i Corsini, erano riusciti a creare una
notevole potenza economica sancita ufficialmente con il matrimonio, avvenuto nel 1609, tra
Ottavio Gerini e Caterina di Francesco dei Medici che diedero avvio, ad uno stretto rapporto
con il casato granducale fino all'estinzione degli stessi granduchi. Nel 1650 il palazzo fu
acquistato da Carlo di Ottavio Gerini (1616 - 1673), Cavallerizzo Maggiore del Cardinale
Carlo de Medici e suo amministratore dei beni. Il Gerini, che si guadagnò la stima dei Medici,
potenziò enormemente la fortuna economica della famiglia, tanto che gli fu conferito il titolo
di marchese nel 1640.
Sulla facciata spicca il loro stemma che, composto da tre catene poste in banda caricate da un
corno da caccia con il motto “coelum non animum muto”, domina anche ogni piccolo
particolare negli arredi degli ambienti interni.
Il palazzo al n. 40 – acquistato da Giovanni Gerini nel 1798 - con belle finestre a timpano
triangolare e ricurvo, con lesene terminanti in curiosi mostri di epoca manierista, fa parte del
grande edificio che Giuseppe Poggi ristrutturò intorno alla metà dell'Ottocento trasformando il disegno fornito da Bernardo Buontalenti negli anni '80 del Cinquecento per i precedenti
proprietari, la famiglia Serguidi: “... e di tutto punto edificò quella casa del Cavalier Serguidi
in via del Cocomero, che poi venne ne' Martelli”.
Con il radicale intervento operato dal Poggi, la facciata principale al n.42 fu allargata e il
portone laterale destro spostato e reimpiegato nella posizione attuale incorporando parte
dell'adiacente palazzetto al n.40.
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Entrando nella dimora notiamo l'intervento di Giuseppe Poggi nella creazione del vasto
androne per il passaggio delle carrozze, con le volte del soffitto evidenziate da fasce color
pietra, decorato con statue antiche e da due grandi lumi in ghisa. Il loggiato - collegato da
grandi porte finestre all'ingresso - aperto su tre lati, consta di belle colonne con capitelli dorici
di fattura ottocentesca. É ornato da ritratti di imperatori in stucco e da busti posti su piedistalli in legno scolpiti - addossati alle pareti - rappresentanti figure mitologiche. L'androne dà
accesso all'originario cortile di Baccio d'Agnolo, chiuso dal Poggi con grandi porte vetrate.
Salendo il monumentale e neoclassico scalone a doppia rampa, disegnato da Gaspare Maria
Paoletti (1727-1813) nel 1752 per Andrea Gerini (1691-1766) in occasione del matrimonio tra
il nipote Carlo di Giovanni Gerini (1739-1796) e Camilla di Carlo Torrigiani, si accede ai
numerosi salotti che compongono lo splendido piano nobile, che ha conservato in modo
egregio tutti i suoi arredi, decori, affreschi commissionati dai Gerini nel corso di tre secoli.
L'elemento dominante e unificante di tutti i salotti al piano nobile, è l'intervento progettuale
e di arredamento realizzato da Giuseppe Poggi tra il 1850 e il 1860, per il quale studiò ogni
minimo particolare, dalla tappezzeria, agli stucchi, ai mobili, alle vetrate, alle maniglie, agli
specchi. Ancor'oggi i salotti conservano eccezionalmente il loro prezioso arredamento. Per la
decorazione pittorica delle volte, furono coinvolti i migliori stuccatori e pittori del tempo
quali Luigi Sabatelli (1772-1850), Giuseppe Bezzuoli (1784-1855), che in un salotto ha
affrescato la “Follia che guida il carro di Amore” circondata da imponenti stucchi, Antonio
Marini (1788-1861) e Annibale Gatti (1827-1909) il più giovane tra tutti. Gli artisti donarono
un insieme omogeneo nonostante la varietà dei temi e delle mani.
Questi imponenti lavori, furono resi possibili a seguito del matrimonio di convenienza,
avvenuto alla fine degli anni '30 dell'Ottocento, tra Carlo Lorenzo Gerini ed Isabella Magnani,
erede unica di Antonio Magnani, ricco e nobile di Pescia che nel 1821 aveva acquistato il
palazzo Feroni in via dei Serragli 8.
Con questo matrimonio, Carlo Lorenzo Gerini riuscì a risollevare le sorti economiche della
famiglia che già sullo scorcio del Settecento aveva cominciato a vendere parte delle preziose
opere che ornavano la grandiosa collezione di famiglia. Con le nuove disponibilità finanziare, Carlo Lorenzo poté dunque commissionare un generale restauro del palazzo e poté
bloccare la vendita della quadreria, per la quale era stato addirittura stilato un catalogo di
alienazione nel 1825.
Ogni ambiente del piano nobile, è ancor'oggi arredato con molti dipinti dell'avita collezione
Gerini che, composta da oltre trecento opere, era stata iniziata da Carlo Gerini allorché, nel
1666, ricevette in dono dal Cardinale Carlo dei Medici, del quale era amministratore dei beni,
“copiosi lasciti e masserizie, argenterie e oggetti d'arte”. Fu in particolare con Carlo, con suo
figlio Pierantonio e con il nipote Andrea, mecenati e appassionati di arte, che nel palazzo
entrarono straordinari capolavori di artisti antichi e coevi, molti dei quali sono oggi alla
galleria degli Uffizi ed in musei e collezioni straniere specie anglosassoni.
In un salotto, arricchito da tappezzeria di seta blu, la volta è affrescata da una luminosa
“Allegoria delle Arti” commissionata da Andrea Gerini a Giuseppe Zocchi (1711-1767) nel
1759. L'artista fu l'autore della celebre serie di disegni con vedute di Firenze e della campagna
Toscana che, incisi nelle due serie pubblicate nel 1744, furono commissionate da Andrea
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Gerini. Nell'affresco, dove sotto lo sguardo imperioso di Giove al centro del soffitto, si
dipana una complessa raffigurazione allegorica, splendida è la scena con l'omaggio a Galileo,
inedito documento della storia della fortuna iconografica dello scienziato pisano, con le
geniali trovate del bimbo che ne mostra l'effigie e dei putti svolazzanti che osservano al
cannocchiale i satelliti di Giove.
Il committente Andrea Gerini viene esaltato dall'artista, nella scena con l'allegoria della pittura
nella quale alla “Pittura” viene presentato il volume della “Raccolta di Stampe rappresentanti
i Quadri più scelti”, pubblicato da Andrea nel 1759, aperto alla pagina in cui è raffigurato un
gioiello della collezione: l' “Autoritratto” giovanile di Rembrandt (1606-1669) dono di Giovanni Guglielmo, Elettore Palatino, ai marchesi Gerini i quali tuttavia lo vendettero, nel 1818,
a Ferdinando III di Lorena (oggi è alla galleria degli Uffizi).
Adiacente si apre la splendida galleria commissionata da Carlo Gerini e affrescata da Cosimo
Ulivelli, nel 1670 circa, con l'allegoria dei “Quattro Elementi”: la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco.
Alla base dell'affresco corre un fregio nel quale, entro medaglioni, vennero ritratti al naturale
gli uomini illustri in “armi e lettere di nostra città” come è riportato nella guida “Bellezze
della città di Firenze” di Francesco Bocchi e Giovanni Cinelli pubblicata nel 1677.
Come in altre dimore coeve, l'ambiente doveva custodire i preziosi dipinti collezionati, dei
quali rimangono ancor'oggi alcuni capolavori. Su una parete, due splendide battaglie del
francese Jacques Courtis detto il Borgognone (1621-1676), per il quale Carlo Gerini ne aveva
commissionate un totale di sei, e sull'altro lato due paesaggi del polacco Pandolfo Reschi
(1643-1696) commissionati dal figlio Pierantonio Gerini che, Maestro di Camera del Gran
Principe Ferdinando de' Medici, possedeva dell'artista addirittura diciannove opere.
Un salotto adiacente, affrescato sulla volta dal neoclassico Tommaso Gherardini (1715-1797)
su commissione di Andrea Gerini alla metà degli anni '60 del Settecento, è arredato tra gli altri,
da uno splendido stipo in legno impiallacciato d'ebano con intarsi in pietre dure e statuette
dorate di Ercole, e da un dipinto di impronta caravaggesca realizzato da Cesare Dandini
(1596-1657) che raffigura, con intento didascalico, “due giovani”: il giovane, con i capelli
lunghi dalle bellissime vesti, indica la pistola preziosa, rivolta verso lo spettatore, mentre il
compare alle sue spalle ricorda che con meno violenza si può corrompere col denaro.
Straordinario è l'adiacente salone da ballo progettato da Giuseppe Poggi, alto 16 metri,
ricavato eliminando alcuni ambienti interni più piccoli e decorato da specchi e magnifici
stucchi bianchi dall'impeccabile orditura.
Contrasta stilisticamente il contiguo salottino, completamente affrescato dal giovane Giuseppe Zocchi su commissione di Andrea Gerini negli anni '30 del Settecento. Le ariose storie
dipinte, sono inerenti al tema di Adone e Venere tratto dalle Metamorfosi di Ovidio: la
“Nascita di Adone”, l' “Incontro tra Adone e Venere” e la “Morte di Adone”. Straordinari
sono inoltre gli specchi dipinti che, molto rari a Firenze, li ritroviamo nella galleria affrescata
da Luca Giordano nel 1685 nel palazzo Medici Riccardi.
In un altro salotto, affrescato sulla volta al tempo del Poggi con scene esaltanti i grandi poeti
del passato, sono esposti due splendidi dipinti di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano
(1611-1689): la giovanile “Fuga in Egitto” e la tarda “Andata al Calvario”. Mentre il primo
dipinto era stato commissionato dal Cardinale Carlo dei Medici ed ereditato da Carlo Gerini,
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la seconda opera fu espressamente commissionata da Carlo Gerini quale pendant del precedente dipinto: “Con questi due soggetti l'artista volle esprimere un pensiero devoto e cioè
che per la salvezza del mondo Cristo prima dovette sfuggire alla morte e più tardi affrontarla”.
Splendida è inoltre la grandiosa sala da pranzo il cui arredo, progettato appositamente come
un unico insieme in legno di noce scuro intagliato, lucidato e rifinito con lumeggiature
dorate, è composto da una gigantesca specchiera abbinata ad un elegante divano, ventiquattro sedie, otto seggioloni e i palchetti per le tende. Il grande stipo di noce, collocato nella
stanza in un secondo tempo, fu intagliato da Francesco Morini nel 1860 su commissione
specifica del Gerini.
Il grandioso palazzo appartiene oggi alla marchesa Sveva Gaetani dell'Aquila d'Aragona
Cavalletti, figlia del principe Filippo Gaetani dell'Aquila d'Aragona (1897-1967) e di Isabella
di Gerino Gerini (1899-1973). Alla morte senza eredi dello zio Alessandro, Sveva Gaetani
ereditò lo straordinario palazzo che ha mantenuto inalterato il suo spettacolare splendore,
anche per i recenti impegnativi restauri che ella stessa vi ha condotto.
3) Palazzo Pucci, via de' Pucci 4
Lungo la via che ne prende il nome, si erge Palazzo Pucci, di proprietà di una delle più antiche
famiglie fiorentine che vi dimorano ancora oggi e che fin dalle origini si distinsero per
l'intelligente e proficuo mecenatismo nei confronti delle arti: nella vicina Chiesa di San Michele Visdomini, detta San Michelino, è conservata infatti ancora la splendida “Sacra Conversazione” commissionata ad Jacopo Pontormo da Francesco Pucci nel 1518.
I primi componenti della famiglia Pucci giunsero a Firenze dal vicino contado nel XII secolo
e si insediarono nel quartiere di Santa Croce. In seguito un ramo della casata trasferì la sua
dimora nel popolo di San Michele Visdomini. Antonio Pucci, iscritto all'arte dei legnaioli,
componente degli Otto di Guardia e di Balia nel 1412, fu il capostipite dei quattro rami di
questa grande famiglia fiorentina che lasciò, e ha continuato a lasciare fino in tempi a noi
prossimi, tracce importanti nella vita pubblica della città.
Nonostante la famiglia si distinse per la fedeltà alla causa medicea che le procurò onori e
poteri per tanti secoli, da Antonio Pucci e Piera Manetti, derivò uno dei rami noto per alcune
famose congiure contro gli stessi Medici. Nel 1560 il nipote Pandolfo Pucci, figlio di Roberto,
venne impiccato al Bargello per aver ordito una congiura contro Cosimo I de' Medici. Pochi
anni dopo, suo figlio Orazio volendo vendicare il padre, preparò una seconda congiura
contro il nuovo granduca Francesco I dei Medici che, sventata nel 1575, lo portò irreparabilmente all'immediata impiccagione.
A seguito della congiura del 1560, il palazzo, con tutti i beni di famiglia, era stato confiscato
per un breve periodo e, con grande magnanimità, restituito poco dopo ai legittimi proprietari dallo stesso Cosimo I dei Medici.
Il primo nucleo del palazzo, che si affaccia sulla via omonima con le sue innumerevoli
finestre, risale al 1480 quando Antonio Pucci acquista su via dei Calderai, oggi via dei Pucci,
un complesso di case, orti e una piazza. Il Cardinale Lorenzo, figlio di Antonio, volendo
“accrescere” e migliorare tutta una serie disarmonica e irregolare di edifici e “palagetti”, prima
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del 1525 ne commissiona la sistemazione ad Antonio da Sangallo il giovane (1484-1546) il
quale, tenendo conto delle successive divisioni patrimoniali, realizza due edifici contigui, uno
sulla cantonata tra via dei Pucci e via dei Servi e l'altro in aderenza, lungo via dei Pucci, che si
sviluppano attraverso un percorso diversificato e irregolare.
Tra la fine del XVI e il XVII secolo le proprietà si erano ingrandite notevolmente, e si
estendevano per tutta via del Cocomero, l'attuale via Ricasoli. Con i figli del senatore Niccolò
Pucci (1556-1625) la proprietà si divise definitivamente: al secondogenito Alessandro (16031652) e alla sua discendenza, fino all'estinzione di questo ramo avvenuta nel 1808, spettò il
palazzo sulla cantonata tra via dei Pucci e via dei Servi, mentre al primogenito Giulio (15901672) e alla sua discendenza, toccò il palazzo maggiore, ancor'oggi di loro proprietà. Con
Orazio Ruberto (1625-1697), figlio di Giulio, questo ramo principale ottenne nel 1662, da
Filippo IV di Spagna, anche il titolo di marchesi di Barsento.
Nel 1681 Gian Lorenzo Pucci (1645-1728), figlio di Alessandro, proprietario del palazzo in
cantonata tra via dei Pucci e via dei Servi, su disegno di Paolo Falconieri (1634-1704) diede
inizio al cantiere che portò il complesso ad assumere l'attuale aspetto. Sono documentati sei
pagamenti per un “cannone di disegni” che, a partire dal 1682 fino al 1683, con una certa
regolarità arriva e riparte dal palazzo fiorentino verso Roma dove risiede il Falconieri. I
consistenti lavori, per una somma complessiva di circa 15.000 scudi, si protraggono per circa
quindici anni e riguardarono la facciata e l'ampliamento dell'edificio. Pittori e quadraturisti,
quali Giovanni da San Giovanni, Jacopo Chiavistelli e Gian Domenico Ferretti, furono
coinvolti nella decorazione degli ambienti interni tra la fine del Seicento e i primi del Settecento.
Nel 1748, anche Orazio Roberto Pucci marchese di Barsento (1730-1802), proprietario del
palazzo adiacente, diede inizio ai lavori che nel corso di un quinquennio portano il fronte su
via dei Pucci, tra via Ricasoli e via dei Servi, ad assumere una veste unitaria con una facciata che
collega e fonde i differenti frammenti dietro un unico maestoso prospetto, seguendo l'impianto della facciata adiacente progettata dal Falconieri. Orazio mantiene pressoché immutato
l'antico impianto cinquecentesco; fa demolire tutte le unità edilizie limitrofe acquistate nel
corso di quasi due secoli, fino ad allora oggetto soltanto di un intervento di ammodernamento
nei primi anni del Settecento da parte di alcuni architetti tra cui Antonio Ferri, e in loro luogo
fa erigere un complesso completamente nuovo. La contabilità documenta i pagamenti, dal
1748 al 1754, ad Antonio Giachi e Bernardino Ciurini. In seguito, dal 1751, quando tutti i
lavori strutturali sono pressoché terminati, si iniziano a registrare spese per la realizzazione
degli apparati decorativi interni nelle sale al piano terra e al piano nobile.
Il lunghissimo fronte unico dei due palazzi, è organizzato secondo tre sezioni accostate, di
cui quella centrale più ornata; il bugnato rustico definisce l'edificio dalle quattro finestre del
piano terreno, prossime al portone centrale fino al fregio che divide il terreno dal primo
piano, dove un finestrone arcuato rappresenta il fulcro del prospetto, incassandosi nel muro
con un organismo di archi e colonne. Gli stucchi del finestrone che incorniciano lo stemma
Pucci, è probabile che siano opera di Bartolomeo Portogalli per il quale risultano pagamenti
per la nuova fabbrica nel 1758-1759. Molto più semplici e dilatate orizzontalmente le facciate
laterali rispetto a quella centrale, con il bugnato rustico che inquadra i cantonali, in contrasto
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con il bugnato liscio in corrispondenza degli accessi terreni.
Mentre oggi la parte che fa angolo con via Ricasoli appartiene ai discendenti dello scomparso
Emilio Pucci, primogenito di Orazio Pucci, insignito di medaglie al valor militare e che ha
lasciato in eredità alla figlia Laudomia il marchio della prestigiosa casa di moda che porta il
suo nome, la parte del palazzo più antico, cioè quella al centro della facciata di via Pucci,
appartiene al marchese Puccio Pucci, fratello di Emilio, secondogenito di Orazio, “custode”
dell'Archivio familiare che ha reso certa la discendenza del proprio nome con il figlio Giannozzo
e il nipote Giacomo.
Il cortile, frutto delle numerose ristrutturazioni avvenute nei secoli, è stato restaurato dal
marchese Puccio Pucci negli anni Ottanta del Novecento con un lungo e intelligente lavoro da
lui stesso ideato per trasformare gli ambienti in una sorta di galleria commerciale. Attraverso
un vasto androne delimitato da una grande cancellata lignea si passa nel cortile. Si possono
notare le belle colonne con capitelli tuscanici, che forse formavano l'antico cortile cinquecentesco, e le finestre che si affacciano sulla corte, la cui dimensione decresce col progredire dell'altezza. Sulla destra un prospetto di come erano le antiche case medioevali prima del rifacimento seicentesco, e adiacente, un grande cartello stemmato con l'arme dei Pucci composta dalla
testa di moro cinta da una fascia d'argento.
Al secondo piano si trova l'appartamento di rappresentanza del marchese Puccio Pucci, dove
attraversando i vari salotti, la galleria e la sala da pranzo, si respira ancora l'atmosfera degli
antichi fasti.
Nel salone di ingresso, spicca un antico altare chiesastico riadattato in epoca imprecisata, come
contenitore per antichi vasi da farmacia, esposti all'interno. Tele e tavole dal XIV al XVIII
secolo, parte dell'avita collezione di famiglia il cui inventario è esposto in una delle camere da
letto, ornano i vari ambienti concentrandosi in numero maggiore nell'apposita galleria. In
quest'ultima, attira l'attenzione la seicentesca tela con “Deità marine” del bolognese Francesco Albani (1578-1660), allievo dei Carracci, la cinquecentesca opera con “Amanti Veneziani”
di Francesco Torbido detto “il Moro” (1482-1562), allievo di Giorgione, e gli espressivi
ritratti di artisti fiorentini del Seicento tra i quali spicca la “Testa di vecchio con goletta bianca”
di Giovanni Mannozzi detto Giovanni da San Giovanni (1592-1636). Curiosa la settecentesca sedia portantina in legno dipinto.
Nel salotto prospiciente via dei Pucci, ornato da mobili, specchiere, tende e tappezzeria
ottocentesca, una parete ospita un'elegante “Giustizia” del caravaggesco Cesare Dandini e
due opere seicentesche - “Santa Cecilia” e “Allegoria della musica” – del fiorentino Lorenzo
Lippi.
Nel vano che precede le due camere da letto, è esposta, in numerose vetrine, la preziosa
raccolta di porcellane e maioliche antiche e moderne. Nella camera con letto a baldacchino,
oltre agli oggetti di uso quotidiano e alle foto degli avi che ci illuminano su i vari legami
familiari, splendido è il piatto eseguito da Francesco Xanto per i Pucci nel 1532, che attesta la
fortuna della scuola di Raffaello.
La sala da pranzo, apparecchiata con ceramiche ottocentesche della manifattura Ginori di
Doccia e ornata sulle pareti da finte vedute architettoniche, è preceduta da un elegante salotto
nel quale è esposta l'espressiva tela “Guerriero con scudo” attribuita al napoletano Salvator
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Rosa ma probabilmente del meno noto Pietro Muttoni, detto Pietro della Vecchia (16051678).
L'appartamento all'ultimo piano è dominato da un unico capolavoro. Dalle finestre e dalle
terrazze siamo storditi dalla visione ravvicinata della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, dove
sembra di toccare con mano l'immensa cupola brunelleschiana!
Al primo piano ha sede infine il prezioso archivio sistemato dai proprietari in una sala
appositamente arredata nel 1988. Sulle alte pareti campeggiano alcuni ritratti di famiglia di
“Puccio Pucci” (1531-1560), “Roberto Pucci” (1463-1547), “Antonio Pucci” (1418-1484) e di
“Orazio di Lorenzo Pucci” (1552-1625). Sulla balaustra del soppalco, sono stati dipinti gli
stemmi delle varie famiglie con le quali i marchesi Pucci, tramite unione matrimoniale, si
sono imparentati nel corso dei secoli. L'archivio è costituito complessivamente da 1.611
pezzi e, tra i rari documenti conservati, si ricordano le lettere di alcuni personaggi illustri della
fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento: tra gli altri, le scritture di papa Paolo III,
dell'Imperatore Ferdinando re di Ungheria, di papa Clemente VIII, del cardinale Innocenzo
Cybo e, non ultimo il carteggio di Lorenzo de' Medici con Antonio Pucci tra il 1482 ed il 1483.
4) Palazzo Ginori, via de’ Ginori 11
L'origine di palazzo Ginori risale al 1515, quando Carlo Ginori, già proprietario di alcune case
nel borgo di San Lorenzo, acquistò altri tre edifici sui quali fece costruire, tra il 1516 ed il 1520,
l'attuale edificio, ricordato tra i più notevoli dell'epoca.
La perdita, dall'archivio familiare, di un libro contenente alcune notizie attinenti la costruzione del palazzo, impedisce di stabilire con certezza l'autore del progetto. Tuttavia la critica è
concorde, per varie ragioni, nel ritenerlo opera di Baccio d'Agnolo, architetto che aveva già
lavorato per Carlo Ginori, e che sembra si fosse occupato anche della costruzione, per la
stessa famiglia, della villa nei pressi di Calenzano, denominata la Torre di Baroncoli. L'attribuzione del progetto a Baccio d'Agnolo giustificherebbe inoltre le notevoli somiglianze tra
palazzo Ginori e palazzo Guadagni in piazza Santo Spirito, opera del Cronaca, del quale
Baccio fu allievo.
La facciata di palazzo Ginori è scompartita in sei assi, si sviluppa su tre piani e termina con il
loggiato superiore; le belle finestre a tutto sesto incorniciate da bugnato scandiscono i due
piani, mentre il piano terreno presenta cinque finestre rettangolari ed il portone d'ingresso in legno chiodato - sistemato sotto la quarta finestra. Fino all'Ottocento il palazzo presentava esternamente la seggetta da via, tolta in quel secolo per ordine del Comune.
Appena ne fu ultimata la costruzione, la facciata del palazzo fu decorata con pitture a chiaroscuro
- oggi perdute - raffiguranti la storia di Sansone, opera di Mariano da Pescia, allievo di
Ridolfo del Ghirlandaio; si trattava di uno dei primi esempi di un genere ornamentale delle
facciate che ebbe una rapida affermazione agli inizi del XVI secolo, cadendo però ben presto
in disuso. Tra il 1691 e il 1694, in seguito all'acquisto di una casa con orto prospiciente via
Della Stufa, il palazzo fu ampliato sulla parte posteriore per opera del giovane architetto
Lorenzo Merlini, il quale progettò un fabbricato che circonda su tre lati un giardinetto, con al
centro una “fonte in terra alla francese” che veniva rifornita, per gentile concessione del
granduca, dall'acqua proveniente dal Casino di San Marco. Il Merlini progettò una loggia a
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due ordini di arcate tra paraste binate per il prospetto tergale, e un finto loggiato, sempre con
paraste binate, per le facciate laterali e per quella su via della Stufa, che racchiudono al centro,
rispettivamente, aperture timpanate e cancello affiancato da due nicchie con statue.
Nella prima metà del Settecento, in seguito all'acquisto di un edificio contiguo che era appartenuto a Baccio Bandinelli, il palazzo fu ulteriormente ingrandito e conobbe in questi anni,
durante la vita del marchese Carlo (1702-1757) e della consorte Elisabetta Corsini, un particolare splendore: feste e ricevimenti animarono le sue sale, frequentate da principi ed importanti personalità straniere. Risale a questi anni la creazione di un gabinetto di chimica e fisica
nel quale furono compiuti i primi esperimenti che prelusero alla fondazione della storica
manifattura di porcellane di Doccia (1737) ad opera dello stesso Carlo Ginori.
I lavori che furono compiuti nel palazzo nei secoli seguenti riguardarono prevalentemente
gli arredi ed alcune ristrutturazioni interne. In queste opere di restauro venne profondamente alterato l'antico cortile a colonne che, verso la metà dell'Ottocento, venne ripavimentato
con lastre di marmo e chiuso da un lucernario in ghisa e cristallo. La scala, che dal cortile saliva
ripida e stretta, fu eliminata e sostituita, in un ambiente attiguo, da un'altra più monumentale
in fortissimo aggetto che gira le sue dieci larghe e comode rampe attorno ad un grande vano
centrale. Queste trasformazioni, effettuate sotto la direzione dell'ingegner Felice Francolini e
dopo il matrimonio, nel 1846, di Lorenzo Ginori Lisci (1823-1878) con Ottavia Strozzi,
conferirono al cortile l'aspetto di un ambiente abitabile, impressione cui contribuisce il prezioso arredo che lo decora. Porticato su quattro lati, le volte sono sostenute da peducci e da
colonne coronate da raffinati capitelli compositi. Una bella fontana marmorea, risalente al
Cinquecento, è collocata al centro del cortile. Su di una parete è collocato un cartellone
stemmato con le armi Ginori - Minerbetti mentre sulla parete adiacente è stato sistemato un
affresco staccato proveniente da un tabernacolo di Sesto Fiorentino, con relativa sinopia,
raffigurante l'“Incoronazione della Vergine”, opera di Francesco di Michele del 1385 circa. Di
particolare interesse sono i due orci risalenti al XVI secolo, provenienti da Montelupo, e la
robbiana con lo stemma Ginori - Bartolini Salimbeni, proveniente dalla villa di Baroncoli.
Sulla parete di fondo è da osservare la lente ustoria, di fattura fiorentina, che servì per fare i
primi esperimenti di lavorazione della porcellana: sistemata un tempo sul tetto del palazzo,
la lente veniva orientata verso il sole, in modo tale da dirigere i raggi solari per la fusione delle
terre.
Di recente, nel 2003, il cortile ha subito un importante restauro durante il quale sono stati
ritrovati gli originari colori settecenteschi che impreziosivano l'ambiente: il delicato verde
salvia sulle pareti e il rosso pompeiano sul fusto delle colonne.
Dal cortile è l'accesso all'archivio-biblioteca di famiglia che, ornato sulla volta da una leggiadra
“Vittoria della Sapienza e della Pace sulla Guerra” affrescata da Gian Domenico Ferretti alla
fine del Seicento, fu riordinato negli anni Quaranta del Novecento da Leonardo Ginori Lisci
(1908-1985).
Il marchese Ginori, sposato a Maria Cristina Torrigiani Malaspina e padre dell'attuale proprietario, il marchese Lionardo Lorenzo, era appassionato ed esperto di agricoltura ed anche
Accademico dei Georgofili. Nel campo storico artistico firmò la prima monografia scientificamente attendibile sulla manifattura di Doccia e scrisse i fondamentali volumi sulla storia
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dei palazzi di Firenze, tutt'ora strumenti imprescindibili per lo studio di questo argomento.
L'andito, che accoglie lo scalone progettato dall'Ingegnere Francolini, è ornato da una bella
scultura in porcellana ottocentesca, che ritrae il busto di Lorenzo Ginori Lisci, e da quattro
cartelloni stemmati nei quali l'arme Ginori è unita, per via matrimoniale, agli emblemi
Torrigiani, Lisci, Strozzi e Corsini.
I marchesi Ginori, il cui stemma consiste in una banda dorata caricata di tre stelle azzurre nel
campo azzurro, furono grandi mercanti e parteciparono attivamente alla vita cittadina fin dai
tempi della Repubblica. Alla morte di Francesca Lisci, ultima discendente della sua famiglia e
moglie, nel 1786, di Lorenzo Ginori, tutti i suoi beni passarono al figlio Carlo Leopoldo che,
per rispettare la volontà della madre, aggiunse il cognome dei Lisci a quello dei Ginori.
L'imponente ritratto dal vero di Bartolomeo Ginori – alto due metri e 32 centimetri e per
questo preso a modello dal Giambologna nel 1583 quando scolpì il “Ratto delle Sabine”
sotto la Loggia dei Lanzi - introduce allo splendido piano nobile che con i suoi arredi
originali, la tappezzeria, il mobilio dorato e intagliato, gli arazzi, gli affreschi e le opere
dell'avita collezione, ha mantenuto inalterata la magica atmosfera donatagli dalla famiglia nel
corso dei secoli.
Dopo la costruzione affidata al disegno di Lorenzo Merlini, e in occasione del matrimonio,
avvenuto nel 1699, tra Lorenzo Ginori (1649-1709) e Anna Maria Minerbetti, il rinnovamento degli ambienti interni furono affidati all'architetto Antonio Ferri che si avvalse della collaborazione, tra il 1697 e il 1700, dei principali pittori e stuccatori fiorentini del tempo.
Nel primo ambiente, stupenda è la collezione di ceramiche Ginori che ripercorre, attraverso
oggetti curiosi ed originali, la storia “aurea” della celebre manifattura di Doccia, dagli esordi
fino al 1896, quando fu ceduta ad Augusto Richard, il proprietario della milanese “Società
Ceramica Richard”.
Attraverso un andito, nel quale è collocata una bella statua di “Mercurio” della stessa manifattura, si accede al salotto celeste, ornato da uno stupendo lampadario in vetro di Murano e
dalla tela con il “Ratto delle Sabine” del napoletano Luca Giordano, per continuare nel
contiguo salotto rosso prospiciente via Ginori, la cui volta fu affrescata da Gian Domenico
Ferretti alla fine del Seicento con un'ariosa “Allegoria dell'Abbondanza”.
Il grandioso salone da ballo, insieme ad altri ambienti del piano nobile, fu rinnovato e
riarredato su commissione del marchese Carlo Benedetto (1851-1905) che, uomo sportivo e
dotato di uno “charme” tutto particolare, portò la prima automobile a Firenze. Augusto
Burchi e Gaetano Bianchi nel 1880 arricchirono l'antico soffitto ligneo, inserirono i due
meravigliosi lampadari di Murano e, sopra un alto zoccolo dipinto su tela, collocarono alle
pareti i tre grandi arazzi fiamminghi della fine del Seicento provenienti dalla villa Ginori a
Doccia e rappresentanti episodi di Alessandro Magno.
Adiacente è il piccolo e prezioso salotto che, secondo la moda delle “cineserie” molto in voga
nell'Europa del Settecento, è decorato sulle pareti con carte cinesi dipinte a mano nelle quali è
rappresentato un mondo idealizzato e fiabesco, con fiori, uccelli esotici e scene quotidiane. In
linea con il tema del salotto, i cuscini furono ricamati con temi simili da Corinna Civelli tra
l'Otto e il Novecento che, moglie di Lorenzo Ginori Lisci (1877-1960), fu un'ottima disegnatrice allieva del famoso Giovanni Fattori, esponente dei Macchiaioli.
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La sala da biliardo, con una “Allegoria della Notte” affrescata sulla volta da Pier Dandini alla
fine del Seicento, immette nel contiguo salotto giallo che ospita un busto di Carlo Ginori,
fondatore della manifattura, e un elegante camino “alla francese” della stessa manifattura
modellato da Gaspero Bruschi nel 1758. Su una parete domina l'intenso ritratto di “Caterina
Soderini”, realizzato da Alessandro Allori nel 1560 circa: moglie di Lionardo Ginori, donna
colta e attraente al cui fascino è legato anche l'assassinio nel 1537 del cugino, il duca Alessandro dei Medici, figlio di papa Clemente VII. “Lorenzaccio”, nipote di Caterina Soderini,
convinse con l'inganno Alessandro dei Medici a recarsi di notte in casa di lui facendogli
sperare in un incontro con la bella zia, sorella della madre Maria Soderini. Il duca Alessandro
come è noto, non incontrò la giovane donna, ma il nipote che insieme allo “Scoronconcolo”,
Michele di Tavolaccino, lo uccise a tradimento.
L'accesso alla sala da pranzo, il cui arredo fu rinnovato nel 1878 dal marchese Carlo Benedetto
(1851-1905) con antichi arazzi fiamminghi e mobili disegnati ed intagliati appositamente
dall'ebanista Luigi Frullini (1839-1897), è preceduto da una galleria unica nel suo genere.
Composta da due ambienti, è ornata da ridondanti stucchi che simulano morbidi tendaggi
sui quali campeggiano putti e stemmi con l'arme della famiglia Ginori unito, per linea
matrimoniale, agli emblemi Rucellai, Guicciardini e Strozzi. In stucco compare anche l'emblema della contea di Urbeck, feudo nel Casentino alle pendici del monte Falterona ottenuto
da Carlo, il fondatore della manifattura, con decreto granducale di Francesco Stefano di
Lorena nel 1756. Due sculture rappresentanti “Mercurio” e il “Satiro danzante”, arricchiscono l'arredo della galleria nella quale il bianco candore dello stucco ben si armonizza con il
ridondante gusto barocco. Mentre il secondo più piccolo ambiente è riferibile ad un intervento ottocentesco, il primo vano fu realizzato alla fine del Seicento, in occasione del rinnovamento operato da Antonio Ferri, e mostra la grande maestria degli stuccatori fiorentini che,
con felice inganno, tradussero in gesso, oggetti, drappi e tessuti.
5) Palazzo Antinori, piazza Antinori 3
“Austero ma non altero, come un fiorentino di vecchio stampo, un po' ruvido e senza
fronzoli”: così Leonardo Ginori nel libro sui palazzi di Firenze inizia la descrizione di questo
palazzo che rispecchia con immediatezza assoluta le qualità essenziali dell'architettura domestica del Rinascimento: l'intimità ed il riposo.
Tra i più bei palazzi rinascimentali di Firenze, fu costruito tra il 1461 e il 1469 su commissione
del banchiere Giovanni di Bono Boni e, nel 1475, fu acquistato da Lorenzo de' Medici, “il
Magnifico”, a seguito del fallimento dei Boni. Ceduto poi a Carlo e Ugolino Martelli, fu
quest'ultimo a venderlo, nel 1506, a Niccolò di Tommaso Antinori, già residente in Oltrano,
il quale vi fece apportare modifiche e mutamenti.
La famiglia Antinori, i cui discendenti abitano ancora l'avita dimora, è di antica origine,
documentata a Firenze fin dai primi anni del XIII secolo e distintasi fin dalle origini, per
l'abilità nel commercio e gli interessi nel campo della letteratura e della giurisprudenza. Niccolò
di Tommaso, oltre al palazzo acquistato dal Martelli, possedeva molte proprietà terriere in
Toscana e molte compagnie mercantili a Firenze, in Abruzzo, a Lione, in Spagna e in Germania.
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L'autore del palazzo commissionato dal banchiere Giovanni Boni – con l'esclusione del
prospetto sul giardino che appare più tardo e di più mani - è ignoto, ma gli studiosi, viste le
affinità con il senese palazzo Spannocchi, tendono ad individuarlo in Giuliano da Maiano
(1432 – 1490).
La forma del palazzo, a parallelepipedo con un elegante cortile porticato al centro ed il
giardino retrostante, si ispira al palazzo Medici Riccardi progettato da Michelozzo, ma ha una
forma architettonica più leggera ed elegante. A quest'ultimo architetto si ispira anche la
ripresa di una sua originale invenzione ideata per il piano terra di palazzo Medici Riccardi: lo
sfondamento prospettico ingresso-cortile-giardino.
La facciata in pietra grezza, dal disegno lineare, armonico e tipicamente rinascimentale, presenta al centro lo stemma di famiglia composto da uno scudo con la parte superiore a
losanghe ed il campo inferiore liscio.
Il misurato cortile è porticato su tre lati, con volte a crociera e arcate a tutto sesto che poggiano
su colonne in pietra serena con capitelli compositi scolpiti con particolare perizia. Il quarto
lato presenta un tipico arco a sbarra con lunette sottostanti che sorregge la parte superiore in
aggetto. Di particolare eleganza sono anche i peducci in pietra che definiscono le volte di
questo armoniosissimo cortile. Da osservare inoltre il pozzo, di cui si ritrova la descrizione
già nell'atto di acquisto del palazzo da parte di Lorenzo de' Medici.
Per quanto riguarda la parte retrostante il palazzo, composta dal giardino con la sua
controfacciata, fu Alessandro di Niccolò Antinori, come risulta dal catasto del 1538, che
commissionò la realizzazione di un orto facendo demolire alcuni edifici nel nuovo lotto da
lui acquisito. Con questi lavori il palazzo assunse l'attuale ampiezza corrispondente all'isolato posto tra piazza Antinori, il vicolo omonimo, la via delle Belle Donne e il vicolo del
Trebbio. Questo primo giardino commissionato da Alessandro Antinori è rappresentato,
dietro ad un grande muro merlato, nella famosa pianta di Firenze di Stefano Bonsignori del
1584 oggi al Museo di Firenze com'era. Interessante è osservare la somiglianza tra la porta
che dal palazzo immette nel giardino, con il portone di palazzo Bartolini Salimbeni in piazza
Santa Trinita costruito da Baccio d'Agnolo dal 1520 al 1523. Entrambe presentano colonnine
tuscaniche che poggiano su alti plinti e sostengono il cornicione con timpano triangolare di
ampio respiro classico. Questa somiglianza ha permesso pertanto di suggerire l'attribuzione
della bella controfacciata che immette al giardino di palazzo Antinori, a Baccio d'Agnolo
(1462-1543), già realizzata probabilmente negli anni '20 del Cinquecento. La controfacciata è
completata dalle quattro finestre inginocchiate del piano terreno che, solo da pochissimo a
Firenze, nel 1517, erano state messe in opera per la prima volta dal grande Michelangelo a
palazzo Medici Riccardi. La presenza di Baccio d'Agnolo è avvalorata inoltre dal suo impegno
in altre commissioni per gli Antinori come risulta dal testamento di Niccolò di Tommaso
rogato nel 1520 che obbliga i suoi eredi a terminare una cappella iniziata nella chiesa di San
Michele Bertelde, oggi chiesa dei Santi Michele e Gaetano, con l'aiuto di “Baccio d'Agnolo,
architetto fiorentino”. La loggia è invece indubbiamente più tarda.
Si deve ai restauri negli anni '60 del Novecento dell'ultimo proprietario, il marchese Niccolò
Antinori (1891-1991), se il palazzo ed il giardino, ingentilito dalla fontana di Venere e con le
sue quattro semplici aiuole geometriche e regolari, che riprendono la tipologia del chiostro
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monatesco del Tre-Quattrocento, hanno riacquistato il loro antico splendore. I lavori hanno
avuto un'impronta eccezionale: furono eseguiti sotto la direzione dell'architetto Emilio Dori
e riguardarono l'intero edificio, dalle cantine alle soffitte al giardino. I singoli piani furono
liberati dalle sovrastrutture ritrovando in tal modo le misure degli ambienti originali e
furono ripristinati alcuni soffitti lignei risalenti all'epoca della costruzione.
Lo scalone nobiliare prospiciente il cortile, conduce al primo piano ristrutturato recentemente, nel quale le sale sono coperte da grandiosi palchi in legno divisi in campate, suddivise a
loro volta da travi minori che formano riquadri. Le mensole, intagliate a volute, sono decorate con foglie d'acanto e ovoli riprendendo motivi decorativi tipici della pietra. Secondo un
uso antichissimo, i palchi sono ornati di pitture. A differenza della consuetudine di altri
palazzi fiorentini, il secondo piano di palazzo Antinori ospita il quartiere di rappresentanza
che il marchese Niccolò Antinori volle riservarsi facendolo arredare con mobili autentici,
dipinti e sculture di pregio.
Il marchese commissionò inoltre anche la sistemazione di un locale al piano terra adibito per
la degustazione dei prodotti tipici delle fattorie di famiglia, fra i quali primeggia la produzione vinicola.
Seguendo le orme e l'intraprendenza del padre Niccolò, l'attuale proprietario, il marchese
Piero Antinori, ha dato nuovo impulso alla crescita dell'azienda diventata celebre in tutto il
mondo grazie anche alla collaborazione delle figlie Albiera, Allegra e Alessia. Inoltre Piero ha
voluto ripercorrere la storia della sua famiglia e del suo palazzo redigendo lui stesso un bel
volume: “Palazzo Antinori. Futuro antico. Storia della famiglia Antinori e del suo palazzo”
(2007).
6) Palazzo Gianfigliazzi, lungarno Corsini 4
L'illustre famiglia fiorentina dei Gianfigliazzi, ricordata da Dante nella Divina Commedia
(Inferno XVII, vv. 58-60), possedeva numerose torri attorno alla chiesa di Santa Trinita.
Prospicienti il lungarno Corsini avevano tre palazzi contigui di cui questo era il più importante. Dalle carte catastali sappiamo, che nel 1427 apparteneva a Lorenzo di Messer Jacopo
Gianfigliazzi. Nel 1457 fu venduto ai Teghiacci, famiglia senese imparentata con loro, a cui si
deve un primo ingrandimento della dimora. Pochissimi anni dopo, nel 1460, tornò ai
Gianfigliazzi che ne termineranno la costruzione e ne rimarranno proprietari fino alla fine del
Settecento.
All'epoca la dimora si sviluppava attorno ad un cortile a loggiato, aveva sale e camere coperte
con palchi ed era fornita di cantine, orto e giardino. Il prospetto era caratterizzato da un piano
terreno molto alto con piccole finestre ed un grande stemma sormontava il portone. Due
ordini di aperture centinate scandivano i piani superiori coronati da un grande loggiato, uno
dei primi costruiti a Firenze. L'aspetto attuale risale alla seconda metà dell'Ottocento (1865)
quando fu acquistato dal ricco barone belga Adrian Van Der Linden de Hooghworst che
ingrandì il palazzo, uniformò la facciata, chiuse la loggia e aggiunse un grande balcone. Ai
primi del Novecento fu costruito un ulteriore piano coronato da un loggiato ad imitazione
di quello antico.
Gli stemmi in pietra dei Hooghworts, dei Gianfigliazzi e dei Capponi decorano il prospetto.
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Sopra il portone una lapide ricorda Alessandro Manzoni che nel 1827 abitò nel palazzo
all'epoca adibito ad albergo. In questo edificio, il sommo scrittore, alludendo all'Arno che
vedeva scorrere dalle finestre, scrisse la famosa frase: “… nelle cui acque risciacquai i miei cenci”
dando vesti toscane al suo romanzo. Palazzo Gianfigliazzi fu dimora di altri illustri personaggi. Nell'atrio una lapide ricorda Luigi Bonaparte, conte di Saint Lou ed ex re d'Olanda, che
nel 1825 lo acquistò dai discendenti della famiglia e vi abitò fino alla morte avvenuta nel 1846.
Oggi non rimane nessuna traccia dell'epoca, ma le memorie coeve ricordano una dimora
sontuosa dove erano conservate numerose vestigia napoleoniche e dove soggiornò il futuro
Napoleone III. In seguito l'edificio fu acquistato dal celebre avvocato fiorentino Ranieri
Lamporecchi e in questa dimora trascorse la sua infanzia Virginia Oldoini Castiglione, sua
nipote e moglie di Francesco Verasis di Castiglione. La celebre e bellissima contessa che tanta
importanza ebbe nella storia d'Italia. Un'altra iscrizione ricorda la baronessa Emilia
d'Oultremont madre del barone Van der Linden d'Hooghvorts, fondatrice dell'ordine di
Maria Riparatrice morta in questo palazzo nel 1878.
Un ripido scalone abbellito da stucchi bianchi e oro, porta al piano nobile, dove si conservano intatti e perfettamente restaurati gli ambienti voluti dal barone Van der Linden sposato
con la fascinosa marchesa Aurora Guadagni. Secondo il gusto eclettico in voga nella società
cosmopolita dell'epoca, ogni stanza doveva ispirarsi ad un periodo storico diverso. Il barone
fece appositamente venire i pittori e gli artigiani dal Belgio, suo paese natale. La prima sala
imita i saloni rinascimentali, è ornata da boiseries in legno e coperta da un soffitto a cassettoni
dipinto. La piccola galleria, perfetto collegamento tra gli spazi di rappresentanza, è decorata
con pregevoli stucchi e sul soffitto un Padre Eterno con una musa, in stile neoclassico,
firmato da “Cilig Marsrisbuch 1868”, ed altre pitture raffiguranti gli emblemi e gli stemmi
araldici della famiglia Van der Linden. La sala da pranzo è arredata secondo un gusto nordico,
le pareti sono rivestite da eleganti boiseries in legno scuro con incastonate dipinti raffiguranti
nature morte e scene bucoliche in perfetta sintonia con la destinazione della stanza. Particolare attenzione merita il ricco e sontuoso fregio del camino. Fulcro del palazzo è il bellissimo
salone in stile Luigi XVI abbellito da grandi specchiere e decorato con eleganti stucchi bianchi
e oro. Raffinatissime le finiture e le maniglie in bronzo dorato con incisa la corona baronale.
Le sale adiacenti conservano arredi più sobri, spiccano i bellissimi e raffinati camini.
Le feste date a palazzo Gianfigliazzi dal barone Van del Linden e dalla bellissima Aurora
erano le più sontuose di Firenze capitale, frequentate assiduamente da quella società cosmopolita che all'epoca risiedeva e soggiornava a Firenze. Memorabile fu un ballo durato fino alle
undici di mattina, dove i domestici avevano chiuso ermeticamente le finestre per impedire il
passare della luce del giorno. Venduto ai Cesaroni Venanzi e successivamente passato in
proprietà ad un ramo dei Capponi il palazzo fu acquistato dalla famiglia Campodonico ai cui
eredi ancora oggi appartiene.
7) Palazzo Davanzati, via di Porta Rossa 13
Affacciato sulla piazza che ne porta il nome, si trova Palazzo Davanzati che per la sua
struttura e i suoi fastosi arredi, offre un ottimo esempio d'architettura residenziale fiorentina
del Trecento.
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Voluto dai Davizzi, una famiglia di ricchi mercanti appartenenti all'arte di Calimala, passò
durante i secoli per molte mani fino ad assumere l'odierna identità di “ Museo della Casa
Fiorentina Antica”.
I proprietari originari, nel 1516, cedettero il palazzo alla famiglia Bartolini che a sua volta lo
rivendette nel 1578 a Bernardo Davanzati. Costui, rifinendo il palazzo con una panoramica
altana a loggia con un tetto spiovente sostenuto da colonnette in pietra, rivoluzionò la tipica
merlatura difensiva delle case torre medioevali.
L'imponente facciata di arenaria che porta ancora lo stemma Davanzati, era a quel tempo
ingentilita da drappi multicolori, stendardi e gabbie decorative per uccellini, come testimoniano i numerosi roncigli di ferro ancora ben visibili.
Nel 1838, dopo il suicidio di Carlo Davanzati, il palazzo subì varie ristrutturazioni e
modificazioni fino ad arrivare, nel 1908, ad un facoltoso antiquario, Elia Volpi (1858-1938)
che lo trasformò nel “Museo della Casa Fiorentina Antica” arricchendolo con oggetti d'epoca
e aprendolo per la prima volta al pubblico. Tuttavia, nel 1916, l'intero arredo fu venduto, con
sommo profitto, ad una prestigiosa asta di New York importando oltreoceano il gusto per
l'arredamento antico e per la “fiorentinità”.
Il palazzo, arredato con nuove opere, fu acquistato nel 1924 da altri due antiquari, Vitale e
Leopoldo Bengijat fino ad arrivare, dopo vari passaggi, allo Stato che negli anni cinquanta lo
riallestì con mobilia, quadri e suppellettili provenienti da altri musei fiorentini e collezioni
private destinandolo definitivamente a diventare un museo.
Attualmente il palazzo, che si sviluppa sui quattro piani, è stato sottoposto ad un lungo
restauro ancora in corso, con il quale sono stati riportati al loro antico splendore il piano terra,
caratterizzato da una loggia e da un cortile con pilastri ottagonali, il primo piano, con il salone
madornale, la sala dei pappagalli e lo studiolo, e il secondo piano con la camera da letto della
Castellana di Vergy, lo studiolo e la sala da pranzo. Ogni piano è scandito da piccoli ballatoi
affacciati sul cortile muniti di scoli per l'acqua piovana e, sulle massicce mura interne, è
possibile ammirare le antiche grondaie composte da segmenti di terracotta.
Alcune stanze sono interamente affrescate con vivaci motivi geometrici, floreali e ornitologici, come la bellissima stanza dei pavoni e quella dei pappagalli chiuse da soffitti a cassettone
in legno decorato.
Le pareti non affrescate erano sicuramente ornate da arazzi e quadri. Tutti i mobili, i dipinti,
i caminetti con grossi mantici, le ceramiche (alcune della scuola dei Della Robbia), i forzieri e
anche gli utensili d'uso più comune, rispecchiano fedelmente quelli di una tipica dimora
agiata fiorentina tra Medioevo e Rinascimento.
I maestosi letti a baldacchino e a tortiglione e la deliziosa culla istoriata sono coperti di
broccati antichi originali e si ha la sensazione, entrando nelle varie stanze, di visitare non un
museo, ma un ambiente ancora vivo e abitato dove il tempo si è voluto fermare. Anche gli
oggetti dedicati alle arti femminili, splendida la collezione di pizzi, imparaticci, trine e merletti
con orditoi, tomboli e telai, documentano uno degli aspetti della quotidianità della vita in
una casa antica, dove le dame intessevano e ricamavano complicati capolavori.
Ancora in restauro è la cucina, posta all'ultimo piano non solo per motivi di sicurezza in caso
di incendi, ma anche per non impregnare la casa, ricca all'epoca di arazzi e tessuti, con effluvi
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di cibarie. Il museo ospita inoltre pregevoli opere d'arte come il bel Tabernacolo di Santo
Stefano, opera di Spinello Aretino (1350-1410), alcuni dipinti di Giovanni di Ser Giovanni
detto lo Scheggia (1406-1486), fratello di Masaccio, tra i quali “I triumviri che interrogano
l'oracolo” e la serie dei “Trionfi” cantati dal Petrarca.
8) Palagio dei Capitani di Parte Guelfa, piazzetta di Parte Guelfa 1r
Il Palagio di Parte Guelfa (detto anche Palazzo dei Capitani) nacque come sede del quartier
generale dei Capitani di Parte Guelfa (da cui il nome), ovvero di una delle magistrature che,
fino all'ascesa al potere della famiglia Medici, ebbe un forte controllo sulla vita politica di
Firenze, grazie anche ad una solida potenza finanziaria. In particolare i Capitani nominavano
i “giusdicenti”, cioè i Podestà ed i Vicari che venivano inviati a governare le città ed i paesi che
componevano lo stato fiorentino. Con “parte guelfa” si intende propriamente il partito
Guelfo, che nel 1266, con la vittoria di Benevento e la definitiva sconfitta imperiale, ebbe il
sopravvento su quello Ghibellino. Anche a Firenze in quell'anno si affermò la pars guelfa,
con conseguente esilio e confisca dei beni delle famiglie della fazione avversa. La tradizione
storica infatti riporta che il Palagio venne costruito sui terreni delle case confiscate ai Lamberti,
ghibellini, cacciati da Firenze nel 1267. La scelta dell'ubicazione non era casuale: la sede Guelfa
si veniva così ad inserire nel cuore politico ed economico della Firenze medievale, vicino al
fiume ed alla porta meridionale della città, Por Santa Maria, al Mercato Nuovo, al Palazzo dei
Priori ed al Palagio dell'Arte della Seta.
Il Palagio venne costruito a partire dai primi del Trecento, affiancando la chiesetta di San
Biagio, ove dal 1267 i Capitani di Parte Guelfa si radunavano non disponendo ancora di una
propria sede stabile. La chiesa nel 1304 fu interessata da un grave incendio e quindi ricostruita,
e si deve probabilmente collocare in contemporanea a questi lavori anche la costruzione del
Palagio, che risulta già edificato nel 1324. Il palazzo originario fu accresciuto in due fasi
successive nel XV secolo, con progetto attribuito a Filippo Brunelleschi. L'aggravarsi delle
condizioni economiche della Parte Guelfa, e la sua progressiva perdita di potere nella vita
politica di Firenze dopo l'ascesa della famiglia Medici al governo della città, non permisero il
completamento dei lavori, lasciando l'opera incompiuta fino al secolo successivo, quando il
Monte Comune trasferì i propri uffici nel Palagio di Parte Guelfa (1557), occupando le sale
quattrocentesche. I lavori di completamento ed adattamento dell'antica residenza della Magistratura Guelfa vennero affidati a Giorgio Vasari. I Capitani risedettero nel palazzo fino al
1769, quando, con l'avvento dei Lorena, la Parte Guelfa ed il Monte Comune vennero
soppressi e nel 1781 l'edificio passò alla “Comunità di Firenze” nuova magistratura di
carattere “municipale”. Negli anni il Palagio di Parte Guelfa ha poi ospitato il corpo dei
pompieri, uffici comunali, e dal 1923 al 1944 il Gabinetto Vieusseux presieduto da Eugenio
Montale. Fu proprio al Palagio che il giovane Mario Luzi consegnò a Montale alcune delle sue
prime poesie. Nei successivi passaggi di proprietà e trasformazioni d'uso il palazzo subì
drammatiche modifiche all'assetto architettonico e fu spogliato degli originari arredi interni,
andati in gran parte dispersi. Un radicale intervento di restauro, teso a riportare l'edificio alle
sue forme originarie, fu intrapreso nel 1921 sotto la direzione di Alfredo Lensi. Il restauro
interessò gli ambienti interni ed esterni, e si basò sui pochi resti e documenti antichi, e vi
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furono reimpiegate alcune pietre e materiali ricavati dalla demolizione della zona del Mercato
Vecchio.
Il Palagio come si presenta oggi, affascinante e suggestivo esempio di uno scorcio medievale
al riparo delle imponenti architetture di via Por Santa Maria e piazza Repubblica, è in gran
parte frutto del restauro del Lensi. Il fronte prospiciente la piazzetta rappresenta l'ala più
antica, quella trecentesca. I documenti riferiscono che nel 1324 la Parte Guelfa aveva già una
propria sede, che si presentava come un palazzo merlato, con affreschi nella parte superiore
della facciata ed una scala esterna coperta da una tettoia. Al piano superiore vi era una grande
sala ed annessa una piccola sacrestia. Al pian terreno invece si trovavano cinque botteghe che
davano su via delle Terme e sulla piazzetta. Si doveva quindi presentare come un piccolo
edificio turrito, non troppo lontano dall'effetto ricreato dai restauri novecenteschi con la
merlatura alla guelfa, la scala in facciata e la finestra bifora. Sotto la tettoia della scala si nota lo
stemma in pietra della Parte Guelfa: un'aquila rossa dal volo spiegato che tiene tra gli artigli
un drago. Secondo le fonti l'affresco in facciata sarebbe stato eseguito ai primi del Quattrocento da Gherardo Starnina, importante pittore della corrente tardo gotica, e ricordava San
Dionigi e la vittoria di Firenze su Pisa, avvenuta nel 1406. Avanzi laceri della pittura erano
ancora presenti ai primi del secolo scorso ed oggi sono irrimediabilmente perduti. All'interno le alterazioni sono più marcate. La prima grande sala, detta “sala del camino”, costituiva
la sede delle udienze dei Capitani e dai documenti sappiamo che era tutta affrescata e con
scranni lignei lungo le pareti. Oggi presenta ancora un bel soffitto a capriate ed un grande
camino cinquecentesco, collocato qui negli anni '20 del XX secolo, proveniente da una dimora
signorile distrutta del centro cittadino. Sull'architrave del camino infatti si vede uno stemma
appartenente alla famiglia Giamberti da Sangallo, mentre il grande stemma della Parte Guelfa
- completato con gli stemmi del Comune e del Popolo - affrescato sulla cappa è frutto di
un'integrazione di restauro. La sala intermedia, detta dei drappeggi, presenta una serie di
affreschi in stile neo medievale, rifatti anch'essi negli anni venti.
A questo nucleo originario si trova addossato il secondo corpo, parte dell'ampliamento
quattrocentesco, affacciato tra via delle Terme e via del Capaccio. Il progetto di questo intervento viene attribuito a Filippo Brunelleschi, in particolare i lavori alla “sala grande” iniziati
verso il 1430, che ancor oggi porta il suo nome. Essa è caratterizzata da pareti bianche
intonacate, spartite in campiture regolari da lesene in pietra serena con capitelli corinzi, le
finestre ad arco sono inquadrate da alte cornici rettangolari, che sono riproposte anche sulle
aperture cieche nei lati brevi. La storiografia ha da sempre attribuito a Brunelleschi la direzione dei lavori per gli ampliamenti quattrocenteschi, tuttavia non esistono documenti che
provino la sua effettiva partecipazione alla costruzione della Sala Grande, e si è potuto
collegare la figura del Brunelleschi ai lavori alla residenza della Magistratura Guelfa solo grazie
alle notizie riportate dal Manetti nella prima biografia del maestro ed in base a generici
riferimenti stilistici. Il soffitto ligneo a lacunari venne aggiunto dal Vasari negli interventi
cinquecenteschi, mentre gli stalli lignei che corrono lungo tutto il basamento sono in stile
tardo-cinquecentesco, frutto del restauro del Lensi. Sopra il portale che mette in comunicazione con la sala dei drappeggi si trova una lunetta in terracotta policroma invetriata con la
Madonna con il Bambino e due angeli, opera di Luca della Robbia proveniente dalla demo-
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lita chiesa di San Pier Buonconsiglio, anch'essa andata distrutta con i lavori al centro cittadino.
La costruzione del corpo della Sala Grande fu l'ultimo grande intervento di ampliamento
commissionato dai Capitani di Parte Guelfa per la loro residenza e questa seconda ala è detta
anche “Palagio Nuovo dei Capitani di Parte Guelfa”. La sala ancora oggi per la vastità e
solennità dell'ambiente è il luogo ove hanno sede gli eventi principali che animano la vita
culturale ed artistica del Palagio.
Tra gli interventi cinquecenteschi vasariani, realizzati per adattare l'ala quattrocentesca del
palazzo ad accogliere la magistratura del Monte Comune, si deve ricordare anche il nuovo
accesso alla Sala Grande: uno scalone a due rampe, oggi completamente trasformato, che
“sfociava” in una loggetta poggiata su mensoloni, ancora esistente, nodo di unione tra la
Sala Grande e il palazzo che fu dell'Arte della Seta.
Se il volto attuale del Palagio è dovuto in gran pare agli interventi del Lensi, che hanno
cancellato gli interventi ed aggiunte degli ultimi tre secoli, riportando l'edificio ad un'ipotetica
forma originaria, le vicende del Palagio non si esauriscono con questo radicale intervento.
Dopo l'ultima guerra esso dovette subire ulteriori restauri a seguito dei danneggiamenti
provocati dalle mine tedesche che colpirono tutto il quartiere di Por Santa Maria. L'ultimo
lavoro si è concluso solo nel 2008, con la risistemazione del pavimento della sala del camino,
oggi nuovamente valorizzata, e con la messa in sicurezza e l'abbattimento delle barriere
architettoniche. Il Palagio oggi ospita convegni e manifestazioni artistiche, culturali e scientifiche, nonché le riunioni degli organizzatori del Calcio storico fiorentino.
9) Palazzo Malenchini, via de' Benci 1
Nella prima metà del XIV secolo la nobile famiglia degli Alberti, proveniente dal castello di
Catenaia nel Valdarno casentinese - da cui deriva il loro stemma composto da due catene
poste in una croce decussata-, cominciò ad acquistare alcune case verso via de' Benci, nelle
immediate vicinanze del ponte di Rubaconte, oggi ponte alle Grazie. Tali possessi aumentarono nel 1358 con l'acquisto di 2.450 braccia quadre - pari a circa 800 metri quadrati - di terreno
lungo l'Arno, vicino a “messer Rubaconte''. Alla famiglia appartenne il celebre architetto e
teorico del Rinascimento, Leon Battista Alberti (1404-1472) che abitò in questo luogo. A
Firenze, l'Alberti progettò tre capolavori su commissione della famiglia Rucellai: il
completamento della facciata della chiesa di Santa Maria Novella nel 1456, il palazzo Rucellai
in via della Vigna Nuova con la splendida facciata realizzata tra il 1450 e il 1460 e, nel 1467, il
marmoreo tempietto del Santo Sepolcro nella cappella Rucellai della chiesa di San Pancrazio.
Pur non potendo seguire esattamente le varie vicende costruttive del palazzo in questione,
sappiamo tuttavia che la residenza gentilizia mantenne l'aspetto di un agglomerato di case,
casette e botteghe che, riunite all'interno, davano sul retro verso una zona ad orto o giardino.
Ricordiamo che una veduta delle case degli Alberti in via de' Benci e del relativo spazio verde
annesso, si trova nel noto affresco di Giorgio Vasari (1511-1574), nella sala di Clemente VII
a palazzo Vecchio, riproducente una “Veduta generale di Firenze da sud al tempo dell'assedio
dell'esercito imperiale nel 1529-1530”.
L'aspetto attuale del palazzo, con l'unificazione delle facciate delle numerose casette preesistenti,
risale al 1760-1763 e si deve a Giovan Vincenzo Alberti (1715-1788), figlio del senatore
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Braccio e consigliere del granduca Francesco Stefano di Lorena a Vienna e di suo figlio Pietro
Leopoldo a Firenze. Alla morte di suo figlio, Leon Battista Alberti (1759-1836), scomparso
senza eredi nel 1836, il complesso passò ad un nipote della famiglia Mori Ubaldini, che egli
aveva affiliato con l'obbligo di rinnovare il nome degli Alberti.
La nuova famiglia degli Alberti Mori Ubaldini, entrata in possesso di tali beni, incaricò nel
1840, l'architetto Vittorio Bellini (1798-1860) ed altri artisti, di ristrutturare, ampliare, decorare il palazzo e risistemare il giardino. L'architetto Bellini disegnò l'attuale facciata neoclassica
prospiciente il lungarno inserendo una ringhiera sostenuta da un intercolumnio dorico con
trabeazione che funge da terrazza panoramica, alla quale conducono due scalette gemelle
elicoidali collocate ai lati del portale d'ingresso. Nel giardino l'architetto Bellini inserì su un
lato un “tepidarium” poi trasformato in quartiere di abitazione. La costruzione del doppio
loggiato o galleria lungo il lato nord del giardino, fu invece eseguita su progetto dell'architetto Niccolò Salvi in occasione di altri interventi avvenuti nel 1849.
Vittorio Bellini fu, in un secondo tempo, nuovamente incaricato nel 1874 dagli Alberti Mori
Ubaldini, di edificare sul proprio terreno un oratorio, per sistemarvi l'immagine miracolosa
della Madonna. Ancor'oggi l'Oratorio di Santa Maria alle Grazie si erge sul lungarno Generale
Diaz al confine con il giardino. Quest'ultimo, che fino alla metà dell'Ottocento, manteneva
una conformazione all'italiana, fu trasformato in un giardino all'inglese, seguendo la moda
del tempo. La sistemazione romantica data allo spazio verde retrostante il palazzo è pervenuta fino a noi ed è caratterizzata da una grande aiuola di forma curvilinea tenuta a prato e
ombreggiata da piante ad alto fusto.
La facciata prospiciente via de' Benci, fu sistemata in forma omogenea nel 1849 mediante
l'opera dell'architetto Odoardo Razzi il quale creò, secondo la moda dell'epoca, un nuovo
prospetto in stile neo-quattrocentesco con bugnato su tutta la superficie e un grande portale
d'ingresso dal quale si poteva ammirare la parte centrale del giardino. Sul prospetto fece
inoltre apporre due piccole lapidi, a ricordo dello stato di queste case nel lontano Quattrocento e all'inizio dei lavori del 1849.
Nell'atrio d'ingresso al palazzo da via de' Benci, una lapide in marmo collocata sulla parete,
ricorda il patriota garibaldino Vincenzo Malenchini, celebre antenato degli attuali proprietari.
Nell'Ottocento infatti, il conte Arturo Alberti Mori Ubaldini, trasferitosi a Parigi assieme alla
moglie Giulia Bartolini Baldelli, e costretto a liquidare gran parte del suo patrimonio per le
spese eccessive e per le continue perdite al gioco, mise in vendita l'avito palazzo che fu
acquistato dai duchi di Chaulnes, lontani discendenti degli antichi Alberti. Trasferitisi a Firenze, i duchi di Chaulnes, lasciarono tuttavia la città nel 1887 e il palazzo con l'annesso giardino,
divenne nel 1895, di proprietà del marchese Luigi Malenchini, scomparso nel 1948. I nuovi
proprietari si resero celebri a Firenze per la loro squisita ospitalità e per i loro sontuosi pranzi
e balli, cui parteciparono principi reali italiani e stranieri. La famiglia Malenchini, di antica
nobiltà livornese, si era distinta durante il Risorgimento con il patriota Vincenzo Malenchini
(1813-1881), instancabile propugnatore dell'unità e generoso sovvenzionatore di volontari
nelle guerre d'indipendenza, alle quali egli stesso partecipò personalmente e con grande
eroismo. Queste sue qualità gli valsero la nomina a senatore.
Nel grande androne che introduce all'area verde, troviamo varie opere di epoche diverse, tra
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cui un frammento d'affresco degli inizi del XV secolo, che raffigura “San Cristoforo che
trasporta Gesù Bambino sulle spalle”, proveniente probabilmente da una chiesa del nord
Italia; una scultura della fine del XVI secolo raffigurante la “Lupa capitolina che allatta i
gemelli Romolo e Remo e lo stemma della città di Siena”; due grandi pigne in maiolica
invetriata verde della seconda metà dell'Ottocento che ripropongono, in misure più grandi,
i vasi a pigna di Deruta di epoca rinascimentale usati in farmacia per contenere i pinoli. Le basi
sono con molta probabilità della manifattura di Signa della fine dell'Ottocento.
L'interno del palazzo fu restaurato e ristrutturato in occasione dei lavori architettonici progettati da Vittorio Bellini negli anni '40 dell'Ottocento.
Dall'androne a piano terra si accede al grande scalone le cui pareti sono decorate da arazzi
fiamminghi della fine del Cinquecento come “la Clemenza di Scipione”, e due frammenti
delle dodici Fatiche di Ercole, qui raffigurato con il “ leone di Nemeo”, e con “Teseo che
uccide il minotauro”. Sul pianerottolo della prima rampa due imponenti colonne russe
(provenienti da casa Demidoff) in marmo nero con capitelli bronzei che “incorniciano” una
grande tela cinquecentesca.
La seconda rampa porta al piano nobile. Sulla sinistra si accede all'appartamento abitato da
Francesca Malenchini Ginori Lisci. L'ingresso è ornato da un grande arazzo con la vita di
Solimano - sultano dell'impero ottomano; nelle sale adiacenti (salotto e stanza da pranzo) è
esposta, una pregevole collezione di porcellane della manifattura Ginori di Doccia con oggetti prodotti nel periodo che va dalla fondazione avvenuta nel 1735 alla seconda metà dell'Ottocento, riconoscibili sono i piatti con decoro a stampino e tulipano tipico del secondo
periodo della manifattura. Nell'adiacente salotto giallo uno splendido mobile in pietre dure
della metà dell'Ottocento, si accompagna a interessanti opere, la coppia di dipinti raffiguranti
miracoli attribuiti a Domenico Beccafumi (1486-1551).
Sulla destra del piano nobile troviamo ambienti di rappresentanza. Nel salone da ballo,
ancora ornato dagli splendidi arredi della metà dell'Ottocento, le pareti sono affrescate con
settecentesche scene di paesaggi e rovine incorniciate da eleganti stucchi. Nell'adiacente salone
rosso oltre a delle rimarchevoli consolles del Settecento abbiamo uno splendido arazzo
fiammingo avente come soggetto “Tobia che lascia la casa paterna accompagnato dall'arcangelo Raffaele” realizzato dalla manifattura di Bruxelles del 1535. L'ambiente è arricchito da un
“San Francesco in preghiera” di Lorenzo Lippi (1606-1665) e da un cornicione affrescato con
stemmi riproducenti gli emblemi di varie famiglie imparentatesi per via matrimoniale: Raggio; Bastogi; Dufour-Berte ; Canonici-Mattei - Malenchini e lo stemma della famiglia Alberti.
Nella grande sala da pranzo le pareti sono ornate da stoffa con gli stemmi della famiglia
Alberti in seta rossa e da tre grandi arazzi di epoche diverse: una scena con fanciulla che
raccoglie acqua, di manifattura Enghien in Belgio del 1550 circa e una scena biblica con
sovrano e condottiero, degli inizi del Seicento.
Di rilievo inoltre la portiera con stemma mediceo del 1620 circa, la tela con il ritratto di tre
gentildonne di scuola di Alessandro Allori, e il grande lampadario in vetro di Murano del
tardo Ottocento. Le ultime due sale sono arricchite da due splendidi camini rinascimentali in
pietra provenienti dal palazzo Ducale di Gubbio di Federico da Montefeltro e qua inseriti dai
duchi di Chaulnes alla fine dell'Ottocento.
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Dopo i gravi danni arrecati alla proprietà, sia dalla seconda guerra mondiale che dall'alluvione
del 1966 con la quale l'archivio di famiglia Malenchini, sistemato a piano terra, venne totalmente distrutto, l'edificio ha ricevuto un importante e capillare restauro nel 2000-2003.
10) Palazzo Capponi, via de' Bardi 36
Collocato tra via dei Bardi e lungarno Torrigiani, Palazzo Capponi, dal nome di una tra le più
illustri famiglie fiorentine durante la Repubblica e sotto il principato, è detto “Capponi alle
Rovinate” per gli antichi smottamenti e frane della collina sovrastante.
Costruito da Niccolò Da Uzzano, l'edificio viene descritto nel primo inventario del 1424
come “la casa nova”. Un busto dipinto di Niccolò Da Uzzano fu collocato nel 1703 nell'androne a ridosso del cortile sopra un affresco quattrocentesco nel quale due figure alate sorreggono l'arme della famiglia Da Uzzano. Fu infatti Niccolò Da Uzzano, esponente di spicco
dell'oligarchia fiorentina del primo Quattrocento, gonfaloniere di giustizia e ambasciatore
della Repubblica che commissionò la costruzione del palazzo a partire dal 1406. Nel 1411 i
documenti informano che la “casa nova” era già in avanzato stato di costruzione.
Il nome dell'architetto che fornì il progetto è piuttosto controverso. Mentre Giorgio Vasari
nelle “Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi
nostri”, menziona un disegno di Lorenzo di Bicci, recenti studi ipotizzano l'intervento del
giovane Filippo Brunelleschi basandosi sulle strette assonanze con palazzo Busini Bardi in
via de' Benci, progettato dall'architetto fiorentino nel 1430 circa, dopo la costruzione di
palazzo Capponi alle Rovinate.
Senza dubbio fu il ruolo e la personalità di Niccolò Da Uzzano, tra gli uomini di stato più
rispettabili di Firenze, a creare le permesse per la realizzazione del palazzo, così innovativo per
l'epoca.
La facciata prospiciente via de' Bardi mostra ancora i caratteri dell'architettura tardogotica, con
il severo bugnato fino al primo piano, tipico dell'edilizia fiorentina del XIV secolo, e le file
irregolari di monofore oggi in parte tamponate e sostituite da aperture rettangolari. Elementi innovativi precorritori di una nuova sensibilità rinascimentale, sono tuttavia presenti nello
sviluppo orizzontale della facciata, del tutto nuovo rispetto al tema verticale che caratterizzava le tipiche case-torri o i “palagi” trecenteschi, e nel disegno a pianta regolare, più o meno
quadrata, sviluppata attorno allo splendido cortile centrale.
La facciata prospiciente il lungarno Torrigiani fu disegnata ex novo da Giuseppe Poggi tra il
1872 e il 1878, ideando un prospetto “neoquattrocentista” per regolarizzare il nuovo fronte
che affacciava sul lungarno. Giuseppe Poggi fu l'architetto che al tempo di Firenze capitale
stravolse la fisionomia antica della città distruggendo gran parte delle mura comunali per
creare gli attuali viali di circonvallazione e i lungarni, sacrificando quasi ogni struttura che si
trovasse a ridosso del fiume.
Considerato uno fra i primi esempi di architettura rinascimentale, il cortile di palazzo Capponi, a pianta pressoché quadrata, presenta eleganti pilastri ottagonali di forma fortemente
allungata sormontati da capitelli a foglie d'acqua sui quali poggiano le volte a crociera. Secondo l'idea quattrocentesca di cortile come piazza privata, l'ambiente aveva in origine tutte e
quattro i lati aperti, due dei quali furono tamponati nel XVIII secolo. Sopra i portici, le pareti
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sono ornate da graffiti in parte risalenti agli anni Cinquanta del XV secolo. L'armonia dell'insieme, nonostante alcuni elementi siano ancora di impronta trecentesca, esprime già in embrione una sensibilità tutta rinascimentale.
Sotto il loggiato a ridosso di via de' Bardi sono conservati tra gli altri, il modello in terracotta
con la “Lapidazione di Santo Stefano” dello splendido paliotto bronzeo che lo scultore
Pietro Tacca modellò nel 1656 per la chiesa di Santo Stefano al Ponte.
Due cartelloni stemmati in legno dipinto ornano le pareti e contengono lo stemma della
famiglia Capponi, trinciato di nero e d'argento, unito, per linea matrimoniale, agli emblemi
delle famiglie Velluti e Corboli da una parte, e Pandolfini e Della Gherardesca dall'altra.
A seguito della morte di Agnolo Da Uzzano, nel 1435 Niccolò Capponi (1406-1484), figlio
di Piero Capponi e Dianora Da Uzzano, ereditò l'avita dimora.
Lo scalone monumentale che sale al piano nobile, è ornato alla base da uno splendido leone
in porfido rosso, opera romana del II secolo d.C. che aveva come pendant un altro leone
oggi al Metropolitan Museum di New York.
I salotti al primo piano hanno mantenuto inalterata l'antica atmosfera con i loro arredi e
corredi, con le pitture e le opere dell'avita collezione. Il forte legame instaurato dalla famiglia
nel corso dei secoli con la casa regnante dei Medici, è testimoniato dai numerosi ritratti dei
membri della casa granducale. Nella “sala grande”, il cui soffitto fu rialzato nel XVIII secolo
e le pareti ricoperte di tela dipinta nel XIX secolo, sono conservati diversi ritratti di scuola del
fiammingo Giusto Sustermans raffiguranti il Cardinale Carlo e i fratelli Ferdinando II, Giovan
Carlo e Leopoldo dei Medici. Di grande pregio il ritratto di “Giovan Battista Capponi”
dipinto da Santi di Tito e le “marine” e “rovine” seicentesche realizzate dal napoletano
Salvator Rosa tra cui il “Ponte Rotto” di Roma.
Nell'adiacente salotto, tappezzato di seta rossa messa in opera alla fine dell'Ottocento, l'arredo è composto da due splendidi stipi olandesi in legno e pannelli d'avorio incisi e dipinti,
ceramiche cinesi del 1777, una bella cassaforte genovese della fine del Cinquecento e diversi
dipinti della quadreria tra i quali una cinquecentesca “Maddalena” del senese Arcangelo
Salimbeni, una grande tela di Giovanni Bilivert con la “Maddalena penitente”, un ritratto di
“Francesco Magalotti” di Ottavio Dandini, un ritratto originale di “Cosimo III bambino”
del Sustermans e un bel ritratto moderno di Cesare Ciani con “Luise Sophie (Luisa) Vonwiller”
bisnonna dell'attuale proprietario Niccolò Capponi e una delle fondatrici del fascio femminile nel 1920.
Splendida è la piccola cappella che, ricomposta nel Settecento, reca ancora l'originale arredo
cinquecentesco. Sull'altare è infatti una pregevole tavola di Jacopo Carrucci detto il Pontormo
con la “Madonna col Bambino”, probabile parte dell'ex paliotto della Cappella Capponi in
Santa Felicita la cui decorazione fu commissionata da Lodovico Capponi senior al Pontormo
che vi realizzò uno dei suoi capolavori: la famosa “Deposizione” del 1525-1528. Da notare
inoltre l'antico affresco con “San Girolamo” e l'originaria vetrata con la “Deposizione dalla
Croce” ed il “Trasporto al Sepolcro”, eseguita nel 1526 da Guillaume de Marcillat.
Nell'ultimo salotto l'arredo, la tappezzeria in seta gialla e la ricca mobilia dorata e intagliata di
stile secondo impero, furono realizzate nel 1858 in occasione del matrimonio tra Luigi
Ferrante Capponi e Eletta Giugni Canigiani dei Cerchi. Le pareti sono arricchite da tele e
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tavole della quadreria di famiglia tra i quali una bella “Maddalena” attribuita ad Andrea del
Sarto e bottega, un espressivo “Santo” di Lodovico Cardi detto il Cigoli e un “San Girolamo”
di Michelangelo Cerquozzi detto “Michelangelo delle Bambocciante” o “delle Battaglie”.
11) Palazzo Guicciardini, via Guicciardini 15
La famiglia Guicciardini, trasferitasi a Firenze dalla Val di Pesa nella seconda metà del XIII
secolo, possedeva numerose case in questo quartiere che continuarono ad acquistare nel corso
dei secoli successivi. In particolare Piero Guicciardini, tra il 1342 e il 1365, si dedicò ad una
campagna di acquisti che culminò nella creazione di una “casa grande”, nucleo originario del
futuro palazzo. In seguito, nel 1515, anche Jacopo Guicciardini, fratello del famoso storico
Francesco (1483-1540), comprò l'adiacente palazzo Benizzi, dove nel 1233 era nato San
Filippo Benizzi. Lo storico Francesco Guicciardini ed il Santo fiorentino sono ricordati
nell'iscrizione di due lapidi collocate sulla facciata durante i restauri del 1922. Nel 1604 fu
acquistata infine anche la “Casa dei Barbadori”, un edificio interno rispetto alla strada, raggiungibile tramite un vicolo che passava accanto al palazzo Benizzi demolito quando fu
allargata Piazza Pitti.
Nel Seicento le diverse proprietà, che appartenevano ai fratelli Girolamo e Piero Guicciardini,
furono riunite in un unico palazzo signorile. Fu il marchese Piero Guicciardini a commissionare la ristrutturazione del complesso di edifici, composto dalla “casa grande”, dalle torri dei
Malefici e Guicciardini e dall'adiacente palazzo dei Benizzi, a Gherardo Silvani, uno degli
architetti più in vista del tempo.
A seguito della volontà di Piero Guicciardini, che impose alla discendenza che titolo e possedimenti si trasmettessero al solo figlio primogenito, la proprietà non ha subito sostanziali
trasformazioni architettoniche mantenendosi inalterata fino all'Ottocento. La complessa
risistemazione operata dal Silvani avvenne tra il 1620 ed il 1625 e comprese l'ampliamento del
primitivo ingresso del palazzo Benizzi, l'unione dei due cortili, la realizzazione del nuovo
scalone monumentale ricavato tra le pareti dell'antica torre dei Malefici e il loggiato del piano
terreno.
Esternamente unificò le facciate donando agli edifici la stessa altezza, ribassando la torre dei
Malefici e lasciando inalterate le antiche murature, comprese le finestre e le pregevoli decorazioni a graffito a monocromo dell'ex palazzo Benizzi. L'attuale fronte che prospetta piazza
Pitti, fu realizzato dall'architetto Orlando Orlandini nel 1837 allorché, per allargare la piazza,
venne demolito l'adiacente palazzo Guidetti. In tale occasione, anche la facciata prospiciente
via Guicciardini fu riorganizzata abbassando i davanzali di alcune finestre ed eliminando la
cornice marcapiano che Silvani aveva progettato per scandire il ritmo della facciata.
L'architettò sistemò inoltre anche gli ambienti di rappresentanza al primo piano, compreso
il vestibolo a capo dello scalone, e il grande salone che si affaccia con tre finestre su via
Guicciardini ornato, oggi, da ritratti di scuola del Sutterman.
Gli ambienti al piano nobile hanno mantenuto inalterata l'atmosfera cinque - seicentesca
attraverso gli originali arredi e corredi che la famiglia Guicciardini ancora conserva. Dal salotto
alla sala da pranzo, le stanze sono ornate da dipinti dell'avita quadreria tra i quali molte tele di
pittori caravaggeschi ricercati con passione tra i mecenati della Firenze seicentesca. Tra tutti
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spiccano due tele di Bartolomeo Manfredi (1580-1620) con “Suonatore di liuto” e “Giocatori
di carte”. La sala da pranzo è ornata da un antico fregio mediceo che corre lungo tutte le pareti
sul quale sono incisi e dipinti alternativamente un ramo di mirto e una donnola, quest'ultima l'emblema di Francesco I dei Medici (1541-1587). Un lungo fregio dipinto ad affresco
sulla parete in alto prospiciente il giardino, riporta in cartigli, ad esaltazione di virtù, i seguenti
motti in latino: “Exaltabuntur cornua iusti” e “A magnanime imprese risvegliato”.
Splendida è l'adiacente biblioteca, con le originarie scaffalature lignee, realizzata su commissione del conte Paolo Guicciardini (1880-1955) ritratto nell'espressivo busto bronzeo dallo
scultore fiorentino Romano Romanelli. Paolo Guicciardini fece riunire le due precedenti sale
della biblioteca in un unico grande ambiente suddiviso da tre archi su due colonne di pietra
disegnati dall'architetto Giuseppe Castellucci. In questa occasione l'archivio familiare fu sistemato al piano terra nella parte terrena dell'antica torre Guicciardini con ingresso dal giardino
e aperto al pubblico degli studiosi con esemplare liberalità.
Di grandissimo pregio è il tavolo ottagonale del XVI secolo intagliato su disegno di Jacopo
Vignola (1507-1573) dall'ebanista bergamasco Damiano Zambelli per il famoso storico
Francesco Guicciardini. Governatore di Bologna dal 1531 al 1534, e celebre autore di scritti
quali tra gli altri, la “Storia Fiorentina”, il “Dialogo del Reggimento di Firenze”, i “Ricordi
politici e civili” e la “Storia d'Italia” (1537-1540), Francesco ricevette in dono il tavolo dai
monaci di San Michele in Bosco a Bologna. La gamba del tavolo è ricavata dall'intaglio di un
unico tronco scavato mentre il piano di appoggio è in realtà un insolito e originale doubleface ove il pernio centrale è ornato dallo stemma Salviati, riferibile a Maria Salviati moglie di
Francesco, unito all'arme Guicciardini composta “d'azzurro a tre corni da caccia d'argento
cerchiati e imboccati d'oro legati di rosso appesi l'uno sull'altro”.
L'ingrandimento operato dal Silvani dell'antico ingresso, costituito da due vasti ambienti
uno coperto da volte e l'altro ornato da un elegante porticato con colonne in pietra serena e
capitelli ionici, pose in maggior risalto il bellissimo stucco quattrocentesco derivato forse da
un'opera perduta di Antonio del Pollaiolo. L'opera è racchiusa in una bella cornice
rinascimentale mentre al di sotto è stata collocata una vasca tratta da un sarcofago romano.
L'attuale posizione dello stucco quattrocentesco è sicuramente quella originaria: risalente
quindi all'epoca in cui la proprietà apparteneva alla famiglia Benizzi.
Oltre il cortile si apre un piccolo ma significativo giardino, di cui si hanno notizie dall'epoca
del Silvani. La struttura geometrica all'italiana con siepi di bosso tagliate e agrumi piantati a
boschetto, venne modificata nel 1804, in occasione delle nozze di Lorenzo Guicciardini con
Elisabetta Pucci, seguendo la moda dei giardini “all'inglese” nei quali gli elementi naturali e
artificiali (collinette, alberi d'alto fusto e sentieri sinuosi) si confondevano a creare un'armonica visione d'insieme. Nel 1866, allorché Pietro Leopoldo abolì i fidecommessi che vincolavano l'unità immobiliare, il palazzo Guicciardini fu diviso, per un breve periodo, tra i due
fratelli Piero e Luigi i quali eressero un muro divisorio all'interno del giardino. Con la morte
di Piero, che non ebbe figli, la dimora fu nuovamente riunificata con il nipote Francesco,
unico figlio del superstite Luigi. Il conte Francesco (1851-1915), economista e uomo politico,
ricoprì l'incarico di sindaco di Firenze negli anni a cavallo tra Otto e Novecento e fu Ministro
dell'Agricoltura sotto il governo di Antonio Starrabba e ministro degli Esteri sotto il gover-
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no di Sidney Costantino Sonnino.
L'attuale impianto del giardino risale al 1922 quando Paolo Guicciardini assieme alla moglie
Augusta Orlandini del Beccuto, intrapresero una serie di restauri ed interventi all'intera proprietà poco prima della tragica e prematura scomparsa nel 1923 dell'unico figlio, il tredicenne
Luigino. La facciata su piazza Pitti fu restaurata dall'architetto Giuseppe Castellucci, fu creato
l'archivio dei documenti di famiglia e fu ridisegnato il giardino. L'impianto crea con le aiuole
e i suoi vialetti, una serie di angolazioni prospettiche culminanti in una montagnola, sotto al
cui arco è posta una statua di Venere, copia della splendida scultura del Giambologna che
orna l'ultima stanza della Grotta del Buontalenti nel giardino di Boboli. Il muro di confine
reca vestigia delle antiche collezioni di scultura: numerose iscrizioni, targhe in pietra e una
fonte antica che, come ricorda una targa, fu ivi riscoperta nel 1845.
Durante la seconda guerra mondiale il palazzo fu una delle poche architetture di via Guicciardini
a salvarsi dalle mine tedesche, anche se vennero danneggiati lo scalone principale e le coperture mentre i graffiti della facciata, andarono quasi completamente distrutti. Un primo e immediato intervento di restauro avvenne nel 1950 quando Paolo Guicciardini incaricò l'architetto
Emilio Dori di curarne il progetto generale. Un secondo intervento è avvenuto nel 2007 a
cura dell'Architetto Piero Guicciardini, attuale proprietario, che grazie al ritrovamento di foto
scattate prima della distruzione bellica, ripristinò gli antichi graffiti.
12) Palazzo Feroni Magnani, via dei Serragli 8
I numerosi edifici che la famiglia Serragli possedeva in antico lungo la via che oggi porta il
loro nome, furono acquistati nel 1428 da Piero di Francesco Del Pugliese che, come è riportato nella denuncia del 1469, “di dette case ne ho fatte una”. Ricchi e facoltosi mercanti, i Del
Pugliese trasformarono l'antico edificio in una lussuosa dimora che, come informa Giorgio
Vasari nelle sue “Vite”, venne decorata da Fra Bartolomeo - con un “San Giorgio a Cavallo”
in cima ad una scala - e da Piero di Cosimo - con “storie di figure piccole, (…) e altre fantasie
che gli sovvennono per essere storie di favole”. Le pitture furono in seguito in parte distrutte
e vendute all'estero.
Degli interventi attuati per conto della famiglia Del Pugliese, rimane oggi solo lo stemma in
facciata che, accanto all'arme dei Feroni, famiglia che in seguito acquistò il palazzo, è composto
da un leone rampante di profilo nella parte alta ed in basso da tre righe.
Alla metà del Cinquecento i Del Pugliese vendettero una sezione del palazzo per ritirarsi,
definitivamente, nelle stanze di un edificio confinante con borgo San Frediano.
Nel 1748 Pierfranceso Castelli riunificò nuovamente il palazzo acquistando i due edifici che,
poco dopo, nel 1769, furono venduti al ricchissimo marchese Giuseppe Francesco Feroni
(1733-1786) cugino di Francesco Antonio il Giovane (1710-1769) che aveva acquistato, nel
1768, lo splendido palazzo in piazza Santa Trinita, oggi della famiglia Ferragamo.
La ricchissima famiglia Feroni aveva creato il proprio impero economico nel secolo precedente grazie all'ingegno del capostipite Francesco Feroni (1614-1696), uomo d'affari abilissimo
ed imprenditore senza scrupoli. Nato ad Empoli da artigiani tessili e tessile lui stesso, aveva
fatto fortuna in Olanda come mercante, trasportando “mori schiavi in gran numero” nelle
colonie spagnole delle Americhe. In poco tempo aveva accumulato una ricchezza colossale ed
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imbastito relazioni diplomatiche e commerciali con le ambascerie di molti stati, tra i quali la
Toscana. Era stato in virtù della stima che godeva presso i funzionari della segreteria granducale
se nel 1667 aveva conosciuto Cosimo III dei Medici che, in viaggio attraverso l'Olanda, aveva
accettato la sua ospitalità ad Amsterdam gettando le premesse di una lunga amicizia che
avrebbe recato vantaggi ad entrambi. Non appena Cosimo III divenne Granduca nel 1673
chiamò Francesco Feroni a Firenze, gli concesse la cittadinanza fiorentina, lo elesse depositario
generale, cioè amministratore del patrimonio della Corona e delle entrate dello Stato, e lo
invitò a fare parte della Deputazione per la Riforma dei Magistrati. Nel 1681 Cosimo III lo
nominò marchese di Bellavista, cioè dell'enorme fattoria composta da 45 poderi che il Feroni
aveva comprato dalle possessioni Granducali nel 1671 per la cifra eccezionale di oltre 170.000
scudi. Francesco Feroni incaricò immediatamente l'architetto Antonio Ferri ed i principali
pittori dell'epoca, di trasformare la villa in una straordinaria dimora, emblema e sintesi di
questa avvincente vicenda umana che vede l'ascesa sociale di un figlio di un modesto tintore
di Empoli a personaggio tra i pù importanti del Granducato.
Acquistati gli edifici di via dei Serragli nel 1769, il marchese Giuseppe Francesco Feroni
commissionò un nuovo grandioso progetto all'architetto Zanobi del Rosso (1724-1798),
autore, tra gli altri, della Limonaia (1785) e del fantasioso Kaffeehaus nel giardino di Boboli
(1775). I lavori, iniziati nel 1770 e conclusi nel 1778, interessarono il cortile, che fu allargato e
sistemato, lo scalone principale, la costruzione di un secondo edificio prospiciente borgo San
Frediano comunicante con gli ambienti più antichi del palazzo, la realizzazione della facciata,
sia su via dei Serragli che su borgo San Frediano, e la sistemazione degli ambienti interni che
furono affrescati e decorati.
L'ingresso principale rimase su via dei Serragli mentre l'accesso da borgo San Frediano, venne
concepito come passaggio e rimessa delle carrozze in comunicazione con il cortile del palazzo.
Zanobi Del Rosso disegnò una facciata caratterizzata da un lungo sviluppo orizzontale,
contrastante con la stretta via dei Serragli, da un bugnato piatto al piano terra, uguale sulle
due strade, e da sei eleganti finestre al piano terra munite di leggere inferriate caratteristiche
dell'epoca. Ai piani superiori mantenne le finestre originali ad arco centinate segnate da cornici
marcapiano. Al centro del piano nobile spicca lo stemma Feroni, composto da un braccio
rivestito di ferro e armato di spada.
Attraverso un seicentesco portone a formelle, che conserva le primitive ferrature dei quattro
battenti e della mezzaluna superiore, si accede all'androne concluso da un artistico cancello in
ferro battuto ornato in alto dalla caratteristica arme dei Feroni.
Suggestivo è il vasto cortile nel quale Zanobi ha utilizzato in parte capitelli e colonne di
reimpiego, per trasformare e allargare il precedente cortile quattrocentesco. L'architetto realizza due logge fronteggianti coperte da volte con archi a tutto sesto, mentre nei due lati pieni
ripete il ritmo dei due loggiati aperti disegnando archi ciechi con lesene sormontate da finti
capitelli con foglie e volute. Tipico elemento settecentesco, è l'inserzione di due esili terrazzini
sostenuti da mensole di ferro che non turbano la lineare sobrietà del cortile. Le pareti piene
sono inoltre movimentate da due porte monumentali, con cornici che terminano in alto nel
fastigio con vasi e busti, e da due grandi finestre i cui vuoti bilanciano i pieni delle pareti.
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Originale è la ricca decorazione antiquaria che, voluta da Zanobi del Rosso, riveste le pareti ed
anima lo spazio del porticato: busti di personaggi antichi, statue classiche, dei, eroine, figure
pastorali e capricciose popolano uno dei cortili più festosi di Firenze.
Con Ubaldo Francesco Feroni (1767-1821) figlio di Giuseppe Francesco, furono intrapresi
una seconda serie di lavori che interessarono l'ampio giardino retrostante confinante con
piazza del Carmine. Quest'ultimo lotto, acquistato nel 1787 da Ubaldo Francesco, era sede di
un orto e monastero - soppresso da Pietro Leopoldo di Lorena nel 1783 - della compagnia
detta la “Bruciata” perché aveva come antica tradizione di fare dono, in occasione della festa
del Patrono (18 Novembre), delle gustose castagne. Ancora oggi a Firenze le “bruciate” è il
termine con il quale sono denominate le castagne grosse, i marroni incisi e cotti sui bracieri.
L'architetto incaricato fu sempre Zanobi Del Rosso che, distruggendo le preesistenti casette
e occupando l'antico orto del Convento, creò l'attuale giardino e costruì un vasto edificio a
diciassette assi prospiciente piazza del Carmine. Con tale intervento, la proprietà Feroni si
ingrandì notevolmente fino a comprendere il grande blocco confinante con le tre strade e la
piazza posteriore. La monumentalità del palazzo era sottolineata inoltre dalle aperture di
accesso collocate scenograficamente su di un unico asse centrale che, da via dei Serragli, terminava con il grande cancello prospiciente piazza del Carmine.
Mentre nel corso del XX secolo il palazzo perse la sua unicità per la suddivisione in differenti
unità abitative, il quartiere al piano terra, con lo splendido giardino retrostante, ha mantenuto inalterato l'antico fascino grazie all'attuale proprietario, il marchese Giuseppe Paternò
Castello di San Giuliano, di antica e nobile famiglia siciliana che vanta, tra molti personaggi di
rilievo, Antonio Paternò Castello di San Giuliano (1852-1914) ambasciatore in Gran Bretagna
e in Francia (1906-1910) e Ministro degli Esteri (1905-1906 , 1910-1914). Tutti i salotti,
affrescati e arredati con opere ed oggetti di grande pregio, si susseguono ininterrottamente a
ridosso del giardino. Elegante è la sala decorata con finte quadrature settecentesche che, sulle
pareti, creano l'illusione di un loggiato aperto su di un idilliaco paesaggio. Sulla volta una
finta balaustra, sulla quale si affacciano ridenti figure di giovani vestiti con abbigliamento
dell'epoca, incornicia la volta celeste sulla quale si stagliano putti, zefiri ed aeree figure femminili. Ignoto è l'autore, anche se è ravvisabile una certa similitudine con la decorazione della
palazzina di Livia Raimondi Malfatti in piazza San Marco affrescata da Giuseppe Del Moro
(1718-1781) fra il 1778 e il 1780.
In un salotto adiacente, la volta è affrescata con una “Glorificazione della famiglia Feroni” il
cui soggetto ripete similmente la decorazione realizzata da Anton Domenico Gabbiani per
palazzo Corsini (1696). L'ignoto autore della pittura in palazzo Feroni, ripropone la scena
con figure allegoriche che sollevano il modello della villa Feroni a Borgo a Buggiano, con la
quale la famiglia ottenne il titolo marchionale ed entrarono nella rosa dell'aristocrazia toscana
al pari di altre antiche famiglie fiorentine, come i Corsini.
Nella raffinata alcova, che in origine comunicava con un'ala del palazzo prospiciente borgo
San Frediano, oggi sede dell'Hotel Magnani Feroni, figure allegoriche dipinte sulla volta
esaltano le virtù, mentre le pareti sono affrescate con due scene bibliche: “Susanna tra i
vecchioni” e “La distruzione di Sodoma e Gomorra”. L'ambiente è separato dall'alcova vera
e propria, decorata sulle pareti con scene a monocromo, da un arco ornato da affreschi e
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stucchi riproducenti le figure del sonno e della notte.
Elegante è la sala da pranzo nella quale predomina un tono neoclassico nei finti bassorilievi
di gusto antico e nelle figure mitologiche di Esculapio ed Eolo dipinti, rispettivamente, sulle
pareti e sulla volta.
Un piccolo salotto adiacente, completamente affrescato da paesaggi e piccole figure inerenti
Diana ed il tema della caccia, introduce perfettamente al grande giardino fatto restaurare di
recente dal marchese Giuseppe Paternò Castello di San Giuliano. Nei primi anni dell'Ottocento, Ubaldo Francesco ed in particolare sua moglie Luisa Buondelmonti, grande appassionata di fiori e piante rare, curarono con passione il grande giardino divenuto celebre per le
sperimentazioni di alcune specie botaniche tra le quali, nel 1804, la coltivazione, per la prima
volta a Firenze, di una pianta di ortensia. La cura del giardino era stata affidata ad Angiolo
Pucci, giardiniere espertissimo a capo di una vera e propria dinastia di grandi orticultori e
botanici.
Dalla fine del Settecento, con la gestione poco oculata del marchese Ubaldo Francesco Feroni,
l'impero economico della famiglia si stava lentamente sgretolando: alla fine degli anni '20
dell'Ottocento la straordinaria villa Bellavista era stata venduta, molte opere di quella che era
una tra le più belle collezioni private fiorentine, erano state vendute insieme agli arredi e nel
1821, alla morte dello stesso Ubaldo, gli eredi alienarono, alla ricca famiglia Magnani, anche il
grande palazzo in via dei Serragli.
Provenienti da Pescia, i Magnani si erano distinti nella nascente industria specializzata nella
gestione delle filande di seta e soprattutto delle cartiere. Alcune nuove applicazioni tecniche
ben sfruttate facilitarono la crescita del loro patrimonio tra le quali, basterà ricordare l'uso del
cloro, che imbiancando gli stracci colorati, materia prima della carta di Pescia, permise di
realizzare della buona carta bianca anche con gli stracci meno puri, e quindi meno costosi.
Stabilitisi a Firenze, i Magnani scelsero come degna residenza questo palazzo, tra i più vasti
della città.
Attraverso alcuni matrimoni assai vantaggiosi, la famiglia conquistò l'amicizia e la fiducia
della locale aristocrazia del tempo. Il matrimonio tra la figlia unica Isabella di Antonio
Magnani, e un ventenne marchese fiorentino, Carlo Lorenzo Gerini, bello, forte ma con un
patrimonio molto rovinato, fu oggetto di una divertente satira di Giuseppe Giusti intitolata
“La Scritta”: cioè il contratto matrimoniale dal quale risulta, dopo un racconto incentrato
nella descrizione ridicola dei parenti di lui e di lei che si incontrano, che la vera attrattiva nei
confronti della ragazza, brutta e perfino un po' gobba, erano gli 800.000 scudi di dote.
Alla fine dell'Ottocento il palazzo passò agli Amerighi, nobile famiglia di origine senese che
tenne la proprietà fino al termine della prima guerra mondiale. In seguito l'immobile, diviso
e venduto a diversi proprietari, perse definitivamente la sua unità mantenendo tuttavia, nel
quartiere al piano terra, tutto il suo antico fascino nobiliare.
13) Giardino Corsini sul Prato, via il Prato 58
La facciata di uno dei palazzi lungo quello che era noto come il “Prato d'Ognissanti” quell'area della città non lastricata ma lasciata verde, come dice il nome stesso, e utilizzata fin
dal Medioevo per giochi e spettacoli - nasconde, oltre ad un ampio e buio androne per le
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carrozze, uno dei giardini più affascinanti di Firenze.
Acquistato da Filippo di Lorenzo Corsini nel 1621, insieme ad un “casamento grande cominciato e non finito”, il giardino dei Corsini viene descritto nella guida “Bellezze della città
di Firenze” di Francesco Bocchi e Giovanni Cinelli pubblicata nel 1677, come “delizioso ... e
oltre le piante nobili che l'adornano... arricchito di statue antiche e moderne”. Autore di
questo “delizioso giardino” è Gherardo Silvani (1579-1675), l'architetto a cui Maddalena e
Filippo Corsini diedero l'incarico di portare a termine la casa iniziata da Bernardo Buontalenti
nel 1591 per Alessandro Acciaioli (1545-1601) e la moglie Caterina Capponi, precedenti
proprietari del terreno.
Del Buontalenti, che realizzò una “dimora di delizia” tanto in voga in quel periodo tra le
famiglie gentilizie fiorentine, riconosciamo la loggia e le grandi finestre inginocchiate, mentre
l'opera architettonica del Silvani si intuisce in alcuni particolari degli ambienti terreni, quali le
decorazioni araldiche di alcuni architravi. E' comunque nella parte del giardino all'italiana, con
le sue limonaie, le aiuole geometriche, le siepi di bosso e il viale centrale con le statue, che si
manifesta chiaramente lo spirito barocco dell'artista, la sua propensione per la scenografia.
Per aumentare l'impressione di lunghezza e di profondità del viale, l'architetto usò l'artificio
di realizzare una doppia fila di statue con i rispettivi piedistalli, ad altezze degradanti con
l'aumentare della distanza dal casino. E ad ulteriore conferma che il punto di vista fondamentale era quello, dal loggiato posteriore del casino verso via della Scala e non viceversa, il Silvani
pose il putto e i due leoni al di sopra del cancello e dei pilastri laterali con i musi rivolti verso
l'interno e non verso la strada, come sarebbe logico aspettarsi. La “bella viottola di statue” è
ornata anche da numerosi vasi di limoni, sistemati in aiuole di forma molto allungata, dove
crescono odorose piante di lavanda i cui fiori azzurri si alternano al giallo degli agrumi e al
bianco delle sculture marmoree. Ai lati del viale si estendono ampi parterres rettangolari,
disegnati al loro interno da siepi di bosso e colorati dai fiori e dalle piante aromatiche che
ancora oggi vengono piantate nelle aree delimitate dalle siepi.
Il giardino dei Corsini non subì variazioni di rilievo fino all'inizio dell'Ottocento, quando
Antonietta Waldstatten nei Corsini fece realizzare, al lato dei sei parterres centrali, i due
boschetti romantici. Le due masse boscose, che inquadrano il giardino formale seicentesco
enfatizzandone il disegno, sono composte prevalentemente da lecci e risultano articolate, al
di sotto delle piante ad alto fusto, in siepi di alloro alternate a sentieri tortuosi e ad aree di
sosta con sedute. Il boschetto più prossimo alla porta al Prato è stato probabilmente ottenuto trasformando una ragnaia già esistente, citata nei documenti seicenteschi e raffigurata nella
pianta di Firenze di Ferdinando Ruggeri del 1731. Nelle nuove parti romantiche del giardino,
furono realizzati anche un laghetto ed una montagnola, elementi tipici del parco all'inglese,
oggi scomparsi.
A questi primi lavori ottocenteschi che interessarono esclusivamente il giardino seguì, tra il
1834 ed il 1836 la ristrutturazione architettonica e decorativa dell'antico casino buontalentiano,
scelto come residenza abitativa da don Neri Corsini (1805-1859) e da sua moglie Eleonora
Rinuccini. Neri Corsini incaricò del progetto Ulisse Faldi e chiese consulenze all'architetto
Gaetano Baccani. Venne rialzato il tetto, fu costruita una nuova scala a pozzo, alcune sale
furono affrescate e un grande stemma di famiglia, affiancato da due ippogrifi e realizzato da
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Luigi Giovannozzi, venne posto sulla facciata del palazzo.
Ulisse Faldi progettò inoltre, nel 1843, anche il nuovo palazzo al lato del casino, realizzato
soltanto nel 1860 circa, dall'architetto Vincenzo Micheli trasformando l'edificio a due piani
con lunga balconata, dalla quale i Corsini assistevano alle corse dei cavalli che si svolgevano sul
Prato.
Il giardino fu interessato nella seconda metà dell'Ottocento, ad un altro intervento qualificativo. Adiacente all'edificio vi era un grande spazio verde che, nella seconda metà dell'Ottocento fu integrato al giardino Corsini con la realizzazione di un “viottolone”, perpendicolare a
quello progettato dal Silvani. Al centro del nuovo viale era situata la vasca ellittica ornata da
una scultura del Pozzi raffigurante un bambino seduto - il piccolo Filippo di Tommaso
Corsini (1873-1926) all'età di cinque anni - sopra una grande tartaruga, animale simbolo del
giardino Corsini dove vivono circa 100 esemplari di tartarughe. Scomparso negli ultimi
decenni il “viottolone” ottocentesco, la fontana ellittica si trova attualmente circondata da un
prato che occupa lo spazio compreso tra le due limonaie del giardino. Il grande spazio verde,
fino a 40 anni fa coltivato e scompartito in riquadri delimitati da filari e pergolati, è stato
recentemente smantellato e trasformato in un esteso prato con alberi sparsi.
Attualmente il giardino, che ha ricevuto un intervento di sistemazione negli anni '80 del
Novecento da parte di Oliva di Collobiano, architetto del paesaggio, su commissione della
principessa Giorgiana Corsini, presenta inalterati, oltre ai due parterres geometrici seicenteschi,
i due boschetti romantici, il prato con tigli secolari, le limonaie con pavimenti di terra, grandi
sportelloni in legno e larghi muretti per sostenere le conche di circa 130 agrumi. Due muri lo
separano, sul fondo, da via della Scala e, sulla sinistra, dall'esteso prato e da un frutteto.
Il giardino formale dei Corsini, sopravvissuto alle trasformazioni ottocentesche che in molti
casi hanno distrutto le precedenti sistemazioni, è uno dei pochi esempi di giardino all'italiana
ancora presenti all'interno del centro storico e, senza dubbio, il più significativo sia per
l'estensione dell'area a parterre che per l'ottima conservazione dell'impianto formale e degli
arredi in esso presenti.
14) Giardino Torrigiani, via dei Serragli 144
Nella parte finale di via dei Serragli è situato il giardino dei Torrigiani, il più grande giardino
privato entro le mura di Firenze. La proprietà appartiene alla famiglia dal XVI secolo, che già
allora era nota per le coltivazioni rare, caratteristica che mantenne con lo scorrere dei secoli.
Nel 1798 Pietro Guadagni (1773-1848) ereditò dallo zio materno, il cardinale Luigi Torrigiani,
terreni e ville in tutta la Toscana e tre palazzi in città tra cui il casino ed il giardino in via del
Campuccio. L'eredità sarebbe stata resa effettiva purché Pietro, per continuare la dinastia dei
Torrigiani, cambiasse il proprio cognome paterno con quello della madre Teresa Maria
Torrigiani. Accettato di buon grado la clausola, il marchese Pietro Torrigiani nel giro di pochi
anni ingrandì il giardino dello zio, acquistando nuovi terreni, fino a raggiungere il convento
della Calza, per un totale di dieci ettari!
Pietro Torrigiani dedicò molto del suo tempo a far rivivere e a migliorare la sua proprietà. Tra
il 1813 ed il 1814 l'architetto Luigi De Cambray Digny (1778-1843) fu incaricato di progettare
un nuovo giardino. L'impostazione e l'ideazione dei percorsi rispecchiavano la moda di
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costruire “all'inglese” - affiancando zone che ricostruivano un ideale Arcadia, a personaggi
tratti dai poemi cavallereschi o architetture di ispirazione neogotica - ma erano anche la
proiezione di un itinerario simbolico, interpretato in chiave massonica.
Il giovane Gaetano Baccani (1792-1867) sostituì il Cambray Digny nella direzione dei lavori;
costruì il torrino neogotico - alludente tra l'altro allo stemma ed al cognome dei Torrigiani il sepolcreto, ritagliò i merli delle mura medicee e allestì l'ippodromo.
Il visitatore viene accolto all'ingresso da una raffigurazione di Osiride, divinità agricola e dio
dei defunti e della resurrezione, che sorregge delle tavole sulle quali sono incise le regole a cui
bisogna attenersi: infatti nel 1824 il giardino veniva aperto al pubblico. Le diverse vie da
seguire nella visita al giardino erano indicate da mani di marmo poste su colonne; l'itinerario
movimentato dall'alternanza, che aveva certo significati simbolici, di giardini formali, zone a
prato e zone boscose, era contrassegnato dalla presenza di numerose opere, oggi non più
esistenti. Alcune zone erano adibite al pascolo degli animali, tra cui cervi e caprioli, - che
all'interno delle mura cittadine costituivano una ricercata rarità - mentre le mura di cinta erano
state decorate con scene campestri ed architetture in rovina. Non lontano vi era la grotta di
Merlino, figura che alludeva alle forze interiori dell'uomo, che ognuno può utilizzare secondo la propria volontà. Passando da un tempietto arcadico si arrivava al ginnasio dove si
giocava al pallone, si tirava con l'arco, con la pistola e la carabina, davanti ad un anfiteatro in
pietra. Un fitto bosco conduceva poi al torrino, simbolo con i suoi tre piani interni, dei tre
gradi del passaggio dal mondo profano a quello iniziatico della tradizione massonica. Alto
ventidue metri nascondeva al suo interno una libreria, un osservatorio astronomico e armi
da difesa.
Oltre ai suggestivi percorsi simbolici, il giardino era noto fin dal Seicento soprattutto per la
sua importanza botanica: numerosissime le piante coltivate, 5.500 le piante in vaso e 13.000
in terra, tra cui anche piante esotiche. Agrumi, camelie, rododendri che ancora oggi possiamo
vedere nel prestigioso vivaio di piante ornamentali e da appartamento del marchese Vieri
Torrigiani Malaspina, costituivano le coltivazioni predilette.
Il grandioso parco Torrigiani si è conservato sino ad oggi in ottimo stato e gli attuali
proprietari, il marchese don Raffaele Torrigiani duca di Santa Cristina, per la parte di via del
Campuccio, e i marchesi Torrigiani Malaspina, per la parte di via dei Serragli, continuano con
amore e dedizione alla manutenzione di uno spazio verde così vasto che ha mantenuto
inalterato, a differenza di altri giardini, il suo carattere di unitarietà nonostante il frazionamento immobiliare.
Chiesa dei Santi Michele e Gaetano, piazza Antinori
La chiesa dei Santi Michele e Gaetano in piazza Antinori è uno degli esempi più rappresentativi dell'architettura barocca a Firenze. L'edificio, che s'innalza su una scalinata realizzata nel
1701 da Carlo Marcellini, iniziato dai Teatini intorno al 1604, viene finanziato dalla granduchessa
Cristina di Lorena e dal cardinal Carlo dei Medici su progetto di Matteo Nigetti. Tra il 1628 ed
il 1630 la direzione dei lavori viene assunta da Gherardo Silvani e dal figlio Pier Francesco.
Nella facciata (la cui costruzione si prolungò dal 1648 al 1683) Gherardo e Pier Francesco
Silvani sono debitori di precedenti progetti per il Duomo, inserendo però un ricco apparato
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scultoreo alla romana.
Le paraste scanalate poggianti su un unico basamento, aumentando l'effetto del chiaroscuro
già sottolineato dalla pietra forte, dividono la parte bassa in tre parti, con la campata mediana
più ampia. Al centro il portale a edicola con colonne corinzie che sorregge lo stemma dei
teatini, è fiancheggiato dalle figure allegoriche della Povertà e della Speranza, opere dello
scultore tedesco Balthasar Permoser, che firma anche le grandi figure in marmo di Sant'Andrea e San Gaetano, posti nelle nicchie sopra gli ingressi. Sul fianco della chiesa insistono
ancora le lesene scanalate che congiungono visivamente, oltre l'alta trabeazione, le belle fiaccole in marmo disegnate da Giovan Battista Foggini.
L'ordine superiore della medesima ampiezza della navata centrale, è raccordato alla parte
inferiore per mezzo di volute. Al centro l'occhio, sopra cui campeggia lo stemma mediceo,
saluto ed omaggio alla dinastia regnante. Il grande timpano conclude la maestosa e
monumentale facciata, dialogante e comunicativa nella sua luminosa partizione.
L'interno a navata unica con alta volta a botte impostata su una trabeazione continua, si
presenta austero e solenne: nell'aula si aprono tre cappelle su ciascun lato, delimitate da
pilastri scanalati e capitelli corinzi, con festoni e ghirlande nella parete che corre sopra le
cappelle ed il cui modulo decorativo è ripreso dalle profonde e ampie cappelle del transetto.
Lungo la navata al centro dei pilastri campeggiano dodici grandi nicchie che racchiudono le
statue degli apostoli realizzate da famosi scultori dell'epoca tra cui Giovanni Battista Foggini,
Antonio Novelli e Giuseppe Piamontini. La severità dell'alzato in pietra serena, viene mitigato dalla policromia degli intarsi marmorei degli altari, dalle statue e dalla ricchezza degli
stucchi, dalle ampie finestre che inondano di luce la navata, oltre che dagli straordinari parati
in giallo e rosso.
La decorazione delle cappelle venne realizzata su commissione delle numerose famiglie che si
assunsero il patronato abbellendole con affreschi, stucchi, sculture e mirabili tele dipinte, tra
gli altri, da Iacopo Vignali, Ottavio Vannini, Giovanni Bilivert, Matteo Rosselli, Angelo
Michele Colonna e Agostino Mitelli. Il modulo decorativo con l'altare fiancheggiato da
colonne, col frontone triangolare e le pareti laterali aperte con porte sormontate da tele
incorniciate da pietra serena, si ripete in ciascuna cappella con variazioni fantasiose ma comunque caratterizzate sempre da un'elegante classicità.
Il coro si innesta armoniosamente con un articolato impianto decorativo composto da
cornici aggettanti “in bilico tra maniera e barocco” che trova rispondenza nella controfacciata.
Ai lati, due serliane incorniciano due cantorie, mentre al centro un'edicola sorretta da due esili
colonne e decorata da volute, festoni di frutta e racemi, ospita un bel crocifisso bronzeo di
Giovan Francesco Susini.
Di straordinaria fattura l'altare in marmi preziosi disegnato da Pier Francesco Silvani.
Villa I Collazzi, via Volterrana 1, località Giogoli
La villa dei Collazzi situata in posizione superba, sui colli intorno a Firenze, lungo la strada
che conduce a Volterra, racchiude nella sua struttura quelle caratteristiche ritenute fondamentali per una villa di campagna: la comodità, la stabilità e la bellezza.
L'autore di questa grandiosa costruzione è anonimo, anche se la tradizione annovera fra i
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nomi quello illustre di Michelangelo, non suffragato però da alcun documento.
Nella prima metà del Cinquecento Baccio e Agostino Dini comprarono la proprietà dagli
eredi della famiglia Buondelmonti e fecero costruire la loro villa. L'unico progetto superstite,
un disegno con la facciata della villa, è stato anche attribuito a Santi di Tito (1526 -1603),
l'artista che eseguì, tra l'altro, l'altare della piccola cappella che si affaccia sulla grande terrazza.
Da un viale di cipressi alberato, fiancheggiato da prati, si giunge alla villa, la cui facciata si apre
su un piano rialzato circondato da una balaustra in pietra. Una doppia scalinata, fatta erigere
nel Settecento, fiancheggiata alla sommità da due leoni recanti lo stemma dei Dini, conduce
alla terrazza. La corte, aperta sui tre lati da un loggiato a due ordini, con colonne tuscaniche
che sorreggono gli archi fasciati in pietra, è unicamente decorata da due pozzi. Tra i due piani
corre una cornice di brunelleschiana memoria, mentre le estremità dei due lati brevi sono
decorati da una doppia file di bozze, che ne esaltano la massiccia struttura. Da una porta si
accede alla piccola ma preziosa cappella dedicata a Sant'Agostino, commissionata da Maria
Dini Castelli al pittore Lorenzo del Moro, poi sostituito, nel 1735, da Vincenzo Meucci e
Rinaldo Botti.
Sull'altare la tavola di Santi di Tito reca l'immagine delle Nozze di Cana, ed è datata 1593.
Allievo del Bronzino, Santi di Tito si forma con la pittura manierista di Pontormo e Andrea
Del Sarto. Tende tuttavia dopo il suo viaggio a Roma del 1564, a semplificare la struttura
delle composizioni così come incitavano le regole tridentine. In quest'opera ravvisiamo
invece un'insistita complessità formale data dalla centralità del festino rispetto alla figura del
Cristo seduto, posto in diagonale dietro cui campeggia un'arcata, che ricorda quella della villa.
La villa, chiusa sui restanti tre lati, presenta sulla parte opposta della facciata una duplice
scalinata curvilinea, che ricorda quella della villa medicea di Poggio a Caiano: essa permette di
accedere ad un bel portale decorato in pietra forte a bugnato piano coronato da uno stemma;
al piano superiore si aprono due logge dotate di terrazza, composte da triplici archi divisi da
coppie di sottili colonne, da cui si gode un bellissimo panorama. Lungo i quattro lati dell'edificio sul piano rialzato si aprono una serie di eleganti finestre inginocchiate con timpano
triangolare, mentre le finestre del piano nobile presentano una forma più semplificata di
cornice in pietra forte.
Il giardino assai semplice, si compone di un terrazzamento a prato che circonda sui tre lati la
villa. Ai piedi del bastione di levante si sviluppa un altro giardino, costruito nel Settecento,
con aiuole fiorite di forma quadrata, attorno alle quali sono state poste piante d'agrumi.
Sono della prima metà dell'Ottocento i grandi ippocastani e lecci situati nei pressi della villa,
mentre il viale dei cipressi risale al 1853. La piscina sul lato destro del viale è stata costruita da
Pietro Porcinai nel 1938, col preciso intento di fare riflettere nel grande specchio d'acqua
l'intera facciata dell'edificio.
L'interno conserva oggi un arredo molto raro per omogeneità e integrità nel panorama delle
grandi case italiane. Si tratta infatti ancora in gran parte di quello originario, dovuto alla
committenza della famiglia Dini che conservò I Collazzi fino alla metà dell'Ottocento. I
Bombicci Pomi e i Chierichetti, che si sono succeduti poi nella proprietà della Villa, hanno
aggiunto dipinti, sculture e mobili che sono andati a integrarne il contenuto, rispettandone
l'armonia e arricchendo quell'aspetto collezionistico dell'insieme che oggi ne determina la
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valenza quasi museale.
Dal 1933 la Villa dei Collazzi appartiene alla famiglia Marchi, che restaurandola completò la
parte mancante dell'ala sinistra e integrò l'arredo con alcuni cassoni provenienti da Palazzo
Davanzati e dalla collezione Pisa e con dipinti e sculture fiorentine del XVI e XVII secolo.
Villa Poggio Torselli, via Scopeti 10, San Casciano in Val di Pesa - Firenze
Ricordata già nel primo catasto fiorentino del 1427 con l'attuale nome, la proprietà si trova
poco fuori dell'abitato di San Casciano, immersa nella vegetazione di vigneti e oliveti. E'
attraversata da un maestoso viale di cipressi che congiunge i cancelli al palazzo e gode di una
straordinaria vista sul tipico paesaggio collinare toscano.
L'edificio, costruito nel XV secolo dalla famiglia Machiavelli, è passato di mano in mano ai
maggiori rappresentanti della nobiltà fiorentina: dai Corsini, agli Antinori, ai Capponi, sino
alla famiglia Orlandini che si estinse nel 1722. In realtà la famiglia, il cui ramo era già scomparso nel 1664, aveva chiamato alla successione Giovanbattista di Girolamo Corsini che assunse
il cognome Orlandini. Nonostante il matrimonio nel 1679 con Olimpia del marchese Patrizio
Patrizi di Roma, la successione non fu assicurata e, nel 1722, i Del Beccuto riunirono a loro il
cognome Orlandini prendendone anche lo stemma.
Grazie al suo prestigio, nella villa vi soggiornarono illustri personaggi. Tra questi, ricordiamo
Paolo I (1754-1801) imperatore di Russia, e papa Pio VII (1742-1823) che vi sostò durante
il suo viaggio a Parigi per celebrare, nel 1804 nella cattedrale di Notre Dame, l'incoronazione
di Napoleone ad Imperatore dei francesi.
La villa con il giardino circostante, è stata sottoposta negli ultimi anni ad un attento e capillare
lavoro di restauro che ha riportato il grandioso complesso al suo antico splendore.
Nel 1702 Giovanbattista Orlandini già Corsini, affidò a Lorenzo Merlini l'incarico di studiare
un nuovo progetto architettonico che, inglobando le precedenti strutture delle quali restano
tracce nella cantina seminterrata, nella grande cucina ed in alcuni locali di servizio, portò alla
costruzione dell'attuale grandiosa villa. Giovanbattista Orlandini possedeva a Firenze anche
lo splendido palazzo in via de' Pecori, oggi del Monte dei Paschi di Siena, che proprio in
contemporanea agli interventi a Poggio Torselli, tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, fece ristrutturare dall'architetto Antonio Ferri e affrescare da Anton Domenico Gabbiani,
Alessandro Gherardini e Pier Dandini.
Il complesso della villa si sviluppa con un corpo centrale e due ali laterali a “L” che accolgono
appartamenti, uffici, cappella e limonaia e che, a sud, racchiudono lo splendido giardino
all'italiana. Lo stile dell'edificio, sobrio ed elegante tipico dell'architettura fiorentina, si caratterizza per la regolarità della sua volumetria: tre piani fuori terra e quattro prospetti a cinque assi
di finestre ciascuno, resi omogenei dall'uso di un impaginato che si ripete nei vari fronti: il
tema dominante è quello della tripartizione verticale del fronte. In quello principale, un
ordine gigante di paraste segna verticalmente le tre porzioni della facciata delle quali il settore
centrale, composto da tre assi e coronato da balaustra sulla quale si stagliano statue delle
Quattro Stagioni, sovranza rispetto al piano delle ali laterali. Le finestre nei prospetti presentano al piano terra l'incorniciatura a timpano triangolare e curvilineo, di sapore cinquecentesco, mentre nei piani superiori sono a terminazione rettilinea, con andamento mistilineo
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sotto il davanzale. L'ingresso principale è caratterizzato da un portale centinato fiancheggiato
da paraste su cui si imposta un terrazzino in pietra balaustrato.
Il tema delle stagioni è ripreso anche nelle allegorie affrescate all'interno della villa. In occasione del recente restauro, che ha riportato gli ambienti al loro assetto originario, sono stati
riscoperti anche affreschi e decorazioni d'infissi e porte, recuperati in tutta la loro bellezza di
tinte e stile. Il piano terra è composto da un vastissimo salone centrale sul quale si affacciano
i salotti di rappresentanza affrescati, alla fine del Seicento, con ariose scene allegoriche da Pier
Dandini, Matteo Bonechi e allievi. Interessante è un piccolo ambiente al piano terreno che in
origine fungeva da saletta da bagno avendo, fino a pochi anni fa, una vasca incassata al centro
del pavimento. E' una piccola sala completamente affrescata con quadrature e, sulla volta,
l'allegoria de “La Gloria dei Principi” di Matteo Bonechi. Sulle pareti minori, due porte sono
sovrastate da stemmi: da un lato lo stemma della famiglia Orlandini partito con quello della
famiglia Patrizi di Roma, allusione al matrimonio di Giovanbattista Corsini Orlandini con
Olimpia Patrizi, dall'altro, sopra l'ingresso attuale, lo stemma Corsini partito con quello
Capponi, allusione al matrimonio tra Girolamo Corsini, fratello di Giovanbattista, ed Elisabetta Capponi, celebrato nel 1698.
I piani superiori, ai quali si accede attraverso l'imponente scalone in pietra serena, accolgono
camere e salotti che si distinguono per varietà e raffinatezza.
Al fascino della villa contribuisce il recente arredamento che, curato dall'antiquario Gianfranco
Luzzetti amministratore unico della proprietà, è costituito da bellissimi mobili d'epoca e da
una straordinaria raccolta di quadri e di oggetti d'arte, tappeti e tappezzerie.
La dimora è circondata dallo splendido giardino settecentesco formato da una zona a parco,
sul lato nord, e da un giardino all'italiana, dislocato su due ripiani terrazzati, sul lato sud.
Parte dell'originale parterre si è conservato a ridosso del lato ovest e su quello di sostegno
della terrazza superiore, con aiuole oblunghe fornite di un ingegnoso impianto d'irrigazione
a canaletta che ha un importante valore storico, essendo uno dei meglio conservati della
Toscana. E' stato progettato con vaschette scolpite in pietra forte posate in modo da favorire
lo scorrimento dell'acqua dal punto più alto a quello più basso.
Trasformato a metà Ottocento per assecondare la moda del giardino all'inglese, il parterre ha
subito un primo restauro attorno al 1925, con il rinnovo delle siepi di bosso, e un secondo
più recente a cura dell'attuale proprietà, che durante i lavori ha riportato alla luce una delle
aiuole originali con le relative vaschette d'irrigazione. Il recente intervento conservativo dei
manufatti, eseguito sempre con passione da Gianfranco Luzzetti coadiuvato dalla preziosa
collaborazione della Dottoressa Ada Segre, paesaggista e storica del giardino, ha previsto
anche il ripristino della vegetazione tipica dei giardini di fine Seicento. Grazie alla rotazione
della vegetazione stagionale, alberi da frutto nani, rose antiche, erbe aromatiche, erbacee
perenni, annuali e bulbose, rinnovano l'interesse del giardino durante tutto l'anno e fanno
da cornice alla cappella barocca e alle architetture del palazzo. Di particolare pregio è inoltre la
secolare collezione di agrumi in vaso che, nella stagione fredda, sono conservati nella splendida limonaia.
Con il restauro del complesso di villa Poggio Torselli, l'antiquario Gianfranco Luzzetti ha
ottenuto notevoli riconoscimenti, sia nazionali, come il premio ricevuto nel 2003 dalla Fon-
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dazione Giulio Marchi per il migliore restauro in Italia, sia internazionali, come il “Silver
Best” ricevuto nella V edizione del concorso “Best of Wine Tourism 2008” per la categoria
“Architettura, Parchi e Giardini”.
Villa Le Corti, via San Piero di Sotto 1, San Casciano in Val di Pesa - Firenze
Immersa nel verde di un grande parco con il viale costeggiato da cipressi secolari, è considerata una tra le più importanti dimore nobiliari del nostro territorio sulle dolci colline del
Chianti.
Come risulta fin dal primo catasto fiorentino del 1427, la villa, che si erge imponente nel suo
isolamento accentuato dall'assenza di alberi e dalla posizione elevata rispetto al paesaggio
circostante, appartiene ancora al celebre casato dei Corsini. Giunti in città da Poggibonsi alla
fine del 1100, i Corsini sono tra le più antiche famiglie italiane che nel corso dei secoli si
distinse nelle attività commerciali, bancarie e politiche. Grandi mecenati nei confronti delle
arti, tra i celebri antenati vi è Andrea Corsini che, vescovo di Fiesole nel 1373, salì dopo tre
secoli all'onore degli altari ricevendo la santificazione nel 1629 da papa Urbano VIII. Un altro
membro della famiglia, Lorenzo Corsini (1652-1740), nel 1730 salì al soglio pontificio col
nome di Clemente XII e concesse il titolo, ancor'oggi tramandato in famiglia, di principe di
Sismano al suo nipote preferito Bartolomeo Corsini (1683-1752).
In origine la villa era costituita da un semplice corpo di fabbrica rivolto a nord - ovest,
probabilmente si trattava di una torre facente parte di una linea di fortificazione costruita
sulla Valle della Pesa a difesa di Firenze. La bella forma rettangolare con le due possenti torri
laterali sul fronte settentrionale, aperte entrambe alla sommità da un'elegante finestra bifora,
è dovuta ad una radicale trasformazione del vecchio impianto commissionata da Bartolomeo
Corsini, nei primissimi anni del Seicento, al pittore architetto Santi di Tito (1536-1603) che
donò al complesso l'attuale maestosa forma tardo rinascimentale.
Dopo l'intervento di Santi di Tito, una seconda consistente campagna di lavori fu promossa
da Filippo Corsini (1647-1705) a partire dal 1680: venne realizzata una complessa riqualificazione
decorativa degli interni, con la partecipazione di maestranze presenti in altre fabbriche
corsiniane: sono documentati lo stuccatore Giovannozzo Giovannozzi, il pittore Alessandro Gherardini e l'architetto Antonio Ferri, in qualità di consulente generale. E' collocabile in
questa fase di lavori anche l'ampliamento del 'prato' intorno alla villa, con la creazione di vaste
cantine sotto la porzione meridionale di esso. Filippo Corsini fece realizzare nel 1697 anche
un monumentale viale di accesso, in asse con l'ingresso settentrionale dove sono le torri, su
progetto di Giovan Battista Foggini, impegnato in quel periodo nel cantiere corsiniano di
Castello.
Alla fine dell'Ottocento il Principe Tommaso Corsini (1835-1919), figura politica di grande
rilievo, deputato del Regno d'Italia dal 1865 al 1882, senatore a vita, nonché fondatore della
Fondiaria Assicurazioni, presidente della Cassa di Risparmio di Firenze e grande appassionato di archeologia, commissionò alcuni interventi di restauro alla villa ed incaricò il pittore
Gaetano Bianchi (1819-1892) di decorare alcuni ambienti interni con numerosi stemmi
aristocratici. I restauri realizzati da Tommaso Corsini, di cui si ha notizia in un suo “memoriale”, ma anche nelle epigrafi dei portali d'ingresso, rendono problematico stabilire quanti e
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quali siano stati gli aggiornamenti tardo-seicenteschi e ottocenteschi apportati ai prospetti, e
quanto invece risalga al progetto di Santi di Tito dei primi anni del Seicento.
La splendida villa, che nei secoli fu per la famiglia Corsini luogo di breve villeggiatura e mai
residenza per lunghi periodi dell'anno, è organizzata intorno al bel cortile quadrato, su cui
prospetta un portico a tre arcate su colonne al piano terra, colonne trabeate al primo piano
(oggi tamponate) e al mezzanino piccole finestre quadrate a orecchioni, impaginato che si
ripete in ciascuno dei quattro lati.
Il cortile è il cuore pulsante della villa poiché dà accesso alle sale a pian terreno e ai piani
superiori. Quest'ultime includono la cappella di famiglia coperta con volta a botte preziosamente affrescata da Bernardino Poccetti (1548-1612): ultimo lavoro dell'artista che, morto nel
1612, lasciò terminare l'opera ad un suo collaboratore, Francesco di Alessandro Leoncini.
Esternamente la villa presenta una facciata speculare sui tutti e quattro i lati, caratterizzata da
finestre rinascimentali con inferriate al primo piano, al di sopra delle quali corre un marcapiano
in pietra serena. Il piano superiore e le torri presentano aperture più leggere. Il fronte sud è
a cinque assi di aperture, con il portale centrale bugnato, fiancheggiato da paraste doriche e
stemma Corsini in chiave “bandato d'argento e di rosso, alla fascia d'azzurro attraversante sul
tutto”; questo è sormontato da una porta-finestra centinata che è a sua volta caratterizzata da
una cornice a bugne, inquadrata da paraste lisce; ai lati del portale esattamente tangenti, si
aprono due piccole finestre rettangolari. Il fronte nord invece è a sette assi con un grande
portale, in linea con il fogginiano viale d'ingresso, che riecheggia nell'uso del bugnato e nella
sovrapposizione della porta-finestra quello meridionale, ma qui l'elemento superiore è molto più semplice, con la porta-finestra conclusa da un timpano spezzato curvilineo e cornici
laterali che imitano quelle delle finestre del primo piano. Uguali in tutti e quattro i fronti,
queste sono impostate su di una cornice marcapiano e si caratterizzano per l'estrema semplicità di tali listelli che in corrispondenza dell'architrave assumono l'aspetto di un ricciolo
bidimensionale. Ancora più lineari ed austere sono le aperture del piano terra, definite da
cornici in pietra, con davanzale e trabeazione sostenuti dalle consuete mensoline, decorate sul
frontale con una patera. La creazione del viale nel 1697, deve aver modificato la gerarchia degli
ingressi, facendo assumere al prospetto nord un'importanza maggiore. Allo stato attuale
delle conoscenze, comunque, la definizione degli elementi decorativi (le finestre e i portali) si
possono ascrivere al progetto di Santi di Tito in quanto si inseriscono a piano titolo nel suo
vocabolario (si confrontino i portali bugnati con quello di palazzo Zanchini in via Maggio a
Firenze e della villa dei Collazzi a Scandicci). Alle Corti, tuttavia, il linguaggio dei portali
assume una complessità che non si riscontra nelle altre opere di Santi, evidentemente sempre
più influenzato dall'ultimo Buontalenti e dalle esperienze architettoniche del Cigoli. Singolare è il collegamento tra le porte d'ingresso e le finestre sovrastanti: il davanzale di ogni
finestra è allo stesso tempo il coronamento del portone e gli stessi stipiti lisci della finestra
sono l'ideale continuazione di quelli bugnati dell'apertura sottostante.
Da una scalinata gemella sul retro della villa, si accede ad un armonioso giardino all'italiana
disegnato da geometriche siepi di bosso e restaurato secondo le linee essenziali tracciate nel
periodo rinascimentale.
Duccio Corsini e la moglie Clotilde Trentinaglia de Daverio, da pochi anni hanno intrapreso
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una lunga opera di ricostruzione che ha riportato la villa al suo antico splendore e ha rilanciato
con successo le attività agricole: il terrapieno del giardino nasconde infatti le ampie cantine
organizzate su tre livelli e l'orciaia dove si producono e conservano i pregiati prodotti della
fattoria (vino del Chianti Classico e olio extra vergine di oliva) mentre annualmente viene
allestita nel grande parco, una manifestazione a raggio europeo dedicata al vivaismo e al
giardino.
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Programma
Segreteria Sezione Toscana ADSI 055 21 24 52
Radio Taxi 055 42 42; 055 43 90; 055 47 98
Tutti gli eventi dei giorni 24, 25 e 26 Aprile sono programmati nel centro storico a ragionevoli
distanze dalle Residenze d'Epoca e dagli Alberghi convenzionati. Pertanto tutti gli spostamenti
sono a cura dei partecipanti. Per la gita verso il Chianti di lunedì 27 Aprile è previsto un
servizio di pullman. Appuntamento alle 9,30 in piazza Santa Trinita.
Venerdì 24 Aprile
Arrivo nel pomeriggio e sistemazione nelle Residenze d'Epoca e negli Alberghi.
20,00
Pranzo a Palazzo Ximenes Panciatichi (borgo Pinti 68) della
Principessa Isabella Fabrizia Ruffo di Calabria Becherucci.
Sabato 25 Aprile
9,30 - 17,00
Assemblea Nazionale in Palazzo Corsini (lungarno Corsini 10) della
Principessa Lucrezia Corsini Miari Fulcis e degli Eredi della
Principessa Anna Lucrezia Corsini Sanminiatelli.
10,00
Per gli accompagnatori dei Soci, partenza da Palazzo Corsini
(lungarno Corsini 10) in bus - navetta per la visita al Giardino Corsini del
Principe Filippo Corsini ed al Giardino Torrigiani del Principe Torrigiani di
Santa Cristina e dei Marchesi Torrigiani Malaspina - al termine rientro a
Palazzo Corsini.
13,00 - 14,00 Colazione a Palazzo Corsini per tutti.
14,00
Riprendono i lavori assembleari.
20,00
Pranzo a Palazzo Gerini (via Ricasoli 42) della Marchesa Sveva Gaetani
dell'Aquila d'Aragona Cavalletti.
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Domenica 26 Aprile
9,30
Santa Messa nella Chiesa dei Santi Michele e Gaetano (piazza Antinori).
Celebrante don Simone Nencioni.
Maestro organista, il Consocio Paolo Palmerini.
10,00 - 18,00 I partecipanti saranno divisi in gruppi di 30 e, accompagnati da una guida,
saranno ricevuti nei seguenti Palazzi del centro storico:
- Palazzo Capponi del Conte Neri Capponi;
- Palazzo Gianfigliazzi della Baronessa Maria Maestrelli
Locatelli De Hagenauer;
- Palazzo Ginori del Marchese Lionardo Lorenzo Ginori Lisci;
- Palazzo Guicciardini del Conte Piero Paolo Guicciardini;
- Palazzo Malenchini del Marchese Luigi Malenchini;
- Palazzo Feroni del Marchese Giuseppe Paternò
Castello di San Giuliano;
- Palazzo Pucci del Marchese Puccio Pucci di Barsento.
13,00 - 14,30 Colazione a Palazzo Antinori (piazza Antinori 3) del Marchese
Piero Antinori (al termine proseguono le visite)
20,00
Aperitivo a Palazzo Davanzati (via di Porta Rossa 13) sede del Museo della
Casa Fiorentina della Soprintendenza per il Polo Museale Fiorentino a seguire pranzo nel vicino Palagio di Parte Guelfa del Comune di Firenze
(piazzetta di Parte Guelfa 1r).
Lunedì 27 Aprile
9,30 - 16,30
Appuntamento alle 9,30 in piazza Santa Trinita e partenza in pullman per la
gita verso il Chianti. Visita a:
- Villa I Collazzi dei Signori Mariella, Carlo, Grazia e Bona Marchi;
- Villa di Poggio Torselli del Signor Gianfranco Luzzetti;
- Villa Le Corti dei Principi Corsini ricevuti da Don Duccio e Donna Clotilde
Corsini, (dove sarà servita la colazione).
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Chiesa:
Chiesa dei Santi Michele e Gaetano, piazza Antinori
Giardini:
13) Giardino Corsini sul Prato, via il Prato 58
14) Giardino Torrigiani, via dei Serragli 144
Dimore storiche:
1) Palazzo Ximenes Panciatichi, borgo Pinti 68
2) Palazzo Gerini, via Ricasoli 42
3) Palazzo Pucci, via dei Pucci 4
4) Palazzo Ginori, via de' Ginori 11
5) Palazzo Antinori, piazza Antinori 3
6) Palazzo Gianfigliazzi, lungarno Corsini 4
7) Palazzo Davanzati, via Porta Rossa 13
8) Palagio di Parte Guelfa, piazzetta di Parte Guelfa 1r
9) Palazzo Malenchini, via de' Benci 1
10) Palazzo Capponi, via de’ Bardi 36
11) Palazzo Guicciardini, via Guicciardini 15
12) Palazzo Feroni Magnani, via dei Serragli 8
Palazzo Corsini, lungarno Corsini 10
Partenza dei pullman per la gita verso il Chianti
Alberghi:
24) Hotel Albergotto, via de' Tornabuoni 13
25) Hotel De La Ville, piazza Antinori 1
26) Hotel Helvetia & Bristol, via dei Pescioni 2
27) Hotel Cavour, via del Proconsolo 3
28) Hotel Proconsolo, via del Proconsolo 18
29) Hotel Loggiato dei Serviti, piazza Santissima Annunziata 3
Residenze d'Epoca:
15) Residenza Santo Spirito, piazza Santo Spirito 9
16) Palazzo Magnani Feroni, borgo San Frediano 5
17) Palazzetto Sannini, via Santo Spirito 6
18) Antica Torre di Via Tornabuoni n.1, via de' Tornabuoni 1
19) Hotel Alessandra, borgo Santi Apostoli 17
20) La Casa del Garbo, piazza della Signoria 8
21) Palazzo Niccolini al Duomo, via dei Servi 2
22) Casa Howard Guest House, via della Scala 18
23) Residenza del Moro, via del Moro 15
Elenco dei Soci partecipanti all'Assemblea Nazionale 2009 e dei
relativi accompagnatori (iscrizioni pervenute al 25 marzo 2009):
U.E.H.H.A.
Ghislain D’Ursel
SEZIONE ABRUZZO
Manuelita de Filippis Moschetta
Gaetano Imperato di Spinete
Massimo Lucà Dazio
Maria Concetta Palmieri
Celestino Totani
SEZIONE CALABRIA
Gianluca Marino Cosentino Marco Solima
Francesco Zerbi
SEZIONE CAMPANIA
Bianca Jadicicco
De Notaristefani di Vastogirardi
Francesco Marigliano
Caracciolo di Torella
Maria Penta Toma
Michelangelo Pisani Massamormile
Maria Teresa Rocco di Torrepadula
Enrica Sanfelice di Monteforte
Nicola Tartaglione
Antonio Mottola di Amato
SEZIONE EMILIA ROMAGNA
Maria Adelaide Annoni Campori
Antonio Archi
Iole Beghelli Pedretti
Maria Paola Bellei
Gioia Bertocchi Brizzi
Ippolito Bevilacqua Ariosti
Gianni Luigi Bragadin
Francesco Cavazza Isolani
Nicola Colelli
Stephanie D’Ursel
Francesco Saverio Moschetta
Anna Maria Ruel Imperato Di Spinete
Rossana Falconi
Novella Fattore
Annamaria Iannucci
Sandra Betti Zerbi
Antonio e Luisa De Notaristefani di Vastogirardi
Rosellina Postiglione
Stefania Como
Maurizio Stocchetti
Maria Rosaria Liguori
Laura Malvezzi
Paola Dall’Aglio Giorgetti
Giuliano Manfredi
Cesare Brizzi
Maria Sole Vismara Currò
Maddalena Bragadin
Marina Cavazza Isolani
Luisa Gallo e Gian Luigi Giuliattini
60
Alessandra Colombi Leonesi Ricciardelli
Paolo Conforti
Dal Pane Elvira
Gianfranco Fontaine Panciatichi
Giovanni Gagnoni Schippisi Casati
Vincenzo Garagnani
Graziella Giartosio Bertocchi
Claudia Hercolani
Maria Rosaria Malenchini
Carolina Manaresi
Franco Manaresi
Carlo Emanuele Manfredi
Galeazzo Marescotti
Ubaldo Monari Sardè
Giulia Orlando Gavotti
Dialta Paresce
Anna Pasquale
Luca Paveri Fontana
Antonia Pignatti Morano
Jean Jacques Prati Lucca
Giancarlo Ranuzzi De’ Bianchi
Maria Teresa Santucci Fontanelli
Paolo Senni Guidotti Magnani
Piero Sinz
Giuseppe Colombi
Michele Conforti
Renato Petrarchi
Maria Teresa Marchesi
Michela Garagnani
Francesco Giartosio
Eugenio Busmanti
Maria Malfatti Manaresi
Clara Manfredi
Benedetta Marescotti e Clarice Marescotti
Paola Conti Donzelli Monari
Pier Luigi Bianchini Mortani
Francesco Paresce
Giulia Paveri Fontana Balbo di Vinadio
Anna Archi
Pia Piovesana
SEZIONE FRIULI VENEZIA GIULIA
Carla Andreoli Giordano
Flaminia Stringer Rubini
Carlo del Torre
Sabrina di Brazzà
Anna Piccolomini Clementini Adami
Giovanni Rubini
SEZIONE LAZIO
Piero Adorno Adorni Braccesi
Maria Clementina Arena Loffreda
Giuliano Malvezzi Campeggi
Anna Maria Cavazza Marieni
Novello Cavazza
Filippo Cingolani
Michele de Meo
Cristina Fazio
Fernanda Galli Brunelli
Donatella Cagiano de Azevedo Malvezzi
Maria Assunta De Altamer
Margherita Montefusco
61
Sergio Gelmi Di Caporiacco
Luciana Giuntoli Gentilini
Francesco Giusso del Galdo
Paola Guerrini
Luciana Lanzara Pellicano
Alessandro Mancini Caterini
Marco Fabio Marenghi Vaselli
Mauro Mossa
Niccolo’ Pasolini Dall’Onda
Adelaide Pezzana Capranica Del Grillo
Aldo Pezzana Capranica Del Grillo
Pier Paolo Piccinelli
Enzo Maria Pinci
Maria Prina Ricotti
Lucilla Scelba
Anna Maria Vandoni Corsanego
SEZIONE LIGURIA
Ferdinando Acqua Barralis
Andrea Andreani
Giuseppe Biancheri
Giancarlo Bollero
Giovanni Gramatica di Bellagio
Italo Muratore
Gian Rodolfo Quilici
Emanuele Remondini
Stefania Sardano
Teresa Scotti d’Albertis
Viviana Viviani
SEZIONE LOMBARDIA
Luigi Abbate
Anna Maria Almici Merli
Pier Fausto Bagatti Valsecchi
Maria Antonietta Bruni Paveri Fontana
Enrico Cramer
Alessandra D’Amico Finardi Mirandola
Annalisa de’ Sanna Crippa
Giacomo De Vito Piscicelli
Alda Faravelli Marchetti
Maria Stefania Tempora Leppo
Angela Mancini Caterini
Maria Luisa Orlando Castellano
Grazia Piccinelli
Aldo Prina Ricotti
Stefania Queirolo
Anna De Cornè Biancheri
Carola Bozzano Gandolfi, Giacomo Bollero e
Maria Elvira Brichetto
Angioletta Beccaria Gramatica
Liliana Aprosio in Muratore
Simonetta Pastorino
Maria Teresa Salemi in Remondini
Alberto Scotti
Agostino Almici
Enrichetta Mapelli Mozzi Bagatti Valsecchi
Roberta Clerici Cramer
Giorgio Mirandola
Eduardo de’ Sanna
Enrica De Vito Piscicelli
Concettina Ascanio
62
Ugo Fumagalli Romario
Cristina Litta Modignani
Matilde Marazzi
Maria Pia Marconi Meda
Camillo Paveri Fontana
Stefano Paveri Fontana
Uberto Perego di Cremnago
Donato Sagramoso
Piero Sella
Maria Cristina Silva Passerin d’Entreves
Maria Giuseppina Sordi
Guido Toja
Franca Tremolada Torricelli
Valerio Villoresi
Micaela Gasparri
Camilla Ginori Conti
Angela Giannone in Paveri Fontana
Laura Canal Perego di Cremnago
Marina Canal
Wanda Vaj
Giovanni Silva
Floriana Sordi
Pierangela Toja Moroni
Sita Boggio Sella
SEZIONE MARCHE
Anita Boccuccia
Filippo Bracci
Luigi Solari
Giuseppe Trionfi Honorati
Patricia Solari Ricci del Riccio
Paola Gasparri
SEZIONE MOLISE
Ester Tanasso
Silvana Sciaretta
SEZIONE PIEMONTE - VALLE D’AOSTA
Francesco Avogadro di Vigliano
Roberta Avogadro Brioschi
Filippo Beraudo di Pralormo
Giorgio Brinatti
Malvina Brinatti Von Stepski
Francesco Cappa
Emilia Cappa
Rosetta Clara Cavalli D’Olivola
Clemente D’Oria
Ilaria Santucci Fontanelli
Roberto Gabey
Biancamaria Blasi
Maria Golzio
Elisa Ines De Paulis
Carlo Marenco di Santarosa
Carlo Morozzo della Rocca
Carla Morozzo della Rocca Zunini
Paolo Roda
Maria Pia Salvaneschi Gorla
Maria Antonietta Zagnoli
Giuseppe Tarò
Franz Zu Stolberg
Jacqueline Zu Stolberg
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SEZIONE PUGLIA
Francesca Bardoscia
Raffaela Bardoscia
Giusi Bonomo Rucco
Arturo Carrelli Palombi
Angela Mongiò
Giulio Seracca Arditi
Giuseppe Seracca Guerrieri
Biagio Tatò
Mario Congedo
SEZIONE SICILIA
Pier Marino Albanese Trigona
Franzo Bruno Statella
Anna Maria Cosenz La Lumia
Antonino Pecoraro
SEZIONE TOSCANA
Rosanna Angelini
Guido Anzilotti
Maria Cristina Archi
Maria Petra Bargagli Petrucci
Mary Ann Beckinsale
Lucia Bovalini
Donato Bramanti
Ugo Bruni
Orietta Carpi Bono
Cristiana Casanova Sestini
Giovanna Ciampi
Gil Cohen
Massimo Conti Donzelli
Massimo M. da Cepparello
Maria Pia D’Albertis Mazzetti
Resy Fani Ciotti Cosentini
Paolo Folonari
Marcella Fontana
Lorenzo Franchini
Lionardo Lorenzo Ginori Lisci
Bernardo Gondi
Vittoria Gondi
Niccolò Goretti de’ Flamini
Teresa Olivieri
Martino Bonomo
Fabrizia Siciliani
Maria Lucia Portaluri
Lilia Fortunato
Lucia Lazari
Salvina e Venera Bruno Statella
Antonello Cosenz
Liliana Mirabella e Laura Pecoraro
Giuseppe Salvi
Carla Natali Bruni
Paul Gervais De Bédeé
Mario Boselli
Alessandra Ginori Lisci
64
Giovanna Grado Dini
Andreana Hedges
Eugenia Levaggi
Maria Luisa Maestrelli De Hagenauer
Niccolò Malaspina
Luigi Malenchini
Gian Luca Mandorli
Roberto Martinelli
Elisabetta Marzotto Caotorta
Giuseppe Maurigi
Leopoldo Mazzetti
Alessandro Menichini
Pietro Ermanno Meschi
Andrea Montini
Giovanna Morozzo della Rocca Spinola
Lorenzo Niccolini Sirigatti
Gabriele Pagni
Niccolò Pandolfini
Antonello Pietromarchi
Emanuela Ricasoli Lovatelli
Lisa Rosselli Del Turco Frescobaldi
Niccolò Rosselli Del Turco
Anna Saccardi
Pasquale Scrufari
Donatella Tesi
Pauline Traxler Rathobone
Lucia Romani
Beatrice Papi
Aloisia Marzotto Caotorta
Marina Fittipaldi
Alessandra Niccolini Sirigatti
Monica Attanasio Pagni
Isabella Grati
Giuseppina Pietromarchi
Francesco Zan
Cesare Degli Innocenti
Martino Traxler e Patrizia Traxler
SEZIONE TRENTINO ALTO ADIGE
Maria Angelica Grillo
Lamberta Marzani Amonn
Antonia Marzani
SEZIONE UMBRIA
Alessandro Chiari
Franca Pucci Della Genga Persichetti Ugolini
Lorenzo Pucci Della Genga
Nicoletta Raponi
Lavinia Oddi Baglioni
Giuseppe Santoro
Cesare Selli
65
SEZIONE VENETO
Marco Battaggia
Pierantonio Battaggia
Paola Ramanzini e Rita Bozzola
Cesare Bonotto
Ivonne Fin
Elena Bonotto
Antonio Caccianiga
Emanuela Bardin
Gherardo Degli Azzoni Avogadro
Francesca Conean e Maria Sionti
Manola Duse Masin
Laura Braggion
Ugo Fatini Del Grande
Tiziana Fraccaroli Fatini Del Grande
Giovanni-Battista Lanfranchi
Biancaluisa Lanfranchi
Fernanda Merlin De Romedi
Cristina Luxardo Nogarin
Nicolò Noto,
Francesca Maria Sarzana
Isabella Rocco di Torrepadula di Thiene
Giancarlo Rocco di Torrepadula
Rosa Alessandra Sagramoso Sacchetti Corazza
Pia Maria Tolomei Frigerio
Paolo Bruno
Paolo Trentinaglia De Daverio
Federica Wiel Marin
Barbara Wiel Marin
Isidoro Wiel Marin
Neisa ten Bruggencate Wiel Marin
Giorgio Zuccolo Arrigoni
Giulia Maria Zuccolo Arrigoni
SEGRETERIA NAZIONALE
Manuela Bigonzi
Francesca Bigonzi
Mariastella Bellini
Lucia Calabrese
Marcello Morelli
SEGRETERIA SEZIONE TOSCANA
Irene Borin Da Campo
Michele Ricceri
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Indice:
Consiglio Direttivo Nazionale di A.D.S.I.
Comitato Direttivo della Sezione Toscana
Ringraziamenti
Aldo Pezzana Capranica del Grillo
Presidente dell’Associazione Dimore Storiche Italiane
Niccolò Rosselli Del Turco
Presidente della Sezione Toscana dell’Associazione Dimore Storiche Italiane
Dimore storiche a Firenze e nel Chianti:
Palazzo Corsini
Palazzo Ximenes Panciatichi
Palazzo Gerini
Palazzo Pucci
Palazzo Ginori
Palazzo Antinori
Palazzo Gianfigliazzi
Palazzo Davanzati
Palagio dei Capitani di Parte Guelfa
Palazzo Malenchini
Palazzo Capponi
Palazzo Guicciardini
Palazzo Feroni Magnani
Giardino Corsini sul Prato
Giardino Torrigiani
Chiesa dei Santi Michele e Gaetano
Villa I Collazzi
Villa Poggio Torselli
Villa Le Corti
Programma XXXII Assemblea Nazionale di A.D.S.I.
Planimetria del centro storico di Firenze
Soci partecipanti alla XXXII Assemblea Nazionale di A.D.S.I.
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Progetto grafico:
Designblu Communication
Redazione e cura dei testi:
Marcella Cangioli, Benedetta Chiesi,
Ippolita Douglas Scotti, Arianna Nizzi Grifi e Francesca Parrini
Associazione Culturale Città Nascosta
Lungarno Cellini 25 - 50125 Firenze
www.cittanascosta.it
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CR FIRENZE
BANCA
PASSADORE
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Brochure per i partecipanti