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PRIMO GIORNO
Charlotte G., una vocazione stroncata sul nascere
Le sei. Mi sveglio preoccupata come tutti i venerdì pari da
otto mesi, cioè da quando i ragazzi trascorrono il weekend
con il padre. E anche come tutti i martedì, «la sua sera della
settimana». Anzi, a pensarci bene, come tutte le mattine da
quando io e José ci siamo separati. Il mio ex marito non è
mai stato così presente nella mia vita da quando non viviamo
più insieme.
Non so se essere felice o no del sole che filtra tra le tende;
in passato dev’essermi capitato qualcosa di bello, ma quando?
Per quanto mi sforzi, non mi viene in mente niente. Non
ricordo i miei sogni di stanotte, so soltanto che mi hanno
lasciato uno sgradevole presentimento che potrebbe restarmi
incollato addosso per tutto il giorno. Meglio non indugiare
a letto, non me ne verrebbe niente di buono.
Approfitto dell’ora di calma prima che si alzino i bambini
e controllo la posta elettronica, con quella speranza insensata,
ostinatamente radicata dentro di me, che un giorno troverò
il messaggio che cambierà tutto, le parole d’amore dall’ortografia perfetta di un meraviglioso sconosciuto (altrimenti
non saprei chi), oppure la notizia che ho vinto un milione di
dollari (sempre che non si tratti di spam). Sono così stupida
da preferire la prima opzione, anche se al momento la seconda
risolverebbe un certo numero di problemi che con la prima
aumenterebbero solamente. Ma questa mattina, come tante
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altre volte, ad aspettarmi c’è un messaggio di José. Ecco che
cos’era quel presentimento. «Mi era sembrato di capire che
avresti accompagnato tu i ragazzi in stazione per le vacanze di
Pasqua, come sempre.» In effetti. José non ha mai viaggiato
con i suoi figli in treno, in autobus o in metropolitana, cioè
su un qualsiasi mezzo di trasporto, esperienza che si colloca
tra l’ottavo e il nono girone dell’Inferno dantesco. José ha
altre qualità, tra cui quella di essere molto attraente. E un
appassionato di bricolage. Oltre che terribilmente intelligente, quindi perverso. La prova: «Quando dici che hai
accettato di partecipare a questo incontro letterario perché eri
convinta che i ragazzi sarebbero stati con me, non ti capisco
proprio. Visto che era l’unico fine settimana delle vacanze
in cui potevi vederli. Detto ciò, non intendo ficcare il naso
nelle tue priorità». Sento montare la rabbia. José ha deciso
di giocare al padre responsabile, espressione che dovrebbe
suonare pleonastica, ma che riferita a lui ha quasi dell’incredibile. Nel tempo sono diventata l’esegeta della lingua
estremamente specifica del mio ex marito, e ho capito che
ha deciso di cogliermi in fallo. Gli rispondo prontamente:
«Infatti, non ficcare il naso nelle mie priorità. Mi sembra di
essermi presa cura dei ragazzi giorno e notte per nove anni
perché tu avevi bisogno di silenzio per scrivere (che cosa, non
lo saprò mai), situazione che pareva giustificare i tuoi va e
vieni dal Portogallo, ma noto che la reciprocità non funziona.
In fin dei conti, è sempre stato il principio base della nostra
ex vita di coppia e, a quanto vedo, anche della nostra vita
futura di genitori separati». Messaggio inviato. Se José non
risponde entro dieci minuti è un brutto segno. Una doccia
e due sigarette più tardi, ancora niente. Sento che questa
discussione non è finita… e non lo sarà mai.
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I ragazzi dormono ancora, ma mi piacerebbe che si svegliassero per non lasciarmi qui da sola a rimuginare. Penso a cosa
fare per difendermi dall’ansia, ma purtroppo ho riordinato
tutto ieri sera. Non mi rimane che preparare la colazione
con particolare zelo: metto a bollire l’acqua e con le ultime
due arance mi faccio una spremuta, per berla prima che si
alzino i miei figli; e poi, loro preferiscono il succo nel cartone.
Prendendo la teiera dall’armadietto sopra il lavello faccio cadere una tazza che non avrebbe dovuto trovarsi lì: il regalo di
Adrien per la Festa della Mamma. Raccolgo i cocci in punta
di piedi, ma lui si è svegliato: deve aver riconosciuto l’urlo
disperato del suo capolavoro andato in frantumi… Vengo
colta sul fatto. Ora è qui davanti a me e io sollevo lo sguardo,
imbarazzata. Vedo il suo faccino affranto e cerco una bugia
che non mi viene. Così decido di confessare: «Mi dispiace,
tesoro, ti chiedo scusa. Era stata riposta male e quando ho
aperto l’anta è caduta». Gli scende una lacrima. «Proverò a
incollarla», propongo in evidente malafede, poiché la tazza
è ormai tornata al suo stato originario: argilla friabile, sbriciolata, polvere di sabbia.
Lui si rannicchia contro di me in silenzio, il viso gonfio di
sonno, poi dice: «Papà non l’avrebbe mai rotta». Gli scompiglio i capelli, dispiaciuta e un po’ irritata al riconoscere nella
voce di mio figlio quella di suo padre: sono esattamente le
stesse parole che avrebbe detto José. Spingo Adrien verso il
salotto per sgombrare il luogo del dramma e gli prometto un
regalo, il solito modo per farmi perdonare. Ma lui non si lascia
intenerire. O almeno, è quello che penso prima che butti lì,
vendicativo: «Voglio un pacchetto di carte dei Pokémon». Mi
pento di aver ceduto alla facilità del ricatto ancora prima che
l’idea venisse a lui. Presa in trappola, acconsento.
Lo sistemo al tavolino e gli metto davanti una cioccolata
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calda. Suo fratello ci raggiunge, ma non ci lasciamo sfuggire
una parola sull’incidente, che lo avrebbe senz’altro fatto felice
(quest’anno si è dimenticato della Festa della Mamma…
e anche se è più piccolo, si è comunque sentito mortificato). Accendo la radio e tutti e tre, nel tepore della stanza
riscaldata come una serra dai raggi di sole che colpiscono
le mattonelle, cominciamo a masticare le fette di pane imburrate. A colazione finita, riporto le tazze in cucina, metto
via il burro, passo la spugnetta, e premendo il pulsante di
accensione della lavastoviglie scrivo la parola fine al rituale
del mattino. La lavastoviglie si mette a tossicchiare e si blocca
prima ancora di iniziare il ciclo. Riprovo, schiacciando tutti
i tasti uno dopo l’altro. Invano.
Stupore. Sconforto. Il mese scorso l’ho già fatta riparare
due volte. Il tecnico aveva predetto una fine rapida e indolore. E che cosa si fa quando ci viene assicurata la morte di
qualcuno? Ovviamente non ci si dà peso. Non si crede alla
catastrofe annunciata, si incrociano le dita dietro la schiena
per tenerla lontana, fino a dimenticarsi di porgere l’ultimo
saluto. Non si rinuncia nemmeno ai rituali magici, pur
consapevoli della loro inefficacia. E oggi eccomi qui, davanti
alla disfatta della negazione… e dell’elettrodomestico. Dovrò
sostituirlo, e non ho più un soldo. La mia prossima busta paga
dell’università è già stata fagocitata dalle bollette e dalle spese
future… non può piantarmi in asso adesso, senza attendere
l’e-mail salvifica lì pronta ad aspettarmi al risveglio. Avrei
dovuto augurarmi la vincita di un milione di dollari, non
qualche misera parola d’amore, pur senza errori ortografici.
Forse mi avrebbe portato fortuna.
Come ultima risorsa le sferro un calcio, tenendo a mente
i precetti di José: mantenere sempre il controllo e, in caso
di fallimento, vendicarsi. A giudicare dal male che sento,
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devo essermi rotta il mignolo. La lavastoviglie, al contrario,
non ha battuto ciglio. E ora eccomi zoppicante tra i resti
della tazza di Adrien a inveire contro la Bosch, che porta
un nome davvero di cattivo auspicio per la storia del Ventesimo secolo.
Sulla soglia della cucina, Adrien e Gabriel mi osservano,
sconsolati: sanno quanto sono allergica ai piatti da lavare.
«Mamma, e adesso come farai?» «Andate a prepararvi!» ordino, in tono troppo duro, umiliata da questa scena disastrosa.
I miei figli sono un po’ sorpresi, ma preferiscono obbedire
e filano via. In effetti, come farò? La soluzione più saggia
sarebbe pretendere da José il versamento degli ultimi sei
mesi di alimenti che si rifiuta di darmi. Ma corro il rischio
di sentirmi ripetere ancora una volta che l’ho «sbattuto fuori,
buttato per strada, messo sul marciapiede», e che dovrei vergognarmi di chiedergli qualsiasi cosa. Ne ho la forza? Scivolo
sul pavimento, la schiena contro il frigorifero (ancora fedele,
lui), i capelli (troppo secchi) davanti agli occhi. Poi riprendo
il controllo. No. Non sarò come quelle donne che si sentono
sconfitte al minimo ostacolo, che hanno bisogno di assistenza
non appena le macchine rinunciano alla loro vocazione (che
sarebbe quella di funzionare), non mi arrenderò davanti alle
insidie della tecnologia, alla rivolta degli oggetti, all’ostinazione delle caldaie a rompersi al preannunciarsi di un inverno
gelido, ai water che s’intasano il giorno dell’inizio dei saldi,
inghiottendo i nostri ultimi risparmi. Non mi lascerò sopraffare dalla debolezza di credere che il mondo ce l’ha con me;
il mondo infatti è saturo di oggetti inanimati che, per definizione, non hanno né volontà né idee per la testa. Purtroppo,
la sociologia non è dalla mia parte: sono una donna sola,
quindi incapace di far funzionare un qualsiasi apparecchio,
in particolare quando il libretto delle istruzioni rende vana
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ogni speranza di autonomia e indispensabile l’intervento
di un tecnico specializzato, non tanto in allacciamenti vari,
quanto nell’interpretazione del libretto stesso.
I miei figli, però, si aspettano ben altro da me. Devo dimostrare loro che una madre è anche una guerriera, e tanto
peggio per il mio conto in banca. Finisco velocemente di
spazzare i cocci, poi raggiungo i ragazzi in camera loro. «Non
preoccupatevi, bambini, ho trovato la soluzione ai nostri problemi. Internet! Con un clic posso ordinare una lavastoviglie
nuova, con consegna a domicilio e un risparmio del 30%!»
Ma Gabriel è pronto per uscire e mi fa fretta: «Mamma,
non ti vesti?» «Due secondi, tesoro.» Lui si siede sul divano
con addosso il cappotto e io faccio lo stesso, appoggiando
il portatile sulle ginocchia. «Ecco, scegliamo la lavastoviglie
che preferisci e poi andiamo.» Non si dimostra particolarmente ricettivo alla mia proposta, ma mi viene in aiuto suo
fratello. Adrien s’interessa a tutto ciò che riguarda l’appartamento, e mi sono già chiesta se non finirà per diventare
un architetto d’interni. Spero comunque che, crescendo, i
rivestimenti per cucine di Spiderman eserciteranno su di lui
una minore attrazione. Clicchiamo sul sito del C-Discount.
È indubbiamente il sito meno glamour da quando sono nate
le start-up, ma il mio entusiasmo compensa il suo grigiore.
Per far piacere ai ragazzi, mi fermo su una lavastoviglie a
incasso: «La potremo rivestire a nostro piacimento! Con
l’ardesia, per esempio, per scriverci la lista della spesa o un
elenco di parole in codice per augurarci buona giornata,
per tradurre dei sostantivi in inglese, farci dei disegni o
esporre le nostre lamentele…» «Che cosa sono le lamentele?»
«Devi sapere che durante la Rivoluzione francese c’erano
dei “quaderni delle lamentele” sui quali il popolo poteva
scrivere tutto quello che non gli piaceva. Potremmo fare la
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stessa cosa!» L’idea sembra solleticarlo. Ho appena inventato
la lavastoviglie terapeutica.
Parecchio orgogliosa della mia scoperta, clicco su «acquista». Pagamento in tre rate senza spese extra, consegna la
settimana prossima, con l’assicurazione che mi chiameranno
per fissare una data. La giornata pareva essere cominciata
male, ed ecco che riparte in quarta. Usciamo, sognando la
nostra futura lavastoviglie… o meglio, con i miei figli che
sognano le loro lamentele, e io fiera della rapidità con la quale
ho condotto l’operazione (cosa che mi aiuta a dimenticarne
l’aspetto finanziario).
Mentre ci avviamo a scuola, mi squilla il telefono. Numero
sconosciuto alle otto e trentacinque del mattino: siamo in
ritardo e non rispondo. Ascolto il messaggio solo dopo aver
lasciato i bambini, preoccupati di finire nell’ufficio del preside, a cui ho scritto un bigliettino di scuse sufficientemente
drammatico perché s’impietosisca. Un certo Émile «Benthaux» (non ho compreso bene il cognome) vuole vedermi.
Ci metto qualche istante per capire che non si tratta del
direttore generale del C-Discount, ma del nuovo responsabile di collana che sostituirà Marguerite. Il mio nuovo capo,
insomma. O forse no. Marguerite mi aveva preannunciato il
suo arrivo in casa editrice, e la cosa aveva suscitato in me una
legittima inquietudine: il mio futuro letterario sarebbe stato
nelle mani di uno sconosciuto, che, date le scarse vendite
delle mie ultime pubblicazioni, avrebbe potuto decidere di
porre fine alla nostra collaborazione. Avevo optato per una
dolce amnesia: finché non chiama, non esiste.
Solo che oggi ha chiamato, e l’orario lascia supporre una
certa urgenza. Sono mesi che non faccio progressi sull’idea
dei coniglietti pestiferi, il testo che avrei dovuto consegnare
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a Marguerite prima che andasse in pensione per firmare con
lei un ultimo contratto, ma la sua partenza ha prosciugato la
mia ispirazione. Troppi cambiamenti in troppo poco tempo:
prima la separazione dal padre dei miei figli, poi la mia editor, che ricopriva anche il ruolo di madre e psicanalista, mi
abbandona, rendendosi conto un po’ troppo tardi che non le
piacciono i bambini e che forse ha sbagliato a dedicare tutta
la propria vita alla letteratura per ragazzi. Ho tentato di farla
ragionare: non c’è bisogno di amare i bambini per scrivere
libri per loro. Non è detto che gli autori di letteratura «seria»
amino l’umanità, malgrado si sappia che, senza di essa, nessuno leggerebbe le loro opere. Le mie argomentazioni non
l’hanno convinta e, a sessantacinque anni suonati, è entrata in
piena crisi adolescenziale. Così eccomi costretta a incontrare
un uomo che esercita un potere notevole sulla mia scalcinata
esistenza e che telefona ai suoi autori alle otto e trentacinque
del mattino (chiamava senz’altro dal cellulare).
Aspetterò stasera per rispondere. Per questa mattina, dopo
aver distrutto la tazza che mio figlio mi ha regalato per la
Festa della Mamma ed essere stata piantata in asso dalla
lavastoviglie, non credo sia saggio provocare ulteriormente
la sorte. Nel mio caso, il principio di concatenazione delle
catastrofi ha sempre funzionato.
Nell’attesa, non ho altra scelta se non lasciare controvoglia
il porto sicuro del mio appartamento, adiacente alla prigione
della Santé e all’ospedale Sainte-Anne: almeno sono dalla
parte giusta del muro, seppur vittima di una leggera cattiva
coscienza e della sensazione di un fato arbitrario, senza contare che non sarò mai al sicuro da un’evasione. È dal giorno
del trasloco che mi preparo all’eventualità di dover ospitare,
contro la mia volontà, un serial killer; in questa prospettiva,
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leggo regolarmente testi di psicologia e psichiatria per adottare il comportamento migliore qualora dovesse verificarsi una
situazione simile. Non avendo ancora completato lo studio
delle psicopatologie che hanno condotto questi individui
dietro le sbarre, incrocio le dita perché attendano la fine del
mio percorso autodidatta in criminologia per minacciarmi
con un coltello alla gola. A quel punto potrei finalmente avere
un ruolo da protagonista, di cui si parlerà nelle aule universitarie e nei commissariati: Joséphine Fayolle, la seduttrice dei
serial killer. La melodia di un flauto e abbasserebbero le armi,
per trasformarsi in appassionati di letteratura per ragazzi. Ma
sono in ritardo, e le mie fantasie devono aspettare.
La scuola media in cui devo parlare questa mattina è in
periferia. L’insegnante di francese ha fatto lavorare la classe
per sei mesi sui miei due ultimi libri, I pinguini monchi e Lo
scoiattolo cieco e il nano autistico, promettendo un incontro
finale con l’autrice per «dare un volto» alla letteratura. Per
convincermi a partecipare mi ha detto che i giovani non
immaginano che dietro ogni opera c’è una persona in carne
e ossa, e l’incontro renderà la lettura qualcosa di vivo, un’opportunità incredibile per loro. Non che facessi la difficile
(tanto più che potrebbe essere la mia ultima occasione di
questo genere, visto che la mia carriera letteraria dipende
dalla decisione arbitraria e ingiusta del nuovo responsabile
di collana): incontrare gli studenti è sempre divertente, e che
abbiano lavorato sui miei testi mi onora. Inoltre, rappresenta
un cambiamento di routine rispetto alle lezioni di filosofia
che tengo all’università, e che ho avuto la buona idea di non
interrompere per buttarmi anima e corpo in questa attività
di cui oggi sono in grado di valutare la precarietà: nel mondo
della letteratura per ragazzi gli anticipi sono penosi.
Ma Rosny-sous-Bois è lontana. Quarantacinque minuti
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di metropolitana e RER, poi mezz’ora chiusa in auto con la
sconosciuta che è venuta a prendermi e con la quale mi sento
obbligata a conversare, decantando la vita meravigliosa della
scrittrice e la gioia di essere accolta da questi allievi così ben
preparati, quando per la testa mi frulla un unico pensiero: la
lavastoviglie. La guerriera sta deponendo le armi. Ed Émile
Benthaux si aspetta di sicuro un libro. Che non ho scritto.
Tuttavia, gli studenti mi rinvigoriscono. I miei figli tra
qualche anno potrebbero essere come loro; tranne per il
colore della pelle, perché bisogna ammettere che in periferia
il concetto di classi miste non è ancora passato. Sono tutti
ragazzini neri e magrebini, ma non corro alcun rischio di
imbarcarmi in una polemica identitaria: i miei personaggi
sono esclusivamente animali – animali di ogni genere, occidentali, africani, americani e asiatici – a cui poco importa
di origini geografiche e convinzioni religiose, per la maggior
parte handicappati (ci sono monchi, un emiplegico, un cieco
e un sordomuto, per citarne solo alcuni), cosa che fa dire
all’insegnante che promuovo il diritto alla differenza e alla
normalizzazione dell’handicap. Non avevo mai considerato
il mio lavoro sotto questo punto di vista; d’altronde non
vedo il mio lavoro sotto nessun punto di vista, e di certo
non sotto quello della filosofia, che resta il mio mezzo di
sostentamento ma che non intendo contaminare con le mie
orge animaliste. Tuttavia, se incoraggio davvero dei valori
positivi, ne sono felice.
Eppure, non sembra sia questo a interessare i ragazzi, e
il discorso universalista della loro insegnante li disorienta.
Riprendo le redini della discussione rassicurandoli sul fatto
che scrivere significa osare, dire ciò che ci fa arrabbiare, senza
preoccuparsi della morale. Mitigo però i miei propositi per
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non ferire questa pasionaria che mette così tanta energia
nell’educare alla civiltà generazioni di giovani più portati
per i videogiochi che per la letteratura. Propongo loro un
esercizio: raccontare la storia di un topo che s’intrufola in un
videogioco e che, per goffaggine, fa morire tutti, sia i buoni
sia i cattivi, cercando di trovare comunque un happy end;
piccola concessione all’insegnante, un po’ inquieta davanti
alla piega presa dagli eventi. Ci si mettono con impegno, a
gruppi di cinque. Spiego sottovoce a questa donna di una
certa età che si tratta di un esercizio catartico: se riescono
a perdere le inibizioni nella scrittura, forse le manterranno
nella vita vera: «È ciò che tutti ci aspettiamo dalla gioventù,
no?» La mia proposta pedagogica sembra interessarla, ma in
ogni caso la scrittrice sono io. Io ho in mano la chiave della
creatività, che non s’insegna alle scuole medie; vivo di parole
e in compagnia di gente morta, converso con Cartesio, Henri
Bergson, Fëdor Dostoevskij, Victor Hugo e tanti altri, e a
tutti do del tu (ma questo non lo dico). Possiedo un sapere
esoterico di cui costei lambisce il mistero sfiorandomi la
manica (macchiata dal caffè di questa mattina) mentre si alza
per scrivere alla lavagna. Ama gli scrittori. Commovente. Se
solo sapesse…
Gli studenti mi consegnano gli elaborati e io prometto
di restituire loro, nel giro di una settimana, un resoconto
dettagliato. L’insegnante mi travolge di complimenti, regalandomi l’illusione momentanea di essere importante; mi
ci abbandono, immaginando di passare in rassegna tutte
le scuole medie di Francia per attingere dagli sguardi degli
allievi e dai ringraziamenti dei loro professori la forza che mi
manca davanti al computer. «È stato incredibile!» sento una
volta uscita in corridoio, e arrossisco di piacere.
Nel cortile della scuola tiro fuori una sigaretta e faccio per
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accenderla, ma l’insegnante mi posa una mano sul braccio:
dimenticavo, siamo in un luogo pubblico. Un gruppetto di
ragazze mi segue all’esterno dell’edificio e me ne chiede una,
al riparo dallo sguardo della prof. Forte della mia nuova aura,
consegno loro l’intero pacchetto senza esitare, mettendomi
un dito davanti alle labbra. Non indietreggio davanti a nulla
per farmi delle nuove amiche, nemmeno quando si tratta di
ragazze tossicomani di tredici anni (anche se queste vanno per
i sedici), che prendono la pillola già da quattro e che avrebbero un gran bisogno di incontrare un adulto responsabile,
cioè qualcuno che trarrebbe vantaggio dalla loro ammirazione
per lui per porre loro dei limiti. Non io, quindi.
Riprendo la RER in senso inverso, dopo una corsa in autobus per evitare un nuovo e inutile tête-à-tête.
Di ritorno a casa, mi è impossibile evitare il richiamo al
dovere. Kant il pappagallo, appollaiato sulla mia spalla (sì,
Immanuel K. mi appare sempre sotto forma di pappagallo), mi si manifesta per ordinarmi di prendere il telefono
e chiamare Émile Benthaux senza più indugiare. Cerco di
convincere il guardiano della mia coscienza che sarebbe meglio rimandare: stasera sono distrutta, la voce mi tradirebbe,
e bisogna essere in forma per mentire. L’argomentazione
si rivela improponibile per Immanuel K., che considera la
menzogna la trasgressione ultima della legge morale. E allora
cosa dovrei fare? Chiamare Émile Benthaux e dirgli che ho
urgente bisogno di denaro e di garanzie sul mio futuro? Ma
che, al momento, non ho nulla da sottoporgli?
Continuo a perorare la mia causa: il venerdì sera è sacro,
non ho i ragazzi, è il momento che riservo alla correzione
dei compiti. E per chiamare Émile Benthaux dovrei prima
rileggere le poche pagine che ho scritto sei mesi fa e rivederle
un po’, in modo da riappropriarmene ed essere in grado di
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parlarne. Sarebbe un’entrata in scena migliore, no? Se mi
libero stasera delle correzioni (ho promesso agli studenti di
restituire i compiti mercoledì), avrò tutto il fine settimana
per concentrarmi. Di fronte a questa retorica inattaccabile
Kant si zittisce, mentre in sottofondo risuona «El Camino»
dei Black Keys; evito di chiedergli la sua opinione sui miei
gusti musicali. Rimane comunque appollaiato sulla mia
spalla destra, dove di solito si dedica alle sue attività abituali,
aspettando la prossima occasione per tormentarmi.
Sono arrivata solo al quinto compito quando sento dei
passi sulle scale e le voci acute di Adrien e Gabriel. Il battito
del mio cuore accelera, come ogni volta che sto per rivederli,
che si tratti dell’uscita da scuola, di quando tornano da casa
di José o del risveglio al mattino. Ben presto, tuttavia, fa
capolino l’ansia: perché rientrano a quest’ora? Non doveva
passare a prenderli il padre? Un danno collaterale della mia
e-mail? Un incidente? Mi alzo precipitosamente, immaginando già che a Gabriel è stato fatto lo scalpo e ad Adrien è
stata amputata una mano. Ma sul penultimo gradino c’è José,
sta riprendendo fiato. «Cos’è successo?» chiedo in preda al
panico. Lui se ne accorge e ne gode per mezzo secondo, ma
prima ancora che possa pronunciare la frase che senza dubbio
stava preparando accuratamente da tre piani, sento gridare:
«Mamma!» I ragazzi entrano e mi si buttano tra le braccia.
Devo averli tenuti stretti e baciati sui capelli per parecchio
tempo, a giudicare dal moto d’impazienza che avverto alle
loro spalle. «Ciao», mi dice José con fare sostenuto, sottolineando la mia mancanza di buone maniere. «Non riesci
nemmeno a salutare il padre dei tuoi figli, Charlotte?»
Ormai mi chiama sempre così, ritorcendomi contro la
fiducia che gli avevo accordato ai tempi della nostra intesa,
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quando gli amanti si raccontano le piccole e grandi umiliazioni che li hanno resi ciò che sono e ancora non immaginano la
bomba a orologeria che stanno costruendo in quell’istante di
meravigliosa complicità. Charlotte non è altri che Charlotte
Gainsbourg, che occupa un posto speciale nella mia esistenza
da quando avevo dieci anni e una domenica sera la vidi per
la prima volta in televisione nel film Sarà perché ti amo? Io,
i miei genitori e mio fratello eravamo comodamente seduti
sul divano, io mi succhiavo ancora il pollice (un’abitudine
dura a morire), la testa contro la spalla di mio fratello, emozionata, gli occhi umidi, quando mia madre commentò:
«Che ragazzina sciocca… e che smorfiosa insopportabile», e
poi si rifugiò in cucina per borbottare (ma fu un borbottio
che non sfuggì a nessuno): «Che zoccoletta!» A casa non si
dicevano parolacce, tranne in cucina e a condizione di essere
soli; poco importa che la cucina fosse separata dal salotto da
una semplice porta di cartongesso, oltretutto spalancata. L’episodio accadde poco dopo che mio padre, proprio all’inizio
del film, aveva commentato: «Buffo quanto vi somigliate».
Osservazione che sembrava essere passata sotto silenzio –
ma che non era sfuggita a mia madre – e che mi era rimasta
dentro come un segno della mia vocazione: essere Charlotte
Gainsbourg (mi sono poi ricreduta).
Grazie alle parole di mio padre, ero diventata qualcuno.
L’istante successivo avevo capito che diventare qualcuno
era esattamente ciò che irritava mia madre. È forse questa
la ragione inconscia per cui ho postato su Facebook l’unica
mia foto in cui si nota la vaga somiglianza tra me e Charlotte Gainsbourg? Ammetto di essermi impegnata, come in
una sorta di rivincita: sono di profilo, ho i capelli raccolti,
indosso un top rosa, jeans neri e stivaletti con il tacco. Un
copia-incolla della locandina di Prestami la tua mano.
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