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OPICIA
COLLANA DI STUDI ARCHEOLOGICI, SOCIALI, PEDAGOGICI
DIRETTA DA DOMENICO DE LUCA
───── 1 ─────
ANNA MONTANARO
IL TEATRO AL SERVIZIO
DELLA DIDATTICA
(NELLE “MEMORIE” DI UN’INSEGNANTE)
ISTITUTO DI STUDI ATELLANI
AGOSTO 1999
Grafica Bianco – Viale Europa, 15 – 81031 Aversa (CE) – Tel. 081/890.66.98
L’Opera è depositata presso la S.I.A.E., ai sensi dell’art. 75 lett. B, con n. 9901605.
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Il teatro nella scuola: un’attività antica destinata ad un vasto sviluppo
Il rapporto teatro - scuola ha origini remote, se Platone ci parla di “pantomime”
collettive, con accompagnamento musicale per fanciulli, “pantomime” che avevano
inizio al terzo anno di vita e si prolungavano fino all’età di andar guerrieri 1.
Erodoto di Alicarnasso, nel secondo libro delle Storie, fa cenno a figure animate da fili;
Senofonte, ne “Il convito dei sofisti”, ricorda un teatro di marionette in casa
dell’ateniese Kallias; così Aristotele, Ateneo di Naucrati, che cita il nome di un
burattinaio, Potheino; e poi Orazio; Marco Aurelio, Petronio Arbitro che descrive la
“larva argentea” manovrata da fili durante la cena trimalcionica 2.
Ma erano veramente spettacoli per ragazzi? Pensando alla frequente grossolanità delle
maschere greche, prima, e di quelle atellane, poi, siamo portati a ritenere che da quegli
spettacoli fossero esclusi i ragazzi. Però non dimentichiamo che il lavoro teatrale è
sempre manifestazione di creatività e quindi esso non può non estendersi anche ai
fanciulli 3.
D’altro canto, le antiche maschere, quali Maccus, Pappus, Dossenus e Buccus, erano la
tipizzazione dei difetti del genere umano e, quindi, di possibile ammaestramento dei
giovani.
Anche la presenza di ragazzi sulla scena ci viene da lontano, se alla “Rappresentazione
sacra di S. Giovanni e Paulo” parteciparono, nel 1400, i giovani figli di Lorenzo il
Magnifico e da Baldassarre Castiglione ci giunge testimonianza che, ad Urbino, dei
fanciulli recitarono nella Calandra 4.
L’esempio delle corti era seguito nei conventi, ove nelle recite delle educande erano
accentuati i fini educativi e l’uditorio era formato in massima parte da giovanetti, però
non mancavano gli adulti, per buona parte genitori, tanto da far dire agli attori in erba:
“cari diletti padri e frate’ nostri...
Le fatiche son nostre e’ piacer vostri” 5
Nel ‘500 ad opera di S. Filippo Neri, negli oratori da lui fondati, le manifestazioni
sceniche dei fanciulli per i fanciulli, accompagnate dalle musiche del Palestrina, erano
rappresentazioni tendenti ad esaltare la funzione del giovanissimo attore: “L’antica
laude vi è trasformata dall’introduzione di recitativi e di cori, diventando via via una
composizione nuova ed originale che sempre più andò sostituendo l’elemento originario
con motivi di respiro epico” 6.
In questo stesso periodo, in Germania, Giovanni Sturin (1507-1589) introdusse nelle
sue scuole di Strasburgo, recitazioni drammatiche ed anche di commedie plautine.
Circa un secolo più tardi, il Comenio propose l’uso didattico del teatro per
l’insegnamento della lingua e, nel 1774, il Basedow, nel “Filantropinum”, fra le varie
proposte educative-ricreative, inseriva anche il teatro, mantenuto però dallo stato. E’
merito dei Gesuiti l’aver dato alla recitazione nelle scuole una precisa funzione
educativa, tanto che in tutti i loro collegi vi era un teatro e le rappresentazioni da loro
create si estesero dall’Europa all’Asia e all’America. Però le regole che disciplinavano
tale attività erano rigorosissime tanto che occorrevano ben due secoli per consentire
1
Platone, Dialoghi, Vol. VII, Le leggi, A cura di A. Zadro, Bari, 1952 pag. 207.
B. Baird, Le marionette, Storia di uno spettacolo, trad. di A. Raschi Espagnet, Milano, 1967.
3
J. Piaget, La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Torino, 1957.
4
A. D’Ancona, Origini del teatro in Italia, Vol. I, Firenze, 1877, pag. 329, sgg.
5
M. Signorelli, Il bambino e il teatro, Bologna, 1958, pag. 10.
6
M. Signorelli, op. cit., pag. 11.
2
3
l’uso del volgare e la presenza di personaggi femminili sulla scena, né furono mai
consentiti soggetti puramente Comici 7.
Al contrario, il teatro giovanile di Don Bosco avrà indirizzo umoristico; ma anche il
teatro salesiano resta legato alla rigidità dei testi scritti e alla precisa dicotomia tra
spettatore ed attore, tanto da essere infine anch’esso soggetto ad apposite regole 8.
Nel periodo risorgimentale, alle preoccupazioni morali di tradizione religiosa, si
aggiunsero quelle civiche, tese a formare il cittadino integro. A tale periodo appartiene
l’Etica drammatica per l’educazione della gioventù di Giulio Genoino (1771-1856), una
serie di ventisei brevi commedie esaltanti le virtù che dovrebbero essere proprie dei
giovani, indirizzo seguito, poi dal Thovar, da Anna Ventura Gentile, da Ida Baccini ed
anche da commediografi di successo, quali Paolo Ferrari, Sabatino Lopez, Giacinto
Gallina.
Toccò all’idealismo pedagogico italiano intendere il teatro nella scuola italiana come
espressione d’arte finalizzata all’educazione della vita spirituale e non più come mezzo
per ammannire insegnamenti morali.
Superato il secondo conflitto mondiale, furono diverse le iniziative nel campo del teatro
per i giovani. Nel settore delle marionette meritano di essere ricordati: il Teatro dei
burattini di Francesco Campogalliani a Torino, il Teatro dei Piccoli di Vittorio
Podrecca a Roma, il teatro di Ciuffettino di Yambo a Firenze, l’Opera dei pupi siciliani
di Francesco Sclafani a Palermo, l’Opera dei burattini di Maria Signorelli a Roma.
Nel settore teatrale proprio degli attori ebbero, fra tanti, notevole risonanza il Teatro
della Fiaba di Donna Flavia Farini Cini, la Compagnia del Pergolino della scuola di
Recitazione del Comune di Firenze, la Sala Azzurra di Giuseppe Fanciulli, il Teatro di
Zietta Liù (Lea Bartorelli) a Napoli, il Teatro dei Giovani diretto da Maria Romano, il
Teatro del Centro di Educazione Artistica e il Teatro Bonaventura di Sto (Sergio
Tofano) a Roma.
Lo scarso incoraggiamento da parte dello stato impedì a tante valide iniziative vita
duratura e, quindi la possibilità di incidere veramente in maniera efficace
nell’educazione giovanile.
E’ evidente che la vera, fondamentale funzione del teatro nella scuola è lo stimolo alla
creatività. E’ un fatto scontato che ogni qualvolta questo termine balza fuori, la mente
dei più corre al ricordo dei grandi, poeti, scrittori, scultori, pittori, musicisti, scienziati,
i cui nomi e cui i meriti sono stati appresi sui banchi di scuola. E’ difficile che esso
venga associato alla modesta vita di ogni giorno; eppure proprio nel quotidiano, il
susseguirsi degli eventi, spesso umili e modesti, la creatività di ciascuno di noi opera
come autentico flusso esistenziale.
E’ nel frequente ricorso che, sia nelle cose umili che in quelle di maggiore rilievo,
ciascuno di noi fa ad un Modello, sia spirituale, sia artistico, sia nel vasto campo della
storia, che agisce nel profondo della nostra coscienza l’istinto creativo.
Siamo in un settore puramente espressivo, trasposizione tra il fare, sottostare e il non
fare. Nel fanciullo la creatività si manifesta nel gioco, perché questo è la
rappresentazione simbolica della realtà, e, più tardi, nell’atteggiamento ludico - teatrale
che aiuta ad “educare il fanciullo a formarsi un mondo di immagini” il quale poi
consentirà di “educarlo lungo la via del pensiero” 9.
7
E. Boysse, Le théatre des Jésuits, Parigi, 1880.
S. Giovanni Bosco, Scritti sul sistema preventivo nell’educazione della gioventù, a cura di P.
Braido, Brescia, 1965.
9
J. Dewey, Il mio credo pedagogico, introduz. e commento di Borghi, Firenze, 1954, pag. 21,
nota 1.
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Compito della scuola è quello di aiutare l’individuo a cogliere l’essenza tra le diverse
maschere interpretative e a sviluppare in essi che legano le varie esperienze.
Ed ecco quindi la vera, grande utilità dell’esperienza teatrale nella scuola. Più che a
fini puramente didattici, come da più parti ci si ostina a privilegiare, essa deve guidare
i discenti a concrete esperienze di vita, ad acquistare capacità, a comprendere gli eventi
quotidiani, a saperli risolvere con serenità e saggezza.
Il teatro deve, cioè, ridiventare “non un accadimento preordinato e preposto da un
gruppo specialistico ad una collettività di cui si postula un atteggiamento passivo, ma
una forma espressiva della collettività stessa che può tradursi nel linguaggio del rito
come in quello del gioco. Un teatro insomma che può benissimo fare a meno dello
spettatore specialista, come fa a meno dell’attore specialistico e della vicenda costruita
specialisticamente a priori. Ma che rimane ugualmente teatro nella misura in cui
coloro che vi partecipano danno una elaborazione fantastica e inventata ai gesti, alle
parole, ai movimenti, alle azioni con i quali esprimono ciò che vogliono dire.
L’immaginazione non più incanalata nei binari di forme convenzionali, diventa dunque
protagonista assoluta” 10.
A me pare che da questo bel lavoro della Prof.ssa Anna Montanaro emergano proprio
le linee fondamentali sia per meglio inserire l’attività teatrale nella scuola, facendone
veramente mezzo concreto di formazione, sia per non fare di essa una mera formula
educativa, ma lo strumento efficace per accostare sempre più i giovani alla vita,
stimolandone le capacità creative, preparandoli ad affrontare la realtà con spirito
aperto e costruttivo e a ritrovare sempre le soluzioni più idonee. All’autrice sono
sinceramente grato per avermi dato l’opportunità di esprimere queste mie idee, intorno
alle quali meditavo da tempo, e a Lei rivolgo un vivo ringraziamento per aver
consentito che il nostro “Istituto di Studi Atellani” dedito sinora alle ricerche storiche
si accostasse anche al filone inesauribile degli studi pedagogici e didattici.
Sono sicuro che a questa opera, redatta con serietà di intenti, ma soprattutto con amore
grande, arrida un meritato successo e sia l’incentivo per una sempre più vasta presenza
del teatro nella scuola con risultati veramente lusinghieri.
SOSIO CAPASSO
Presidente dell’Istituto di Studi Atellani
10
E. Capriolo, Editoriale, in “Sipario”, n. 289-290, speciale su Il Teatro dei ragazzi, anno XXV
Milano, maggio-giugno 1970.
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A Maurizio, compagno della mia vita
e a coloro che amano il teatro
l’Autrice
Premessa
Nel Settecento era consuetudine negli ambienti elitari della tarda età, o meglio, di quella
fase della vita, definita da noi moderni, la terza età, scrivere le proprie memorie. E la
letteratura, a tale riguardo, ci è di sostegno; basta fare un po’ mente locale
sull’argomento e, solo per restare nell’ambito della letteratura nostrana, tra i nostri
ricordi riaffiorano le “Mémoires” di Goldoni, la “Vita” dell’Alfieri e le “Memorie” del
galante e spregiudicato Casanova.
Fiumi di inchiostro si sono sciupati ed essiccati per capire, o meglio, ricercare le cause
di quella che fu senz’altro una moda, ma che dietro di sé nascondeva l’innata e naturale
paura che ogni uomo si sente nascere dentro quando, superata la soglia della giovinezza,
si avvicina alla fase critica della vecchiaia.
Proprio a questo punto, quando in lui si sono assopiti i desideri, gli slanci e gli
entusiasmi di un tempo, quando la stanchezza fisica è divenuta il suo stato abituale,
quando si sente il terreno mancare sotto i piedi, allora comprende che è prossimo alla
fine e si aggrappa a questa vita e con essa instaura un rapporto di amore ed odio, amore
perché non sa e non vuole rinunciare ad essa, odio perché essa gli nega le gioie di un
tempo, offrendogli solamente una contenuta tenerezza. Allora lo scrivere le memorie,
frutto di una moda frivola e bizzarra, passatempo di aristocratici e blasonati dal volti di
cartapesta, divenne una sentita necessità a cui si ricorse per affogare l’indistruttibile
ansia di eternità che ci trasciniamo dentro.
Perciò lo scrivere le memorie divenne un’abitudine abbastanza comune, si fa per dire,
nel Settecento, secolo dei lumi, quando la ragione aveva annullato il regno dei
sentimenti e cancellato la luce della fede che illumina la nostra eternità. L’uomo in
questo secolo non più sostenuto da nessuna speranza che solo la fede può dare, si mette
alla ricerca di un qualcosa che possa colmare il vuoto o il baratro delle tenebre in cui è
destinato a cadere ed annullarsi per sempre. Perciò, come ultima spiaggia, anche se sa
che è poca cosa, ricorre allo scrivere le “memorie” nell’illusione di soddisfare la sua
insaziabile sete di eternità. Spesso in tali opere c’è poco o niente di vero perché chi ha
scritto, ha parlato di sé a distanza di tempo e tutto è diventato esageratamente idilliaco e
poetico o grottesco e innaturale. E questo si comprende perché la nostra memoria,
potente e fotografica nella fanciullezza, si va, strada facendo, indebolendo o
affievolendosi; tant’è che fatti, eventi, avvenimenti, circostanze, episodi, emozioni e
sensazioni che hanno animato periodi della nostra esistenza, vengono inesorabilmente
corrosi dalla ineluttabilità del tempo e solo a sprazzi come per miracolo la mente, come
fa l’occhio di una macchina fotografica quando mette a fuoco l’obiettivo, riproduce un
fatto, un accadimento che tanto aveva contato nel tempo in cui si verificò, in una sua
immagine opaca, sfocata e nuda, priva di ogni riferimento sentimentale, al limite
accompagnato solo da un senso di languore o mestizia nostalgica. Però lo fa lo stesso,
illudendosi di eternarsi attraverso la sua opera, racconta di sé e spesso ingigantisce
facendo divenire azioni modeste grandi imprese, gesta straordinarie; altre volte ignora
volutamente azioni ritenute dalla pubblica opinione indegne per rifuggire la meritata
condanna e così facendo lascia di sé un’immagine che solo occasionalmente lo richiama,
per il resto sono frottole e bugie; così l’autore delle memorie si è costruito un ideale di
uomo a cui avrebbe preferito assomigliare, ma del tutto dissimile alla sua natura; infatti
li ha accresciuto il coraggio, altrove ha omesso la viltà ed ha creato “l’Uomo
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d’eccezione” consegnandolo in eredità ai suoi posteri. Ma l’autore di questo fantoccio è
soddisfatto almeno della sua creatura? E’ domanda questa a cui è difficile rispondere. A
nostro giudizio gli autori delle memorie che hanno così manipolato le cose narrate
certamente ingannando noi con il presentarsi non nella loro natura o identità, non hanno
cambiato la storia, hanno solo ingannato sé stessi perché si sono annullati in individui
mai esistiti. Questo è riscontrabile se si resta nella sfera passionale ed emotiva degli
autori in questione a cui si aggiungono altri fattori di natura scientifica, come il modo
approssimato del lavorio della memoria, quando tenta di ricostruire cose avvenute in
tempi lontani.
Le mie “memorie”
L’aver raccontato a modo mio le memorie dei memorialisti di mestiere, vorrebbe
dimostrare che lo scrivere con tali prerogative non ha senso e scoraggerebbe il più pio
intenzionato a battere tale sentiero. Questo è vero, ma non scoraggia me, me che ho
deciso di deporre sul banco del tempo le “mie”, si fa per dire, memorie. Se stessi
facendo un discorso già potrei immaginare il brusio e poi, piano piano, anche il dissenso
che verrebbe fuori tra gli ascoltatori, già potrei prefigurarmi gli apprezzamenti più
severi: come, bella pretesa, non manca di faccia tosta, e qualche colto benpensante con
freddo sarcasmo bella dimostrazione di inossidabile presunzione. “Per carità,
risparmiatevi altri insulti e lasciatemi continuare; le “mie” sono memorie, ma della mia
esperienza di docente”. Per carità, ancora altre ingiurie, c’è qualcuno che ostenta
fastidio, qualcuno che fa per lasciare la sala, molti già l’hanno fatto. “Signori, per
piacere, prendete posto, abbiate ancora un po’ di pazienza, ascoltate prima, non ho
completato il mio pensiero e poi farete come più vi aggrada. Il mio intento non è
raccontarvi le mie avventure o disavventure o meglio le mie peripezie iniziali di quando
più di un quarto di secolo fa misi piede nella scuola, di tutto ciò neppure a pensarci e poi
a chi e a cosa gioverebbe una fatica del genere, a nulla se non a tediare l’ascoltatore ed a
irritare inutilmente le mie già delicate corde vocali. Le “mie” saranno memorie legate
strettamente all’esperienza dell’attività di drammatizzazione con finalità didattiche. Ah,
finalmente sono riuscita a dir tutto in un solo fiato, escludendo i miei abituali preamboli
che spesso sminuiscono il senso del concetto. Ed in questa mia “fatica” certamente non
avrò pretese velleitarie di scrittori passati, prima perché la mia indagine è legata ad un
periodo della mia vita molto vicino al tempo che trascorro i cui ricordi sono ancora
freschi, per niente coperti dalla fuliggine del tempo passato, poi il racconto che ne verrà
fuori non avrà come protagonista la sottoscritta, la quale è stata solo il veicolo tramite il
quale certi fatti si saranno potuti concretizzare.
In questo racconto la parte da leone la faranno i ragazzi che con la loro voglia di vivere,
con il loro innato entusiasmo, mi hanno permesso di fare scrivere e vivere cose
sentimentalmente irripetibili. Quindi il mio intento o pretesa sarà raccontare come mi sia
stato possibile attraverso l’esperienza del teatro svolgere una salutare opera didattica. E
qui non si lavora di fantasia, potrei chiamare a sostegno non la documentazione che è
larga e spessa e giace in ogni scuola dove ho fatto scuola in questi miei ultimi quindici
anni, la documentazione depositata potrebbe essere falsata, i buoni esiti sortiti
dall’esperienza potrebbero essere riportati in maniera esagerata, gli esiti favorevoli di un
quindicennio speso nella scuola, dedicato soprattutto a tale esperienza potrebbero
esservi raccontati dagli stessi protagonisti; molti di essi che da tempo hanno lasciato la
scuola, sono divenuti seriosi impiegati presi dai problemi della vita, alcuni potrebbero
essere già genitori, solo pochi ancora a scuola. Essi sono l’esempio vivente di cosa sia
stato il teatro per loro, di quanto abbia contato nella loro vita scolare e di quale lezione
7
di vita esso sia stato per loro e sulla scorta della loro esperienza cosa continuerà ad
essere se avrà la sua giusta collocazione nella vita del giovane.
Da sempre il teatro è stato il mezzo più efficace per rappresentare la vita dell’uomo in
tutte le sue manifestazioni sia relative alla sfera psichica che a quella specificamente
pragmatica, cogliendo dell’uomo ora le più intime problematiche esistenziali, legate al
mondo delle passioni e dei sentimenti, ora dei suoi rapporti interpersonali che attengono
alla vita sociale.
La tradizione lo ha sempre ritenuto un potente veicolo di trasmissione di idee che
pertanto ha sempre affiancato l’uomo nel cammino della sua storia, assolvendo ad una
non trascurabile funzione sociale e civile nell’ambito della società di ogni tempo.
E non basterebbero fiumi di inchiostro per elencare le figure più autorevoli di tutti i
tempi dal passato ai giorni nostri che attraverso le loro opere di drammaturgia hanno
saputo scandagliare l’animo umano denudandolo nella maniera a volte anche più brutale
per svelare senza ipocrisia non solo i sentimenti più nobili, quelli che edificano l’uomo,
ma spesso per frugare nei meandri più tortuosi dell’animo, dove si annidano quasi
sempre gli istinti più bassi, quelli che farebbero impallidire finanche il peggiore
individuo incallito nel vizio.
Qui la finzione scenica, dalla drammaturgia classica a quella odierna, crea le premesse
per raccontare l’uomo ora, come depositario di un mondo ideale che trova la sua
realizzazione nella pura astrazione ideologica, ora come un miserabile cruciato che non
sa dare freno ai suoi istinti divenendone lui stesso vittima sacrificale maciullata
sull’altare del vizio. Certamente, per rappresentare la vita nella sua complessità, il teatro
per la sua aderenza alla realtà assume diversi aspetti ricorrendo ai tanti espedienti
letterari a cui fa ricorso e sotto le più svariate vesti riesce sempre ad arrivare allo
spettatore. Per questo spesso assume l’aspetto di impegnato, oppure si fa ironico o
ancora diventa popolare e finanche aristocratico.
A tale scopo si giustifica che c’è anche una tipizzazione di teatro a seconda della forma
che esso adotta per comunicare; però si deve riconoscere che il teatro resta sempre unico
ed universale e come tale non conosce frazionamenti; perciò se di tipizzazione si parla,
essa è rivolta esclusivamente al linguaggio, alla simbologia che adotta come mezzo di
comunicazione. Quindi la virulenza verbale, la parlata in vernacolo, la satira o la
raffinata ironia sono il sale dell’opera teatrale che, accompagnate da un’interpretazione
impeccabile dell’artista, riescono a coinvolgere in toto lo spettatore tanto da creargli
l’illusione di immetterlo in un mondo non suo, ma che temporaneamente gli appartiene.
Parlare di teatro è un compito estremamente arduo in quanto esso per la peculiarità della
sua libertà spinge a pensare e a dire tutto e il contrario di tutto; e ci viene proprio da
pensare che spesso è come un qualunque sofista che, conoscendo le armi del mestiere
del dire, “fa e disfa” sostenendo con pari impegno le contraddizioni più ovvie, perché il
suo senso di libertà a cui esso è deputato spinge il pensiero umano alle più ardite
creazioni metafisiche.
Per questa sua peculiarità gli antichi, soprattutto i moralisti davanti alla funzione del
teatro si sono spaccati ed hanno espresso giudizi contraddittori ma anche molto
illuminanti; qui il richiamo a Platone è d’obbligo: egli riteneva che il teatro era mezzo di
corruzione per i giovani, perciò andava condannato; per Aristotele invece esso assolveva
ad una funzione ben diversa quella di catarsi: la drammaturgia, secondo l’Autore,
portando in scena i sentimenti più efferati, non trascina il giovane nel vizio, ma produce
l’effetto contrario, lo educa ai buoni sentimenti, perché la visione del male fa nascere in
lui l’obbrobrio per essi e il desiderio di cose pie e giuste, insomma lo fortifica, lo tempra
e lo libera dai lacci della perdizione”.
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E proprio su questo lusinghiero giudizio, espresso dal Nostro in merito al teatro, è
giustificato l’inserimento del teatro nella scuola perché esso aiuta il giovane a vivere, a
sognare e a strappargli dalla sua bocca quello che spesso o non sa dire o non osa dire.
Infatti non a caso da circa un ventennio il teatro ha fatto il suo ingresso nella scuola,
dapprima timidamente, mostrando solo il suo aspetto ludico, e per questo inserito tra le
attività extracurriculari; è storia invece recentissima il suo inserimento nel curriculo
didattico come disciplina facoltativa e quindi con voce più autorevole. La scuola in
quest’ultimo periodo riconosce al teatro una valenza umana e formativa straordinaria e
per questo esso è divenuto il mezzo divulgativo più immediato della cultura.
Perciò non fa meraviglia quando dei giovani che da tempo hanno lasciato la scuola, si
fanno vivi a scuola, vengono a salutare i loro vecchi professori, spesso un po’
immalinconiti alla sottoscritta non chiedono né di Machiavelli né di Manzoni né
tantomeno amano soffermarsi sulla loro nuova condizione di vita, ma si informano se si
fa ancora teatro e poi prendono a raccontare della loro esperienza e piano piano i loro
volti si irradiano, la voce si anima ed lo che li osservo mi convinco sempre più che
questa attività ha qualcosa di magico, che riesce, per ironia della sorte, a trasformare
l’abituale fastidio per la scuola in un caro e continuo rapporto con essa. Spesso si fanno
tante chiacchiere inutili sulla psicologia dei giovani, si vogliono a tutti i costi trovare
problematiche esistenziali che spesso i giovani non hanno. I giovani vanno capiti, basta
trovare la chiave giusta e tutto verrà da sé ed il teatro, così come spesso è accaduto, lo è
stato. Quindi il mio proposito vorrà essere proprio questo, che qualcuno prenda in
considerazione questa mia esperienza e, senza alcuna pretesa, modificandola secondo le
condizioni che si presenteranno ne faccia punto di riferimento a cui richiamarsi quando
lo vorrà fare.
In queste mie memorie partirò dagli esordi di tale esperienza, ponendo l’attenzione su
fatti e cose che allora ritenni di capitale importanza e certamente ne tralascerò altre che,
seppure da non trascurare, saranno tenute lontane per evitare che esse possano deviare il
mio percorso. Ovviamente in questo mio viaggio didattico dividerò il sentiero in due
momenti: il primo sarà dedicato alla mia esperienza fatta nella scuola media inferiore; la
seconda nella scuola media superiore.
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Primi esordi
La mia esperienza teatrale nella scuola media inferiore avvenne per caso e
contrariamente ad ogni mia aspettativa: ero di prima nomina, per chi ancora non
l’avesse capito, per materie letterarie nella scuola media inferiore ed ebbi come sede una
scuola sita nell’hinterland di Napoli; delle due classi che formavano cattedra, la prima,
ricordo, era turbolenta e, nella quale avevo più ore di insegnamento; in questa vi era il
“classico” caso difficile, un allievo affetto da dislalia ed era anche disgrafico; fin qui
niente di grosso, la difficoltà insuperabile era tenerlo in classe; infatti minacce,
preghiere, avvisi ai genitori, interventi della presidenza, erano impotenti. M., il ragazzo,
ometto di chiamarlo per esteso per motivi comprensibili, vagava in tondo e in largo per
tutta la scuola, entrando ed uscendo da tutte le aule in ogni momento della giornata
scolastica alla ricerca di matite e fogli da disegno; solo in qualche ora della giornata, se
si era fortunati, accadeva che stesse fermo, intento a disegnare; sì, M. aveva il pallino
del disegno o meglio, quella che si definì “inclinazione artistica”. Con un alunno del
genere in una classe, già di per sé difficile, c’era poco da stare allegri, un po’ mi
scoraggiai, a e casa qualche lacrimuccia dovetti anche versarla, certo per rabbia; spesso
pensai “queste fortune capitano tutte a me”.
Dopo il mio disagio iniziale mi armai di coraggio e di santa pazienza, non potevo certo
rifiutare ciò che da anni andavo inseguendo, dovevo per forza di cose risolvermi in
qualche modo ed in questo la sorte mi sostenne. Una mattina, mentre facevo lezione, o
meglio tentavo di farlo, fui convocata in presidenza, non nascondo che il cuore mi
batteva in petto; dalla mia aula alla presidenza pochi metri dovevo percorrere, ma il
tragitto mi sembrò eterno, durante il quale incominciai ad interrogarmi: cosa mai vorrà
da me il preside? Vuoi vedere che non mi reputa all’altezza della situazione perché non
so gestire la classe? Era quella una classe in cui la maggior parte degli alunni avrebbe
avuto bisogno di sostegno, figurarsi poi per M.
Ma a quel tempo, a stento se ne parlava e quasi con fastidio. Il preside era lì, seduto alla
sua scrivania, bella figura d’uomo, magro e incanutito nei capelli, era nell’età
pensionabile e quello che stava trascorrendo, ironia della sorte, per me segnava l’inizio
della mia carriera, per lui l’ultimo anno. Egli mi accolse con molto garbo e con un
aperto sorriso, era molto galante, mi fece accomodare e poi cominciò a parlarmi. Quel
sorriso, quelle buone maniere fugarono le mie paure e mi predisposi ad ascoltarlo nella
speranza che dalle sue parole avrei trovato la mia soluzione. Ed in parte fu così, mi disse
che aveva ricevuto un invito dal Provveditorato a partecipare ad un convegno su allievi
in difficoltà; il quale invito fu a me consegnato, perché il preside col suo fare accorto e
garbato mi fece capire che la “patata bollente” era toccata a me e che sarebbe stato più
opportuno che ci sarei andata io di persona. Ci andai; di quell’incontro riporto solo che
mi segnalai tutti gli estremi per la procedura necessaria per ottenere il sostegno per M.
Naturalmente tutto ciò non fu assolutamente facile, né io intendo raccontare per filo e
per segno le mie peripezie che non furono poche, ma alla fine, superata la caparbia
ritrosia della famiglia, ostinata all’inizio a rifiutare l’assenso indispensabile per la
procedura, in tempi non brevi, verso la fine dell’anno scolastico arrivò il sospirato
sostegno che, se a poco servì per quello in corso, più incisivo e proficuo lo fu per il
successivo. M. in seconda, fu affiancato per parecchie ore settimanali da un’insegnante,
a parer mio, che conosceva bene il suo mestiere; ma certamente per M., credo,
necessitava ancora altro, cure più specifiche. E questa non è né, il tempo né la sede per
intraprendere un discorso mai iniziato; mi basta ricordare che proprio durante
quest’anno avvenne il mio primo impatto con l’attività di drammatizzazione. Ma, già da
un po’ di tempo mi frullava nella mente che anch’io avrei dovuto cercare qualcosa che
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potesse aiutare M., però non trovavo la strada, poi come per incanto, una banale e
semplice occasione me ne suggerì l’idea. L’idea, infatti mi era già balenata l’anno
prima, durante le giornate di carnevale a scuola; qualcuno, non ricordo chi, preparò una
piccola festicciola carnascialesca ravvivata anche da qualche scenetta burlesca recitata
alla meno peggio. Di questo evento mi colpì sia l’entusiasmo dei ragazzi che recitavano,
che quella della platea e in particolare il comportamento di M. che assistette alla cosa
preso da un religioso interesse.
Allora mi convinsi che, a torto o a ragione, quella era la strada da percorrere. Ma come
iniziare? da che cosa partire?, come coinvolgere in un impegno teatrale M., considerata
la sua anomalia?; ci riflettei a lungo e mi resi conto che forse la sua mania del disegno,
poteva essere quella la strada. Questo pensiero che sul nascere mi era sembrato balzano
e da accantonare, mi ritornava a martellare il cervello per tutto quell’anno ed anche
durante l’estate, tanto che all’inizio del successivo, pensai di concretizzarlo; ma
bisognava scegliere la maniera giusta per coinvolgere M. Ovviamente ci fu il concorso
di più di un docente in quella che inizialmente sembrava un’avventura caotica. Il tema
del lavoro mi venne suggerito dalle letture antologiche e tra le tante si scelse una che
trovava ampi consensi nella scolaresca; essa fu il “Matrimonio di Griselda” dai racconti
di Canterbury di Chaucer. Naturalmente in questo lavoro M. non poteva recitare; era
balbuziente ed affetto da una balbuzie indecifrabile ed allora a lui fu assegnato un
compito molto serio, quello di aiutare il docente di educazione artistica a preparare le
scenografie. M. prese la cosa molto sul serio e non solo aiutò il docente, ma spesso lo
sostituiva anche, suoi furono i primi bozzetti, nella scelta di quelli ritenuti più adatti al
lavoro impiegò una tale carica di entusiasmo da contagiare chiunque.
E venne il giorno della rappresentazione, durante la quale gli applausi si sprecarono
soprattutto per lui; M. visse il suo momento di gloria e ne fu estremamente felice.
Questa esperienza servi al ragazzo, ma soprattutto a noi, che in quella occasione
trovammo la sua possibilità di riscatto, perché capimmo che la via del disegno sarebbe
potuta essere per lui l’unica “chance” di possibilità di sbocchi futuri.
M., dopo la licenza media si iscrisse ad una scuola professionale e ne uscì con la
qualifica di ceramista. E questo è stato il primo esempio in cui il teatro ha assolto alla
funzione di recupero. A questo ne seguiranno altri, e in questo volume, al racconto delle
esperienze vissute, inserirò i lavori rappresentati.
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La storia di Griselda
(dal Racconti di Canterbury di Chauser)
Novella:
Il matrimonio di Griselda
Narratore: Nella parte occidentale dell’Italia, giù, alle falde del freddo Monviso, si
estende una rigogliosa e fertile pianura, molte torri feudali fondate in tempi antichissimi
dai nostri padri e donde si godono molte altre dilettevoli vedute; Saluzzo è il nome di
questa nobile terra; della quale fu già signore un Marchese. Questo giovine signore si
chiamava Gualtieri ed era, per parlare del suo lignaggio, la più nobile persona che fosse
nata in Lombardia; bello e forte nella persona e pieno di dignità e di cortesia, si
mostrava assai savio nel governo del suo paese ed un giorno accadde che ...
ATTO I
Personaggi: Narratore,Marchese, Gualtieri, Contadina, Griselda
Gualtieri: (mentre si reca a caccia incontra Griselda intenta alla semina) Buongiorno.
Griselda: (con atteggiamento impacciato e meravigliato) Buongiorno ... Buongiorno,
messere.
Gualtieri: Come mai, di così buon’ora una sì giovane e bella fanciulla alle prese con un
lavoro così pesante?
Griselda: (più impacciata che mai) Messere ... messere ... sono costretta a farlo! Io, io
sono l’unico sostegno della mia piccola e povera famiglia.
Gualtieri: Perché mai? Non avete i genitori?
Griselda: (impacciata) Sì ... No ... insomma ... non entrambi.
Gualtieri: (sorridendo e comprendendone il disagio) Sì o No?
Griselda: (con gli occhi abbassati) Scusate messere, sono confusa per le tante domande
che voi avete la grazia di rivolgermi. Forse è meglio che vado per ordine e potrò così
soddisfare le vostre richieste. Io, io sono Griselda, la figlia di Giannucole, sono orfana di
madre. La mia mamma mi lasciò che ero ancora in fasce. Mi restava solo il buon e
generoso padre che, ahimè! per il dolore causato dalla dipartita della sua diletta e
affettuosa consorte si ammalò gravemente senza provare neppure la gioia di potersi
dedicare alle mie cure. Fui così allevata da alcuni congiunti di mio padre, gli onesti
Bortoli. Divenuta adulta, ho preso su di me tutti gli oneri che l’amore filiale mi detta.
Così spendo il mio tempo: di mattina, di buon’ora, meno al pascolo le mie caprette, poi
semino o raccolgo, a seconda della stagione; verso mezzodì mi reco alla capanna dove il
mio buon e caro padre mi attende; gli preparo il pasto, mi occupo delle faccende
domestiche e dopo ritorno di nuovo nei campi. Perciò ora sono qui.
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Gualtieri: (con meraviglia) Voi ... siete voi, la buona, onesta e generosa Griselda che i
miei sudditi stimano e che indicano come fulgido esempio di bontà, onestà e amore
filiale?
Griselda: (con pudicizia) Sì! sono io Griselda.
Gualtieri: La figlia di ... (e fa per ricordare) Giannucole, Giannucole Spadaccini! Sì,
ora vi riconosco. Vostro padre, come tutti i vostri avi, sono stati dei buoni e valenti
sudditi del mio marchesato. Anzi il vostro avolo paterno, tempi che furono, fu servitore
personale del mio antico, nobile e illustre capostipite, sempre obbediente ai suoi
comandi, pronto a difenderlo in qualunque pericolo, buon confidente anche nei segreti
più intimi ... Mio padre, quando era in vita, spesso mi parlava della vostra famiglia (e
avvicinandosi di più a lei) lasciate che vi guardi in viso e possa, dai lineamenti del
vostro volto, avere conferma che siete Griselda.
Griselda: (alza timidamente il volto).
Gualtieri: (prendendo il suo volto tra le mani) Sì, siete proprio voi; siete proprio
Griselda, non ci sono dubbi, lo stesso sguardo di vostro padre, ed ora che vi ho osservata
bene, anche le fattezze della povera e sventurata madonna Lisetta, vostra madre. Vostro
padre andrà fiero di voi ed è veramente fortunato ad avere accanto a sé una così virtuosa
fanciulla! Che Iddio vi protegga, vi benedica e vi conservi lunga e felice vita. (e
andando via) E vi renda giusto merito delle vostre virtù. Felice di avervi conosciuta.
Addio Griselda.
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ATTO II
Personaggi: Narratore, Contadino, Contadina, Gualtieri
Narratore: Due contadini, marito e moglie, tornano dal lavoro e parlano ad alta voce.
Contadino: Possibile che voialtre femmine non sappiate che fare ciance sul prossimo?
Contadina: (risentita) Di cosa parlate?
Contadino: Stasera è toccata al nostro nobile e prodigo Gualtieri. Cosa vi riguarda se ha
o non ha in animo di prendere moglie? Lui è uomo di senno! Si vede che avrà le sue
buone ragioni a comportarsi così come fa. Perciò interrompiamo i nostri discorsi e
badiamo ai fatti nostri.
Contadina: (con atto di scusa) Ma io, volevo dire ...
Contadino: (sorpreso e in atto di ossequio per aver visto il marchese) Sss ... Sss ...
zitta... sta tornando dalla sua solita passeggiata! facciamo finta di niente e continuiamo
la nostra strada.
Contadina: (meravigliata) Ma chi? (alzando la voce)
Contadino: (incalzando) Vi dico silenzio; è lui ... (e a voce ancora più bassa) il
marchese. Possibile che vostra madre non vi abbia messo nemmeno un poco di cervello
in questa zucca?
Contadina: (meravigliata e compie l’atto di tacere ponendosi la mano sulla bocca, ma
continuando a parlare) Oh ... Avete ragione ... è proprio lui ... speriamo che non ci
abbia inteso.
Contadino: (alterandosi) State fresca! ... se vi avrà intesa ... sarete voi a togliervi dagli
impicci, io non c’entro! Sarà vostra cura inventarvi qualcosa per coprirvi ... io non
parlerò di certo (e più angustiato che mai) Così imparate a sparlare del prossimo.
Gualtieri: (con passo lento si avvicina ai due) Buonasera, buonasera miei cari!
Entrambi: (in atteggiamento impacciato) Buonasera (e fanno l’atto di scappare).
Gualtieri: (sornionamente) Cosa si diceva di sì serio che eravate così animati nel
discorrere?
Contadino: (guarda la moglie in maniera minacciosa).
Contadina: Veramente ... (molto impacciata) Si ... si parlava di semina.
Contadino: (con assenso) Di semina ... di semina!
Gualtieri: La semina vi anima tanto ... Forse non vorreste rischiare ... (sorridendo)
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Contadina: (risoluta e come di chi ha capito l’ironia) Ebbene sì, nobile marchese,
veramente si parlava d’altro! Ora vi spiegherò cosa si diceva con la speranza che la
vostra saviezza saprà scagionarmi dalle vostre ire in cui potrei cadere.
Contadino: (le fa segno di zittire).
Contadina: (incurante) Ho l’ardire di dirvi che si parlava di voi, illustrissimo e
generoso Gualtieri.
Gualtieri: Di me? ... E ... di grazia, ditemi perché prendervi tanto pensiero per me.
Contadino: (spazientito alla moglie) Cercate di essere meno misteriosa e risparmiate al
nostro savio marchese le vostre ambagi.
Contadina: Nobile marchese, la vostra bontà ci assicura e ci incoraggia, ogni volta che
è necessario a confermarvi la nostra cura! Voglia, dunque, la vostra gentilezza
permetterci di presentarvi con doloroso cuore il nostro lamento e di non avere a sdegno
la mia voce.
Contadino: (con un fare deciso) Forse è meglio che parli io al signor marchese! Or
dunque, signore, sappiate che noi siamo così soddisfatti di voi, di quello che fate ed
avete sempre fatto che non sapremmo, davvero, immaginare noi stessi come vivere più
felicemente; se non che il vostro popolo riposerebbe più tranquillo, se voi vi mostraste
disposto a prendere moglie. Liberateci da questo insistente pensiero e prendete moglie,
per amore dell’altissimo Dio: che se dovesse accadere, e Dio non voglia, che la vostra
discendenza si estinguesse con voi e un successore straniero ereditasse il vostro regno,
per noi, ahimè, la vita diventerebbe un lutto perenne. Perciò affrettatevi, ve ne
preghiamo, a prendere moglie.
Gualtieri: Miei cari, mi costringete a fare una cosa, contro la mia volontà e alla quale
per adesso non avrei pensato. Ho goduto finora della mia libertà che ben di rado si trova
nel matrimonio. Debbo farmi schiavo, mentre prima ero libero. Tuttavia io vedo la
sincerità del vostro consiglio ed ho fiducia nella prudenza vostra; cosicché, di mia
spontanea volontà, acconsento ad ammogliarmi più presto che sarà possibile. Lasciatemi
libero nella scelta della moglie! Io solo voglio averne la responsabilità.
PARTE III
Personaggi: Gualtieri, Griselda, Giannucole, popolani, Dama di palazzo, narratore.
Narratore: E un giorno il marchese si leva di buon’ora, prende le sue cose e si reca
nella povera capanna di Griselda dove trova la ragazza intenta alle faccende domestiche.
Gualtieri: Griselda..., Griselda!
Griselda: (correndo ed asciugandosi le mani col grembiule e con grande meraviglia)
Signore .... signore!
Gualtieri: (guardandola) Griselda, non aver timore, dov’è tuo padre, dopo saprai.
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Griselda: (con gli occhi abbassati) E’ qui in casa, signore (e fa cenno verso il camino).
Gualtieri: (avvicinandosi al luogo indicato) Io non so, né voglio tenerti più a lungo
nascosto un mio desiderio; se tu vi acconsenti, qualunque cosa possa succedere, io,
uscendo da casa tua porterò, via con me tua figlia e la terrò per moglie per tutta la vita.
So che tu mi vuoi bene, sei mio fedele suddito sin dalla mia nascita; sono sicuro che sei
pronto a volere tutto quel che a me piace. Però rispondimi francamente a ciò che ti ho
detto, cioè se sei disposto ad accettarmi per tuo genero.
Giannucole: (meravigliato) Signore, signore! Il vostro volere è il mio, né io voglio cosa
che a voi non piaccia; voi siete il mio amato padrone. Fate dunque anche in questo a
modo vostro!
Gualtieri: Ora stesso chiederò a Griselda se è contenta di divenire mia moglie e di
ubbidirmi. Tutto deve essere stabilito in tua presenza; io non dirò parola che non sia da
te sentita. (rivolto a Griselda) Griselda, sappi che tuo padre ed io abbiamo stabilito che
tu divenga mia moglie; anche tu, credo, ne sarai contenta. Ma prima voglio domandarti
alcune cose, alle quali, poiché tutto si concluderà in fretta bisogna che tu mi dica se
acconsenti o pensi diversamente. Sei disposta a compiacermi, ad obbedirmi, ad
onorarmi e ad amarmi per tutta la vita? Giurami questo, ed io concluderò qui stesso con
giuramento la nostra unione.
Griselda: (perplessa e timorosa) Signore ... signore, io sono indegna dell’onore che
volete farmi; ma il vostro volere è il mio; e vi giuro che mai di mia volontà farò o
penserò cosa contraria alla vostra.
Gualtieri: (ammirato) Basta così, Griselda mia. (e facendosi sull’uscio si rivolge al
popolo lì riunito) Popolo ... popolo mio! questa che mi sta vicina è mia moglie,
abbiatela in riverenza ed amatela, vi prego, voi che mi volete bene, non ho altro da dirvi.
Narratore: A palazzo di Gualtieri tutto è pronto per la cerimonia: dame di palazzo
indaffarate ad apparecchiare tutto ciò che si conviene per la cerimonia di matrimonio.
Gualtieri: (ad una dama di palazzo) Presto ... presto ... che sia vestita come si conviene
ad una fanciulla di alto lignaggio.
1^A Dama: Subito sarà fatto! Ogni vostro desiderio, messere, per me è un ordine (e con
grazia prende l’abito bianco e tutto l’occorrente per vestire Griselda).
2^A Dama: (si fa innanzi al marchese recando su di un cuscino una grossa e preziosa
gemma e rivolto al cavaliere) Signore, ecco la gemma con cui impalmerete la bella e
modesta Griselda.
Gualtieri: (prendendo tra le mani l’anello, lo bacia e poi rivolto a Griselda) Griselda
con questo anello, pegno del mio amore e della mia totale devozione, sarai per sempre
mia.
(I due vanno via tra gli applausi della folla)
Narratore: E vissero insieme lunga vita felici, lui per la bontà e semplicità della sposa,
lei per la generosità del suo marchese.
16
FINE
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17
A settembre di quell’anno, con profonda costernazione di M. cambiai scuola; ero entrata
in ruolo e dovetti scegliere la sede definitiva; avrei potuto scegliere anche quella scuola
perché non troppo lontana dal mio domicilio, ma mi lasciai trasportare dal senso
dell’opportunità, forse perché in passato ero stata troppo disagiata per i continui
spostamenti di sedi a racimolare anni di servizio con supplenze più disparate e perciò,
ora che finalmente potevo scegliere, mio malgrado, facendo forza su me stessa, scelsi
come sede una distante pochi passi da casa.
Ovviamente qui, in questa nuova sede, il primo anno mi fu di osservazione; era questa
una scuola che vantava un’apprezzabile tradizione di attività di recitazione, aveva una
discreta sala teatrale, di modo che a Natale e a fine anno si facevano delle
rappresentazioni. Naturalmente anche per quell’anno fu così; infatti ci furono delle
rappresentazioni che coinvolsero la scuola tutta, suscitando grandi entusiasmi; ma in
questi lavori notai qualcosa di strano, qualcosa che non mi convinceva ed infatti capii
poi che essi erano destinati solo a poche classi “elitarie” e alla cui rappresentazione
c’era solo della bella gente impellicciata ed imbellettata; i ragazzi, quelli che non erano
così fortunati da appartenere al corso “eccezionale”, (in ogni scuola ce ne è sempre
uno) al limite potevano con invidia applaudire i loro compagni “belli e bravi”. A me la
cosa non piacque e spesso mi trovavo a pensare a come portare in quella scuola un po’
di equità, a come fare a rendere meno scontenti questi ragazzi che, davanti ai loro
compagni attori erano delle nullità. Mentre mi dibattevo in questi miei pensieri, mi
piombò addosso un’occasione che inizialmente fui costretta ad accettare controvoglia, il
tempo prolungato.
L’anno scolastico era iniziato da qualche mese e la scuola nella quale da poco ero
entrata si apprestava a fare la sua prima esperienza di tempo prolungato; naturalmente
per questo tipo di esperienza furono scelti docenti che erano all’inizio della loro carriera
e a me toccò questa in sorte. Cercai di oppormi alla decisione della presidenza, ma tutto
fu inutile anzi e, per ironia della sorte, fui anche designata dalla scuola a seguire un
corso di aggiornamento per consentirmi di avvicinarci alle nuove tecniche didattiche. Di
quel corso appresi poco o nulla, noi docenti del corso eravamo così disinformati che
chiunque di noi aveva l’ardire di azzardare una minima idea di innovazione didattica,
appariva agli occhi degli altri un “sapientone”. Tra le tante cose inutili o pressappoco
tali che vennero fuori da una settimana di incontri, certamente quella che mi sembrò la
più degna fu l’attenzione che il tempo prolungato riservava al teatro e da qui sono
partita a fare teatro a modo mio in questa scuola.
Quindi non si parlò più di teatro; a scuola si poteva fare solo attività di
drammatizzazione e questo significava mettere il ragazzo in grado di essere attore e
regista allo stesso momento di un lavoro che si sceglieva in classe di comune accordo,
dopo vari tentativi didattici, indirizzare gli allievi a che essi capissero come da una
qualsiasi lettura antologica potesse venire fuori un lavoro da rappresentare. E fu così che
gradatamente in questa scuola e per le classi a “tempo prolungato” essa divenne parte
integrante delle attività curriculari. Devo dire che noi docenti impegnati in questa nuova
esperienza didattica, potevamo ritenerci fortunati perché avevamo a nostra disposizione
più facilmente la sala teatro, soprattutto di pomeriggio, in quanto per queste classi le ore
di lezione erano più numerose e si prolungavano fino al primo pomeriggio. Una giornata
di lavoro al tempo prolungato era strutturata pressappoco nella seguente maniera: la
maggior parte delle ore curriculari si svolgeva di mattina; quelle extracurriculari, come
cineforum, fotografia, giornalino e teatro erano destinate al pomeriggio. Perciò
pomeriggi interi venivano trascorsi nella sala teatro dove gli allievi incominciavano
inizialmente con timidezza, poi con crescente dimestichezza a prendere conoscenza con
il palcoscenico, le quinte, il proscenio e di conseguenza ad acquisire un linguaggio più
tecnico legato al mondo del teatro. In poco tempo le cose cambiarono perché a salire sul
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palco non furono solo più i ragazzi “curati e bardati”, ma quelli un po’ più trascurati,
insomma gli iscritti al tempo prolungato, perché questi erano gli alunni destinati al
tempo prolungato. E giustizia fu fatta.
In questo primo anno, il primo tentativo di teatro fu la rivisitazione del brano: “Che fa
tuo padre” di Domenico Rea ovvero “O’ lutammaro”.
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O’ Lutammaro
di Domenico Rea
Personaggi: Maestro, Narratore, gli alunni.
Narratore: Siamo agli inizi del XX secolo. In un paesino dell’entroterra campano, la
piccola scuola comunale apre i battenti; è il primo giorno di scuola. All’interno di
un’aula angusta e poco illuminata si è raccolta una scolaresca numerosa che intimorita
aspetta l’arrivo del maestro. E’ una prima elementare e l’età degli alunni oscilla tra i sei
e i dieci anni di età, tutti di sesso maschile, quando improvvisamente entra il maestro,
dopo il suono della campanella:
Maestro: (con un fare burbero) Buon giorno bambini! Io sono il vostro maestro!
Alunni: (in coro e senza alzarsi) Buon giornoooo ...
Maestro: (con tono severo) Nessuno vi ha insegnato che quando entra in classe il
maestro o un vostro superiore, dovete alzarvi silenziosamente in segno di saluto e
restare in piedi fino a quando non vi si concede di accomodarvi? Per oggi siete
giustificati anche perché è il primo giorno di scuola e per molti di voi è la prima volta
che si varca la soglia di una scuola. Su, ora alzatevi e in silenzio!
Alunni: (alzandosi salutano il maestro cercando di non fare chiasso)
Maestro: Così va quasi bene! Ed ora cerchiamo di fare la nostra brava conoscenza!
Perciò è necessario fare l’appello; io vi chiamerò per vostro nome e cognome, voi
risponderete decisi e pronti: presente! (e intanto fa l’atto di aprire il registro e
guardando la scolaresca è incuriosito dall’atteggiamento di un alunno) Ehi, tu.
Caprioni: (timidamente) Chi? io? (girandosi indietro)
Maestro: Si, tu; proprio tu! Vieni avanti; qua, proprio qua, vicino alla cattedra.
Caprioni: (si alza e nell’alzarsi provoca uno strano rumore)
Maestro: Si può sapere che diavolo ti trascini addosso?
Caprioni: Niente, niente (ed allarga le braccia)
Maestro: (incuriosito) Come niente? Cosa porti dietro le spalle? Girati, fammi rendere
conto. Ah! ... ecco ... è un falcetto; consegnamelo! e a cosa ti serve? Lo sai che questa è
un’arma? Te la sequestro!
Caprioni: (intimorito) E’ di mio padre! Quanno jamme a Santanastasia je e mammeme
cuglimme l’evere che vennimme ai carrettiere e’ passagge. Pateme dice ...
Maestro: (seccato) Basta! Interrompiamo questo discorso; dimmi piuttosto, che fa tuo
padre?
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Caprioni: O’ lutammaro.
Maestro: (in atteggiamento di chi non ha capito) Come? ... Cosa? ... ripeti!
Gargiulo: Professore, il padre va raccogliendo i rifiuti delle vacche e dei cavalli.
Alunni: (ridono tutti ed anche Caprioni).
Maestro: Come ti chiami?
Caprioni: Filucciu.
Maestro: E tuo padre?
Caprioni: Minico, Minico o’ lutammaro (e mentre va a sedersi i compagni da posto si
otturano il naso).
Maestro: (rivolto alla scolaresca) Cosa succede?
Gargiulo: (schifato) Professore, manda ... una puzzaaaaa ...
Maestro: Caprioni, di nuovo qua, vicino alla cattedra.
Caprioni: (si avvicina alla cattedra e il maestro lo tocca con la punta delle dita).
Maestro: (con un senso di disgusto) Come sei sporco, ragazzo mio! Ma hai una madre?
Caprioni: Sì.
Maestro: E che fa?
Caprioni: Sta malata.
Maestro: Ah, è malata? (e guardando il collo del ragazzo continua) Qui ci vuole
l’acqua calda e il coltello. Da quanto tempo non ti lavi, ragazzo?
Caprioni: (guarda a terra e non risponde)
Maestro: Domani non ti farò entrare, se non vieni pulito. Questi capelli sono un bosco,
un bosco poco pulito. Tu mi infetterai tutti gli altri ragazzi! tagliali con la falce (e
toccando la falce) riportala a tuo padre.
Caprioni: (va a posto mentre i suoi compagni continuano ad otturarsi il naso).
Maestro: (rivolto alla scolaresca) In quanto a voi, smettetela di fare i graziosi. Io
intanto riprendo a fare l’appello e vi chiedo anche il mestiere dei vostri padri. (e
guardando il registro) Catalano.
Catalano: (alzandosi in piedi) Presente.
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Maestro: Cosa fa tuo padre.
Catalano: Va a faticà.
Maestro: (sempre continuando sul registro) Cepparulo.
Cepparulo: Presente.
Maestro: E tuo padre che mestiere fa?
Cepparulo: Fatica a sporte.
Maestro: (rivolto ai tre già chiamati) Voi tre, in piedi e di qua. (e continuando
l’appello). Gargiulo.
Gargiulo: Presente.
Maestro: Dove lavora tuo padre?
Gargiulo: E’impiegato.
Maestro: E che impiego ha?
Gargiulo: I carciofi!
Maestro: (irritato) Questo non si chiama fare l’impiegato; dovrai dire: mio padre è
operaio agricolo! (e continuando l’appello) Gigliotti.
Gigliotti: Presente ... è capitano. (tutto pimpante)
Maestro: Fioravanti.
Fioravanti: Presente ... è professore medico.
Maestro: Sgherro.
Sgherro: Presente ... è segretario comunale.
Maestro: Nicola Bandiera.
Bandiera: Presente ... mio padre porta la divisa blu, il berretto, una grossa placca di
ottone sul petto; fa lo scopatore comunale.
Alunni: (risero tutti tranne lui e Caprioni)
Maestro: Non si dice scopatore comunale, ma netturbino, spazzino municipale. (e
continuando l’appello) Balestra.
Balestra: Presente! ... Giovanni Balestra di Eugenio Balestra e di Piera Altieri! Mio
padre è il presidente della S.p.a. Balestra, la fabbrica più grande del paese.
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Maestro: Tebo.
Tebo: Presente! ... Mio padre è negoziante e mia madre mi ha raccomandato di sedermi
nel banco con Balestra perché siamo amici.
Balestra: Non è vero! Non lo conosco!
Maestro: (rivolto a Balestra) Tu intanto, siedi al primo banco! (e a Tebo) Mentre tu
dietro di lui! (e continuando l’appello) Stefano Rozza.
Rozza: Presente.
Maestro: Qual è il mestiere di tuo padre?
Rozza: (non risponde)
Maestro: E’ morto forse?
Gargiulo: Posso dirlo io? Io lo so.
Rozza: (si precipita alla cattedra e parla nell’orecchio del maestro)
Maestro: Ah, ora capisco (mortificato e poi guardando in giro dice alla scolaresca).
Domani, vi raccomando, portate: grembiuli, i quaderni, la penna, la carta assorbente e il
sillabario; sui grembiuli poi farete apporre una strisciolina di nastro rosso dalle vostre
mamme. Certamente domani ci sarà l’elezione del capoclasse.
Narratore: Ma Caprioni non dovette capire un’acca. L’indomani ebbe cura di presentarsi senza falce, per non fare rumore. Egli era entrato per sempre nella sua solitudine
da cui forse invano aveva tentato di uscire. (Ed intanto al suono della campanella che
annuncia la fine delle lezioni, la scolaresca un po’ euforica lascia l’aula).
FINE
23
Naturalmente per queste cose e soprattutto per l’attività teatrale necessitava una
programmazione ben dettagliata e fatta fin dall’inizio dell’anno, ma per noi docenti del
tempo prolungato non fu difficile; infatti, superato il primo impatto con questa
esperienza, al tempo prolungato si formò una specie di sodalizio tra noi docenti, tanto
che si andava d’amore e d’accordo. Il primo anno andò come andò, ci furono i primi
tentativi di recitazione avvenuti in più momenti dell’anno, la cosa fu lasciata un po’
all’improvvisazione. Ricordo che a me toccò una classe con troppi allievi con grosse
difficoltà di scolarizzazione che grazie al teatro, riuscii ad affrontare e gestire con non
troppa fatica. Più esperta e con le idee più chiare affrontai il triennio successivo,
coronato da grosse soddisfazioni. Al primo anno del triennio mi sono cimentata in
letture antologiche rivisitate tratte da opere importanti come “Padre padrone” di Gavino
Ledda, il “Mar color del vino” di Leonardo Sciascia e nella novella “La giara” di Luigi
Pirandello. Al secondo anno ci fu la rielaborazione della novella “Il matrimonio di
Griselda”, tale lavoro era stato già sperimentato, come menzionato, qualche anno prima,
nel quale intesi spostare l’attenzione dal personaggio protagonista il Marchese alla
contadina che si fa valere per le sue doti di donna; in questa seconda rivisitazione la
figura del Marchese è del tutto sminuita. Egli è diventato un imbranato che ad ogni
movimento ne combina una e il tutto per valorizzare la figura femminile che si libera dei
pregiudizi del passato. Con tale lavoro la scuola partecipò al concorso nazionale indetto
dalla P.I. “Per la difesa del diritto del fanciullo” ottenendo un ampio riconoscimento e
per la cui realizzazione occorse la partecipazione di tutto il consiglio di classe.
A completamento del triennio, a fine d’anno, fu rappresentato un lavoro ideato, scritto e
diretto dalla sottoscritta dal titolo “Dalla barbarie della guerra alle follie del Cafè
Chantant”; la motivazione del lavoro era la ricorrenza del cinquantenario della morte di
Gabriele D’Annunzio.
Qui di seguito vengono riportate le opere rappresentate nel triennio:
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24
Primo Anno
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Mio figlio è mio
da
“Padre Padrone”
di Gavino Ledda
Personaggi: Gavino Ledda, Il padre, La maestra, Narratore
Narratore: E’ l’inverno del 1944; siamo a Siligo, un paesino dell’entroterra sardo;
all’interno di un’aula dell’unica scuola comunale del paese, nell’unica prima elementare, quando improvvisamente ...
(Una forte bussata alla porta dell’aula)
Maestra: Gav ... (e si interrompe) chi mai sarà? Avanti!
Padre: (con un fare risoluto) Buongiorno.
Maestra: (sbigottita) Buongiorno.
Scolari: (in coro) Buongiorno ...
Padre: (con un atteggiamento deciso) Sono venuto a riprendermi il ragazzo. Mi serve ...
mi serve a governare le pecore e a custodirle ... è mio; ed io sono solo. Non posso
continuare a lasciare il gregge incustodito quando vengo qui a Siligo a portare il latte in
caseificio e ad acquistare le provviste. Io non faccio solo il pastore. Per tirare avanti
onestamente e senza derubare il vicino, mi tocca coltivare una parte della tanca a grano
per il fabbisogno di casa. Gavino, anche se è piccolo custodirà le pecore, mentre io
marrerò il grano o poterò la vigna o lavorerò all’oliveto che ho già cominciato a
piantare. Come vede, da solo non posso fare tutte queste cose stando dietro alle pecore.
Incustodite, esse potrebbero assalirmi la vigna o il grano e non possiamo stare un anno
senza pane. Insomma lui mi custodirà le pecore mentre io farò tutte le altre cose per il
sostentamento per i fratelli più piccoli di lui. Io non ne ho di soldi per comprare quello
che è necessario per loro. I liquidi che ricavo dal latte delle pecore bastano a stento a
comprare vestiti ed altre cose che noi pastori non possiamo produrre. Le patate, il grano,
le cipolle, le fave le debbo produrre io stesso. Mi dispiace riprendermelo, ma senza di
lui non potrei più andare avanti. E poi ci sono banditi dappertutto e lei lo sa benissimo,
signora maestra.
Maestra: (sbigottita) Ma ... ma ... Gavino è ancora troppo piccolo! Come potrà
custodire le pecore e far paura ai banditi? La sua presenza sarà inutile; qui invece
imparerà a vivere prima di esporsi ai disagi della vita.
Padre: Non è necessario che il ragazzo sia grande per custodire le pecore. In quanto ai
banditi, poi avrà fiato sufficiente per chiamarmi da una vallata all’altra, se sarà il caso.
La mia tanca non è molto grande. Le pecore però si spostano rapidamente litigandosi i
pochi steli di erba e le ghiande migliori. Spesso si disperdono per le vallate e per
ripararsi dal vento scompaiono anche. Così accade che io sto da una parte della tanca a
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lavorare ed esse scompaiono verso l’altra; è proprio questo è il momento in cui banditi e
volpi fanno man bassa. (e fa un segno con la mano).
Maestra: Ma signor Ledda ... lei ha perfettamente ragione che ha troppe cose da fare
per sfamare la sua famiglia ... però non può pretendere che Gavino possa sostituirsi a lei
... Gavino poi è troppo piccolo e non può reggere il peso di un lavoro tanto rischioso. E
poi perché negare al suo bambino un proprio diritto, quello dell’istruzione. Lei non può
far questo né come padre e né come cristiano.
Padre: Non ho bisogno di prediche, quando le voglio ascoltare vado in chiesa, io sono
venuto qui a riprendermi mio figlio, perché quando la volpe mi azzanna un agnello lei lo
sa il danno che mi è stato fatto? Un agnello, per un pastore povero come me, non è poca
cosa; con un agnello trasformato in danaro posso sfamare la mia famiglia per dieci
giorni con pane e pasta. Perciò è necessario che me li tenga cari quelli del mio gregge ...
(e rivolto al figlio) lui non sarà né il primo né l’ultimo a lasciare la scuola. E poi anch’io
ho trascorso così la mia infanzia (e con un fare sarcastico, e con un’alzata di spalle)
Infanzia ... puah ... sono dovuto diventare adulto prima del tempo! E gli anziani mi
hanno usato come guardiano contro gli assalti della volpe in pieno inverno.
Maestra: Se è proprio questo quello che vuole, non sarò certo io a dissuaderla, ma per
oggi lo lasci qui a scuola, poi sarà lei a decidere da domani; io non posso permetterle di
portar via da qui Gavino.
Padre: Signora maestra mio figlio è mio e Gavino non sta più a cuore a lei che a me.
Perciò so io pensare al suo futuro; e come fare di lui un ottimo pastore, capace di
produrre latte, formaggio e carne. Lui non deve studiare. Ora deve pensare solo a
crescere. Quando sarà grande la quinta elementare la farà come fanno molti prima di
arruolarsi. Lo studio è roba da ricchi: quello è per i leoni e noi non siamo che agnelli.
Gavino: (piangendo disperatamente e aggrappandosi alla sua maestra) Signorina,
signorina non mi lasci andar via ... io ... io ... voglio restare qui con lei, con i miei
compagni; non voglio fare il pastore, voglio imparare tante cose che solo lei sa direi.
Maestra: (accarezzando Gavino) No ... non fare così! ascolta tuo padre ed esaudisci la
sua volontà. Tu diventerai un grande pastore. Tuo padre ti insegnerà a mungere le
pecore e le mucche. Sono molto belle, sai? In campagna poi in primavera ci sono tanti
fiori, molta erba e tanti alberi pieni di uccelli che pigolano e cantano. Fanno i nidi nei
cespugli, per terra, sugli alberi e tu ne potrai prendere quanti ne vorrai. Qui a Siligo non
c’è nulla.
Narratore: E Gavino ... muto, chiuso nel suo dolore prese le sue poche cose, diede la
sua piccola mano al padre che gliela strinse fortemente, quasi per rassicurarlo delle sue
puerili incertezze, lanciò uno sguardo prima alla maestra e poi alla scolaresca e varcò
per sempre quella soglia portando per sempre impressi nella sua memoria i volti dei suoi
compagni, la voce della sua maestra. Il suo sogno di scolaro si era concluso troppo in
fretta e troppo in fretta entrò a far parte del mondo degli adulti.
FINE
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26
Nenè, un bambino terribile
dal romanzo
Il mar color del vino
di Leonardo Sciascia
Parte I
Personaggi: Narratore, Nenè, Lulù, Rosalia Patanè (signora), ragazza, Rosario Patanè
(professore), Carmelo Carini (ingegnere), venditore.
Narratore: In uno scompartimento del treno che da Roma va in Calabria e in Sicilia
viaggiano sei persone: un ingegnere, una ragazza, un professore, sua moglie e i loro due
bambini, Nenè e Lulù; Nenè è un bambino terribile, testardo e curioso di tutto, assorbe
le belle e le brutte parole e le spara con la sicurezza di un grande.
(tutti seduti, fischia il treno)
Nenè: (capriccioso) Voglio mangiare ... voglio mortadella ... voglio banane.
Lulù: (anche lei capricciosa) Ed io ... voglio ... un’aranciata!
S.ra Patanè: (determinata) Mortadella ... niente; ti fa venire l’orticaria, come già ben
sai! (e gli scopre il braccio indicando dei punti rossi).
Nenè: (alzando la voce) Mortadella! o faccio come l’asino di don Pietro!
Ragazza: (sorridendo) Come fa l’asino di don Pietro?
Nenè: (si alza di botto)
S.ra e Signor Patanè: (avvicinandosi per fermarlo) Per carità ... non farlo, ti rovini
tutto!
Signor Patanè: (rivolto all’ingegnere) Quella maledetta bestiaccia usa strusciarsi a terra
a gambe per aria furiosamente e lui che ha assistito una sola volta alla scena, è capace di
riprodurla perfettamente.
S.ra Patanè: (prende dalla borsa un pacchetto che apre in cui c’è della mortadella)
Tieni! ... se ti viene l’orticaria ... sono fatti tuoi ... ti dovrai prendere la medicina.
Nenè: Non m’importa ... la voglio lo stesso!
Lulù: (quasi piangendo) Perché a lui sì su tutto? ... e a me no? Anch’io voglio l’aranciata (e alza la voce) l’aranciata.
Signor Patanè: (cercando di calmarla) Non ti preoccupare, quando arriveremo a
Napoli ti prometto che te la compro alla stazione.
Lulù: (al padre) Bada che questa volta non te la do per vinta! l’aranciata ... capito?
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Signor Patanè: (accarezzando i capelli a Nenè che si strofina sulla sua camicia di
seta).
S.ra Patanè: (quasi costernata) Oh Dio! per carità! la camicia di seta! (e fa l’atto di
guardare la camicia) Fammi vedere, sei sempre il solito imprudente! potevi anche
prevedere quello che ti sarebbe capitato, ma ora ... pazienza; non ci pensiamo più.
Signor Patanè: (rivolto a Nenè) Gioia mia ... guarda ... guarda qui ... (e indica lo
sporco) la camicia ... la camicia a papà hai rovinato!
Narratore: E intanto il treno arriva alla stazione di Napoli.
Parte II
Ragazzo: (venditore alla stazione strillando) Sfogliate ... sfogliate calde .... sfogliate
calde come il sole di Napoli! Aranciate ... bibite ...
Lulù: (appena svegliatasi dal dormiveglia in cui era caduta e con la testa appoggiata
alla ragazza di viaggio) Siamo arrivati a Napoli? L’aranciata ... papà; comprami
l’aranciata!
Nenè: Papà ... papà! ... ho sentito gridare sfogliate! Cos’è la sfogliata?
Signor Patanè: E’ un dolce, un dolce di pasta a sfoglie e di crema.
Nenè: Allora lo voglio! Me ne comperi uno papà?
Ingegnere: (al ragazzo) Ragazzo ... ragazzo ... avvicinati!
Ragazzo: (si avvicina)
Ingegnere: (scoprendo la cesta che portava il ragazzo) Posso guardare? Cosa porti di
buono nella tua cesta?
Ragazzo: E come no? Commendatò, voi siete il padrone! guardate, guardate pure! Qui
c’è tutto ... tutto il ben di Dio! Vedete: ci sono sfogliate, bibite, le pizze; le pizze sono
ancora cavere cavere come diciamo noi modestamente.
Ingegnere: Allora una sfogliata e un’aranciata! (e mettendo la mano in tasca)
Ragazzo: (in tono scherzoso) Poco poco ... commendatò! Mille e cinque.
Ingegnere: Te ne do duemila e il resto ... mancia.
Ragazzo: (contento) Grazie ... grazie assai ... commendatò!
Ingegnere: (ai bambini) A te ... l’aranciata e te ... la sfogliata!
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Bambini: (in coro) Grazie! tante grazie ingegnere!
Lulù: (sorseggia l’aranciata)
Nenè: (al primo morso) Che schifo! ... (e fa per sputare) Questo dolce è ... una porcheria! Non lo voglio! non mi piace! (e lanciandolo lontano grida) voglio un cannuolo.
Signor Patanè: (con pazienza) Un cannuolo? ... qui a Napoli dove lo trovo un cannuolo?
Nenè: (stizzoso) Me ne ... fff ... ottto (e la mamma gli tappa la bocca) Voglio un
cannuolo.
Ragazza: (ride)
S.ra Patanè: (spazientita) Nenè, ora basta! stai superando ogni limite! ora non bastano
più i capricci! aggiungi anche parolacce!
Signor Patanè: (al bambino con pazienza) Se non la smetti subito, bada che arriverà il
maresciallo con frusta e catene e ti porterà in carcere.
Nenè: (a testa bassa e gridando) Il maresciallo è un cor ... nu ... taccio. (e la mamma gli
tappa la bocca)
S.ra Patanè: (rivolta al marito, in tono ironico) Bravo! Fai proprio bene a portare
sempre con te tuo figlio al circolo; continua così e vedrai quante altre cose (rivolta a
Nenè) lui apprenderà dai quei quattro perditempo degli amici tuoi.
Signor Patanè: E tu dove sei, quando tuo figlio per ore intere, resta affacciato al
balcone e ascolta quelle paroline ... che arrivano da giù?
Nenè: Al circolo!
Parte III
Narratore: E’ mezzanotte; Nenè e Lulù dormono, il treno fila via veloce e raggiunge la
stazione di Paola. I due bambini si svegliano e riprendono a fare capricci. I grandi, visto
che non possono dormire, incominciano a parlare della Sicilia, di Taormina e del suo
splendido mare.
Signor Patanè: Che mare! e dove c’è un mare così!
Nenè: (pronto) Sembra vino.
Ingegnere: (sorridendo e cercando di ricordare) Ho sentito dire o l’ho letto da qualche
parte: il mar color del vino.
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Signor Patanè: (incuriosito) Qualche poeta lo avrà magari scritto; ma io un mar color
del vino non l’ho mai visto! (e poi rivolto a Nenè e indicando il mare) vedi? qui sotto,
vicino agli scogli, il mare è verde; più lontano è azzurro ... azzurro cupo.
Nenè: (deciso) A me ... sembra vino!
Signor Patanè: (alla moglie) E’ daltonico.
S.ra Patanè: (infastidita) Ma che daltonico! è testardo ... è solo testardo (e rivolto a
Nenè) ascolta ... il mare è azzurro ... è come ha detto papà.
Nenè: (più intestardito) No ... è ... vino. (e con voce più alta)
S.ra Patanè: (rivolta al marito) Vedi che è testardo! ora afferma addirittura che è vino.
Ingegnere: Il mar color del vino! (cercando ancora di ricordare) ma dove l’ho sentito?
Il mare non è color del vino (e cercando di dare una spiegazione). Forse nella prima
aurora, o nel tramonto: ma non in quest’ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di
vero: forse l’effetto, come di vino che un mare come questo produce. E non ubriaca e si
impadronisce dei pensieri.
Signor Patanè: (all’ingegnere puntando verso il mare) E’ ... o non è bello?
Tutti in coro: Bellissimo.
Nenè: Per me ... no! è vino.
FINE
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La Giara
di Luigi Pirandello
Personaggi: Zi’ Dima Licasi, Don Lollò Zirafa, ‘Mpari Pè (fattore), Tararà, Fillicù
(abbacchiatori di olive), Nociariello, Scimè (avvocato), Gnà Tana, Trisuzza,
Carminedda (raccoglitrici di olive), Narratore.
Parte I
Narratore: Era stata una buon’annata per gli ulivi e Don Lollò Zirafa, prevedendo che
le giare che aveva in cantina non sarebbero bastate a contenere tutto l’olio della raccolta,
ne aveva ordinata una nuova: bella, panciuta e maestosa. Neanche a dirlo, aveva litigato
col fornaciaio per questa giara. E con chi non l’attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni
nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal muretto di cinta, anche per una festuca di
paglia gridava che gli sellassero la mula per correre dall’avvocato. Ma un bel giorno,
mentre ferveva l’abbacchiatura delle olive, si viene a scoprire che la giara nuova si era
rotta, anzi “si era rotta da sè”. Don Lollò va su tutte le furie; alla fine si decide di
chiamare Zi’ Dima Licasi, un abile conciabrocche perché, col suo mastice miracoloso la
rimettesse a posto. Egli però vuole che insieme col mastice siano messi anche i fili di
ferro, nonostante gli fosse stato detto che solo il mastice poteva bastare.
Zi’ Dima: (a Tararà) Guarda ... ti pare un mastice come un altro? Stai a vedere (e
spalma del mastice sull’orlo della spaccatura della giara, poi lungo tutto il lembo) con
tre o quattro ditate, così ... appena appena. Reggi bene io mi caccio dentro, qua dentro.
Tararà: Ah! da dentro?
Zi’ Dima: Per forza, asino! se ho a fermare i punti, bisogna che li fermi da dentro.
Aspetta (e cerca nella cesta e prende fil di ferro e tenaglia ed entra nella giara) tu
adesso ... aspetta che mi metta bene ... alza codesto lembo e applicalo a combaciare ...
piano ... bravo ... così!
Tararà: (esegue l’ordine e lo chiude dentro la giara).
Zi’ Dima: (pieno di orgoglio) Ed ora tira ... tira! è ancora senza punti. Tira con tutta la
tua forza ... Vedi? ... vedi se si stacca più! neanche dieci paia di buoi potrebbero più
staccarla! Va, va a dirlo al tuo padrone.
Tararà: (un po’ incuriosito) Ma scusi, Zi’ Dima, è sicuro che potrà uscirne ora?
Zi’ Dima: (convinto) E come no? Ne sono sempre uscito da tutte le giare.
Tararà: (un po’ preoccupato) ma questa non so ... mi pare un po’ stretta di bocca per lei
... si provi.
Zi’ Dima: (tenta di uscirne)
Tararà: (dà le istruzioni) Zi’ Dima, piano ... aspetti ... di lato!
(intanto sopraggiunge Mpari Pè, il fattore di casa Zirafa)
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Mpari Pè: (rendendosi conto) il braccio! fuori prima un braccio.
Tararà: No il braccio! Che dite?
Zi’ Dima: (infastidito) Ma insomma! santo diavolo com’è? Non posso più uscirne?
Mpari Pè: Tanto grossa di pancia e tanto stretta di bocca!
Tararà: Sarebbe da ridere! (e ride) dopo averla sanata, se non ne potesse più uscire
davvero!
Zi’ Dima: (Incominciando ad aver paura) Ah tu ridi? (e incomincia a gridare
muovendosi nella giara) Aiuto ... datemi aiuto!
Mpari Pè: (cercando di confortarlo) Aspettate, non fate così! vediamo se piegandovi ...
Zi’ Dima: (ancora più spaventato) No, peggio! lasciate! ... l’intoppo è proprio nelle
spalle ... la ...
Tararà: Già! (e ride) lei ne abbonda un pochino da una parte.
Zi’ Dima: Io? ... se hai detto tu stesso che difetta di bocca la giara.
Mpari Pè: (disorientato) Ed ora ... cosa si fa ...?
Tararà: Ah questa è da contare! è da contare proprio! (e ridendo corre verso la cascina
chiamando) Fillicooo ... Gnà Tanaaaa ... Trisuzzaaa ... Carmineddaaa... venite... venite!
Ora Zi’ Dima non può più uscire dalla giara.
(Le donne e Nociariello arrivano sul posto e ridendo battono le mani)
Nociariello: (meravigliato) Dentro la giara? ... Oh bella ... e come è stato? Non può più
uscirne?
Zi’ Dima: (gridando) Fatemi uscire! Prendete un martello da questa cesta!
Mpari Pè: Che martello? voi siete pazzo! deve dirlo il padrone!
Fillicò: (ansimante) Eccolo qua! Eccolo qua che arriva.
(Di corsa sopraggiunse don Lollò)
Le donne: (andandogli incontro e concitate) S’è murato dentro la giara! Da sè! ... non
può uscirne... !
Don Lollò: (meravigliato) Dentro la giara? ... diavolo di un cane.
Zi’ Dima: (gridando) Aiutoooo ... aiuto....
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Don Lollò: (arrabbiandosi) E che aiuto posso darvi io? vecchio imbecille, se non avete
preso la misura della vostra gobba prima di cacciarvi dentro? (e tutti ridono).
Gnà Tana: (con tono compassionevole) Ma guardate che gli capita! ... povero Zi’ Dima
...
Don Lollò: (con un fare accomodante) Aspettate ... piano... cercate di tirar fuori un
braccio.
Mpari Pè: E’ inutile! ... s’è provato in tutti i modi!
Zi’ Dima: (che ha cavato fuori un braccio a stento) Ahi ... piano ... mi si sloga il
braccio!
Don Lollò: (incalzando) Pazienza! ... provate.
Zi’ Dima: No ... mi lasci!
Don Lollò: Che volete che vi faccio allora?
Zi’ Dima: Prenda il martello e rompa la giara!
Don Lollò: Cheee ... ? Ora che è sanata?
Zi’ Dima: Ohooo ... che mi vorrebbe tenere qua dentro?
Don Lollò: Bisogna prima vedere come s’ha da fare.
Zi’ Dima: (più infastidito che mai) Che vuol vedere? ... io voglio uscire! Voglio uscire.
Le donne: (in coro) Ha ragione! non può mica tenerlo lì! Se non c’è altro rimediooo ...
Don Lollò: (interrompendolo e arrabbiandosi) Mi fuma la testa! mi fuma la testa!
Calma! ... (rivolto agli altri) Calmi. (e con un fare pensoso) Questo è un caso nuovo;
non è capitato mai a nessuno! (e rivolto a Nociariello) Vieni qua ragazzo ... no ... meglio
tu Fillicò; corri là, sotto il gelso; lì c’è l’avvocato, fallo venire subito qua.
Don Lollò: (a Zi’ Dima) Fermo voi! (e agli altri) Tenetelo fermo! non è una giara! è il
diavolo! non muovetevi vi dico!
Zi’ Dima: (spaventato) O la rompete, o a costo di rompermi io la testa, la faccio
rotolare contro un albero! Voglio uscire ... voglio uscire.
Don Lollò: (cercando di rabbonirlo) Aspettate che venga su l’avvocato; risolverà lui
questo caso nuovo. Io intanto mi guardo il mio diritto alla giara e comincio col fare il
mio dovere (e prende dalla tasca portafogli e soldi mentre si rivolge agli altri)
testimoni tutti voi altri (e facendo sventolare un biglietto da dieci lire che fa cadere
nella bocca della giara) qua dieci lire in compenso del vostro lavoro!
Zi’ Dima: (con voce lamentevole) Non voglio niente, voglio uscire.
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Don Lollò: Uscirete quando lo dirà l’avvocato; io intanto vi pago. (Intanto giunge
l’avvocato ridendo) Ma che c’è da ridere? mi scusi, a lei non brucia, lo so! la giara è
mia.
Avvocato: (ridendo insieme agli altri) Ma che ... pret ... ; ma che pretendete di tene ... di
tenerlo là dentro (continuando a ridere sgangheratamente) Tenerlo là dentro per non
perderci la giara?
Don Lollò: (risentito) Ah, secondo lei, dovrei patire io, allora il danno e lo scorno?
Avvocato: Ma sapete come si chiama cotesto? (e con un fare serioso) Sequestro di
persona.
Don Lollò: E chi l’ha sequestrato? Si è sequestrato lui da sé! che colpa ne ho io? (e
rivolto a Zi’ Dima calando la testa nella giara). Chi vi tiene lì dentro? Uscitene!
Zi’ Dima: Si provi lei a farmi uscire, se ne è capace.
Don Lollò: Ma non vi ci ho ficcato io lì dentro, d’avere questo obbligo! Vi ci siete
ficcato voi; uscitene.
Avvocato: (con un fare enfatico) Signori miei, permettete che parli io!
Tararà: Ssss ... parla l’avvocato ... parla l’avvocato.
Avvocato: Son due i casi; statemi a sentire e dovete mettervi d’accordo (rivolto a don
Lollò) da una parte, voi don Lollò, dovete subito liberare Zi’ Dima.
Don Lollò: (incalzando) E come? ... rompendo la giara?
Avvocato: Aspettate! c’è poi la parte dell’altro: lasciatemi dire, non potete farne a meno
... (e prendendo fiato) per non rispondere di sequestro di persona! (e rivolto a Zi’ Dima)
D’altra parte, anche voi Zi’ Dima, dovete rispondere del danno che avete cagionato
cacciandovi dentro la giara senza badare che non potevate uscirne.
Zi’ Dima: Ma signor avvocato, io non ci ho badato perché, da tanti anni che faccio
questo mestiere, di giare ne ho accomodate a centinaia, e tutte sempre da dentro, per
fermare i punti, come l’arte comanda. E non mi era mai capitato di non poterne più
uscire. Tocca a lui di prendersela col fornaciaio che gliela fabbricò stretta di bocca ... io
non ci ho colpa.
Don Lollò: (risentito) Ma codesta gobba che avete, ve l’ha forse fabbricata il fornaciaio
per impedirvi di uscire dalla mia giara? Se attacchiamo lite per la bocca stretta, signor
avvocato, appena si presenterà lui con quella gobba, il meno che potrà fare il pretore è di
mettersi a ridere; al limite mi condannerà alle spese e buona notte.
Zi’ Dima: Non è vero, no! perché, con questa stessa gobba, io per vostra regola, dalla
bocca di tutte le altre giare sono sempre entrato ed uscito, come dalla porta di casa mia.
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Avvocato: Questa non è ragione, abbiate pazienza, Zi’ Dima! L’obbligo vostro era di
prendere la misura prima di entrarvi, se ne potevate uscire, oppure no!
Don Lollò: E deve ripagarmi la giara?
Zi’ Dima: Cheee ... ?
Avvocato: Piano ... piano! Ripagarvela come nuova?
Don Lollò: Certo ... certo! perché no!
Avvocato: Ma perché era già rotta, bella questa!
Zi’ Dima: Gliel’ho accomodata io!
Don Lollò: L’avete accomodata? E dunque ora è sana! Non più rotta. Se io ora la rompo
per farne uscire voi, non potrò più farla riaccomodare e ci avrò perduto la giara per
sempre. (e rivolto all’avvocato) Per sempre signor avvocato.
Avvocato: Ma ho detto perciò che Zi’ Dima dovrà pur rispondere per la sua parte!
Lasciate parlare me!
Don Lollò: Parli, parli.
Avvocato: Caro Zi’ Dima, una delle due: o il vostro mastice serve a qualcosa o non
serve a nulla.
Don Lollò: (rivolto agli altri) Sentite, sentite come lo piglia in trappola adesso ...
quando comincia così ...
Avvocato: (a Zì Dima) Se il vostro mastice non serve a nulla, voi siete un imbroglione
qualunque. Se serve a qualche cosa, e allora la giara, anche così com’è deve avere il suo
valore, che valore? Ditemi, ditemi voi; stimate voi.
Zi’ Dima: Con me qua dentro? (e tutti ridono).
Avvocato: Senza scherzare! così com’è!
Zi’ Dima: Rispondo: se don Lollò me l’avesse lasciata accomodare con il solo mastice,
come io volevo, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, perché avrei potuto
accomodarla da fuori; e allora la giara sarebbe rimasta come nuova e avrebbe avuto lo
stesso valore di prima, né più né meno. Così rabberciata, come è adesso e forata come
un colabrodo che vuole che valga? Si e no un terzo di quanto fu pagata.
Don Lollò: Un terzo?
Avvocato: (rivolto a don Lollò) Un terzo! Zitto, un terzo ... un terzo ... vuol dire?...
Don Lollò: Fu pagata quattro onze: un onza e trentatrè.
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Zi’ Dima: Meno sì, più no!
Avvocato: Valga la vostra parola; prendete un’onza e trentatré e datela a don Lollò.
Zi’ Dima: Chiiii ... ? Io ... Un’onza e trentatré a lui?
Avvocato: Purché rompa la giara e vi faccia uscire. Gliela pagherete quanto voi stesso
l’avete stimata.
Don Lollò: Liscio come l’olio.
Zi’ Dima: Pagare io? Pazzie! signor avvocato; io faccio i vermi qua dentro! tu, Tararà
pigliami la pipa qui accanto.
Tararà: Questa?
Zi’ Dima: Grazie, dammi un po’ di fuoco.
Tararà: (accende un fiammifero e lo accosta alla pipa di Zi’ Dima)
Zi’ Dima: (uscendo con la testa fuori) Grazie! Bacio le mani a tutti quanti (e si
nasconde di nuovo).
Don Lollò: (stupefatto) Ed ora come si fa, signor avvocato, se non vuole più uscire?
Avvocato: (grattandosi la testa e sorridendo) E già, veramente, finché voleva uscirne, il
rimedio c’era; ma se ora non vuole più uscire ...
Don Lollò: (a Zi’ Dima affacciandosi nella giara) Che intenzione avete? Di abitare qui
dentro?
Zi’ Dima: (col capo fuori) Ci sto meglio che a casa mia. Fresco come in paradiso.
Don Lollò: (infuriato mentre tutti ridono) Smettetela di ridere! E siatemi tutti testimoni
che è lui adesso a non volerne più uscire per non pagare quello che mi deve, mentre io
sono pronto a rompere la giara (e rivolto all’avvocato) potrei citarlo per alloggio
abusivo, signor avvocato?
Avvocato: (ridendo) E come no? mandategli l’usciere per lo sfratto (ironico).
Don Lollò: Ma scusi, se mi impedisce l’uso della giara.
Zi’ Dima: (sporgendo di nuovo il capo) Lei sbaglia! Non sto mica qua per mio piacere.
Mi faccia uscire e me ne andrò di corsa. Ma quanto a farmi pagare se lo scordi. Piuttosto
non mi muovo più da qua dentro!
Don Lollò: (abbrancando e scuotendo la giara) Ah, non ti muovi più? Non ti muovi
più?
Zi’ Dima: (ironicamente) Vede che mastice? Non ci sono mica i punti sa?
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Don Lollò: (fuori di sé) Pezzo di ladro, laccio di forca, manigoldo, chi ? chi l’ha fatto il
male tu o io? e vuoi che lo paghi io?
Avvocato: (preoccupato e tirandolo per un braccio) Non fate così che è peggio!
lasciatelo stare lì tutta la notte e vedrete che domani mattina ve lo chiederà lui stesso di
uscire. Allora voi un’oncia e trentatré o niente. Andiamocene, lasciatelo perdere. (e tutti
e due escono di scena)
Parte II
(intanto si è fatta sera)
Zi’ Dima: (col capo fuori) Ohè, don Lollòoo!
Avvocato: Non vi voltate ... via ... andiamo via!
Zi’ Dima: Buona notte, signor avvocato ho qua dieci lire (e rivolto agli altri e alzando
la voce) Faremo festa proprio tutti! Tu, Tararà, vieni qua (e gli dà il danaro) corri da
Mosca e compera vino, pane, pesce fritto e peperoni salati: faremo un gran festino.
Tutti in coro: (battendo le mani): Viva Zi’ Dima! viva l’allegria!
Fillicò: Con questa bella luna! Guardate! E’ spuntata di là, a sinistra. Pare giorno.
Zi’ Dima: La voglio vedere pure io; trasportate la giara più in là.
(e tutti piano piano sollevano la giara)
Zi’ Dima: Così, piano, ecco così. Ah come è bella! la vedo, la vedo, pare un sole. Chi fa
una cantatina?
Gnà Tana: Tu, Trisuzza.
Trisuzza: Io no, Caminedda.
Zi’ Dima: E allora cantiamo tutti in coro! Tu, Fillicò suona lo scacciapensieri; e voi tutti
una bella cantata, ballando attorno alla giara.
(Si fa un gran baccano: tutti cantano e ballano rumorosamente al suono dello zufolo su
ritornello del canto popolare di “Sciuri, sciuri”, quando improvvisamente)
Don Lollò: (di corsa) Corpo di un cane, dove vi par d’essere alla taverna? (e allunga un
calcio violento alla giara) Tenete ... vecchio di un diavolo ... andate a rompervi il collo
(e la giara rotola e si frantuma.)
Gnà Tana: (spaventata e gridando) Ah l’ha ucciso.
Fillicò: (a tutti) No ... eccolo là! ne esce! si alza! non si è fatto nulla!
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(le donne battono le mani allegramente)
Tutti: Viva Zi’ Dima, viva Zi’ Dima (e lo sollevano da terra).
Zi’ Dima: (agitando le braccia) L’ho vinta io ... l’ho vinta io ...
(La rappresentazione è anticipata dal canto popolare “Vitti na’ crozza” eseguita dai
ragazzi attori; la stessa sarà il sottofondo dell’opera).
FINE
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38
Rappresentazione del “Matrimonio di Griselda”
in chiave ironica, Anno Scolastico 1986/87
Secondo Anno
IL Matrimonio di Griselda
Libero adattamento della novella
in chiave ironica
di J. Chauser
Antefatto
(Tre banditori al suono di tamburi entrano in scena)
1° Banditore: Donne e cavalieri, udite ... udite.
2° Banditore: Accurrite ... accurrite.
3° Banditore: (facendo uno sberleffo) Ma cosa dite ... è questo forse il linguaggio degli
extraterrestri o di qualche videogame? ... (e ride sgangheratamente).
1° 2° Banditore: (si avvicinano furiosi al terzo) Pezzo di somaro ... cialtrone
(accompagnano queste parole con calci e botte). Possibile che il tuo cervello di gallina
non sappia pensare ad altro?
2° Banditore: (con un fare serio) La nostra maniera di parlare non è quella di un
extraterrestre né di una diavoleria come tu vai blaterando, ma si adegua al linguaggio dei
personaggi della nostra novella ambientata nel ‘300; perciò, ebete! ti conviene ascoltare
senza più interrompere con altre stupidaggini.
3° Banditore: (continuando a canzonare gli altri due) Le signorie vostre (e fa l’atto di
un grande inchino) illustrissime scusino la mia ignoranza, prometto d’ora in poi (e fa
l’atto di un solenne giuramento) non interromperò più i vostri altisonanti annunci; ve lo
giuro su ... su ... su .... ma su che cosa? Ah, ecco giuro su questo fischietto (tirando di
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tasca il fischietto) che amo più di ogni altra cosa al mondo (e scoppia in una fragorosa
risata.)
1° e 2° Banditore: (guardandosi) Non diamogli retta e continuiamo il nostro lavoro (e
rivolti al pubblico) Ecco il nostro spettacolo.
Scena I
Personaggi: Narratore, Gualtieri, Quattro Sudditi.
Narratore: (entra in scena molto nervoso e cammina avanti e dietro). Uffa, non ce la
faccio più ...! Mi sono scocciato. (poi si accorge della presenza del pubblico, si
ricompone e si rivolge alla platea) Sapete perché mi sono scocciato? Perché Saluzzo, il
mio paesino, potrebbe essere un paradiso se a governarlo non ci fosse un pasticcione, un
fannullone, un buono a nulla che si chiama messer Gualtieri. Non che sia cattivo; ... ma
combina un sacco di guai (e intanto si sente il rumore della rottura di vetro) Sono
sicuro che è proprio lui che sta arrivando (ed arriva Gualtieri); eccolo, che vi dicevo?
Gualtieri: (entrando in scena cerca di mettersi in ordine ed esclama a gran voce) Ma
insomma! in questo castello nulla è al suo posto. Non posso muovermi che rompo
qualcosa, e poi dicono che la colpa è sempre mia! (intanto il narratore si rivolge al
pubblico e con gesti fa capire che tutto quanto ha detto sul marchese è verificabile.)
(intanto il marchese si avvia verso il trono ma viene fermato da quattro sudditi)
1° Suddito: Signor Gualtieri!
Gualtieri: (preso alla sprovvista, pensando che stia succedendo qualcosa di grave,
sfodera la spada colpendo un vaso e spaventando a tal punto i sudditi da farli cadere
per terra; intanto il marchese si siede, i sudditi si alzano, tentano di ricomporsi e il
secondo di loro avanza verso il padrone per parlargli).
2° Suddito: Signor nostro, noi cittadini del vostro feudo, abbiamo pensato che sia
giunto il momento che voi vi sposiate.
Gualtieri: (sorpreso si alza di scatto, ma è costretto a fermarsi perché gli cadono i
calzoni e mentre si china per sollevarseli, sbatte la testa contro un tavolo) Ahi che
botta! Ohi che male ... Ohi ohi ohi che male. Ma che dici? somaro? davvero mi devo
sposare? e perché mai?
2° Suddito: Messere Gualtieri, se un giorno doveste venir meno ... mancare ... insomma
morire (e Gualtieri fa gli scongiuri) nessuno potrà ereditare i vostri beni. Come faremo
noi se uno straniero prendesse il vostro posto? Non ci abitueremmo mai a nessun altro
signore, perché da molto tempo siamo al vostro servizio e voi siete un padrone buono e
generoso.
Gualtieri: (con gli occhi che gli sorridono e, facendo cenno di pensare, batte il pugno
sulla tavola e fa rovesciare delle tazze) Mi sposerò, ho deciso!
Narratore: (rivolto al pubblico) E lo sapevo, ha rotto anche l’ultima tazza del servizio
buono.
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3° Suddito: Noi, messere abbiamo trovato anche la donna adatta a voi.
Gualtieri: (incuriosito) E chi è? La conosco, l’ho mai vista?
4° Suddito: E’ una bella donna, giovane, alta, dai capelli castani, di animo gentile e
generoso, di nome Griselda. La potete vedere ogni mattina alla fonte.
Gualtieri: Evviva Griselda!
I 4 Sudditi: (in coro) Evviva Griselda.
Narratore: Finalmente si sposa.
Scena II
Personaggi: Gualtieri, Narratore, Servo.
Gualtieri: (è solo, cammina per la stanza assonnato, e pensando alla sua futura sposa,
combina anche qualche guaio e ripensando alla descrizione dei suoi sudditi) Capelli
castani ... alta ... generosa ... oh mia adorata (e fa segno di stringerla tra le braccia) non
vedo l’ora di incontrarti. Farò un matrimonio fantastico. Interverranno tutti: feudatari di
alto lignaggio, dame, cavalieri; anche il popolo parteciperà alla mia gioia, suonerà,
acclamerà “evviva messer Gualtieri, evviva madonna Griselda”. La riempirò di gioielli
scintillanti, di vestiti di broccato finissimi. Griselda, però tu dovrai amarmi e servirmi
per tutta la vita.
Narratore: (entrando silenziosamente) Povera Griselda! schiava per tutta la vita.
Gualtieri: Non perderò altro tempo, devo andare a parlare con il padre della mia futura
sposa e oggi stesso deciderò per il mio matrimonio. (e si avvicina al filo del campanello)
Ora chiamerò il mio servo fidato (ma invece di tirare il filo del campanello tira quello
della tenda che cade ricoprendolo interamente e lui grida) Aiuto! aiuto! Chi è stato! chi
è il traditore! Mi vogliono uccidere proprio adesso che ho trovato la mia donna ideale?
Narratore: (rivolgendosi alla platea con aria desolata) Ancora una vittima, la tenda.
Servo: (entra non vede nessuno si guarda attorno, cammina verso la tenda ed inciampa
sul padrone)
Gualtieri: (liberandosi dalla tenda) Ah brutto traditore! dopo che sei stato al mio
servizio per tanto tempo, adesso mi vuoi uccidere.
Servo: (aiutando il padrone ad alzarsi) Messer Gualtieri non sono stato mica io a
ridurvi come una mummia. Voi stesso, da solo vi siete procurata questa ennesima
disgrazia. Avete tirato il filo sbagliato (e a bassa voce rivolgendosi al pubblico) come
sempre.
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Gualtieri: Su, su muoviti, non perdiamo tempo in chiacchiere. Sella il cavallo, presto,
presto! Dov’è la mia spada? dov’è la mia cappa? ... e la mia livrea? (e fa una gran
confusione).
Narratore: (mettendosi le mani tra i capelli e rivolgendosi alla platea) Che baccano!
figuriamoci che cosa succederà il giorno del suo matrimonio.
Scena III
Personaggi: Gualtieri, Giannucole, Griselda.
(A casa di Giannucole, padre di Griselda, i tre siedono intorno ad un tavolo)
Giannucole: Griselda! versa da bere al messere! (tra sé) chissà cosa è venuto a fare?
Griselda: (esce di scena per prendere da bere)
Gualtieri: Giannucole, io sono venuto qui in casa vostra per chiedervi la mano di vostra
figlia.
Giannucole: Messer Gualtieri, ogni vostro desiderio per me è un ordine.
Gualtieri: Tenete conto che anche se voi aveste rifiutato, io ugualmente avrei portato
via con me da questa casa Griselda. Ma dov’è Griselda? Come mai non arriva ancora?
Voglio vederla.
Griselda: (entra e posa un vassoio sul tavolo e mentre va via Gualtieri la osserva).
Gualtieri: (rivolgendosi al pubblico) E’ proprio bella ... è proprio come me l’hanno
descritta i miei sudditi (e rivolto a Griselda la ferma dicendo) Griselda ... certamente vi
meraviglierete, quando avrete saputo il motivo di questa mia visita. Ma sappiate che
ogni cosa che dirò è solamente per il vostro bene. (si alza con il bicchiere in mano e fa
per alzarlo in alto in segno di augurio, ma inciampa sul suo laccio della scarpa
rovesciando il contenuto del bicchiere sul vestito di Griselda).
Griselda: (amareggiata) Oh! avete rovinato il mio miglior vestito.
Gualtieri: Non pensate al vestito. Sposatemi e i vostri armadi ne saranno pieni.
Griselda: Non mi interessa nulla dei vestiti. L’importante è che voi mi portiate rispetto.
Gualtieri: (meravigliato) Rispetto? Ma non siete voi che dovete rispettare me? Io ho
rispetto solamente per due persone: il mio re e mio padre!
Griselda: Perché io non sono una persona?
Gualtieri: Ma cosa c’entra? Voi siete una donna!
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Griselda: E’ vero, sono una donna (e rivolta al pubblico) ma le donne non sono
anch’esse delle persone? (e rivolta a Gualtieri) Che differenza c’è tra l’uomo e la
donna?
Gualtieri: (tra sé) Ma cosa devo dire? questa piccola popolana mi ha messo in
imbarazzo. E’ vero, non c’è differenza tra l’uomo e la donna. Ma per tradizione l’uomo
dà ordini, provvede a proteggere il feudo, il castello e i suoi averi, va a caccia e
provvede all’educazione dei figli. La donna li cresce i figli, esegue gli ordini del marito,
li serve, ricama, cuce, cura il proprio uomo quando è malato, gli prepara squisiti
manicaretti. (rivolgendosi a Griselda) Perché, Griselda per voi non è così?
Griselda: Messere, voi mi avete dato la possibilità di parlare e di questo ve ne sono
grata, per consuetudine le donne devono accettare le abitudini della propria epoca; ma
sappiate che anche noialtre donne abbiamo un cervello che sapremmo far funzionare
forse meglio di voialtri uomini, ma la sorte ci impone di fare diversamente. Sarei anche
disposta ad accettarvi come mio sposo a patto che io vi sia più compagna che schiava.
Scena IV
(Il Matrimonio)
(Gualtieri assicurandosi che Griselda lo sposi, dà segno, col battere le mani che entrino
in scena i cavalieri, le dame e i sudditi. Tutti entrano compostamente: due sudditi
portano un baule contenente l’abito da sposa; altri due un forziere con gioielli, altri in
coppia, fiori. Nell’aria si spande la melodia di un madrigale; Griselda viene vestita e
pettinata, mentre il narratore ne descrive al pubblico i vari passi.)
Narratore: Le pettinarono i capelli, le misero in testa una corona di fiori, la adornarono
con preziosi fermagli. Poi il marchese prese una gemma preziosa e l’infilò all’anulare di
Griselda. (Tutti sfilano lanciando fiori alla sposa.)
(La cerimonia del matrimonio è stata accompagnata dalla musica del madrigale):
“Al’intrada del us clar! eya!
per gioiare commençar! eya!
Vol la regina mostrar qui el es si a morosa.
A la via, a la via, je los je los lais
saz non lais, saz nos ballar entre nos
entre nos.”
Anonimo XII sec.
FINE
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Terzo Anno
Dalla barbarie della guerra alle follie del Cafè Chantan
di Anna Montanaro
PRIMA PARTE
(In casa del cavaliere Esposito)
SCENA I
Personaggi: Narratore, Il cavaliere Alvaro Esposito, Margherita Esposito (sua moglie).
Narratore: L’Europa è dilaniata da una guerra disumana; è la prima guerra mondiale,
quella che gli storici hanno definito “La grande guerra” e siamo giunti alla fine del terzo
anno.
(Siamo nel salotto di casa Esposito, una stimata famiglia della borghesia napoletana ed
accade quanto segue: il cavaliere è intento alla lettura di un quotidiano e la sua
signora a sfogliare una rivista femminile d’epoca quando improvvisamente ...)
Il cavaliere: (Con un fare costernato) Santo Iddio! ... Ma è mai possibile? ...
Margherita: (Tra la meraviglia e lo spavento) Alvaro, per amor del cielo ... cosa
succede ... ancora brutte notizie dal fronte? ...
Il cavaliere: Brutte notizie? ... Bruttissime ... vuoi dire; sì ... bruttissime, purtroppo!
Margherita: (Con voce supplichevole) Oh, mio Dio! (e si alza per avvicinarsi al marito
per leggere).
Il cavaliere: (Con voce concitata) Guarda, guarda qui ... (e le indica la notizia col dito)
Leggi, leggi questa notizia.
Ed entrambi: (con voce accorata) Il Piave colorato di rosso, ma gli italiani non cedono
di un solo passo.
Margherita: (Continuando con lo stesso timbro di voce) Oh poverini, ma per quanto
ancora potranno resistere? Quegli altri sono delle Arpie, delle aquile rapaci e poi di gran
lunga superiori a noi per numero e per preparazione militare.
Il cavaliere: (Sforzandosi di essere rassicurante) Non disperare così, mia cara
Margherita. Hai dimenticato che in noi serpeggia inalterato l’antico valore italico?
Margherita: (Con voce ancora più dimessa) Io non dispero a vuoto; ma sono le
migliaia di vittime che questa guerra ha fatto e continua a fare, a farmi diventare così (e
scoppia a piangere) .... Questa guerra disumana, crudele, questa guerra stupida ed
inutile che ha ucciso anche il mio caro Bruno.
Il cavaliere: (Fa per confortarla) Su, su, componiti! ... fatti coraggio; Bruno, il tuo
povero fratello non è certo l’unica e l’ultima vittima di questa guerra. (e con aria da
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sapiente) Purtroppo queste sono le guerre, si sanno quando iniziano, ma della fine mai.
Speriamo almeno che questa finisca presto e risolva il problema dell’irredentismo.
Margherita: (Beffarda) L’irredentismo ... (con una risatina stizzosa) l’irredentismo! ...
cosa vuol dire irredentismo; vuole solo giustificare la smania egemonica di chi ci
governa. Ma perché ... con un palmo di terra in meno gli italiani non potevano vivere? (e
divenendo ironica) No, nossignore, gli interventisti hanno voluto la guerra ... ed eccoci
qua! (e con voce di pianto) Dicevano che si sarebbe trattato di una guerra lampo ed
invece sono passati circa tre anni e tutto è ancora in discussione.
SCENA II
Personaggi: Margherita, Rosina (la domestica di casa), Il barone Fifì, Il cavaliere
Alvaro.
(Intanto si sente suonare il campanello di casa)
Margherita: (Rivolta ad Alvaro) Chi mai sarà a quest’ora? (e chiama la domestica)
Rosina ... Rosina ...
Rosina: (esce in scena dandosi un’ordinatina) Eccomi! Eccomi signora, cosa desidera?
Margherita: (un po’ risentita) Ma come? ... non hai sentito? ... Hanno bussato!
Rosina: (Con un fare meravigliato) Davvero signora? ... Non avevo sentito, così presa
com’ero per lo stufato.
Margherita: Non ci perdiamo in chiacchiere e sbrigati ad aprire la porta.
(Rosina apre la porta e davanti a lei appare il barone Fifì)
Rosina: (Presa dalla meraviglia) Oh ... sua eccellenza! (fa un profondo inchino,
mortificata e con un fare impacciato) mi scuso, mi scuso se l’ho fatta aspettare ... ma sa
... lo stufato.
Il barone: (Tra l’ironico e il faceto) Sei scusata mia cara Rosina! Lo so, lo so che il
pensiero del tuo moroso lassù, sul Carso, ti tiene in questo stato; perciò ti comprendo.
Rosina: (Riprendendosi, fa l’atto di prendere il cappello e il bastone del barone) Date,
date qui.
Il Barone: (porgendo le sue cose a Rosina) I tuoi padroni sono in casa?
Rosina: (Premurosa) Sì, sono in casa; sono in salotto che discutono. Attenda che
annunci loro la sua presenza.
Il barone: (Con fare scherzoso) Lascia, lascia fare a me! Voglio sorprenderli! Perciò,
non dire niente! (si introduce nel salotto e con voce altisonante) Buona sera, amici miei
cari.
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Il Cavaliere: (un po’ rincuorato) Oh! Quale vento ti ha portato a noi (e alzandosi
stringe la mano che l’amico gli ha porto e poi con una pacca sulla spalla) Adorabile
canaglia!
Il barone: (Rivolgendosi alla padrona di casa) Donna Margherita, i miei più devoti
rispetti (salutandola con un inchino, aggiunge) sempre più bella e più radiosa che mai.
Margherita: (Abbozzando un timido sorriso) E voi sempre più gentile e galante che
mai.
Il barone: No ... con voi la galanteria è fuori luogo. Voi non siete una donna di
spettacolo; voi siete la donna del mio più caro amico e ciò che dico di voi lo penso
veramente.
Il cavaliere: (Intervenendo) Smettila, buffone! (Con un fare confidenziale) volevi farla
arrossire e ci sei riuscito. Intanto che Margherita ci prepara uno dei suoi preziosi
bicchierini, tu mi dirai tutto quello che tu e quei quattro scalmanati fate al circolo,
quando non ci sono.
Margherita: (Con fare manieroso) Allora, barone, un po’ del mio rosolio o un caffè
con qualche pasticcino.
Il barone: (Con galanteria) Fate voi, donna Margherita, perché tutto quanto esce dalle
vostre mani è prezioso.
(E mentre Margherita si allontana)
Il cavaliere: (A bassa voce) Ma per caso, non sei un po’ innamorato della mia consorte?
(e sorridendo) Bada, vacci piano con queste paroline studiate, che Margherita non si
lascia abbindolare tanto facilmente.
Il barone: Stupido! Non fare il geloso! Lo so che con Margherita farei un buco
nell’acqua e poi è tua moglie e questo basta.
(Intanto giunge Margherita con il vassoio che poggia sul tavolo).
Il cavaliere: Da quando sei qui, ancora non ci hai detto niente di serio; hai notizie del
salone Margherita? Se sì, raccontaci qualcosa.
Margherita: (Rivolta al marito) E invece sarebbe il caso che desse qualche notizia dal
fronte, se ne ha; per le frivolezze del salone Margherita c’è sempre tempo, non ti
sembra?
Il Barone: Giusta osservazione! Faremo così, diremo prima cose serie e poi le frivole,
vi va? ... (e continuando) Giusto adesso vengo proprio dal salone Margherita e mezz’ora
fa, ho sentito insieme ai soliti amici l’ultimo dispaccio di guerra e a leggerlo era proprio
il ministro della difesa in persona; il quale recitava tali testuali parole: arruolamento di
reclute della classe ‘99 allo scopo di potenziare le nostre linee difensive per passare al
contrattacco.
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Il cavaliere: (Preso dal discorso) Sana decisione, così finalmente vedremo la fine di
questa orribile guerra! E ce la faremo vedere noi a quei fantocci di legno!
Margherita: Come sana decisione? ... Ma ti rendi conto delle idiozie che vai
blaterando? Ti sembra questo il modo di fare la guerra? Fare questo ... significa mandare
al macello tanti figli di mamma, ancora bambini che non hanno varcato la soglia della
giovinezza. Lo capisci? essi sarebbero dei soldati bambini che senza sapere né come, né
quando, né da chi, né perché andrebbero incontro a morte sicura. E noi accettiamo
passivamente una cosa del genere? Le tante morti innocenti bastano? Ancora non hanno
insegnato niente?
Il cavaliere: Calmati, calmati tesoro mio! queste sono cose bellissime, umanissime, se
vuoi, ma non certamente sentite dalla ragion di stato; essa sente solo la terribile legge
che a mali estremi, estremi rimedi.
Il barone: Sono cose che fanno male, ma non c’è via di scampo, purtroppo è così che
deve andare. Si spera solo che questo sia il nostro ultimo sacrificio.
Margherita: (Risentita e ironica) Certamente non vostro, né del mio consorte, neppure
mio che intanto siamo solo qui a parlarne davanti a pasticcini e bignè.
Il cavaliere: (Sdrammatizzando) Mio caro Fifì, forse è meglio se voltiamo pagina; ci hai
detto prima che ci avresti parlato di cose serie e di frivolezze. Dunque quali sono queste
frivolezze? E del Salone Margherita che ci dici?
Il barone: (Cambiando tono) Se sei proprio tanto curioso di sapere, perché non vieni al
circolo anche tu e lì saprai delle grosse novità di cultura, di spettacolo, di cui si discute
in questi giorni. Non aggiungo altro, ma per accrescere la tua curiosità e a spingerti ad
uscire di casa, una cosa te la voglio proprio dire; sai il poeta, il “divino” poeta ad una
intervista per un giornale si è lasciato scappare che scriverà per il nostro circolo una
raccolta di liriche e che pubblicherà anche sulla nostra rivista mensilmente. Ed ora non
chiedermi altro (e fa l’atto di guardare l’ora dall’orologio preso dal taschino) si è fatto
tardi, è proprio tardi; credo proprio che sia il caso di togliere il disturbo (e fa l’atto di
andar via, ma rivolto ad entrambi i coniugi) però amici miei, vi aspetto al circolo;
Alvaro, hai inteso? Ho detto vi aspetto e lo sottolineo, perciò tengo anche alla presenza
di Margherita, così anche lei avrà occasione di conoscere la nostra brigata.
Il cavaliere: (Accompagnandolo e con voce di compiaciuta rassegnazione) D’accordo!,
verrò, verrò e con me ci sarà anche Margherita (e a bassa voce) così avrà occasione di
distrarsi un po’ perché ancora non si è riavuta dalla morte di Bruno.
(Il barone va via e Rosina annuncia che tutto è pronto in tavola)
Rosina: Signora! Tutto è pronto, aspetto che mi dà ordine di portare in tavola.
Margherita: (Rivolto al marito) Hai appetito o aspettiamo un altro po’?
Il cavaliere: Sì, sì fai portare in tavola; stasera ceniamo un po’ prima e poi se ne hai
voglia, usciamo un po’.
Rosina: E allora subito sarà fatto; a tra qualche minuto tutto è pronto (ed esce).
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(I due coniugi si avviano verso la sala da pranzo).
(Durante l’intervallo più voci, alternandosi, declamano fuori campo gli ultimi eventi di
guerra).
Prima voce: Dopo i terribili giorni di Caporetto, a capovolgere le sorti per la
quadruplice intervengono gli Stati Uniti e gli imperi centrali vengono ripetutamente
sbaragliati, gli austriaci a Vittorio Veneto; a Compiègne i tedeschi dai francesi; questa
mostruosa guerra era veramente finita.
Seconda voce: A distanza di qualche mese le forze belligeranti vittoriose siedono al
tavolo della pace a Parigi per dare all’Europa un nuovo ordinamento politico.
Prima voce: E per gli italiani che tanto animatamente avevano partecipato a questa
guerra si decise solo l’annessione del Friuli-Venezia Giulia e del Trentino, concludendo
così l’unificazione dell’Italia.
Terza voce: Tale decisione spinse gli italiani nel più completo malcontento perché
alcune città della Dalmazia e dell’Istria, tra cui Fiume, abitate da italiani, furono cedute
alla Jugoslavia.
Quarta voce: Ma a rendere giustizia della Nemesi storica, ci pensò il nostro vate,
Gabriele D’Annunzio, che già distintosi eroicamente nell’ultimo bombardamento su
Vienna, nel fatidico giorno della conclusione della guerra, insieme a pochi ardimentosi
amici nazionalisti, volò su Fiume occupandola.
Prima voce: E così, grazie al generoso gesto del nostro poeta.
Seconda voce: Fiume.
Terza voce: Come l’Istria.
Quarta voce: E la Dalmazia.
Le quattro voci in coro: Furono (molto lentamente) inevitabilmente italiane!
SECONDA PARTE
“Al Salone Margherita”
I SCENA
Personaggi: Il barone Fifì, Donna Eleonora, Mademoiselle Lillì, Vincenzino il barista.
(Ai tavolini del salone Margherita la borghesia si intrattiene a discutere mentre
sorseggia un caffè e gusta un pasticcino, quando improvvisamente il barone chiama il
barista)
Il barone: Vincenzino ... Vincenzino ...
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Vincenzino: (Fa il suo ingresso quasi correndo) Eccomi, eccomi eccellenza, che cosa
posso servire?
Il barone: Vincenzino! Segna cosa prendono le signore e bada a non essere sbadato
come sempre.
Vincenzino: Non si preoccupi (e intanto tira dalla tasca un blocchetto ed un lapis) sarò
attento! (e rivolto alle signore) Ed allora?
M. Lillì: A me ... (quasi pensandoci) a me ... una limonata ... una limonata ghiacciata!
Questo caldo è proprio insopportabile. Quest’anno, dicono che avremo un’estate ...
torrida.
Vincenzino: (Rivolto a donna Eleonora) E a voi, signora?
D. Eleonora: Sì, anche a me ... qualcosa ... di fresco ... di molto fresco (e indugia).
Vincenzino: Se vuole ... le suggerisco io qualcosa di molto fresco e di assolutamente
ottimo; uno sciroppo di ananas al rum e alla ciliegia. Le assicuro ... è proprio buono.
D. Eleonora: Veramente ... non la conosco questa bevanda; ma se ...
Il barone: Si fidi, si fidi del garçon! è un po’ sbadato, ma sa il fatto suo e conosce il suo
mestiere.
Vincenzino: (Con enfasi) E’ una bevanda ... esotica e viene dalle Bahamas, che solo
noi, al salone Margherita, modestamente conosciamo e di cui andiamo fieri. Infatti il
Vate, come voi lo chiamate, quando ha desiderio di questa bevanda, da Gardone viene
apposta qui a Napoli; perciò ... può stare tranquilla. (e poi rivolto al barone) E per voi
eccellenza?
Il barone: Per me (con aria di sufficienza) il solito caffè, amaro e bollentissimo.
Vincenzino: (Con un pizzico di malizia) Non ci saranno problemi, lo preparo io stesso
e, se me lo consente, con il crisma delle tre C (e fa per abbozzare un sorriso).
II SCENA
Personaggi: L’impresario Donnarumma, Donna Eleonora, Mademoiselle Lillì, Il
Barone Fifì, L’avvocato Cacciapuoti, La signora Cacciapuoti.
(quando improvvisamente entra in scena l’impresario Donnarumma eccitato e
raggiante)
Impresario: (Con foga) Amici ... amici miei! Ho una notizia ... una notizia sensazionale
da darvi.
D. Eleonora: (sbigottita) Parli, parli di che si tratta?
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M. Lillì: (Un po’ spaventata) Per amor del cielo, non ci tenga in ansia!
Il barone: Cosa c’è di tanto straordinario, ci racconti!
Impresario: Sì, sì ... ma non so io stesso da dove incominciare ... sono troppe le cose
che ho in mente e che vorrei dire tutte nello stesso momento, e perciò mi riesce difficile
parlare ... (e rivolto all’avvocato Cacciapuoti seduto ad un altro tavolo insieme alla
moglie) Avvocato, avvocato Cacciapuoti, venga a sedersi qui a questo tavolo, così
ascolterà pure lei e anche lei potrà consigliarmi. (E rivolto alla signora Cacciapuoti)
Venga, venga si unisca al nostro tavolo! Mi scuso se sono stato un po’ sbadato! Lo so,
mi sarei dovuto rivolgere prima a lei, ma sono troppo ...
S.ra Cacciapuoti: (Alzandosi accompagnata dal marito) Lasci stare, non si scusi,
abbiamo compreso che è preso da troppe cose.
Avv. Cacciapuoti: (Avvicinatosi al tavolo) Di che cosa si tratta? Hanno arrestato il
brigante Musollino?
Impresario: No ... non aggiunga altro; non mi faccia deconcentrare, né perdere tempo
(e rivolto a tutti, con enfasi) La notizia che ho è questa: qualche ora fa, il Ministro della
Difesa ha annunciato che intende decorare con una medaglia al valor militare il nostro
poeta, per le sue straordinarie doti di combattente, mostrate nelle due eccezionali
imprese: bombardamento su Vienna e occupazione di Fiume ed ha aggiunto che, per
rendere più splendida questa manifestazione, di comune accordo con il Ministro dello
Spettacolo, ha decretato che in tutti i teatri italiani ci saranno rappresentazioni delle sue
più importanti opere.
D. Eleonora: (Ammirata) Oh! non poteva portarci notizia più bella!
M. Lillì: (Eccitata) Oh ... il poeta D’Annunzio (e sospirando) che uomo straordinario ...
che uomo meraviglioso ... ha un qualcosa che non saprei definire ... è ... è affascinante ...
galante ... rubacuori ... sensuale ... e poi ... quella ferita, riportata in quel famoso duello,
lo rende ... come dire, ancora più virile ...
Impresario: (Interrompendo il suo discorso) Su, su non divaghiamo ... gli
apprezzamenti dell’uomo li facciamo in altre occasioni. Riprendiamo il discorso
interrotto; io, no, anzi Napoli ... cioè ...
Il barone: Caro Donnarumma ... non si impappini ... cosa intende fare?
Impresario: Ecco! Avrei pensato di preparare per questa grande occasione anch’io uno
spettacolo e Napoli in questo non sarà certamente da meno alle altre città e lo spettacolo
io avrei pensato addirittura qui nel nostro amato salone Margherita. Perciò è solo
questione di organizzazione.
Ayv. Cacciapuoti: Questa si che è un’idea! Bene ... bene ... mi pare proprio una buona
idea e, per realizzarla, penso che non ci saranno difficoltà; purché si proceda per gradi e
non ci si lasci prendere né dall’agitazione e né dall’improvvisazione.
Il barone: Dobbiamo preparare uno spettacolo (e schioccando le dita) mozzafiato ...
che tutti ci dovranno invidiare.
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Impresario: (Animato) Ma come?
Avv. Cacciapuoti: (Con un fare da uomo vissuto, mentre si alza) Se possono servire i
miei consigli, io ... la vedrei così:
Articolo uno ... non badare a spese; ingaggiare quindi i nomi più prestigiosi dello
spettacolo in tutte le sue forme: del bel canto, della rivista e dell’arte drammatica;
Articolo due: ... stabilire il tipo di spettacolo da tenere, se di varietà o di teatri
impegnato; Articolo tre: ... indicare, anche se con approssimazione, il periodo in cui
avverrà la rappresentazione.
Impresario: (Raggiante ed eccitato e facendo l’atto di baciargli le mani) Sì! ... grazie
... grazie; lo sapevo, ... lo sapevo che lei mi sarebbe stato di aiuto; che dico ... che mi
avrebbe illuminato! ... (e più eccitato che mai) terrò in massima considerazione i suoi
consigli. Anzi ... essi saranno per me un decalogo. Non baderò a spese, ingaggerò la ...
Lina Cavalieri ... la Bella Otero ... la Fuchè e perché no la stessa Eleonora Duse, la musa
ispiratrice del vate. Tutte ... tutte quante ... tutte insieme nello stesso spettacolo; costi
quel che costi ... non m’importa quanto spenderò; (pausa) il salone Margherita (con
enfasi) supererà la gloria dell’Opera di Parigi.
Il barone: Caro Donnarumma si calmi, si calmi!
D. Eleonora: Per il momento stiamo solo alle ipotesi, perciò si calmi e penso che sia il
caso di riflettere sul da farsi.
Il barone: Giusta osservazione! Ascoltiamo le donne che, tutto sommato, dovranno
essere loro ad osannare il loro idolo. Perciò è bene che siano loro a scegliere il tipo di
spettacolo da tenere.
M. Lillì: (In atteggiamenti vezzosi) In quanto a me, io darei una rappresentazione di una
sua opera ... che so ... potrebbe essere ... La Francesca da Rimini ... sì ... La Francesca da
Rimini ... perché è un dramma che ha sempre appassionato gli innamorati di ogni epoca;
oppure ... perché no ... Il Piacere ... che è il romanzo dal quale traspare più di ogni altro
la filosofia estetizzante di vita del poeta. Oppure ancora ...
D. Eleonora: Ed io non sono affatto d’accordo per un siffatto spettacolo. Io sarei per
uno spettacolo meno impegnato, ma di maggiore effetto ... per un tipo di spettacolo più
immediato ... più alla portata di tutti. Io la vedrei magari così ... uno spettacolo di varietà
con la partecipazione non solo di nomi prestigiosi ... quelli citati dall’impresario ... sì ...
su quelli siamo tutti d’accordo perché sono mostri sacri e di grande effetto. Ma insieme
ad essi vedrei anche figure nostrane e tanto apprezzate dal pubblico del salone
Margherita. Sono insomma per uno spettacolo ... come dire ... più democratico. Una
rappresentazione impegnata come suggerita da Mademoiselle Lillì non riscontrerà i
consensi del pubblico! E poi la gente ora vuole divertirsi ... vuole dimenticare gli orrori
della guerra. Io ... così la penso.
Il barone: Sì, donna Eleonora ha perfettamente ragione e, come al solito, ha colpito nel
segno. Devo ammettere che la sua idea mi piace! Però ... (in atteggiamento di
preghiera) chiedo venia per la bizzarria che mi salta in mente ... non mi dispiacerebbe
vedere nello spettacolo anche qualche donna degli amici del salone Margherita.
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S.ra Cacciapuoti: (Eccitata) Sì, io ci starei; io vi parteciperei; magari reciterei alcune
liriche come “La pioggia nel Pineto” oppure altre dalla raccolta dell’Alcyone ... potrei ...
anche ballare (e si alza iniziando qualche passo di danza).
Avv. Cacciapuoti: (Risentito) Barone Fifì ... ma cosa le salta in mente? ... Le donne del
nostro circolo, sono persone di cultura, non di spettacolo. (E poi rivolto alla moglie)
Smettila con queste idiozie che vai dicendo; possibile che questa tua smania di recitare
non si è mai sopita? Eppure non sei più una giovanetta!
S.ra Cacciapuoti: (Piena di livore e a denti stretti) Come al solito, ... il solito villano!
... Tu non eviti alcuna occasione per mostrare la tua inutile gelosia.
Avv. Cacciapuoti: Lo vedi, lo vedi che sei assurda?
Il barone: Su, su via ... non è il caso di prendervela ... abbiamo cose più serie su cui
discutere! Anzi, forse è il caso di fare un po’ di intervallo e poi riprendere il discorso più
serenamente. E’ da tempo che è stato ordinato e Vincenzino ancora non si è fatto vivo.
(e chiama) Vincenzino ... Vincenzino...
Vincenzino: (entrando in scena) Mi scuso, ma vi ho visti troppo presi e non mi è parso
il caso di interrompervi.
Il barone: Non ci perdiamo in chiacchiere; chiedi anche all’avvocato, alla sua, signora e
all’impresario cosa desiderano; così tutti insieme prendiamo qualcosa e poi via a casa
perché si è fatto proprio tardi. Della faccenda discutiamo un altro giorno.
Vincenzino: Signor impresario, cosa prende?
Impresario: Sono di gusti semplici, un caffè, un caffè solamente.
Vincenzino: E lei, signor avvocato?
Avvocato: Io invece un’acquavite! prenderei pure io un caffè, ma è già tardi e non
dormirei. Perciò un’acquavite (e rivolto alla moglie) e tu cosa prendi?
S.ra Cacciapuoti: Io ... prenderei ... qualcosa di fresco ... un sorbetto forse ... forse no; è
tardi e mi bloccherebbe l’appetito.
Vincenzino: Forse so io cosa andrebbe per lei! uno sciroppo alla menta?
S.ra Cacciapuoti: Mi va proprio bene.
(Vincenzino esce di scena e riappare dopo qualche minuto con un grosso vassoio
contenente i vari ordinativi. Tutti prendono quanto è stato ordinato e mentre lo
consumano cala il sipario).
Terza Parte
(Serata d’onore per il Vate)
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Personaggi: Voce fuori campo, Presentatrice, 1° Cantante, 2° Cantante, 1° Attore, 2°
Attore, 3° Attore, Chantosa, Vate
Voce fuori campo: E alcuni mesi dopo, vediamo cosa sta a succedere.
(Il salone Margherita è preparato con particolare cura; i tavolini, attorniati da un
pubblico raffinatissimo, sono coperti da tovaglie finissime ravvivate dalla luce soffusa
di abajour che creano un’atmosfera di morbido incanto; cesti di rose rosse alternati a
corbèilles di glicini azzurri emanano un profumo inebriante; quando, al suono di una
lenta e appassionata canzone d’epoca, tra gli applausi degli spettatori, si alza il sipario
e fa la sua apparizione una deliziosa signorina che annuncia l’inizio dello spettacolo.
Ella ha in mano un foglio su cui è segnata la scaletta della serata.)
Presentazione
Presentatrice: Qui, dal palcoscenico del nostro prestigioso salone Margherita, signore e
signori, vi porgo il mio più felice buona sera!
Pubblico: (applausi)
Presentatrice: Questa sera è una serata particolare; il salone Margherita, (e con un gesto
indica la sala) come potete notare, è più scintillante che mai perché si prepara a
festeggiare il poeta più amato, più ammirato ed osannato dei nostri giorni, (e con enfasi)
il grande (scandendo le sillabe) ... Gabriele d’Annunzio.
Pubblico: (uno scroscio di applausi)
Presentatrice: (Soddisfatta e con un velato gesto di interruzione) Il Vate dell’invisibile
... del divino ... insomma il Dio vivente della musicalità poetica. Quando il Ministro
della Difesa decise di decorare il poeta combattente per il suo coraggio mostrato nella
rischiosissima impresa su Vienna, il Ministro della Pubblica Istruzione, di concerto con
quello dello spettacolo ... pensò che era il caso di esaltare, perché no, anche le sue doti
di poeta; e bene ha fatto. Ed ora siamo qui a tributargli gli onori dovuti.
Pubblico: (Applausi).
Presentatrice: Non vorrei dilungarmi sulle doti del poeta di cui tutto si sa; intendo dare
solo qualche indicazione (e guarda il foglietto che ha in mano) della serata e poi di
corsa dietro le quinte per dare spazio a chi più di me saprà onorare il nostro poeta. La
serata avrà tre momenti; la prima avrà uno spazio canoro, riservato alle più belle
canzoni melodiche conosciute, la seconda dedicata ad un angolo culturale in cui saranno
recitati versi dalle più note raccolte di liriche del poeta ed infine la terza da uno sfrenato
... Can-Can che sprigionerà la passionalità di cui noi donne siamo capaci. Ed ora signori
e signori a voi il primo cantante con la canzone “Parlami d’amore Mariù” di Neri e
Bixio. (ed esce di scena)
1° Cantante: (Nella interpretazione della canzone “Parlami d’amore Mariù”).
Pubblico: (Applausi mentre il 1° cantante esce di scena)
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Presentatrice: Inebriati da siffatta dolcezza di tanta musicalità, ci prepariamo ad
ascoltare un altro grande pezzo ... ed ecco a voi, signore e signori nell’interpretazione
del 2° cantante della canzone “Come pioveva” versi e musica di Armando Gigli. (Ed
esce di scena)
2° Cantante: (tra gli applausi del pubblico e recante un grosso ombrello aperto
nell’interpretazione di “Come pioveva”).
Pubblico: (applausi mentre il secondo cantante esce di scena)
Presentatrice: Ed ora, con il cuore rapito dalle note di questa delicata e struggente
canzone, passiamo alla parte musicale; ed ecco a voi, Signore e Signori tre giovani
promesse dell’Accademia dell’Arte drammatica si cimenteranno alternandosi nei versi
delle più belle liriche dannunziane. (e lentamente)
Dall’Alcyone:
Sera fiesolana;
La pioggia nel pineto;
Pastori d’Abruzzo.
Tre attori: (si alternano nella recita dei versi delle liriche citate e, dopo la loro
interpretazione, tra gli applausi del pubblico, escono di scena.)
Presentatrice: Ed ora, a conclusione della serata, una ironica ed ammiccante canzonetta
... Lilì Cangì nella interpretazione della sfrenata, Creola, chantosa del nostro salone
Margherita; e per finire, in pompa magna ... il balletto (e molto lentamente) del ... CanCan. (ed esce di scena tra gli applausi del pubblico)
Creola: (La chantosa nell’interpretazione di Lilì Cangì e, alla fine di essa tra applausi
e fischi del pubblico esce di scena.)
Pubblico: (Estremamente preso dall’interpretazione, si alza in piedi e alterna fischi,
applausi ad apprezzamenti ammiccanti).
Balletto: (Le ballerine nell’esecuzione del Can-Can).
Presentatrice: Ed ora che questa meravigliosa serata è veramente finita, non possiamo
andar via da qui senza invitare, qui sul palcoscenico, il nostro Vate, che avrà la bontà di
lasciare il suo tavolo e ringraziare di persona questo caloroso pubblico.
Vate: (Alzandosi dal tavolo, tra gli sguardi del pubblico ammirato, si dirige verso il
palco e fa la sua apparizione tra gli applausi del pubblico) Le mie parole potrebbero
solo sciupare uno spettacolo così bello, di cui avrò sempre in me un vivo ricordo, vorrei
solo rivolgere uno struggente ringraziamento a “quell’animale” ... dolce ed irresistibile;
nobile e plebeo; casto e sensuale; infernale e celestiale che è ... (con enfasi) la Donna ...
origine e motore del mondo. Perciò, signore, questo vostro servo a voi si inchina, voi
muse della sua arte e a voi gioia e sorriso della vita il mio universale abbraccio.
Pubblico: (In delirio e in piedi calorosamente applaude).
FINE
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L’anno successivo, iniziava per me il sesto anno di insegnamento presso questa scuola
da cui andai via per passaggio di cattedra per insegnare alla scuola media superiore. In
quest’anno fu ideato e rappresentato “l’Italia in folclore”, un lavoro che, tramite canti e
balletti tradizionali, descriveva il divario tra Nord e Sud d’Italia. Con questo lavoro di
nuovo la scuola prese parte ad un concorso nazionale dal titolo “Quarta rassegna di
teatro, musica, canti e danze popolari” terminato con premiazioni ed attestati di merito
per la scuola, docenti organizzatori ed allievi.
L’Italia in folclore
di Anna Montanaro
Personaggi: Paola, Bruno, Vincenzo, Gerardo, Antonio, Aniello.
Parte I
(Un gruppo di scolari esce da scuola commentando ciò che è stato fatto in classe e ciò
che si dovrà fare il giorno successivo)
Paola: Uffà che noia! La stessa lagna.
Bruno: Come lagna, a cosa ti riferisci?
Paola: All’interrogazione di geografia!
Vincenzo: E così la definisci?
Gerardo: Ha parlato l’intelligentone!
Aniello: E sentiamo che cosa sarebbe per te?
Paola-Bruno-Gerardo: (all’unisono) Sentiamo, sentiamo!
Vincenzo: Non voglio rispondervi; siete una massa di ignoranti! ha ragione la signora a
chiamarvi bestie. Ora me ne vado da solo e mai più studierò con voi (e si stacca dal
gruppo).
Antonio: Lo avete fatto arrabbiare! Perciò chiamatelo; anzi, (e rivolto a Gerardo) tu ne
sei stato la causa e tocca a te richiamarlo.
Gerardo: (con voce di pazienza) E va bene ... lo richiamerò per il bene della comunità;
ma vedo che sta già troppo lontano e non mi va proprio di rincorrerlo; però vi, assicuro
che domani gli chiederò scusa.
Bruno: (rivolto a Paola) Lagna o non lagna, non fare scherzi; studia piuttosto ... ed
anche parecchio perché quella non scherza ... ha detto che domani interrogherà te e,
allora stanne certa che quella domani verrà proprio con questa intenzione.
Paola: (rassegnata) Sì! purtroppo lo so! Lo so che per me non c’è scampo.
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Antonio: Ma la odi tanto la geografia? Eppure è una materia così interessante; come
mai la senti così difficile?
Paola: Ma non è come dici! Anzi tutt’altro; la amo moltissimo! Lo so che è
interessante; .... però .... come dire .... forse non mi so spiegare ... non mi piace come mi
viene presentata ... la maniera con cui siamo costretti a studiarla.
Antonio: (rivolto a Paola) Ma che vorresti cambiare la scuola? Hai in mente forse un
nuovo metodo per studiare la geografia?
Gerardo: (ad Antonio) Stai zitto che parli come loro! forse ho capito a cosa allude la
signorina e capisco anche il suo rifiuto ... però non me la sento di appoggiarla.
Bruno: Su via! stiamo dando tanto peso ad un momentaneo capriccio di Paola, tanto da
farla apparire una innovatrice.
Paola: (risentita) Chi ti dice che io sia una innovatrice! Io sono una che se non sente
una cosa, lo dice ed anche chiaramente. Perciò dico e ritengo che per me è arretrato il
modo con cui ci fanno studiare la geografia. Stiamo alle soglie del duemila e la
geografia ce la fanno studiare ancora come la studiavano i nostri nonni; che dico ...
quelli forse erano più aggiornati di noi. E continuiamo ancora con carte geografiche e
nelle migliori delle ipotesi con qualche diapositiva.
Antonio: Ma insomma, spiegati! Cosa hai in mente?
Paola: Andiamo a casa mia e allora vi farò vedere come vorrei studiare la geografia e
come tutti conoscessero questo mio modo.
Gerardo: Perché qui per istrada è proibito ascoltare le tue idee? Su via parla!
Bruno: (a Gerardo) Non fare lo spiritoso perché miss Paola si innervosisce.
Paola: (con aria di superiorità) La vostra ironia non mi tocca e per dimostrarvelo,
proprio qui vi dirò cosa ho in mente. Io abolirei libri di testo, atlanti geografici,
diapositive; queste sono cose passate. Per conoscere la geografia, bisogna fare viaggi,
tanti viaggi; visitare luoghi lontani; conoscere usi, costumi, parlate e tradizioni delle
genti che abitano la nostra terra.
Antonio: (rivolto a tutti) Eppure non mi aspettavo che Paola avesse in mente cose così
nuove. Per quanto mi riguarda, trovo queste cose affascinanti, ma non possibili da
realizzare. E allora incominciamo a studiare il nostro paese, a conoscere le nostre
regioni, così come dice Paola; ma da dove incominciare, cosa fare?
Paola: (contenta) Andiamo a casa mia! ci state?
Tutti insieme: (in un urlo) Sì che ci stiamo ... siamo curiosi di conoscere cosa ti frulla
per la mente. (ed escono di scena).
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Parte II
(Alla partecipazione del lavoro ci sarà tutta la classe e pertanto ai ragazzi che hanno
recitato nella prima parte se ne aggiungono altri impegnati soltanto in questa seconda
parte).
(A casa di Paola si decide di studiare L’Italia in maniera nuova con danze e balli
folcloristici di alcune regioni italiane; i ragazzi sono divisi in quattro gruppi, vestiti con
calzamaglie di colore nero, con tanti nastri di diversi colori e con tanti campanelli
legati ai polsi e alle caviglie, danzano e cantano sulle note della canzone: Cicerenella;
mentre due ragazzi portano in scena la regione Campania disegnata su un grosso
pannello; per rappresentare l’Italia Settentrionale si esibiranno sulle note del Canto
delle mondine mentre viene portata in scena la regione Lombardia; ed infine gli stessi a
coppie distribuiscono alla platea fiori e prodotti caratteristici presi da grossi cesti.)
FINE
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(Era una prima media). Naturalmente in tali lavori c’è stata la partecipazione di più
docenti, ma essi sono stati ideati e particolarmente seguiti dal nascere alla loro
realizzazione dalla sottoscritta e, a conti fatti, a distanza di tempo, sono più che convinta
che il bilancio educativo derivatone, è stato essenzialmente incoraggiante perché esso fu
testimonianza del raggiungimento degli obiettivi programmati come:
Educazione alla socialità;
“
all’ascolto;
“
all’attenzione;
Migliorare le cadenze dialettali;
Potenziare le capacità di memorizzazione;
Superare l’innata timidezza, tipica della fase puberale;
Frenare gli eccessi della impulsività.
In questi sei anni dedicati al teatro, ho voluto scegliere sempre argomenti con risvolti
sociali col proposito di educare col suo ausilio, nei ragazzi una coscienza sociale che
consentisse loro una lettura più ravvicinata della loro realtà.
Da allora sono passati circa dieci anni, quando col pensiero ritorno indietro, rivedo tanti
visi di ragazzetti un po’ spaventati prima della loro uscita sul palcoscenico, ripenso
alcuni a me aggrappati e poi li rivedo al termine della recita, rapiti da una gioia
irrefrenabile. Di tanti di essi, rivedo ancora alcuni, quelli che mi sono rimasti
particolarmente affezionati e a distanza di tempo, quando vengono a trovarmi a casa, mi
parlano ancora delle loro paure, delle loro ansie da cui erano assaliti prima dell’uscita in
scena e spesso mi riferiscono dei particolari e delle circostanze che a me allora erano
sfuggiti. Ed io, in silenzio, presa dai loro racconti, mi sento dentro una commozione che
cerco di nascondere, ma sento che sto bene con me stessa perché mi sento ripagata da
tanti sforzi e incomprensioni che ho dovuto affrontare e superare e proprio da questi
dettagli sono pervenuta alla convinzione che il teatro è realmente un potente mezzo
didattico insostituibile.
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Teatro nella scuola media superiore
I primi tentativi
Nell’anno scolastico 1989/90, come già menzionato precedentemente, feci il mio bravo
ingresso nella scuola media superiore. Era un istituto tecnico; quell’anno in questa
scuola ci fu un sensibile cambiamento di docenti di lettere, molti andarono via per
trasferimento, alcuni per compimento di limiti di servizio, lasciando più posti vacanti a
noi di nuova nomina. Il preside di questa scuola, anche lui arrivato di fresco, ebbe una
bella gatta da pelare per assegnare le cattedre di lettere perché le richieste maggiori
erano per il triennio che erano di numero inferiore, mentre quelle per il biennio erano
meno gettonate. Comunque non sono a conoscenza di come si sia operato per
l’attribuzione delle cattedre, ricordo solo che ebbi un breve dialogo col preside circa le
mie referenze delle mie esperienze didattiche nella scuola media superiore; il “provino”
andò bene, le mie parole furono convincenti ed eccomi accontentata, perché anch’io
avevo fatto richiesta per insegnare al triennio.
Non so se fu fortuna o sfortuna che mi sia capitato un corso, la cui cattedra di lettere era
stata ricoperta da una docente che andava per la maggiora per le sue doti di ottima
letterata. Quindi subentrare a siffatta persona, non era da poco ed una responsabilità non
di poco conto. Io ce la misi tutta, ricordo che trascorrevo delle ore a riprendere testi di
storia, letteratura e critica letteraria; ma ben presto mi resi conto che il gioco non valeva
la candela, gli allievi del corso a cui fui destinata non possedevano neppure un testo di
letteratura ed io pretesi che l’avessero. Iniziò da qui il mio impegno per trascinare questi
ragazzi verso lo studio delle materie umanistiche, del tutto trascurate in un istituto, dove
per un distorto convincimento, le discipline da studiare erano solo quelle di indirizzo,
delle altre si poteva fare anche a meno.
Nonostante questo handicap iniziale, ricordo di non aver subito particolari traumi,
perché i ragazzi che mi furono assegnati erano docili ai richiami educativi e, sebbene
disavvezzi allo studio delle materie umanistiche, non mostrarono reticenza verso di
quelle. Io, devo ammetterlo, una certa paura me la sentivo dentro perché il confronto
con la docente precedente mi spaventava, ma riuscii a conquistarli, con uscite a teatro,
con visite guidate ed il resto venne da sé.
Già in questo primo anno era balenata in me l’idea di fare teatro anche qui, ma avevo le
idee confuse, non sapevo se era o meno il caso e poi dovevo trovarmi le motivazioni
giuste. In questo tentennamento decisi di aspettare; pensai che sarebbe stato meglio
guardarmi intorno, conoscere bene l’ambiente, capire cosa io volevo realmente dai
ragazzi. Ed intanto l’idea del teatro venne accantonata almeno per quell’anno, senza
però trascurarne occasioni per tirarne in ballo la sua efficacia, come potente mezzo di
cultura.
In questo primo anno, quando se ne è presentata l’occasione, più volte mi sono imposta
di accompagnare gli allievi a teatro; naturalmente stando attenta a fornire loro le
indicazioni che ritenevo più utili per una lettura idonea del lavoro rappresentato. La cosa
non finiva li, perché in classe si continuava a discutere su quanto visto solleticando in
loro una certa curiosità per il teatro. Ma per quell’anno ci siamo limitati solo a questa
sfera; l’anno successivo poi si è potuto intervenire diversamente, organizzando la prima
esperienza di drammatizzazione. L’ingresso di tale attività inizialmente fu casuale, priva
completamente di qualsiasi programmazione; mi viene quasi da dire che essa venne
fuori da sé quasi naturalmente e da una libera discussione nata in classe da allievi di una
quarta che qualche giorno prima aveva assistito alla rappresentazione della “Tempesta”
di Shakespeare; la grandiosità dell’opera, lo scintillio delle scene, la maestria
59
dell’interpretazione degli attori, dovettero così incuriosire gli allievi che per giorni, tra
una lezione e l’altra, richiamavano sempre alla loro memoria un particolare del lavoro
visto. Allora io pensai che i tempi erano maturi per tentare l’esperienza teatrale e per
accrescere in loro la curiosità per il lavoro visto, intervenni nei loro discorsi e spostai
l’attenzione dalla visione del lavoro al suo autore. E come per incanto, senza tenere
nessuna lezione cattedratica, i ragazzi compresero la perfetta sintonia esistente tra
letteratura e teatro. Questa esperienza servì a chiarirmi la motivazione per tentare in
questa scuola di fare teatro. E, come si suole dire, il ferro va battuto quando è rovente,
volli subito dare alla classe un esempio di come la letteratura sia spesso oggetto di opere
teatrali.
In quel periodo si stava studiando Machiavelli, quindi questo autore cadeva proprio a
fagiolo; e perché non tentare proprio con questo autore? Così, fu scelta una delle sue
opere più note: la “Mandragola”. E per dimostrare la sintonia tra letteratura e teatro, non
potevo fare diversamente; però sapevo anche che la posta in gioco era molto alta, si
trattava di un’opera difficile e cimentarsi proprio con essa fu proprio da temerari. Ma
come sostenevano i latini “la sorte aiuta i coraggiosi”, contavo molto che sarebbe
apprezzato il coraggio mostrato, perché di coraggio ce ne volle molto. Naturalmente
occorse una rivisitazione generale dell’opera in quanto essa non poteva essere
rappresentata in fiorentino del Cinquecento, così come era in originale; in questo modo
sarebbe stata inevitabilmente un fiasco e quindi ne facemmo un adattamento alle
possibilità di comprensione sia degli allievi attori, sia di quelli spettatori, anzi, tenemmo
conto soprattutto di questi ultimi. Ma l’entusiasmo che prese sia me che gli allievi non
ci fecero ragionare su più di tanto. Il preside venne informato di questa idea e pure lui si
fece prendere dall’euforia appoggiando la sua realizzazione. Ed in meno di due mesi,
superando la ritrosia dei docenti benpensanti che vedevano nell’esperienza chissà quali
stravolgimenti didattici e le difficoltà di organizzazione, si reperì lo stretto necessario; i
costumi furono approntati alla meno peggio e in un clima di febbrile entusiasmo,
nell’Aula Magna dell’istituto per la prima volta, sotto gli sguardi ammirati dei più e
qualche battutina maligna detta a denti stretti da qualcuno, si fece teatro.
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La Mandragola
di N. Machiavelli
Atto I
Scena I
Personaggi: Callimaco, Siro.
(in casa di Callimaco)
Callimaco: Siro, non andar via, ascoltami.
Siro: Eccomi.
Callimaco: Ebbene se fino ad ora non ti ho parlato di questa mia scelta, non perché io
non mi fidi di te, ma perché ci sono delle cose che non si possono dire facilmente. Ma
ora ho deciso; te le dirò; anche perché tu mi devi aiutare.
Siro: Io sono il vostro salvatore e quindi, non siete tenuto a darmi alcuna spiegazione,
sono io che devo servirvi incondizionatamente.
Callimaco: Ascoltami, tu già conosci la mia storia, di quando bambino, seguii i miei
genitori a Parigi, da cui poi non mi sono più mosso, anche in seguito alla morte dei miei
genitori, lì infatti ho studiato, lì ho conosciuto le gioie della vita.
Siro: Queste cose le conosco bene, ma ancora non mi avete detto perché siete venuto a
Firenze.
Callimaco: Se avrai la pazienza di ascoltarmi, saprai. Quello che sto per raccontarti è
una storia singolare ed avvincente ed inizia da qui. Un giorno capitò dalle mie parti un
certo Camillo Calfucci, uno stimato uomo fiorentino e poiché divenimmo molto amici,
spesso capitava che egli restasse con me a desinare e fu durante una cena che successe
quello che spiega la mia presenza qui. Insomma, mentre si parlava del più e del meno,
nacque tra noi una disputa molto accesa sulle virtù delle parigine e fiorentine, io
sostenevo che le parigine fossero più ... come dire bone ... lui invece sosteneva il
contrario e a riprova di quanto diceva aggiunse che conosceva una donna fiorentina, una
certa Lucrezia, una sua parente, moglie di messere Nicia Calfucci, la cui bellezza e virtù
era nota in tutta Firenze.
Siro: Ah, ora capisco, voi siete qui per conoscere questa ... madonna e ... poi da cosa
nasce cosa ... e chissà che (una risatina).
Callimaco: Vedo che mi capisci a volo, e tu mi devi aiutare molto perché so anche che
costei è un osso duro e che mi sarà difficile avvicinarla.
Siro: Questo non vi deve spaventare, perché conosco io il sistema come farvela
incontrare.
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Callimaco: Davvero? e come?
Siro: Lasciate fare a me, e non ve ne pentirete, sappiate che costei, per sua disgrazia, ha
un marito babbeo e imbranato, ma buon per voi, e per di più desiderosissimo di avere un
bambino. Infatti sono sposati da più di dieci anni ed ancora niente, Su questa cosa,
circolano anche strane voci, ma io me ne sto zitto, mi faccio i fatti miei.
Callimaco: Ed allora?
Siro: Ed allora cosa? Ed è da qui che troveremo il sistema, ma prima dovreste
avvicinare lui e poi, per sua intercessione, lei.
Callimaco: Ma quali imbrogli mi vai propinando, trovo tutto questo molto complicato.
Siro: Ma vi fidate o non vi fidate? Lasciate fare a me e dopo giudicherete, basta che
spillate un qualche po’ di fiorini. Anzi a questo proposito, sappiate che dobbiamo
contattare anche una terza persona.
Callimaco: E chi?
Siro: Lasciate fare a me, costui è Ligurio, un intimo di messer Nicia e se vuole cosa si
farà, ma questo dipende dalla vostra borsa.
Callimaco: Non è questo il problema, di fiorini ne posso cacciare tanti, ma è il dopo che
mi preoccupa.
Siro: Basta, abbiamo parlato troppo, ora è tempo di agire (e lascia la scena).
Scena II
Personaggi: Messer Nicia, Ligurio.
(a casa di messer Nicia)
Ligurio: Messere, ieri sera ho saputo una cosa che fa al caso vostro, ma non so come
raccontarvelo, perché può apparire come dire ... un po’..., però vi confesso proprio al
caso vostro e risolverà i vostri problemi, e non vorrei che voi pensaste ... voi lo sapete lo
faccio solo perché vi voglio bene, e tengo alla vostra felicità.
Messer Nicia: Ligurio, hai uno strano modo di parlarmi oggi, dici che vuoi il mio bene,
che sai una cosa straordinaria che potrà fare al caso mio. Ma insomma, ti decidi a
parlare chiaramente? Oppure lascia perdere perché le tue ciance mi stanno infastidendo.
Ligurio: Messere, per carità, lungi da me un simile atteggiamento, se vi sto dando
fastidio è perché non so da dove iniziare e poi è troppo il rispetto che ho per voi.
Messer Nicia: E allora fuori dai preamboli e dimmi quello che devi.
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Ligurio: Adesso lo farò, voi prestate attenzione e non mi fraintendete. Ieri sera in piazza
ho incontrato Siro, ve lo ricordate? Quel vecchio servo della famiglia ... sì quello che si
trasferì a Parigi anni addietro ed ora è al servizio del giovane Callimaco.
Messer Nicia: Si certo me lo ricordo, ma di questo Callimaco, niente.
Ligurio: Come niente? solo voi qui a Firenze non conoscete la fama di costui.
Messer Nicia: Ma insomma, per Dio, chi è costui?
Ligurio: Visto che avete gli occhi chiusi e ancora più chiuse le orecchie, vi dirò io chi è
costui. Egli è un grande medico, anzi, che dico, è il più grande medico che sia mai
esistito e dove arriva lui, arriva la manna dal cielo, è il cielo che l’ha mandato qui a
Firenze, perché costui è un Santo, riesce anche nei casi più impossibili.
Messer Nicia: E che c’entra con me? con la mia famiglia ...
Ligurio: Ma come, ancora non lo avete capito, costui è un medico che fa ingravidare
anche le donne sterili ...
Messer Nicia: Oh Dio, come sono stupido, raccontami ma in fretta, non farmi stare in
pena, io farò tutto quello che vuoi, anzi tutto quello che vorrà lui; sì già mi sento il
sangue ribollire, le mani mi tremano, le gambe non mi reggono.
Ligurio: Messere per carità, calmatevi, se no non posso più continuare e poi sappiate
che non è detto che lui voglia prendersi cura del vostro caso.
Messer Nicia: Sarò calmissimo! vedi già sono calmo, ma tu devi dirmi tutto.
Ligurio: Sì lo farò, allora voi siete disposto a contattare il medico? e il resto lo saprete
domani.
Scena III
Personaggi: Ligurio, Callimaco.
Callimaco: E allora? Come è andata? Hai parlato con costui? hai trovato difficoltà?
Ligurio: Aspettate, una domanda alla volta, sì gli ho parlato, e poi con me ci sono
difficoltà? lo sapete che la faccio anche al demonio; figurarsi poi con messer Nicia.
Callimaco: E allora il primo approccio è andato bene, adesso dobbiamo studiare il resto
e qui sta il difficile.
Ligurio: Voi siete troppo diffidente e dimenticate che io ne sappia una più del diavolo,
ho in mente una cosuccia che se riesce sarà la fine del mondo. Perciò fidatevi e dormite
a cento cuscini e pensate solo all’incontro con madonna Lucrezia, costi quel che costi,
ormai ne va di mezzo la mia reputazione. E poi non ci posso pensare che una donna così
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accostumata, così delicata debba essere la donna di una bestia come lui. Perciò gliela
faremo pagare.
Callimaco: Ma come? ho paura che con la tua invenzione non ci spingano sulla forca.
Ligurio: Su, ma cosa sono queste idee mortali, noi dobbiamo solo divertirci, perciò
bando alle tristezze.
Callimaco: Ma dimmi, tu hai già un piano per come preparare questo mio incontro con
madonna Lucrezia? perché sappi io tengo molto a questo incontro; io, da quando mi
sono messo questo in testa, non dormo, non mangio, me la vedo di giorno, me la sogno
di notte; sta diventando la mia ombra.
Ligurio: Ehi! ehi ... piano ... piano messer Callimaco, ma questo è amore; e quando c’è
di mezzo l’amore, c’è di mezzo anche la sofferenza e voi siete disposto a soffrire?
Callimaco: Sì voglio anche soffrire, ma voglio innanzitutto incontrare lei, ma come ...?
Ligurio: Intanto pazientate e aspettate domani; perciò domani sarete voi stesso a trovare
il mezzo per incontrare Lucrezia; io vi condurrò qui, quel babbeo di messer Nicia. E voi,
troverete come arrivare a lei. Perciò stanotte non dormite, trovate da voi quello che vi
serve.
ATTO II
Scena I
Personaggi: Ligurio, Messer Nicia.
(In casa di messer Nicia)
Ligurio: E allora siete convinto di quello che vi ho detto? siete pronto ad incontrare sua
eccellenza il dottor Callimaco? ma vi avverto, una volta da lui, dovete accettare
incondizionatamente le sue condizioni.
Messer Nicia: Lo dite pure? E’ chiaro che farò tutto quello che mi chiederà, come io
posso mettere in discussione l’arte di uno che ha fatto ingravidare finanche Maria di
Francia, uno che ha il vanto di aver fatto nascere il re di Francia, questa cosa è troppo
grande per me, troppo onore se lui accetta di ingravidare una donna semplice come la
mia Lucrezia. Perciò non farò storie e cercherò solo di fargli piacere.
Scena II
Personaggi: Ligurio, Siro, Messer Nicia, Callimaco.
(a casa di Callimaco)
Ligurio e Messer Nicia: E’permesso?
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Siro: Chi è?
Ligurio e Messer Nicia: Siamo noi! ... siamo attesi.
Siro: Entrate, entrate pure, vi introduco da messer Callimaco.
Messer Nicia: Cosa devo dire? come mi batte il cuore, cosa dire per prima?
Callimaco: Desidera, buona gente?
Messer Nicia: bona dies, domine magister.
Callimaco: Et vobis bona.
Ligurio: Che ve ne pare?
Messer Nicia: Ah, è grande.
Callimaco: A che cosa devo l’onore di questa visita?
Ligurio: Ascoltate la preghiera di un uomo dabbene , e Dio ve ne renda merito.
Messer Nicia: Messere ... eccellenza illustrissimo, valente dottore, sappiate che non ho
figliuoli , e Dio sa quanto li abbia desiderati, perciò se la vostra grazia si degna di
ascoltarmi, Iddio avrà cura di voi.
Callimaco: Buonuomo, alzatevi, vedremo quello che si può fare, ma voi dovete
eseguire per filo e per segno tutte le mie indicazioni. Intanto rispondete mie domande.
Conoscete voi le cause della sterilità della donna? Esse sono le seguenti: aut in semine,
aut in matrice ...
Messer Nicia: (sotto voce) Costui è un portento.
Callimaco: Un’altra causa potrà essere anche l’impotenza del marito.
Messer Nicia: (risentito) Mai una cosa del genere, io sono il più mandrillo di Firenze e
tutti lo sanno ... qui me ne sto zitto.
Callimaco: Va bene, va bene; sono un gentiluomo e se questo è il problema, ho capito
tutto, e voi farete come io vi indicherò. Perciò statemi bene a sentire, mi è stato detto
che la vostra donna è sospettosa e molto timorosa di Dio e poi per nessuna cosa al
mondo uscirebbe di casa ed allora io accomodo tutto e che il tutto avvenga in casa
vostra e in silenzio e questa notte stessa. Io preparo la miracolosa Mandragola, quella
santa porzione, la stessa che fece ingravidare Maria di Francia e stasera stessa, dopo
cena, la sua Lucrezia dovrà assumerla, ma molto lentamente, dopo avrete altre
istruzioni.
Scena III
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Personaggi: Callimaco, Messer Nicia, Ligurio.
Messer Nicia: Speriamo che il prosieguo non sia cosa tanto difficile.
Ligurio: Ma il nostro valente Callimaco sa sbrigare bene tutte le faccende anche le più
intricate.
Callimaco: Ed invece il difficile c’è, ed è anche molto ... ma chi vuole ottenere, deve
anche patire.
Messer Nicia: Dite, non tenetemi sulle spine.
Callimaco: Il fatto è questo, Lucrezia, la vostra buona Lucrezia, dopo che ha bevuto la
Mandragola, di buon’ora, dovrà andare a letto e dovrà giacere con un giovane gagliardo.
Messer Nicia: Come? Mia moglie dovrà giacere con un gagliardo?
Ligurio: Questo è un dettaglio, lasciate correre, badate solo ai fatti vostri, pensate solo
che tra meno di un anno voi avrete un bambino tra le braccia.
Messer Nicia: Ma il costo è troppo alto.
Callimaco: E allora non se ne fa niente.
Messer Nicia: No, io non voglio dire questo, volevo dire ... solo ... ma se sarà così
perché non si può fare diversamente; cosa sarà mai questa cosa. Questa notte e poi basta.
Callimaco: Adesso smettetela di cianciare a vuoto perché non vi ho detto tutto; voi non
avete di che temere, né vi coprirete di vergogna perché questo gaglioffo, dopo che ha
giaciuto con Lucrezia, prima dell’alba morirà, e voi potrete realizzare finalmente il
vostro sogno.
Messer Nicia: Oh! no, questo mai! come, un marrano dovrà morire per me? che Iddio
mi fulmini! ma questo è troppo.
Ligurio: Lo vedete che non ragionate?
Callimaco: E allora andrà tutto a monte, non dovevo intrigarmi in faccende
meccaniche.
Messer Nicia: Vi chiedo perdono, sono uno sconsiderato, ma mettetevi nei miei panni,
però se non c’è altra soluzione, questa sarà la mia soluzione. Ma adesso come
avvicinerò mia moglie, come le parlerò di queste cose, mia moglie non è una donna è
una santa, sappiate che tutte le sere, prima di venire a letto, consuma chissà quante
corone di rosari e chissà che non saranno state queste preghiere ad intiepidire sia lei che
me adesso ...
Callimaco: E adesso basta, fate come volete.
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Ligurio: Messer Nicia, non disperate, a tutto c’è sempre un rimedio; la faremo
convincere dalla sua mamma e se è il caso dal suo frate confessore.
Messer Nicia: Ma Lucrezia ha perduto la madre che era ancora bambina.
Ligurio: Su via, non fate il bambino, ci sarà sempre qualcuno che avrà ascendenza su di
lei.
Messer Nicia: Sì! ha il padre e il padre predisporrà Lucrezia ad accettare la volontà di
Dio.
ATTO III
Scena I
Personaggi: Sostrato, Ligurio.
Sostrato: Quando è così, saprò convincerla, troverò io gli argomenti più validi che
faranno al caso suo.
Ligurio: Intanto che voi andrete a convincere lei, noi andremo dal suo confessore, gli
diremo ogni cosa e voi dopo la conducete da lui. E che Iddio ce la mandi buona.
Scena II
Personaggi: Messer Nicia, Ligurio.
(in casa di Messer Nicia)
Messer Nicia: Temo che Lucrezia faccia storie anche per venire al convento.
Ligurio: E come mai? Normalmente le donne si fidano dei frati e poi fra Timoteo, il
suo confessore è molto stimato nei dintorni.
Messer Nicia: Questo è vero, ma la mia Lucrezia è diventata sospettosa da quando una
volta un frate, mentre la confessava, tentò di allungare una mano.
Ligurio: (con una mano sul viso e l’altra sul petto) Oh! allora è vero che non c’è più
religione, comunque lasciamo perdere perché io sono convinto che Sostrato saprà
condurla da fra Timoteo. Statemi piuttosto a sentire come fare per parlare al frate.
Intanto vi dico che voi dovete parlare se non quando lo vi faccio un cenno.
Messer Nicia: Mi sta bene! quale cenno mi farai?
Ligurio: Sì, io chiuderò un occhio e mi morderò un labbro e ditemi, da quando non
parlate con il frate?
Messer Nicia: Saranno circa dieci anni.
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Ligurio: Allora io gli dirò che voi siete diventato sordo e sentite solo quando si alza la
voce.
Messer Nicia: Va bene, starò attento ad ogni tuo segnale.
Scena III
Personaggi: Messer Nicia.
Messer Nicia: Eppure non riesco proprio a capire perché tutta questa invenzione, perché
devo fingermi sordo, perché parlare solo dietro segnale: che costui non mi prepari un
brutto tiro, ma comunque staremo a vedere.
Scena IV
Personaggi: Fra Timoteo, Ligurio, Messer Nicia.
Ligurio: (nell’orecchio di fra Timoteo)
Fra Timoteo: Lucrezia sarà allora accompagnata dal padre da me.
Messer Nicia: Io fremo all’idea che mia moglie mi possa dare un bel maschione. Cosa
dice, sarà un maschione?
Ligurio: E come no? Certo che sarà un maschione.
Scena V
Personaggio: Fra Timoteo.
Fra Timoteo: E’ mai possibile che questo demonio di Ligurio, ogni qualvolta che, sente
odore di fiorini non guarda in faccia a nessuno e per di più trascina anche me nel vortice
dove vuole lui? Ma questa mi sembra che superi ogni limite, ed io che faccio, ci sto? lo
assecondo? maledetta la prima volta che gli ho detto sì ed ora pretende di avermi sempre
in pugno. Ma sì, perché no, perché farsi scrupolo, e poi di che, di uno che a tutti i costi
vuole coprirsi di ridicolo, e delle donne che hanno tutte un cervello di gallina e poi
perché sprecare questa occasione così unica? Messer Nicia e Callimaco sono ricchi ed io
se rifiuto questo partito, quando se ne presenterà un altro simile. Perciò facciamo tacere
questa coscienza e badiamo ai fatti nostri.
Scena VI
Personaggi: Sostrato, Lucrezia.
Sostrato: Figliuola mia tu sai quanto mi stia a cuore la tua reputazione e il tuo onore,
ma devi convincerti che tutto quello che ti si dirà, lo si farà per il tuo bene.
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Lucrezia: Questa cosa di cui so e non so ancora con chiarezza, mi sconvolge e mi
angoscia tantissimo, e mi sembra la più strana fra le tante indicatemi dal mio Nicia per
aver figliuoli. Non riesco proprio a comprendere perché per colpa mia dovrà morire un
essere umano, sarà pure un marrano, ma è sempre un uomo, un cristiano, e poi, perché
accettare la vergogna di essere contaminata. Non ci vedo chiaro, ho troppa paura che
tutto questo sarà un terribile inganno.
Sostrato: Figlia! lasciati consigliare e guidare solo da chi vuole il tuo bene; allontana da
te ogni barlume di dubbio.
Scena VII
Personaggi: Fra Timoteo, Lucrezia, Sostrato.
(al convento)
Lucrezia e Sostrato: E’ permesso?
Fra Timoteo: Venite, venite avanti, so già tutto, Messer Nicia e Ligurio mi hanno
informato su tutto; perciò mia buona Lucrezia, disponetevi ad accettare la volontà di
Dio.
Lucrezia: Ma è questa la volontà di Dio? Questa storia non è tutto un imbroglio?
Fra Timoteo: (stizzito) Ma come potete dire queste cose a me, al vostro confessore, a
chi vuole il vostro bene e il bene del prossimo.
Lucrezia: Perdonate frate, ma questa storia mi sembra strana ed io sono confusa.
Fra Timoteo: Ed io non vi do torto, ma scioglietevi da questo dubbio che vi avvelena
soltanto e badate bene a che ne verrà da quello che in questo momento vi sembra una
colpa, un peccato. E poi chi vi ha detto che nelle circostanze in cui voi vi troverete
giacendo con un maschione peccate? il peccato prevede il godimento, ma voi non
godete, vi servirete solo del suo corpo, solo per compiacere vostro marito che vi ama
teneramente, il peccato consiste solo nel dispiacere vostro marito e non altro. Perciò
figliuola mia, non dubitate più, non chiudete la porta alla provvidenza che ha messo
sulla vostra strada la luminosa scienza dell’eccellentissimo dottor Callimaco. Perciò io
vi garantisco che quello che voi farete è un piccolo peccato, un peccatuccio che va via
con l’acqua santa. Io stasera vi raccomando nelle mie preghiere; perciò, andate con Dio.
Scena VIII
Personaggi: Fra Timoteo, Ligurio, Messer Nicia.
Fra Timoteo: Ah! finalmente, per convincerla, sette camicie ho dovuto sudare.
Ligurio: Ma il necessario è che ci siete riuscito.
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Messer Nicia: Ed io sono l’uomo più felice del mondo.
Ligurio: Ma ora dobbiamo prepararci alla grande nottata.
ATTO IV
Scena I
Personaggi: Callimaco.
(In casa di Callimaco)
Callimaco: Questo pezzo d’asino non si vede ancora, questo è brutto segno, che non sia
riuscito nel progetto; ahimé! al solo pensiero, sto male! ma male per davvero starei, se
nel mezzo della storia si scoprisse che tutto è un inganno. Ma dove sono andato a
cacciarmi? Mi è stato detto da bambino che certe cose non si fanno, sono opera del
diavolo e che si va all’inferno. Ma se l’inferno c’è, bisogna pur che qualcuno ci vada. E
perciò, perché non io?
Scena II
Personaggi: Ligurio, Callimaco.
(Ligurio e Callimaco si accordano sul travestimento)
Ligurio: (felice) Finalmente vi ho trovato! Dove vi eravate cacciato? sono stato
dappertutto, in piazza, sul sagrato. Ma niente di voi. Come si vede che voialtri
innamorati avete l’argento vivo anche sotto i piedi.
Callimaco: Non cianciare a vuoto e dimmi piuttosto come è andata.
Ligurio: Tutto, tutto bene; è vero che Lucrezia ha fatto la schizzinosa, del resto c’era da
aspettarselo; ma quel santo ha saputo trovare le parole giuste per farla capitolare e poi
con fra Timoteo si va sempre sul sicuro, solo che con lui bisogna sborsare e anche tanto.
Callimaco: Bene, bene! me ne rallegro con te, per la grana non ci sono problemi, i soldi
a questo servono, anche a farti passare qualche capriccio. Ma il problema è adesso come
preparare lo scambio tra il monellaccio e me?
Ligurio: Se è per questo non vi dovete preoccupare, io ho pensato già a tutto, le cose le
farò in questo modo: fingeremo di catturare un ragazzaccio a caso; naturalmente quello
sarete voi, perciò, animo.
Callimaco: Sì, ma tutto questo è molto rischioso, io dovrei avere il dono dell’ubiquità
perché per non destare sospetti devo stare con voi e poi sulla piazza a farmi catturare.
Ligurio: Vi preoccupate a vuoto, abbiamo fatto cose ancora più rischiose e non ci siamo
preoccupati più di tanto; anche questa volta sarà il frate a togliere le castagne dal fuoco,
lui, travestito da voi, sarà con messer Nicia, voi con panni più dimessi starete in piazza a
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farvi catturare. Lì in piazza ci starò, io col sacco, voi sbucate dall’angolo ed io vi butterò
addosso il sacco e poi, poi il resto lo inventiamo lì; voi vi dimenate nel sacco, ma
intanto sarete condotto in casa di Lucrezia. E qui mi fermo perché da qui in poi sarete
voi ad agire, in certe cose voi siete un maestro, perciò non smentite il vostro nome, ne
va del vostro onore.
Callimaco: Su questo ci puoi giurare e su certe cose non ti allargare, lo sai che sono “o
sciupafemmene” di tutta Firenze. Anzi diamoci da fare perché tra poco verrà messer
Nicia a ritirare la porzione di Mandragola, poverino mi fa tanta pena, ma purtroppo ha il
torto di avere una moglie che è troppo “bona”; ci pensava prima. Ma la mia peggiore
preoccupazione è come affiancherò Lucrezia, quando scoprirà l’inganno non vorrei ...
che la notte andasse in bianco.
Ligurio: Lasciate perdere, le donne sono tutte uguali, fatele le moine che vogliono, e
poi si sa come andrà a finire.
Scena III
Personaggi: Ligurio, Callimaco, Fra Timoteo.
(scena del travestimento)
Callimaco: Siamo così irriconoscibili che certamente neppure noi ci conosciamo,
badate a non commettere cretinate.
Ligurio: Perché quello che stiamo per fare, è cosa seria? Quindi una in più, una in
meno.
Callimaco: Hai sempre quella lingua più affilata del coltello, attento a te che non avrai a
pentirtene.
Fra Timoteo: Eppure me ne stavo così bene nella mia cella ed ora devo stare al tuo
servizio, sciagurato cialtrone ed imbroglione.
Ligurio: Ma guarda, guarda, vedi un po’ la predica da chi viene; ma è anche giusto che
sia così, lui di prediche se ne intende. Vuoi vedere che qui l’unico furfante sarei io che
tutto sommato guadagno meno di tutti. Ma se vi fate venire di questi scrupoli, andate al
diavolo, io me ne vado per i fatti miei.
Callimaco: Per carità, non arrabbiatevi, tutti siamo dei gaglioffi, sai si diceva così non
per offenderti, perciò non abbandoniamo tutto sul più bello.
Scena IV
Personaggi: Ligurio, Messer Nicia, Siro.
Ligurio: Siro, dai, torna presto e attento a non sbagliare.
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Messer Nicia: Non vorrei che pigliassimo un granchio, che pigliassimo un vecchio e
per di più un malaticcio e debole.
Ligurio: Non dubitate, sarà un bel garzonaccio.
Messer Nicia: Eccolo là corriamo, imbavagliamolo e legnate a più non posso.
Fra Timoteo: Io vado a casa che sono stanco.
Messer Nicia: Sì, fate bene.
Fra Timoteo: (rivolto al pubblico) Ora tutti andranno a dormire, ma chi non dormirà
sarà Callimaco e donna Lucrezia e ne avranno di cose da dirsi ...
Atto V
Scena I
Personaggio: Fra Timoteo.
(in chiesa)
Fra Timoteo: Non ho potuto chiudere occhio tutta la notte; non ho pensato che a
Callimaco e madonna Lucrezia, sono andato su e giù, avanti e indietro per la chiesa, ho
recitato più di cento rosari, ma potranno loro assolvermi di quanto ho fatto? E’ l’alba,
finalmente sento delle voci, sembrano che arrivano da casa di Messer Nicia. Staremo a
vedere cosa è successo.
Scena II
Personaggi: Fra Timoteo, Messer Nicia, Ligurio.
(in casa di Messer Nicia)
Fra Timoteo: (mentre il frate origlia alla porta)
Messer Nicia: Bene, bene! ho predisposto che tutto andasse bene, ricordi, ieri sera
quando abbiamo catturato quel gaglioffo? Ebbene prima che lo mandassi in camera con
mia moglie, ho voluto accertarmi dei fatti miei, gli ho strappato di dosso i suoi cenci e
ho voluto vederlo così com’era. Era brutto in volto, a dir la verità; ma aveva un corpo
bello e perfetto, perciò sono contento. L’unica cosa che mi dispiace è che costui,
poverino, senza alcuna colpa dovrà morire giovane giovane.
Ligurio: Il necessario che tutto è andato bene, il resto è dettaglio; ma ditemi piuttosto,
cosa avete fatto voi intanto che loro due stessero dentro.
Messer Nicia: Niente di particolare, sono stato sveglio a parlare con mio suocero ad
aspettare l’alba e quando mi è sembrato tempo, sono entrato in camera e l’ho
scaraventato fuori; adesso aspetto l’ora più conveniente e tutti andremo in chiesa a
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ringraziare prima la Vergine santa che mi ha fatto questa grazia e poi quel sant’uomo di
frate Timoteo che senza il suo aiuto, niente sarebbe stato possibile; io ora me ne vado
dentro.
Scena III
Personaggi: Callimaco, Ligurio.
(in casa di Callimaco)
Ligurio: E allora messere come è andata dentro?
Callimaco: Benissimo, non mi aspettavo tanto, sono successe cose strepitose all’inizio
devo dire che ho incontrato delle difficoltà; ma poi, piano, piano si sciolta ed è diventata
arrendevole anzi molto arrendevole; ha visto la differenza tra i miei baci e quelli di suo
marito, baci di un giovane e focoso amante e quelli di un vecchio e flaccido uomo;
insomma mi ha detto chiaramente che quello che è successo stanotte tra me e lei non
resterà, come pensa il marito, senza seguito e me ne ha suggerito anche il modo che io
certamente seguirò; adesso però andrò anch’io come è stabilito dal “compare” Nicia, sì
perché ella così mi ha suggerito di andare in chiesa dove ci aspetta quel santo di fra
Timoteo.
Scena IV
Personaggi: Messer Nicia, Lucrezia.
Messer Nicia: Lucrezia, dobbiamo fare le cose col timore di Dio, e non in modo
confuso.
Lucrezia: E allora?
Messer Nicia: Ma guarda come risponde, sembra un gallo.
Lucrezia: Ma cosa volete da me?
Messer Nicia: Che bisogna andare in chiesa; ma si può sapere cosa vi è successo! ieri
sera sembravate mezza morta ed ora siete anche sfacciata.
Lucrezia: Questo lo debbo a voi.
Scena V
Personaggi: Fra Timoteo, Messer Nicia, Lucrezia, Callimaco, Ligurio, Sostrato.
Messer Nicia: Bona dies, padre!
Fra Timoteo: Benvenuti tutti voi, e a voi madonna Lucrezia con l’augurio di un figlio
maschio.
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Lucrezia: Come vuole Iddio.
Fra Timoteo: E sarà così.
Messer Nicia: Verranno in chiesa anche Ligurio e maestro Callimaco?
Fra Timoteo: Messere sì!
Messer Nicia: Fateli entrare.
Fra Timoteo: Entrate!
Callimaco: Dio vi salvi.
Messer Nicia: Maestro toccate la mano alla mia donna.
Callimaco: Volentieri.
Messer Nicia: Lucrezia, costui sarà benedetto per sempre da noi perché è la cagione
della nostra gioia.
Lucrezia: Sono profondamente commossa.
Messer Nicia: Possa tu essere benedetta; voglio che lui e Ligurio restino a pranzo da
noi.
Lucrezia: Ed io ancora di più; messer Callimaco ci farà l’onore di tenere a battesimo il
nostro bambino.
Callimaco: Sono profondamente onorato e commosso.
Messer Nicia: D’ora in poi sarete il padrone, queste sono le chiavi di casa mia, fatene
l’uso che volete.
Callimaco: Sono troppo onorato e accetto l’invito.
Fra Timoteo: Avete dimenticato di fare la dovuta elemosina?
Messer Nicia: Questo mai, conosciamo il nostro dovere.
Fra Timoteo: Ed allora tutti insieme recitiamo con devozione una preghiera a Maria
Vergine per il felice esito della “Mandragola”.
(canzone).
FINE
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Rappresentazione del “Decamerone” di Boccaccio
Anno Scolastico 1992/93
Il solco era stato tracciato, il teatro, come attività di drammatizzazione, divenne realtà
didattica di questa scuola.
Esperienze progettuali di attività
di drammatizzazione per trienni:
“Lo studio della letteratura attraverso il teatro”
Ma prima che il teatro divenisse una realtà didattica, tanta acqua sotto i ponti dovette
scorrere; nella migliore delle ipotesi bisognò superare reticenze degli incerti sulla resa di
questa esperienza; si partì armandosi di volontà diretta a combattere sottili ostacoli che
venivano appositamente orditi da non pochi colleghi intenzionati a stroncare l’iniziativa.
La scuola era un Itis, quindi frequentata innanzitutto da docenti di materie tecniche che
per anni hanno boicottato questa iniziativa, inventandosi le più assurde motivazioni,
messe su con l’intento di annullare ogni tentativo di riuscita. Questo chiaramente spiega
quanto duri siano stati gli inizi; ma, se da un lato si lavorava per distruggere quanto si
voleva fare, dall’altro c’era il fermo proposito di costruire, dettato dalla volontà
alimentata dalla fede che questa esperienza non poteva rimanere un episodio isolato;
dunque doveva avere un seguito. Perciò, nonostante i dichiarati ostacoli, le ipocrite
frecciatine gettate lì lì e mirate ad annientare lo sforzo richiesto, le palesi bocciature
annunciate per gli alunni impegnati in questa attività, messe in giro ad arte da chi
cocciutamente era in buona o cattiva fede, si diede inizio all’attività di
drammatizzazione.
Dopo la felice esperienza raccontata, sembrava proprio che essa dovesse rimanere un
episodio sporadico, come dimostrano alcuni inizi di recitazione tentati ma falliti per
questo clima ostile che si era venuto a creare intorno a questa attività. Ma la sottoscritta
non si è data per vinta, anzi gradatamente è riuscita a coinvolgere altri colleghi in questa
avventura che diveniva sempre più entusiasmante tanto che si decise che sin dall’inizio
dell’anno che il teatro, come attività didattica venisse inserita nella programmazione
annuale.
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E così fu; ovviamente purché esso potesse avere una valenza essenzialmente didattica fu
necessario affidargli una motivazione di grossa responsabilità culturale e si scelse
pertanto “Lo studio della letteratura attraverso il teatro”. Certamente il lavoro richiedeva
uno sforzo non indifferente e noi docenti non ci siamo spaventati più di tanto; anzi, per
raggiungere tale scopo, abbiamo concretizzato progetti triennali che prevedevano la
realizzazione di opere di autori studiati nel corso del triennio e per circa otto anni si è
lavorato in questa direzione; si sono scelte alcune classi del triennio che hanno seguito
un corso di recitazione triennale partendo dal terzo fino al quinto anno; durante tale iter
gli alunni di queste classi si sono cimentati su lavori, oggetto di studio del triennio, che
a fine d’anno hanno rappresentato in sale teatrali.
PRIMO PROGETTO TRIENNALE
Il primo progetto triennale portato avanti ha avuto per oggetto lo studio delle opere di
Boccaccio, di Goldoni e di Verga, ed è stato concretizzato con la rielaborazione delle
seguenti opere specifiche:
1) La peste in Firenze 1348 e Andreuccio da Perugia
Da “Lectura Decameron”
2) Il teatro comico, ovvero una lezione di teatro
Dalla “Goldoniana”
3) Cavalleria rusticana
Dalle novelle rusticane
“Lectura Decameron”
liberamente tratta dal Decamerone
di Giovanni Boccaccio
La peste in Firenze
Introduzione
(Rielaborazione dal testo di “Storia di Napoli” di De Rosa)
Guagliuni ed eccellentissimi dottori,
illustrissimo preside e gentilissimo pubblico,
chello che vuje verite, è frutto e nu’ poeta
fiorentino, ca’ a’ Napule c’è stato o’ veramente,
e pe’ paricchie pure!
E proprio allora, era regnante a Napule
Roberto, ra’ dinastia Angioina;
uomo saggio, studioso e intelligente
che facette e’ Napule o centre e ll’arte
e de’ sturiusi.
Fra chisti ce steve, un grande genio
Ra’ scrittura, o giovane cchiù friccicariello,
nu’ certo Jan Boccaccio
ca’ metteve a’ coppa a tutte e cantastorie.
Isso s’annammurai e na’ Fiammetta
A chhiù bella re’ belle,
e stu nomme Boccaccio o’ mmurtalaje
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cu’ le novelle del “Decamerone”
Fiammetta ch’era e’ Napule ... cantaje
Pe’ tutto o munno comme a’ na canzone
e’ Napule è rimasta rinte e’ nuvelle
comme a città cchiù malandrina
E si all’inizio ... chesta rappresentazione
Ve pare o’ cuncentrato ra’ disperazione
Aspettate ... ca’ sarite cumpensate.
La Peste
Narratore: Correva l’anno del Signore del 1348, quando una terribile pestilenza invase
l’Europa tutta, travolgendo nella sua insidiosa morsa la nobile e fiera città di Firenze.
Raccontano i cronisti del tempo: Dino Compagni e Giovanni Villani, quest’ultimo
vittima illustre dell’orrenda catastrofe, che mai da tempi remoti ai più recenti una
sciagura così grave avesse così selvaggiamente falcidiata l’umanità intera.
Questo oscuro male aveva iniziato a propagarsi dapprima lentamente dall’Oriente poi
era diventato come un incendio inestinguibile, era calato giù come una valanga
improvvisa, come un fulmine che precede una rovinosa tempesta, spazzando via con la
forza devastatrice di un uragano senza alcun ritegno, uomini, donne, vecchi, bambini,
lasciando vuote le case, vuote le vie, ma colmando fino all’inverosimile i pavimenti
delle chiese, così come voleva la consuetudine del tempo.
Scena I
Personaggi: Pampinea, Neifile, Dioneo.
(due giovani donne Pampinea e Neifile si incontrano per strada a cui si unisce un
giovane di nome Dioneo)
Pamp.: (scorgendo Neifile, che frettolosa e chiusa in un mantello si dirige verso la sua
stessa direzione) Neifile, ma cosa fai per strada? Non sai che è pericoloso di questi
tempi respirare l’aria ammorbata che c’è in giro? Nessuno ti ha detto quale triste
momento viviamo?
Neif.: Sì, lo so, ma proprio per questo esco dopo tempo, visto che né cabale, né magie,
sono servite ad arrestare questa triste cosa che al solo nome mi fa rabbrividire, e mi reco
in chiesa ad invocare il soccorso della Vergine e chissà che lei non esaudisca la
preghiera di un’umile peccatrice; ma tu piuttosto dove ti rechi?
Pamp.: Io? Sì lo so che mi darai della matta, ma mi dirigevo da Panfilo, perché sono
giorni che non si fa vivo e chissà che non si sia ammalato pure lui, oh no! Voglio
allontanare da me questo triste pensiero perché ne morirei, io come potrei continuare a
vivere senza di lui?
Neif.: Pampinea cara, ma ora non è tempo di pensare agli spasimanti, credo proprio più
giusto che anche tu venga a pregare con me, quindi che ne dici?
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Pamp.: Sì, forse hai ragione tu, anzi, come sempre anche se sei molto più giovane di
me, sei saggia e poi ho sentito da più parti che la peste è la giusta punizione piovuta dal
cielo, da tempo messo a dura prova dall’umanità, che prima lentamente e poi con una
rapidità sempre più incalzante, deviava dalla retta via, dimentica della vera finalità per
cui ha ricevuto il dono della vita.
(Mentre le due parlano arriva Dioneo)
Dioneo: Salve, mie care e graziose donzelle! Dove vi dirigete così misteriosamente
avvolte nei vostri mantelli se non in segreti convegni d’amore? Se è questa la ragion
della vostra uscita, sappiate che davanti a voi c’è il più delicato, il più affascinante e il
più cortese dei vostri spasimanti, ... perché ... io spasimo sempre davanti alla leggiadria
di qualunque spasimante.
Neif.: Sciagurato che non sei altro! Ma è mai possibile che neppure una calamità così
grave come quella che ha colpito noi fiorentini ti faccia rinsavire! Come puoi essere così
cinico e fingere di non accorgerti del triste momento che viviamo?
Pamp.: Neifile, Dioneo vive come noi questi tristi momenti e certamente ha paura
quanto me e quanto te della peste, ma cerca di nascondere la paura dietro il suo abituale
senso dell’ironia e che perciò benedette siano le sue parole, perché ci danno motivo di
pensare anche ad altro.
Dioneo: (con un fare serio) Purtroppo, mie care amiche, la cosa è molto più grave di
quanto voi sappiate, perché questo morbo non ha contagiato solo Firenze. Infatti mi
trovavo per mercatura ad Aquisgrana e da lì sono dovuto fuggire per le continue scene
di morte che si susseguivano, e poi un mio amico mi ha detto che le stesse scene si
ripetono in Germania come in Francia, in Inghilterra, così come in Italia e quindi come
in Firenze. Forse perché le città sono diventate covi di vipere, dove i cittadini sono
pronti a farsi solo del male pur di difendere il proprio o accaparrarsi l’altrui. Gli uomini
... sono assillati da un’unica preoccupazione ... diventare ricchi, potenti, famosi, e per
questo si odiano e si offendono; hanno dimenticato o non hanno mai conosciuto il
porgere l’altra guancia, da tempo non tendono più la mano verso il più debole; vige la
legge del prepotente, del profittatore e del disonesto.
Pamp.: Dioneo, quanta saggezza ci sono nelle tue parole, ma come sei cambiato
dall’ultima volta che ci siamo incontrati , si direbbe che siano passati tantissimi anni da
allora; ma cosa ti è capitato per cui sei maturato così in fretta?
Dioneo.: Niente in particolare, ma solo le disavventure della vita; ... in un solo giorno
ho perso i genitori e l’unica fanciulla che mi stava veramente a cuore, che ho tenuta
gelosamente rinchiusa nel mio cuore. E vi pare poco?
Neif.: Come sono costernata, mi scuso per la scorbuticheria che ho usato nei tuoi
confronti qualche minuto fa.
Dioneo: (dà un colpetto affettuoso sulla guancia di Neifile) Lascia perdere, la vita
continua e intanto proteggiamo la nostra amicizia. Quindi dove siete dirette? in chiesa?
Vi accompagno!
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Narratore: E intanto sul sagrato della chiesa di S. Maria Novella un altro nugolo di
giovani sta per entrare in chiesa; essi sono: Elisa, Emilia, Fiammetta, Laura e Filomena,
Filostrato e Panfilo, quando è proprio Panfilo ad accorgersi degli amici che arrivano
proprio lì.
Scena II
Personaggi: Fiammetta, Panfilo, Filomena, Filostrato.
(sul sagrato della chiesa)
Fiammetta: (in lacrime) Dio, Dio perché hai voluto questa atrocità? Perché hai
permesso che quell’angelo di Beatrice volasse prematuramente verso di te?
Panfilo: (commosso) Ma cosa dici? Di chi parli? Di Beatrice Tornabuoni, di quella
accostumata fanciulla così onesta quanto bella e generosa? Come? È morta appestata?
Maledetti e poi mille volte maledetti tutti quelli che col sorriso beffardo sulle labbra e
cinicamente con lo sguardo carico di intimo compiacimento asseriscono che ci voleva la
peste per fare giustizia delle tante angherie subite e dei tanti soprusi arrecati dagli
arroganti verso i più deboli. Questa peste bussa ed entra in tutte le case dai palagi
principeschi ed aristocratici ai tuguri più squallidi e fetidi esistenti nelle varie città.
Filomena: E sì, è proprio così; la gente tutta è inerme di fronte al dilagare del mali e si
difende come può, ma niente può davanti alla ferocia di questo male. Ognuno reagisce
come l’istinto gli detta: i più ricchi si tengono ben chiusi nelle loro comode case, si
cibano di bevande delicate e vini robusti ed evitano il contagio altrui pensando di
vincere così questo insidioso male. Ma purtroppo, costoro allungano solo di qualche
settimana in più la propria esistenza, i poveri sono i più esposti perché più deboli
fisicamente e più facili al contagio ... Ma tutti o quasi si finisce col morire di peste.
Filostrato: (rivolto a Fiammetta, costernato) Vergine Santa, come sono desolato! E così
anche Beatrice ci ha lasciato, povera fanciulla! Come la possiamo dimenticare ...così
generosa, così cara, così pudica. E sì! È il caso di dire che la peste non risparmia proprio
nessuno.
Scena III
Narratore: E così Emilia, Elisa e Lauretta che da tempo assistevano alle funzioni
religiose in chiesa, attratte da un vociare a loro noto, escono da essa.
Elisa: (alle compagne) Ma quella è Fiammetta! Guardatela, sembra disperata! Dio non
voglia che le sia capitato qualcosa di atroce; ma di questi tempi cosa ci possiamo
aspettare?
Emilia: Avviciniamoci e cerchiamo di sapere.
(le tre fanciulle vanno verso gli altri)
Tutte e tre: (insieme) Salute a voi e buona giornata.
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Filostrato: E ne abbiamo proprio bisogno! Che le vostre parole ci siano a tutti di buon
auspicio.
Elisa: (a Fiammetta) Ti vedo affranta, cara cugina, qualcosa di brutto in famiglia che
non so?
Fiammetta: No, no, a Dio ringraziato, per il momento, tutto bene! Ma è per (e scoppia
in un pianto dirotto) Be..a..tri...ce. E poi, la cosa più triste è che non mi hanno permesso
né di vederla, né di accompagnare la sua bara.
Filostrato: (a Fiammetta) Su, su fatti coraggio, anche noi siamo addolorati, ma
purtroppo, non possiamo farci niente! Dobbiamo solo farci forza e ritornando al tuo
discorso, a proposito del triste funerale di Beatrice, sappi che l’appestato o meglio
l’infelice vittima della peste, vive il suo stato con estremo terrore e non solo per la morte
vicina, ma è soprattutto angosciato all’idea che da tutti viene rifiutato, abbandonato e
dimenticato. La situazione è così grave che si verificano scene veramente disumane,
tanto che il fratello abbandona il fratello sul letto di morte, la donna l’amato marito, e la
cosa più sconvolgente i padri e le madri ... i propri figliuoli! Insomma questa peste è un
vero cataclisma; si rompono i vincoli dell’amicizia, della consanguineità, si minano alle
radici le istituzioni, le società rovinano.
Emilia: (angosciata alle donne) E’ tutto vero quello che dice, perché anche quelle
poche persone a cui mi è stato possibile parlare, mi hanno riferito la stesse cose.
Filostrato: E lo spettacolo è sempre lo stesso. Per le strade senza vita folle di bare
trasportate non più a spalla da amici pietosi o da addolorati parenti, ma da distratti
becchini che, contattati dagli stessi infelici nello stadio terminale del loro male, vengono
ammassate su carretti e in fretta depositate nelle chiese più vicine ... Dio, a cosa non
spinge l’ingordigia umana! questi scuri figuri, pur di pur di accaparrarsi danaro,
dimenticano di mettere a repentaglio la loro stessa vita e così spesso non avranno la
possibilità di godere della ricchezza accumulata perché anch’essi ci rimettono le
“penne” ... in questi funerali né appaiono più umani i frati che, dimentichi del triste
offizio, a passo spedito, in sintonia col roco suono del rintocco delle campane della
chiesa, depositano sul sagrato della chiesa l’infausto fardello.
Laura: Eppure che pena! sono appena due mesi da quando è scoppiata questa terribile
peste e la nostra città è diventata una città fantasma, le case vuote, le strade desolate,
non più sorrisi di bimbi, né rulli di banditori. Niente di tutto questo, la vita si è fermata
...
Emilia: La cosa più insopportabile di questa insostenibile situazione è il propagarsi di
un puzzo nauseabondo che impregna l’aria, diventa ricettacolo di mille virus che
attaccheranno chissà quanti uomini valorosi, quante belle donne, quanti giovani robusti
e forti di cui grandi medici dell’antichità ai giorni nostri avrebbero giurato della loro
immortalità, ma per ironia della sorte anch’essi si troveranno stretti nella morsa del male
...
Laura: Eppure quanta pena provo a vedere la mia città, così rigogliosa appena due mesi
fa ed ora così senza vita ... così spenta e poi quest’aria sonnolenta, che respiriamo, che
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diventa sempre più portatrice di morte, ora dopo ora affretta per gli ammalati la fine, la
prepara per quelli ancora non ammalati.
Scena IV
(Il gruppo si ricompone al completo)
Elisa: Toh! guardate, guardate, altri nostri amici che vengono verso la nostra direzione
si vede che anche loro sono diretti in chiesa.
Laura: E sì! E’ tempo di pregare!
(Pampinea si distacca dagli altri e si dirige verso Panfilo).
Pamp.: Panfilo, sia lodato il cielo! Siete proprio voi? sono stata molto in pena per voi,
perché non mi avete dato più notizie di voi, dove siete stato?
Panfilo: Rassicuratevi! come vedete, grazie al cielo, non mi è successo niente, come
potete constatare , sono vivo e vegeto, sono stato sempre a Parigi, come sapete, dovevo
preparare un esame di teologia, ma la Sorbonne ha chiuso i battenti per peste ed eccomi
qua e chissà quando potrò rimettervi piede. Ma ora, Madonna, parlatemi di voi, mi
amate sempre? se questo male così abominevole ci risparmia, io saprò far tesoro del
vostro amore e vi porterò all’altare.
Panfilo: (ironico a Filostrato) Ehi, Filostrato! le cose per te come vanno con madonna
Bice?
Filostrato: Non apriamo un’altra piaga! è bene non parlarne!
Pamp.: (a Panfilo) Lasciate perdere, Bice è passata a nozze con ...
Dioneo: Ma che sono questi piagnistei? basta che Filostrato si guardi attorno ed ecco
fatto! e poi tutti noi sappiamo che nel tuo cuore c’è posto per la nostra Fiammetta. (e
rivolto a Fiammetta, in ginocchio scherzoso) Fiammetta, fiamma inestinguibile dei
nostri cuori, tu, luce dei nostri occhi, estingui un po’ del fuoco che hai acceso in
Filostrato; dagli quella speranza che ha perduto.
Fiammetta: Per ora sono troppo occupata ad estinguere altri fuochi, ma non mettiamo
fine alla Provvidenza!
Neifile: (rivolta a tutti) Anche se mi sembra di capire che voi altri già siete stati in
chiesa, perché non vi unite ugualmente a noi? perciò entriamo tutti insieme e coralmente
innalziamo alla Vergine con tutto il nostro cuore un’accorata “Salve Regina”...
Narratore: E tutti entrano in chiesa, recitano l’accorata preghiera e poi armati di
coraggio decidono di abbandonare l’appestata città e di riparare sulle colline di Fiesole
dove vivranno gaiamente per quattordici giorni, raccontandosi novelle ora tristi, ora
giocose, ora cortesi e ora drammatiche su prati ameni e profumati da soli e
congedandosi nell’epilogo, si vantano di non aver commesso nessun atto, nessuna cosa,
nessuna parola ... da biasimare, ma essersi comportati in modo tale da non andare mai al
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di là dei limiti che fissano la decenza e il pudore. E a chi li avesse visti così baldanzosi,
speranzosi, coperti la fronte di alloro lucente, essi apparivano come il trionfo della vita
sulla morte.
(E si innalza un canto soavissimo: Salve regina....)
Andreuccio da Perugia
Seconda Giornata
V Novella - Racconta Fiammetta
Atto I
Scena I
Personaggi: Narratore, Andreuccio, un popolano, Don Pasquale.
(voci popolari di mercato)
Narratore: Andreuccio, un giovane mercante di Perugia, sul fare della sera di una calda
domenica di giugno, giunge in Piazza Mercato.
Andreuccio: Quanto mi sento stanco, ma dove mi trovo? cosa significa questo vociare?
forse è meglio che chieda notizie al primo passante. Ehi, ehi! buon uomo, di grazia mi
dite dove mi trovo? io sono diretto ...
Popolano: Uh Giesù, e nun o’ vverite vuje stesso, nge’ vo’ che vo’ dico io? ... qua è
piazza “mercato” nun o’ verite o pizzaiuolo, o pisciaiuolo, e’ carrette. Ah! ma forse vuje
nun e’ sapite chesti cose, vuie siete furastiere, nun è vero?
Andreuccio: Sì vengo da Perugia, e sono qui per una faccenda di mercatura, dovrei
comprare cavalli; infatti ho qui con me una grossa borsa di denari (e fa l’atto di
prendere la borsa). Qui dentro ci sono cinquecento fiorini d’oro.
Popolano: Uh! ... Maronna do’ Carmine, ... e chi ha mai sentuto na’ cifra e chesta
manera; ma chi l’ha mai visto. Ma voi siete sicuro di quello che dite? stateve accorto,
voi siete furastiero e a’ggente ca’... è poco raccomandabile! perciò io vo’ ddico po’
bbene vuosto! stateve zitto ... annascunniteve chesta borza e nun parlate cu nisciuno. Mi
avete capito?
Andreuccio: Ma io ... per la verità, cercavo proprio una persona con cui trattare
l’acquisto di un purosangue che ho promesso ad un senese che dovrà addestrare per il
“Palio di Siena”, ditemi dunque! a chi potrei rivolgermi?
Popolano: Sì, io conosco uno che fa proprio al caso vostro! verite, stà proprio a dduie
passe a ccà! è un certo Don Pasquale Esposito! ... Chillo sta llà, o vverite (e fa cenno
con la mano)! sta sempe fora a’ puteca soia. Vedete (e fa di nuovo cenno)! non vi potete
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sbagliare! è un tipo, come dire! un po’ eccentrico. Va vestuto polito, porta o’cappiello a’
smargiasse. Insomma, voi lo conoscete subbito, ah! eccolo là, vedete?
Andreuccio: (dà la mancia al popolano) Vi ringrazio, e vi sono obbligato!
Popolano: Grazie, grazie assaie! Signurì e a Maronna v’accumpagna!
Andreuccio: (si avvicina a don Pasquale) Salute! siete voi don Pasquale Esposito?
Don Pasquale: A servirvi ... salute a voi, ... ma voi chi siete? ma ci canusciamo? come
canuscete il mio nome?
Andreuccio: Veramente ho chiesto in giro di un bravo conoscitore di cavalli! ... e mi è
stato fatto il vostro nome! ...
Don Pasquale: (smargiassamente) Non faccio per dire ... ma songo o’ meglio da’
piazza! perciò dito ... ditemi tutto e vetiamo se vi pozzo accuntentare. Ma intanto voi chi
sieto! ... si vede che sieto un furastiero. Ma primmo che mi fate sfiacchire, avete ... come
si dice ... l’argeant ... inzomma e ... renare (e stropiccia le dita)
Andreuccio: Se è per questo ... non vi dovete preoccupare! ho qui con me (estraendo la
borsa) cinquecento fiorini d’oro.
Don Pasquale: Pe’ carità ... astepatevi subbito sta’ borza! ... questo ... a Napoli ... è
robba che scotta! Qui so’ tutti mariuncelli! perciò pe’ carità annascunnite subbito. Ho
capito tutto! ora è tardi, perciò vetiamoci domani apprimma matina! l’appuntamento è
llà ... a cchillu puntone! M’arruccumanno la puntualità ... alle sei domani mattina.
Andreuccio: Siete saggio, vedete ... è questo l’indirizzo (estraendo di tasca un
biglietto)
Don Pasquale: Lasciate perdere! io songo arfabetico! perciò levate a miezzo o’ scritto e
ditemi dove alloggiate!
Andreuccio: Mi trovo presso la locanda del Terminus.
Don Pasquale: Accussì ... va bbene. Stateve bbuono e stateve accorte.
Andreuccio: Andate con Dio! e a domani mattina alle sei!
Don Pasquale: (solo e rivolto al pubblico) Embè ... parola mia! io songo un uomo di
mondo e ho girato o’ munno sotto e ncoppe, ... sano, sano ...! so stato ... a Cardito,
Carditiello ... a Panecuocolo e nu furlocco cumme a cchisto, nun m’era mai capitato!
Speriamo bene, speriamo che nun se fa fa fesso!
Scena II
Personaggi: Donna Rosalia, Monna Fiordaliso, Andreuccio.
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(Due donne, un po’ distante ai due che discutono, passano per caso e una delle due, la
più anziana si precipita verso Andreuccio).
Rosalia: (meravigliata) Santo cielo! ma sei proprio tu? fatti vedere, ti sei fatto un bel
pezzo di picciotto, ma sei sempre così (guardandolo bene) come ti ricordo picciriddu.
Andreuccio: (stupito) Madonna ... ma voi mi conoscete? ... quando ci siamo incontrati?
in che occasione? io ... non me ne ricordo!
Rosalia: (senza dare ascolto alle sue parole) Fatti guardare! tutto preciso a tuo padre !
...
Andreuccio: (ancora più incredulo e meravigliato) Di grazia ... Madonna ... chi siete?
voi conoscete mio padre? e allora siete una parente? un’amica? o cosa? il vostro
comportamento mi incuriosisce.
Rosalia: E sì lo hai detto! io sono per te più che una parente! più che un’amica! tu sei
Andreuccio, figlio di Pietro degli Alberighi, un uomo straordinario, ricco, generoso,
bello ...
Andreuccio: Si è proprio mio padre, ma chi siete? dove lo avete conosciuto?
Rosalia: (con un sospiro) E già ... l’ho conosciuto, parecchi anni fa, ... quando anch’io
ero giovane e bella, quando vivevo a Palermo e fu lì che tempo fa, conobbi tuo padre! ...
ci innamorammo subito e fummo anche felici, ma tuo padre era sposato, ... aveva
famiglia ed io mi dovetti accontentare di vederlo di tanto in tanto, quando veniva a
Palermo per i suoi affari di mercatura. All’inizio veniva spesso, ma poi veniva sempre
più di rado e poi furono del tutto interrotti. Ah! ricordo a quel tempo ... quanta gioia! tuo
padre mi copriva di doni ... ma poi quanta sofferenza! ... quante attese inutili! ...
Andreuccio: (incredulo e dispiaciuto) Voi così avete conosciuto il mio babbo! come
sono dispiaciuto! ma raccontatemi ... come avete fatto a riconoscermi? ...
Rosalia: Innanzitutto ... lui parlava sempre di te ... era fiero del figlio maschio, l’unico
tra tante femmine! poi una volta, sei venuto anche tu a Palermo! avevi allora un otto
dieci, ... non te lo ricordi? e poi somigli tanto al mio Pietro.
Andreuccio: Ah! ora che ci penso sì, ma come eravate diversa ... volete che quando
ritorno a casa parli di voi a lui?
Rosalia: Lascia perdere ... non rinvanghiamo il passato! salutatemelo solo tanto, tanto ...
Andreuccio: E come faccio se non mi avete neppure detto chi siete!
Rosalia: Non te ne preoccupare, digli soltanto che sono la siciliana e lui capirà.
Andreuccio: Ma cosa ci fate a Napoli? non mi avete detto che siete siciliana?
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Rosalia: Non è il caso di riprendere una storia lunga e dolorosa! sappi solo che quando
tuo padre mi ha abbandonata, ho lasciato la mia terra per tentare fortuna altrove, ma essa
non mi ha assistito e purtroppo ... lasciamo perdere ... è bene che ora ci salutiamo!
Andreuccio: Abbiate coraggio e andate con Dio!
Rosalia: (abbraccia Andreuccio) Ah! come ti avrei voluto come figlio! Addio
Andreuccio caro ... (e va via avvicinandosi all’altra donna, mentre Andreuccio esce di
scena).
Scena III
Personaggi: Fiordaliso, Rosalia.
(sole sulla scena)
Fiord.: (stupefatta) Ma chi è chillu picciuotto dall’apparenza perbene e quello che conta
certamente ricco?
Rosalia: E chi ti ha detto che è ricco? come lo hai capito?
Fiord.: E ci voleva tanto? non avete visto quante volte ha tirato fuori la borsa con i
fiorini e poi non avete sentito quando stava parlando con quel tipo ha detto
(meravigliata) che aveva cinquecento fiorini d’oro.
Rosalia: Veramente non ci ho fatto caso, ma tu cosa ti stai mettendo in testa! attenta a te
a non tirargli nessun tiro sinistro.
Fiord.: (ironica) Donna Rosalia, non vi preoccupate, io ... non mi sono messa in testa
proprio niente. Poi è un vostro amico, visto che lo avete trattato con molta familiarità (e
accenna un sorriso) Quindi dormite sonni tranquilli; ma ditemi piuttosto chi è costui,
perché mi sembra un forestiero e mi sembra anche un po’ “imbranato”.
Rosalia: Imbranato, come dici tu, non lo so! ma sappi che è un giovane dabbene, è
figlio di un mio spasimante, una storia vecchia, non è il caso di riprenderla, e il giovane
si trova qui per mercatura, pare che voglia comprare cavalli.
Fiord.: (sottovoce) Lo dicevo io che qui c’erano denari!
Rosalia: Cosa?
Fiord.: Io? ... proprio niente, anzi! mi incuriosisce che avevate un amante forestiero; sì
perché mi è parso di capire che questo giovane è forestiero ed è ...
Rosalia: Di Perugia; il padre è un gran mercante ed appartiene ad una delle più potenti
famiglie della città; è Pietro degli Alberighi.
Fiord.: E voi avete avuto la grazia di tutto questo ben di Dio e ve la siete fatta scappare,
non siete riuscita ad accalappiarlo, questa storia, voi non me l’avevate mai raccontata.
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Rosalia: E’ storia vecchia, lasciamo stare! non mi va di richiamare alla memoria cose
che ho voluto seppellire col tempo.
Fiord.: Da quello che dite e da come lo dite, mi sembra che questa storia vi abbia
proprio fatta soffrire! non è così?
Rosalia: E’ vero! perciò non ne voglio parlare.
Fiord.: (compassionevole) Cosa volete farci, ognuno di noi nasce con un destino; c’è
chi nasce fortunato e chi no! e a noi purtroppo niente fortuna! Perché secondo voi a me
piace la vita che faccio? Ma pazienza! è andata così!
Rosalia: E sì, hai ragione! ma ora si è fatto tardi ed è bene che ci ritiriamo; perciò ...
buona sera! (ed esce di scena)
Fiord.: Buona sera (e rimasta sola va avanti e dietro) Mi sta venendo una mezza idea in
testa che se va in porto quei cinquecento fiorini stasera stessa diventeranno miei! perciò
altro che attenta a te! attenta a non tirargli nessun tiro mancino! Ora intanto me ne vado
a casa e poi preparerò tutto per benino; devo riflettere sui detagli, devo studiare i
particolari e poi la cosa sarà fatta.
Scena IV
Personaggi: Narratore, Fiordaliso, Andreuccio, Agnolo (servo).
Narratore: E intanto Andreuccio è giunto alla sua locanda: stanco, frastornato e stupito
dalle tante vicende del giorno, ignaro di quello che il caso gli stava preparando ... anche
Fiordaliso raggiunge la sua dimora in vicolo Malpertugio, uno dei vicoli più malfamato
di Napoli (e da un nome del genere, cosa ci si può aspettare?). La giovane donna è
eccitatissima e trasforma la sua casa in una serra, tanti sono i fiori che sono sparsi
dappertutto e addobba il letto con il più bel copertino che ha, apparecchia la tavola con
stoviglie lucenti e nuove. Insomma sta proprio preparando un bel tiro all’ingenuo ed
incauto Andreuccio.
Fiord.: Agnolo! Agnolo! ... Agn. …
Agnolo: Signurì! A servirvi! Ma cosa è successo! A natu ppoco me scapezzavo pe’
correrre.
Fiord.: Agnolo questa volta è fatta; questa volta voglio diventare ricca, ma tu sentimi
bene e poi fai tutto preciso come ti dico.
Agnolo: Signurì, ma state bbona? Voi (guardandola) me parite che tenite a freve!
Tenite l’uocchie lucente, lucente! Vuie me facite mettere appaura! Ma che è succieso?
Fiord.: Mai stata così bene! Lascia stare a freve perché a freve la faccio venire a te se
non la smetti di dire fesserie! Perciò, spilete bene le orecchie e ascolta! Tu devi andare
alla locanda “Terminus”, lì c’è un mio amico, un certo Andreuccio degli Alberighi; è un
forestiero! Gli devi dire che una damigella si pregia di invitarlo a casa sua; e mi
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raccomando! Parla in pulito. Quello è un ricco mercante e poi mi è stato detto che è
anche nobile! Perciò non ci facciamo conoscere prima del tempo.
Agnolo: Ma io non saccio parlare bene!
Fiord.: Ti arrangi e fatti capire! Vai e fai presto!
Agnolo: Uh! Mamma mia! Ca’ a Maronna ma’ manna bbona! Chesta sta troppo
appezzata! Io aggià fa comme a ditto essa, si no so’ guai (ed esce di scena).
Narratore: E Agnolo giunge da Andreuccio e nel suo approssimato italiano convince
Andreuccio ad accettare l’invito; il quale grullo come è ne è anche lusingato e segue
Agnolo che lo conduce da Fiordaliso.
Scena V
Personaggi: Fiordaliso ed Andreuccio.
Fiord.: (quando si accorge dell’arrivo di Andreuccio, gli corre incontro e lo abbraccia)
Andreuccio, Andreuccio mio, fratello caro (e lo bacia) da quanto, quanto tempo
aspettavo questo momento. Ora posso anche morire, perché morirei contenta, che sei il
benvenuto nella mia povera casa. Iddio mi ha voluta premiare ed ha esaudito le mie
preghiere. Ora finalmente eccoti in casa mia! Fatti guardare, ma tu ... non dici niente?
Andreuccio: Madonna! Io sono confuso! noi siamo fratelli? Anzi io sono vostro
fratello? Voi mia sorella? Allora voi conoscete mio padre? Scusate! Sono così confuso
che non riesco proprio a raccapezzarmi. Scusate il mio disagio; ma come può essere! Io
non vi ho mai vista. Mio padre, anzi nostro padre, non sapevo che avesse una figlia a
Napoli! ...
Fiord.: Sì, è così, ma mettiti a sedere ed ascoltami! Io non sono napoletana, io sono
siciliana, sono nata a Palermo, e se la sfortuna non avesse colpito la mia esistenza, ora
starei ancora lì, nella mia città che amo più di ogni altra cosa al mondo.
Andreuccio: Ma non mi fate stare in pena, ditemi come siamo fratelli?
Fiord.: Se avete la pazienza di ascoltarmi, ve lo dirò! Mia madre, la nobildonna donna
Costanza Spaventa, quando conobbe nostro padre, era già vedova di messer Lapo dei
conti di Torrepadula; i due si innamorarono perdutamente ed io sono il frutto di questo
amore! Essi si sarebbero dovuti sposare, ma i parenti di mia madre non permisero che
un mercante sposasse una aristocratica e così nostro padre non potè più mettere piede in
Palermo. I due però continuarono a tenersi in contatto clandestinamente, ma non si sono
mai più potuti incontrare e così il tempo, la lontananza ha affievolito e poi spento in
nostro padre l’amore per mia madre. Intanto nostro padre si era sposato a Perugia e mia
madre, quando lo seppe non resse a questo colpo, ne morì di crepacuore lasciandomi
sola e bambina. Ora mio caro Andreuccio conosci la mia storia e sai come siamo fratelli;
certamente vorrai sapere come da Palermo mi sono trasferita qui a Napoli! Per questa
cosa sarò breve, non scenderò nei particolari. Divenuta adulta, sposai un uomo potente e
nobile così come voleva il mio rango, il cavaliere Rambaldo dei Rambaldi, una testa
calda che si mise a fare politica, ma coraggioso e fedele al suo signore di modo che,
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quando l’isola passò dagli Angioini agli Aragonesi lui preferì seguire gli Angioini a
Napoli ed io con lui. Ma ben presto mi lasciò vedova perché prese parte ad uno dei
tentativi di riconquista dell’isola; ma vi morì combattendo. Ed ora eccomi, così come mi
vedi, sola, desolata e povera, molto povera e per di più prigioniera perché costretta a
vivere in una città straniera e che non amo.
Andreuccio: (commosso) Madonna, ora ci sono qui io!
Fiord.: Chiamami Fiordaliso ed io ti sentirò più vicino! Così sentirò il calore di una
famiglia.
Andreuccio: Sì, Fiordaliso (e i due si abbracciano) ora devo proprio andare via si è
fatto tardi.
Fiord.: Non sia mai detto che un fratello appena ritrovato metta fuori di questi casa
piede senza una cena, modesta ma donata con tutto il cuore (Andreuccio fa per uscire
ma è fermato da Fiordaliso).
Narratore: E dietro le insistenze di Fiordaliso, Andreuccio resta a cena dalla scaltra
fanciulla e poi, fattasi notte inoltrata, si ritira nella camera apparecchiata per lui; si
spoglia, depone i vestiti su di una seggiola e poi va al cesso. Ma, ahimè, un paletto
messo ad arte fuori posto fa cadere il giovane nel lordume che per miracolo sfugge a
pericoli più gravi. E così Andreuccio, sporco, puzzolente e derubato si trova fuori di
casa.
Scena VI
Personaggi: Andreuccio, voci, un figuro sinistro.
Andreuccio: (indignato) Dove sono? Per istrada? Come è possibile? Ed ora cosa faccio
così sporco, così puzzolente! Ahi, mi faccio schifo a me stesso, (gridando) ahi! Infame,
crudele! E i fiorini, la mia borsa! Ladra, restituiscimi i miei fiorini! o Dio! e così svestito
dove posso andare? (Picchia fortemente al portone) Pietà, almeno i vestiti, buttami dalla
finestra i vestiti. Ma come sono stato così stupido da cadere nel suo tranello! Ehi! Banda
di ladruncoli! Ora nessuno si affaccia, nessuno sa niente. Eppure ero stato avvertito! E’
proprio vero che chi dice donna dice danno.
Un figuro sinistro: (affacciatosi alla finestra) Uè, uè ... ma chi sì, che vuò! Se po’ sapè
che d’è stu burdello?
Andreuccio: (indignato e piangendo) Io ... sono stato derubato, lì in quella stanza c’è ..,
Un figuro: Che è ditte? Ripiete n’ata vota sti parole ca te faccio ..., te scippo o’ coro a
pietto! Si tu staie m’briaco ca’ a gente addà durmì (ed entra dentro).
Voci: (alla rinfusa) Giovinò, voi siete un bravo giovine! Andatevene, pa’ ammore è
Die! Voi non sapete chi è quello là! Quello ... è capace di uccidervi, perciò lasciate
perdere e andate via!
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Atto II
Scena I
Personaggi: Andreuccio, due ladri, il Narratore.
Narratore: E Andreuccio avvilito, arrabbiato e crudelmente beffato, si allontana da
vicolo Malpertugio e per la via Catalana cerca di raggiungere il mare per liberarsi del
lordume, ma si imbatte in personaggi strani.
Andreuccio: (scorge due persone sospette che si dirigono nella sua stessa direzione)
Chi potranno essere costoro? (e sospettoso) Forse è il caso che mi nasconda in questo
casolare, ma pare che si dirigano proprio qui! Oh Dio sono fregato!
Primo ladro: (parlando con l’altro) Entriamo qui dentro, controlliamo i nostri arnesi,
vediamo se ci manca qualche cosa.
Secondo ladro: (all’amico) Ma ... tu (annusando) non siente na’ cosa strana?
Primo ladro: (annusando) Guagliò! Ate ca’ cosa strana! Chisto è fieto! ... è fieto e’
fogna! Verimmo nu’ poco da’ addo’ vene!
(I due si guardano attorno e poi ...)
Il secondo: Ma guarda là! Chillo me pare n’ommo! Guardammo bbuono!
(avvicinandosi) Sì è proprio n’ommo.
(I due si avvicinano meravigliati e gli parlano)
Insieme: (con un fare minaccioso) Chi sì? Comme sì capitato ccà? ...
Andreuccio: (spaventato) Non mi fate del male! Io ... (tremando) non volevo scoprire le
vostre cose! Sono capitato qui per caso, anzi per sfortuna. Sappiate che io ...
Narratore: E così Andreuccio racconta la sua terribile disavventura, suscitando risate a
volontà nei due ladruncoli.
Primo ladro: Tu te li vuoi guadagnare i tuoi cinquecento fiorini perduti? E allora
seguici senza fare storie.
Andreuccio: Certo che mi farebbe piacere riavere i miei quattrini! ma cosa dovrei fare?
Secondo ladro: Statte senza pensiere, vieni con noi al Duomo! là l’atrieri, hanno
atterrato un cardinale, mons. Filippo Minutolo!
Primo ladro: Questo era un gran signore e certamente lo hanno atterrato con paramenti
ricamati in oro, con il suo anello ricoperto di rubini, noi andiamo lì e poi vediamo.
Andreuccio: (persuaso) Sì ... mi sta bene! farò tutto quello che mi dite di fare!
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I due ladri: (insieme) Ma tu fieti assai! truvammo na fontanella e lavati nu’ poco.
Narratore: I tre si incamminano e per caso passano davanti ad un pozzo dove
Andreuccio viene calato per lavarsi. Ma le disgrazie del giovane non si fermano qui
perché proprio quando si trova nel pozzo arriva gente per bere. E i ladri, amici di
Andreuccio, spaventati fuggono in fretta, lasciandolo giù nell’acqua da cui per caso
viene fuori, quando il nuovo arrivato tirando la carrucola, lo libera e lui stesso cadrà a
terra tramortito, quando s’avvede che la catinella stranamente pesante conteneva il
corpo di Andreuccio fradicio. Di questa casualità così ricca di colpi di scena l’unico a
trovarne giovamento è Andreuccio che finalmente si è potuto lavare.
Scena III
Personaggi: Narratore, Andreuccio e i due ladri.
(in chiesa)
Primo ladro: Allora tutto è stato predisposto, ora dobbiamo decidere chi dei tre scende
nell’arca.
(I tre parlano tra loro)
Primo ladro: (all’altro) Allora! ... tutto è stato predisposto! Ora dobbiamo decidere chi
dei tre scende nella bara.
Andreuccio: (non interrogato e spaventato) Io, proprio no! Io non sono abituato! i
morti mi fanno impressione!
Secondo ladro: (e con un fare minaccioso) E invece proprio tu scenderai dentro! Ma tu
accussì, te vulive guadagnà e’ renare! senza fa nisciuno sfuorzo?
Primo ladro: Guaglio’! ma tu addò si asciuto! vuo’ verè che a casa d’e’ sunature se
portano e’ serenate! tu già mi ‘e sfasteriate, nna’ta parola è cchiù e te inserramme a
rinte. Eggià; il messere non è abituato (ironico). Ma perché fossimo abituati nuie, perciò
e’ fatto già troppi storie per i nostri gusti.
Andreuccio: (avvilito) Va bene! farò come voi comandate! ma poi dividiamo in parti
uguali?
Secondo ladro: (all’altro) Ma tu vire a Maronna cu cchi avimmo avuto a cche fa’! Si
dice n’ata parola si mmuorto! Perciò, mo’, proprio mo’, scinne rinte a’cascia.
Narratore: E Andreuccio, spaventato per la vicinanza del cadavere di monsignor
Filippo Minutolo, ma ancora più terrorizzato dalle minacce dei suoi compagni di
ventura scese nell’arca, spogliò l’arcivescovo dei suoi paramenti d’oro, li consegnò nelle
mani dei due ladri e tenne per sé l’anello con i rubini. Intanto arrivò gente, venuta lì per
lo stesso motivo e Andreuccio rimase intrappolato nell’arca, mentre i suoi infidi
compagni scapparono via.
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Andreuccio: (con voce d’oltretomba) Chi mi salverà da morte sicura? Già vedo il mio
corpo bello, vegeto e robusto dilaniato da animali di ogni specie, già sento su di me
quest’aria ammorbata! Già sento che la morte mi ghermisce.
(un frate si avvicina all’arca e fa per scendere)
Un frate: Oddio! cosa mi succede? chi mi afferra per le gambe? Allora è proprio vero
che i morti sanno tutto? Chi mi vuole punire per questo sacrilegio? Si sono sacrilego,
anzi, due volte sacrilego, prima perché ho profanato una tomba e poi perché sono un
frate. Dio perdonami! Aiutamiiii ... (e gridando esce di scena)
Andreuccio: (uscendo dall’arca) Ah, finalmente libero! Non mi sembra ancora vero ma
che non stesse in agguato un’altra disavventura? però è vero che sono stato beffato (e
guardandosi l’anello al dito) ma ne è valsa la pena! (e mostrandolo) Questo anello
certamente varrà almeno tre volte i fiorini perduti. Quindi anche nelle disavventure non
bisogna sempre disperare perché sarà il “Caso” il giusto dispensiere delle nostre fortune.
FINE
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Dalla Goldoniana
II teatro comico
“ovvero una lezione di teatro”
di Carlo Goldoni
Presentazione
Scritta a Venezia nel 1750 e rappresentata in settembre dello stesso anno a Milano, la
commedia “Il teatro comico” fu dedicata alla nobildonna Margherita Litta dei marchesi
Calderari, donna di profonda cultura, attenta conoscitrice delle opere teatrali e in
particolar modo di quelle goldoniane ed abile attrice. Tale commedia, prima della sua
rappresentazione, fu sottoposta al suo giudizio tenuto in gran considerazione dall’autore.
Atto I
Scena I
Personaggi: Orazio, Eugenio.
(E’ giorno di prova generale e in palcoscenico c’è grande fermento; in teatro sono
giunti in anticipo: Orazio, il capocomico della compagnia ed Eugenio, uno dei
commedianti).
ORAZIO: Eugenio, aiutatemi a calare giù queste tende!
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EUGENIO: E perché mai? Se le abbiamo tenute sempre su, quando abbiamo provato?
Ma che, per caso, c’è qualche motivo per tirarle giù? C’è qualche novità, forse?
ORAZIO: A dire il vero, c’è qualcosa di nuovo che voi altri della compagnia non
conoscete. Oggi è previsto l’arrivo di due commedianti nuovi. Credo che costoro
arrivino qui in teatro, durante le prove e mi è stato anche assicurato che si tratta di due
talenti, di due grossi personaggi e desidererei che nessuno li vedesse prima del tempo.
EUGENIO: Ma, signor Orazio, noi siamo abituati a lavorare con il sipario aperto, con
la luce.
ORAZIO: Fate come vi dico, non vorrei che curiosi si infiltrassero per assistere alle
prove, qui in teatro e potessero riportare fuori di qui questa cosa. Per adesso preferisco
che tale novità resti fra noi ... e che essi siano conosciuti solo quando recitano davanti ad
un vasto pubblico.
EUGENIO: (Nell’atto di tirare le tende) E va bene! Però vorrei ricordarvi che calando
le tende, sul palcoscenico c’è ombra, anzi buio e noi avremmo bisogno di lumi e poiché
oggi è prova generale, certamente ci vorranno tantissimi lumi.
ORAZIO: Questo pure è vero!, Anzi vi confesso che a questo non avevo badato! E per
quello che si guadagna con la professione di commedianti c’è da stare freschi se ci
accolliamo anche spese superflue, perciò ... sapete che vi dico? ... Lasciamo perdere.
Scena II
Personaggi: Orazio, Eugenio, suggeritore.
ORAZIO: Ma ... cosa sono quei fogli sparsi su quel tavolo? Possibile che qui c’è
sempre disordine?
EUGENIO: (Dirigendosi verso il tavolo e leggendo) Quali? quelli? (li guarda con
attenzione) Sì! Sì! sono fogli della commedia di stasera, mi sembrano proprio quelli del
copione! ... Anzi fanno parte del secondo atto.
ORAZIO: Quelli del copione? ... E come sono finiti qui, su questo tavolo? E’ da un po’
di tempo che anche il suggeritore è più disattento del solito; ora che verrà, mi spiegherà
lui perché va seminando fogli del copione.
EUGENIO: Non è proprio così signor Orazio! Ieri sera si è provato fino a tardi e lui, si
vede, stanco come era, si è dimenticato di raccoglierli.
ORAZIO: Sì, ma come sono finiti fuori dal copione? E’ perché staccarli?
EUGENIO: La verità è che Beatrice ieri pomeriggio si è presentata alle prove senza la
sua parte e lei, per maggiore sicurezza, ha implorato il suggeritore affinché staccasse dal
copione le sua battute per evitare che senza di esse, si potesse sentire in qualche modo
condizionata.
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ORAZIO: Quella sciagurata, chissà dove tiene la testa! E’ sempre frastornata! Pare che
sta sempre fra le nuvole. Uno di questi giorni, se non mette la testa a partito, la caccerò
fuori dalla compagnia ... Anzi ... a pensarci bene è da un po’ di tempo che all’interno
della compagnia c’è qualcosa che non va. D’ora in poi starò in all’erta e lo scoprirò io
stesso.
(Arrivo del suggeritore.)
SUGG.: Buongiorno signor Orazio (con voce incerta) e mi scuso per il ritardo; stamane
mi ero svegliato anche presto, ma con una forte emicrania e così ho preferito restare
ancora un po’ a letto, visto che si prevede una giornata di fuoco ed io perennemente alle
prese con il copione per far procedere tutto liscio.
ORAZIO: Sì, va bene! Ma adesso non ci perdiamo in chiacchiere! Prendete le vostre
cose e predisponetevi al vostro lavoro; lì su quel tavolo ci sono fogli che dovreste
meglio custodire; perciò, raccoglieteli e uniteli al copione.
SUGG: Che sbadato che sono! Mi rincresce che voi l’abbiate scoperto, questo doveva
essere un segreto tra me e Beatrice; ma si vede che sto proprio invecchiando. Adesso, vi
prego, ora che arriverà in teatro Beatrice, non fatele pesare questa piccola negligenza.
ORAZIO: La piccola negligenza, così come la chiamate voi, è sintomo di superficialità,
e spero che anche voi non cadiate in questo difetto.
SUGG.: (nell’atto di raccogliere i fogli) Ma io potrei farne anche a meno, tanto il
copione lo conosco tutto quanto, in tutto e per tutto, conosco perfettamente le entrate, le
uscite, le pause, le battute di tutti i personaggi e non solo di questa commedia.
ORAZIO: (ironicamente) Lo sappiamo, lo sappiamo che siete un bravo suggeritore, che
avete buona memoria, ma avete anche un grosso difetto, quello della distrazione. Basta
che durante la recita, vediate un paio di caviglie infiocchettate di pizzi e merletti e voi
andate in visibilio, perdete le staffe e dimenticate tutto.
SUGG: Sì lo confesso, questo è proprio vero, confesso questa mia colpa, se di colpa si
tratta. Le donne per me sono tutto, specialmente se giovani e pimpanti; esse occupano il
mio cuore, accendono la mia fantasia, mi entrano nel sangue.
EUGENIO: Piano, piano, non andate su di giri che il palcoscenico potrebbe andare in
fiamme (ridendo). Sapete anche a noi piacciono le donne, ma sappiamo anche
riconoscere il momento giusto! E quello del palcoscenico è il meno adatto per le
passioni reali, mentre si presta molto meglio per quelle fittizie.
ORAZIO: Non ci impegoliamo in discorsi frivoli e pensiamo piuttosto al lavoro che ci
attende! Perciò niente negligenze, massima attenzione e concentrazione (e rivolto al
suggeritore) ci siamo intesi? Che non si ripeta più quello che accadde durante la recita
del Momolo Cortesan! Ricordate? Quella cantatrice dimenticò la battuta, ma voi eravate
in tutt’altre dimensioni, eravate su tutt’altri pianeti, la caviglia di quella bella biondina
vi aveva così ammaliato che perdeste il segno. Ci fu una lunga pausa, ma il pubblico
fortunatamente non se ne accorse. E non sempre si può avere la stessa fortuna; perciò
animo e con la testa sgombra da qualsiasi grattacapo.
SUGG.: Farò del mio meglio non ne dubitate.
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Scena III
Personaggi: Orazio, Placida, suggeritore.
PLACIDA: Buongiorno a tutti! (poi si gira intorno) come? sono arrivata di proposito in
ritardo e nessuno ancora è arrivato?
ORAZIO: Buongiorno, signora Placida, quello che voi dite non è del tutto esatto,
vedete, ci sto qua io, il suggeritore, Eugenio, lo spasimante della commedia, pazientate
un po’ e vedrete che arriveranno anche gli altri; (si rivolge ad Eugenio) ma che ora si è
fatta?
EUGENIO: (estraendo l’orologio dal taschino) L’oriuolo segna un quarto alle dieci.
SUGG.: Come? E’ così tardi? Ma gli altri sanno che è prova generale? Sono stati
informati per tempo?
ORAZIO: Sono stati informati ... Sono stati informati ... (con un fare tra l’ironico il
sarcastico). Ma si vede che non sono stato abbastanza convincente. D’ora in avanti lo
sarò di più. Da domani in poi si farà a modo mio e chi non è d’accordo, quella è la porta,
può anche andarsene.
PLACIDA: Questo proprio non me lo aspettavo! Io, la prima donna devo aspettare le
altre? Qui ci vuole più rigore, maggiore attenzione per le persone di riguardo.
ORAZIO: Proprio qui vi volevo! La commediante che impersona la prima donna, deve
sentire maggiore il peso del suo ruolo, non deve insuperbirsi, né snobbare le compagne
di lavoro, ma essere più comprensiva, più umile. Quindi ora capisco il motivo di tale
ritardo, il motivo siete voi.
PLACIDA: (meravigliata) Ma se siete stato sempre voi a dire che la prima donna arriva
in scena nel bel mezzo dell’azione, sempre dopo altri personaggi, che gli altri le fanno
corona ed ora cosa è questa storia? Devo arrivare per prima? Si sono invertiti i ruoli?
ORAZIO: Signora Placida non è il caso che vi alteriate, lo avete detto voi stessa senza
rendervene conto; la prima donna arriva dopo gli altri in scena, ma alle prove insieme
agli altri, o se non prima, visto che ha un ruolo determinante e deve essere di esempio
alle altre donne.
PLACIDA: (un po’ nervosa) Va bene, va bene, ho capito! Tronchiamo questo discorso,
ditemi piuttosto cosa recitiamo questa sera?
SUGG.: Stiamo ancora a questo? Questa sera recitiamo: Il padre rivale del figlio.
PLACIDA: Ma come? Con tante commedie di carattere andiamo a rappresentare ancora
farse?
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ORAZIO: Ah! Sono sorpreso positivamente, sapete anche che ci sono commedie di
carattere?
PLACIDA: Io sono una che si informa e so anche che il grande “Autore” il grande
Goldoni ha scritto per la nostra compagnia, la brillante compagnia Medebach ben sedici
commedie e tutte nuove di zecca.
ORAZIO: Brava, brava! Le sedici commedie le ho tutte con me, mi sono state
consegnate proprio da lui in persona un mese fa e certamente ho intenzione di
rappresentarle, ma le dovrò studiare prima io. Poi, per adesso la nostra compagnia
ancora non è pronta perché non solo non le conosce, ma non dispone neppure di
personaggi a sufficienza. Ma vi prometto che in breve tempo saremo pronti a metterle in
scena, intanto alla nostra compagnia si aggiungeranno altri due personaggi e questo in
previsione di fare teatro goldoniano.
PLACIDA: Visto che gli altri non si fanno vivi, io mi ritiro nel mio camerino e aspetto
che voi mi chiamiate, quando iniziano le prove. (ed esce di scena)
Scena IV
Personaggi: Eugenio, Orazio, Suggeritore, Tonino, Colombina.
ORAZIO: Saggia decisione (guardando l’orologio). Ma gli altri quando arrivano?
Andando di questo passo, le prove vanno proprio a farsi benedire.
EUGENIO: Non disperate, signor Orazio, sono solo le dieci e mezza, vuol dire che
incominceremo un po’ più tardi e lasceremo il teatro solo quando siamo convinti di aver
provato bene la commedia, dovesse anche farsi pomeriggio inoltrato,
SUGG.: Bravo! Così proprio non va bene! Perché tutti poi saremo stanchi per la recita
di stasera.
ORAZIO: Non chiacchierate a vuoto; piuttosto andate a chiamare gli altri commedianti.
EUGENIO: Sì vado! (Eugenio esce di scena).
SUGG.: Sss ...! Sento dei passi! voci sempre più vicine! Che non siano proprio loro!
Adesso vado a vedere. (due commedianti arrivano in scena: Tonino e Colombina e lui
esclama) Ah! ... finalmente ... Sia laudato il cielo! ... Ora, si può anche incominciare a
provare; ci siamo quasi tutti, almeno gli attori principali sono qui; gli altri faranno la
loro apparizione nella seconda parte della commedia e poi sono impegnati in poche
battute. Perciò animo e tutti al lavoro.
TONINO: (con un fare stanco) Buongiorno a tutti! Credevo proprio di non farcela; ho
trascorso una notte d’inferno ed ho dormito sì o no un paio d’ore. Che strani sogni che
ho fatto, di cui però non ricordo quasi niente; c’era, ricordo, qualcosa di molto grosso
che mi opprimeva, forse un macigno, ma all’improvviso mi sono svegliato di
soprassalto, così mi sono reso conto che si era in piena notte. Poiché ero troppo agitato e
certamente non mi sarebbe stato possibile riprendere sonno, mi sono alzato e per
ingannare il tempo, mi sono messo a ripassare la parte. Che sensazione strana! Mi è
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parso di leggerla per la prima volta! Ma poi l’ho ripetuta tante volte, fino a quando non
ho avuto la certezza di conoscerla a perfezione e solo così mi sono riaddormentato. Ma
ho ripreso a sognare, ed ho sognato di stare sulla scena, ma le parole non mi venivano,
così ho cominciato a tremare, a sudare; poi strani suoni colpivano le mie orecchie,
Credo che fossero fischi. Mi sono svegliato e i fischi si sono rivelati nel suono della
sveglia. E’ inutile dirvi che ero in un mare di sudore. Che notte d’inferno, che incubi!
Ed eccomi qui, ma non me la sento proprio di provare.
ORAZIO: Cosa dite? Neanche per sogno; ora vi siete ripreso e non c’è motivo che non
proviate! Tonino, voi siete un attore consumato, avete recitato in tante compagnie, vi
siete sempre fatto onore ed ora, solo perché è cambiato modo di fare teatro, vi
comportate come un pivellino alla sua prima esperienza. Sì! Perché questo è il motivo
dei vostri incubi e dei vostri tremori. Voi eravate abituato a recitare con il canovaccio ed
ora invece siete costretto al copione. Ma cosa volete farci! I tempi cambiano e così pure
i gusti.
TONINO: Si fa presto a dire così; ma io, quando sono in scena, sono assalito da una
paura indicibile causata dal dubbio “e se poi non ricordo?”.
SUGG.: Ed io qui cosa ci faccio? Il nuovo modo di fare teatro per questo prevede nella
compagnia anche il suggeritore; perciò, non datevi pensiero più del dovuto. Fate bene
che studiate scrupolosamente la vostra parte, ma non dovete permettere che l’ansia vi
consumi.
TONINO: Certamente sarà come voi dite! però cosa dirvi, fare teatro con il canovaccio
per me era tutt’altra cosa; il canovaccio lascia spazio all’attore che può inventare,
improvvisare, creare e qui si vede il talento dell’attore. Il copione ... invece ... lo lega, ne
fa un fantoccio; insomma ... non lo lascia respirare! ...
ORAZIO: Ma cosa dite? Non bestemmiate! Il canovaccio ha avuto in passato anche i
suoi momenti di gloria, ora è superato; è per commedianti da strapazzo; può servire solo
nelle piazze del contado. Il copione è ordine, rigore, crea opere immortali. E voi non
potete mortificare così l’arte. Mi auguro che queste cose che avete detto, non le pensiate
veramente. (e rivolto a Vittoria) E voi cosa ne pensate?
VITTORIA: Io, per quanto mi riguarda, ho conosciuto solo questo modo di fare teatro
e mi piace così, ma comprendo anche lo stato d’animo dei più bravo Pantalone dei
giorni nostri, del nostro signor Tonino. Lui era abituato a quel modo di recitare e ne era
anche maestro; ma per ora, sarà duro studiare a memoria per filo e per segno tutto,
battuta per battuta. E poi non dobbiamo trascurare un elemento importante: i giovani
fanno presto ad ambientarsi con il nuovo; hanno memoria fresca, per i vecchi non è così.
E il nostro signor Pantalone non è certo un giovincello.
TONINO: Anche se dovrei essere in collera con voi, perché con molto garbo mi avete
dato del vecchio, ammetto che avete giudizio e mi sento anche lusingato dalle parole di
apprezzamento che avete usato nei miei riguardi.
SUGG.: (col copione in mano) Credo proprio che sia giunto il momento di provare,
visto che gli attori principali sono tutti qui; via signora Colombina, su coraggio signor
Pantalone, tronchiamo questo discorso che ci porterebbe troppo lontano e mettiamoci a
lavorare.
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ORAZIO: Giusta decisione, signor Tonino rimandiamo questo argomento di
discussione in un’altra occasione (e rivolta a Colombina) e voi Colombina come state di
animo?, Non vorrei che anche voi foste giù di corda, mi sembra proprio che qui ogni
cosa congiuri contro “Il padre rivale del figlio”: attori in crisi ... ah! Dimenticavo ... e le
scenografie ... e i costumi. Quello sciagurato dello scenografo avrebbe dovuto
consegnare il suo lavoro almeno una settimana fa ed invece, eccoci alle solite, le scene
ancora non sono qui; e i costumi neppure! La costumista, da quando fa la parigina, non è
più la stessa, non mantiene gli impegni, si riduce sempre all’ultimo momento.
VITTORIA: (con ammirazione) Signor Orazio, però i suoi vestiti sono belli, le altre
compagnie ce le invidiano! La nostra costumista è una donna di gran gusto, compera
tutto a Parigi, dalle stoffe ai lustrini. Perciò le possiamo perdonare anche qualche
piccolo ritardo.
SUGG.: Voi donne non badate ad altro! Voi passereste la vita tra pizzi merletti e
specchi! ... Facendo solo toletta.
Scena V
Personaggi: Eugenio, Gianni, Orazio.
(Eugenio e Gianni entrano in scena ridendo)
EUGENIO: Signor Orazio ... ah .. ah .. ah .. ah ...
ORAZIO: Ma cosa succede? Almeno qui qualcuno ride!
GIANNI: (ridendo) Si ride sulle disgrazie altrui.
EUGENIO: (continuando a ridere) Non ... ah ... non ce la faccio questa è troppo,
troppo grossa ... signor Orazio ma lo avete guardato? (indicando Gianni) E’ bagnato
fradicio.
ORAZIO: (meravigliato) Sì l’ho visto, (e ride un po’) ma si può sapere cosa è stato?
GIANNI: Purtroppo mi è capitata una disavventura (e ride) mi son cascad nel Canal
Grand.
ORAZIO: Come! Come! Raccontate ... Questa storia mi incuriosisce!
GIANNI: Stamattina presto ... ho preso quella navicella ... sì ... quella ... non ricordo
come le chiamate voi veneziani, a rotta di collo, temevo di far tardi e ho messo un piede
in fallo e ... patapunfete ... mi son cascad nel canal.
ORAZIO: (ridendo) Ma come parla, signor Arlecchino? In toscano, in bergamasco;
quella che avete chiamato la navicella è la gondola.
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GIANNI: Sì, proprio quella! Io lo so che voi veneziani la chiamate così, ma io ho
voluto dimostrar che essa si può ciamar in tanti altri modi; ad esempio il nostro Padre
Dante dice “per correr migliori acque alza le vele o mai la navicella del mio ingegno”
ORAZIO: Vedo che conoscete anche Dante.
GIANNI: Mi son un Arlecchin istruito e troppi son gli gnuran anche se son molti
Arlecchini che popolano la nostra terra.
ORAZIO: Signor Gianni non vi riconosco in questa veste seriosa, almeno voi
conservate il vostro buon’umore.
GIANNI: Certo quello è sempre con me! Però io so far ridere innanzitutto sulle scene,
mentre nella realtà qualche volta so anche essere serio.
Scena VI
Personaggi: Suggeritore, Orazio, Anselmo.
SUGG.: Ah! non ci sono affatto problemi, qui c’è anche Brighella.
ORAZIO: Signor Anselmo, ma cosa avete fatto?, Voi siete sempre così puntuale ed
anche voi in ritardo stamattina? Su ... presto ... presto che le prove stanno per iniziare.
ANSELMO: Sono mortificato di questo indugio, ma ho avuto un contrattempo. Sapete,
mi sono imbattuto in un forestiero che chiedeva di voi, della nostra compagnia ed io
visto che lui era diretto proprio qui, così come me, mi sono offerto di accompagnarlo ed
ora è fuori che aspetta per essere ricevuto.
ORAZIO: (seccato) E voi senza conoscere ... senza sapere ... il primo venuto e per di
più un forestiero lo accompagnate pure! Ma chi è costui? Cosa vuole? Perché proprio da
noi? Non bastava il tempo che abbiamo perduto?
ANSELMO: Signor Orazio, lasciatemi spiegare, non vi ho detto tutto, sono stato troppo
precipitoso, le cose non sono andate proprio così come voi avete pensato. Io mi sono
offerto di accompagnare questo signore, solo dopo che mi sono state date le sue
credenziali e il motivo della sua visita. Mi ha detto che di professione era “poeta
comico” e che voleva conoscervi nella speranza di avere un posto nella nostra
compagnia.
ORAZIO: E voi cosa avete risposto?
ANSELMO: Dal momento che vi conosco come la pensate e della vostra poca fiducia
nei confronti dei poeti comici ho anche cercato di dissuaderlo; ma non c’è stato verso,
non ci sono riuscito; lui era troppo fermo nei suoi propositi.
ORAZIO: E allora, visto che non possiamo evitare di riceverlo, (rivolto a Vittoria)
introducetelo questo scocciatore, così prima lo riceviamo e prima ce ne liberiamo.
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VITTORIA: (sorniona) Io ve lo introduco, ma io faccio la servetta fedele solo sulle
scene, nella finzione.
ORAZIO: Lo sappiamo, lo sappiamo benissimo, non perdiamo altro tempo, io intanto
chiamerò gli altri perché mi piace conoscere anche il loro parere su costui.
(e parte)
Scena VII
Personaggi: Beatrice, Petronio.
BEATRICE: Via, signor dottore, mi piacerebbe nella prossima commedia che foste voi
il mio cavalier servente.
PETRONIO: Fossi pazzo, il cielo me ne liberi! Alla larga il più possibile! E come
potrei sopportare i vostri umori più mutevoli di piume al vento?
BEATRICE: Signor Petronio non vi incomodate per amor del cielo, l’ho detto solo per
celia; io non ho mai avuto cavalier serventi, ma se proprio dovessi averne uno, me lo
cercherei giovane e aitante e voi non siete né l’uno e né l’altro.
PETRONIO: Siete soverchiamente sfacciata, non avete né rispetto e né senso di
misura.
BEATRICE: E non potrebbe essere diversamente perché l’età non me lo consente!
Perciò a voi il garbo e la misura, ma anche la monotonia; a me l’avvenenza, la bellezza
e la sfacciataggine.
Scena VIII
Personaggi: Eugenio, Orazio, Placida.
(entrano insieme in scena)
PLACIDA: Buongiorno signora Beatrice!, avete fatto buon viaggio?
BEATRICE: Beh non mi lamento; ma sapete, i viaggi sono sempre snervanti ed o mi
sento un po’ stanca, ma mi rimetterò presto! E voi signora amabilissima. come state?
PLACIDA: Benino, si sa durante le prove mi affatico tanto perché sono molto
scrupolosa; studio tanto perché tengo alla mia reputazione e cerco di dare il meglio di
me.
BEATRICE: Vi ammiro moltissimo e vi invidio anche un po’; voi siete il mio modello
di artista e spero che un giorno anch’io possa diventare primadonna.
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EUGENIO: Abbiamo finito con le cerimonie? Ci tocca ricevere un forestiero e
dobbiamo ascoltarlo con attenzione.
ORAZIO: Portate delle altre sedie, di modo che tutti possiamo accodarci e ascoltare
questo personaggio.
Scena IX
Personaggi: Lelio, Orazio, Placida, Beatrice, Eugenio, Petronio.
LELIO: Servitore umilissimo a lor signori, di grazia, di queste gemme (rivolto alle
donne) qual è la più fulgida, qual è la prima donna?
ORAZIO: (con cenno) E’ qui è la signora Placida!
LELIO: (rivolto a Placida) Incantato, permetta che io le esprima tutto il mio rispetto!
(e le bacia la mano)
PLACIDA: Mi onora troppo, io non lo merito!
LELIO: (rivolto a Beatrice) Lei è certamente la seconda donna!
BEATRICE: Per servirla.
LELIO: Permetta che le esprima tutta la mia ammirazione (fa per baciarle la mano).
BEATRICE: No, è troppo (e ritira la mano).
LELIO: Ma è mio dovere di gentiluomo, è mio debito!
BEATRICE: Come comanda!
ORAZIO: (a Eugenio) Questo poeta è molto cerimonioso.
EUGENIO: (ad Orazio) È proprio dei poeti; e i poeti con le donne fanno tutti così!
ORAZIO: (a Lelio) Ella dunque è il signor Lelio, celebre compositore di commedie,
non è così?
LELIO: Ai suoi comandi, proprio così, ma con chi ho il piacere di parlare, se è lecito
saperlo!
ORAZIO: Il piacere è tutto mio; sostengo la parte di primo amoroso e sono il capo
della compagnia Medebach.
LELIO: Quale onore, è lei l’immortale Orazio Medebach della celeberrima commedia
Medebach? mi consenta di esprimere le felicitazioni più grandi che sento per lei e per la
sua compagnia!
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ORAZIO: Non esageri, solo gli dei erano immortali.
LELIO: E lei con la sua nobilissima arte, li ha superati.
ORAZIO: Signor Lelio è un piacere ascoltarla, ma è capitata in un momento poco
adatto; vede, noi siamo impegnati per tutta la giornata nella prova generale, perciò la
prego di venire al dunque.
LELIO: Mi rincresce di arrecarle disturbo; ma se avrà la pazienza di ascoltarmi, si
renderà conto che ne è valsa la candela ... Sappia che io ho lavorato nelle più prestigiose
compagnie di mezza Europa come poeta comico e con discreto successo. In
quest’ultimo periodo sono stato presso la compagnia Mirasole e ci sono rimasto per
oltre sei mesi. Ma sa, io sono uccel di bosco, amo viaggiare, e proprio non ce l’ho fatta
più a vedere gli stessi visi, la stessa gente, lo stesso ambiente e così ... aria ... aria nuova
...; ho deciso di cambiare tutto. Io sono un artista e come tutti gli artisti, amo la libertà e
preferirei se i miei lavori sono di gradimento della compagnia, essere dei vostri.
ORAZIO: Mi lusinga la sua richiesta, ma fino ad ora la mia compagnia non ha avuto
bisogno di poeti comici, ce la siamo sempre cavata senza. Ma se ha qualche cosa di
buono, certamente lo sapremo apprezzare e prenderlo in considerazione; dunque cosa ci
propone?
LELIO: (rivolta a Placida) Signora, ho della scene di tenerezza, fatte proprio per voi,
che farebbero piangere gli stessi scanni; e per voi signora Beatrice delle scene che
strapperanno applausi anche ai palchi.
EUGENIO: (sotto voce) Sarà pure un gran poeta come dice! ma per me è poeta del
Seicento.
ORAZIO: E allora, vuole favorirci qualcosa?
LELIO: (prendendo delle cartacce e leggendo) Certo che sì ... Pantalone, padre
amoroso; Arlecchino servo fedele; Brighella mezzano per interesse; Ottavio economo in
villa e Rosaura delirante per amore! (segue lungo silenzio) Cosa ne dite’ Non è bello?
(tutti sono interdetti).
PLACIDA: Il titolo è troppo lungo, tanto che non lo ricordo nemmeno.
LELIO: Ma il tutto sta proprio qui nel titolo; è il titolo che fa da argomento alla
commedia.
ORAZIO: Signor Lelio, mi perdoni; ha mai sentito parlare dell’unità dell’azione? Le
buone commedie devono avere questa caratteristica: uno deve essere l’argomento e
semplice il titolo.
LELIO: Il bello di questa commedia è che essa a volerlo può avere più titoli, o meglio
ancora uno solo, prendere quello che più piace, di modo che per più anni si può recitare
la stessa commedia, ma con un titolo diverso ed essa apparirà sempre nuova.
101
ORAZIO: Questo è recitare a soggetto ed è da tempo che non si fa più! Se avete
qualcosa di serio da proporci, saremo tutt’orecchi; in caso contrario, non sono più
disposto ad ascoltare simili grossolanità; anzi mi rifiuto e insieme a me tutta la
compagnia di ascoltare simili corbellerie. Perciò vi prego, non una parola in più perché
questo è un oltraggio all’arte; è un attacco al teatro.
LELIO: (mortificato) La prego non si inquieti, ascolti, vedrà che andrà bene e ci
metteremo d’accordo.
PETRONIO: (rivolto ad Orazio) Diamogli ancora una chance! (e rivolto a Lelio) Ci
legga una sola scena, la più importante di questa commedia e poi vedremo.
LELIO: (leggendo) Mentre Pantalone è in casa, il dottore dice quel che vuole.
Arlecchino, servo del dottore, viene pian pianino e dà una bastonata al suo padrone.
ORAZIO: Basta! ha superato ogni limite (rivolto agli altri) costui è un impostore, non
credo che abbia mai recitato, né abbia mai sentito parlare di teatro. Ho avuto fin troppo
pazienza e a tutto c’è un limite; che vada via il più in fretta possibile o sarò io a lasciare
il palcoscenico perché non sopporto la sua presenza nemmeno per un altro attimo. (e sta
per uscire seguito da altri)
LELIO: Ma signor Orazio, si calmi, io non intendevo tediarla (e cerca di trattenerlo) né
di offenderla. (pausa) (Lelio da solo) Come! Sono andati via tutti? Mi hanno piantato?
Così scherniscono un uomo della mia sorta? Giuro al cielo che mi vendicherò! farò loro
vedere chi sono io. Farò recitare le mie commedie in piazze pubbliche. Chi sono costoro
che pretendono, così di punto in bianco di rinnovare il teatro con commedie nuove? E
delle vecchie ne facciamo di tutte un falò. (ed esce di scena).
Atto II
Scena I
Personaggi: Lelio, Anselmo.
LELIO: (disperato) Ed ora cosa farò? Dove andrò? Qui in città non conosco nessuno!
Ho impegnato tutto il mio capitale per venire qui! A chi chiedere danaro? No ... non
devo lasciarmi prendere dallo sconforto, qualche strada ci sarà e io la troverò. Perciò,
calma, Lelio te la sei sempre cavata ed anche in circostanze peggiori. Si vede che,
quando sono arrivato qui, non ho usato la tattica giusta; fare il galante lo scrittore non ha
attaccato; ora ricorrerò all’altro espediente; farò il miserabile, quello che poi in realtà
sono e la vedremo. Mi serve solo il tramite per arrivare al capocomico e poi tutto si
risolverà.
ANSELMO: Caro signor poeta, siete ancora qui?
LELIO: E dove vuole che vada, sono disperato, non ho uno zecchino in tasca.
ANSELMO: E le amicizie, le compagnie di mezza Europa, si sono tutte quante
volatilizzate?
102
LELIO: Non mi schernisca pure lei, io sono nei guai, mi aiuti o farò uno sproposito; lei
è una persona disponibile, spenda per me una buona parola con il signor Orazio.
ANSELMO: Mi avete convinto, vedrò cosa potrò fare; ma per ora siamo impegnati,
abbiamo le prove e dopo si vedrà.
LELIO: La supplico, io ho urgenza di risolvere la mia faccenda, sono due giorni che
non mangio. Capisco di avere sbagliato; ma ora se sarà necessario, sono anche disposto
a prostrarmi ai suoi piedi.
ANSELMO: Ora sono proprio convinto, questa mi pare proprio una buona ragione per
farvi accettare.
Scena II
Personaggi: Lelio, Placida, Orazio.
PLACIDA: Signor Lelio come mai ancora qui? Ha proprio deciso di farci saltar le
prove?
LELIO: Lungi da me un pensiero del genere. è che non ho il coraggio di ripartire, se
non dopo aver chiarito l’equivoco in cui tutti siamo caduti. Ho qui con me altra roba che
certamente il vostro capocomico potrebbe apprezzare molto.
PLACIDA: E come mai la esibite solo adesso? E poi di cosa si tratta?
LELIO: Non sapevo neppure io di averla; ma poi rovistando ho trovato; sono
commedie di carattere, alcune non mie. Ah! eccolo sta arrivando e che Dio mi assista.
ORAZIO: E allora cosa c’è di nuovo per cui volevate vedermi? Non voglio ripetermi,
lo sapete che sono molto impegnato.
LELIO: Non le ruberò altro tempo, sarò rapidissimo. Come stavo dicendo alla signora
Placida, ho qui con me cose che le potrebbero interessare. Sono commedie di carattere.
ORAZIO: Vedo che cominciate a parlare il nostro stesso linguaggio. Perciò! Animo e
mostratemi qualcuna di queste. (intanto i servi portano delle sedie).
LELIO: Ne ho alcune francesi che ho tradotte e adattate al nostro gusto.
ORAZIO: Neanche a parlarne, lavori stranieri non fanno al caso nostro!
LELIO: Perché? Disprezzate il teatro francese?
ORAZIO: Questo mai, anzi lo stimo, lo apprezzo; ha tanti nomi prestigiosi che
considero miei maestri: Molière, Racine. Ma noi siamo andati più avanti e poi anche noi
siamo riusciti a creare un teatro degno. Perciò perché incomodare i francesi? E allora
avete qualcosa di nostrano? però alla svelta, sono io adesso a supplicarvi, sbrighiamoci,
il tempo è tiranno.
103
LELIO: Sì! una commedia tutta mia, ancora inedita, una primizia in assoluto.
ORAZIO: Così a me il privilegio di questa primizia?
LELIO: (tira fogli da un baule e legge) “Il padre mezzano delle proprie figliuole”.
ORAZIO: Ohimè! cattivo argomento. La commedia deve divertire, ma deve divulgare
anche buoni insegnamenti e questa commedia certamente potrà a limite solo far
divertire.
LELIO: Ma io per questa commedia, mi sono studiato Aristotele, ed ho cercato di
richiamarmi ai suoi precetti, al rispetto delle tre unità.
ORAZIO: Così voi avreste letto Aristotele! Da quello che ne so io le tre unità
riguardano solamente la tragedia e non la commedia. Perciò lasciamo perdere.
LELIO: Ma l’unità di tempo, quello a cui maggiormente bisogna attenersi! ...
ORAZIO: Sapete cosa vi dico? Al diavolo le unità; gli antichi non avevano la
possibilità di cambiare scene con la stessa rapidità nostra e per questo, credo sono
ricorsi a questo espediente.
LELIO: Ma allora la mia commedia non la vuole neppure sentire?
ORAZIO: Ecco bravo! Vedo che ha capito; le sue commedie non mi servono.
LELIO: Visto che le mie commedie non fanno al caso suo, perché non mi prova come
attore comico? Sa, sono bravo a recitare! Ho sempre riscosso molto successo.
ORAZIO: Un pessimo poeta è anche un pessimo attore, perciò risparmiatevi fiato.
LELIO: Ma io volevo ...
PLACIDA: Signor Orazio, diamogli quest’ultima possibilità.
ORAZIO: Forse dopo, ora dobbiamo assolutamente provare.
Scena III
Personaggi: Orazio, Placida, Vittoria, Lelio.
ORAZIO: Signora Placida, la prego, faccia venire in scena Florindo e iniziamo le prove
della prima parte.
PLACIDA: Immantinente esaudirò la sua volontà. (ed esce)
VITTORIA: (entra correndo) Signor Orazio di fuori c’è una dama che cerca di lei.
104
ORAZIO: Che sia la commediante che aspettiamo, fatela accomodare subito.
VITTORIA: A me non sembra; ho avuto sentore che sia una gran dama, ha classe,
portamento e poi è accompagnata dal suo staffiere.
ORAZIO: Allora fatemi il piacere, fatevi dire chi è, se è la commediante che
aspettiamo, allora fatela accomodare, in caso contrario le direte che questo non è il
momento adatto e che, se vuole, può ripassare un’altra volta!
LELIO: Allora non c’è nessuna possibilità per me? Posso dunque sperare di restare
almeno a disposizione della compagnia e sostituire in assenza di commedianti?
ORAZIO: Non ritorniamo sullo stesso discorso, non è escluso che vi possa ingaggiare
come terzo amoroso, perché avete portamento, un bel fisico e poi ho visto che ci sapete
fare con le donne, ma dovrò mettervi alla prova. Dunque cercate di non essere
precipitoso, date tempo al tempo.
LELIO: (raggiante) E allora posso sperare! vedrete che non avrete a pentirvene,
ascolterò tutti i vostri insegnamenti, diventerò un attore così come voi volete.
VITTORIA: La signora che attende fuori, non è la commediante attesa, mi ha
consegnato questo biglietto e chiede di essere ricevuta con urgenza.
ORAZIO: (prende il biglietto e lo legge) Ci voleva anche questa; vuol dire che oggi
digiuniamo, niente pranzo visto che è mezzodì e delle prove neanche a parlarne.
LELIO: (sottovoce) No! proprio questo no, la mia pancia borbotta, come resisterò
ancora per un’altra giornata? Alla sola idea di non mettere niente in questo sacco vuoto,
crollo!
ORAZIO: Cosa dicevate? Vi ho sentito bisbigliare!
LELIO: Niente, ripetevo sotto voce versi per farmi da voi ascoltare. (intanto si
riuniscono tutti per provare ed entrano Eugenio, Petronio e Beatrice)
Scena IV
Personaggi: Eugenio, Petronio, Beatrice, Orazio, Eleonora, Placida, Lelio, Anselmo,
staffiere.
Tutti in coro: Finalmente si prova.
ORAZIO: Anche questa volta la fortuna non ci assiste, pazientate ancora un po’, è
arrivata una gran dama che chiede di noi, ho tentato di evitare di riceverla, ma sono un
cavaliere, un uomo di garbo e non posso lasciare fuori una donna, sarebbe gran villania.
Tutti in coro: Ma riusciremo mai a provare?
ELEONORA: Sono Eleonora Cenci, serva a lor signori, virtuosa di musica!
105
ORAZIO: Servitore ossequiosissimo, mia signora. (le donne riveriscono e gli uomini
stanno con il cappello in mano)
ELEON.: Sono comici, lor signori e voi (rivolta a Placida) la prima donna?
ORAZIO: (rivolta a Placida) Sì signora! Ai suoi comandi.
ELEON.: Brava, so che vi fate onore.
PLACIDA: Grazie faccio del mio meglio.
ELEON.: Chi è il capo della compagnia?
ORAZIO: Io, per obbedirla.
ELEON.: A me, piace molto il teatro comico e mi diverto tanto alle sue buffonerie!
ORAZIO: Dunque se ho ben capito è una virtuosa, ma insegna musica o è cantatrice.
ELEON.: Non insegno, canto!
LELIO: (guardandola con attenzione) Perdoni, di grazia, non è lei la signora Eleonora?
ELEON.: Sì, signore per l’appunto.
LELIO: Non si ricorda che ha recitato in un mio dramma?
ELEON.: Dove, non mi sovviene!
LELIO: A Firenze.
ELEON.: E il dramma come era intitolato.
LELIO: La Didone in bernesco.
ELEON.: Sì ora ricordo! Anzi proprio per quest’opera l’impresario fallì a causa del
libretto.
LELIO: Per quanto ne so io, tutti dicevano a causa della prima donna e lei era la prima
donna nell’opera.
ORAZIO: Signora Eleonora, da quanto apprendo, il suo bagaglio artistico non è un
buon biglietto da visita. Ma dal momento che, non è mai successo che io abbia
congedato una donna senza averla ascoltata, mi dica la ragione della sua visita, visto che
lei è cantatrice e noi commedianti e non c’è nessun rapporto artistico tra le due
categorie.
ELEON.: Signor capocomico, lei mi sbalordisce; perché dalle vostre parti non si usa
che gli intermezzi siano cantati? Ed io, se lei accetta la mia proposta, canterò tutti gli
106
intermezzi delle sue commedie. Però dovrà sapere che una cantante virtuosa costa, ha
tante spese da affrontare: viaggi, alloggi, abiti nuovi, lo staffiere. Dunque tutte queste
cose per un non più di un centinaio di zecchini.
ORAZIO: Dunque, signora, noi non abbiamo bisogno di lei!
Tutti in coro: Bravo, bravooo!
ORAZIO: Anzi, sapete che vi dico? sospendiamo le prove e andiamo tutti a pranzo. (ed
esce)
ELEON.: I comici sono stati da sempre nemici dei virtuosi.
BEATRICE: (a Placida sottovoce) Questa donna sì o no ha visto qualche copertina di
qualche libro di musica e va blaterando di essere una cantante virtuosa. E’ proprio il
caso che vada vendendo la sua boria altrove (e le due donne escono).
ELEON.: Il comportamento di queste commedianti è a dir poco villano, se non vado
via al più presto, ne va di mezzo la mia reputazione.
EUGENIO: Avreste avuto miglior trattamento, se foste stata meno aggressiva.
ELEON.: Noialtre virtuose, siamo abituate a parlare così!
EUGENIO: E noialtri comici a rispondere così! (ed esce)
ELEON.: Sia maledetto il momento in cui sono qui venuta!
PETRONIO: Certo, ha fatto proprio male a sporcare i suoi piedini virtuosi su tavole da
commedia.
ELEON.: E voi chi siete?
PETRONIO: Il dottore, per servirla!
ELEON.: Dottor di commedia!
PETRONIO: Come ella virtuosa di teatro. (ed esce)
ANSELMO: Siora virtuosa, se vuole restare servita, a tavola del sior Orazio, c’è
sempre un posto riservato per gli ospiti.
ELEON.: Voi sì che siete un uomo educato e di cuore, ma io non sono stata invitata da
nessuno, non posso ivi presentarmi senza un invito!
ANSELMO: Non sarà necessario nessun invito; sarò io a condurla lì; lui è tanto amico
mio e le assicuro che sarà contento!
ELEON.: Ma ne siete proprio sicuro? Non è il caso di chiederglielo? non vorrei che
non gradisse la mia presenza!
107
ANSELMO: Vado subito! (e sottovoce) ho inteso ... la musica di questa dama è
compagna della poesia del signor Lelio; fame tanta da far paura (ed esce).
LELIO: Signora Eleonora, a me, che sono vostro amico, potete parlare a cuore aperto!
Come vanno le vostre cose?
ELEON.: Male, malissimo. L’impresario presso cui lavoravo, mi ha licenziata perché è
fallito ed io ho perso la paga. Per venire qui ho dovuto fare il viaggio a mie spese e
adesso non ho altro che quello che mi vedete addosso.
LELIO: Anch’io sono nelle vostre stesse condizioni, per cui mi sono dovuto abbassare
al rango di commediante; infatti il signor Orazio mi ha fatto intendere che potrò lavorare
nella sua compagnia. Dunque perché non tentate anche voi? seguite i miei consigli, il
capocomico è uomo dabbene, sembra burbero perché è troppo preciso. Ma vi assicuro
che se gli saprete parlare, lui vi saprà ascoltare. Perciò non disperate!
ELEON.: Mi state dicendo che dovrò fare la commediante?
LELIO: E perché no! Cosa c’è di strano!
ELEON.: Mi sentirei umiliata!
LELIO: Signora mia, come state d’appetito?
ELEON.: Alquanto bene!
LELIO: Ed io ... benissimo!
ELEON.: Non mi ha mandato l’invito.
LELIO: Non importa. Andiamo, che è galantuomo. Non vi rifiuterà.
ELEON.: Veramente mi sento imbarazzata.
LELIO: Ed io no! Vado a sentir la musica dei cucchiai che è la più bella musica di
questo mondo. (ed esce)
ELEON.: (rivolta allo staffiere) Allora cosa facciamo? andiamo o non andiamo?
STAFF.: Andiamo, andiamo per l’amor del cielo! Ho una fame che non ne posso più!
ELEON.: E sia! Visto che non posso fare diversamente, farò la comica; chissà quante
mie compagne desidererebbero una occasione simile ed io per uno stupido orgoglio, me
la lascerò scappare via così? Vuol dire che studierò e chissà che da una pessima cantante
non ne diventi una mediocre comica.
Atto III
108
Scena I
Personaggi: Orazio, Eugenio.
EUGENIO: E allora come è andata con i nuovi venuti? Ho notato che vi siete
intrattenuto un bel po’ con loro due a prendere il caffè nel salotto attiguo alla sala da
pranzo ed ho congetturato che avete riesaminato il loro caso per un probabile loro
inserimento nella nostra compagnia. Non è forse così?
ORAZIO: Avete ben congetturato e, vi devo dire, parlando con loro due, da soli a soli,
a cuore aperto, lontani dalla loro millantata gloria, li ho scoperti persone di profondo
sentire, pieni di umanità e bisognosi di aiuto ed anche con qualche inclinazione artistica.
Certo, prima di fare di loro due validi attori comici, ne dovrà passare di acqua sotto i
ponti; ma li ho visti ben disponibili e poi pronti a recepire i precetti dovuti.
EUGENIO: E così i due attori comici che mancavano alla compagnia saranno loro due!
ORAZIO: Sì, ma andiamoci piano! Il signor Lelio per adesso è troppo affastellato di
idee, nozioni, comportamenti che sono proprio della commedia dell’arte, e ci vuole del
tempo prima che si liberi di tanto vecchiume. Ma ce la farà perché ha intuito e poi
volontà ed anche una discreta cultura di base. Cosa che certamente non potrò dire della
signora Eleonora. Costei è solo una gran bella donna, e per il teatro questo non basta,
ma mediocre come persona e poi quasi un’illetterata; sarà certamente impegnata in ruoli
non di primissimo piano.
EUGENIO: Con questo si prevede che il signor Lelio potrebbe ricoprire ruoli
principali.
ORAZIO: Non l’ho detto, ma potrebbe anche essere così. Io non sempre ce la faccio a
fare da capocomico e da attore e quindi il signor Lelio potrebbe benissimo sostituirmi,
quando sarà pronto nella parte di Ottavio, primo amoroso. Ma adesso interrompiamo
ogni genere di discorso e badiamo esclusivamente alla prova generale. Perciò vi prego
chiamatemi gli attori dai loro camerini.
Prova generale della farsa “Il padre rivale del figlio”
Scena I bis
Personaggi: Rosaura, Florinda.
ROSAURA: Caro Florindo, mi offendete se dubitate della mia fede. Mio padre non vi
accorderà mai la mia mano.
FLORINDO: Non temo vostro padre, ma il mio di padre. Vostro padre, il signor
dottore, amandovi teneramente, non vorrà la vostra rovina. Ma l’amore che mio padre
ha per voi, mi angoscia e non me la sento di affrontarlo, di dichiararmi suo rivale.
ROSAURA: Mi ritenete così stupida da sposare il vecchio Pantalone? Gli ho promesso
che sarò sposa in casa Bisognosi e questo non sta certamente a significare il padre e non
il figlio.
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FLORINDO: Eppure lui si lusinga di avervi ed io non ho il coraggio di dirgli la verità,
del mio amore per voi, della nostra relazione.
ROSAURA: E non ditegli niente, lasciate fare a me, anzi evitate di frequentare questa
casa, sarò io a venire da voi. (fanno per abbracciarsi)
FLORINDO: Addio mia cara e pensatemi.
ROSAURA: E mi lasciate così presto?
FLORINDO: Non vorrei che vostro padre mi scoprisse in casa sua.
ROSAURA: Non correte nessun rischio, lui è fuori città.
Scena II
Personaggi: Pantalone, Rosaura, Florindo.
PANTALONE: O de casa, se pol vegnir?
FLORINDO: Ohimè, mio padre!
ROSAURA: Presto, nascondetevi.
FLORINDO: Verrà a parlarvi d’amore.
ROSAURA: Zitto, non è il caso di parlare.
FLORINDO: (nascondendosi) E chi lo avrebbe detto, io geloso di mio padre.
PANTALONE: Gh’e’ nissun? Se pol vegnir?
ROSAURA: Venga venga signor Pantalone.
PANTALONE: Siora Rosaura, patrona reverita, xela sola?
ROSAURA: Sì, signore, sono sola, mio padre è fuori città.
PANTALONE: Se contentela che me ferma un pochetto con ela, o vorla che vaga via?
ROSAURA: Ella è padrone in casa mia, ma la prego se può parlarmi in toscano, perché
faccio fatica a seguirla.
PANTALONE: Grazie, la mia cara fia, vedrò de contentarla, ma non mi rimproveri per
il mio toscano poco pulito, benedetta quella bocchetta che dise quele bele parole.
ROSAURA: Mi fa ridere signor Pantalone!
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PANTALONE: Cuore allegro il cielo l’aiuta. Mi piace quando ride, sento il cuore che
mi scoppia dentro.
ROSAURA: Mi immagino che sarà venuto per mio padre!
PANTALONE: No, angelo mio; no, speranza mia, non sono venuto per il papà, ma per
la bela fiola; per te, Rosaura mia.
ROSAURA: Per me?
PANTALONE: Ah furbetta! ladra de sto cor! Lo sapete che spasemo, che moro per vu!
ROSAURA: Ne sono lusingata.
PANTALONE: Alla svelta, dal momento che siamo soli e nessuno ci sente, ditemi, mi
accettate come marito?
ROSAURA: Signore, come correte, calma; bisognerà dirlo a mio padre.
PANTALONE: Vostro sior pare xè mio bon amigo e spero che non dirà di no. Ma
volevo sentirlo da voi, vita mia, parole che consolassero questo mio povero cuor, Mi
piacerebbe sentirla dir: sior, sì signor Pantalone, lo vorrò, e sebbene ella è vecchio mi
piace tanto; se me dirà così, me fa andar in brodo di lasagn.
ROSAURA: (furbescamente) Ma queste cose io non le so dire, non le ho mai dette a
nessuno e poi me ne vergogno.
PANTALONE: Ditemi, cara la mia padroncina, avete mai fatto l’amore?
ROSAURA: Io! Mai!
PANTALONE: (meravigliato) Non sapete fare l’amore?
ROSAURA: Non lo so in verità, ma si può sempre provare.
PANTALONE: Brava, così mi piacete, ve lo insegnerò mi, ve lo insegnerò mi.
ROSAURA: Queste non sono cose per la sua età.
PANTALONE: L’amore non porta rispetto a nessuno, colpisce i giovani e non
risparmia i vecchi.
FLORINDO: (dal nascondiglio) Dunque pietà di me se sono innamorato.
PANTALONE: Come tu qui?
FLORINDO: Sì, sono qui per lo stesso vostro motivo.
PANTALONE: (risentito) Confesso che sono sbigottito per quello che è successo.
Certamente mi vergogno per aver manifestato davanti a mio figlio questa mia passione,
111
questa mia debolezza. Per questa mia leggerezza mi condanno da me medesimo; mi
sono lasciato trasportare troppo facilmente da questa passione. Ma visto che non posso
porre rimedio a questa sconcezza, l’unica cosa possibile da fare e subito è uscire da
questa casa. Io per scelta, tu per obbedienza. Io per rimediare allo scandalo che ti ho
dato, tu per imparare a vivere con più saggezza.
FLORINDO: Ma, signore! ... Permettetemi.
PANTALONE: Obbedisci, o sarò costretto a tirarti fuori con queste mie stesse mani.
FLORINDO: Maledettissima gelosia, che mi hai reso impaziente (e va via)
PANTALONE: Signora Rosaura, sono costernato per questa congettura, per questo
spiacevole episodio e sono così mortificato che non ho parole per esprimere il disagio
che provo davanti a voi e la collera che rode il mio povero e stanco cuore. Ma sappiate
che vi amo e vi amerò sempre, qualunque sarà lo sviluppo di questa vicenda. (ed esce)
ROSAURA: Ahimè come sono infelice, questo vuol dire che non vedrò più il mio
amatissimo Florindo! Ahi e come farò senza di lui? Ahi infelice Rosaura, potrai mai
sopportare questa dolorosa separazione? Non so cosa farò, ma certamente a costo di
sfidare il mondo intero, riavrò il mio amato Florindo. (ed esce).
Scena III
Personaggi: Suggeritore, Colombina.
(Suggeritore con il copione in mano)
SUGG.: Colombina, tocca a Colombina, poi ad Arlecchino. Non la finisco mai.
Maledetto questo mestiere! Bisogna stare qui tre o quattro ore a sfiatarsi continuamente
e i signori comici non sono mai contenti. Colombinaaa ... (chiama forte Colombina)
COLOMBINA: Sono qui (ansimante) sono qui!
SUGG.: Presto, fate presto che è il vostro turno.
COLOMBINA: Povera signora Rosaura, povera la mia padrona! che cosa ha che
piange e si dispera tanto? So io che cosa ci vorrebbe per il suo male. Un bel pezzo di
giovanotto che le farebbe passare la malinconia! Ma come potrei io che ho il suo stesso
male poterle arrecare aiuto? Anch’io ho il cuore in subbuglio per due uomini:
Arlecchino e Brighella, entrambi di me accesi e alla stessa maniera. Ma non so
decidermi: Brighella è troppo furbo, Arlecchino è troppo sciocco. L’accorto vorrà fare a
modo suo; l’ignorante non saprà fare che a modo mio; col furbo starò male di giorno,
con lo sciocco male di notte. Non so proprio come risolvermi.
Scena IV
Personaggi: Colombina, Brighella, Arlecchino.
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COLOMBINA: (da sola) Visto che non mi so risolvere da sola, me ne andrò in giro e
chiederò a tutte le donne che incontrerò se sarà meglio prendere un marito accorto o un
marito ignorante.
BRIGHELLA: Accorto, accorto.
ARLECCHINO: (con sberleffi) Ignorante, ignorante.
COLOMBINA: Ognuno difende la propria causa.
BRIGHELLA: Io dico il vero e lo dimostro anche nella forma.
ARLECCHINO: Ed io che ho ragione anche in scarpa.
COLOMBINA: Beh! Chi di voi mi persuaderà, sarà mio marito.
BRIGHELLA: Io come uomo accorto, sfacchinerò, suderò affinché in casa non ti
manchi mai da mangiare.
COLOMBINA: Questo mi sembra un buon motivo.
ARLECCHINO: Ed io come uomo ignorante, che non sa far niente lascerò che buoni
amici portino in casa da mangiare e da bere.
COLOMBINA: Anche così potrebbe andar bene, anzi va meglio perché ci si diverte di
più.
BRIGHELLA: Io come uomo accorto ed onorato, ti farò rispettare da tutti.
COLOMBINA: Mi piace!
ARLECCHINO: Ed io come uomo ignorante e pacifico, farò che tutti ti vogliano bene.
COLOMBINA: Non mi dispiace.
BRIGHELLA: Io come uomo saggio, sarò alla direzione della casa.
COLOMBINA: Bene.
ARLECCHINO: Ed io da ignorante, lascerò che ti governi da sola.
COLOMBINA: Ancora meglio.
BRIGHELLA: Se vorrai divertirti, ti condurrò dove vuoi.
COLOMBINA: Benissimo.
ARLECCHINO: E se vorrai andare a spasso, ti lascerò andare da sola.
COLOMBINA: Ottimamente.
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BRIGHELLA: Se vedrò che qualche sbarbatello ti gironzola intorno, lo concerò in
malo modo.
COLOMBINA: Bravo.
ARLECCHINO: E, io se qualcuno ti gira intorno, lascerò a te decidere.
COLOMBINA: Bravissimo!
BRIGHELLA: Se troverò qualcuno in casa, lo accopperò.
ARLECCHINO: E io spegnerò il candeliere che dà luce.
COLOMBINA: Vi ho ascoltato attentamente e concludo che Brighella è troppo
rigoroso, Arlecchino troppo paziente. Perciò, fate in questo modo: Impastatevi tutti e
due, e da due pazzi uno savio, così vi sposerò. (ed esce)
BRIGHELLA: (ad Arlecchino) Hai sentito?
ARLECCHINO: E come no.
BRIGHELLA: Noi saremmo fatti di pasta? Questo è troppo, il mio decoro non mi
consente di impastarmi con te.
ARLECCHINO: E allora sai la cosa più giusta da farsi? Colombina fa la furba, ma noi
le facciamo passare la voglia, visto che è buona massaia, impastiamoci insieme tutti e
tre e da tre paste una sola da far biscotto. (ed escono)
Scena V
Personaggi: Suggeritore, Placida, Rosaura, Petronio, Dottore.
SUGG.: Pronti per la quinta scena, tocca dunque a Rosaura e al dottore, anima signori
che il tempo passa.
DOTTORE: Figliuola mia, ti vedo un po’ pallida, hai gli occhi lucidi, certamente hai
pianto! Cosa ti affligge che non puoi confidare ad un padre che ti ama teneramente?
ROSAURA: Per amor del cielo, non mi tormentate.
DOTTORE: Ma sei per caso innamorata? Sono cose comprensibili alla tua età, su via,
dimmi per chi spasimi.
ROSAURA: Ebbene sì! (e si scioglie in lacrime).
DOTTORE: Via non piangere, non permetto che il pianto possa sciupare i tuoi begli
occhi; su asciugati le lacrime (e le passa un fazzoletto), sediamoci qui e raccontami
tutto. Dunque chi è l’amante per cui sospiri?
114
ROSAURA: (tentennando) È ... è ... Florindo, il figlio del signor Pantalone dei
Bisognosi.
DOTTORE: E non potevi fare scelta migliore, ne sono contento; ma lui ti ama?
ROSAURA: Certo che mi ama! Ma ... (sospirando).
DOTTORE: Allora non c’è motivo di piangere, se ci sono ostacoli noi li rimuoviamo.
Su, animo, sorridi, angelo mio!
Scena VI
Personaggi: Colombina, Dottore, Rosaura.
COLOMBINA: Signora Rosaura è da stamani che il signor Florindo passeggia sotto le
finestre di questa casa piangendo e sospirando nell’attesa di potervi solo vedere
affacciata.
ROSAURA: Il mio bene, il mio cuore, l’anima mia! signor padre, per carità!
DOTTORE: Sì figliuola mia, ho compreso. Presto, Colombina fatelo accomodare e
ditegli che gli voglio parlare.
COLOMBINA: Subito, subito sarà fatto.
ROSAURA: Oh babbo, caro il mio babbino (abbracciandolo).
DOTTORE: Tu sei l’unica gioia di questo cuore.
ROSAURA: Posso sperare che mi accordiate la sua mano?
DOTTORE: Se lui ti vorrà, non potrò dirgli di no!
ROSAURA: Ma c’è una difficoltà; voi accettate queste nozze! il padre di Florindo no!
Perché anche il buon vecchio Pantalone è innamorato di me.
DOTTORE: è storia vecchia, non importa, rimedieremo anche a questo.
Scena VII
Personaggi: Colombina, Dottore, Rosaura, Florindo.
COLOMBINA: Eccolo, eccolo che muore dalla gioia.
FLORINDO: Signor Dottore, perdoni, se incoraggiato da Colombina ... vengo davanti
a voi ... a ... chiedere ... la mano ... di ... mi perdoni ma sono confuso e la gioia che
provo dentro non mi permette di parlare come si conviene.
115
DOTTORE: Non aggiungete altro, intendo, intendo; comprendo il vostro disagio, siete
innamorato di Rosaura e la vorreste per moglie, non è così?
FLORINDO: Non desidero altro e sogno solo di questo.
DOTTORE: Ma temete vostro padre, non è così? Il quale ha delle assurde e ridicole
pretese sulla mia figliuola.
FLORINDO: Proprio così “il padre rivale del figlio”.
DOTTORE: Questo non è un ostacolo. Bisogna levargli subito la speranza di ottenerlo.
E c’è un solo modo, concedendovi la mano di Rosaura. (Florindo e Rosaura
abbracciano il Dottore)
FLORINDO: Signor Dottore, non so come esprimere la gratitudine che sento per voi.
ROSAURA: Padre mio adorato, non vi ho mai amato così tanto.
DOTTORE: (commosso) Su via, datevi la mano e giuratevi fedeltà.
FLORINDO: Eccola, quella del cuore. (i due si danno la mano)
DOTTORE: Subito, subito che anche il signor dei Bisognosi venga qui e ne sia
informato.
Scena VIII
Personaggi: Dottore, Pantalone, Florindo, Rosaura.
PANTALONE: Sono arrivato con la massima sollecitudine così come mi avete
richiesto, ma quale è il motivo di tanta urgenza?
DOTTORE: Mio buon amico, sedetevi ed ascoltatemi: vi ho chiamato in casa mia per
far luce su di una faccenda che potrebbe fare ombra sul mio e sul vostro decoro.
PANTALONE: Parlate più chiaramente, non vi capisco.
DOTTORE: Arrivo al dunque, non avete forse desiderato che mia figlia Rosaura
sposasse Florindo, il vostro figliuolo?
PANTALONE: Non vi seguo.
DOTTORE: Non avete detto a lei di volerla maritare in casa vostra?
PANTALONE: Signorsì, ma non con mio figlio, io mi riferivo a me, con me.
116
DOTTORE: Ma questa poi (ridendo) non sembra pure a voi una assurdità; voi ... a
questa età (e ride). Compatitemi, ho equivocato; comunque questo equivoco ha prodotto
il matrimonio di vostro figlio con Rosaura mia figlia.
PANTALONE: (furente) ed io non lo accorderò mai!
DOTTORE: Se non lo accordate voi, l’accordo io! Voi e vostro figlio avete fatto
l’amore con la mia figliuola; dunque il padre o il figlio la doveva pur sposare. Però, si
dà il caso che Florindo è giovane ed è arrivato per prima; voi siete vecchio e vi siete
fermato a metà strada. Dunque Rosaura è di Florindo, perciò largo ai giovani!
PANTALONE: Questa è una bricconata; da che mondo è mondo non si era mai visto
che il padre facesse il ruffiano della propria figliuola, per intrappolare il figlio di un
galantuomo, di un uomo d’onore.
DOTTORE: E un galantuomo, un uomo d’onore, non va in casa del suo migliore amico
e gli seduce la figlia, in barba alle leggi dell’ospitalità e dell’amicizia. (Florindo e
Rosaura, usciti da dietro le tende, si avvicinano ai propri padri)
FLORINDO: (a Pantalone) Via signor padre, non andate in collera.
ROSAURA: (al Dottore) Per amor del cielo non vi alterate.
DOTTORE: (a Pantalone) Il nostro comportamento, in questo momento fa torto al
nostro decoro; rientriamo in noi, signor Pantalone, noi siamo uomini dabbene e non
possiamo dare pessimo esempio a questi due giovani che hanno commesso l’unico torto:
quello di essere fatti l’un per l’altro. Dunque lasciatevi andare, abbandonate questo
inutile puntiglio; lasciate che vostro figlio sposi Rosaura. Se veramente amate Rosaura,
solo così potete dimostrare il vostro amore per lei; questo atto è proprio dell’uomo savio
e prudente quale voi siete; perciò lasciate che Rosaura sposi la persona giusta, che la
renderà felice e voi avrete la consolazione di essere stato la causa della sua vera felicità.
PANTALONE: Mi avete convinto, dal momento che sono un uomo d’onore e voglio
bene a questa giovine, mi sforzerò di dimostrarglielo, accordando questo matrimonio.
Dunque Florindo mio figlio sposerà Rosaura e avrà la mia benedizione. Gli sposi si
stabiliranno qui in questa casa e non in casa Bisognosi come sarebbe più giusto, perché
la presenza di Rosaura in casa mia, sarebbe per me causa di continuo tormento; e alla
mia età, soffrire d’amore con gli acciacchi che ho, sarebbe proprio per me la fine. Con
questo io non voglio esimermi dai miei obblighi di padre; dunque spenderò, darò tutto
quello che ho; ma in questa casa non vi metterò più piede (e preso dalla commozione,
rivolto al figlio) Florindo, figlio mio il cielo ti benedica, sposa Rosaura e rendimela
felice. (ed esce piangendo)
ROSAURA: Povero padre, (asciugandosi una lacrima) mi fa commuovere.
Una voce: così Florindo sposerà Rosaura e Arlecchino Colombina.
ORAZIO: Bravi, bravissimi, siete un portento; stasera se recitate così la compagnia
Medebach entrerà nell’Olimpo del gran teatro.
117
LELIO: Ma signor Orazio, voi che siete così attento ai precetti, non vi siete accorto che
nell’ultima scena c’erano troppi personaggi e una delle regole fondamentali è l’unità
d’azione.
ORAZIO: Zitto, zitto per carità, basta con i precetti, con le regole; per recitare bene ci
vuole: naturalezza, chiarezza nella voce, via le cantilene e le declamazioni, contenuta
gestualità e poi attenzione e concentrazione. E qui in questa prova è avvenuto. E questo
per me è il teatro comico.
FINE
***********************************************
Dalle “Novelle rusticane”
Cavalleria Rusticana
di Giovanni Verga
Presentazione dell’opera
Cavalleria Rusticana è una delle più suggestive novelle di Giovanni Verga, tratta dalla
raccolta “Novelle rusticane” pubblicata dall’autore nel 1882.
La possanza descrittiva, la profondità dei sentimenti, la scultoreità ed incisività del
contenuto ne fanno la perla della letteratura verista e l’autore stesso ne fu cosciente tanto
che dopo due anni ne trasse motivo di ispirazione per un dramma teatrale andato in
scena al Carignano di Torino in cui ricoprì il ruolo di eroina l’attrice più famosa del
tempo, la divina Eleonora Duse.
Da allora fino ai giorni nostri la novella è stata fonte di ispirazione delle più
appassionanti opere artistiche a cui si sono ispirati il mondo della lirica e della
cinematografia. Il suo contenuto ha offerto al livornese Pietro Mascagni l’opportunità di
comporre uno dei più affascinanti melodrammi italiani in un unico atto sul libretto di
Targioni, Tozzetti e Menasci, inaugurando in tal modo il verismo musicale italiano nel
mondo della lirica.
Fu rappresentato per la prima volta con enorme successo al “Costanzi” di Roma nel
1889 e successivamente in tutti i teatri del mondo con crescente successo, suscitando in
origine accese polemiche per l’originalità con cui tagliava i ponti con la tradizione
verdiana, ma riuscì ad imporsi per la vigorosa e spontanea vena che la sostenevano. La
novella originale e tutte le opere originate dal suo contenuto incentrano tutte l’attenzione
sul dramma passionale alimentato dall’adulterio, causa dell’omicidio giustificato come
delitto d’onore.
La nostra “Cavalleria rusticana” è invece una rielaborazione molto libera della novella
ed ha una chiave di lettura più ampia in cui il dramma passionale non viene trascurato,
ma sarà uno degli aspetti che abbiamo voluto cogliere. Insomma il nostro lavoro vorrà
essere una lucida denuncia degli aspetti aberranti della Sicilia di fine Ottocento, di
quella Sicilia abbandonata a se stessa, schiacciata da pregiudizi di casta, dilaniata da
tabù millenari, offuscata dall’analfabetismo più insidioso, di quella Sicilia che non
conosce le leggi dello Stato e che, per far sentire la sua voce si lega all’omertà e
riconosce come legge solo la vendetta, l’unica che può lavare l’offesa dell’adulterio e
ripristinare la legge dell’onore; di quella Sicilia che vuole riscattare la dignità dell’uomo
118
vivendo la triste ed inammissibile contraddizione che essa appartiene solo al sesso
maschile. Noi abbiamo voluto rendere giustizia a tale manchevolezza e pertanto la
nostra attenzione ha avuto un occhio di riguardo per le figure femminili su cui è stata
imperniata e ha ruotato l’azione scenica. Quindi nella nostra opera la donna è una
creatura che stanca di una sterile obbedienza, si ribella e si appropria finalmente della
sua dignità.
Infine la nostra voce si unisce a quella della “meridionalistica” che attraverso la
denuncia dei più gravi problemi del Mezzogiorno d’Italia ne auspica il suo riscatto.
Introduzione
E’ una splendida notte di plenilunio; neppure un alito di vento, a Licodia, quella notte
turbava la profondissima quiete in cui la sua gente era immersa. Solo di tanto in tanto il
canto di qualche grillo dispettoso faceva capolino in quell’atmosfera notturna intrisa
più di sogno che di realtà. Solo un giovane, angosciato da una pena d’amore,
accompagnato da un individuo, uno strimpellatore, si aggirava per la piazza del paese.
ATTO I
Scena I
Personaggi: Turiddu, Strimpellatore.
(di notte - scena mimata)
TURIDDU: Sss ..., piano piano (gesticolando gli fa comprendere che deve fermarsi
sotto la finestra di Lola). Ci siamo intesi?
STRIMP.: Perfettamente. Allora, io lì, piantato sotto la finestra, con lo sguardo rivolto
alla finestra e canto fino a che non la vedo aprirsi; anzi quando vedo aprirsi la finestra
devo farvi segno! È così? Ma voi dove vi nascondete? Non vi ho seguito in questa
seconda parte.
TURIDDU: Stiamo ancora a questo? Ricapitoliamo; voi .... fermo lì e canterete le più
belle canzoni pattuite! Ma appena vi accorgerete che la finestra si sta aprendo, mi fate
segno che so, un colpo di tosse ... ed io uscirò, da lì ... da dietro a quel portone; vedete!
Quel portone! Il portone situato proprio sotto la sua finestra. Adesso vi è chiaro? non
fatemi parlare a vuoto. Intesi?
STRIMP.: Ho capito tutto! Ma voi, ditemi! Perché tutti questi misteri? Da quando
faccio questo mestiere, ed è una vita che lo faccio; infatti, come voi sapete, sono uno dei
più conosciuti sulla piazza e non c’è balcone o finestra in tutta la Sicilia che almeno una
volta non sia stata visitata dal mio canto; e fino ad ora non mi erano ancora capitati
simili misteri. Si vede che c’è sempre una prima volta.
TURIDDU: (seccato) Ehi! ... Ehi! ... Mi avete proprio seccato! Quanto parlate! I vostri
fatti privati non mi interessano e poi vi pago non per farvi capire i misteri, come li
chiamate voi! Quelli, sono fatti miei; a quelli ... bado io. Io vi pago per cantare, chiaro!
Solo per cantare. E non vi impicciate d’altro.
119
STRIMP.: Va bene! Va bene! Ma non alteratevi; io ... lo dicevo così tanto per dire. Ma,
visto che me lo avete ricordato, è bene che bado ai fatti miei. Quindi, pagatemi, così ci
mettiamo l’animo in pace; datemi i venti paoli pattuiti e non ne parliamo più!
TURIDDU: Come? pagarvi in anticipo? e perché mai? Non erano questi i patti.
STRIMP.: Sì! E’ vero! Ma ci ho ripensato! Sapete! Queste cose si sanno come iniziano,
ma della fine nessuno può garantire. Perciò pagatemi, perché dopo, se ci saranno
imprevisti, ed io in tanti anni di esperienza, ne ho visti di imprevisti, chi s’è visto, s’è
visto e sto ancora aspettando.
TURIDDU: (alterandosi) Ehi amico! (scuotendolo) Io sono un galantuomo; io sono
Turiddu ... Turiddu Macca, e non è mai capitato che ho lasciato conti in sospeso (e lo
afferra per il bavero.)
STRIMP.: Piano (svincolandosi) adesso siete voi che alzate la voce! Non adiratevi, non
è successo niente; regoliamo prima i conti, così siamo tranquilli tutti e due.
TURIDDU: (agitato, mette le mani in tasca) Ve l’ho detto e ve lo ripeto; io sono
galantuomo e per dimostrarvelo, vi pago in anticipo. (ha nel cavo della mano degli
spiccioli.) E cinque più dieci più cinque e non ne parliamo più.
STRIMP.: (tra l’ironico e il faceto) Galantuomo ... tutti dicono così ma al mondo
d’oggi i galantuomini, valli a trovare, sono razza in estinzione (sorridendo).
TURIDDU: (istigato, fa per avventarsi contro di lui) Cosa vuoi dire? Ma insomma,
stasera hai deciso di finire i tuoi giorni? (staccandosi da lui) E se non fosse che mi servi
da vivo, questa sera saprei io come fartele rimangiare queste chiacchiere. Basta!
Abbiamo perso troppo tempo! Ora canta, se no ... (e mette la mano sul coltello).
STRIMP.: (spaventatissimo, intona una nenia molto dolce ...)
(prima strofa)
UNA VOCE: E nun s’affaccia cchiù, e nun s’affaccia cchiù. (segue lungo silenzio).
STRIMP.: (interrompendo il canto) Avete sentito? (meravigliato) Qui c’è qualcuno che
disturba la serenata.
TURIDDU: E come no! Ma voi andate avanti! Se no, stasera a schifio finisce.
STRIMP.: (attacca la seconda parte e prosegue).
UNA VOCE: (nuovamente) E nun s’affaccia cchiù! e nun s’affaccia cchiù!
TURIDDU: Corpo di Bacco! Ma allora ce l’hanno proprio con me! C’è qualcuno che
cerca guai e io ce li darò! Ma non ora.
Scena II
120
Personaggi: Nunziatina, Lia.
LIA: (avvolta in un grosso scialle e in camicia da notte sull’uscio di casa) Anche voi
qui? (girandosi indietro).
NUNZIATINA: Sì, una musica dolce, molto dolce, mi ha svegliata nel cuore notte. Ma
... ora non sento più niente; era un canto di innamorati, ... una serenata.
LIA: (annuendo) Sì, sì ..., Proprio così ... una serenata. Chissà a chi era rivolta.
(guardandosi intorno) Qui d’intorno, non c’è nessuno! Forse lì nel vicolo, in fondo al
vicolo, qualcuno di là avrà cantato.
NUNZ.: (guardando con attenzione sbircia) Ehi! ... Ehi! ... Lì quelle ombre proprio
sotto la finestra della Lola, la signorona! Guarda.
LIA: Ma ... è proprio vero! Saranno stati quelli a cantare! Spingiamoci un po’ più in là,
vediamo chi sono!
NUNZ.: Sei proprio una sconsiderata! Come! In camicia da notte, seminude,
attraversare la piazza in piena notte? No! Non sta bene! Non ci penso nemmeno.
LIA: (incoraggiandola ad andare) Su andiamo! Chi volete che ci veda a quest’ora di
notte. Noi andiamo quatte quatte rasentando il muro ed evitiamo di passare per la
piazza. E poi questa oscurità.
NUNZ.: (chiudendosi nello scialle e benché non convinta) E va bene! Ma in punta di
piedi, col passo felpato. (le due donne si avviano più in centro).
LIA: Ma ... Per tutti i diavoli dell’inferno! Quello, quello più a sinistra, quello col
berretto, non è ... Turiddu ... Turiddu della gnà Nunzia.
NUNZ.: Ma cosa dici? Quello è andato soldato e chissà quando ritornerà e se ritornerà.
LIA: (con maggiore sicurezza) Ma vi dico che è Turiddu, ci vedo bene io, ho guardato
bene, non mi sbaglio.
NUNZ.: (incredula) Oh santa Vergine! Turiddu qui! Sotto la finestra della Lola e allora
non sa ancora niente; vedi in che pasticcio ci stiamo cacciando! Lia, per l’amor del cielo
torniamocene indietro, non ci facciamo vedere, evitiamo che ci faccia domande.
LIA: Ma non vi preoccupate, non ci potrà vedere, c’è troppo poca luce; su fermiamoci
qui e vediamo che cosa succede.
NUNZ.: Tu sei una testa calda! dammi retta torniamo indietro, la luna è traditora, palesa
le nostre figure.
LIA: Ma che ci può succedere! Non datevi pensiero, quand’anche dovesse vederci, noi
saremo una tomba, da noi nulla saprà.
121
NUNZ.: (ironicamente) Io ti conosco, come sei tomba; perciò, finché c’è possibilità,
torniamocene indietro!
LIA: (sdrammatizzando sorride) Ma lo avete visto? Con quella divisa da bersagliere
come si pavoneggia! Si crede un Napoleone in persona; ora che saprà, voglio proprio
vedere dove va a finire la sua boria!
NUNZ.: Finiscila di dire stupidate.
Scena III
Personaggi: Turiddu, Nunziatina, Lia.
(le due donne, quasi senza avvedersene, si trovano poco distanti dai due uomini,
quando ...)
TURIDDU: Sento dei passi! Non mi potevo sbagliare, (e guardandosi attorno) c’è
qualcuno che vuole guastarmi la festa, ma gliela farò vedere io! (ed infine si accorge
delle due donne che trattengono quasi il respiro per non farsi sentire). Ah siete voi,
baciamo le mani, vossignoria, finalmente delle anime vive!
LIA e NUNZ.: Santa notte! (e fanno per scappare)
TURIDDU: Ehi non vi mangio mica! fermatevi! E’ la provvidenza che vi manda.
NUNZ.: Sentite, noi siamo due donne onorate e non sta bene che ci intratteniamo con
degli sconosciuti e per di più di notte; perciò, fateci il piacere di lasciarci andare.
TURIDDU: Ma chi vi ha detto che vi voglio sequestrare! Ho altro per la testa io; so io
chi vorrei sequestrare; (e guardando la finestra) ma quella non si fa sequestrare.
LIA: Avete detto proprio bene!
NUNZ.: (dandole una gomitata) Zitta, cosa ne sai!
LIA: No ... niente ... volevo dire ...
TURIDDU: (infastidito) Ma insomma, la finite di fare la commedia? Io vi volevo fare
una sola domanda, se mi rispondete è bene, se no mi arrangerò da solo. Io Turiddu della
gnà Nunzia e credo che mi abbiate riconosciuto (e pavoneggiandosi) e chi a Licodia non
lo conosce? Sono tornato da un pezzo dal servizio militare; passo le mie sere sotto
questa finestra, fischio, canto, faccio serenate, niente, ma questa finestra resta sempre
chiusa, non dà segni di vita, chiedo in giro e nessuno sa niente; c’è chi mi evita e chi
devia il discorso. Insomma, per Dio, che cosa è accaduto alla mia Lola? Ha per caso
cambiato paese?
NUNZ.: E neppure noi sappiamo niente.
122
LIA: (con cattiveria) Se tutti vi dicono così, voi stesso lo dovete capire, ma fingete, o
almeno vi volete illudere, perciò risparmiateci il fiato.
TURIDDU: Corpo di Bacco (animandosi); voi sapete! Voi dovete dirmelo! Ma cosa è
successo a Lola? Ha cambiato paese o c’è un altro nella sua vita? Ditemelo, io lo devo
sapere, non posso vivere nell’incertezza.
NUNZ.: (gettando uno sguardo a Lia e parlando tra i denti) Visto, come sei una
tomba?
TURIDDU: Cos’è questo frasario in codice, vi prendete gioco di me? Ringraziate Iddio
che siete due donne ed io un galantuomo; se no, saprei io come tirarvi fuori quelle
parole che io vorrei, saprei io come sciogliervela quella lingua.
NUNZ.: Se siete galantuomo, lasciateci stare, non ci torturate; sappiate che anche noi
donne abbiamo il nostro codice d’onore che sappiamo rispettare. Perciò abbiate rispetto
di noi e lasciateci andare, perché da noi nulla saprete al di fuori di quello già detto.
(allontanandosi) Santa notte e non sciupate altro tempo.
TURIDDU: (adirato e prostrato) Ahi svergognata ... ahi traditora ... perciò quegli
sguardi della gente ... quelle parole dette a metà volevano dirmi quello che io non
volevo capire; ma ti costringerò io a parlare, dovessi seguirti in cima al mondo, ti
troverò e mi dovrai delle spiegazioni. Quanto è vero Iddio, quanto è vero che mi chiamo
Turiddu, sulle ossa immacolate della mamma mia, se mi hai tradito, te ne farò pentire!
Ti farò pentire di essere venuta al mondo! Un colpo, un colpo ti pianterò in pieno petto,
così non sarai nè mia nè d’altri. (e si allontana e rivolto allo strimpellatore) e voi
abbiate pazienza, lasciatemi solo!
Scena IV
Personaggi: Mpari Carminucciu oste, Turiddu, Ianu.
(Turiddu, licenziato lo strimpellatore, trascorre la notte sotto la finestra di Lola. Si fa
giorno e il paese si sveglia lentamente perché è domenica)
OSTE: (esce dalla sua osteria e guarda il cielo) Ah! Finalmente un po’ di sole; ci
voleva proprio! Era da tempo che si voleva uscire all’aperto, non se ne poteva più! Il
cielo sembra proprio sereno, nuvole non se ne vedono. Adesso metto tutto fuori,
spalanco le porte, porto i tavoli fuori e chissà che questi marrani non si sentono spinti a
sedersi un po’ qui, davanti ad un boccale del mio buon vino. (si gira e vede Turiddu). E
tu che fai tu lì tutto intirizzito! Si direbbe che hai fatto la spia alle ore della notte.
TURIDDU: Sono fatti miei, a chi e a cosa faccio la spia; badate ai fatti vostri, io non mi
impiccio di niente e di nessuno.
OSTE: Ehi, ... Ehi ... cosa ti prende? Come siamo diventati suscettibili! Quando ci sono
le donne di mezzo si perde la bussola e anche la buona creanza.
TURIDDU: Cosa volete dire?
123
OSTE: Io? ... Niente ...; ma forse è meglio per voi se cambiate aria, perché questa non è
aria per voi!
TURIDDU: Ma insomma! cosa sono questi misteri; tutti mi vogliono dare consigli, tutti
dicono e non dicono, sanno e non sanno. Dovessi impegnarmi anche la camicia, vendere
la mia anima al diavolo, oggi a qualunque costo dovrò sapere!
OSTE: (entrando nell’osteria) È bene che mi faccio i fatti miei (e chiama) Ianu! ...
Ianuu! ... Ianu! ... (ritorna fuori) Questo figlio di un cane, quando mi serve non c’è mai.
Ma uno di questi giorni, se perdo la pazienza lo caccerò via.
IANU: (correndo con la camicia sporca di vino e ansimante) Padrone ... Padrone ...
eccomi, vi ho sentito da giù, vi ho anche risposto, ma voi ...
OSTE: (assestandogli un calcio nel didietro) Tieni figlio di un cane, mi fai sempre
sgolare; ma dove ti eri cacciato? Se ancora non lo hai capito che la tua giornata te la
devi sudare, io a pedate (e fa l’atto di assestargli un altro calcio) ti caccio fuori.
IANU: Ma io, ve lo stavo a dire! Io stavo giù in cantina a riempire i cinque barili della
domenica.
OSTE: Ah i cinque barili di vino, ma quando? Più di un’ora fa? So io come riempi i
barili di vino, metti più vino in questa panzaccia lurida che nei barili e così tutti i giorni
sei più spugna che mai.
IANU: (piagnucolando) Non è vero! qualche sorsetto ogni tanto.
OSTE: Qualche sorsetto? Qualche sorsetto di troppo che ti concia così, così come sei
che già non ti reggi all’impiedi.
IANU: No, io non sono ubriaco, un solo sorsetto per bagnarmi la gola, me la sentivo
(piangendo) asciutta.
OSTE: (arrabbiato) Basta! mangiapane a tradimento, se non la smetti, io mi dimentico
della promessa che feci a quella santa donna di tua madre e ti caccio via. Non voglio più
vederti così, ed ora fila dentro, porta fuori tavole e tovaglie.
Scena V
Personaggi: Oste, Ianu, Don Liborio (lo scrivano).
(Intanto che Ianu prepara i tavoli davanti all’osteria, passa don Liborio.)
OSTE: Don Liborio bello!
D. LIB.: Baciamo le mani, mpari Carminucciu!
OSTE: Avete fretta don Liborio? A me fa sempre piacere scambiare quattro chiacchiere
con gente istruita, e mi piace parlare con voi perché voi sapete sempre tante cose, sapete
trovare sempre la parola giusta.
124
D. LIB.: Troppo buono, mi stimate più di quello che valgo; io poi non sono così saggio,
così come pensate; il saggio siete voi; voi avete saputo guardare il vostro poco e siete
diventato un uomo di rispetto, con una non disprezzabile posizione. Invece io mi sono
perduto dietro alle chimere. Sapete! ... Ero giovane e mio padre nutriva per me grandi
speranze, mi ha mandato a scuola ed io mi sono fatto tante illusioni, volevo scrivere,
entrare in politica. Ed ora sono solo un povero diavolo che, perso dietro a tanti sogni si
ritrova solo con un pugno di mosche in mano.
OSTE: Ma cosa dite? (e fa l’atto di farlo accomodare) voi tenete nelle vostre mani un
tesoro, voi sapete leggere, scrivere ed io cosa darei per poterlo fare! Come è vero che a
questo mondo nessuno è contento. (chiama Ianu) Ianu! ... Ianu! ... (che accorre e rivolto
a lui) subito, un buon bicchiere di vino a don Liborio, ma di quello di casa, mi
raccomando di quello buono.
D. LIB.: (schernendosi) Ma io non volevo ...
OSTE: Non vi dovete dare pensiero, c’è chi paga.
D. LIB.: Ma io non volevo disturbare!
OSTE: Nessun disturbo, per me è un piacere parlare con uno come voi.
D. LIB.: Ed io accetto di buon grado, così avrò anche occasione di dare una sbirciatina
ai titoli di giornale. (ed estrae dalla tasca un giornale)
OSTE: Avete con voi il giornale? Lo sapevo che per me oggi era una giornata fortunata.
Sentite, don Liborio, venitemi a trovare più spesso perché non potete immaginare la
gioia che mi date quando spalancate queste pagine sul tavolo e capita così raramente ...
Io ... Mi sento dentro ... un qualcosa che non vi so dire. Vedete questa bettola, quando ci
state voi, per me diventa ... Che so ... Un luogo dove si parla bene ... Un luogo di quelli
... raffinati.
D. LIB.: (sorridendo) Dei club, dei circoli.
OSTE: Si chiamano così? E allora sì, di quelli; voi avete sempre la parola pronta.
D. LIB.: Se ho ben capito, vi piace sapere un po’ cosa dicono gli articoli di oggi
(sfogliando il giornale legge). “Il presidente del Consiglio Agostino Depretis, in data
odierna ha emanato una serie di decreti legge inerenti alla: Introduzione della istruzione
elementare obbligatoria e gratuita; Graduale abolizione della tassa sul macinato;
Allargamento del suffragio elettorale” (dopo di aver letto lo guarda e s’accorge che lo
sguardo dell’oste è assente) Vedete non sono cose per voi, forse è il caso se vi leggo
notizie di cronaca paesana.
OSTE: (mortificato e risentito) No io devo capire; voglio capire; spiegatemi capirò.
Scena VI
Personaggi: Oste, Don Calogero, Don Liborio.
125
(Intanto passa davanti all’osteria Don Calogero, il barone che si dirige in chiesa)
OSTE: (inchinandosi alla sua vista) Voscienza! ... (e si regge la coppola in mano)
D. CALOG.: Buona giornata (nell’atto di proseguire).
OSTE: E la signora baronessa? E le baronessine? vedo che vi recate in chiesa da solo.
D. CALOG.: Sì, questa domenica farò a meno della messa cantata, le donne andranno
da sole. Io ho qualche grattacapo da sbrigare, però non volevo rinunciare al mio dovere
di cristiano. (e fa per andar via).
OSTE: Ma ci vuole tempo ancora per l’inizio della messa (guardando l’orologio);
quindi se volete accettare l’offerta di un buon bicchiere di vino e se permettete non avete
che a sedervi (e fa l’atto di prendere la sedia e di pulirla).
D. CALOG.: Sì, qualche minuto ce l’ho ancora (e guarda l’orologio) accetto volentieri
di sedermi un po’; ma vi ringrazio per il vino, fate come se avessi accettato, sapete di
mattina non bevo mai, non sono abituato. (poi rivolto a don Liborio) Ah! Vedo che qui
c’è anche il nostro don Liborio, il vanto del nostro paese, la cultura personificata (e lo
dice tra l’ironico e il faceto).
D. LIB.: Cosa dite, mi lusingate, io non ho nessun merito se i miei mi hanno mandato a
scuola. Ma ora per come andranno le cose, i giovani delle nuove generazioni saranno
più fortunati, perché tutti andranno a scuola.
D. CALOG.: Ma che sciocchezze andate predicando! Le ho lette pure io quelle
corbellerie del nuovo governo. E sì ... andiamo tutti a scuola ... E chi zappa? ... Chi
semina? ... Chi raccoglie? ... lo fa lo stato? Quelli lo capiscono come si fa a portare
avanti una fattoria? A conservarsi quel tanto che ti hanno lasciato i tuoi parenti? Quelli
stanno troppo lontani e non sanno che qui tempo per andare a scuola non ce n’è. Perciò
è ora di smetterla con queste stupide illusioni, le braccia servono per i campi. Quelli
sono buoni a inventarsi solo le più turpi macchinazioni per togliere di tasca soldi a
galantuomini come me. Si inventano vocaboli per confondere la gente e noi cadiamo nei
loro lacci. Andando di questo passo, chissà dove andremo a finire. I giovani, illusi da
vane speranze si ribellano ai loro padroni, i padroni che danno loro da vivere e i campi
resteranno incolti.
D. LIB.: (ascolta inebetito il discorso di Don Calogero) Ma credete davvero alle cose
che dite? Mi auguro che vi ravvediate! È vero che ci sono delle cose che vanno corrette;
ma è altrettanto vero che tanto è cambiato e in meglio.
D. CALOG.: Ora devo proprio andare; a dar retta a chi vuole la nostra rovini significa
sostenere ladri e sconvolgere l’ordine delle cose. Per fortuna che ho gli occhi ben aperti
e so come difendermi dai fantasmi della politica.
OSTE: Io ne capisco poco, ma mi sembra che qualcosa di buono pure c’è.
D. CALOG.: Ragiona, io poc’anzi ho detto che ho dei grattacapi. E questo, (e con
sarcasmo) grazie alle rivendicazioni, così adesso chiamano le ribalderie che si
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commettono ai danni dei padroni. Vado a Vizzini perché il mio fattore, quel furfante, mi
ha comunicato che tutti i braccianti hanno piegato le braccia e si rifiutano di lavorare.
Fanno lo sciopero quelli. (e va via)
D. LIB.: Per fortuna che pochi sono come lui.
Scena VII
Personaggi: Lia, Nunziatina.
(si stanno recando in chiesa)
NUNZ.: E affrettati, non ho nessuna intenzione di arrivare in ritardo, quegli occhiacci di
don Bernardino che ti scrutano durante la messa proprio non li sopporto. (e la spinge)
LIA: E sì, non mi posso mica scapezzare, e poi lasciateglieli fare gli occhiacci, noi
possiamo pure sederci in fondo alla chiesa.
NUNZ.: Tieni sempre la lingua lunga, sai sempre come apparare, quello se vuole, ha
occhi e orecchie dappertutto e a me proprio non mi va quando incominciate le litanie dal
pulpito su chi sputa e su chi parla in chiesa, su chi arriva in ritardo a messa o va via
prima del tempo.
LIA: (quasi senza ascoltarla) Uh! Gesumaria (facendosi il segno della croce) queste
sono cose turche. Ma quello ... quello seduto sulle scale della chiesa non è Turiddu?
NUNZ.: Uh! è vero, sembra stralunato di sonno; non facciamoci vedere, torniamo
indietro ed entriamo in chiesa dalla porta del vicolo.
LIA: Ma guardate come si deve ridurre un uomo per una schifosa, oh Dio, come mi
dispiace! Ah (sospirando) avessi io potuto avere quella fortuna, certe cose io non me le
sarei mai sognate di fare.
NUNZ.: Sì fortuna! fortuna ad avere a che fare con quello scavezzacollo? Anzi
fortunata lo sei davvero per non aver avuto a che fare con quello. Quello lì lascialo alle
altre. Ah benedette ragazze basta che uno vi fa un po’ gli occhi da pesce morto e voi
siete fritte e rifritte. Quello è uno che va dietro a tutte le sottane e tra le tante ce ne è
sempre una che paga per tutte.
LIA: (sorridendo) Guardatelo quant’è bello, sembra santu Luca in processione.
NUNZ.: Si santu Luca! è bel picciotto, ma niente di eccezionale ... ma insomma, cosa
mi fai dire alla mia età. Su filiamocela.
LIA: (senza ascoltarla) Io a quella lì non so che le farei! Ma che cosa ha più delle altre
che tutti le hanno fatto la corte e tutt’ora continuano a fargliela. Ha proprio una fortuna
sfacciata quella.
NUNZ.: Fortuna, fortuna ... Quella sa il fatto suo! Quella sa come attirare gli uomini!
Tu sei ancora troppo giovane ... poi capirai ... Non vedevi come faceva la gatta morta
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quando passava il carrettiere, e dai oggi e dai domani fino a quando non se l’è portato
dentro.
LIA: (sprizzando invidia) Ed ora fa la signorona; no, per carità, non viene presto a
messa di domenica ma va a quella dei signori, mette e smette vestiti di taftà, di seta ed
ora li vuole anche di colore scuro. Quando si affaccia sembra che dica: “Ma come non
me li guardate gli anelli nuovi?” alla festa di San Gervaso poi, ha più oro lei che la
madonna della Pace. E questo non è fortuna? (ed escono di scena)
Scena VIII
Personaggi: Vito, Turiddu.
(scena davanti alla chiesa)
VITO: (vede il figlio in lontananza e gli corre incontro minaccioso) Scellerato! Tu qua
sei! Ed io ad aspettarti tutta la notte senza poter chiudere occhio! Tu vuoi farmi morire
di crepacuore! Dove sei stato? Cosa hai fatto? Con chi sei stato? (tutto d’un fiato)
TURIDDU: (seccato) Ehi ehi! Quante domande e tutte insieme ... io sono maggiorenne
e sono andato soldato! E questo vi deve bastare. So badare a me stesso. Non mi va
proprio di rispondervi e mettere in piazza i fatti miei! Già sono diventato lo zimbello di
tutti.
VITO: Ma sentitelo, così si risponde ad un padre! sei uno screanzato ... Ma valli a
capire questi giovani ... Più ti cali le brache e più ne approfittano. Fortunata quella santa
donna che ti ha messo al mondo. Quella se ne è andata appena in tempo per non sentire
bestemmie simili! Ne sarebbe morta di dolore.
TURIDDU: E dagli con queste scenate; cosa c’entra adesso la buonanima? voi la
chiamate in causa sempre quando non sapete risolvervi. Vi ho detto che vi risponderò a
casa; perciò andatevene e risparmiatemi il resto.
VITO: (fa per dargli uno schiaffo) Senti, mi prudono le mani. Ringrazia il tuo santo
protettore che me le ha legate. (poi rivolto al pubblico dice ironicamente) Fa il
maggiorenne ... E’ andato soldato ... Ma mangia ancora del mio pane. (rivolto a lui) Tu
sei maggiorenne quando vivi del tuo, quando esci da casa mia! Fin quando stai sotto il
mio tetto, devi stare ai miei comandamenti.
TURIDDU: (più seccato che mai gli fa segno di andarsene).
VITO: (più arrabbiato che mai) Ma guardatelo, guardatelo ... sembra l’ombra di sé
stesso! Ora ho capito! Hai passato la notte lì (e fa segno all’osteria) a consumare il mio
sangue. D’ora in poi niente più ti darò. Dovesse venire l’anima benedetta di tua madre
dall’altro mondo. Ed io che avevo intenzione di recarmi a messa; ma è meglio che me
ne ritorni a casa, non voglio profanare la casa di Dio, indiavolato come sto. (ed esce)
Scena IX
128
Personaggi: Don Liborio, oste.
(mentre si stanno svolgendo nella piazza del paese tali situazioni, Don Liborio continua
a leggere il suo giornale seduto al tavolo dell’osteria e di tanto in tanto solleva lo
sguardo da esso, per dare una sbirciatina a quello che accade e chiama l’oste)
D. LIB.: Mpari Carminucciu questa piazza stamattina ha qualche cosa di insolito, quelli
che vi passano pare che vogliano nascondere qualcosa. E poi quel giovane che sta lì ...
Ho notato che sta lì da prima che arrivassi io ed è sempre lì, allo stesso posto; ed ora
mentre voi eravate dentro, litigava con un vecchio. Ma che sta succedendo? Ne sapete
qualcosa? (l’oste gli sussurra qualcosa all’orecchio) Ah! … Ma è quello Turiddu?
Quante storie per una donna ... Vuol dire che una se ne perde e cento se ne trovano. (e
ride)
OSTE: Io pure la penso come voi; ma che ci volete fare. (ed esce di scena)
Scena X
Personaggi: Turiddu, Lola.
(la messa è finita, tra la gente che esce dalla chiesa, c’è pure Lola che tutta compunta e
trafelata segue le due compagne Lia e Nunziatina, quando di fronte a lei si staglia con
tutta la furia malcelata Turiddu)
TURIDDU: (con un fare tra l’arrogante e il minaccioso) Baciamo le mani donna Lola
... onoratissima.
LOLA: (tra lo smarrimento e la sorpresa) Buona giornata, mpari Turiddu (e fa per
andarsene)
TURIDDU: Ehi quanta fretta! Così si salutano i vecchi amici? (e le si para davanti)
LOLA: Lasciatemi passare, fatemi raggiungere le mie compagne, per l’amor di Dio!
TURIDDU: E quale necessità c’è! Avete paura di restare solaaa? E vi accompagnerò io.
LOLA: (spaventata incomincia a farfugliare) Vedete ... Io ... Non posso essere vista in
vostra compagnia (tutto d’un fiato)
TURIDDU: E cosa mai feci di male io, ... io sono galantuomo, sapete e non mi potete
negare questo obbligo, voi lo sapete che avete obblighi nei miei confronti.
LOLA: (sull’orlo di una crisi) Per l’amor di Dio non posso trattenermi con voi.
TURIDDU: E perché mai? Qualcosa cambiò? Spiegatemi … Da parte mia nulla
cambiò.
LOLA: Possibile che non sapete? Che nessuno vi abbia detto niente? Perché volete
tormentarmi? Vi prendete gioco di me!
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TURIDDU: (risentito passa dall’ironia alla stizza) Sentite qui nessuno mi ha detto
niente. Perciò parlate! A che gioco giochiamo? Vogliamo ancora giocare a carte
truccate? Fuori la verità, voglio la verità! Cosa vi impedisce di fermarvi con me?
LOLA: Ma allora veramente non sapete? Io ... Io ... sono (a voce bassa) maritata.
TURIDDU: Maritata ... (meditando) Ah ! maritata ... e cu fu il fortunato, il fottutissimo,
lo schifosissimo ... cornutissimo fortunato.
LOLA: (si copre il viso con le mani e poi copre con le sue mani la bocca di Turiddu)
Zitto, per carità, per l’amor di Dio, calmatevi, abbassate la voce!
TURIDDU: (alza di più la voce) Maritata, maritata.
LOLA: Calmatevi, io non volevo ... Qui finisce in tragedia ... Mio marito è un uomo
d’onore; è un uomo che porta la coppola sull’orecchio sinistro.
TURIDDU: Lui l’uomo d’onore ed io cosa sono un pupazzo? Un pupazzo (ed alza la
voce)
LOLA: Ve ne prego, vi scongiuro! Ragionate ... Calmatevi.
TURIDDU: Il nome, fuori il nome, adesso sono calmo; ma voi dovete dirmi chi è?
LOLA: E’... è ...
TURIDDU: (quasi per accompagnarla) E’?
LOLA: E’... Mpari Alfio, lu carrettiere.
TURIDDU: Ah! Bene ... Bene ... Sposa ad un carrettiere (alzando la voce) E questi che
cosa aveva più di me ? ... (riflettendo) Più di me? aveva quattro muli di Sortino in stalla,
una mula baia, un podere a Vizzini.
LOLA: Non è stato per questo,
TURIDDU: E allora per quale altra cosa?
LOLA: Voi ... Siete stato via per troppo tempo; mai una notizia di voi; io non sapevo se
eravate vivo o morto, quello mi aveva messo gli occhi addosso e la genie sparlava.
TURIDDU: Bella gratitudine; io lontano, in guerra tra schioppi e granate e voi ve la
spassavate.
LOLA: No, io non volevo; ma sapete, io ero una povera giovine, senza dote e i miei,
quando lui si fece avanti, mi dicevano che tanta grazia di Dio non la dovevo rifiutare e
con le buone e con le cattive mi convinsero.
130
TURIDDU: (sarcastico) Ah vi convinsero, ma non vi aveva messo gli occhi addosso
già quando eravate in dimestichezza con me?
LOLA: Questo non lo so, la gente lo diceva, ma vi giuro, non lo so.
TURIDDU: Non giurate ... Che giurate a fare ... Sarà lo stesso giuramento che mi
faceste la sera prima che io partissi. Perciò risparmiatevi altre bugie, altre menzogne.
LOLA: Erano sinceri quei giuramenti. (piangendo)
TURIDDU: A chi volete convincere con queste lacrime ... Lacrime di Giuda sono.
Bugiarda ... Bugiarda assai siete. Asciugatele (e le porge un fazzoletto) questo voi ve lo
dovreste ricordare, (indicando il fazzoletto) lo dovreste riconoscere.
LOLA: (lo guarda e se lo stringe fra le mani) Sì che me lo ricordo; è il mio, il vostro,
insomma quello che vi diedi l’ultima sera.
TURIDDU: Ah la memoria piano piano vi sta ritornando; questo fazzoletto quante mie
lacrime ha asciugato ed ora ve lo restituisco!
LOLA: (respingendolo) No! E’ vostro, non mi appartiene più. Ma ora che sapete tutto,
lasciatemi andare.
TURIDDU: Ancora qualche minuto e vi giuro che d’ora innanzi non vi infastidirò più.
Se volete, non vi rivolgerò più neppure il saluto; insomma esco per sempre dalla vostra
vita.
LOLA: (afflitta) Mi dispiace.
TURIDDU: Non voglio la vostra compassione. Mi passerà presto; voi lo sapete e come
se non lo sapete! Basta girarmi intorno e posso avere ai miei piedi tutte le donne che
voglio. Perciò tranquilla; persane una, se ne troveranno cento. Poi voialtre siete tutte
uguali, una Lola vale l’altra; tutte senza cuore; basta che la tasca è piena di paoli sonanti
e il resto non conta, altre cose sono fantasie. Addio Lola.
LOLA: (vorrebbe fermarlo) Turiddu ...
TURIDDU: State senza pensieri, non farò spropositi, ma non potete impedirmi di
pensarvi!
ATTO II
(giochi di luce dal giorno alla notte)
(Turiddu architetta un piano per ingelosire Lola e ci riesce; una sera si reca da Cola,
padre di Santa)
Scena I
131
Personaggi: Turiddu, massaro Cola, Santuzza.
TURIDDU: (si reca da massaro Cola e bussa al portone) Toc.. Toc.,
M. COLA: (si affaccia alla finestra) Chi è?
TURIDDU: (distaccandosi un po’ e con lo sguardo in alto) Turiddu! … della gnà
Nunzia!
M. COLA: E ti pare questa l’ora da cristiani per presentarsi in case onorate? Che
minghia vuoi?
TURIDDU: Aprite! Fatemi entrare ...Vorrei parlarvi di un affare.
M. COLA: Ehi, sarei pazzo a farti entrare! Dove ci sono gatte femmine manco l’ombra
di un cane maschio ci entrerà. Aspetta che scendo io.
TURIDDU: E va bene.
M. COLA: (davanti al portone) E allora cos’è che mi volevi dire a ... a ...
TURIDDU: Veramente vado in cerca di lavoro e ho pensato a voi!
M. COLA: A mia? Per queste minghiate stamattina dal letto cadesti! io troppo poco
tempo tenni per stare a sentire uno scavezzacollo come te. (e fa per entrarsene)
TURIDDU: (fermandolo) No, mi spiego! Ho sentito che Mungucciu il vostro vaccaro
non ce la fa più a governare da solo stalle e vacche vostre e voi cercate un nuovo
vaccaro, uno più giovane.
M. COLA: E questo vorresti essere tu! (e ride) No ... No ... No ...! Tu non fai al caso
mio. Io quieto vogliu stari, e tu sei troppo chiacchierato hai troppi grilli perla testa. Io ho
bisogno di uno che non vede, non sente e non parla e tu vedi, senti e parli, e come parli!
TURIDDU: Massaro Cola, almeno mettetemi alla prova, datemi questa soddisfazione.
E’ vero che non ho mai fatto il vaccaro, ma mi ci adatterò. Chi vuole mangiare, non può
aspettare lavori da scrivano.
M. COLA: No, mi prendi alla sprovvista e non so cosa risponderti! ripassa un altro
giorno e ci penserò. (e sta per entrare)
SANTUZZA: (spaventata) Pa ... Pa ... Mungucciu mi ha detto di chiamarvi, fate presto
che Rocchina sta sgravidando! Correte!
M. COLA: Quello si è rincitrullito! Lascialo perdere, ci vogliono almeno altre due ore.
TURIDDU: (guarda ammirato la ragazza) Perbacco, ma questa è Santuzza! Si è fatta
proprio un bel tocco di ragazza.
132
M. COLA: Sì, ma ti avverto, quella non è pane per i tuoi denti. Uomo avvisato mezzo
salvato. Se solo ti azzardi a mettergli gli occhi addosso, io ... ti ... ti spedisco all’altro
mondo.
TURIDDU: Ma come siete suscettibile, non ve la volevo mica mangiare, dicevo così
per dire.
M. COLA: Ed io te la facevo mangiare, non scherzare col fuoco. E questa è prova che è
bene che te ne stai fuori da casa mia.
TURIDDU: Massaro Cola, non dovete preoccuparvi, Santuzza è troppo giovane per
me! E’ quasi una bambina e poi lo so, me lo avete detto proprio adesso che non me la
dareste mai.
M. COLA: Hai capito perfettamente! La mia Santuzza non è pane per i tuoi denti, ci ha
la dote, ed io mi voglio impegnare tutto, pure me stesso, se sarà necessario, ma voglio
maritarla ad un signorino. Perciò, niente scherzi con me, e sul tuo conto circolano troppe
chiacchiere.
TURIDDU: State tranquillo, manco la saluto se la incontro la vostra Santuzza, ma ora
vogliamo parlare di lavoro?
M. COLA: Hai parlato da galantuomo; avevo dei pregiudizi su di te, e invece mi sembri
sincero; sai cosa c’è di nuovo? Domani presentati presto da me e vedremo.
TURIDDU: (col sorriso trionfante) Sicuro?
M. COLA: (abbozzando un sorriso) Sicuro, figlio di un cane, ringrazia la buonanima di
tua madre; tua madre tanto santa donna e tu tanto acciuffaguai.
(intanto dall’altra finestra Lola ha visto, nascosta, tutto e medita anche lei un piano)
UNA VOCE: Lola, Lola ... vieni dentro.
LOLA: Si, vengo, prendevo una boccata d’aria.
Scena II
Personaggi: Turiddu, Santuzza.
(sul portone di casa di Santuzza, una sera)
TURIDDU: (sistemando il fascio d’erba sotto il braccio di Santuzza, volutamente le
sfiora le mani) E sì che avete delle belle mani, queste sono mani che andrebbero più
curate, mani non adatte a questo lavoro, mani morbide, da accarezzare
SANTUZZA: (ha capito e gli si scosta) Ehi, ma cosa vi prende? Mi prendete per
un’allocca? Ste belle cose, andatele a dire alla gnà Lola.
133
TURIDDU: La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora!
SANTUZZA: Io non me li merito i re di corona, io sono una contadina.
TURIDDU: Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe gnà
Lola, quando ci state voi, perché la gnà Lola non è degna di portavi le scarpe, non è
degna.
SANTUZZA: (sorridendo) La volpe quando all’uva non ci poté arrivare ...
TURIDDU: (in un impeto sta per abbracciarla) Come sei bella, racinedda mia!
SANTUZZA: (evitandolo) Ohè! Giù quelle mani, compare Turiddu.
TURIDDU: Non vi preoccupate che non vi mangio, perciò che paura avete?
SANTUZZA: Io paura di voi? Io non ho paura né di voi e né di nessuno.
TURIDDU: Così accalorata, mi piacete ancora di più, avete il sangue rissoso! Uh vi
mangerei con gli occhi.
SANTUZZA: Mangiatemi pure con gli occhi che briciole non ne faremo; ma intanto
portatemi voi questo fascio.
TURIDDU: Per voi porterei il mondo intero sulle spalle.
SANTUZZA: Come siete bravo a fare chiacchiere, ma le chiacchiere non portano
profitto.
TURIDDU: Voi meritate tutta la ricchezza di questo mondo! Se fossi ricco, vorrei
cercarmi una moglie come voi, gnà Santa.
SANTUZZA: Io non sposerò un re di corona, coma la gnà Lola, ma la mia dote ce l’ho
anch’io quando dovrò maritarmi.
TURIDDU: Lo sappiamo che siete ricca ... Lo sappiamo.
SANTUZZA: Si è fatto tardi, ed ora andatevene che mio padre ci potrebbe vedere ed io
non vorrei farmi vedere da lui con voi.
TURIDDU: (tirandola con un braccio) Aspettate ... Ancora un momento ...
Scena III
Personaggi: Massaro Cola, Santuzza, Turiddu.
M. COLA: (sul portone) A voglia di aspettare per il fieno, quelle nella stalla potevano
anche crepare e tu, sciagurata, a perderti dietro le chiacchiere di questo scansafatiche; tu
intanto entra dentro (alla figlia) e dopo faremo i conti. E tu (rivolto a Turiddu) non farti
134
più vedere e ringrazia Iddio se la cosa finisce qui. Ma cosa pensavate che ero cieco? E
che non mi accorgevo degli occhi di triglia morta che facevi a questa rimbambita.
SANTUZZA: Pa ... non inquietatevi ... calmatevi ... Turiddu stava andando via.
M. COLA: Ma come te lo devo dire ... questo è un rovinafamiglie (e fà per picchiarla)
TURIDDU: (fermandolo) Non vi permetto, Santuzza non li merita questi trattamenti, la
colpa è mia, è solo mia, ma d’ora in poi vi prometto che non metterò più piede qui.
M. COLA: Tu cosa non permetti? Io faccio finta di non averti sentito, se no ci sarebbe
da passare guai. Ma non mi sporco le mani con te! (i tre escono di scena)
(Lola dalla finestra ha assistito alla scena non vista)
Scena IV
Personaggi: due amici all’osteria.
(la scena si svolge di giorno)
AMICO 1: (davanti ad un bicchiere di vino) Hai visto la Santuzza? La monachella! La
Santarellina è caduta pure lei negli artigli di Turiddu.
AMICO 2: Ah è così? E come lo sai? ... Ma c’era da aspettarselo. Come, massaro Cola,
volpe come è se l’è fatta fare da quello?
AMICO 1: Sì, ieri sera, tutti hanno sentito, c’è stata una grossa gazzarra. Massaro Cola
ha sorpreso sua figlia con quello là e l’ha anche picchiata; c’è qualcuno che dice che
Turiddu medita vendetta.
AMICO 2: Sì vendetta, vendetta! Quello, è buono solo ad adocchiare tutte le sottane del
paese, così facendo finirà sulla forca.
Scena V
Personaggi: Turiddu, Santuzza.
(dopo qualche giorno Turiddu incontra Santuzza in piazza)
TURIDDU: Santuzza, Santuzza, fermatevi, mi dispiace, mi dispiace davvero per quello
che è successo.
SANTUZZA: Andatevene, la colpa è tutta vostra; ve ne prego non seguitemi, è meglio
per voi e per me.
TURIDDU: Non posso non vedervi, come faccio a rinunciare a voi. Qualche cosa sarà e
noi la dobbiamo scoprire insieme.
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SANTUZZA: Ve ne prego, non parlatemi d’amore; lo sapete, mio padre mi vorrebbe
piuttosto morta che accanto a voi.
TURIDDU: Non dite così, se no farò uno sproposito.
SANTUZZA: Addio, andate via.
TURIDDU: Non vi lascerò andar via, se prima non mi promettete che ci vedremo
ancora.
SANTUZZA: Voi siete pazzo, mettetevi l’animo in pace, non sarà possibile.
TURIDDU: Pazzo, sì ma di voi e allora quando? ... Dove?
SANTUZZA: No, no.
TURIDDU: Ve ne prego.
SANTUZZA: Allora stasera; io lascerò il portone socchiuso, quando mio padre andrà a
dormire, io vi farò segno, passerò la lampada davanti ai vetri della mia finestra, voi
capirete ed entrerete.
TURIDDU: Si, anima mia, non vivrò che per questa attesa. Che siate benedetta (e per
baciargli le mani e lei si svincola)
(dalla finestra intanto Lola segue tutti i movimenti di Turiddu e Santuzza)
Scena VI
Personaggi: Turiddu, Santuzza, Lola.
(la scena è mimata, Turiddu passa sotto la finestra di Santuzza e furtivamente, a,
segnale convenuto entra nel portone; Lola, come è sua abitudine, ha visto tutto e presa
dalla gelosia esclama)
LOLA: Per quanto è certo Iddio, a quella gatta morta gliela farò vedere io! (e sbatte la
finestra)
UNA VOCE: Cosa succede Lola?
LOLA: Niente, è il vento che sbatte la finestra e la sto chiudendo.
Scena VII
Personaggi: Alfio, Lola.
(Alfio, all’indomani, si prepara per partire per la fiera e ha con sé il bagaglio per il
viaggio e dalla strada chiama)
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ALFIO: Lola, Lola affacciatevi!
LOLA: (si affaccia) Alfio cosa c’è ancora! si direbbe proprio che vi rincresce di partire.
ALFIO: Vedete, non ho con me l’orologio, l’avrò lasciato sul cassettone, guardate e
portatemelo.
LOLA: Faccio in un momento e sto di sotto.
ALFIO: (guarda la moglie che intanto è scesa) E’ solo una scusa, volevo ancora
guardarvi, Lola come siete bella, mi avete reso l’uomo più fortunato di Licodia (e fa per
abbracciarla)
LOLA: (sciogliendosi dall’abbraccio) Siamo in strada e poi me ne vergogno.
ALFIO: E di che? Siamo marito e moglie. Lola, ditemi, mi volete bene?
LOLA: Ma vi pare questo il momento?
ALFIO: Tutti i momenti per me vanno bene.
LOLA: (maliziosamente) Lo sapete che non vivo senza di voi (e si abbracciano)
(Alfio è partito e Turiddu, per caso, passa davanti casa di Lola che si fa trovare
sull’uscio del portone)
LOLA: Adesso siete voi che vi dimenticate gli amici.
TURIDDU: (furbescamente) Questo mai soprattutto se sono amiche. Che cosa è questa
novità, spiegatemi. Siete stata voi a volere così, ve ne rammentate?
LOLA: Ma il saluto almeno.
TURIDDU: Voi siete una donna maritata ed io non le saluto le donne maritate.
LOLA: Ma cosa c’entra per noi è diverso; e poi vi siete proprio dimenticato di tutto?
TURIDDU: Non mi provocate, non sono un santo e lo sapete!
LOLA: E neppure io sono una santa; venite stasera e ve lo dimostrerò.
TURIDDU: Ma non bestemmiate! e vostro marito? E poi in casa vostra!
LOLA: Se vi dico così è così; mio marito non c’è è partito; e allora cosa dite io stasera
vi aspetto.
(di sera furtivamente Turiddu si introdusse in casa di Lola, ma disgraziatamente
qualcuno vide)
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Scena VIII
Personaggi: Oste, Ianu, Turiddu.
TURIDDU: (passando davanti all’osteria) Buona giornata mpari Carminucciu (e se ne
va fischiettando)
OSTE: Buona giornata a voi, Turiddu che ve la fischiettate; l’uccello in gabbia canta o
per rabbia o per amore e voi non avete motivo per non stare allegro! (e ride)
TURIDDU: (sorridendo sornionamente gli si avvicina e gli bisbiglia qualcosa
nell’orecchio, i due ridono) Però acqua in bocca!
OSTE: Ma il fatto è che vi ha visto anche Ianu e quello neppure ammazzato riesce a
tenersi dentro quattro ceci.
TURIDDU: Di questo non ve ne state a preoccupare, ci penso io (e lo chiama) Ianu,
Ianu ... Vieni, ho da parlarti.
IANU: Cosa devo servirvi?
TURIDDU: Niente; (mette sul tavolo del danaro) tieni sono tuoi, pagati da bere (Ianu
fa per prenderli) Ma a patto che sarai muto come un pesce se no pesce morto sarai.
IANU: Perché qualcosa succiese? Nenti sapiu, nenti viriu, mutu come tomba sogno.
TURUDDU: Bravo, ci siamo intesi, sai parlare da uomo.
Scena IX
Personaggi: Santuzza, Lola, gente alla rinfusa.
(scena del parapiglia sul sagrato della chiesa)
SANTUZZA: Pure voi così presto in chiesa, voi che avete preso tutt’altre abitudini; le
signorone si alzano tardi, vanno tardi in chiesa.
LOLA: Le signorone! Io non sono una signorona e faccio tutto come prima. Oggi poi
mi sono alzata più presto del solito! quando non c’è il mio Alfio io la notte non dormo
per niente, quel letto tiene le spine.
SANTUZZA: Le spine! Trovate sempre chi ve le sa togliere le spine voi!
LOLA: Uhè, picciridda, da quando qualche moscone ti gironzola attorno tu sei
diventata sfacciata, cosa vuoi dire!
SANTUZZA: Volevo dire, ... niente, andiamo, andiamo in chiesa, facciamoci un bel
bucato e liberiamoci la nostra coscienza.
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LOLA: Ma insomma! Spine, bucato, coscienza ma che parli per indovinelli? Io il
bucato dei miei peccati, me lo faccio quando voglio e non devo rendere conto a nessuno.
SANTUZZA: E non vi alterate che nessuno vi ha detto niente, lo vedete?
(ironicamente) Voi lo state a dire il bucato dei peccati.
LOLA: Gesù, Gesù, ma stamattina sei caduta dal letto per sputare veleno? E’ meglio
che me entro dentro e tolgo ogni occasione. Ma vedete un po’ con chi si deve avere a
che fare. Una si alza presto con l’intenzione di andarsi a confessare e trovi chi ti rompe
l’ anima.
SANTUZZA: (alzando la voce) Andate, andate che ne avete di bisogno; avete una tale
lista di peccati che chissà se don Bernardino a furia di sentirvi non si addormenta nel
confessionale. Però non vi preoccupate, quello è mezzo rimbambito, assolve tutti e
assolve anche voi.
LOLA: Uhè gatta morta, ma tu che cosa vuoi da me?
SANTUZZA: A me gatta morta (e sta per avventarsi contro) stai attenta a come parli; e
a cosa fai, lo sai, devi lasciare in pace Turiddu! Ti credevi che non lo sapevo? E non lo
so solo io; qui mezzo paese lo vede entrare tutte le notti da te e certamente non vi dite il
rosario.
LOLA: Ci diciamo lo stesso rosario che ti sei detto pure tu! Ma si vede che il mio
rosario gli piace di più!
SANTUZZA: Malafemmina, puttana, tieni. (e le assesta uno schiaffo)
LOLA: (si scansa) Io non rispondo alla provocazione, non voglio mettere i fatti miei in
piazza.
SANTUZZA: E ti conviene, ti vuoi apparare davanti a quel cornutaccio di tuo marito,
ma non ce la farai, quello ugualmente lo saprà perché a dirglielo sarò io stessa e ti
ucciderà.
LOLA: Tu non farai un bel niente perché non ne avrai tempo, io stessa ti strozzerò con
queste mie mani (e si avventa contro) hai capito? Ma tu che vuoi? Turiddu non vuole te,
vuole i tuoi soldi, tu non gli piaci.
SANTUZZA: E che gli piaci tu? Brutta schifosa, anima persa. Lasciami stare Turiddu
se no finisci nei guai, anzi già ci sei nei guai! Turiddu mi vuole bene, sei tu che ti metti
di mezzo.
LOLA: E’ a me che vuole bene, di te vuole bene solo i tuoi soldi.
SANTUZZA: (l’acchiappa e si picchiano) dicevi che non volevi lo scandalo! Ma lo hai
voluto proprio tu. Questo è solo un acconto, è la colazione, devi vedere quello che ti
aspetta a pranzo, puttana!
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LOLA: Sta sciacquetta, puttana a me! e tu la santarella, tu lo sei più di tutte.
Scena X
Personaggi: le litiganti, Don Bernardino, gente alla rinfusa.
(Don Bernardino esce fuori dalla chiesa e vede quel parapiglia)
D. BERN.: Uhè, uhè, che sta succedendo? Dividetele, a quelle due ossesse (si inserisce
tra loro due) Buone, buone, finitela per l’amor di Dio (ma scivola e cade; si rialza,
sorretto da due passanti mentre quelle continuano a litigare) oh santo Iddio, ma vedete
che mi tocca vedere! Smettetela, qui state davanti alla casa Dio; anzi questa è casa di
Dio e se volete continuare ancora, andate altrove, cercatevi un altro posto. Non potete
così profanare la casa del Signore. Siete due sacrileghe. Dovevo campare fino a tanto
per vedere anche questo; assistere a questo scempio.
VOCI: Don Bernardino che ci volete fare, sono cose che succedono!
D. BERN.: Succedono, non succedono, non potete scambiare la casa del Signore per un
bordello, le vostre corna andatevele a rompere altrove. (ed esce di scena)
VOCI: Hai sentito, anche Don Bernardino lo sa, quello pare che non vede e non sente,
ma quando vuole, vede e sente più di tutti. (tutti escono di scena)
Scena XI
Personaggi: Alfio, Lola, due amici.
(Alfio ritorna dalla fiera, da lontano arrivato in piazza scorge qualcosa che luccica, si
abbassa e vede un anello, lo prende e lo guarda)
ALFIO: Si direbbe proprio che sia di Lola, o meglio somiglia molto al suo. (se lo mette
in tasca e avvicinandosi alla finestra chiama) Lola, Lola.
(dall’osteria)
AMICI 1 e 2: Baciamo le mani mpari Alfio, già di ritorno dalla fiera?
ALFIO: Salute a voi, a Sortino c’era poco da fare, di muli poca roba, così mi sono
dovuto accontentare di un affaruccio di poco conto; quasi ci ho rimesso la camminata.
AMICO 1: Ma cosa ci volete fare, la prossima volta vi va meglio.
ALFIO: Non mi lamento, poteva andare anche peggio.
AMICO 2: Ma come? Dicevano tutti che a Sortino, quest’anno c’era una fiera di muli
da stravedere; valla a credere la gente, quella chiacchiera come gli gira.
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ALFIO: Lola, Lola ... (e rivolto a loro) permettete ... vado sopra sono stanco dal
viaggio.
AMICO 1: E sì che avete ragione, andate sopra ... una bella dormita vi farà bene e
ritornate più fresco di una rosa.
ALFIO: (avvicinandosi alla finestra) Lola ... Lolaaa ...
LOLA: (affacciandosi) Siete voi, scendo subito; ma è da tempo che mi chiamavate?
ALFIO: Non ho più gola a furia di chiamarvi, ma dove stavate?
LOLA: Oh ... Quanto mi dispiace; ero nell’orto a governare le galline, ora scendo
subito. (e si ritira)
ALFIO: Santa donna, non sta mai un minuto ferma, si trova sempre mille cose da fare.
LOLA: (esce dal portone) Alfio! (e lo abbraccia) Siete stanco? andiamo dentro (e fa
per prendergli il grosso fagotto che ha in spalla)
ALFIO: Un po’, ma mi riprendo subito (e la guarda) voi piuttosto, avete il viso un po’
pallido.
LOLA: Lo sapete che dormo poco se non sto accanto a voi.
ALFIO: Lo so che sono tutto per voi, ma che ci volete fare, questo è il mio mestiere,
andare per fiere (estrae dalla tasca l’anello) ma guardate che strano! l’ho trovato lì,
sulle scale della chiesa, mi sembra proprio il vostro.
LOLA: (prende l’anello dalle mani del marito e lo guarda) Ed è proprio il mio; ma
come ho potuto, si vede che stamattina, sbattendo i tappeti, mi sarà scivolato! (e
guardandosi le dita che lui le accarezza) si sono fatte un po’ magre, devo stare più
attenta se no me li perdo tutti gli anelli.
ALFIO: Degli anelli mi dispiace poco se li perdete, ma vi vedo un po’ stanca e anche
un po’ magra. Avete avuto qualche dispiacere? qualche pensiero vi turba?
LOLA: Il mio pensiero siete solo voi.
ALFIO: Sono impaziente di entrare in casa (e le mormora qualcosa all’orecchio).
LOLA: Mi fate arrossire.
ALFIO: (le porge uno scatolone.) Ho qui una cosa che vi farà piacere.
LOLA: Mi avete portato qualcosa?
ALFIO: Sì! un vestito, un vestito bellissimo. Prima di ritornare al paese, mi sono
fermato a Palermo, sono entrato in una sartoria piena di luci e di specchi e vi ho
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comprato il più bel vestito, me lo ha consigliato la modista, ha voluto sapere di voi,
come eravate e io vi ho descritta bella come siete.
LOLA: Siete pazzo da legare, avete speso un patrimonio.
ALFIO: Di voi sì, dei soldi, che mi importa, ne ho tanti e anche se non ne avessi, mi
indebiterei per vedervi più bella che mai.
LOLA: Ma ne ho tanti!
ALFIO: Questo qui lo dovete indossare questa domenica che è Pasqua e tutti devono
morire di invidia.
LOLA: Pazzo siete (e abbracciati entrano in casa)
AMICO 1: (sorridendo) Hai visto che arte, è proprio una commediante.
AMICO 2: Si sa, che chi fa i lacci li deve saper vendere. Poveretto è troppo innamorato
di quella vipera.
AMICO 1: Poveretto che? Povero cornuto! Gli è piaciuto la fresca ed ora si tengo
anche il resto.
AMICO 2: Ora che verrà a sapere, chissà come reagirà!
AMICO 1: Come deve reagire un uomo d’onore, un uomo che ha sangue nella vene,
che ha fegato, se no è disonorato per sempre.
AMICO 2: Ma l’hai vista, quante moine gli faceva, pareva che gli volesse sanare la
ferita delle corna.
AMICO 1: Moine o no le corna restano corna, e neanche la morte le distrugge.
AMICO 2: Sarà il caso che ce ne ritorniamo a casa ed è meglio che non ci facciamo
vedere in giro. Io almeno me ne voglio stare alla larga ... fuori dalle chiacchiere.
AMICO 1: Ma che minghia dicesti, allora sarei na femminedda che si mette a frignare
dei fatti degli altri. Uomo d’onore sogno, e da qui (e mette il dito sulla bocca) mai nente
usciu (ed escono di scena)
Scena XII
Personaggi: Alfio, Santuzza, Lola.
(giochi di luci da giorno a notte)
(alla sera del suo stesso ritorno, Alfio uscendo dal portone di casa si imbatte in
Santuzza che torna dalla campagna)
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ALFIO: Sera ... Santuzza, tu sì che sei una lavoratrice! Ritorni adesso dai campi?
SANTUZZA: Sera compare Alfio, mi sono attardata un pochino in più per fare
dell’erba fresca, per la Rocchina adesso sgravidata. Poi io non sono una che passa il suo
tempo tra belletti e specchi; io la mia giornata me la sudo. Eppure potrei pure io
starmene a casa come tante altre.
ALFIO: (sorridendo) E’ vero, è vero, tutti lo sanno, tuo padre non ti fa mancare niente!
Avete soldi voi. Avrai pure una dote per quanto ti farai sposa.
SANTUZZA: Quando mi farò sposa! E chi lo può dire, quando sarà; solo Lui lo la. (e
guarda in cielo)
ALFIO: Fai la misteriosa, qui tutti lo sanno che ce l’hai l’innamorato. E’ Turiddu non è
vero? Basta che tuo padre se ne convinca. Ma non dartene pensiero; massaro Cola, tuo
padre, fa così ma poi non ti preoccupare, cederà; quello è una pasta l’uomo se vuoi ce ne
parlerò io stesso.
SANTUZZA: (accalorandosi) questo poteva essere così, fino a che non fosse accaduto
l’irreparabile. Ma il diavolo ci ha voluto mettere la coda; poi ... poi ... una malafemmina
me lo sta portando via e io sono disperata.
ALFIO: Ma che dici, chi vuoi che ti porti via Turiddu; è gente che sparla, sono
chiacchiere che corrono.
SANTUZZA: Chiacchiere, voci ... ma allora vi sarà giunto anche che Lola vostra
moglie ne sa qualcosa.
ALFIO: (preso dall’ira) Sangue di Bacco, cosa c’entra mia moglie; mia moglie è una
santa, è una donna onorata, e non ti permetto insinuazioni.
SANTUZZA: Ma che santa! I santi stanno in chiesa, onorata? ditelo a lei e lei ve lo
spiegherà!
ALFIO: Santuzza, spiegati meglio, fammi capire (e fa per scuoterla)
SANTUZZA: Ma che c’è da capire ... c’è da capire che quando voi state via, vostra
moglie vi adorna la casa e non l’ho visto solo io!
ALFIO: Santo diavolone, se non hai visto bene, non ti lascerò gli occhi per piangere! A
te e a tutto il tuo parentado.
SANTUZZA: Non si usa piangere nella mia famiglia, e questi occhi non hanno pianto
neanche quando hanno visto entrare Turiddu di notte in casa vostra.
ALFIO: Quando è così non mi resta che ringraziarti per adesso; ma ti avverto che è
buon per te se quello che dici è vero ... se no! (e va via ed entra in casa come una furia
gridando) Scellerata, puttana ... chi ... chi ... è entrato di notte qui ... in questa casa ... in
questa casa che tu hai disonorato, Turiddu della gnà Nunzia? (la scena si intravede dalla
finestra)
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LOLA: (piangendo ) Ma che dici, non so niente, sono tutte malelingue che vogliono il
nostro male, è gente invidiosa.
ALFIO: Ah invidiosa? Tieni ... puttana (e la picchia)
LOLA: Calmatevi io sono innocente, non vi tradirei mai.
ALFIO: Zitta, sei il mio disonore ... chi nasce tonda non può morire quadra e tu sei nata
tonda. Ma solo per poco sarò disonorato. Queste mani mi prudono (ed esce in piazza
come una furia).
Scena XIII
Personaggi: Oste, Ianu, Alfio.
OSTE: Ma che sta succedendo nella casa della gnà Lola? Ianu, senti che inferno? Si
vede che compare Alfio ha saputo! Quello verrà qui e tu ricordati ... muto devi restare ...
non sappiamo niente e non abbiamo visto niente! chiaro? Non voglio guai.
IANU: Perché qualcosa succiesu?
OSTE: Ecco, bravo, perfetto: ed è così che devi sempre rispondere, ed ora fila dentro.
ALFIO: (arrivando all’osteria) Buona serata a voi, mpari Carminucciu!
OSTE: Cosa vi devo servire? Ah siete tornato! Avete fatto buon viaggio?
ALFIO: Dopo, dopo un buon bicchiere di vino, di quello vostro, di quello che mi
servite sempre. Del viaggio non mi lamento; ma sarebbe stato meglio per me, se non
fossi più ritornato. Non vedo Ianu, dov’è, me lo chiamate?
OSTE: Sì che ve lo chiamo. Ma perché lui, non vi posso servire io? Io, le persone di
riguardo le servo sempre io e voi lo sapete, ho rispetto per voi.
ALFIO: Vorrei parlare a quattr’occhi con lui; solo con lui; è una faccenda tra me e lui.
OSTE: Qualcosa fece Ianu? Ditemelo e lo caccerò a pedate.
ALFIO: No ... No ... Niente di quello che voi pensate. E’ una cosa mia non vi
preoccupate.
OSTE: Ianu, Ianu! vieni.
IANU: Cosa posso servire?
OSTE: Ascolta! Mpari Alfio ti vuole parlare.
IANU: Io non ho fatto niente, non so niente (guardando l’oste)
144
ALFIO: Ma nessuno ti accusa di niente, seguimi, non aver paura.
Scena XIV
Personaggi: Alfio, Ianu.
(scena mimata)
ALFIO: (gli parla in un orecchio e gli mostra un bel gruzzoletto di monete)
IANU: No ... Non ho visto niente, vi assicuro!
ALFIO: Questo ti aiuterà a ricordare.
IANU: (gli bisbiglia qualcosa nell’orecchio) Sì, proprio così.
ALFIO: Malafemmina, Ianu ... acqua in bocca ... siamo uomini d’onore.
IANU: (fa segno di si e tutti escono di scena).
ATTO III
Scena I
Personaggi: due amici, oste.
(l’azione si svolge nell’osteria di mpari Carminucciu; due amici giocano a carte
quando nella stessa entra Turiddu)
AMICO 1: (con una carta alzata dell’ultima giocata) E con questa ... hai chiuso ... tieni
(con forza) sette più due più uno di danari (e fregandosi le mani) e questa è re di danari
(e raccoglie tutto e poi trionfante fa scivolare le carte) tieni! contale da te! hai perso di
nuovo.
AMICO 2: Sangue di Giuda, e questa è la terza volta (e sbatte la coppola con forza sul
tavolo) no ... no ... non è possibile. Qui c’è sotto qualcosa. E questo è ...
AMICO 1: (ironicamente) Quale qualcosa! ... E’ che io ... so giocare e tu ... no.
AMICO 2: Non ci posso credere ... è possibile mai che le carte corrono solo a ate? Qui
o è fortuna sfacciata ... o c’è qualcosa che non capisco.
AMICO 1: (si alza e si altera) La prima volta ho finto di non capire; ma questa è la
seconda volta che lo ripeti (e fa per prenderlo di petto). Io sono galantuomo non ho mai
barato; ho sempre giocato con lealtà. Se perdi sono fatti tuoi. Nel gioco delle carte c’è
chi vince o perché sa giocare o perché è fortunato, e c’è chi perde o perché non sa
145
giocare o perché è sfortunato e io appartengo alla prima categoria mentre tu alla seconda
e chi perde paga.
AMICO 2: Io non pago nessuno; non ci credo che giochi senza trucco!
AMICO 1: Allora te li vai a cercare i guai (e fa per avventarsi)
OSTE: (accorre) Fermatevi, non vi permetto, nella mia osteria non voglio discussioni:
fuori ... fuori di qui.
AMICO 1: (rivolto all’oste) Questo morto di fame, buono solo a perdere, ha perso
ancora e non vuole pagare.
OSTE: I debiti di gioco si pagano e tu hai torto a non pagare, se non avevi soldi non
dovevi entrare qua dentro.
AMICO 2: Ma chi vi ha detto che non ho soldi, io ce ne ho ...
Scena II
Personaggi: Turiddu, Oste, due amici.
TURIDDU: Notte ... c’è ancora un po’ di tempo per una buona sorsata?
OSTE: Per gli amici, anche quando non c’è , lo facciamo uscire. Entra ed accomodati.
TURIDDU: Ma cosa stava a succedere? ho sentito urlare da fuori!
OSTE: Niente ... chiacchiere da osteria ... Questi due bravi amici discutevano di gioco.
AMICO 2: Io amico di quello? ... Quello che è uno che fa il sanguisuga per mestiere.
AMICO 1: Attento a come parli! sei tu a non saper giocare e poi vai a cercare “Cristo
nei lupini”.
TURIDDU: Buona questa! (ridendo) “Cristo nei lupini”, ma cosa vuol dire, mai sentita
prima.
AMICO 1: Vuole dire che lui perde sempre perché non sa giocare e poi per non pagare
cerca scuse.
TURIDDU: (sorridendo) No ... no ... i debiti di gioco si pagano.
AMICO 2: Ma chi l’ha detto che non volevo pagare ... io ...
TURIDDU: Lasciamo stare le chiacchiere; chi ha ragione, chi ha torto e sediamoci tutti
là, a quel tavolo, quello è più comodo e pago io per tutti.
146
OSTE: Sì ... fate così e non ne parliamo più! Turiddu è sempre un signore, non li deve
tenere i soldi per non pagare agli amici.
TURIDDU: Muoviamoci mpari Carminucciu ... che ho la gola secca.
OSTE: Ianu, Ianu, vino a volontà. Affrettati che è tardi.
TURIDDU: Ma allora è tardi per avere anche un boccone da mettere nello stomaco?
OSTE: Veramente la cucina l’ho già chiusa! Perché hai proprio fame?
TURIDDU: Confesso che ho proprio appetito! Non saprei proprio dove appoggiare il
vostro buon vino!
OSTE: E va bene, vuol dire che la cucina sarà riaperta ... ma ti devi accontentare di
quello che trovi.
TURIDDU: Non sono di gusti difficili, una cosa vale l’altra, purché si mangi.
OSTE: Vado a vedere (ed esce di scena)
TURIDDU: Ianu, allora questo vino arriva o non arriva.
IANU: Arriva ... arriva ... (e depone sul tavolo due grossi boccali di vino)
OSTE: (ritornando) Ah il vino è già qui! Bene ... nella credenza ho trovato qualche
capo di salsiccia, giusto per una persona.
TURIDDU: Mi sta bene! Ma mi raccomando ... cucinatemela a dovere con tanti
riavulieddi, i più rossi.
OSTE: Sono mastro in queste cose; la mia osteria, non per niente si chiama osteria del
diavolo e secondo te perché si chiama così? Perché il suo padrone quando mette il
peperoncino nella minestra non si risparmia, figuriamoci poi nella salsiccia.
TURIDDU: Dopo che l’avete cucinata portate qualche piatto in più, perché la voglio
dividere con gli amici.
AMICO 1: Mangiate voi con buona salute, io ho già mangiato.
AMICO 2: Io a casa con la famiglia.
OSTE: Come vuoi! Però la salsiccia è proprio poca. (ed esce)
Scena III
Personaggi: Turiddu, due amici.
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TURIDDU: (prende un boccale per sé e l’altro lo mette davanti agli amici) Versatevi
quello che volete senza soggezione. Questa sera voglio affogare nel vino e voglio che
tutti bevano insieme a me alla mia salute. (e si versa del vino nel bicchiere)
AMICO 1: (versando il suo) Ma questa sera è festa? Dobbiamo brindare a qualcosa?
TURIDDU: Questa mi pare una buona idea ... e perché no ... anche il brindisi ... mi
piace! Sì facciamo un brindisi (Turiddu e gli amici si alzano sollevando i boccali).
AMICO 2: Ma a che cosa?
TURIDDU: A che cosa no! non ve lo dico ... sono troppo galantuomo, bevete alla mia
salute, questo mi basta.
AMICO 1 e 2: Alla salute di Turiddu Macca!
TURIDDU: Alla vostra e alla mia! (e tutti bevono)
OSTE: (arriva con la salsiccia) Eccola, è fumante, è più rossa dell’inferno (e la depone
davanti a Turiddu).
TURIDDU: (l’afferra con il coltello e la forchetta e ne mangia un pezzo) Buona (con il
boccone in bocca) proprio buona, ma ... (e si soffia con la mano) è proprio come Dio
comanda (e fa per soffiarsi di più)
AMICO 1: Come il diavolo comanda (e ridono tutti)
Scena IV
Personaggi: Alfio, Turiddu, oste, amici, Ianu.
(irruzione di Alfio nella locanda)
ALFIO: Santa notte agli amici! ...
TURIDDU: (sorpreso) Voi qui? Sedete! Al mio tavolo c’è sempre posto per un buon
bicchiere di vino (e fa per offrircene).
ALFIO: (respingendo il boccale, fa cadere il vino sulla tavola e dice) Ho salutato gli
amici e non le carogne! (i presenti scompaiono) Ma che? stanotte in queste locanda ci
sono fantasmi? restate, ho bisogno di testimoni per un chiarimento che devo fare con
questo “signore”.
OSTE: Mi volevo ritirare perché avevo pensato che volevate stare a quattr’occhi.
AMICO 1: Stavamo già uscendo dalla taverna perché è tardi.
AMICO 2: Le nostre famiglie ci aspettano.
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IANU: Ed io perché il mio padrone dice sempre che non devo vedere.
TURIDDU: State colmando la misura, quando è così anch’io da un pezzo volevo
chiarimenti per quello stesso vostro affare.
ALFIO: Senti io non discuto con gente come te, se vuoi, domani, all’alba in piazza ti
darò soddisfazione.
TURIDDU: E cosa credete, che mi fate paura? Pure io ho fegato, sangue nelle vene, ci
potete contare non mancherò.
ALFIO: Buon per te, se vi mancherai, non ti darò tregua! fino a quando non ti avrò
trovato e dopo ti scannerò come un maiale, guastatore di famiglie.
TURIDDU: Se proprio ne vogliamo discutere, il torto l’ho ricevuto io! voi, per quattro
pidocchi mi avete rubato Lola, la femmina mia.
ALFIO: Non lo sporcare quel nome, non ti permetto di pronunziarlo. Lola è mia; ha
scelto me; vuoi o non vuoi è maritata con me e tu sporca canaglia, ti sei appropriato di
quello che non ti spetta.
TURIDDU: Lola non ti vuole, non ti ha mai voluto e non ti vuole bene, l’ho capito sai?
furfante, delinquente!
ALFIO: Questa la vedremo (e per sfida gli da uno schiaffo in pieno viso).
TURIDDU: Potevi anche risparmiartelo, io ci sto (e si alza e come promessa solenne
addenta l’orecchio del rivale). Ci puoi giurare che lì sarò prima di te e una volta per
tutte chiudiamo quell’affare. Ma sappi, anche se dovessi morire, Lola non vorrà più
stare con te.
ALFIO: Ancora un’altra parola (e mette mano al coltello) e non rispondo più di me;
stanotte stesso chiuderò questo discorso.
TURIDDU: Stanotte, domani fa lo stesso, dammi il tempo di fornirmi del necessario e
ti chiuderò per sempre quel becco da pappagallo.
OSTE: Per carità, abbiate compassione di un pover’uomo, capisco che avete bisogno di
chiarezza; ma vi prego, non qui; contenete i vostri nervi, voi siete due galantuomini e
non vorreste di certo rovinare la reputazione di un poveraccio come me!
ALFIO: Abbiamo capito, lascerò subito questa locanda! E tu (rivolto a Turiddu)
ricordati la promessa.
TURIDDU: Ci potete contare. (ed escono di scena)
OSTE: (prega) Santa notte, Vergine santa, intercedi presso tuo Figlio che dovrà
risorgere, fa che non accada l’irreparabile (ed esce di scena).
149
Scena V
Personaggi: Turiddu, Alfio.
(La scena del duello si svolge la domenica di Pasqua)
TURIDDU: (sbottonandosi la giacca) Compare Alfio, io ho torto, ho torto marcio e mi
farei ammazzare per levarvi dalla vergogna in cui vi ho trascinato. Ma stanotte ho
sognato la mamma mia che pregava per me. Lei, sono sicuro che non vuole che la
raggiungo così presto. E perciò, per quant’è vero Iddio, non mi farò da voi spedire
all’altro mondo.
ALFIO: (spogliandosi del farsetto) Tutti sanno che sei un bravo tiratore; ma io
certamente, non sono da meno! Perciò picchieremo sodo tutti e due e poi a chi tocca
tocca. Noi siamo tra uomini onorati e in questi casi la regola vuole che si deve stabilire
chi picchia per prima. (ed estrae una moneta dalla tasca, la guarda e gli chiede) cosa
vuoi testa o croce?
TURIDDU: Per me croce.
ALFIO: Va bene (la guarda e la rigira, facendogliela vedere) e allora non mi resta che
tirare a sorte. Elà ... (getta in aria la moneta e se la fa cadere sul dorso della mano) ti è
andata male! vedi è testa ... in guardia.
(Scena del duello)
ALFIO: (con saltelli si avvicina a Turiddu e lo colpisce ad un braccio) Tieni!
TURIDDU: Appena un graffio! attento a voi (e gli conficca il coltello nell’inguine)
ALFIO: Attento che scherzi a far male, compare Turiddu, hai proprio intenzione di
ammazzarmi? (e cade all’indietro.)
TURIDDU: Ve l’ho detto, ho ancora l’immagine della mamma mia davanti agli occhi,
vi ucciderò!
ALFIO: (annaspa per terra e, proprio quando Turiddu sta per sopraggiungere per il
colpo finale fa un ultimo tentativo, prende un pugno di terra) Tieni! ed ora da cosa ti
difendi?
TURIDDU: Accecato sono, sono morto; per me non c’è più scampo (e fa salti
all’indietro, ma intanto è sopraggiunto da Alfio che trascinandosi si è alzato
all’impiedi)
ALFIO: (vibra il coltello) E questo è il secondo per la tua mamma, e questo è il terzo,
per la casa che mi hai adornato. Ora potrai raggiungere anche tua madre all’inferno!
figlio di un cane.
TURIDDU: (emette un urlo e cade a terra in una pozza di sangue)
(Scena corale)
150
UNA VOCE: (urlando) Hanno ammazzato Turiddu, Turiddu Macca, Turiddu della gnà
Nunzia. (si accorre sul posto, ne nasce un parapiglia)
UN PAESANO, AMICO 1: Cu fu?
UNA DONNA, NUNZIA: (urlando) Figliu, figliu miu, miuuu ...
SANTUZZA: (si fa strada nella folla) Turiddu, Turiddu (e singhiozzando si getta sul
suo corpo).
ALFIO: Io fui! Con il suo sangue ho lavato la mia vergogna. Giustizia è fatta! Ora
potrò anche marcire per sempre in galera.
(tutti passano davanti al cadavere, con la coppola in mano in segno di saluto; dalla
finestra di Lola scendono petali di fiori rossi; tutta la scena è accompagnata in
sottofondo dalle note del canto “amara terra mia”).
FINE
***********************************************
SECONDO PROGETTO TRIENNALE
Il secondo progetto è stato finalizzato alla drammatizzazione delle opere di: Dante
Alighieri, Torquato Tasso e Corrado Alvaro:
1) L’inferno dantesco in chiave ironica
Dalla “Lectura Dantis”
2) L’Aminta
Dalla “Corte ferrarese”
Dalla raccolta “L’amata
3) Il ritratto di Melusina
alla finestra”
***********************************************
Dalla “Lectura Dantis”
L’Inferno
in chiave ironica
INTRODUZIONE
(Tre amici di ritorno dalla scuola giungono a casa di uno dei tre e continuano parlare
di scuola. Due parlano e il terzo rovista libri)
Scena I
Personaggi: Alessandro, Bruno, Carlo.
151
A: (stizzito, quasi esplodendo) Uffa ... Ci mancava solo questa! ... Già il mio amore per
la scuola era grande! D’ora in poi si trasformerà in folle passione! (con ironia)
B: (sorridendo) Ma cosa dici? Non ti seguo! Sembra proprio che non ci stai con la testa!
Cosa ti è capitato? Ti ha forse morsicato una tarantola?
A: Magari! Peggio ... Molto peggio! Se così fosse me ne sarei già liberato! Ed invece
questa è una tarantola che non va via ... è una tarantola che mi spolperà vivo.
B: Continuo a non capirti! Ma mi sembri proprio preoccupato. Puoi dirci che ti succede?
Noi stiamo qui a darti una mano ... Gli amici a questo servono ... A venirti incontro nei
momenti del bisogno ... di sconforto.
A: (con un fare serioso) Purtroppo voi non ci potete fare niente! ci sono delle
circostanze in cui l’uomo si deve misurare con sé stesso, senza avere la possibilità di
contare su nessuno e questa è una di quelle circostanze.
B: Su via ... come sei drastico! Sembri un attore tragico. Possibile che quello che ti è
capitato, sia proprio irrisolvibile? Perciò racconta e poi ... da cosa ... nasce cosa. E
chissà se una qualche strada non si troverà?
A: Ma non è come pensi! Non mi è successo niente di grave. E’ che come ti dicevo in
certe situazioni anche senza volerlo, ti trovi da solo con il tuo problema e tu devi
risolverlo! E il mio problema è questo: (con voce stentorea) quest’anno dovrò
vedermela anche con Dante.
B: (incredulo scoppia in in una fragorosa risata) Ah ... ah ... ah ... (piegandosi dalle
risa) ah ... ah ... questa poi ... Ma questo è quel problema, quella circostanza in cui
l’uomo è solo con sé stesso? (e continua a ridere) A momenti mi facevi prendere un
colpo (e continua a ridere) Questo è il motivo del tuo cruccio? Non hai detto che ami la
scuola e che d’ora in poi il tuo amore per essa sarà ... (con voce esageratamente
declamatoria) travolgente? E allora piove proprio sul bagnato. Questo è successo già a
noi, prima di te ed ora tocca a te.
A: Bell’amico che sei! ... Ridi, ridi pure sulle disgrazie altrui ... mi sono lasciato
prendere dallo sconforto ed ho sbagliato ad aprirmi con te. Tieniti pure le tue stupide
battute (con voce quasi canzonatoria) “piove sul bagnato”.
B: (interrompendolo gli si avvicina e cerca di scusarsi) Scusa, scusa ... non intendevo
offenderti. Ma come sei permaloso! La mia intenzione con qualche battuta era quella di
farti ritornare il buonumore. Se vuoi, racconta ... io ti ascolterò, se questo potrà servirti
ad allontanare il malumore che ti porti addosso.
A: Lasciami perdere (e lo allontana da sé) sono cavoli miei e a me tocca risolverli, Da
me nient’altro saprai! Per tua norma io non sono stato lo zimbello di nessuno e né avrei
intenzione di diventarlo proprio adesso e né tanto meno di te!
(risentito).
B: Ma allora te la sei presa sul serio? Fa come credi! Ami o non ami la scuola ... il tuo
amore per essa è travolgente o focosa passione a me non importa un fico secco (e fa per
andarsene).
152
A: (fa per fermarlo) E non farmi bestemmiare pure tu! Dove vuoi andare? Fermati!
Avrei voluto proprio vedere te al posto mio in classe. Quella ... la professoressa di
Italiano ... quell’arpia ... quella paranoica (e imitandone la voce, facendo una vocina
sottile) “stamattina facciamo una piccola introduzione allo studio della “Divina
Commedia” poi ha aggiunto “una introduzione piccola piccola, una introduzioncina ed
accompagnava con le dita, facendo così (mimando il concetto di piccolo). Ma all’anima
della introduzioncina, ... quella ... per due ore di seguito, che il diavolo lo se la porti via
... che le venga un accidente ... e patapum ... patapum ... patapum … senza mai arrestarsi
e come un fiume in piena, una tempesta furibonda, faceva risuonare l’aula di cerchi,
cornici, cieli; alternava angeli a demoni senza posa; passava dagli abissi della voragine
infernale alla gloria dei cieli, dalle tenebre allo sfavillio dell’Empireo, da dannati
maciullati da demoni a beati assorti nella inebriante musica dei cori angelici. Poi di
tanto in tanto interrompeva il suo monologo e guardava, anzi ci scrutava. Noi ci
guardavamo l’uno con l’altro, eravamo muti, nessuno fiatava, sui nostri volti si leggeva
una noia a fatica contenuta, qualcuno stava lì per lì per abbozzare uno sbadiglio. A
qualcuno lo sbadiglio è uscito ma con accortezza nascosto. A qualcun altro è andata
male ... il suo era troppo palese! Ed ecco che lei interrompe la sua introduzioncina
(facendo ironia) “faremo i conti qui” e indicava la cattedra. (e con sarcasmo) “Qui si
varrà la vostra nobilitade”. E cose del genere. E con questa introduzioncina non vuoi che
me ne stia preoccupato?
B: Ma lascia perdere ... Il diavolo non è poi così nero, come lo si dipinge. Vedrai ...
quello che adesso ti è apparso opprimente, avrà un altro aspetto. Ti sei lasciato
impressionare troppo dal cumulo delle notizie che ti sono state poste tutte in una sola
volta. Pure io, quando mi avvicinai allo studio della Divina Commedia ne restai un po’
sgomento perché pure io costretto ad un simile tour de force ... Ma poi mi ci abituai ed
ora sono qui ... come vedi scampato al pericolo.
A: E non ti ho detto tutto! In mezzo a quella fiumara di parole che scivolavano dalle sue
labbra per sciamare in ogni direzione dell’aula colpendo le nostre orecchie tornava
sovente l’espressione “il nostro padre Dante”.
B: Ah! Così diceva? (e abbozza un sorriso) Però ... questo Dante ... si vede che doveva
essere proprio molto sensibile al fascino femminile ... si dava da fare con le donne, se
questi sono i risultati! (e si rivolge al pubblico per indicare le persone presenti)
A: (sorridendo) Questo non mi interessa proprio, ben per lui se è stato anche un “latin
lover”. A me interessa altro! Avrebbe fatto di sicuro meglio ad impegnare il suo tempo
non a tediarci con le sue opere. Ma si vede che ha fatto bene i suoi calcoli, ha scritto ed
ha avuto anche tempo di rendere meno triste il suo esilio.
B: Vedi come incominci a provare della simpatia (e calcando la voce) per il nostro
padre Dante?
A: Ma il fatto che io odio Dante, e con me chissà quanti insieme a me, è proprio perché
io riconosco le sue innegabili doti di uomo di cultura.
C: (che in disparte ha ascoltato un po’ divertito e un po’ incuriosito il dialogo tra i due
improvvisamente interviene nel dialogo) Ma questo Dante ti fa veramente tanta paura?
Io conosco un mezzo infallibile per fartela passare!
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A: (stizzito) Puozze ittà o’ sang’... E mo’ mo’ staje a ddicere! Me fatte schiattà ncuorp’ e
mo’ t’ho faje ascì.
C: Ecco bravo, senza saperlo è proprio questo che ti propongo ... leggere Dante nel
nostro dialetto.
A: (visibilmente sorpreso) Come? ... Come? ... In che modo? ...
B: Ma come? Sei proprio sadico? Tu avevi la ricetta per il suo male e te la tenevi così
gelosamente nascosta? Dicci tutto ... non mantenerci sulle spine.
C: Aspettate (e si avvicina ad uno scaffale ed estrae un libro) Ecco ... Questa è la
medicina giusta (e con enfasi) per i tanti infelici che inesorabilmente si accostano a
leggere Dante.
A e B: (insieme leggono scandendo) A Ddivina Cummedia è Dante cittadine è Firenze
... Ma che novità è questa? Da dove è uscito questo libro? (e uno dei due) ma questa è la
salvezza!
C: Piano, ... piano ... (e fa per riprendersi il libro).
A: Ma come ce l’hai, da dove è arrivato, come ne conoscevi l’esistenza?
B: Faccelo leggere, daglielo, così si riprenderà un poco, non hai visto come è afflitto!
C: Sì, ma lasciatemi spiegarvi. Questo non può essere portato in classe ... Guai a
commettere una leggerezza simile, si può anche incorrere in sanzioni disciplinari perché
sarebbe un oltraggio alla grandezza di Dante. Perciò andiamoci piano!
A: Ed allora, a cosa serve, se non può entrare a scuola?
B: Ma come lo hai avuto?
C: Calma ... Andiamo per ordine! Vi rispondo uno per volta (e rivolto a B indicando e
sollevando il libro) questo l’ho avuto da mio nonno. Infatti fu lui a scoprirne l’esistenza
ed è stato lui a consigliarmelo suggerendomene anche l’uso.
A: Come? Tuo nonno? ... Strano, molto strano, una persona anziana che suggerisce
certe cose!
C: Perché che ci trovi di strano? non pensare che qui ci siano cose sconce. Questa è la
copia integrale dell’opera scritta nel nostro dialetto. E poi, chi vi ha detto che io intendo
prestarvi il mio libro? State facendo tutto voi!
B: Ehi, ehi ... Ma sei proprio una bella canaglia! Ma non hai visto questo come è
affranto e tu adesso che potresti toglierlo dai suoi problemi, fai il prezioso?
C: Io il prezioso? Ma nemmeno per sogno! I difficili li state a fare voi! Io volevo solo
dare un suggerimento a te (rivolto ad A) se lo vuoi, bene; se no, puoi anche respingerlo!
154
Mi state facendo un interrogatorio di terzo grado. Questo è il libro; ora leggiamo
qualche passo insieme; se ti va, allora io te lo presto; se no, abbiamo scherzato!
A: Ma tu non hai detto che non si può portare a scuola e allora a te a cosa è servito?
Come lo hai potuto usare? Come ti è stato di aiuto?
C: (quasi spazientito) Fermati ... stammi a sentire ... anch’io come te, quando iniziai la
lettura di Dante trovavo quelle terzine più incomprensibili delle più strane lingue
esistenti sulla faccia della terra ... e quindi non riuscivo proprio a digerirle. Ma un’anima
buona venne in mio soccorso, mio nonno. Lui vedendomi così affranto, un giorno,
mentre io mi dibattevo tra terzine ed interpretazioni senza raccapezzarmi troppo, mi
portò nella sua biblioteca, ne trasse con molta familiarità un libro, questo per l’appunto
(e lo indicò) e me lo consegnò, aggiungendo questo mi ha fatto veramente amare Dante,
questo farà lo stesso per te.
B: Ma Dante in dialetto napoletano! Questa mi sembra grossa ... mi sembra una grossa
offesa per Dante.
C: Ma scusa, Dante poteva usare il suo fiorentino per la sua opera e noi per capirne i
significati non possiamo usare il nostro dialetto. Perché? Il nostro dialetto è inferiore al
fiorentino? Immagina, Dante anziché nascere a Firenze, sarebbe nato Napoli, avrebbe
scritto in fiorentino? ... Si sarebbe servito della nostra parlata ed ora perché tante storie
per leggerlo in napoletano? E poi non esistono anche opere immortali scritte nel nostro
vernacolo? Perciò non vedo nessuna difficoltà!
A e B: (convinti) Ma è proprio così!
A: Ma come lo hai potuto usare?
C: In verità non lo ho mai esibito a scuola, non lo ho mai squadernato sul banco. Spesso
lo tenevo sotto il banco e sbirciavo di nascosto. A casa confrontavo i due testi, quello
ufficiale con il mio personale e i risultati sono stati sorprendenti. (rivolto ad A) Pensa
con questo sistema ... Dante che inizialmente era un peso opprimente ora è diventato il
poeta che amo più di ogni altro.
A: Tu mi assicuri che funzionerà?
C: Certamente! Non ne ho dubbi! Ha funzionato con me, funzionerà anche con te.
B: Allora non resta che sperimentarlo.
C: (apre il testo incomincia a leggere e lentamente tutti e tre escono di scena)
Inizio della drammatizzazione
Canto I
Personaggi: Diavoletti coreografici, Dante, La sua coscienza.
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Episodio della selva oscura
(Dante è adagiato su di un giaciglio e dorme saporitamente, quando un tuono lo sveglia
di soprassalto)
D.: Dove mi trovo? ... (sbadigliando) Ma cosa succede? (e si guarda intorno) Dove
sono arrivato? (e si tocca) Ma forse dormo ancora! (e si ritocca) No ... (e quasi
inorridito) Noooo ... sono sveglioo ... Ma (pensoso) ugualmente non capisco. Questi
alberi ... così fronzuti e poi così nodosi ... tanto che non lasciano passare neppure un
raggio di sole. Ma è buio, tanto buio. Allora è notte ... sembra proprio notte fonda. Non
è notte ... è mattino! Ma allora non capisco ... è mattino e non c’è luce?
(improvvisamente si sente un altro tuono accompagnato da una voce imperiosa e
minacciosa)
LA COSC. DI D.: L’hai detto ... non c’è luce e non ci sarà mai più luce per te.
D.: Chi sei? (inorridito e sorpreso) Perché a me non ti manifesti? Sei uno spirito a me
benevolo o bizzarro sfuggito alle tenebre eterne venuto qui a catturami?
COSC.: (con la stessa voce) Stupido! Io sono te stesso! Io sono la voce che ti detta
dentro ... la voce della tua coscienza. Quell’io che sonnecchia e che si sveglia quando si
è vicini al precipizio che da esso ti separa.
D.: Ma dove sono? Vago senza meta in questa notte senza tempo e non trovo la via
d’uscita.
COSC.: E mai più la troverai se d’ora in poi, non decidi di lasciarti guidare dalla tua
ragione, se non ti scrolli di dosso la superbia che ti rode, la lussuria che ti divora e
l’avarizia che ti brucia dentro.
D.: Ma io ...
COSC.: Non ci sono attenuanti, ti ho messo sull’avviso, se non corri subito ai ripari,
questa selva sarà il tuo eterno castigo la giusta punizione ai tuoi terribili peccati.
D.: (piangendo) Allora dimmi “cosa dovrò fare”? io ti ascolterò e seguirò tutti i tuoi
consigli.
COSC.: Ecco, ora ti riconosco! Guarda lì, c’è una salita lì, ascendila! Non lasciarti
scoraggiare dagli ostacoli; essa è piena di insidie, è scoscesa, ripidissima, è fangosa, è
sdrucciolevole. Attento a dove metti i piedi, potresti scivolare all’indietro e cadere
inesorabilmente nel baratro da cui mai più rialzarti.
D.: (impaurito ma risoluto) Lo farò, lo farò per la mia libertà.
Scena II
Personaggi: Dante, Le tre fiere, Coscienza.
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D.: (si mette alla ricerca della strada con le mani e i piedi si apre un varco, finalmente
trova la strada indicatagli, fa per salirvi, ma è ostacolato da tre fiere, prima sente un
fruscio poi un ruggito e si arresta). Ahimè! Questo è un ruggito; ma allora nelle
vicinanze c’è un leone! (e non fa neppure in tempo a nominarlo che un leone appare
alla vista di Dante) Chi da lui mi salverà?
Scena mimata (il leone gli si accosta con un fare minaccioso e in Dante aumenta la
paura, anzi essa si trasforma in un’angoscia tanto che lo fa balbettare)
D.: (girandosi indietro) Non c’è nessuno! Allora è diretto proprio contro di me!
L.: (ruggendo) Tu sei la mia vittima, le tue carni saranno dalle mie zanne affilate
lacerate (e gli mostra le zanne) il tuo sangue sarà succhiato e appagherà la mia gola arsa,
le ossa tutte fracassate e gettate in pasto a iene e avvoltoi.
D.: (non regge all’ascolto e sviene; intanto il leone va via ed appare la seconda fiera, la
lonza che sveglia Dante con carezze)
Scena mimata (la lonza è un personaggio ambiguo che blandisce Dante svegliandolo
con lusinghe e lentamente lo riporta all’indietro).
D.: (meravigliato) Oh! Come sei bella, hai la pelle lucida, la figura snella, il portamento
regale, come sei armoniosa nei movimenti. Sembri proprio fuggita da una gabbia dorata.
LON.: (civettuola) Se vuoi, la tua gabbia dorata sarò io per te! (e gli elargisce carezze
sinuose).
D.: (scoppia in una fragorosa risata, le carezze gli procurano solletico) ah, ah! …
Basta! Basta! (e contorcendosi) sono tutto un fuoco, le tue carezze promanano un fluido
che provoca solletico, sono tutto un pizzicore, il mio cuore, i miei sensi, la mia carne
bruciano per te! (ma improvvisamente la coscienza di Dante)
COSC.: Danteeee ...! Hai già dimenticato la promessa? Le tue promesse da marinaio
sono più leggere di piume al vento, più inconsistenti della nebbia, filtrate da raggi solari.
La tua mente è vacillante, la tua carne è debole. Sei proprio sull’orlo del precipizio,
ancora un lieve cedimento e poi giù ... per sempre.
D.: Noooo! (e si guarda intorno) Non devo e non voglio lasciarmi soverchiare da queste
blandizie ... Sono un uomo e so tenere a freno i miei sensi. Sostienimi tu, guidami, non
permettere che mi lasci andare! (intanto è appena scomparsa la lonza che appare una
lupa che famelica gli si avventa contro).
Scena mimata
D.: (costernato) Oh! Ma allora per me è finita, per me non c’è più scampo ... Ero appena
riuscito a liberarmi da quell’essere insidioso che con il suo veleno a sé mi legava, ed ora
ancora un altro assalto! Ma questo, lo sento, sarà quello a cui soccomberò! Quello da cui
scampo non avrò. Ma adesso a chi votarmi? Chi verrà in mio soccorso? Chi mi darà le
forze necessarie per questo scontro? Fuggirò, ma dove? Avanti non potrò andare, questa
salita è troppo scoscesa, indietro neppure, cosa farei in questa selva senza luce? E allora
non mi resta che affrontarla! Ma ho paura (e guardandola) Dio! Quanto è spaventosa!
157
COSC.: Zitto ... Non nominare il nome di Dio invano! Non ne sei degno.
D.: Ma allora sono un dannato, uno che ha perso il ben dell’intelletto!
COSC.: Se proprio non del tutto, sei molto vicino, perciò affrettati, liberati anche da
questa, se vuoi avere salva la vita.
D.: Ma quella è così famelica! Con quale coraggio posso ad essa accostarmi? II ribrezzo
che provo davanti a questo essere immondo, mi lega le forze, mi toglie ogni vigore.
Questa belva famelica mi disarma completamente.
COSC.: La libertà non ha prezzo e tu non hai chance. Proprio questa sarà l’occasione in
cui tu sceglierai la tua strada: quella del bene o quella del male, della libertà o della
schiavitù ed una sola percorrerai. Guardati intorno, raccogli le tue forze, armati di fede,
apri alla speranza il tuo cuore e c’è chi già laggiù ti attende.
D.: (rasserenato si getta con impeto contro la lupa) Via da me animale mostruoso;
l’avarizia non potrà prostrarmi, sono un uomo troppo onesto.
Scena III
Personaggi: Dante, Virgilio.
L’incontro nella selva
(In un angolo della selva c’è una tavola apparecchiata con molte vivande, adagiato su
di una specie di triclinio c’è un personaggio che beatamente sta tracannando del vino;
infatti con una mano regge un calice, con l’altra dell’uva che mangia avidamente.
Virgilio in disparte osserva e ride per quanto ha visto, ma non parla; quando Dante si
avvicina a lui che lo riconosce ed esclama)
V.: Ne’, guaglio’, ma che vaje facenne pa’ ccà ?
D.: Oh ... ma voi ... voi ... voi siete il mio Maestro ... Voi siete “quel Virgilio, autore di
tante opere che io ho studiato, quella luce di verità che si accende dentro di noi, quella
fonte inesauribile di sapere che elargite generosamente a tutti quelli che a voi si
accostano!
V.: (un po’ attonito) Veramente nun o’ saccio, accussì ddiceno, tanto che pure tu o’
ddice. Ma assiettete, e po’ parlamme e sti ccose! Lasse e perdere! Sti ccose fanne venì o’
male e’ cape! Pigliate chiuttoste nu’ bicchiarelle e’ vine (e versa del vino), tiene! chiste
e’ o’ bbuono, chisto mo’ faccio venì proprio a Sulupaca, pircciò è comme l’ha pisciate
l’angele.
D.: (sorpreso) Ma, maestro, veramente ... Io (un po’ sorpreso e confuso) non vi
riconosco in questa veste. Ma in che lingua parlate ... certamente questo non è latino ...
Il latino io lo conosco bene ... più del volgare.
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V.: (un po’ paternamente) Ma chi t’ha ritto che chisto è latino, lassamme perdere po’
mumento! Pensamme primmo a fa’ o’ cchiù necessario; magnamme e bevimme, si no
sti sacchi all’erta comme se reine? (e si indica i loro corpi e gli porge dopo il bicchiere.)
Tiene, l’aggia pigliato frisco, frisco a vascia a’ rotta.
D.: (sorpreso) Ma sono astemio. Non sono abituato.
V.: E grazie o’ sische, che nun si abituato e fai l’astemio; pecchè? Vuie tenite pure o’
vine a e’ parte voste? Vìve, vivete nu surse e vine, e ppoi te facce a vverè, che nun
sarraje cchiù “astemio” comme voi moderne ricite. Chestu vino fa’ arresuscetà e’
muorte. E’ nu nettare; insomme è chello che se vevene e’ prievete quanno ricene messe;
e’ vuo’ che chilli su fesse. Si s’o’ vevene loro, può sta’ certe, ca è chellu sincere, chellu
bbuono.
D.: (accetta e lo accosta alle labbra) Ma ... (assaggiandolo) è proprio buono, è ...
inebriante (e se ne versa ancora).
V.: E’ visto? E che te ricevo! Però statte accorte che chisto doppe dduje o tre
bicchiarelli va ncape e accussì facimme piererotta ca museca.
D.: (ancora non capacitandosi) Ma ... Maestro, ancora non sono riuscito a capire perché
parlate in questo modo, ma in che lingua vi esprimete? Eppure credevo di sapere tutto di
voi.
V.: (un po’ sornionamente) To’ ppensave tu! Per esempie tu o’ sapive che quase pe’
diece anne je ere state a Napule? No, sicuramente, ... pecchè mo’ capive comme je
parlave. Je pe’ ddiece anne, so’ state e’ ccase rinte a na bbella villa, a Margellina, e llà
aggia scritte o’ gruosse de’ libre che tu cunusce. Cchella villa, pprimme eea e nu’
signore, nu’ cierto Sirone, saje uno e chille capuccione che sturiave da’ matina a’ sera;
però chelle ca’ sturiava chistu me piaceve assaje. Chistu sturiava comme s’eva campà
felice e cuntente, comme e sta’ tranquille. E je da allora applico alla lettera chello ca
isso me diceve. Infatti, comme vire je ... magne, bevo e sto cuntentu.
D.: Già ... Anche a me sarebbe piaciuto seguire questi studi. Ma come si chianano questi
studi?
V.: E chenne vuo’ capì tu? Tu si troppe moderne, il Medioevo non te l’avrebbe
consentito; cchisti studi si cchiammane “Epicureismo” e je me songo adeguato bbuono.
Del resto chisti studie sule a Napule se putevene fa; infatti il napoletano da sempre è un
seguace del maestro Epicuro, a cchisto pure nce piaceve e magnà e bbevere cumma a
cchè. E perciò, come vedi, mio caro discepolo da quann’ so’ addiventato un epicureo sto
bbuono: magno, bevo, faccio e fatte mieie e vivo dint’a santità. Pirciò assiettete nu poco
ccà, e cirche e’ magnà quarche cose pure tu e chissà se appriesse a mme nun addevienne
pure tu “epicureo”.
D.: Maestro ... ma essere epicureo ... è peccato!
V.: (sorpreso) Pec...cate! E chi te l’ha ritte? E nun è cchiù peccate a campà e stiente e
privazione, rifiutà tanta ggrazie e’ Ddije; ma chi te ddice sti fessarie. Peccate fa chi fa
male all’ate, cchi arrobbe, chi accire. E je t’aggia ditte e’ fa cheste? Pirciò che peccate se
po’ fà quanno te magne na bbella pezzella cavera cavera, cotta a puntino e a coppa te
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vive nu poco e vine sincere, te magni nu bellu fritte e’ alice fresche, nu cuoppe e
panzarotte e zuppulelle e te fai nu’ bellu scampulillo o’ frisco sotto o’ pergulatu e ronna
Carmela a carnacuttara!
D.: Maestro, ma questa è una filosofia che si apprende facilmente e che facilmente potrà
indurti ad esagerare e a smarrire la via del bene.
V.: Mio caro discepolo, ma ccà chi è o’ maestro, si’ tu o songo je? Si vuò fa accussì,
comme fino a mò e’ fatto, si’ o’ padrone, però, nun me venì a rrompere a ccape con le
tue “allegorie” je me facce e fatte meje e t’ò vire tu, ca’ lupe o’ lione tcumpagnie belle.
D.: No, maestro (e gli stringe le mani) non mi abbandonate, mi metto nelle vostre mani,
voi sarete la mia guida, io seguirò i vostri passi e vi prometto che seguirò i vostri
consigli senza pensarci su.
V.: Brave, accussì va’ bbuono, mo’ te riconosco che si’ n’ommo apposto, statte,
assettate nu poco accanto a me, nc’arrupusamme n’atu ppoco e po’ facimme ‘l’opera e’
pupe.
D.: Maestro ma io non sono stanco, né lo siete voi che da tempo siete qui seduto, perciò
se a voi fa piacere, possiamo iniziare il viaggio.
V.: (tirando un grosso sospiro) Comme se vere che nun si’ napulitanu; tu nun o’ vuò
capì. A Napule non si dice “fa oggi quello che puoi fare domani” a Napule se rice “farai
domani quello che avresti potuto fare oggi” (e facendo un gesto con la mano indica la
testa) ngnuovete cheste rinto o’ cereviello, si no’ nun campe bbuono. O’ viaggio po’
aspettà, accummence n’ata vota; tanto nu juorne primme o doppo che po’ cagnà.
D.: Ora capisco la dolcezza che si prova a leggere le vostre Bucoliche, le Georgiche,
perché esse sono nate a Napoli, la città che amate più del vostro paese nativo.
V.: E se capisce, io nun sulu ce’ songo voluto restà in vita, ma pure da muorte m’è
piaciuto e’ restà ccà. Penza, il mio sarcofago sta llà , a quatte passe ra’ casa e’ Sirone,
d’a’ villa addo ’nce so state pe’ na decina d’anne, a Piererotta e a o’ stesso posto chissà
a chi è venute ncape e’ mettere a chillu stuorto e’ Leopardi. A cosa all’inizio nun m’è
piaciuto assaje ma doppo me songo affezzionato e me so’ abituato pure a chillu
chiagnazzare e’ Leopardi. Mo’ stamme tutte e’ dduje ngratie e Ddije e pure a isso è
piaciuto e restà ccà. Ha avuto ragione pure isso.
D.: Ma allora Napoli dovrà essere proprio una gran bella città!
V.: E o’ vaje ricenne: Napule è a ‘città d’e’ femmene belle, d’a’ pizza d’o’ mare e d’e’
sfugliatelle.
D.: Ma non si dice è della pizza, del sole e della sfogliatella?
V.: Ma allora o’ ssaje pure tu? Aggia dicere a’ verità? A me me piace comme l’aggio
ditto je. Napule va’ po’ munno pecchè è a’ città d’o’ sole, d’o’ mare, d’e’ manduline, e’
Di Giacomo, e’ Viviani, e’ Russo, d’e’ canzone cchiù bbelle; aveva proprio rragione
Don Fardinando quanno riceva “o’ paravise nuoste è cchiù ccà”!
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D.: Come mi piacerebbe vivere anche a me a Napoli.
V.: E chi te lo impedisce? Intanto ccà si’ venuto p’accumincià o’ viaggio. E chissa’ ca
nun avrai na cumbinazione e restà ccà e accussì darai il ben servito a chilli quatte
polentoni d’e’ Scaligeri, d’e’ Malaspina che nun t’anne sapute apprezzà. Guaglio’, o’
vuo’ nu consiglio d’amico? Lassa stà a cchilli là vienetenne a parte e ccà; ccà ce stanne
gli Angioini che so’ nu poco mariuncielli, ma so’ e’ core e nun te dicene ca nno.
D.: Dagli Angioini mai, non voglio incominciare un discorso che ci porterebbe troppo
lontani.
V.: Je me facce e fatte mieje, lassa sta’, cch’aggia pazziato e mettimmece in cammino.
Però m’arraccumanno, io te faccio verè cose strabiliante: muorte accise, riavule cu e’
corne atturcigliate, mostre cu tre o quatte cape; ma tu nun ave’ appaura, nce stongo io cu
te, te faccio cumpagnie pe’ cchiù a’ metà e’ stu’ viaggio. Doppo t’aggia lassà, ma nun te
dà pensiere, te lasse in cumpagnia e quarcherune che te piace cchiù e’ me. Te lasse in
compagnia e’ Beatrice, “che vedrai ridere felice”. Cchesta sì che è na’ vera figlia e’
ndrocchie, pe’ quatto Ave Maria c’a ditte o’ Pataterne s’arruffianate tutto o’ Paravise e
mo’ fa a padrona che trase e jesce senza nisciuno impedimento. Però, sai che ti dico: “A
essa o Paravise cu tutte e’ core angelici, ma pure e letanie eterne c’abboffano (miniando)
sulo a sentirle da luntane; a me invece l’inferno, cu o’ fuoco, e’ cundannate ma c’à
cunzulazione e’ sti grosse abbuffate. Jammo guaglio’, scennimmo.
Canto III
(peccatori: ignavi = magni e duormi)
Personaggi: Dante, Virgilio, Voce misteriosa, Caronte, Celestino V.
Scena I
(La località è l’antinferno, si è giunti nel primo cerchio dove c’è una grossa porta
oscura con una scritta di contenuto sinistro.)
VOCE: “Per me si va ne la città dolente; per me si va nell’eterno dolore; per me si va
tra la perduta gente”.
V.: (spaventato e con il volto tra le mani) Mamma d’ò Carmene.
D.: (più spaventato) Maestro!
V.: Ssss stamme a sentì.
VOCE: “Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina potestate, la somma
sapienza e il primo amore”.
D.: (spaventatissimo) Maestro ... Maestro ... Ma cosa significa questo? queste parole
hanno un suono sinistro, io ho paura, ho troppa paura, torniamocene indietro.
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V.: E allora io ccà nun so’ nisciuno, nun cuntammo a nniente, perciò nun te mettere
appaura, trasimme. Chi s’annasconne arete a sta porta e parla accussì pè te spaventà,
addà fa’ i cunti cu’ me.
(una figura mostruosa appare sulla porta e digrigna i denti: costui è Caronte)
CAR.: Ah ... ah ... ah ... E se ti dicessi che sono io a dirle queste cose? (con ironia).
V.: (meravigliato) Tuuu! ... Ma nun me fa rirere. si’ troppo ignorante! e chelli cose tu
non è può manco penzà.
CAR.: Come osi venire nel mio regno senza il mio permesso, né essere stato da nessuno
invitato e per di più ti prendi gioco di me.
V.: (sta per avventarglisi contro) Me venesse a voglia è t’affucà rinta a lota addo’ si’
nato e nce vive, ma te lasse perdere, me faje troppo schifo. (con ironia) E già ... il
permesso ... l‘invito; ma aggià ra’ cunto a te e chello che voglio fà? Il permesso me lo ha
dato chi so io e perciò ... statte zitto, si no mi scordo e facimmo a chi se ne da di cchiù.
Ma guarda nu poco a Maronna, sti quatte sciacqualattughe pe nu misero negozio che
tenene, chi sa pè quale sante n’ Paravise e se crereno e pataterne in persona. Ma tu o’
ssaje chi so’ je?? (e con enfasi) “io sono uno spirito magno”.
CAR.: (digrigna i denti e tenta la zuffa)
D.: (cercando di trattenere il maestro) Maestro ... per favore ... per carità ... calmatevi;
torniamocene indietro ... evitiamo occasioni.
V.: (arrabbiato) Nun nce pensà proprio, s’è deciso che se passa e s’ addàpassà: no ...
nce scappa o’ muorto. Io songo uno che non se fa passà a’ mosca po’ naso, e nu
strunzillo e chisto nun me fa paura.
D.: Maestro ... Questi sono dannati ... sono capaci di qualunque cosa!
V.: Je songo n’ommo e’ conseguenza ... e a parola mia è una e fino a mò è ghiut’ sempe
annanze.
CAR.: Io non posso risponderti a tono perché è stato deciso lì “dove tutto si puote” se
no ti avrei insegnato la buona creanza e poi ti faccio entrare perché sei in compagnia di
questo bravo giovane.
V.: Questo giovine, tu o’ sapive, è Dante, quello della Divina Commedia, e mo lievete
ananze e fance passà!
CAR.: (rivolto a Dante) Oh ... volevo dire ... Mi sembravate una persona istruita sapete!
la vostra opera è tanto piaciuta a noi dannati, però scusate se ve lo dico, mi avete trattato
proprio male.
V.: Una chiavica vuoi dire, ma tu cchesta sì.
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CAR.: Vuoi per forza maggiore metterla sul punto della lite, ma non ho tempo, il
dovere mi chiama, ho tante anime da traghettare, perciò passate in fretta e toglietemi il
disturbo.
V.: (quasi disgustato) Il disturbo ... O’ menarria na’ cosa nfaccia, ma nun me voglio
spurcà e’ mmane, nun me pozzo cumprumette, (rivolto a Caronte) se ne parla n’ata
vota, ringrazia o Pataterne pè sta vota, ma staje aparate. (i due passano al di là della
porta; si sentono, lamenti, pianti, battiti di mano quando Dante a Virgilio)
D.: Ahimè! Maestro che scena raccapricciante; che schifo! Mi viene da vomitare! Sto
male.
V.: Ma figliu miu, si ire accussì delicate e’ stommaco, te ne stive a’ casa toja, chi t’ha
chiammato pe’ venì ccà. Je steve accussì bbello o’ frische, sotto a chillu bello pergolato
a me fa o mieze litre mje. Si’ state tu che si’ venute a sfottermi, e mo’ che vuo’, stamme
ballanne e continuammo a ballà . Anzi, sai che ti dico? cheste è niente, sapisse chelle
che e’ verè ancora? Pirciò armete e’ pacienza e curaggio e continuammo a seguità.
D.: Maestro, scusate ... Non intendevo contrariarvi, ancora non mi sono abituato a
questo triste viaggio. Ma vi prometto che d’ora in poi come avete detto voi, mi armerò
di animo e coraggio e mai più mostrerò un solo momento di debolezza.
V.: Bravo ... bravo ... accussì me piace! Mo’ si n’ ommo vero! Mo’ te riconosco
discepolo mio.
D.: Maestro ...Vedete quello che riesco a vedere io? Io vedo una fiumana di gente che
corre, come senza mai fermarsi? Ma dove va? E poi c’è un qualcosa che si agita, sembra
... un vessillo ... una bandiera che gira vorticosamente su se stessa!
V.: Quella cosa che gira? (con ironia) sì ... un vessillo ... una bandiera ... cchella è na’
mappina nzevata asciuta cchissà addo’. Eggià! in questo luogo lurido e fetente, mo’
mettevene pure a bandiera.
D.: Ma quelle anime che si comportano così chi sono?
V.: Ah ... quelle ... nun e’ penzà proprio! e’ fatte bbuono tu ch’è scritte “non ragioniam
di loro, ma guarda e passa”. Tu li e’ chiamati gli ignavi, i vilissimi; io invece e’
cchiammo “e’ magne e duorme”.
D.: (meravigliato) “e’ magne e duorme” e cosa volete significare, Maestro?
V.: E nun assumere chella faccia schifata, mo’ to o’ spiego “e’ magne e duorme” so’
cchella gente che vive comme si nun nce stesse ngoppa a faccia d’a’ terra; è gente
inutile, dice che se fa è fatte suje, ma a’ verità è nata; chesta gente nun è capace è
assumere na’ posizione. Comme t’aggia spiegà: per esempio, si se trova mmiezzo a na
appiccica se leva subito a mmieze, nun ha mai visto niente; si è cchiammata in causa
sotto giuramento, giuro o’ fauze pecchè si a’ visto, statte sicuro nun sape niente.
Inzomma è gente è niente, è gente senza dignità, è gente che nun avesse o’ diritto è
campà, è gente che è morta primma e’ nascere.
D.: Ma allora è quella gente che io dico “e visser senza infamia e senza lodo”!
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V.: Hai ragione, sì è proprio chella.
D.: Eppure mi piacerebbe parlare con qualcuna di queste anime.
V.: E pecchè nun o’ ffaje? chi t’o’ mpedisce? guarda, guarda là; chella veste me pare
n’a’ tonaca, tu tiene lluocchie cchiù bbuone, si’ guaglione, vire chillo chi è.
Scena II
Personaggi: Dante, Virgilio.
D.: (guarda attentamente e se ne meraviglia) Ma è vero, (ancora più meravigliato)
sembra proprio una tonaca! Allora è un uomo di chiesa! Ma come è possibile?
V.: (ironico) Possibbile? ... possibbile! ... possibbile! ... Nè guagliò ma che te
mpressioni a fà, dovresti maravigliarti del contrario, e’ prievete ... aheje ...! e’ fatte
marenne. Chilli so’ tutti na’ maniata e’ fetiente, o’ cchiù bbuono, tene a’ zella.
D.: (quasi risentito) Maestro, per l’amor di Dio, cosa dite, sono ministri di Dio.
V.: (ironico) Ministri di Dio! Se’ ... Se’ ... chilli amministrene chelle e Ddio e chelle e’
llate, so’ cierte sereve è Ddio, insomma mo te’ ffaje.
D.: (ancora più sbigottito) Non ci posso credere, maestro mio, per questo che voi dite
fate peccato.
V.: (un po’ risentito) Guaglio’, tu miette in dubbio chelle che te diche, allora da chistu
mumentu nun te dico cchiù chelle ch’ penze; però arricuordete ca’ je songo a’ raggione
e nun me pozzo sbaglià.
D.: (coperto di vergogna) Vi ho offeso e ve ne chiedo scusa, anzi perdono, voi siete la
mia guida e mi dovete consigliare.
V.: E si nun era pè chesto je steve ccà, stive proprio frische! Però t’o’ voglio proprio
dicere, tu si’ nu poco scucciantiello e si me faje ascì a ffore o ssemmenate, te lasse lloco
mmieze e me ne vaco accà ... Ti avverto, quanno te dico na’ cosa, è pecche o’ saccio, è
accussì e tu nun e’ a’ discutere. Pirciò, sappi che e’ prievete, e’ muonece, e’ canuonece,
e’ frate e e’ fraticielle so’ tutte na’ combriccola, so’ tutte figlie e’ ndrocchia. A’ llà
mmieze, o’ cchiù bbuono o’ puo’ ghittà.
D.: (sottovoce, ancora più sbigottito) Maestro, quell’ombra avanza proprio nella nostra
direzione, cosa vorrà.
V.: (rassicurante) Niente e nun te spaventà, che po’ vulè, o cchiù che po’ vulè, vularria
parlà cu’ ttè.
D.: (ancora più meravigliato) Maestro, ma quell’ombra con la tonaca porta anche la
tiara ... Allora questo personaggio è un alto porporato. Dio! ... Non c’è più religione.
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V.: E a religgione a’ vaje truvanne proprio accà? ancora nun si’ troppo espierte, te
spaviente e te maraviglie a ogni sciusce e’ viente, e’ verè ancora ccà dinto che ncè sta’ e
che vire; l’inferno è chino e chesta ggenta alloca.
Scena III
Personaggi: Dante, Virgilio, Celestino V.
D.: (meravigliato) L’ombra avanza sempre più verso di noi, ma allora è con noi che
vuol parlare.
V.: (incuriosito) Piccirì, mo’ m’arricordo, ma tu primma e’ ritte na’ ccosa, nu’ nomme
ca nun canosco, nu nomme streveze, e’ ritte a’ “Tiana” ma chest’ombra che tu vire nun
aggiu capito, tene a tiana ncapa? M’ aggiu capito bbuono? A tiana ... (riflettendo) è a’
caccavella ... è a’ pignatta? è chella che ncè cocene e fasule a’ rinte, è chisto c’a’ tu rici
porta a’ caccavella ‘ncapa.
D.: (ridendo) ah, ah, ah ... Ma che avete capito! Non tiana, ... ti..a..ra! Tiara! Ho detto
tiara.
V.: (infastidito) Tiana, tiara tu vai dicenne cierti ccose, ma parla comme t’a’ fatte
mammete.
D.: Vedete, maestro, la tiara è un copricapo talare che si indossa nelle cerimonie
liturgiche più solenni.
V.: Ma allora a’ tiene pure tu?
D.: No ... Aspettate ... Lasciatemi spiegarvi, ho detto copricapo talare, è il copricapo che
indossano gli alti porporati.
V.: (ancora più infastidito) Mo’ e porporate mo’ ... Pare che e’ ritto e purputielli ...
Guagliò me staje attaccanne e’ nierve; a vuoje fernì e me sfrugulià ... è quasi
mmiezzejuorne e chille se ne vene cu a’ tiara a’ tiana, e’ porporati ... e’ purputielli. Me
sta venenne na’ fetente è famme (poi rivolto al pubblico) e ccà chi o’ sape e a’ Maronna
o’ vere ... si chella se scete ... aimmo furnute e’ fà, o’ viaggio s’e’ fa’ cu e pippe, pecchè
je me magne a isso cu tutta a tiara e a’ tiana.
D.: (ridendo) Maestro ... Ma voi pensate sempre alla stessa cosa, pensate solo a
mangiare.
V.: (incuriosito) Ma pecchè ncè na’ cosa cchiù bbella do’ magnà. (intanto l’ombra si è
avvicinata ha sentito e sorride, ma si nasconde il viso)
D.: (si gira dal lato dell’ombra) Oh ... (e fa per allontanarsi un po’ contrariato) Oh ...
Ma è “l’ombra di colui che per viltà fece il gran rifiuto”.
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V.: Ma addo vaje ... Che è succiesu ...Viene accà ... Chisto me pare nu brav’ommmo (e
Dante si avvicina, ma non parla e né alza gli occhi da terra)
CEL. V: (con pacatezza) Vedi, figliolo, quello che è accaduto non è colpa mia, tu hai
ragione, se sei risentito nei miei riguardi, ma ascoltami!
D.: (un po’ sdegnato) Santità, (e fa per inginocchiarsi) quello proprio non lo dovevate
fare.
CEL.: (si curva e sollevando Dante) Permetti che io ti parli col cuore in mano, anzi lo
farò in napoletano così mi è più facile arrivare al tuo cuore, o comprendi solo il
fiorentino?
V.: Facite comme ve resta commode, stu guaglione è rrobba bona, capisce pure a lengua
nosta.
D.: Non preoccupatevi, parlatemi come sentite.
V.: (rivolto a Dante) Accussì me piace; l’atteggiamente e’ primme nun me piaceva
assaje, stive facenne nu poco o’ scustumate (poi rivolto a Celestino) Scusatelo, sapite,
so’ guagliune, e spisse senza vulè ponno sbaglià.
CEL.: (a Virgilio) Caro Virgilio, voi siete un uomo di cultura ma tanto umano e perciò
tanto caro a me. Io vi ringrazio per il vostro apprezzamento; ma capisco pure a stu
povere guaglione ca’ pe’ mezza mia s’è truvato mmiezze e’ bruoglie.
V.: (rivolto a Celestino) E allora Santità, a cchi aspettate a ve parlà a’ core apierte;
pecchè da quello che ho capito, vuje nc’ avissene fatte n’ a’ nfamità a stu guaglione, e
chisto è nu brave guaglione.
CEL.: (rivolto a Virgilio) Vedete, non è proprio così. Comme m’aggia spiegà, con voi
mi è difficile farmi capire, forse parlando con lui anche voi mi capirete.
V.: E cche so’ scemo? Santità, voi, con tutto il rispetto parlando, solo m’ avite ditte ca
nun capisco.
CEL.: No ... lungi da me insinuazione simile, io so bene chi siete e conosco bene tutte
le cose che avete scritto. Perciò mi scuso per questo innocente equivoco.
V.: Santità, eppure v’aggio dicere a’ verità, scusatemi, a faccia mia sotto è piere vuoste,
voi siete un santo, però nun ve capisco, voi cu’ me parlate in fiorentino e cu Dante, il
padre della nostra lingua in napoletano. Ma ce sta’ nu motivo?
CEL.: No ... accussì vene. Ma se questo vi può impressionare, parlerò come fa piacere a
voi, solo in napoletano.
V.: Celestì sapite che c’è di nuovo, me site cchiù simpatico.
CEL.: (sorride a Virgilio e si rivolge a Dante) Figliu miu, è passate paricchie tiempo e
tu ancora non me l’hai perdonato. Vedi? Forse è meglio che ti dico quello che tu non
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sai. Quando nel Conclave di Perugia nel lontano 1294 fu deciso che io dovessi
addiventà papa, io me ne stavo tranquillo, sereno, del resto niente sapevo e chelle che
steve a succerere, sulle montagne di Isernia, dove avevo fondato una comunità di
monaci, “I celestini”. Vivevo in pace, tranquillo, di preghiere e di lavoro. Ah ... che
bbelle tiempe, anzi primma da’ fundazione era ancora cchiù bello. Facevo l’eremita:
m’arricordo ... m’aizave a’ matina, anzi all’alba, specialmente in primavera, asceva a’
rinto o’ capanne che m’aveve fatte cu e’ mmane meje e ... fora ... che spettacolo ... che
aria fina ... tenevo po’ pe’ cumpagnia ll’urdeme stelle ... chelle ch’ancora s’attardavene
po’ cielo turchino. Je guardave chelli stelle e tra me e me dicevo: guarda quanne è
grande Dio ... comme è putente o’ pataterne, e comme ncè vo’ bbene e senza manche
me ne rendere conto, m’addunucchiavu e o’ ringraziavo accussì “laudato si’, mi
Signore, per sora luna et le stelle, in cielu l’hai formate clarite et preziose et belle”.
D.: (estasiato) Ma voi siete un poeta, un’anima bella.
CEL.: A’ ddì a verità, chiste so’ versi è Francisco, ma che vvuo’ me piacevene accussì
tante, che addiventajene a preghiera mattutina. Pregavo fino a quanno o’ sole nun
asceve, po’ me metteve a zzappà o’ poco è terre ca’ teneve pè ddoje tre ore; saje pe’ me
fa’ chellu ppoco che me serveve pe’ sta all’erta. Quanno me senteve nu poco stanco, je
metteve a zappa ‘nterra, terave a rinta a’ saccoccia quarche libre che teneve cu mme, e
me metteve a leggere. Se sape, sempe libri e’ sante. Così vivevo da eremita. Po’, doppo
paricchie tiempe, a quarche pastore nce piacette comme je viveve; allora, senza manche
accorgermene, me truvaje circundato da sette otto e’ sta bbrava gente e fundaje chella
comunità. Si viveva senza penziere, senza cattiveria, senza malignità, o’ mmio era o
tuoje e o’ tuoje o’ mmio; che bbelli tiempi.
V.: Sta vita che facivene vuje muonice me sarrja piaciuto assaje, je pure l’avesse
penzate accussì; avesse addiventate pur’je Celestino.
D.: (sorridendo) Maestro, lasciate stare, non era vita per voi, i monaci, specialmente
questi monaci, i Celestini, erano frugali, molto frugali, mangiavano pochissimo, e poi
cose semplici, un po’ di pane duro, qualche foglia di lattuga, un po’ di miele del loro
alveare. E voi vi sareste accontentato?
V.: (rivolto a Dante) No, no ... Questo mai ... Mai per carità (e a bassa voce a Dante)
Pirciò chisto è sicco sicco.
CEL.: (sorridendo, fa cenno di aver capito e riprende il discorso) Se vi piace, continuo
il mio racconto.
D.: Ma vi pare, Santità, fate pure, la vostra storia ci interessa.
CEL.: Me ne stavo llà in grazia di Dio, quanno mi arrivò un plico arravugliato con tanto
di sigillo del Conclave che io leggetti, mo’ arricordo ancora, stavo pure un poco
ntrunato (e con enfasi) “A te, Pietro da Morrone, riconosciuti i tuoi meriti di uomo
probo e onesto, la tua vita intemerata e casta, il conclave ti affida l’altissima carica di
Pontefice, col nome di Celestino V. Io non capii se era suonno o steve scetate. All’inizio
me spaventai, ma i miei confratelli, dopo che ci riunimmo a discutere l’evento, mi
dissero: “fratello Pietro, ma che ci perdete? Andateci, andate a Roma, e chissà ca nun ve
riesce e adderezzà a’ varca. Io mi presi e’ quatte cose che teneve e venni a Roma; a
verità nce stietti poco. Già all’inizio ebbi na brutta impressione, attuorno a mme
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nc’erano troppi lecchini, troppi ruffiani. Così decisi e’ me ne venì a Napoli, e sta cosa
s’a’ spicciaje l’angioino Carlo II, brava persona, pure se vicino a’ farina s’infarinaje
assaje. Fui ospitato nel convento di San Giacomo alle Monache, lì fui rispettato, riverito.
Ma chella bella aria fina d’a’ casa mia, mi mancava, chilli mbruoglie sempe cchiù
arravugliate nu me facevene durmì cchiù nè notte e nè ghiuorno. Accussì, doppo cinque
mesi di pontificato, prendetti la decisione, e ccà aggio sbagliato, con un decreto
pontificale, previsto dal diritto canonico abdicai dalla mia carica. E pe’ cheste me vulite
cundannà?
D.: (sospirando) E così mi avete messo in mezzo ai guai. Voi lo sapete, dopo di voi è
diventato pontefice quella bella pasta d’uomo.
CEL.: (annuendo) E come no! Quello, già durante il mio pontificato faceva il
capuzziello, era mio segretario, veramente non me lo avevo scelto io, m’o’ truvaje
attuorno e nun o’ saccio manche je comme. E già da allora dovevo capire, so’ state
troppo ingenuo, ma mo è succieso. Chillo fuje accussì furbo che s’accattaje m
intimidazioni e denare tutto o’ culleggio de’ Cardinali e accussì che addiventaje pure
isse papa.
D.: Lo sappiamo! lo sappiamo! allora si disse; e da una persona così fatta, cosa ci si
poteva aspettare?
V.: Ma allora chiste era o’ veramente fetente assaje!
D.: E come se non lo era! E chi più di me lo può sapere! Quello mi odiò così tanto fino
a quando, con raggiri e con calunnie non mi fece cacciare dalla mia città.
V.: (patetico) Hai raggione però fallo pe’ chi tiene mParavise, nun accummincià cu a
letania dell’esilio, o’ sann’ pure e prete. Anzi sai che ti dico, fa’ pace cu’ stu puverielle,
mo’ o’ ssaje comme so ghiute è ccose, percciò perduonele e chiurimme stu capitolo.
CEL.: E non è tutto, quel senza Dio, sapete ancora che mi fece? Mi fece relegare nel
castello di Fumone pe’ quasi due anni e poi mi fece assassinare col veleno. Inzomma ma
fatte fà a’ fine de’ surece.
V.: (a Dante) Carogna, carogna assaje è state chisto! Allora, che vuo’ fà? fa pace cu
chiste?
D: Io lo farei pure, ma poi devo riscrivere la Divina Commedia!
V.: (spaventato) No, pe’ carità, già avasta e avanza chelle che è scritte, mo’ ncè vulesse
sule cheste (rivolto al pubblico) e scrivere ancora. Nun te miette appaura de’
ghiastemme che te meneno e povere studiente. Pirciò nun te fà prorere a cape, nun fa
pace, ma nu te fa prorere a’ cape; e jammuncenne! (lentamente escono di scena)
CEL.: (salutandoli) Se puoi, col tempo, se mai, ma perdonami.
Canto V
cerchio secondo - lussuriosi = e’ ndringte e ‘ndrà)
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Personaggi: Dante, Virgilio, Minosse, Semiramide, Didone, Paolo e Francesca.
Scena I
Personaggi: Dante, Virgilio.
(Dante e Virgilio scendono dal primo al secondo cerchio, ma Dante trova difficoltà e
viene aiutato dalla sua guida)
V.: E jamme belle, scinne guagliò!
D.: Maestro, ma non vedete come è pericoloso? Come è stretto? Quanto buio c’è?
V.: Ojnì, comme si ntruppucuse! Nun te ne incaricà, nun avè appaura, tu scinne chiane
chiane, jammo, je te rongo a mano.
D.: Sì, lo so, ma in questo inferno non si vede proprio niente, non so dove mettere i
piedi.
V.: Ma nun aggiu capito! M’è vulisse mettere rinte a’ sacca? jamme, scinne.
D.: Maestro, voi avete sempre voglia di scherzare, io non sono abituato a camminare in
queste condizioni.
V.: Siente guagliò, ma a chi è prurute a capa e’ stu viaggiu? A te! E allora che sso’ tutte
sti vummucarie? Tu a me nun me fai nisciuno piacere, pirciò decidete, se vuo’ j’
annanze d’accordo; se no turnamme arete.
D.: Mi scuso, non intendevo tediarvi, cercherò di essere più coraggioso, ma indietro non
ci penso proprio a tornarvi.
V.: Bravo, accussì mi piaci. Mo’ t’o’ ddico n’ata vota, spilete e’ recchie e stamme a
sentì. (gli parla nell’orecchio a voce alta) “Quanno cchiù scennimmo, cchiù truove cose
strane, e’ circhi chiù stritti e rannate che alluccano e se lamentene cchiù assaje,
sentarraje jastemme che fanno mpressione pure e’ riavule” e allora che vuò fà! Si sempe
cunvinto a scennere?
D.: Maestro, lo so che questo viaggio non è certo una delizia, e se lo compio non è per
soddisfare ad un mio desiderio, appagare una mia curiosità. Io lo devo fare, perché è
scritto (guardando in alto) lassù dove c’è qualcuno che mi ama immensamente e che
non posso, nè voglio deludere. Dunque compio questo viaggio prima perché devo avere
contezza del male e del bene che troverò nei tre regni e poi per amor suo.
V.: Bravo, sì proprio deciso e tiene le idee chiare, e poi comme sì istruito, comme parle
belle, è o’ vero, che si’ nu poeta, nu poeta annammurato (cantando) ah … ll’ammore
che fa fa ... a, ll’ammore è na’ bannera, vota o’ viento e se ne va .... a! (intanto appare
alla presenza dei due pellegrini una figura mostruosa, Minosse, posta a guardia del
secondo cerchio che ha il compito di esaminare le colpe, mentre Virgilio canta, Dante è
preso da questa vista)
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Scena III
Personaggi: Dante, Virgilio, Minosse.
D.: Maestro, Maestro (spaventato) Guardate ... Chi è quello ... Quell’essere così
repellente, così lurido, che ribrezzo che fa! E che puzzo che emana!
V.: Ma che ti aspettavi e’ verè a chillu figurino e’ Valentino, oppure e’ sentì lo scianell
numero cinque. Ma t’o’ vuo’ mettere ‘ncapa e nun t’o’ ripete cchiù “qui stai all’inferno”
(con voce declamatoria) (mentre si sta svolgendo questo colloquio, una voce tuona
sinistramente, è Minosse che si contorce con la coda)
MIN.: Chi siete voi che osate sfuggire al mio governo e avete l’ardire di presentarvi al
mio cospetto beffeggiando la mia altissima missione?
V.: (ironicamente) Mino’, ma qua missione, tu si’ nu povero cristo, che staje cchiù
ncroce e’ sti quatte stracciafacenne che stanne ccà (e con un fare bonario). A’ vuo’ fernì
e’ alluccà, ccà chi o’ ssape e a Maronna o’ vere comme aggiu cunvinto a cchistu che me
pare cchiù muorto ca’ vivo a’ scennere, e mo’ te miette pure tu?
MIN.: Ma è pericoloso, del ritorno nessuno può garantire!
V.: Ma falle pe’ chi tiene mParavise, lievete a’ mmiezze e fance passà. (a questo punto
ci sarà un forte tuono)
MIN.: Blasfemo! Come osi nel mio regno nominare l’innominabile? Non conosci le
severe leggi infernali che vietano rigorosamente citare quel luogo?
V.: Mino’, mo m’è proprie sfasteriate, po’ bbene che vuleve a mamma mia, si nun te
lieve a’ tuorno, te faccio passà nu brutto quarto d’ora. Ah e cheste è pecchè t’aggia
trattato bbuono nella mia opera; t’arricuorde? L’Eneide.!
MIN.: Uh! Gesù Maria (e si copre la bocca)
V.: E’ viste? è scappato pure a te!
MIN.: Ma allora tu sei Virgilio?
V.: E nce vuleve tanto a capè!
MIN.: Entra, entra amico mio, come ho fatto a non riconoscerti?
V.: Chiano, nun t’allargà, nun te piglià certe confidenze, un essere cumme a tte, amico
mio! Oinì, ma quanne maje e’ magnato rinto o’ piatto mio? ...
D.: (intervenendo con un sberleffo) Maestro, già abbiamo speso troppo del nostro
prezioso tempo, perciò andiamo via!
MIN.: Virgilio, lo vedete? Questo sfotte!
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V.: (rivolto a Dante) Guagliò è nu poco e’. tiempo a’ chesta parte che si’ addiventato nu
poco scustumato, tu statte o’ posto tuje, e nun te piglià troppa confidenza pecchè chisto
sempe nu custode è; è custode e’ ccà, ma sempe meglio e’ niente ed è meglio che nce o’
tenimmo bbuono, anzi saje che vuo’ fa’, chiedici scusa e fatte ricere e dannate che
stanno ccà a quale categoria appartanene.
D.: (bisbiglia qualcosa nell’orecchio a Virgilio) Ma è proprio necessario?
V.: (infastidito) E tu saje che je dico è ccose inutili? Se sape che è necessario, jamme
mo, muovete, ccà facimmo notte.
D.: (un po’ vergognoso) Signor Minosse, vi chiedo scusa per l’incidente di poco fa, ma
la mia reazione è stata istintiva perché vi ho visto così mal disposto nei nostri confronti.
Però, ora tutto è chiaro, e, se vi è possibile, compatitemi.
MIN.: Figliolo, ma ti pare? E poi tu sei in compagnia di uno a cui niente si può rifiutare.
V.: Mo nce perdimme in cerimonie, e buonanotte e’ suonature. (intanto il colloquio tra i
tre è interrotto da una musica molto sinuosa a cui segue una fila di dame e cavalieri
che danzano con movenze lascive)
D.: (attratto dalla nuova situazione si rivolge a Virgilio) Maestro, ma cosa è quello che
vedo? Mi sembra un’apparizione equivoca!
V.: (incuriosito) Pure a me pare accussì.
(scena mimata)
MIN.: (sorridendo si avvicina all’orecchio di Virgilio)
V.: (meravigliato) Tu che sanghe ra culonna dice, allora chiste so’ ... (e gli parla
nell’orecchio)
MIN.: (con un fare malizioso) Sì, sì proprio così!
D.: (incuriosito) Maestro, cosa sono questi misteri, non ci ho capito niente, se è lecito
mi piacerebbe sapere cosa vi siete detti.
V.: E quanno mai tu capisce quacche cosa. A te le cose te le devono cevare col
cuchiariello. Questi sono ... (bisbiglia qualcosa nell’orecchio di Dante).
D.: (meravigliato e sorridendo) Oh ... (continua ad ascoltare) sì? Ma guarda un po’ (poi
riascolta ancora) però io lo avevo individuato.
V.: E allora mi hai capito?
D: Certo che sì, non sono mica ottuso! Allora questi sono i lussuriosi.
171
V.: Sì, me pare che tu accussì e’ chiamme, so’ inzomma quelli che hanno fatto ....
ndringt ... ndrà.
D.: Maestro è possibile parlare con loro?
V.: Penzo ca’ nun cè stanno difficultà, però chiede o’ permesso a chisto (rivolgendosi a
Minosse) ed evitamme storie.
Scena IV
Personaggi: Semiramide, Virgilio, Dante, Didone.
(prima che Dante si rivolgesse a Minosse, la prima della schiera di quelle anime, come
se avesse intuito il desiderio di Dante, si presenta a lui e gli parla)
SEM.: (toccando e accarezzando il volto di Dante e con un fare equivoco) Carino ... Io
sono Semiramide ... La regina degli Assiri; sono ... Lo hanno detto tutti e lo dicono
anche qui, la più bella, la più maliarda di tutti i tempi; sono insomma la più fascinosa (e
continua ad accarezzarlo).
D.: (quasi spaventato indietreggia)
V.: Inzomma, avimmo capito, si proprio nà bbella ciaciona; però statte quieta e llassa
sta’ à chisto, si no o viaggio fernesce ccà.
SEM.: (risentita) Toglietemi davanti questo buzzurro, ma come si permette di parlarmi
così? Come osa rivolgersi a me in maniera così plebea? Ignora forse che io ho fatto
tremare l’Oriente intero ed ho avuto ai miei piedi i più potenti uomini, disposti ad ogni
tipo di follia per me?
V.: Oinè ma che vuò, che staje a dicere? Fino a mo’, me so’ mantenuto pecché hai
raggione che stammo ccà e tu si na femmena. Io songo n’ommo d’onore e non te pozzo
risponnere, ma manneme a chillu curnuto e Nino, tuo marito acccussì verimmo chi è
buzzurro, sta ...
D.: (gli tappa la bocca) Maestro lasci perdere, è una donna perduta.
V.: Dillo pure, tanto nu faje peccato, è na’ malafemmena.
MIN.: (intervenendo) Insomma la vogliamo finire? Smettetela immediatamente.
D.: Ma io veramente io non c’entro.
V.: Vuò verè che c’entro io? Ma nisciuno l’ha vista comme provocava?
MIN.: Insomma faceva il suo mestiere, perciò lasciatela fare, tanto qui tutti la
conoscono e nessuno più bada alle sue innocue insidie, se volete continuare a parlare,
vedete, lì c’è quella figura un po’ in penombra. Certamente se vorrà, vi racconterà una
storia molto avvincente.
172
V.: (rivolto a Dante) Che vuo’ fà? Nce’ fermammo ancora o ncè ne jammo?
D.: Veramente mi attira quella figura, mi piacerebbe parlare con lei (così dicendo si
stacca da Virgilio e Minosse e si dirige nella sua direzione) signora, guardandovi, avete
suscitato in me una grande commozione; chi siete? perché siete così dolente?
DID.: Sono l’infelicissima Didone regina di Tiro, morta suicida, dopo che fui
abbandonata dall’insensibile Enea, quell’ingrato a cui avevo affidato il mio popolo, le
mie sostanze e tutta me stessa. Quel crudele, per il quale avevo sacrificate anche la
promessa di vedovanza a vita fatta al mio infelicissimo defunto Sicheo, incurante del
mio dolore e del mio cuore ferito partì, ed ora piango in eterno per rancore e per amore.
V.: (Dante si commuove e Virgilio lo scuote) Guagliò, si vuò sentì tutte sti storie, nun ce
ne partimmo cchiù accà. Si vuò sapè chi songo ancora chell’ate, chella è Elena, quella
della guerra di Troia ... chella piezze e ...
D.: Maestro, portate rispetto al luogo dove ci troviamo.
V.: O’ rispetto ccà, chelle che dico je so’ sule ciure e rose, e a’ verè ancora chelle che
t’aspetta, e e’ ghiastemme e’ poche fà, già te li e’ scordate?
D.: Ora veramente si è fatto tardi, è bene che andiamo via.
V.: Ah finalmente te si’ fatte capace!
Scena V
Personaggi: Dante, Virgilio, Voce misteriosa, Paolo e Francesca
(mentre i due pellegrini stanno per andar via, l’attenzione di Dante si ferma su due
ombre che si avvicinano a loro due. Una voce declama versi e i due si arrestano)
D.: Maestro, aspettate un momento, guardate lì, lì in quella direzione, mi sembra che
quelle due ombre avanzino proprio nella nostra direzione!
V.: (un po’ tra il patetico e l’annoiato) E te pareva! Je o’ ssapeve, dimme a’ verità,
vulisse parlà cu loro? Ma spicciati, però m’arraccumanno, ca già è tardi.
D.: Farò in un attimo, e vi ringrazio per l’attenzione che avete nei miei riguardi! Mi
sarebbe proprio dispiaciuto partire da qui, senza aver potuto con loro parlare. Ma è
possibile parlare con loro?
V.: Visto che fai tutto tu, tientece! Però nun te perdere in chiacchiere perchè je te
cunosco; quanno t’avvije nun a’ fernisci chiù, te piglie o’ rito cu tutta a’ mano.
VOCE:
“Quali colombe, dal disio chiamate,
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
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cotali uscir de la schiera ov’è Dido.”
D.: (Un po’ estasiato) Che poesia! Che dolcezza, quanta musica e che melanconia
sprigionano queste parole! Mi sembra di averle già sentite! Ma non ricordo dove né in
quali circostanze.
V.: E comme no! Ma tu si’ proprio fesso! Fatto o’ dicere; cheste l’e’ scritte tu stesso,
sono versi tuoi.
D.: (riflettendo) Già è proprio così! (e guardando nella direzione delle ombre) Queste
due ombre si tengono per mano ... sembrano colombelle che tubano; guardi, guardi
maestro, un’ombra pare che sussurri nell’orecchio dell’altro paroline dolci.
V.: (con ironia) Tubano, tubano, e ccomme se nun tubano! Però quanta fantasia tieni
figliu miu; je si o no riesco a verè che so’ ddoje ombre, tu addirittura vire (con ironia)
che si sussurrano paroline dolci, vuò verè che ssaje pure che se stanno a ddicere?
D.: Ma perche voi li conoscete? Sapete chi sono?
V.: Certo che sì, tu ogni tanto te scuorde che io so’ muorto e sacce tutt’e’ cose e per di
più sto’ ccà e cunosco nu poco a tutte quante. Però parlace e po’ t’accuorge che pure tu e
‘cunuscive già. Statte attiente, però a nun perdere tiempe, guarda nun appena se
avvicinano a nui, parlece, io t’aspetto nu poco cchiù allà.
D.: Ma non vi fa piacere ascoltare quello che mi raccontano?
V.: E’ n’eternità che ddicene sempe à stessa cosa. E’ storia vecchia, a’ cunoscene pure e
prete e’ l’inferno. Pirciò si m’a’ puo’ risparmià me facisse piacere. Jamme nun perdere
tiempe, è proprio essa, è ... è ...
FRA.: Amico, come sei stato cortese a voler conoscere la nostra dolorosa storia (e
intanto è legata per mano a Paolo) Guardaci, guardaci attentamente, perché certamente
ci riconoscerai, lui è Paolo, Paolo il mio mancato sposo, quello che avrei dovuto avere
per compagno nella vita davanti a Dio, ma per una beffa del destino solo come amante
perché costretta ad andare in isposa al fratello più vecchio, Cianciotto.
D.: (meravigliato e commosso) Ma tu allora sei Francesca, Francesca da Polenta, e lui
Paolo, Paolo Malatesta; ora sì che vi ravviso, e chi nelle Romagne, in Toscana e in ogni
parte d’Italia non conosce la vostra dolorosa storia? La vostra terribile fine? E’ vero, che
non ti avevo mai vista in vita, ma tutti decantavano le tue qualità, la tua bellezza, la tua
cortesia, la tua squisita cultura, il tuo portamento in tutte le contrade d’Italia.
FRA.: Amico, amico fraterno, ricordarmi queste cose, ora che la giustizia divina, ci ha
così puniti, è piantarmi una ferita mortale che brucia nel mio petto più di quella che ci
spense la vita.
D.: (commosso) Francesca! Un giovane, così pieno di vita, così risoluto, così
intraprendente, mai avrei pensato che si sarebbe così ridotto, ad accompagnare le tue
parole, i tuoi sospiri con le lacrime. Eppure io lo ricordo, capitano del popolo a Firenze;
allora io ero giovinetto, mi avviavo timidamente alle prime mie esperienze poetiche, e
lui, bello, forte cordiale, ricordo ancora lo scalpitio degli zoccoli del purosangue e il
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fruscio del suo mantello, quando passava per le strade di Firenze per dirigersi al Palazzo
di Giustizia, poi ... era fiero!
FRA.: Il ricordo della nostra storia dolorosa lo fa soffrire più della condanna eterna;
sappi che lui ancora non riesce a togliersi dalla mente l’atto criminoso del fratello,
quando ebbe l’ardire di alzare su di noi la scure che fece cadere selvaggiamente sui
nostri graziosi corpi deturpandoli in maniera orribile trasformando il nostro nido
d’amore in un lago di sangue. Quella scena l’ossessiona in eterno. La condanna che ne è
seguita, non lo ha mai spaventato; ma insopportabile è per lui essere stato privato della
bellezza del mio corpo che lui tanto adorava. E poi l’infamia dell’adulterio gli brucia
dentro più di una scudisciata a dorso nudo.
D.: Ma dimmi Francesca, perchè parli dell’infamia dell’adulterio, ma tu a chi dei due
fratelli fosti promessa in isposa?
FRA.: Proprio perché noto che provi una gran compassione per la nostra sventura,
voglio svelarti un segreto tutto mio che ho portato con me fino alla tomba. Vedi, sin
dalle fasce fui destinata come sposa a quell’essere, mi ripugna chiamarlo uomo, tanto
deforme nel fisico quanto rozzo e villano di sentimenti; parlo di Cianciotto. Quanto erra
la ragion di stato! A che punto arriva la cupidigia umana! Io, nel fiore dei miei più begli
anni, intemerata, fiduciosa, quando ogni cosa aveva il sapore della speranza, seppi dalla
mia nutrice, e questa era la volontà del mio austero padre, che dovevo sposare un
Malatesta, così la potenza dei due casati i Da Polenta e i Malatesta si sarebbe rafforzata
ancora di più. Al momento della conoscenza del mio futuro sposo non mi fu presentato
Cianciotto così come stabilito e a me destinato, ma Paolo che sentii subito di amare.
Ricordo che aveva uno sguardo malinconico, per tutta la cerimonia disse solo qualche
parola di circostanza, perché in cuor suo presagiva forse un qualche cosa di sinistro. Fu
così che si compì il destino di noi due, infelicissime creature, vittime di una terribile
beffa: io ingannata ed innamorata di un uomo che non mi sarebbe mai appartenuto e lui
costretto a prestarsi come esca per fare breccia nel mio cuore.
D.: Ma perché tutti questi raggiri? Perché questo scambio di persone?
FRA.: Questo scambio doveva servire a nascondermi fino a nozze avvenute la figura di
Cianciotto che, deforme come era, poteva causare un mio rifiuto alle nozze. Le nozze
avvennero presto e in gran segreto e solo all’alba della prima notte d’amore, ricordo
ancora il ribrezzo, la rabbia, la beffa, quel grido che a stento nascosi, quando m’accorsi
che accanto a me, sul mio cuscino giaceva quell’essere ignobile. Nel mio animo si
agitavano i sentimenti più contrastanti, volevo uccidermi. Ma poi cosa può fare una
misera fanciulla, quando ti trovi tutti contro! Quando sei vittima di pregiudizi di casta!
Quando sei convinta che a ribellarti a nulla serve! Dopo qualche tempo, mi abituai a
quella vita senza scopo e allora pregai il buon Dio di darmi la forza se non di trovare il
coraggio di amare mio marito, almeno di essergli fedele. E fu così, ma poi la guerra me
lo portò via per tanto tempo ed intanto, Paolo spesso da me veniva per tenermi
compagnia, fra noi non c’era alcuna cosa di cui vergognarci, c’era solo della tenerezza.
Si passava pomeriggi interi a leggere, ad ascoltare della musica. Ma un pomeriggio, quel
funesto pomeriggio, ricordo che si era in vacanza, i Malatesta hanno un superbo castello
a Gradara, a poche miglia da Rimini, e lì ero con Paolo, eravamo seduti vicini, molto
vicini, davanti a noi avevamo un leggio su cui c’era adagiato il testo di Galeotto, quello
che racconta la romantica storia della bellissima Ginevra e del suo cavaliere Lancillotto.
Di preciso non ricordo più niente; fu forse suggestione, fu la vampa della passione da
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tempo repressa che fummo l’uno nelle braccia dell’altro. Da allora fu sempre così e
durante uno di questi convegni fummo scoperti e barbaramente uccisi. Ecco, ora sai
tutto, raccontalo al mondo intero.
D.: (visibilmente commosso ed incredulo) Francesca, ma la tua storia è a dir poco
raccapricciante, come hai potuto sopportare un affronto simile, un’offesa così grossa che
ha reso la tua vita un inferno da cui è scaturita la tua ingiusta condanna.
FRA.: La legge divina non si apre spesso alla intelligenza umana e noi siamo troppo
limitati per poterla giudicare; quindi chi arbitrariamente osa farlo, certamente erra.
D.: Sei saggia, avresti dovuto avere maggior fortuna, ora ti lascio con un gran
rammarico nel cuore senza poterti nulla augurare. (e rivolto a Virgilio che intanto lo
raggiunge) Maestro ... la cupidigia non ha limite e la storia di questi due amanti ne è la
più schiacciante conferma.
V.: E’ scoperte l’acqua cavare, è accussì da sempe, e sempe sarrà accussì (e mentre si
allontanano)
VOCE:
“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende”.
“Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer che ancor non m’abbandona …”
D.: Maestro che angoscia ho provato ad ascoltare questa storia così triste ed avvincente
allo stesso tempo.
V.: Guagliò, Chi primme nun pense, doppo suspire, a cchilli nce’ piaciuto o vine ca’
neve e mo’s arrangiano.
D.: (sviene)
Canto VI
Personaggi: Dante, Virgilio, Ciacco, Cerbero.
(dannati golosi = cannaruti)
(Dante sta per riprendersi dallo svenimento causatogli dalla pietà che ha provato
all’ascolto del racconto dei due amanti, quando sente uno strano rumore di cui non
conosce l’origine, poi lo individua per un latrato e se ne spaventa)
Scena I
Personaggi: Virgilio, Dante.
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D.: (stropicciandosi gli occhi, si alza lentamente sostenuto da Virgilio) Dove ... mi
trovo (con voce incerta) Cosa mi è successo?
V.: (sostenendolo) Jamme belle, nun e’ succjese niente è state sule nu giramiente e’
cape! Però, beneritto figliu miu, si a ogni pampuglia che se move, tu vuò sveni, stamme
frische, o’ viaggio po’ aspettà ... d’accà nun nci muvimmu cchiù .
D.: (mortificato) Sì lo so, non è stata colpa mia, ho tentato di farmi forza, ma poi non ce
l’ho fatta, sono caduto all’indietro.
V.: (persuasivo) Però, mo m’arraccumanno, nun putimme fa sempe e’ stesse jacuvelle:
tu sviene, po’ te ripiglie, accussì facenne se perde troppo tiempe e nuje quanno o’
fernimme stu viaggie? E’ sante stanno bbuone addò stanne, nuje là nun ce arrivammo
maje, o meglio, tu nun ce arrive maje.
D.: (un po’ più ripreso) No, questo non accadrà, io l’ho promesso a me stesso e così
sarà.
V.: (ironico) Tu l’e’ prumisse a te stesso ... e je aggià passate o’ guaje. Nennì ... tu te na’
apprufitte ca je te voglio bbene assaje! però nun me fa sfasterià, si no te lasse ccà e
bonanotte, me ne ritorno sotto a chella bella pagliarella ...
D.: Maestro, vi assicuro che d’ora in poi non mi farò succedere più niente! Niente e
nessuna cosa mi spaventerà.
V.: (sospirando) Ah ... Beneritto o’ ciele!
D.: (tra lo spavento e la meraviglia) Sss ... No non qui ... queste esclamazioni, qui non
valgono ... sono come bestiemmie!
V.: Ma pecchè, ch’aggia ritto e’ strane che faje tantu o’ misteriuse e pe’ furtune aggio
ditto o’ cielo.
D.: No, no, non si può nominare (alzando lo sguardi in alto) questo è il regno ... di ...
V.: Ma chi te’ ddice sti ccose! Ma che me ne mporta a me?
(intanto si sente un urlo molto forte)
D.: (incomincia a tremare) Maestro (e si avvicina più a lui) Maestro … questo urlo ...
questo urlo assordante!
V.: (un po’ infastidito) Uè ... Embè ? E mo l’avimmo fernute e’ ricere! e che razze e
prumessse faje! E’ prumesse e marenare (con ironia). E mo’ accuminciamme d’o cape?
Nun è niente, avimme cagnate posto, ccà stamme rinto à nnato cerchio, o’ cerchio de’
cannarute; e’ verè quanta rise nc’avimme fa, pirciò lasse sta st’allucche ... chisti so e’
allucche do’ custode è ccà; è Cerbero, mo nc’avvicinammo a isse e vire ca nun succere
niente. T’accuorge ch’e’ o’ vero chelle che decite vuje moderne “can che abbaia non
morde”. E chistu Cerbero ne fa tutte mujne; fa tutte fumme e niente arruste! Jamme, nce
accustamme cchiane, cchiane e nun succede niente!
177
Scena II
Personaggi: Cerbero, Dante, Virgilio.
CER.: (latrato lancinante)
D.: (spaventatissimo e indicando il mostro) Mae...stro, Mae...stro, là in quella direzione,
quella figura ... quella figura ... a tre teste quella, quella figura mostruosa (e si asciuga il
sudore)
V.: Calmate, calmate mo me ce avvicino primme je, me metto nu poco e zuccariello
mponte e dete, e vire ca se calme.
D.: Nooo … non avvicinatevi! Può essere pericoloso.
V.: Fidete e me e nun nce pensà (e si avvia verso Cerbero e a lui rivolgendosi con voce
persuasiva) Ce’, oi Ce’, famme stu piacere, nun alluccà, chillo o’ guaglione è nu poche
delicate, se mpressione ambressa.
CER.: (ironico) Ah è un poco delicato! Per caso d’orecchie (e lancia un urlo) Tiè
(facendo un gesto volgare)
V.: (adirandosi) Ma si’ proprio carogna; mostre te lassaje agli inferi, e verme te trove
ccà all’inferno.
CER.: (risentito) Come osi presentarti al custode di questo terzo cerchio con questo fare
villano.
V.: Ma sta a verè chi è o’ villano! Nun me provocà pecché o’ saje che t’è succiesu po’
passate. Perciò lievete ananze e fance passà! (e ironicamente) Eggià, ci siamo messi i
galloni, ... siamo passati di grado ... dagli inferi all’inferno ... guagliò ... ma va
ffan...ffam o’ cafè che faje meglio, saje che te dico (mettendo una mano in tasca ed
estraendo qualcosa) stu zuccariello t’o vuleve dà a te, e te si jucate pure ccheste.
CER.: (stende la mano e fa per afferrare il pacchetto e quasi supplicandolo) Signor
Virgilio, per carità, un po’ del vostro zuccariello ... per addolcirmi un po’ queste fauci
che da tempo ingozzano solo fangosa mistura.
V.: Niente ... si state scustumato e nun te mierete niente.
CER.: (fa per inginocchiarsi) Vi chiedo scusa, sono pronto ad inginocchiarmi farò tutto
quello che mi chiedete; ma, non negatemi per carità o’ zuccariello.
V.: E và bbuo’ (con voce di rassegnata comprensione) tecchete o’ zuccariello (e glielo
lancia); però, m’arraccumanno nun spaventà cchiù l’amico mio, anzi saje che te dico?
Si te cumpuorte bbuono, quanne capite a’ chesti pparte , che saccio (riflettendo) me
ferme primma addo Caflish e te porte ddoje sfugliatelle fresche ... e’ furno.
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CER.: E’ sfugliatelle? Ma cosa sono?
V.: Che me ghiuto a scappà d’a’ vocca! E comme te facce a spiegà e’ sfugliatelle; si si’
state a Napule o’ può capì si no è tiempe perse. Si’ state a Napule tu?
CER.: Per la verità (riflettendo) non me lo ricordo, ma mi sembra di no.
V.: E’ visto? “come volevasi dimostrare” nun si’ state a Napule si no comme nun avisse
cunusciute a sfugliatella. (riflettendo) A sfugliatella è o’ core e’ Napule, ma che ddico, a
cunusciarraje quanno t’a’ porto ...
CER.: Grazie ... tante grazie! Siete un amico; qui nessuno mi parla così! Comandate e
per me ogni vostro desiderio è un ordine.
V.: Troppo bbuono, ma nun è nicessario ca te piglie cierti cunferenzie! Piuttosto vire e’
presenta a quaccheduno e chisti dannati a l’amico mio, ma nun o’ spaventà.
CER.: Non ci sono problemi, subito sarà fatto. (poi rivolgendosi ai dannati sdraiati sul
letto di fango ne individua uno che già tentava di mettersi seduto) Ei, dico a te (e con un
fare imperioso) ti ordino di parlare ... come si conviene, a questi amici, pena ... sarai
attuffato nella sozza mistura con la testa all’ingiù per un periodo indeterminato.
Scena III
Personaggi: Ciacco, Cerbero, Virgilio.
CIAC.: (timidamente) Signor custode ... comandi!
CER.: (con un fare minaccioso) Ancora non hai appreso le buone maniere ti faccio
frustare con spesse catene, così imparerai come si conviene parlare al tuo unico
padrone! Io sono, il tuo onnipotente padrone e custode (e glielo urla nelle orecchie)
CIAC.: (mortificato e spaventato) Se urlasse di meno ... capiremmo di più.
Scena IV
(scena mimata)
(Cerbero tenta di attuffarlo nel fango e interviene Virgilio)
V.: Ma insomma, a’ vulimme firnì e’ fa o’ tiatre? Oi Ce’, ferniscele mo’ e po’ faje
chello che vuo’, jammo, falle parlà a cchisto amico, nuje nce mettimmo in disparte.
CER.: (andando via con Virgilio) seguirò il tuo consiglio, se no quel disgraziato mi fà
perdere la dignità.
Scena IV bis
179
Personaggi: Ciacco, Dante, Virgilio.
CIAC.: (meravigliato) Tu sei ... l’Alighieri, il poeta, ... il sommo poeta; tu sei Dante,
l’autore della ...
D.: (ancora più meravigliato) Sì! sono proprio io ... ma tu chi sei? Come fai a
riconoscermi! Sei per caso fiorentino?
CIAC.: Certo che sì! Ma come? ancora non mi ravvisi? Io sono ... Ciacco.
D.: Ciacco? Quale dei Ciacco! Quello della potente famiglia dei Bardi? Il famoso
banchiere fiorentino morto quasi cieco tanto da non riconoscere neppure i suoi fiorini?
CIAC.: No! Io non sono quello! Io sono quello dell’Anguillara; l’altro è un altro
fiorentino, pure lui famoso allo stesso modo per colpa della gola, morto ucciso dalla
glicemia e colesterolo.
D.: Ah! Tu sei Ciacco dell’Anguillara, il famoso giullare di corte che vendeva musica,
poesia e bizzarrie in cambio di manicaretti, leccornie, cibi delicati e pranzi e cene a
sbafo, è vero?
CIAC.: Purtroppo sì!, sono proprio io quello! E proprio per questo dannato vizio, mi
trovo qui, come vedi dannato per questa scellerata colpa.
D.: Da quello che mi dici, ora mi pare di riconoscerti; Firenze è piena delle tue
bizzarrie; si fa un gran parlare delle tue doti di istrione consumato, delle tue furberie
delle tue trovate spiritose e stravaganti. Ne hai fatta ridere di gente con le tue barzellette.
CIAC: (sospirando) E sì, quelli erano tempi! Bei tempi! La mia gioia era al culmine
quando, dopo una mia esibizione, mi vedevo circondato da gente che per le risa si
manteneva il ventre o si copriva gli occhi per le lacrime. Ma, cosa farci, al mondo tutto
passa! Quello che per me era motivo di orgoglio, è stato in seguito causa di dannazione
eterna. Però voi fiorentini, non ne gioite, si preparano tempi duri ... molto duri per voi.
(intanto si avvicina a loro due che continuano a colloquiare Virgilio)
V.: (rivolto a Dante) Oi nì, ma che e’ decise, e’ passà ccà a’ nuttata? Jammo belle,
saluta all’amico e mettimmece in cammino.
D.: Come fate a sapere che è un amico?
V.: No! veramente faceve accussì tanto pe’ dicere! Ma pecchè tu o’ vere o’ cunusce a
cchistu ccà? Ma comme, tu si’ tanto bezzuoco e po’ cunuscive a nu rannato. Guagliò,
l’aggio sempe penzato, che sante nun si’. Chissà quante marachelle e’ cumbinate e nun
me li e’ maje raccuntato. Però ccheste me fa proprio piacere, significa che fesse nun si’.
D.: Maestro, ma questi non è amico mio! E non sarebbe stato possibile! Questi è
Ciacco, ... il poeta Ciacco dell’Anguillara, uno che è morto prima che fossi venuto al
mondo. Lo conosco, si fa per dire, per fama. Tutti a Firenze conoscono la sua fama di
gran goloso. Sul suo conto si raccontano storie incredibili per quanto amasse mangiare.
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V.: E’ overe? E allora dimmene quarcheruna.
D.: Sì, ce n’è una che supera tutte le altre: si racconta di lui che durante un pranzo
importante, alla fine di esso, si era mangiato a sbafo; a quel pranzo c’erano anche
vescovi e cardinali, figuriamoci se non si fosse mangiato a sbafo, lui dopo aver
ingozzato pietanze dopo pietanze di ogni genere, vini e rosoli i più delicati, quando tutti,
stracolmi e sonnolenti stavano per alzarsi dalle panche per andar via, lui
improvvisamente pare che avesse esclamato “perché vi alzate, se poi a tra poche ore qui
attorno dovete risedervi? Tutti ebbero un momento di stupore, nella sala non un rumore
si sentiva, ma di botto una fragorosa risata fece sussultare finanche le pareti e lui, quasi
estraneo all’accaduto ricompose il tovagliolo al collo come se nulla fosse stato,
imperterrito continuò il suo mestiere di attivo commensale.
V.: (incuriosito) Ma tu che sanghe ra’ culonna rice! E’ o’ vero cchelle che ddice? Ma
allora è uno bbuono?, Ma si è accussì, allora me cunviene do’ cunoscere! Pecchè nun
mo’ presiente?
D.: E che problemi ci sono? Certamente ve lo presento! (e rivolto a Ciacco) Ciacco, il
mio amico e maestro preferisce conoscervi ed è lieto di fare la vostra conoscenza.
V.: (a Ciacco) Piacere di fare la vostra conoscenza.
CIAC.: Il piacere è tutto mio, sono onorato di fare la conoscenza con un uomo di tanta
scienza.
V.: Ma, mo’ fernimmele cu’ sti cunvenevoli e venimme al dunque. Il mio amico Dante
m’a ritte cierte ccose sul vostro conto cca si so’ vvere insomma si so’ cunfermate, vuje
sì ca site state nu Ddio, vuje sì ch’avite sapute campà? Che ve diche? M’avesse fatte
piacere e ve cunoscere da vivo, e’ v’ave’ pe’ amico; ma o passate è passate, e nun serve
a niente a ncè penzà. Però vi assicuro vuje me site assaje simpatico, e doppe c’aggia
sbrigate stu fatte ro viaggio cu stu guaglione, je tutte e’ juorne passe pa’ ccà e nce
facimme na partitella a’ carte, che sacce nu tressette, nu bicchierelle e vino e
passacantanne e accussì passamme o’ tiempo nuosto cchiù alleramente.
CIAC.: Grazie, l’idea non mi dispiace, ma vedete, credo che non sarà possibile. Il
custode Cerbero non mi dà il permesso.
V.: E tu pienze a chillu fesso? E cheste proprio nun te ne dà pensiero, è cosa mia, je
saccio comme o’ pozzo convincere; tu forse a storia ro’ zuccariello e da’ sfugliatella nun
a cunusce, perciò je cunosco cumme se trovano gli argomenti adatti.
D.: (sorridendo) Maestro, ci mancava solo questo! Avete trovato pane per i vostri denti!
V.: E sì, mo ‘nce perdeveme sulo in chiacchiere.
D.: Maestro, con il vostro intervento ci avete portato fuori strada.
V.: Ma pecchè tu stive ca fuoristrada e je nun me ne ero accorto!
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D.: Avete sempre come scherzare! Dicevo, avete fatto deviare il discorso, Ciacco è un
fiorentino, e come tale, stando al dogma della predizione, saprà darmi dei ragguagli
circa le condizioni della mia città.
V.: Guagliò , tu nun staje bbuono ca’ cape, tante si’ cuntente quanno staje mmieze è
uaje! Tu, te ne si’ ghiute d’o casine, e lasse sta’ sti ccose! Che te ne importa? de Guelfi,
e’ Ghibellini, de janche e’ nire, e o’ sanghe e’ chill’ammuorte.
D.: (mortificato) E allora è bene che non gli chieda nulla circa la situazione politica
della mia città ?
V.: A’ capite oì! Mo’ sì! Mo’ se po’ ffà’. Anze, saje che te dico? Mo’ nce fermammo nu
poco ccà e facimme marenne, m’aggia purtate nu poco e’ furmagge, e’ ppere e nu poco
e’ vine, chiammamme pure a chisti dduje, si vonne favurì, ‘nce facimme pure na
partetella e’ renze e’ renze.
D.: Maestro, Non penso che stia bene, e poi come la mettiamo con gli ascoltatori che si
aspettano altro.
V.: Tu staje ancora a ccheste! Tu ... si’ malate e fantasia. Firete e me e nu nce penzà. E
po’, si proprio nce tiene tante a parla e’ politica cull’ammiche tuoje fiorentino, chi te
dice ca’ nun o’ può ffà mentre te magne nu muorzo e’ pane e te faje nu rito e vine?
(Virgilio rivolto a tutti) State servite, favorite, favorite cu me (si siede a terra e apre un
tovagliolo contenente pane e formaggio).
CIAC. e CER.: (con avidità) Pregheremo a che fino all’eternità avrete sempre salute e
serenità.
V.: Figli miei, je so’ viecchie assaje, priate pe’ vuje ca’ pe’ me nce penze je. (taglia
pane e formaggio e lo distribuisce; tutti mangiano).
Canto VIII
(dannati iracondi = ‘ncazzusi)
Personaggi: Dante, Virgilio, Filippo Argenti, Flegias, diavoletti e Diavolone,
personaggio misterioso.
(Si è discesi nel quinto cerchio dove sono puniti gli iracondi, tra cui Dante incontra
Filippo Argenti dei Cavicciulli, della potente famiglia degli Adimari, di parte nera; a
guardia di questo cerchio c’e Flegias, nocchiero dello Stige).
Scena I
Personaggi: Dante, Virgilio, Flegias.
D.: Maestro, che fatica! Ma arriveremo a passare questo orribile tunnel tutto quanto? E’
una vita che stiamo in viaggio!
182
V.: Oi nì! Ma che vuò da me; e comme se stu viaggie l’avesse vulute je; je si’ era pe’
me, o’ ssaje addo’ me ne steve.
(ma improvvisamente una circostanza attrae l’attenzione di Dante; due segnali da due
torri in lontananza, sono due fuochi che cadono giù da due alte torri, quelle segnano
l’inizio della città di Dite).
D.: Maestro, ma cosa vedo? Cosa vogliono significare quelle due fiammate!
V.: Che ddice? A do’ stanne sti’ fiammate?
D.: Là, maestro guardate in alto!
V.: Ah! Chelle! Nun è niente, guarda invece chi vene a’ parte nosta! chillo o’ sape, ma
po’ che ffaje a fa’ Pullecenella spaventate de’ maruzze? O saje che staje all’inferno! te
putive mai penzà ca’ verive o’ mare, e’ stelle e a’ luna argiente? Se sape che sule fuoco
e diavoli putive verè. Pirciò jamme annanze!
(intanto, mentre i due parlano, arriva Flegias, con la sua piccola barca e con ironia si
rivolge ai due pellegrini)
FLE.: I signori turisti, si degnano di scendere nella mia gondola? (e i due si avvicinano)
Cosa preferiscono vedere, prima il ponte di Rialto o il ponte dei Sospiri? Tanto è la
stessa tariffa.
V.: Qua ponte e chi t’e’ vivo! Flegias, già nun te ne scinne in condizioni normali,
figurammece quanne faje o’ bellille, perciò lasse sta Venezia e puortece a ddo saje tu!
FLE.: (ancora con ironia) Ah! Venezia non è di vostro gradimento! Allora dite, io sto
qui pronto ad esaudire i vostri desideri!
V.: Ah! Ma allora nun ce simmo capite! Flegias, ccà nce vota a’ capa e tu e’ decise e fa
o’ fesso? T’o’ ddiche pe’ l’urdema vota, fance saglì e puortece addo’ jmme a’ j’.
FLE.: (con arroganza) Lo avete voluto voi! Entrate dunque, della vostra incolumità non
c’è alcuna certezza!
D.: (con sgomento) Maestro, questa è una minaccia, torniamo indietro, non me la sento
di scendere in questa barca tutta sgangherata.
V.: (quasi stupefatto) E t’o’ faje venì a mente mo’? Nun ‘nce putive penzà primme?
Mo’ è troppo tarde; mo stamme ballanne e continuammo a ballà!
FLE.: (spazientito) Ma vi muovete? O ci ripenso e vado via? E poi, barca sgangherata,
ballo; ma per caso la mia barca non è degna di ricevere le signorie vostre, le vostre
altezze? Va bene, vuol dire che intanto vado via e poi chissà, se la prossima volta non
verrò con un panfilo di lusso! Questo vi va bene?
183
V.: Flegià, nun a’ fa’ troppa longa, si te si’ offeso, scusece, ma puortece llà, tu o’ ssaje,
là è troppo luntane, nun te fa prià cchiù !
FLE.: Va bene! Ma vi serve per la prossima volta! La prossima volta cercate di essere
più attenti; entrate, entrate pure!
(Dante e Virgilio scendono nella barca che cigola al peso di Dante)
FLE.: Ehi, ehi! Piano, piano! Ma che succede, questa si capovolge! Eppure ne ho
trasportate di anime e questo non mi era mai capitato.
V.: Sicure, tu comme e’ ritte? E’ traspurtate e’ spirete, ma chisto spirete nun è; chiste è
‘ncarne e ossa.
FLE.: (sconcertato) Oh! Cosa mi doveva capitare! Non ...! Allora no, non potete
entrare, uscite, uscite subito. (e fa per cacciarli via)
V.: (fermandolo) Nennì, calmete! Tu a chiste l’accumpagne, pecché, (guardando in
alto) ma je che guardo a fa’! Ccà e’ stelle nun ‘nce stanne, ma tu e’ capite! Là, lassù,
addò stanne e’ stelle, là l’hanno vulute e tu nun ‘nce può fà niente. Pirciò acqua mmocca
(con un gesto della mano) e và annanze.
(la barca sta per prendere il cammino, quando un dannato si para davanti)
Scena II
Personaggi: Dante, Virgilio, Flegias, Filippo Argenti, diavoletti
FIL.: (con rabbia) Cos’è questa novità? Adesso pure i vivi, non contenti dei loro mari,
delle loro barche, preferiscono essere traghettati sulle nostre luride acque? Questa è
un’orrenda beffa! Ma perché schernirci così? (e fa per scuotere la barca)
FLE.: Attento a come parli e a cosa fai! Non sta a te rimproverare nessuno; tu sei
l’ultima ruota di questo carro! Placa la tua stizza e riservala per altri momenti.
FIL.: (gridando) No, costui non la passa liscia! Come ha potuto osare di venire qui, nel
nostro regno a fare da padrone, lasciarsi traghettare a destra e a sinistra a suo piacimento
venendo a svelare i nostri misteri? (e scuote di nuovo la barca)
D.: (con stizza) Ma allora ce l’hai proprio con me? Lurido verme! Dillo, dillo pure che
mi hai riconosciuto, dillo che nel volermi attuffare in questa morta gora, vuoi appagare
la tua sete di vendetta partigiana. Non mi fai paura! Gli Alighieri non hanno paura, non
hanno mai avuto paura di nessuno! E certamente non proprio adesso intendono cambiare
il loro modo di vivere! figurasi poi di un Adimari (e con ironia) sì come sono sconvolto!
Tu, spirito bizzarro, da vivo eri niente, ora sei meno di niente.
FIL.: (spaventato) Pietà, pietà, amico fiorentino! Le beghe terrene non mi interessano
più.
184
D.: Troppo comodo per te ora! Io amico tuo? Amico di chi? Per carità, non ti
permettere, io non te lo permetto, amico di uno che era un Adimari, un partigiano nero,
di uno di quelli che, sostenuti da quella crema di Bonifacio VIII, ha causato il mio
esilio?
FIL.: Non rinvanghiamo il passato! Non serve più a niente.
D.: Filippo Argenti, cane rabbioso, la tua lurida vista qui in questo luogo di perdizione
mi fa godere per tutte le offese che avete procurato a me e a tanti come me e della mia
parte. Perciò, tu, la tua stirpe e tutti quelli che la pensano come te, possiate sprofondare
nella parte più bassa dell’inferno!
FIL.: Abbi compassione del mio miserando stato.
D.: Di te mai, la tua tracotanza mi offende ancora, anzi mi auguro che i tuoi degni
compagni, ti trascinino nella parte più bassa della gora.
(una scena raccapricciante pone fine al dialogo; infatti una folla di diavoli lo circonda
e lo attuffa nella melma)
V.: (abbracciando Dante) Ah! Sia beneretta mammeta! Accussì se fà cu gente
scrianzata! Bravo, mo’ te riconosco pe’ chello che vale.
FLE.: E allora possiamo continuare?
V.: Sì, sì figliu miu, ca stamme in ritarde.
(i tre continuano silenziosamente la traversata; quando, arrivati davanti alla città di
Dite sarà Flegias a parlare)
FLE.: Signori si scende, siete arrivati al capolinea, è qui il capolinea si scende! Ora ...
sono cavoli amari.
D.: (nell’orecchio a Virgilio) Maestro, queste parole sanno di amaro, di sinistro.
V.: (a Flegias) Mino’, ma nun a’ vuò proprie fernì; comme te piace e mettere o’ pepe
‘nculo a zoccola.
FLE.: (a Virgilio) Per sua norma e regola io non sono Minosse, perciò mi farete il
sacrosanto piacere di non scambiarmi per quel lurido verme.
V.: (scherzoso) Scusate, signor Flegias, se involontariamente aggia offeso la signoria
vostra illustrissima; ma, sapite, da quanno sto ccà me sento nu poco ‘ntrunato. Però je
nun capische nà cosa, ma quanta sanghe e chi t’e’ vive e custode stanne a’ chesti pparte.
Fino a mo’ ne so’ già tre e cu te ne simme a quatte. Ma nun fosse state cchiù
raggiunevole che ‘nce ne steve uno sulo, magari, che saccio, cchiù gruosse, cchiù ...
comme aggia dicere, cchiù spaventevole, ma sempe cu uno sulo s’aveva a che fà;
invece, mo’, ogni tre e quatte nu turse e’ chiste e accussì stamme punto e a ccape.
185
FLE.: Signor Virgilio, io vi rispetto perché la vostra fama è nota pure a noi, però badate
a come parlate, non ho capito bene il vostro linguaggio, ma ho avuto sentore che ci state
offendendo. Perciò vi prego di moderare i termini, se no ve ne potreste pentire
amaramente.
V.: (prendendolo in giro) Sì, sì, comme stongo tremmanne! Ma jamme annanze, anzi è
ccà che avimme scennere?
FLE.: Sì, proprio qui!
V.: E jamme bbelle jà, damme na’ mane a scennere, je so nu poco debule e pere e
putesse carè.
FLE.: (con ironia) Pure questo!
(Virgilio e Dante ancora in barca)
D.: Maestro, non mi abbandonate, non riesco a scendere! La barca sembra capovolgersi,
V.: E nun te mettere appaura, Flegias e’ viste cumme è state gentile cu me’, nun te
preoccupà che te da’ na mano pure a te (e rivolto a Flegia) nun è o’ vero?
FLE.: (quasi infastidito) Sissignore, basta che non vi fate più vedere.
V.: Flegià, t’aggià addimmanà l’urdema cosa, e po’ te lassamme libero o’ veramente.
Ma chesta porta accussì grossa, accussì ‘nfucata che sta a ddicere?
FLE.: Ma come? Avete fatto tutto questo viaggio per arrivare fino ad essa e non
conoscete la sua importanza? Essa è la porta che limita la città di Dite; passata quella
porta, sarete effettivamente nel regno di Satana e qui vi voglio! Fino ad ora sono state
solo rose e fiori; qui voglio proprio vedere come ve la scampate!
(e dicendo queste parole con una boccaccia esce di scena)
Scena III
Personaggi: Stuolo di diavoletti, Virgilio, Dante, Diavolone, personaggio misterioso.
(pausa musicale e canterina)
(Dante e Virgilio restano soli, ad un tratto scende dall’alto uno stuolo di tanti piccoli
diavoli che intonando una canzoncina burlesca circondano i due pellegrini chiudendoli
con un girotondo e fanno un gran fracasso. Dante è incuriosito e smarrito allo stesso
tempo e Virgilio lo rimprovera amorevolmente)
V.: Figliu miu, e’ vvire chisti comme cianciusamente te fanne rirere e pazzià, chisti,
ognuno e chiste è fatto e’ pasta e’ nfamità, pirciò lasse e’ stà , nun te fà allummà .
D.: Maestro, lo so, l’ho già sperimentato che il male ha un fascino tutto suo, un fascino
irresisistibile che ti avvince e si avvinghia a te e non ti lascia se non dopo averti
186
posseduto. E noi povere creature, figli di Eva, ci lasciamo poco a poco, lentamente
trascinare nel suo vortice.
(Intanto la scena dei piccoli diavoli continua, dall’alto piovono fuochi in forma di
cerchio e Dante è sempre più sorpreso, quando si sente aprire la porta e da essa viene
fuori un grosso diavolone che con un fare minaccioso si rivolge a Dante.)
DIAV.: Tu, ... Alighieri Dante ... vieni avanti ... sei atteso dentro.
D.: (guardando Virgilio e tremando gli fa segno di voler essere sostenuto) Maestro, da
solo? Venite, venite con me!
V.: (costernato, cerca di rassicurarlo) Aspetta, aspetta ccà, (e gli parla nell’orecchio)
Famme parlà da sulo a sulo e nu te ne ncaricà.
DIAV.: (come se avesse intuito) La tua presenza non ci tocca guari, se il tuo amico
dentro intende entrare, solo lo dovrà fare, tu niente potrai fare. (e gli chiude la porta in
faccia)
D.: (spaventato) Ed ora cosa succederà? Ci sarà possibile andare oltre? Perché tanta
ostinazione?
V.: Nun te scuraggià, pecché già se sta appreparanne chi te po’ aiutà.
(scena mimata: Dante e personaggio misterioso)
(mentre Virgilio finisce di parlare, una figura avvolta in un gran manto appare, tocca
Dante su una spalla e improvvisamente la porta si apre. Dante entra con Virgilio,
seguito da questo personaggio.)
Canto X
Cerchio VI
Eretici = e’ senza dDio
Personaggi: Dante, Virgilio, Farinata degli Uberti, Cavalcanti dei Cavalcanti.
(Dante e Virgilio sono tanto affaticati per lo scontro avuto con i diavoli all’ingresso
della città di Dite, ma sono anche contenti per avercela fatta e, abbracciati, entrano
nella città; ma ai loro occhi si presenta un’immagine desolante: tanti sepolcri infuocati
da cui fuoriescono lamenti e sospiri)
Scena I
Personaggi: Dante, Virgilio.
D.: Maestro, finalmente ce l’abbiamo fatta; eppure le cose si erano messe così male che
disperavo dell’ingresso.
187
V.: Uomo di poca fede sei; E allora il tuo Virgiliuccio cosa ci sta a fare? Tu hai visto
quando mi sono chiamato in disparte il capoccione? Gli ho detto nell’orecchio due
paroline che so solo io ed eccoci qua.
D.: (contento e sorpreso) Maestro, ma allora voi sapete parlare anche la mia lingua, (e fa
per abbracciarlo esclamando) sia lodato ...
V.: (gli fa cenno di non continuare) Ssss lo sai che qui è proibito nominare ... (e guarda
in alto) e se capisce, che parlo anche la tua lingua; però questa mi piace usarla solo di
tanto in tanto, quando mi pare più adatta, e poi adesso l’ho fatto apposta anche per
dimostrare a sti guagliuni che non sono un analfabeta. Ma dimmi, anzi mo’ nce o’ spie a
loro, a’ e guagliuni (e rivolto al pubblico) a comme ve piace che parle, in pulito o
comme sapimme nuje? Già a cunosco a risposta e nun me faccio cchiù prorere a cape,
continue comme aggia accummenciate.
D.: (sorridendo) Maestro, ma cosa sono quelle cose che si vedono in lontananza?
Sembrano ... arche ... urne ... sepolcri.
V.: (con la mano gli indica di fermarsi) Aspette, na’ cosa a’ vota; a me invece me
parene tante buatte che vollene cu o’ ffuoco a’ sotto. Però, pe’ nce’ capì e’ cchiù,
accustammece; ma chianu chianu, nun se po’ maje sape’ chello che ‘nce po’ capità.
D.: (ride divertito) Maestro, ma che dite, come le avete chiamate?
V.: Buatte! ... pecchè, te facessene schife e’ buatte? Guagliò tu lieggi troppi libbri pe’
guste mieje (ironizzando) le urne, le arche, i sepolcri. J’ quante ne saje, ma parla cumme
t’ha fatto mammete, accussì nce spicciamme primme.
(e i due si avviano tra le urne parlando)
D.: Maestro, per caso sapete quali dannati stanno qua?
V.: Veramente, nun me so’ maje state presentate; però m’anno ditto che ccà nce stanne
(e pensando) gli eretici, gli eresiarchi. Nun sacce se se dice accussì; chesta parola me
l’ha ditta Flegias, quanno steveme scennenne da dinte a’ varca soja. Me pare che accussì
m’ha ditto.
D.: (con convinzione) Certo che è così, eretici, eresiarchi.
V.: Boh! Chi o’ sape che vo’ dicere.
D.: Ma come? Questi dannati sono i seguaci di Epicuro!
V.: Epicuro? Chistu nomme nun m’è nuovo! L’avraggio sentuto, (pensoso) ma nun
m’arricordo quanno.
D.: Certo che sì! Come? Voi stesso mi avete detto che in gioventù avete conosciuto
l’epicureismo! Ricordate?, Mi avete raccontato che a Napoli presso la scuola di Sirone
avete studiato la filosofia di Epicuro!
188
V.: E’overo! ... Ah! e allora là l’aggia sentuto! Però chisto vocabbolo m’è nuovo! Nun
me pare ca’ Sirone dicesse ca’ e seguace d’Epicure se chiammassere accussì. Io sapevo
che cchisti se chiammavene Epicurei. Ma vire cumme cagnene e’ ccose; epicurei cu
eretici.
D.: (con enfasi) Ma non è proprio così! Vedete, maestro, gli epicurei e voi me lo
insegnate, sono coloro i quali, come sosteneva il loro maestro, pongono nel piacere il
fine stesso della vita, mentre gli eretici o gli eresiarchi sono coloro che non credono
nell’immortalità dell’anima.
V.: E allora? Che ‘nce azzecca epicurei cu eretici?!
D.: (scuotendo la testa) Sì, c’entra, c’entra; se mi lasciate spiegare, vedrete che c’entra.
V.: Continua e po’ verimme.
D.: Vedete, Epicuro, come del resto anche Democrito, sostiene che tutte le cose che
esistono in natura sono costituite da aggregati di atomi, i quali se stanno uniti generano
la vita, se invece si separano generano la morte.
V.: E allora?
D.: E allora, anche l’uomo è formato da un aggregato di atomi, il suo corpo da atomi più
pesanti, l’anima da quelli più leggeri e sottili, così capite che con la morte gli atomi si
disgregano e quelli del corpo e quelli dell’anima; e in questo modo si arrivava a
dimostrare che l’anima muore con il corpo, e credere in questa teoria per noi è colpa
gravissima.
V.: Guagliò, je o’ ddiche ca llieggi troppi libbri, meno male c’appartengo a’ ‘ate
generazioni, vuje moderne, site troppe cumplicate, e je rinte a sti ccose nun ce voglio
trasì. Intante, t’aggia essere sincero? M’è arravugliate e’ chiacchiere e aggia capito poco
o niente e’ chelle ca’ m’e’ ritto. Però sarrà accussì, pecché tu si uno a posto e e’ ccose e’
ssaje, ma mo’ verimme e parlà cu uno e’ chisti (e si rivolge alle arche) però aggia dicere
à verità, st’Epicuro, accussì comme me li e’ appresentate tu, nun o’ cunosceve, e nè o’
voglio cunoscere. A me me cunviene l’Epicuro mje, chillo c’aggia sturiate je.
D.: (ridendo) Di questo filosofo avete appreso, quello che vi faceva comodo!
V.: E cchiammeme fesso tu! Tutte e’ chiacchiere ca’ m’e’ raccuntate tu, nun servene a
niente.
Scena II
Personaggi: Voce, Farinata, Dante, Virgilio.
(mentre i due continuano a parlare, da una delle arche si eleva un’anima: è Farinata
degli Uberti, il cui nome originale è Manente)
VOCE:
“O tosco che per la città del foco
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vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto”
D.: (stupefatto) Chi è costui? Come mi ha riconosciuto, e da che cosa?
V.: Ma vulisse fà il terzo grado pure e’ muorte? Guarda in quella direzione; llà, cchillo è
Farinata, se ‘nce vuo’ parlà, nun perdere tiempo.
D.: (sorpreso) E’ ve..ro! E’ Farinata! Ma voi, maestro, come fate a riconoscerlo? Non ci
sono troppi secoli di distanza tra voi?
V.: A’ primma ccosa a’ morte nun cunosce tiempo, e nuje, quanno varcamme o’ limite
d’a vita, simmo tutt’eguale, nobile e snobile; ruosse e piccerille; viecchie giuvene e ‘nce
cunuscimme tutte quante; e pe’ siconde, e’ muorte sanne tutte cose, e’ ccose passate e
cchelle c’ancora anna venì; pirciò nun te spaventà e chello che vire e e’ chello ca’ te
dice chillo.
D.: Chi? Di chi state parlando?
V.: Ma stisse danne è nummere? Comme e’ chi? E’ Farinata, va nun o’ fa aspettà, che è
scustumatezza; tu stesse e’ scritte: “Ed el s’ergea col petto e con la fronte com’avesse
l’inferno a gran dispitto”
(Dante si rivolge e guarda nella direzione di Farinata, quando improvvisamente tuona
la voce di quest’ultimo)
FARI.: Siete voi, maledetti toscani, a chiamarmi col soprannome di Farinata, ma il mio
vero nome è Manente, ... Manente degli Ubberti, di cui vado fiero!
D.: (umilmente) Lo sapevo, ma tutti a Firenze così vi chiamavano e con questo nome
siete ricordato e conosciuto.
FARI.: Basta! Non è questo che mi riguarda. Ho ben altro per la testa; dimmi piuttosto
chi sei realmente, dalla tua parlata so che sei fiorentino, ma certamente non mi è facile
riconoscerti, perché ritengo che non sei della mia generazione, se vuoi che io ti
riconosca, dimmi piuttosto da quale famiglia discendi? Chi sono stati i tuoi antenati?
D.: Discendo dalla nobilissima schiatta degli Alighieri, mio trisavolo fu Cacciaguida, il
nobilissimo cavaliere che lasciò in Terrasanta queste misere vesti per difendere il nome
di Cristo dalla barbarie turca. Il venerabile Cacciaguida degli Elisei, insignito dell’alta
onorificenza della croce di cavaliere dall’imperatore Corrado III partì alla volta
dell’Oriente nella seconda crociata e in disprezzo della sua vita, col suo sangue lavò
l’oltraggio che la furia degli infami turchi aveva arrecato alla santa Chiesa. Costui era il
più nobile, il più generoso, il più pio della milizia di Cristo che la regalità
dell’imperatore Corrado scelse e unì a sé cingendolo della spada con cui, come
ricordavo poc’anzi, prima di passare da questa vita, fece strage di tanti e tanti infedeli. Il
nome degli Alighieri deriva dal matrimonio di questo mio trisavolo con la nobilissima
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Berta degli Alighieri, da cui nacque un bambino che ebbe il nome di Alighiero, donde il
nome della mia famiglia. Mio padre ...
FARI.: (spazientito) Bastaaaaaa! Ne ho avuto fin troppo di pazienza ad ascoltare le
assurde e fantasiose filastrocche. Mi è bastato sapere che sei un Alighieri e già il sangue
mi ribolle dentro. I tuoi antenati, te stesso, quelli che da te nasceranno, che siate dannati
in eterno, che la giustizia divina possa incenerirvi per sempre ed eliminare dal globo
terrestre anche il ricordo degli Alighieri.
D.: Ma perché, o nobile Farinata, un così terribile odio nutrite verso gli Alighieri, vostri
concittadini fiorentini?
FARI.: Tu non lo ricordi, sei troppo giovane; dopo la sconfitta del ghibellinismo, la tua
famiglia, non contenta di aver voluto la confisca dei beni degli Uberti, spinta da una
smania di distruzione con mani sacrileghe scoperchiò, dopo di aver aperto a picconate il
sarcofago in santa Restituta che conteneva le mie spoglie e quelle della mia donna,
decretò che esse venissero bruciate e le cui ceneri gettate nell’Arno, vituperandone la
memoria.
D.: Ne sono costernato!
FARI.: Troppo comodo, sappi che tra gli Uberti e gli Alighieri, come in passato
acerrimi nemici mortali, così in eterno continueranno ad esserlo. Ma per fortuna che c’è
dell’altro ... Ho ancora il cuore gonfio di gioia al ricordo delle due sfavillanti vittorie che
i ghibellini di cui io e tutta la potente famiglia degli Uberti siamo esponenti, inflissero
agli ipocriti guelfi. Montaperti, la più radiosa vittoria dei ghibellini, in cui, ancora
rammento, accanto al nobile e generoso Manfredi di Svevia, facemmo strage di tanti
tuoi orribili amici.
D.: Quello che dici è vero; purtroppo i miei compagni di parte furono sbaragliati e
cacciati via l’una e l’altra volta, ma vi ritornarono, mentre per voi non vi fu più scampo;
cacciati, vi è stato precluso per sempre il ritorno nella mia cara città.
FARI.: Ahi canaglia! Ancora vuoi ricordarmi questa spina che mi trascino nel fianco.
La tua città, ricordati fu essenzialmente la mia città. Ed io solo, a viso aperto quando ad
Empoli se ne decretò la totale distruzione, io solo la difesi con tutte mie forze e perciò
essa è ancora là, e se voi fiorentini potete ancora ammirar il bel San Giovanni questo lo
dovete al mio coraggio, solo al mio amore inestinguibile che ad essa mi lega.
Scena III
Personaggi: Cavalcante dei Cavalcanti, Farinata, Dante, Virgilio.
CAV.: (sollevandosi dall’arca) Farinata è da un pezzo che parli, e dal tono di voce mi
sembri agitato, anzi, sdegnato; ma con chi parli? Chi è il tuo interlocutore?
FARI.: (sdegnato) Guardati intorno e lo scoprirai da te stesso, vedrai che certamente
non ti sarà difficile
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CAV.: (guarda con attenzione e poi esclama) Ma, avevi proprio ragione! E’ …
l’Alighieri! E’ Dante! Dante Alighieri! (poi si rivolge a Dante) Ma sei proprio tu!
Dante, Dante Alighieri, l’amico del mio amato Guido! Ma perché lui non è con te?
Perché sei venuto da solo? E’ successo qualche disgrazia? Parla, dimmi la verità; non
mantenere nel dubbio il cuore di un padre angosciato.
D.: Niente di quello che avete pensato; rassicuratevi, niente di sinistro. Lui non è con
me, e non poteva essere diversamente, perché ha intrapreso studi averroistici che lo
condurranno a percorrere una strada senza ritorno, che lo condurranno a conclusioni di
accesa laicità e perciò lontano dalla grazia divina ed io, con molto rammarico, ho dovuto
prendere le distanze da lui.
CAV.: Ma come? Eravate così amici! Avete per così lungo tempo diviso le stesse idee,
seguito gli stessi studi, avete fatto parte della stessa scuola poetica ed ora vi siete così
inspiegabilmente divisi?
D.: Tale separazione mi è pesata tantissimo in passato e continua ancora a pesarmi, non
nego che continuo a volergli bene perché l’affetto che a lui mi lega è troppo grande, ma
per fini che sfuggono al nostro volere, sono stato costretto, credetemi, ad operare questa
scelta che tanto mi costa. Guido non potrò mai strapparlo dal mio cuore, lo testimoniano
tante cose, il lungo sodalizio poetico; infatti io e lui, è risaputo, siamo stati i più
apprezzati esponenti dello stilnovismo, a lui ho dedicato il mio diario d’amore “Vita
nova”. Ma quando cocciutamente ha deciso di intraprendere la strada che lo avrebbe
condotto alla perdizione eterna, strada che anch’io, cieco, stavo percorrendo, ho dovuto
con la morte nel cuore, separarmi da lui, Credo che adesso vi è chiaro perché lui non
poteva essermi vicino in questa impresa, in questo viaggio che compio per conquistarmi
la vita eterna.
FARI.: (guardando Cavalcanti gli dice) Lascialo perdere, costui è un opportunista, è un
egoista, chi rinnega un amico, è capace di tutto.
CAV.: Hai ragione, costui non merita nessuna considerazione (e cade nell’arca).
D.: L’odio che da sempre hai nutrito verso gli Alighieri ti acceca a tal punto da
incenerire anche i sentimenti più puri, sei della peggiore risma umana.
FARI.: Ho impegnato già troppo del mio prezioso tempo con un individuo capace solo
di intessere le sue lodi, una cornacchia da strapazzo. Ti lascio non prima di augurarti
una vita di stenti, di umiliazioni e di rinunce che condurrai lontano dai tuoi cari, in terra
straniera. (e cade nell’arca)
D.: (un po’ atterrito) Maestro, ma queste parole mi stanno a predire qualcosa di molto
doloroso! Per caso stanno indicandomi l’esilio?
V.: E si fosse accussì, tu che tiene a’ perdere! Ma tu accussì vuò essere presso i posteri?
Nu Dante che resta a Firenze, accanto a’ famiglia, cu e’ figlie che ‘nce correne attuorno,
che razza e Dante è. Invece, un Dante che ingiustamente è cacciato da Firenze, devente
nu Ddio, ca nisciune se leva cchiù da’ cape. Pirciò si sarrà accussì, chiste te fa nu
piacere. E mo jamme appriesso.
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Conclusione
(Dante e Virgilio attraversano gli ultimi tre cerchi e con molta fatica superano il
sommo male, Satana; ed improvvisamente, come per incanto, si avvera la favola bella
del trionfo del bene sul male. Dante, il pellegrino Dante ha sconfitto inesorabilmente il
peccato; ora lo attende un’altra prova: ascendere la vetta della purficazione.)
(Scena mimata)
(balletto delle diavolette e diavolone; quest’ultimo, attaccato dal Bene, raffigurato da
un angelo, illuminato da una luce accecante, viene sopraffatto e sconfitto)
D. e V.: E finalmente si ritorna a riveder le stelle.
FINE
***********************************************
Dalla “Corte ferrarese”
L’Aminta
di Torquato Tasso
Antefatto
Descrizione delle circostanze in cui è avvenuta l’ideazione dell’Aminta, dramma
pastorale.
Scena I
(monologo del Poeta)
(E’ un mattino d’aprile del 1573; il poeta Tasso si alza di buon’ora e, stiracchiandosi,
si siede al suo tavolo di lavoro, ma ha poca voglia di lavorare).
TASSO: Mi auguro che questa sia la giornata buona per recuperare il tempo perduto. (e
guardando carte vergate) E’ da tempo che non riesco più ad andare avanti! Pare che le
forze mi vengano a mancare, la mente mi si offusca! l’ispirazione del tutto spenta.
Eppure ho speso tutti questi anni per questo lavoro ed ora che dovrei raccogliere i frutti
del mio sudore, posso mai darmi per vinto? No! Non posso lasciarmi vincere dallo
sconforto. C’è in gioco la mia fama, il mio onore, il mio talento; quindi a costo di
sacrificare me stesso, devo raggiungere la gloria di sommo poeta! (E riprende a
scrivere, soffermandosi a pensare di tanto in tanto, improvvisamente si sente bussare;
ma lui assorto com’è, non sente; e l’atto del bussare diventa più incalzante) Ma
insomma in queste stanze non c’è mai pace! C’è sempre un via vai di paggi e servitori
che sciamano in tutte le direzioni senza tregua e in ogni momento della giornata! (E
infuriandosi) giuro che se è ancora quella canaglia di Cianchella, me la pagherà cara!
Quel furfante mi sta alle costole in ogni momento quando non serve, se lo cerchi per
193
qualche commissione non c’è mai! Entra, pezzo di farabutto, questa volta cosa vuoi?
Già mi hai rovinato la giornata! Hai ucciso la mia ispirazione.
Scena II
Personaggi: Duca Alfonso, Tasso.
(Ma improvvisamente appare il Duca Alfonso che incredulo tenta di parlare)
DUCA: Ma veramente sono ... (e il Tasso si accorge dell’errore, perché ne riconosce la
voce e girandosi nella sua direzione)
TASSO: Oh! Mio signore! Sono mortificato! (E fa per gettarsi ai suoi piedi) Sono
dolente per questo spiacevole equivoco (e sostenuto dal duca si alza) Cosa posso fare
per lavare siffatta villania?
DUCA: Mio buon amico non dovete dolervi più del dovuto! Ho perfettamente
compreso che si è trattato di un innocente errore; perciò non datevene pensiero! Non è
successo nulla di grave! Ditemi piuttosto, posso rubarvi un po’ alle vostre preziose
Muse? O ritenete che debba ripassare più tardi?
TASSO: Questo mai! Mai accadrà che il mio amato signore lasci le mie stanze senza
che io abbia esaudito ogni suo desiderio! Dite ed io vi ascolterò con assoluta
obbedienza, segno della mia infinita riconoscenza che sento per voi e il vostro casato.
DUCA: Allora posso esporvi una mia idea?
TASSO: Dite! Ogni vostra preghiera per me è un ordine! e se fossi così solerte nel
leggervi nel pensiero, già sarei pronto ad eseguirlo.
DUCA: (Sbirciando un po’ le carte) Ah! Vedo, con ammirazione che avete aggiunto
tantissime altre ottave alla vostra opera.
TASSO: Sì, ma non sono molto soddisfatto! Mi reputo alquanto lento, vedo che vado
avanti a fatica; spesso mi manca l’estro; noto che c’è troppo divario tra le tantissime ore
di lavoro che impiego e la resa che ne ottengo.
DUCA: No, non è affatto così! Siete troppo severo con voi stesso! pretendete troppo
dalle vostre forze! Se vi sentite così, penso che dovreste risparmiarvi un po’, o almeno
cambiare lavoro! Svagarvi un po’ per ritrovare la verve e la creatività che forse si è un
tantino appannata.
TASSO: Mio pregiatissimo signore, vi ringrazio per le parole di incoraggiamenti che
avete per me, ma temo proprio che non sia così. Purtroppo quello che ho detto di me,
non è arbitrario. Ma l’ho sperimentato più volte. Vedete, quando mi metto a questo
tavolo, io mi sintonizzo su questa clessidra (e tocca la clessidra) ma noto sempre che il
numero delle ottave composto è abbondantemente inferiore all’altezza del contenuto
della clessidra.
194
DUCA: (Ancora più amorevolmente) Ma l’arte, l’ispirazione, non si lascia imprigionare
dallo scorrere del tempo! Perciò, lasciate questi brutti pensieri, essi servono solo a
rendervi la vita difficile.
TASSO: Vorrei proprio convincermi di quello che mi dite! Ma non ci riesco! Vedete io
per l’ora di pranzo dovrei ultimare l’episodio dell’assalto dei Saraceni contro i Cristiani
perché vorrei leggerlo questo pomeriggio alle vostre auguste sorelle, le duchesse
Eleonora e Lucrezia.
DUCA: Come? E perché mai leggerle proprio a loro? Riservare a loro il privilegio in
assoluto della prima lettura?
TASSO: Sì! E c’è anche un perché! Perdonate se ancora non vi avevo rivelato questo
segreto! Sapete, da quando vivo sotto il vostro tetto man mano che procedo nel lavoro lo
leggo alle duchesse e loro mi sostengono con il loro illuminato giudizio, a dire il vero la
duchessa Eleonora spesso è un tantino più severa di monna Lucrezia.
DUCA: (Con un fare di assenso bonario) Ma quale credibilità può avere un giudizio di
una donna sulla bontà di un’opera d’arte. Le donne hanno poco talento per queste cose e
poi loro, riferendomi alle mie sorelle, non possono essere giudici attendibili nei vostri
confronti! Loro lo sapete! Non è un segreto per nessuno, come del resto tutte le
cortigiane qui presenti, hanno un debole per voi. E voi potete dare credito ai loro
giudizi? Se proprio ci tenete ad averlo, quando avrete terminato l’opera, la sottoponiamo
al giudizio di una commissione di esperti e allora sapremo realmente qual’è il suo
valore.
TASSO: Vedo che date poco valore all’ingegno femminile, se fossi in voi non sarei così
poco fiducioso nelle loro risorse; le donne così apparentemente fragili sono creature
sublimi che con l’intuito e il cuore sanno arrivare dove noi mai, perciò non
sottovalutatele! Nei convegni sono loro che ci vincono con i ragionamenti più sottili; ma
ora passiamo ad altro! Non è questo il momento, né questa l’occasione per intessere
elogi alle sconfinate qualità delle donne e veniamo ad altro; non era certamente questo il
motivo che vi ha spinto così di buon’ora a vedermi! Abbiamo troppo divagato!
Scena III
Personaggi: Tasso, Duca, Cianchella.
(improvvisamente si sente dalle stanze accanto un motivetto che si avvicina sempre più)
“Augellin che vien dal mare
che vieni a dire,
che vieni a fare.”
(ritornello ripetuto due volte)
TASSO: (Dando segno di impazienza e con sarcasmo) Ed ora cosa c’è? Le danze qui
adesso hanno inizio all’alba?
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DUCA: (Bonario) Ma no che non è così! Semmai finiscono all’alba! Vedrà che sarà
Cianchella a portarci qualche messaggio.
(la voce di Cianchella riprende il ritornello e il Tasso va su di giri)
“Augellin che vien dal mare ...”
TASSO: Uno di questi giorni, se non ci penserete a metterlo a dovere, ci penserò io!
Quel furfante fa di tutto per infastidirmi, per farmi perdere la bussola.
DUCA: (Sornione e quasi sorridendo) Ma no! Non potrà essere così! quello è un
povero diavolo! Se si comporta così è perché troppo stupido! E’ un poveracc...io.
(improvvisamente si sente aprire la porta rumorosamente ed è proprio lui ...
Cianchella)
CIAN: (Con un fare enfatico e goffo) Oggi gli Dei (e tutto d’un fiato) hanno scelto me
come messaggero (ma guardandosi intorno, le parole gli si strozzano in gola. Egli ha
con sé un vassoio su cui è appoggiato un cuscino di velluto recante una missiva che
cerca improvvisamente di nascondere).
DUCA: (Girandosi verso di lui) Vieni, vieni! Se vieni messaggero degli dei avrai
notizie divine.
CIAN: (quasi schernendosi) No, no! Niente, niente! Passavo di qui e avevo pensato di
ossequiare il mio valentissimo signore (e fa un inchino sproporzionato tanto che fa
fatica a rialzarsi inciampando e con voce incerta) e a porgere il mio fortunoso saluto al
più amato dei poeti.
TASSO: (A voce bassa rivolto al duca) Cosa vi dicevo! Costui mi prende in giro e io
non sopporto tal villania nei miei confronti.
DUCA: (Prima al poeta) Ma no, dopo riprendiamo questo discorso. (poi rivolto a
Cianchella) Dai ti si legge in volto che nascondi qualcosa!
TASSO: Si è vero, ho visto che nascondeva qualcosa nelle tasche.
DUCA: (A Cianchella) Vedi? Non sei più neppure un bravo buffone di corte! Un tempo
non avresti fatto una grossolanità del genere! Eri un prestigioso giocoliere e sapevi
strabiliare la corte con le tue apparizioni e sparizioni e ora non sapresti ingannare
neppure un bambino. Dai, consegna quello che nascondi!
CIAN: (Mortificato e prendendo ciò che nasconde) Ecco mio signore! era una missiva
... ma ...
DUCA: (Meravigliato) Una missiva e chi me la invia?
CIAN: (Ancora più mortificato) No, non è vostra! Il destinatario non siete voi! Ma ...
196
DUCA: (Contrariato) Sì ... ho capito. (ponendo l’accento sul termine) Il destinatario
non sono io! Ma il nostro amico poeta (e prende dalle mani del buffone la missiva che
guarda con attenzione, mentre il Tasso con trepidazione).
TASSO: (Con voce tremante) E’ per me? Ma non aspettavo nessuna missiva! (e la
guarda con spavento).
DUCA: (leggendo il destinatario) Sì è per voi (e con voce perentoria) Al caro e
prezioso poeta Torquato! (C’è un lungo silenzio) Dai caratteri gentili si direbbe che sia
una nobildonna (e la consegna al Tasso).
TASSO: (la guarda e con voce bassa come di chi è a disagio) Sì! è per me! E i caratteri
sono della duchessa Lucrezia! Ma giuro non ne sapevo niente (e mettendo la mano sul
cuore) sono un gentiluomo e non posso mentire.
DUCA: (rivolto al buffone) E tu fila! La tua commissione l’hai portata a termine.
CIAN: (Senza aspettare con un grosso inchino va via, ma con un sorriso malizioso)
DUCA: Su via, non è successo niente! E’ ormai di dominio pubblico che quella
sciagurata abbia un debole per voi!
TASSO: No, no! Non è così! Non è come si pensa! La nostra è un’intesa culturale, una
comunione artistica! Lei, la duchessa ama il mio talento di uomo di lettere, il resto sono
illazioni, volgari menzogne! Mai e poi mai sarei capace di un simile affronto al mio
signore! Sarebbe troppo e poi in casa sua!
DUCA: Su, su che non è successo niente! Mi basta la vostra parola di gentiluomo! Anzi
ringrazio questo innocente contrattempo che mi ha dato la possibilità di chiarire questo
dubbio che evitavo di affrontare, per timore di essere costretto a cacciarvi, mio malgrado
da casa mia; questo mi avrebbe arrecato un grosso dispiacere!
TASSO: (Rincuorato) Posso sperare nel vostro perdono? (E tenta di nuovo di giurare)
Io vi ... (e mette di nuovo la mano sul cuore).
DUCA: Avete la mia parola e tanto vi deve bastare (e gli porge la mano che il Tasso gli
stringe) Ma ora passiamo ad altro.
Scena IV
Personaggi: le duchesse, Tasso, duca.
(Mentre i due stanno parlando, improvvisamente appaiono sulla soglia della stanza due
bellissime dame: sono le duchesse Lucrezia e Eleonora).
LUCR: (Bussando, entra senza attendere risposta) Mio prezio...so (e la parola ferma in
gola).
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TASSO: Venite, venite! La vostra missiva è qui! Mi è giunta pochi minuti fa! Ma
ancora non ho avuto tempo di leggerla perché conversavo con il vostro augusto fratello,
mio signore!
DUCA: Sì, proprio così e poi perché palesate disagio? Tutto è chiarito!
ELEO.: Non serve più leggere! Il motivo della missiva è la nostra visita anticipata!
Quindi non più oggi pomeriggio come avevamo stabilito; ma adesso, se vi è possibile
potete leggerci qualcosa, se siete riuscito a scrivere nuove strofe.
LUCR.: (alla sorella) Come sei impaziente! Forse è il caso di andar via e ripassare più
tardi! Non vedi che non è questo il momento!
TASSO: Se il vostro augusto fratello lo vorrà, potete anche restare! Fino ad ora si è
parlato del più e del meno, ma ancora non si è affrontato il problema della sua visita.
DUCA: Proprio così, voi se volete, restate! Anzi, a pensarci bene, è proprio bene che
restiate. (e fa l’atto di far loro accomodare; il Tasso ossequiosamente porge due
poltrone, le duchesse si siedono e così tutti e quattro) Vedete, quello che sto per dire al
nostro poeta, riguarda anche voi e mi interessa anche il vostro parere circa l’idea che mi
piacerebbe realizzare.
TASSO: Siano ringraziati i Numi! Finalmente siamo arrivati al punto di partenza!
Raccontatemi della vostra idea, noi ascolteremo in devoto silenzio.
DUCA: Vedete, mio stimato amico, a luglio cade l’ottavo anno del mio matrimonio con
la leggiadra Barbara d’Austria e a dire il vero, questo anniversario vorrei festeggiarlo
diversamente dagli anni trascorsi, sono stufo delle solite feste con damigelle sbadiglianti
ed annoiate, con gentiluomini sbracati e sonnolenti per i fumi dell’alcool. Tutto questo
lo trovo deprimente. Quest’anno vorrei qualcosa di nuovo, di originale, qualcosa che
debba restare nella mente dei presenti (e pensandoci su) e perché no anche in quella dei
posteri.
ELEO.: Mi pare un’idea brillante! Ma in cosa essa dovrà consistere? Avete per caso
qualche suggerimento in mente, mio regale fratello?
DUCA: (rivolto alle sorelle) E se l’avessi starei qui a perdere tempo? No che non ce
l’ho! Sento solo che un qualche cosa di eccezionale dovremmo farlo; basta cercarlo.
TASSO: Apprezzo tantissimo il vostro proposito! Anch’io trovo orripilanti e
stomachevoli queste feste! Io non mi ci trovo a mio agio! Mi sforzo di esserlo, ma con
poco successo.
LUCR.: Ma sì, ma sì che qualcosa la saprà trovare il nostro poeta; però per il momento
penso che sia meglio che ci delizia con qualche fresca ottava, per la nuova idea c’è
tempo, siamo appena in aprile e l’anniversario cade in luglio.
DUCA: (infastidito) Come al solito le donne non ragionano con la testa. Lo sappiamo
tutti che mancano più di tre mesi; ma bisogna muoversi per tempo per trovare felici
soluzioni! Quindi lasciamo da parte le ottave e pensiamo a concretizzare l’idea.
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TASSO: Vorrei proprio esservi di aiuto; ma in questo momento sono a corto di idee.
Ma ci penserò sopra e certamente qualcosa ne verrà fuori.
LUCR.: Tutti ne siamo convinti.
DUCA: (rivolto alle sorelle) E ad accelerare i tempi ci pensa la mia lauta borsa.
TASSO: (risentito) Lo farei comunque! Lo sapete benissimo che vi sono devotamente
affezionato e che non vendo la mia arte.
DUCA: Ma sì! Ma sì che lo sappiamo! Però dovete riconoscere che siete
spudoratamente permaloso! Possibile che non si possa mai scherzare con voi?
ELEO.: (interrompendoli) Ehi, ehi! Ecco! L’idea! ... L’idea! L’Idea mi è venuta (e
infervorandosi) sì! Una commedia! Una commedia nuova! Il nostro Torquato scriverà
un’opera tutta per noi, per gli Estensi (e presa da una frenesia) e noi così entreremo
nell’impenetrabile mondo degli dei! Sì ... (e più agitata che mai) è bellissimo!
Bellissimo! Noi saremo i nuovi dei dell’Olimpo.
DUCA E LUCR.: (incuriositi e andando verso Eleonora eccitata) Questa sembra
proprio una buona idea! Però voi calmatevi!
LUCR.: (rivolta alla sorella) Sembrate proprio una baccante uscita di fresco da
un’orgia dionisiaca.
TASSO: (tra l’incertezza e l’incredulità) Scrivere una commedia? Io .... Scrivere una
commedia? Ma il tempo ... dove lo trovo? E poi ... la materia ... quale sarà la materia ...
e la mia Gerusalemme quando la terminerò? Sottoporla ancora ad un altro rinvio, questo
è troppo! (e agitandosi) non ce la farò, i miei nervi cedono.
DUCA: (rivolto al Tasso) Sì che ce la farete! I nervi non cedono! Basta che voi lo
vogliate! Noi tutti stiamo nelle vostre mani. L’Olimpo si apre per noi, se voi lo volete.
TASSO: No ... no ... sono confuso! Mi attribuite arti divinatorie, capacità che non ho, e
se poi vi deludo?
DUCA: (euforico) Intanto noi andiamo via e vi lasceremo meditare; torneremo più tardi,
o magari un altro giorno e mi darete una risposta; ma sappiate che tengo molto a
quest’idea (e poi rivolto alla sorella Eleonora) brava, siete stata proprio brava, avete
saputo leggere bene nel mio cuore! Sì, era questo che inconsciamente volevo e voi siete
riuscita a tirarlo fuori. (e i tre escono di scena salutando il poeta) Riveriamo.
Scena V
Personaggi: Tasso, Cianchella.
TASSO: (con fare sarcastico) Sì, era questo che volevo! Lui ... ed io cosa voglio? E lei
... (imitando la voce della duchessa) l’idea mi è venuta ... una commedia ... una
commedia ... maledetta lei! Ma chi le ha dato il permesso di accedere alle mie stanze (e
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infuriandosi va avanti e dietro per la stanza, misurandone il pavimento con gli occhi)
Maledetta lei! No ... maledetto me! ... Me che ho scelto il mestiere di cortigiano. Io,
(pensandoci) io non ho scelto un bel niente! Gli altri hanno scelto per me! Ed ora io, il
poeta osannato da tutte le corti d’Europa, invidiato da tutti quelli come me, amato dalle
donne, chi sono io? Un ignobile cortigiano che vende la sua anima, la sua arte, il suo
orgoglio, la sua umanità a chicchessia ... maledetto quel giorno che qui misi piede
(ancora continuando a disperarsi). Ma ora a che serve recriminare? Mi pagano per
questo ed io dovrò appagare ogni loro capriccio! (e ironicamente) e per questo sono,
ironia della sorte, invidiato da tutti quelli come me! (E con un fare enfatico) Io sono
cortigiano presso gli Estensi ... insomma il cortigiano degli Estensi ... e pertanto la sorte
vuole che ogni loro desiderio sia un ordine per me! (Calmandosi lentamente) perciò,
anziché sprecare le mie energie inutilmente, è bene che le utilizzerò diversamente (e
intanto si mette seduto alla scrivania). Scriverò, scriverò qualcosa! Vuol dire che la
Gerusalemme aspetterà ancora! Tanto ha aspettato già tanto tempo! Quindi un mese in
più un mese in meno cosa cambia? (Ed estraendo dal cassetto un foglio di pergamena)
ma sì! Non sono io amato dalle donne?, e allora anche le muse sono donne e qualcuna di
esse verrà in mio soccorso! (E scrive qualcosa, lo riguarda con attenzione come di chi
legge mentalmente calmo e sereno e poi chiama a gran voce il paggio) Cianchella,
Cianchella ...
CIAN: (cantando irrompe nella sua stanza e con un goffo inchino) Signore!
TASSO: (cambiando umore) Possibile che non ti riesca di essere meno inurbano? Sei
sempre maldestro e rumoroso.
CIAN: Mi pagano per questo, e voi, per le vostre buone maniere!
TASSO: Non ti permetto simili confidenze! Sarai per questo frustato e rinchiuso nei
sotterranei del castello.
CIAN: (scoppiando in una fragorosa risata) Ah ... ah ... ah ... ah ... per tanto poco? E
per chi insidia le sorelle altrui cosa ci vorrebbe allora?
TASSO: Non solo sei villano, ma spudoratamente arrogante; attento a quello che dici;
potresti pentirtene amaramente.
CIAN: (avvedendosi della sua imprudenza) Ma signore, avete frainteso, io ... volevo
dire …
TASSO: (infastidito) Basta! (e gli consegna un biglietto) Questo (porgendoglielo)
dovrà essere consegnato rapidamente nelle mani del duca, nostro signore e non fare
scherzi.
CIAN: So quando farli (e con un fare cerimonioso) Signore! (e va via)
TASSO: Impudente, ma intelligente; ha la lingua biforcuta che sa usare come gli piace e
quando serve.
Scena VI
200
Personaggi: Tasso, duca Alfonso.
(Tasso resta da solo e medita su cosa dire al duca qualora arrivasse e, proprio come se
lo stesse chiamando).
DUCA: (Un po’ sulle sue) Mi avete fatto chiamare ed eccomi qui! Presumo che abbiate
cose nuove ed urgenti da comunicarmi. Non è vero?
TASSO: (Un po’ a disagio) Ecco ... Sì ... No ...Volevo dire ...
DUCA: (Più serio) Ma signore! Non è da voi esprimervi per monosillabi; se avete da
dirmi delle cose, sono tutto orecchi, se no, mi fate torto; mi rubate ai miei affari da
sbrigare.
TASSO: (Mortificato) Perdonate, mio signore! Sono mortificato per questa apparente
incertezza; il mio atteggiamento esteriore è del tutto estraneo al mio pensiero e per esso
ne chiedo scusa (e fa l’atto di inchinarsi) Il mio pensiero è quello di concretizzare la mia
idea e mi impegnerò a tal punto che il vostro ottavo anniversario di matrimonio rimarrà
imperituro nella mente dei presenti e dei posteri.
DUCA: (andandogli incontro, fa per abbracciarlo) Ora vi riconosco; lo sapevo che non
potevate deludermi! Mi compiaccio di voi e mi congratulo con me stesso per avervi
scelto come consigliere della mia corte. Ma ora devo lasciarvi; il dovere mi chiama. Fate
voi, di voi mi fido ciecamente.
TASSO: (Sorridendo, al duca che lo sta a salutare) D’ora in poi mi concentrerò su
questo lavoro che intendo dedicare alla vostra leggiadra consorte (e, rimasto solo
riprende a scrivere).
Inizio del dramma pastorale.
ATTO I
Scena VII
Personaggi: Cupido, Venere.
NARRATORE: Accadde in Arcadia tanti ma tanti, secoli fa: è una giornata
paradisiaca, il sole è alto, tutt’intorno è uno spettacolo senza pari: gli uccelli cantano e
svolazzano, le farfalle si rincorrono e si posano sui fiori più belli; la bellezza selvaggia
del luogo risplende più fortemente per la presenza di un gruppo di pastori e pastorelle
che si bea all’ascolto di una musica dolce, sulla cui melodia ninfette muovono passi di
danza. Dall’alto, affacciato ad una finestrella c’è un pupo biondo, quasi rapito da tanta
bellezza, è Cupido.
CUP.: Oh! Che meraviglia ... ma chi dice che il regno degli dei sia più bello di quello
che vedo! (Ed è del tutto preso tanto che non sente di essere chiamato)
VEN.: Cupido ... Cupido ... Ma dove mai si sarà cacciato; mi auguro che non me ne stia
combinando qualcuna delle sue (e con più insistenza) Cupidoooo ....
201
CUP.: Madre, madre! Cosa c’è! Sono qui! Mi volevate?
VEN.: Benedetto figliolo! Quante volte ti ho avvertito che quando ti chiamo, voglio
essere risposta subito (con rimprovero amorevole).
CUP.: Ma madre, ero qui (ed indica la finestra) guardavo giù e non vi ho sentito, ve lo
giuro!
VEN.: E lo sai che è pericoloso guardare dalla finestra, potresti sporgerti più del dovuto
ed eccoti lanciato nel vuoto (e con commozione amorevole) ed io come faccio senza il
mio frugoletto.?
CUP.: (Avvicinandosi alla madre l’abbraccia) Madre, non vi dovete preoccupare! Sono
cresciuto e so badare a me stesso.
VEN.: (Accarezzandolo e passandogli le mani tra i capelli) Sei cresciuto, sei cresciuto!
Eri cresciuto anche quando l’altro giorno per poco non sei rimasto sbranato da quella
muta di cinghiali? Ed io quante volte ti avevo avvertito che lì, vicino a quella spelonca
non ti ci dovevi avvicinare? Ma tu, tesoro di mamma, non mi dai ascolto.
CUP.: Madre, ma fu un incidente, giocavo a nasconderello con ...
VEN.: Ed entrasti in quella spelonca! Non è così?
CUP.: No, madre, ci sono andato solo vicino; e, come vi ho detto l’altro giorno, non
avevo fatto niente; all’improvviso mi sono trovato quel brutto figlio ... di ... (e la madre
gli tappa la bocca con la mano) addosso.
VEN.: Adesso anche le parolacce! Se ti sente tuo padre.
CUP.: (Ridendo) Mi lancia addosso i suoi fulmini! Dai, mamma lo sai che papà ne dice
più di me! Perciò! ...
VEN.: (sorridendo) Vedi, piccolo mio, indubbiamente è come tu dici; però sappi che ci
sono delle cose, anche se a te appaiono strane, che i grandi possono fare e dire perché
sanno misurarsi con esse e sanno quando è il momento di dirle e farle! Per voi piccoli,
invece, non è così perché non siete in grado di sapere quando ne è il momento, e così
inavvertitamente potreste usare un linguaggio sconveniente.
CUP.: (Con uno sguardo incerto) Ho capito, ma non mi hai convinto! Vuoi dire che
non debbo dire parolacce quando ci stanno gli estranei? e così farò.
VEN.: Bravo! Angelo mio! Mi reputo una dea fortunata perché ho un figlio intelligente.
CUP.: Ed obbediente!
VEN.: Obbediente proprio non si direbbe; comunque lo potresti diventare.
CUP.: Mamma, troppe cose insieme, lo dici sempre tu, non si possono avere.
202
VEN.: E’ vero, ma io alludo a ... Ah! (con un sospiro di bonaria insofferenza) ... Come
sei ... insomma ... figlio ... di ... (a bassa voce).
CUP.: (sorridendo) Hai visto? E’ scappata pure a te! Ed ora ... cosa direbbe papà (i due
scoppiano in una fragorosa risata e poi si abbracciano)
VEN. e CUP.: E noi non ce lo diciamo! (e ridono ancora).
CUP.: (Approfittando del momento di tenerezza) Mamma io vorrei imparare a tirare
l’arco.
VEN.: Come? Ma cosa dici! E’ un esercizio non per un bambino! E poi è troppo
pericoloso, e poi ... la faretra, l’arco, le frecce sulle tue piccole spalle! Non ce la faresti!
Sono troppo pesanti.
CUP.: E se ti dicessi che già lo facessi a tua insaputa?
VEN.: No! Amore di mamma! Dì che stai scherzando, che non è vero! E poi chi te lo
avrebbe permesso! Chi ti avrebbe procurato queste cose?
CUP.: No, mamma non è uno scherzo! E’ così! Io so tirare l’arco, so maneggiare le
frecce e me lo ha insegnato papà.
VEN.: (Meravigliata e arrabbiata) Papaaaaà! (Risentita) Mi sentirà ... quello
sconsiderato! Affidare frecce nelle minuscole mani di un bambino! Gliela farò vedere
io! Tanto lui ha tanti figli! che se ne importa se le frecce possono ferire, colpire,
provocare la morte! Che se ne importa (e scuotendo il bambino) se tu puoi morire (e fa
per andar via, ma viene fermata.)
CUP.: (Spaventato) Madre! Madre! Aspettate, dove andate! Adesso vi spiego come è
andata! Lui non c’entra, la colpa è mia. (e fa per piangere) E’ tutta mia!
VEN.: Non spaventarti, racconta e poi vedremo!
CUP.: Madre, sono andato io a chiedergli di insegnarmi a tirare l’arco; lui, all’inizio, si
è sempre rifiutato; ma poi, dietro le mie insistenze, se ne è convinto e mi ha fatto giurare
che lo avremmo detto a te quando sarei stato bravo abbastanza. E poi mi ha fatto
costruire faretra, arco, frecce piccole, piccole, delle freccette invisibili! Quelle che
servono solo ad insinuare l’Amore, la passione fra gli uomini.
VEN.: (Rassicurata) Ah, è così? Siano ringraziati tutti i numi; ora mi sento più
rassicurata! Dunque saresti il Cupido dell’Amore! Ne sono contenta, anzi fiera; ed allora
va figlio mio, scendi sulla terra perché la terra ha tanto bisogno d’Amore, colpisci gli
uomini, soprattutto quelli dal cuore di roccia e instilla in essi Amore; pianta la radice
dell’Amore e fai crescere un albero smisuratamente grande, dai rami fitti e lunghissimi,
sotto la cui ombra l’umanità intera se ne starà beatamente adagiata.
CUP.: (Meravigliato e serio) Ma poi, mamma! Lascerò voi tutti?
203
VEN.: Tornerai, quando vorrai! Ma adesso vai, perché il mondo ha bisogno di te.
CUP.: (Librandosi sulle ali) Addiiiiooooo! Maaadreee. (Ed entrambi escono di scena).
Cupido tra i pastori.
(Cupido, sceso dall’alto, si mescola ai pastori e ne osserva gli atteggiamenti. Infatti
assiste all’innocente gioco dell’acchiapparello - moscacieca in cui sono sfrenatamente
coinvolti pastorelli e ninfe tra cui Aminta e Silvia)
Scena VIII
Personaggi: Aminta, Silvia, gruppo di pastorelli.
AMIN.: (Bendato è al centro di un girotondo) No! Non vale! E’ da troppo tempo che
nessuno mi dà il cambio! (e si toglie la benda)
SILV.: (Convincente) E dai, non fare così! Le conosci le regole del gioco! Se bendato
non ti riesce di indovinare il nome di chi fermi, non potrai essere sostituito! Dai, fallo
per me. Vedrai che questa volta ti andrà meglio.
AMIN.: (Quasi convinto) E va bene! Ci riprovo (si rimette la benda e inizia il giuoco e
fa l’atto di acchiappare ma riesce appena a toccare le braccia di un pastorello) Avanti
... sotto a chi tocca (non prende nessuno e intanto si sente ridere) Ridete, ridete pure!
(Ne prende uno) Ecco! Finalmente!
PASTORELLI: (Burlandolo) Ma chi sono io ...? Sssss Chi è costui?
AMIN.: (Toccandolo) Tu sei ... Sì ...! No, Non può essere! Sei peloso (tutti ridono e
continua il gioco, mentre gli altri sghignazzano e ridono, ne prende un altro) questa
volta non mi sfuggirai (e ripete l’atto di riconoscimento) Questa volta non mi inganno!
Sei Silvia (e togliendosi la benda, riconosce che non è così)
PASTORELLI: Ti è andata male, ti è andata male (facendo il verso)
AMIN.: Mi piego, ma non mi spezzo! Questo è un gioco ed io ci so stare al gioco! Vuol
dire che ritenterò (e si rimette la benda, il gioco riprende, ne riprende un altro e ripete
le stesse azioni)
PASTORELLI: Ssss ... Indovina chi è?
AMIN.: Questa volta è ...
PASTORELLI: (Facendo il verso) E’ Silvia!
AMIN.: (Mentre si toglie la benda, scopre che non è così e si sente burlato) Basta! (e
sbatte a terra la benda) Non voglio più giocare (e fugge) Siete tutti contro di me! Vi
prendete gioco di me!
204
SILV.: (Staccandosi dagli altri lo rincorre) Fermati, fermati! (e lo raggiunge) Dai, non
fare così (E lo prende per un lembo della camiciola) Sei tu che, permaloso come sei, ti
fai trattare così!
AMIN.: (Rallentando) Mi fermo, ma non ritorno a giocare! Quelli si divertono alle mie
spalle e questo non mi piace.
SILV.: (Con voce di chi asseconda) E va bene, non ci ritorneremo a giocare (e lo
ferma).
AMIN.: (Felice) Ah ... neppure tu ritorni con loro? Allora preferisci restare con me?
SILV.: (Rassicurante) Certo che sì! Mi piaci più tu che loro! Tu sei gentile, garbato,
mentre loro ...
(Intanto tra i due si insinua Cupido che lancia una piccolissima freccia ad Aminta e in
disparte, divertito, sta a guardare.)
AMIN.: (Colpito) Ahi ... Ahi ... Ahi ... Che male! ... Una fitta! Una fitta proprio qui al
cuore ... Un’altra ... Un’altra ancora! (e si accascia).
SILV.: (Spaventata) Aminta cosa c’è ? Cosa dici? Dove ti fa male (e gli scopre la
camicia).
AMIN.: Niente, non è niente! Mi è passata.
SILV.: Come niente? Mi sono spaventata! Mi sembrava che fossi stato colpito da una
freccia.
AMIN.: No, non ti preoccupare; sto bene! Non è niente!
SILV.: Come niente? Guardiamo in giro; che non ci sia qualcuno che voglia farci del
male.
(ed intanto Cupido, invisibile, assiste divertito alla scena.)
AMIN.: (un po’ frastornato) A dire il vero mi sento ... (e fa fatica a trovare le parole)
Come dentro di me fosse entrato ... un fuoco ... una fiamma ...! Ma no! Non so neppure
io cosa! Il cuore ... (e ci pensa su) Il cuore è diventato ... come dire ... più tenero! E’ ...
come se qualcuno mi avesse spalmato su del miele!
SILV.: (Meravigliata e spaventata) Ma ... Stai bene? Mi sembri pallido! forse hai la
febbre (e con la mano gli tocca la fronte).
AMIN.: Mai stato così bene! E se anche stessi male, preferisco questo male perché
(inebriandosi) è un male tanto dolce.
SILV.: (Incredula) A me sembri proprio un po’ pazzo! Si è fatto tardi devo proprio
rincasare!
205
AMIN.: Sì! Rincasiamo! (E divenuto serio) cadono le ombre ed il giorno cede posto alla
notte! Ma pensami stanotte perché io, se non dormo, ti sto a fianco col pensiero, se
dormo sogno solo di te. Domani poi ci incontriamo al solito posto:
SILV.: (Più incredula che mai, allontanandosi) Mi sembra proprio matto; non l’ho mai
visto così! Né sentito parlare così.
Scena IX
Personaggi: Aminta, Silvia.
(Trascorre la notte e i due pastorelli, il giorno successivo, si ritrovano al punto
stabilito; hanno con loro la falce perché vogliono pulire gli alberi dalla sterpaglia, a
parlare per prima è Silvia)
SILV.: (Intraprendente) Aminta ... Aminta ... Allora oggi ho pensato a cosa fare! Sono
io che do le direttive! Dobbiamo pulire tutti i tronchi dalla sterpaglia che bruceremo!
AMIN.: (Come se non ascoltasse) Sì! Come vuoi tu!
SILV.: (Avvicinandosi) Ehi ... Cosa ti succede? Si direbbe che hai altro per la testa! Ma
mi hai ascoltata?
AMIN.: (Scontroso) Sì ... Sì ... ti ho ascoltato! Anzi ... sai cosa ti dico? Avanziamo più
speditamente.
SILV.: Come vuoi tu.
(E i due arrivano alla sterpaglia; quel luogo è invaso da vespe e ad inoltrarsi per primo
è Aminta che viene punto da una di esse)
AMIN.: Ahi ... Ahi ... Silvia! Silvia ... Accorri ... accorri! Presto! Presto!
SILV.: Ma cos’hai?
AMIN.: Presto! Una vespa ... una vespa ... mi ha punto! Ahi ... Ahi ... che male! Cerca
qualcosa, fai qualcosa.
SILV.: (Si avvicina) Fai vedere! Dove? ... Dove sei stato punto? Quelle canaglie!
AMIN.: Qui, qui sul labbro inferiore ...!
SILV.: Non ti preoccupare, non è successo niente! Adesso me la vedo io.
AMIN.: Cosa mi fai? Io so che questi animali sono pericolosissimi; le femmine sono
ancora più cattive, se ti pungono, ti lasciano dentro il pungiglione e provocano fitte
dolorosissime!
206
SILV.: (Spaventata) Fammi vedere! E stai zitto ... Non gridare (e con le mani gli tocca
il labbro e tenta di aprirgli la ferita)
AMIN.: Mi fai male, mi fai male! (e tenta di sfuggirle)
SILV.: Aspetta, aspetta! Fermo, fermo! Hai dentro il pungiglione! Te lo devo togliere!
Non aver paura! Io so come fare! Tu statti qui, aspettami, io tornerò prestissimo, andrò a
prendere quello che mi serve (e va via lasciando il compagno a piangere)
AMIN.: Ahi ... che male ... e se non arrivasse? Io cosa farò? Qui non passa nessuno.
SILV.: (Di ritorno lo ha ascoltato) Sciocco, sei proprio uno sciocco! eccoti quello che
ci serve! Ringrazia Zeus che sono riuscita a trovarlo (e gli mostra dei petali rossi) questi
sono petali di papavero, te li strofinerò sopra, così il dolore si placa e posso estirparti il
pungiglione con le unghie. (e mentre dice queste cose) Su preparati e non essere il solito
fifone!
AMIN.: (Lamentandosi) Ma sei sicura? Non è che mi succederà peggio?
SILV.: (Seccata) Su via, non fare storie, se mi vuoi stare a sentire, bene! se no ti tieni i
tuoi pruriti e i tuoi dolori!
AMIN.: (Conciliante) Silvia, Silvia per favore non offenderti, lo dicevo così! Farò come
tu dici! non dirò più niente!
SILV.: (Accuratamente esegue il lavoro di estirpazione e trova un grosso pungiglione e
mostrandoglielo) Eccolo! Sembra un serpentello tanto è grosso! Sei stato proprio
fortunato che ne sia venuto fuori tutto quanto e per intero, se ne restava una parte dentro,
stavi proprio fresco.
AMIN.: (Risollevato) Ah finalmente! Me ne sono liberato; mi fa male poco, molto
poco! Grazie Silvia (e gli stringe le mani tra le sue) Silvia, Silvia mia sei proprio
impagabile.
SILV.: (Piena di sè) Hai visto? sono anche un chirurgo!
AMIN.: Come chirurgo?
SILV.: Sì! Sappi che dalle nostre parti, tutte le fanciulle insieme alle arti domestiche
apprendiamo anche l’arte della medicina e della chirurgia. Io poi per queste ho sentito
subito un certo trasporto, mentre per le altre un completo rifiuto e ad esse ho sostituito
quelle della caccia e della pesca.
AMIN.: Meno male! Silvia sei un tesoro!
SILV.: Non esagerare che non ho finito!
AMIN.: (Spaventato) E cosa devi farmi ancora?
207
SILV.: Non ti spaventare, segui ed osserva solo quello che faccio! (e toccandogli la
ferita) Da qui deve uscire del sangue, il sangue infetto. Vedrai, non ti farò male (ed
accosta la sua bocca alle labbra del giovane per succhiargli la ferita.)
(Aminta colpito dalla sorpresa, prova una gioia infinita e finisce con l’abbracciare la
ragazza, mentre lei si divincola e lo scosta da sè con violenza)
SILV.: (Con stizza) Ma cosa ti prende? Ti è dato di volta il cervello! Lo sai; queste sono
cose per adulti (e scappa via)
AMIN.: (disperato) Silvia! Silvia! ... Fermati, io non volevo ... fermati! Almeno dimmi
che non ce l’hai con me. (ed escono di scena).
Scena X
Personaggi: Aminta, Silvia, Tirsi.
(Il giovane Aminta il giorno successivo, si reca da Silvia e l’aspetta davanti alla sua
grotta.)
AMIN.: (Agitato e solo) Deve ascoltarmi! Le faccio le mie scuse e tutto ritorna torre
prima.
SILV.: (Uscendo di casa) Tu qui! Via, via da me pezzo di bestia! So io come vanno
trattati quelli come te! (E fa per andar via, ma lui le si para davanti)
AMIN.: (In atto di preghiera) Silvia, non fare così, te ne prego! sono venuto a chiederti
scusa, se vuoi, mi metto anche in ginocchio!
SILV.: (Stizzita) Ora, anche la commedia! Via, via da me, citrullo selvaggio! Sparisci (e
grida a gran voce) E non farti più vedere! Di te neppure l’ombra voglio più incontrare!
AMIN.: (Ancora più accorato) Ma io ... volevo ...
SILV.: Vai al diavolo, ma sei troppo stupido e neppure quello ti vorrà!
TIRSI: (Attratto dalle grida esce dalla sua spelonca e aspetta Silvia che si dirige nella
sua direzione) Silvia, ma cosa ti è successo? Perché tratti tanto male quel povero
giovine? Ho visto sai!
SILV.: (Ancora più arrabbiata) Al diavolo pure tu! Voi uomini tutti uguali; nella vostra
mente bacata avete una cosa sola (e gridando ancora di più) se proprio vuoi saperlo,
chiedilo a lui.
TIRSI: Bah ... Mi sembra proprio offesa! Quello gliene avrà fatto proprio una grossa, o
è proprio matta. Però non credo, sarà che lei è proprio matta. Le donne, tutte uguali!
Sembrano vino in fiasco e questa poi col suo visetto angelico è più mutevole che mai (e
se ne entra dentro.)
208
Scena XI
Personaggi: Aminta, Tirsi.
(Aminta è rimasto solo e si dispera per il tentativo non riuscito di poter parlare con
Silvia, ma ha visto che la fanciulla si è fermata a parlare con Tirsi)
AMIN.: (Piangendo) Ed ora ... cosa posso fare? Come fare per farla tornare quella di
prima. Va bene! Non vuole il mio amore, ma almeno la mia amicizia. Non posso
permettere che mi sfugga come se fossi un appestato! All’idea di non poterle parlare,
esco pazzo! (Pausa) ... Mi viene un’idea ... l’ho vista parlare con Tirsi. Dunque Tirsi sa
e chissà che non sarà lui a riconciliarmi con la mia bella Silvia. Sì, è così; dovrà essere
così (e con questo pensiero si reca verso la spelonca di Tirsi che chiama a gran voce)
Tirsi ...Tirsi ...
TIRSI: (Riconoscendone la voce) Aminta, perché gridi come un ossesso! Abbassa la
voce che svegli il vicinato!
AMIN.: Scusami, scusami anche tu! E’ che non me ne va bene una! Ho da parlarti di
una pena che mi opprime il cuore, una gran pena se no, scoppio.
TIRSI: Ehi ... non essere esagerato! che vuoi che sia una piccola scaramuccia con
Silvia, vi ho visti sai? Litigavate poc’anzi!
AMIN.: Me ne sono accorto che ci hai visti! Però ascoltami, non è così semplice come
credi (e scoppia a piangere) Credimi qualcuno dovrà aiutarmi, se no commetto uno
sproposito (ed alza ancora di più la voce)
TIRSI: (meravigliato) Uno sproposito! Ma allora andiamo proprio male! cosa potrà
esserti successo di così grave che sei così agitato! Però non disperare; ti prometto di
venirti incontro, di aiutarti per quello che posso. Ma tu devi calmarti. Raccontami per
filo e per segno quello che ti è capitato e poi lascia fare me.
AMIN.: Grazie, grazie (e fa per baciargli la mano) lo sapevo che potevo contare su di
te, sei proprio un amico.
TIRSI: Su, su! Non sprecarti più del necessario nei convenevoli e raccontami tutto e poi
vedremo.
AMIN.: Sì, ma me ne vergogno un po’.
TIRSI: Te ne vergogni? (e sorridendo) ma allora sei stato un po’ mascalzoncello! Hai
capito ... il giovinetto! ...
AMIN.: No, no! Non è come pensi! Sono stato frainteso! Sono state le circostanze a far
precipitare le cose! Io non volevo.
TIRSI: Ma non volevi cosa? (e sorride).
AMIN.: (Più imbarazzato che mai) Baciarla! (e abbassa la testa)
209
TIRSI: Ma allora state a questo punto? Vi amate? Tu ami questa fanciulla?
AMIN.: No! ... Sì! ... Cioè! ... Come è difficile spiegarsi.
TIRSI: Non ci sto a capire niente; sì o no!
AMIN.: Io la amo, è lei che non mi ama!
TIRSI: Ah! ... Ho capito! E tu come lo sai? Però come sei precoce bricconcello!
AMIN.: Lo so! l’ho scoperto proprio ieri! E a farmelo capire c’è stato un episodio,
altrimenti non lo avrei saputo. Sappi era da tempo che mi sentivo strano, avevo voglia
continua di vederla, di parlarle. (entusiasmandosi) di specchiarmi nei suoi grandi occhi;
quando la vedevo, mi sentivo sussultare; il cuore mi balzava in petto, desideravo
sfiorarla, ma poi vinceva il pudore e in quel momento volevo sprofondare, volevo
nascondermi, allontanarmi da lei. Mi allontanavo anche e forte era il desiderio di
rivederla; non dormivo; passavo notti intere a contare le ore che mi separavano da lei, le
poche in cui dormivo me la portavano in sogno ed io, quante volte nel sogno l’ho
abbracciata, ma come un citrullo, mi svegliavo di soprassalto e in un mare di sudore, mi
trovavo ancora le braccia strette al mio petto.
TIRSI: Aminta, Aminta caro! Questo è amore! Tu ami profondamente questa fanciulla!
Che tu possa essere benedetto dagli dei! Tu hai avuto il dono dell’amore puro,
profondo! Sapessi quanto ti invidio! Anch’io un tempo provavo le stesse emozioni
davanti alla donna amata; ma il tempo cambia tutto e trasforma anche i sentimenti. Ora
scusami ti ho interrotto! Ancora non hai raccontato l’episodio, della tua scoperta di
amare Silvia.
AMIN.: Vedi; ieri come al solito, c’eravamo incontrati per recarci nella sterpaglia e fu
proprio lì che accadde: io mi stavo inoltrando nella boscaglia; sai, lì vi si annidano
sempre vespe e mosconi, lei mi seguiva dietro; improvvisamente una perfida vespaccia
mi punse il labbro inferiore e mi provocò un dolore fortissimo, il dolore era così forte
che mi sentivo svenire. Lei non si perse d’animo, prima mi calmò il dolore con dei petali
di papavero, poi mi estrasse il pungiglione, infine poggiò le sue labbra sul mio labbro
infetto per succhiare e portar fuori il sangue infetto.
TIRSI: Aha ... Questo è l’episodio! Ho capito, ho capito (e ammiccando) e allora tu,
come dire, ne hai approfittato! Non hai valutato quale poteva essere la sua reazione!
AMIN.: (Accalorandosi) No, non è così! Io, a quel dolce contatto sentivo solo che un
balsamo era sceso in me; una dolcezza infinita mi aveva pervaso e allora forte fu il
desiderio di stringerla; lei ignara si lasciò abbracciare, ma quando l’ho baciata, lei
divincolandosi è fuggita; l’ho inseguita, sono riuscito anche a fermarla, ma lei, niente da
questo momento non vuole più saperne di me; fugge davanti a me come un’agnella
davanti al lupo, ed io ... (quasi piangendo) sono disperato!
TIRSI: Ora capisco davvero; davvero sei in una brutta situazione; ma non ti dei
disperare; vedremo di venirne a capo; però, benedetto figliolo potevi essere più cauto.
210
AMIN.: Lo so che ho sbagliato! Sono pronto a pagare! Farò qualunque cosa pur di
riconquistarla.
TIRSI: Ecco, bravo! Devi proprio riconquistarla.
AMIN.: Ma come?
TIRSI: Per adesso lasciala stare, fai passare un po’ di tempo; le donne si devono
cuocere nel loro brodo.
AMIN.: E nell’attesa come farò? Come potrò sopportare di non vederla?
TIRSI: Ah, beata gioventù; come siete impazienti! Il tempo deve fare il suo corso;
aspetta e vedrai! Poi inizierai a mandarle fiori, mazzetti di viole e mammole, fiordalisi e
margherite, tutti freschi; tanti, tanti fiori, tanti da riempire la sua casa; lei quando sta
sola, medita e, guardando i fiori, lentamente cancella questo brutto ricordo; poi le
manderai frutti di bosco, mirtilli e fragole, tante buone fragole, il cui dolce sapore ti
portano alla sua memoria..
AMIN.: Davvero dovrò fare così? Ma io non lo so fare, non l’ho mai fatto!
TIRSI: E per imparare c’è sempre una prima volta! Fidati di me. Le donne sono esseri
misteriosi; prima di essere conquistate, vogliono conquistare; prima di essere desiderate,
vogliono essere corteggiate. Ed io ne so qualcosa!
AMIN.: Ma funzionerà?
TIRSI: Con me ha sempre funzionato! Ora lasciami che ho da fare; anzi proprio ora mi
metto all’opera per aiutarti.
AMIN.: Ma come?
TIRSI: (Quasi spazientito) Oh ... benedetto ragazzo! Ci devo prima pensare e poi
saprai! Ora andiamo ed aspetta gli eventi; tu intanto segui i miei consigli e tutto andrà
bene.
AMIN.: (Andando via) Speriamo bene, se no cosa farò? (ed esce di scena)
Scena XII
Personaggi: Tirsi, Dafne.
TIRSI: (Da solo e meditando) Il ragazzo è scomparso, forse è meglio che ora stesso mi
reco da Dafne e chissà se quella megera non troverà lei il bandolo di questa matassa! (e
parlando, parlando si ferma davanti a una grotta e chiama a gran voce) Dafne ... Dafne
(ma di lei neppure l’ombra) forse non c’è, ma dove sarà mai? Ah ... forse lo so e dove
potrà essere se non presso la fonte Gaia ... Ad una certa ora del giorno, tutte, o quasi
tutte le donne del villaggio vanno lì, a fare toletta e figurarsi se lei non è là vanitosa
com’è! (e fa per allontanarsi, quando improvvisamente la scorge di lontano) Eccola (e
211
indicandola col dito) E’ là e non poteva essere che così: il mio istinto non si sbaglia.
Ora mi nascondo ... o fingo di non vederla (e ripensandoci) fingo di passare di lì per
caso. (e si avvicina al luogo).
DAFNE: (Come se gli avesse letto nel pensiero, lo scorge e lo chiama) Tirsi ...Tirsi ...,
come mai anche tu da queste parti? Si direbbe che anche tu vorresti prendere le nostre
abitudini, abitudini di noi donne. (E sorride)
TIRSI: (Fingendo di sorridere, ma un po’ offeso) Ci mancava solo questo! No ... No ...
stattene tranquilla, passavo di qui per caso.
DAFNE: (Facendogli il verso) Passavo di qui per caso! (e civettuola ride) Dai, non
farmi ridere, lo vedrebbe anche un cieco che sei a disagio. Tu le bugie non le sai dire,
lasciale dire a noi donne e dimmi piuttosto se non eri venuto per spiarmi.
TIRSI: Intanto prendo nota che stai imparando ad essere sincera, le bugie le lascio dire
innanzitutto a te, mia adorata bugiarda, e verrò al dunque! Premetto però che ero venuto
non per spiarti, ma c’è dell’altro (e avviandosi insieme) che voglio raccontarti e trovare
insieme una soluzione.
DAFNE: Grazie per l’adorata bugiarda, lo so bene che è da tempo che hai smesso di
fare pazzie per me e la colpa è solo mia! Vediamo invece in che cosa potrò esserti utile.
TIRSI: Se avrai la pazienza di ascoltarmi, te lo dirò; però, mi raccomando, mentre
parlo, non interrompermi così come siete solite fare voi donne.
DAFNE: Ma come mai così prevenuto contro le donne? Noi bugiarde, noi impazienti;
si direbbe che dopo di me hai allacciato altre relazioni e sei rimasto più deluso che mai.
TIRSI: Non sono venuto qui a raccontarti i fatti miei privati, alle mie pene d’amore ci
penso io! Le mie sofferenze sono soltanto mie; e poi tu, proprio tu, saresti l’ultima
persona a cui verrei a raccontarle!
DAFNE: Sono cambiata sai, anche tu mi manchi tanto; da quello che dici capisco che
sono stata causa di tante tue sofferenze; se vuoi, posso rimediare! Ho capito di avere
sbagliato, volevo tenerti più legato a me facendoti ingelosire, sbagliando tutto e con il
risultato di compromettere la nostra relazione.
TIRSI: Queste cose appartengono al passato! E’ acqua appantanata e non va più bevuta;
ma non ci casco più; le tue pericolose reti tendile ad altri.
DAFNE: Se non posso più avere il tuo amore, puoi almeno ridarmi la tua amicizia, io
quella non la tradirò mai!
TIRSI: Ed io cosa sto facendo? Venendo qui a parlarti di una cosa tanto delicata, a cui
tengo molto, significa che mi fido di te! E fidarsi reciprocamente è essere amici.
DAFNE: Questo mi fa piacere ed ora passiamo al motivo per cui sei venuto fin qui a
cercarmi, dei nostri rapporti privati magari ne parleremo più in là, quando la tua
amarezza si è attenuata un po’.
212
TIRSI: Lo spero anch’io, ma intanto sappi che qui sono venuto per Aminta, povero
ragazzo gli è successo una cosa terribile e allo stesso tempo meravigliosa! Questo
giovinetto si è innamorato senza riserve, in maniera totale di una sua coetanea, una certa
Silvia.
DAFNE: Beh ... E’ una bella storia quella che mi stai a raccontare! Ma cosa c’è di tanto
strano? Aspetta, il giovane ... hai detto che si chiama Aminta ... questo nome non mi è
nuovo ... questo giovane forse lo conosco, l’avrò certamente visto; il villaggio non è poi
così grande, però in questo momento non lo ravviso; la ragazza la conosco certamente!
Sì, Silvia, è una giovinetta molto aggraziata, busto eretto, viso altero, occhi profondi, è
un bel tipetto, sta venendo su molto bene, il suo corpicino è ancora un po’ acerbo, ma
promette bene, sta venendo su armoniosamente, insomma, non le manca niente e
quando passa per il villaggio, tutti gli occhi dei giovani e meno giovani sono per lei.
TIRSI: (Ammirato) Dalla tua descrizione si direbbe che sia una ninfetta! Sfido io che
quel poveretto sia diventato tutto un falò per lei! Ma tu questa fanciulla la conosci bene?
Conosci le sue abitudini?
DAFNE: Bene proprio no, la conosco per quel tanto che basta per raccogliere le sue
innocenti confidenze ... Ma perché mi fai queste domande?
TIRSI: Perché se non mi avessi interrotto all’inizio, ora sapresti perché! Perché Aminta
ama senza speranza questa giovanetta.
DAFNE: E tu come lo sai?
TIRSI: Lo so, lo so; tu cosa hai detto prima? Come tu sei la confidente di Silvia, io lo
sono di Aminta; lui, proprio poche ore fa, mi ha confidato come stanno le cose tra loro
due; mi ha riferito particolari che parlano da soli; di lui innamorato e preso da una forte
passione e lei del tutto indifferente davanti alla sua sete d’amore.
DAFNE: Ma è esagerato quello che dici! Un giovinetto sì o no adolescente, può amare
così tanto? Mi sembra impossibile.
TIRSI: Eppure, Dafne mia ti dico che è così! (e sospira)
DAFNE: Vedo che questa storia ti ha completamente coinvolto; ed io, più che provare
un senso di compassione per il giovane, non vedo cosa possa fare.
TIRSI: Tu, se vuoi, puoi fare molto, non hai detto poc’anzi che sei la confidente di
Silvia? E questo è poco secondo te? Sfrutta questa occasione e vediamo se riuscirai a
convincere Silvia ad accettare l’amore del giovane.
DAFNE: Mi dai proprio una bella responsabilità; io ci provo, sui risultati non posso
pronunciarmi, perché quella lì è un tipetto ... sapessi tutta impettita, ha una lingua poi
che potrebbe attorcigliarsela attorno, però ti prometto che almeno le parlerò!
TIRSI: Lo sapevo che potevo contare sul tuo aiuto! Ma mi raccomando, fai presto, ne
va della vita di Aminta.
213
DAFNE: Ma come sei drammatico! Non esageriamo, per una passioncella di un
imberbe pare che il mondo vada a fuoco.
TIRSI: Dici così, perché non lo conosci e perché non ha raccontato a te quello che so
io.
DAFNE: Ti ho detto che avvicinerò Silvia e lo farò, però non portarmi fretta: Dammi
tempo, fammi organizzare bene la cosa. Dunque devo riconciliare Silvia con Aminta ...
Aminta ... ma chi sarà mai questo Aminta, lo sai che ancora non sono riuscita a capire
chi sia.
TIRSI: E’ da tanto che ti sto a parlare di lui e tu neanche lo conosci. Aminta è il figlio
del dio Silvano, è un giovane accostumato, accorto nel parlare, non un grosso oratore,
ma misurato negli interventi, insomma un ragazzo d’oro e poi un semidio.
DAFNE: Bene, bene! E allora sai che faremo? Io avrei pensato a questo piano,
innanzitutto le parlerò e al di là di quello che mi dirà e dei risultati delle mie parole, che
facciamo incontrare i due giovani presso questa fonte. Anche lei viene spesso qui per
specchiarsi, per fare toletta e da cosa nasce cosa e chissà che non trovino la loro intesa.
E che queste acque refrigeranti non diventino miracolosa occasione.
TIRSI: Credo che questo piano non funzionerà, lei è ostinata e poi è più cocciuta di un
mulo! Ad Aminta si era offerta l’occasione che prese anche al balzo; ma è stata proprio
quella maledetta occasione se le cose adesso stanno a questo segno. Comunque, se tu
pensi che questo piano possa funzionare, tentaci e poi vedremo; intanto io preparo
Aminta e cerco di calmare il suo animo agitato. Mi auguro che la tua capacità persuasiva
trionfi (ed esce di scena).
DAFNE: (Da sola e parlando a se stessa) Bene entrerò in azione oggi stesso,
l’aspetterò qui! Anzi ... no ... si è fatto tardi; non credo che possa passare a quest’ora,
andrò via anch’io e rimando tutto a domani. (ed esce di scena)
ATTO II
Scena XIII
Personaggio: Silvia.
(Di buon’ora Silvia armata di unguenti si reca alla fonte, ma ha con sé anche l’arco e
le frecce)
SILVIA: Uffa ... Quanto pesano (e tocca ciò che ha sulle spalle) Ma dove sta scritto che
debba a tutti i costi portare questi armamentari (e poggia arco e faretra a terra ed estrae
da una saccoccia che porta legata in vita delle ampolle, contenenti unguenti) Questi ...
questi ... sono molto più leggeri! E poi sono armi molto più micidiali delle frecce. Vuoi
colpire un uomo? A cosa ti servono le frecce! Basta un velo di cipria (ed estrae dalla
saccoccia un cofanetto contenente cipria e se ne mette un po’) Una goccia di rugiada
profumata, una stilla di unguento e sei più bella che mai! Le frecce non seducono, ti
portano alla morte, possono solo servire per cacciare. (E fa l’atto di togliersi la veste)
Ora mi immergo in quest’acqua refrigerante, già sento su di me la vitalità della selva,
214
l’ebbrezza della natura (e fa per immergere un piede) No ... no ... dopo ... dopo ... ho
pensato, ora raccolgo un po’ di fiori, ne farò un bel po’ ... poi farò una corona per
raccogliere i miei capelli ed una cintura che segnerà la mia vita. (Si mette in giro a
raccogliere fiori e mentre raccoglie) Una viola ... un fiordaliso ... un papavero ... che
bello, il suo rosso dà tanta allegria (e ne fa un fascio) Ah lì ... i gigli ... che splendore..
che candore! Oggi sarò più bella che mai; le mie compagne, quando mi vedranno in
piazza, moriranno d’invidia. (Poi si avvicina di nuovo alla fonte e si specchia in essa,
aggiustandosi civettuolamente i capelli e guardandosi nelle acque.) Però ...
(maliziosamente) madre natura è ... stata generosa con me!
Scena XIII Bis
Personaggi: Dafne, Silvia.
(Silvia è convinta di essere sola e non si è accorta della presenza di Dafne che la sta
osservando e le si sta avvicinando con un passo felpato, divertita nel guardarla.)
DAFNE: (Sorridendo compiaciuta) Ah! Benedetta gioventù! Anch’io alla tua età ero
fiera della mia acerba bellezza.
SILV.: (Volgendosi di scatto) Voi ... (e fa l’atto di gettare i fiori nella fonte e
assumendo un atteggiamento più rude)
DAFNE: (Bonariamente) Che c’è di male ad aiutare la natura con i doni che lei stessa ci
elargisce, per avvalorare di più la nostra bellezza?
SILV.: No ... ma ... io! Sapete ... era la prima volta che ... sapete vi ho spiato tante volte
presso la fonte e mi piaceva osservarvi.
DAFNE: Dai … è la prima volta ... l’ultima volta ... che importa! Dai, sediamoci un po’
... ti devo parlare (e si avviano presso un tronco e Dafne rivolgendosi alla giovane) siedi
(e lei stessa si siede accanto a Silvia guardandola) Vedi ... Silvia ... tu sei proprio bella!
Madre natura con te è stata più benevola che mai! (e senza attendere risposta) ti sei mai
chiesto perché? Sai, nel mondo ogni cosa ha una spiegazione!
SILV.: (Incuriosita) Veramente no! Perché?
DAFNE: Perché, perché ... insomma perché noi donne abbiamo una grande missione da
compiere; abbiamo nelle nostre mani il destino del mondo, il fardello della
procreazione, il rinnovamento dell’umanità!
SILV.: (Quasi spaventata) Dafne ... sono confusa ... non vi seguo.
DAFNE: Seguimi e capirai! Vedi, ogni donna è esca d’amore per un uomo, è la natura
che lo vuole, che ce lo comanda e noi non possiamo disobbedirla. Lei stabilisce che per
ogni individuo ad una certa età scocca l’ora dell’amore e noi non possiamo esimerci da
questa regola! Quindi anche per te è giunta quest’ora. Sai ... c’è chi già arde per te e il
tuo dovere è quello di alimentare, come dire ... questo amore ... questa è la legge della
vita antica quanto il mondo ...
215
SILV.: Sono cose bellissime, ma sono troppo più grandi di me; per ora non conosco e
né voglio conoscere in chi ho suscitato questa fiamma.
DAFNE: Tu lo sai, vuoi far finta di niente e non è giusto per come ti stai comportando,
lui se ne muore. Insomma Aminta non vive senza di te.
SILV: (A questo nome, come se fosse stata colpita da una scudisciata) Aminta ... (e
gridando) Aminta ... cosa vuole questo villano da me? Lui ... mai (e fa per alzarsi ed
andarsene)
DAFNE: Perché sei così ostinata nei suoi confronti? E’ un giovane pieno di buone
qualità.
SILV.: Delle sue qualità non so che farmene ... Io ho le mie cose a cui badare, ho la
caccia, la pesca; mi piace andare in giro, essere libera.
DAFNE: Ora è così ma poi, più in là, sentirai forte il desiderio di un compagno fedele
che ti stia accanto; sentirai il desiderio di bimbetti che ti corrono per casa, che ti
riempiono la vita.
SILV.: Basta! Ne ho fin sopra i capelli! No e poi no! Io non sono come le altre donne e
non finirò mai schiava di un uomo, pronto ad assecondare i suoi desideri, a tenergli la
casa in ordine e ad immortalare il suo nome! Scordatelo! Non voglio finire vecchia, tra
conocchia e telaio; tra poppatoi, fasciatoi, culle e (gridando) tutti gli accidenti delle
donne! Non voglio fare la fine della mia povera mamma che giovane se ne è andata,
quando sono venuta al mondo. Mi bastano le cose che ho. (e piangendo fugge via)
DAFNE: Che cerbiatta selvatica ... ed ora cosa racconterò a Tirsi? Cosa ne sarà di
Aminta? (e parlando al pubblico) Quella ragazza non ha un cuore! Al posto del cuore
ha un macigno! (ed esce di scena).
Scena XIV
Personaggi: Satiro, Silvia.
(Un satiro anche lui innamorato di Silvia, ha assistito da lontano alla scena, e, quando
la ragazza va via fuggendo fregandosi le mani la chiama)
SAT.: Silvia ... Silvia ... dove corri così rapida come un fulmine?
SILV.: Al diavolo! Andate tutti al diavolo! Voi uomini avete tutti la testa bacata (e
continua a incedere a passo sostenuto)
SAT.: Quella lì, dovrà abbassare la cresta! Fa la vezzosa perché tutti gli sguardi degli
sbarbatelli del villaggio sono per lei. Ora poi, da quando quello scimunito di Aminta
non ha occhi che per lei, è diventata arrogante, aggressiva! Ma saprò io come
addomesticarla ... O Silvia ... cosa mai mi fai dire (e addolcisce il tono della voce)
Sapessi, come ardo pure io, per te! E mi devo nascondere, le regole non lo consentono!
Sono troppo vecchio per te! (e ripensandoci) Sono troppo vecchio?
216
Ma chi lo dice ... le regole? ... Le regole poi ... ma che sono ... chi le ha inventate? In
barba alle regole, tu devi essere mia! (e inorridito) cosa dico ... sto farneticando ... non
sta bene ... la morale ... la morale me lo vieta! ... La morale! ma cos’è la morale se non
un insieme di sbagliate abitudini iniziate da rinunciatarie perdenti e seguite
pedissequamente da stolti e deficienti. No ... non ci sto ... non voglio e non so rinunciare
a quello che la natura mi elargisce! Finora non hanno funzionato le attenzioni, i modi
gentili, i fiori, i pomi! Ora ci penserò io. Sarà mia e a modo mio, userò la violenza, se
sarà necessaria! La violenza ... sì ... lei fa la ritrosa perché non vuole passare per una che
ci sta! Io non sono quello sbarbatello e lei non è diversa da tutte le donne. Ah! Le
donne! Sono la più bella invenzione della natura; sono miele e veleno, fuggono perché
sanno che sono inseguite, negano ma vogliono che noi prendiamo, combattono per poi
cedere (e andando via) sarà questa la più bella battaglia da cui porterò via il più bel
trofeo!
Scena XV
Personaggi: Satiro, Silvia.
(Il giorno successivo presso la fonte Gaia arriva Silvia per le solite abluzioni, in
agguato c’è il Satiro che l’aspetta)
SILV.: Ora mi immergo ... (e guardandosi in giro) sì ... sono proprio sola. (e fa l’atto di
togliersi la veste)
SATIRO: (Uscendo allo scoperto) Ah ... finalmente soli! (e le strappa la veste)
SILV.: (Gridando) Via ... brutto villano ... aiuto ... aiuto ...
SATIRO: Non gridare ... non ti servirà a niente! Ora farai a modo mio (e tenendola per
un braccio tira da una saccoccia che porta in vita una grossa corda) vedrai ... (e preso
dall’euforia) questa ci legherà per sempre.
SILV.: (Inorridita) Cosa mi fai? ... Ahi! Aiutoooo .... Mi si fa del male!
SATIRO: No, vedrai che non è così ... (e la lega ad un albero, intanto lei perde
conoscenza e si accascia)
Scena XVI
Personaggi: Silvia, Satiro, Aminta, Tirsi.
(Intanto, richiamato dalle grida giunge sul luogo Aminta che da lontano inerme assiste
alla scena, e fuori di sè, prepara l’arco per colpire il Satiro; insieme a lui c’è pure
Tirsi.)
AMIN.: Ahi! Bestia inselvatichita! Ahi scena raccapricciante ... (e alzando gli occhi al
cielo) Giove! Manda giù i tuoi fulmini e fulminalo! Fulmina anche me, incapace di
evitare questo strazio! (intanto fa scoccare la sua freccia che colpisce il Satiro)
217
SATIRO: Ahi, che fitta! (e si tocca il punto colpito) Bastardo! Chi mi rompe le uova
nel paniere? (e fugge) per ora è andata così, ma non finirà qui!
AMIN.: (Spaventatissimo e pieno di premure si avvicina a Silvia) Silvia ... (e le solleva
la testa con le mani) Oh santi numi è morta! ... Silvia ... Silvia! (singhiozzando) Non è
possibile, non può essere possibile ... Silvia ... apri gli occhi (e lei apre gli occhi) Silvia
... sei viva ... sia ringraziato l’Olimpo (indietreggia e la guarda) Sì, sì, io ti libero, io ti
libererò ! (e incomincia a sciogliere i nodi della corda) Ahi! Canaglia! Bruto ... questa è
la tua prodezza ... Silvia ... cosa ti è successo, perché non parli ... hai forse perduto la
parola? (e continua a sciogliere, mentre lei si divincola per aiutarlo a slegarsi)
farabutto di un Satiro, me la pagherai! La tua prodezza è insidiare le fanciulle,
sorprenderle nelle acque! (e continua a sciogliere) Silvia, piano non divincolarti, stai
buona! Ecco, questo è l’ultimo maledetto nodo! Sei libera ... sei libera ... Ecco Silvia (e
fa per abbracciarla) Ora ... (ma lei fugge) No ... non voglio farti del male!
SILV.: (Con rabbia) Tutti uguali (e senza degnarlo di uno sguardo scappa.)
AMIN.: (Che non è riuscita a fermarla) Santi numi ... venite in mio soccorso.
TIRSI: (Sopraggiungendo affaticato) Lasciala Aminta, lasciala andare; vedrai che
ritornerà a te (ed escono di scena).
Scena XVII
Personaggi: Dafne, Tirsi.
(I due maturi confidenti incontrandosi parlano della storia dei due giovani divenuta
intanto nel villaggio di dominio pubblico.)
TIRSI: Sono molto preoccupato per la sorte del giovane Aminta, dall’infelice episodio
della fonte non si è fatto più vivo! Penso che sai a cosa alludo!
DAFNE: Certo che sì! L’episodio della fonte? E chi nel villaggio non lo conosce? E’
diventato di dominio pubblico.
TIRSI: E di Silvia ne sai niente?
DAFNE: Non si fa vedere in giro se non lo stretto necessario! A qualcuno che accenna
al brutto incidente non risponde! E’ divenuta muta e triste! Non c’è più baldanza in lei!
Povera fanciulla, era lo specchio della felicità! Queste cose segnano!
TIRSI: Certo che segnano, ma Silvia col tempo dimenticherà; ho paura che per Aminta
non sarà così; questa storia lo porta alla tomba.
DAFNE: Non esagerare, ho saputo che si è rifugiato presso il pastore Elpino, e qui triste
più che mai passa le sue giornate.
TIRSI: Questo nome non mi è nuovo! Ma quello che suona la zampogna?
218
DAFNE: Si proprio quello! Questo Elpino di sera in casa sua raccoglie un po’ di gente
che apprezza il suono della sua zampogna e suona per questa. Tutti si divertono, mentre
mi è stato detto che Aminta al suono della zampogna si commuove e piange.
TIRSI: Povero fanciullo! Chissà quanto gli manca Silvia.
DAFNE: Guarda, guarda in quella direzione! Quello non è Aminta?
TIRSI: Sì che è lui, se viene verso di noi, io vado via perché non so proprio come fargli
coraggio, non so trovare le parole e finisco col commuovermi.
DAFNE: Viene proprio verso di noi! Se vuoi andar via, và! Cercherò io di parlargli.
TIRSI: Sì ... sì ... faccio proprio così! Ti saluto mia cara Dafne (ed esce di scena).
Scena XVIII
Personaggi: Aminta, Dafne, Nerina.
DAFNE: Aminta, Aminta caro! ci hai fatto stare in pena, dove ti eri cacciato?
AMIN.: In pena ci sto io! Sono stato un po’ fuori, lontano dal villaggio! Mi sono illuso
di lenire la pena che ho nel cuore, ma non è servito a niente!
DAFNE: Sì lo so che sei stato da Elpino, mi è stato detto.
AMIN.: Sì! Povero Elpino! Ha fatto di tutto per vedermi meno triste! Ho avuto
un’accoglienza impareggiabile, cibi buoni, vino ottimo, sveglia al suono della sua divina
zampogna! Ho ancora quella dolce melodia nelle orecchie e nel cuore.
DAFNE: Ed allora perché hai lasciato quella casa, se ci stavi così bene!
AMIN.: Perché ... perché ... non lo so neppure io perché! Perché ho pensato che il mio
posto è qui, altrove mi sento un estraneo e poi lontano da qui mi sembra di aver perduto
per sempre la mia battaglia.
DAFNE: Ma è sempre a lei che pensi?
AMIN.: E a chi se non a lei?
(mentre i due discorrono, si avvicina a loro correndo, Nerina, una ninfa, una
sacerdotessa di Diana sconvolta e con un velo macchiato di sangue)
NERINA: Una cosa tremenda! ... Una cosa terribile ... è stata sbranata ... è stata
sbranata ... dai lupi. (ed è agitatissima).
DAFNE: (Tentando di calmarla) Chi ... chi ... per amore del cielo ... calmati ... calmati,
Nerina. Chi è stata sbranata ...?
219
AMIN.: (con il cuore in gola) I lupi ... sbranata ... dei dell’Olimpo, fate che non sia la
mia Silvia!
DAFNE: (Al giovane) Calmati pure tu, cosa c’entra Silvia? E ... tu Nerina ... fammi
capire di chi si tratta! Chi è stato sbranato?
NERINA: (Mostrando il velo e con la voce rotta dal pianto) Silvia!
AMIN.: Silvia, Silvia ... Amore ... Amore mio perduto! (e le strappa di mano il velo) Sì
... lo riconosco! E’ il velo di Silvia, della mia Silvia! ... Ma tu come ce l’hai?...Chi te
l’ha dato? E poi sporco di sangue ... sì ... sì è stata sbranata ... (e dà segni di pazzia,
sviene)
DAFNE: Oh santissimi numi ... mancava solo questa! Ma tu Nerina, racconta, racconta
in fretta! Può darsi che non sia così! Può darsi che stia solo in difficoltà.
NERINA: No ... l’ho vista con i miei occhi ... è stata sbranata ... che scempio! (e
racconta tutto d’un fiato) dopo il triste episodio della fonte, nuda si è rifugiata da me ed
io le ho dato una veste; lei è fuggita, l’ho inseguita e abbiamo raggiunto il covo dei
pastori, lì si banchettava; ma improvvisamente è apparso un lupo, un lupo famelico, lei
come un fulmine lo ha colpito con una freccia alla fronte e pazza si è data al suo
inseguimento. Ed io a gridare ... cosa fai?! dove vai? è pericoloso ... e lei ... lo devo
finire perché ora lui è un pericolo pubblico e correndo impavida si perde, dietro al
malvagio in luogo impervio; mi addentro pure io, la perdo di vista, seguo la sua orma e
poi ... non sento più niente! Ma, davanti a me! Ahi occhi perché non eravate ciechi!
Perché avete sopportato vedere simile scena, simile crudeltà. Ahi! al pensiero, quella
scena raccapricciante è ancora qui (e si tocca gli occhi) stampata sulle mie pupille! Vedo
una muta di lupi che avidamente mastica ancora qualcosa ... non ho capito cosa ... erano
resti non so se umani o di animali e a terra un grosso lago di sangue in cui si continuava
a leccare e accanto il velo di Silvia che ho raccolto e inorridita sono fuggita ed eccomi
qui.
DAFNE: (Concitata) E’ mostruoso quello che racconti, ma può darsi che non sia Silvia
la malcapitata ... o Giove! ... o sommo Giove! ... fa che non sia così! Fa che quella muta
famelica, abbia sbranato una belva! E se così non fosse? ... Sì ... sarà così! ... il cuore mi
dice che Silvia è viva!
NERINA: E il velo ... il velo perché lì ... proprio lì no ... Silvia non può essere viva.
DAFNE: Zitta ... zitta ... pensiamo per il momento ad Aminta (e tenta di soccorrere
Aminta) Aminta! Aminta! per amor del cielo ... svegliati! ... riprendi coscienza!...
AMIN.: Dove sono ... cosa mi è capitato ... (e guardando il velo che stringe) Il velo ... il
velo di Silvia ... Silvia ... dove sei!
DAFNE: Calmati ... forse c’è ancora qualche speranza!
NERINA: Forse è vero! Il velo è suo, ma non l’ho vista addentata dai lupi.
AMIN.: (Fuori di sé) Silvia ... dove sei ... verrò a liberarti dovunque tu sia a costo di
pagare con la vita mia la tua! (e fugge via)
220
DAFNE: Ma non potevi essere più cauta? Ed ora cosa succederà? Speriamo che questa
testa calda non faccia una sciocchezza.
NERINA: Non sapevo, non potevo prevedere la reazione di Aminta! (e sta per uscire)
ed ora cosa succede? (e va via)
Scena XIX
Personaggi: Dafne, Silvia.
(Ma improvvisamente in piazza arriva Silvia quasi priva di coscienza, sporca di sangue,
farfugliando, senza forze e con il respiro affannoso)
SILV.: Ahhhh ... Ahhhh. (e sta per stramazzare a terra)
DAFNE: (Correndo in suo soccorso) Silvia ... Silvia sembri l’ombra di te stessa ... o
Zeus, sia tu benedetto! ... Tu qui ... Tu viva! Ma allora ... quel sangue ... quella veste!
Ah maledetta Nerina! ...
SILV.: Perché Nerina è stata qui? Mi ha preceduta? E allora è fatta! Ha raccontato
quello che lei ha visto! Vi ha detto del covo dei lupi ... della mia morte raccapricciante.
DAFNE: Ma allora qual’è la verità? Cosa è veramente accaduto?
SILV.: Dafne, Dafne cara, l’ho scampata bella! Sono stata sul punto di essere sbranata
per davvero! Che orrore! Al solo pensiero ho la pelle d’oca, la pelle mi si accappona!
Nerina, inseguendomi ha visto il sangue in cui si abbeverava quella terribile orda di lupi,
ma il sangue non era mio, era di una belva da loro stessi uccisa che miracolosamente ha
stornato la crudele attenzione del lupo da me colpito; questi si è unito agli altri
partecipando a quel banchetto, ed io ne ho approfittato e sono fuggita.
DAFNE: Allora, se ho ben capito, Nerina è arrivata quando tu già eri fuggita dai lupi,
ma il velo, il tuo velo ora ce l’ha Aminta! perché Nerina senza ritegno, sconvolta
com’era, quando ha raccontato della tua presunta morte, non ha fatto caso alla presenza
di Aminta.
SILV.: Il velo da lei raccolto è mio ... trovato lì, perché nella fuga l’ho perduto, mi si è
impigliato in uno spino; lì c’erano tanti rovi!
DAFNE: Oh Silvia (e l’abbraccia) Sono felice per te, ma di Aminta cosa sarà? Lui al
racconto di Nerina, le ha strappato di mano il velo e via come un fulmine; mi auguro che
non commetta pazzie! No ... questa volta era troppo deciso! Nessuna cosa lo fermerà!
SILV.: Deciso ... ma di cosa parli? Parla! ... sii chiara!
DAFNE: Silvia ... Silvia ... sei stata troppo pazzerella ... non mi hai voluto dare ascolto!
Ora è troppo tardi … Aminta non ha retto a saperti morta, ed è andato a consumare
chissà dove il suo proposito di morte!
221
SILV.: No ... atroce destino ... Dafne ... Dafne ... mettiamoci alla sua ricerca ... non è
possibile ... non potrà essere possibile ... Aminta morto per me! Aminta ... Aminta caro
... Sento che sei vivo ... questa volta sarò io a salvarti ... Se il tuo cuore batte ancora per
me, sente, deve sentire, deve ascoltare queste parole ... questa volta sono io che ti vengo
incontro! (e fugge seguita da Dafne)
ATTO III
Scena XX
Personaggi: Il nunzio Ergasto, la folla, Silvia.
(Intanto nella piazza del villaggio si sente un suono di corno ed è qui che si raduna una
folla incuriosita)
PAST. 1: Cosa c’è? cosa c’è? (accorrendo)
PAST. 2: Vediamo! vediamo! certamente questo suono non annuncia niente di buono.
PAST. 3: Come lo sai? sentiamo! sentiamo!
PAST. 4: Guarda, guarda lì! E’ Ergasto che giunge; a guardarlo sembra stravolto! Che
non sia successo qualcosa di grosso.
ERG.: (Di corsa, col fiatone e con il corno in mano) Gente ... è successa una tragedia!
Una cosa orrenda! Io stesso ne sono testimone.
PAST. 1: Per tutti i numi! Cosa c’è ... racconta ... non tenerci sospesi!
ERG.: Aminta, il buon Aminta ... si è barbaramente ucciso, si è tolto la vita! Che scena
atroce ... io ero lì e non l’ho potuto evitare! Quando l’ho visto gettarsi nel vuoto, ho
tentato disperatamente di fermarlo! Ma non ci sono riuscito ... la sua camicia ... ho
ancora un lembo della sua maledetta camicia in mano! (e la mostra) la camicia era di
seta e mi è scivolata di mano. Povero fanciullo!
PAST. 2: Spiegati meglio, cosa è accaduto ad Aminta? dove si è ucciso? e il suo corpo
dov’è?
VOCI: Ma perché morire? ... cosa lo ha spinto a morire?
PAST. 3: Calma ... calma, silenzio, state buoni ... cerchiamo di capire ... facciamo
parlare Ergasto.
ERG.: Aminta, fuori di sé, in mia presenza si è gettato dal colle della morte ed io
inerme, sono stato testimone di questo insano gesto! (e mentre racconta accorre più
gente tra cui Silvia) lui, lanciandosi nel vuoto, a gran voce mi ha detto di raccontarlo a
tutti; queste sono le sue ultime parole, parole che mi risuonano ancora nelle orecchie:
“la mia vita non ha senso senza Silvia” e a questo nome giù per sempre!
222
SILV.: (un grido) Aminta, folle ... (e si accascia, ma è sorretta dalla gente).
ERG.: (Che ha raccolto l’ultima parola) Sì! Folle, folle d’amore per te! (e rivolto a tutti
riprende il racconto) Lui era giunto su questo colle dove era solito andare a caccia fuori
di sè, dove poco prima ero arrivato pure io; mi ha pregato di seguirlo e, giunti sulla parte
più alta di esso, proprio sul precipizio, col volto già di morte, come se le Erinni stessero
pronte a rapirlo, fa un salto e librandosi nell’aria come uno sparviero, giù nel precipizio
... ed ora ahi! Al solo pensiero che le sue teneri carni siano lasciate al ludibrio di schifosi
vermi, provo un misto di orrore e di rabbia. Povero fanciullo ... neppure le esequie ...
sarà privato finanche delle esequie.
(la folla quasi in tumulto, chi va via, chi recriminando, chi spaventato lascia la piazza,
resta Silvia da sola che piange dirottamente sostenuta da Dafne)
Scena XXI
Personaggi: Silvia, Dafne.
SILV.: Me infelice, i giorni che mi restano da vivere non mi basteranno per piangere
Aminta!
DAFNE: Su, su non fare così; riprenditi, sei stata sempre forte.
SILV.: Il rimorso come una serpe già si insinua nel mio petto, come un fuoco che non
mi dà pace, come una furia che tutta mi prende! E perché lasciarmi morire. sarò io ad
andare incontro alla morte, sarò io che l’affronterò e così almeno nell’aldilà raggiungerò
il mio amato Aminta! Così farò; Aminta, se vita non ci ha uniti ... morte ci unisce. (e
fugge seguita da Dafne)
Scena XXII
Personaggi: Ergasto, Pastori, Elpino, Tirsi.
(Sulla piazza è calato un silenzio sinistro, un silenzio di morte, improvvisamente
interrotto da un suono di corno; è Ergasto che arriva a portare una nuova novella)
ERG.: Gente! Uscite dalle vostre caverne, il suono del mio corno è venuto ad
annunciarvi una lieta novella (e suona due tre volte il corno) Accorrete, accorrete gente!
(e intanto la piazza si anima) questo corno poc’anzi ha suonato sinistramente! Ora
invece è esultante come esultante sono io, perché viene ad annunciarvi la lieta novella
della favola bella, l’eterna favola dell’amore che vince la morte, l’amore che vince il
male e lo disintegra.
VOCI: (Tumultuando) Che storia è questa? Ergasto, parla e va via, rispetta il lutto che è
piombato sul villaggio, o almeno che Elpino intoni un canto dolce e melanconico per
ricordare il caro e indimenticabile Aminta.
ERG.: E lo farà, miei cari amici, ma il suo sarà un canto gioioso per celebrare il
miracolo dell’amore.
223
PAST. 1: Ancora misteri nelle tue parole, sii chiaro, di che miracolo parli! Il nostro
cuore è gonfio di dolore! La morte di Aminta ha sconvolto la nostra vita, di noi Arcadi,
dell’Arcadia tutta, di questa terra nota per la sua pace ed ora sconvolta dal terribile
spettro del suicidio e per sempre macchiata di sangue!
ERG.: Pazientate, c’è chi più di me e meglio di me vi parlerà del miracolo avvenuto (e
chiama Elpino) Elpino ... Elpino, racconta quello che a me incredulo hai raccontato ...
racconta come il fiele possa diventare miele, il pianto diventare sorriso, come il lutto
trasformarsi in festa.
ELP.: Sì è vero ... è successo tutto questo ... ascoltate! ... Aminta è vivo e giace tra le
braccia della sua amata Silvia! Questo è il miracolo di cui parla Ergasto.
PAST. 1: Ma allora ... il burrone ... il volo di Aminta ... sono folli invenzioni? ... che
macchinazioni sono mai queste! ... Perché sconvolgere così sinistramente il villaggio?
ELP.: Queste cose ..., ascoltate, ... abbiate la pazienza di ascoltare ... non sono
invenzioni ... sono vere! Ed Ergasto non vi ha mentito nel raccontarvele! Lui stesso ne è
stato testimone! Credetemi, la sorte ha strappato miracolosamente Aminta a morte
sicura ... io vi narrerò quello che a lui ho narrato prima di giungere a voi e così saprete
come si è avverato questo miracolo ... ed io ne sono testimone, ma più di me i due
giovani amanti.
PAST. 2: Ma allora cosa è veramente successo? Narra, non tenerci sulle spine!
ELP.: Io me ne stavo lì, nel mio capanno e con me Tirsi, da me giunto per soccorrere
l’infelice Aminta, quando tutto ad un tratto si sente un tonfo ... un sordo tonfo ... fuori ...
incuriositi ci siamo precipitati fuori e proprio nel folto della siepe che circonda il mio
capanno, giaceva il corpo di Aminta ... Aminta che si era gettato a capofitto nel
precipizio.
PAST. 3: E non sarebbe morto? C’è sotto una stregoneria!
ELP.: No … per favore ... ascoltate! Cadendo si è miracolosamente imbrigliato nella
folta boscaglia; il destino aveva deciso per lui e così lo ha prodigiosamente strappato a
morte sicura. Noi, spaventati ed inorriditi ci siamo aperti un varco a fatica e accostati a
lui. Il corpo pareva giacesse senza vita ... lo abbiamo sollevato, adagiato lentamente su
di un giaciglio, ma nessun segno di vita ... né un lamento ... il suo corpo era malconcio;
ferite sparse dappertutto. Poi, come per miracolo ... un rantolo ... un sordo rantolo venne
fuori dalle sue livide labbra ... era vivo ... Tirsi in un attimo ha portato qui Alfesibeo, il
pastore medico; ma più che le arti mediche, poterono le lacrime di Silvia.
PAST. 1: Silvia? ... Che c’entra Silvia, dov’era Silvia?
ELP.: Ascolta ... Le lacrime di Silvia, lacrime d’amore che hanno riportato in vita
Aminta. Silvia era lì arrivata di furia informata per tempo.
PAST. 2: Ma questo racconto sa di immaginifico ... un morto tornato in vita per le
lacrime di una donna! Mai sentito ... Queste sono cose inaudite! (Con atteggiamento di
incredulità)
224
TIRSI: (Gridando) E’ vero, sono testimone di tutto quello che Elpino ha raccontato. Le
lacrime di Silvia hanno potuto questo perché erano lacrime d’amore, l’Amore quando è
forte, quando è grande, quando è vero non conosce ostacoli ... vince anche la morte!
Scena XXIII
Personaggi: Alfesibeo, Elpino.
(Intanto una voce si alza dalla folla, è la voce di Alfesibeo medico del villaggio)
ALF.: (Accorrendo e gridando) E’ vero! Posso più di tutti testimoniarlo anch’io.
ELP.: (Rivolto alla folla) Fate largo, fate largo! (E rivolto al medico) Alfesibeo, vieni ...
sali sulla tribuna e narra!
ALF.: (Sale sulla tribuna) Amici, voi tutti conoscete la valentia delle mie arti mediche!
(E con enfasi) E chi in Arcadia, in questo paradisiaco angolo del mondo non ha sentito
parlarne? Ebbene, io insieme ad Elpino, ero lì accanto al corpo privo di vita di Aminta,
accorso a strapparlo alla morte, ma le bende incerate, gli unguenti odoriferi, gli infusi di
erbe medicamentose da me al suo corpo praticati, a nulla valsero. Lui era lì giacente,
sordo ad ogni richiamo, ad ogni aiuto che la natura gli offriva. Ma, proprio quando ogni
tentativo sembrava inutile, ecco, prima la voce, poi le lacrime, poi le carezze, poi i baci,
i dolci baci di Silvia che per incanto lo riportarono alla vita. Silvia, lì accorsa, chiamata
dal vento e come furia, si avventa su quel corpo privo di vita, bagnandolo con le sue
lacrime che come fiume in piena sgorgavano dalle sue ciglia inondando quel corpo che
lentamente ritornava alla vita. Ed io ero lì, sbalordito a chiedermi cosa avessero quelle
lacrime. Quelle lacrime avevano qualcosa di misterioso, di divino, di miracoloso e sono
arrivate dove la scienza non ha potuto e ... meraviglia delle meraviglie ... quelle lacrime
hanno svegliato Aminta dal sopore della morte! Ed egli, svegliandosi lentamente dal
sonno profondo, mentre riceveva baci della giovane, con essi ritornava alla vita, a quella
vita che prima rifiutava. Ma (a questo punto si sente una dolce melodia d’amore) Più
che le mie parole ve lo diranno anche le note della struggente melodia di questi versi.
Scena XXIV
(Coro)
(Miscellanea di versi)
Scena XXV
Personaggi: Silvia, Aminta, Cupido.
(Al termine della recita dei versi, Aminta e Silvia, legati in vita da una corona di rose e
guidati da Cupido, fanno la loro apparizione in scena.)
CUPIDO: (Sorridente) Ecco i protagonisti di questa mirabile storia d’amore.
225
SILV.: Ed io, vinta dalle pene d’amore del mio Aminta, faccio solenne giuramento che
questa dolce catena (toccandola) a lui mi unirà per sempre.
AMIN.: O Silvia, il tuo amore saprà ripagarmi dei miei sospiri?
SILV.: Mio giovane amante, in Amore non c’è peso né misura; ma solo una voglia
sempre nuova di vivere uno accanto all’altro, l’uno per l’altro e insieme percorrere il
percorso da esso tracciato ricoperto ora di spine, ora di rose e bagnato ora di amaro, ora
di dolce e così all’infinito.
Canzone e ballo.
FINE
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Rappresentazione de “Il ritratto di Melusina”
Anno Scolastico 1997/98
Dalla raccolta “L’amata alla finestra”
Il ritratto di Melusina
di Corrado Alvaro
ATTO I
In una casa di media borghesia c’è aria di baccano; infatti il padrone di casa, lo
scrittore Corrado Alvaro ha deciso di trasferirsi altrove, dal suo paese natio di S. Luca
di Reggio andrà a vivere a Milano e per questo vende parte del mobilio ad un
antiquario di quelle parti e per il momento pensa tenersi solo la casa, lasciandola
chiusa, forse perché in cuor suo non se la sente di chiudere per sempre col suo passato.
La casa, è a soqquadro, in maniera particolare la stanza da pranzo, cosparsa di
scatole, scatoloni, mobilio mezzo smontato, di attrezzi da falegnameria; in essa tre
facchini fanno pacchi, imballano mobili e litigano tra loro.
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Scena I
Personaggi: Tonio, Genesio, Vincenzino.
Tonfo: Piano, piano... fai piano... (all’amico Genesio) (tutti sono impegnati a smontare
i piedi di un prezioso tavolo).
Genesio: Ehi ... come sei meticoloso ... più piano di così si muore, ma che è di cristallo?
(e fa cadere rumorosamente un lato del tavolo).
Tonio: Ma hai deciso di lavorare in eterno senza mai vedere un centesimo? Bada che se
quella carogna del nostro padrone si accorge che questo tavolo ha un solo graffio da noi
procurato durante il trasporto, non si fa scrupolo non solo di non darci la paga
settimanale, ma pretenderà addirittura che ne pagherai i danni; quello è capace di citarti
per i danni.
Genesio: Ehi, quanto la fai lunga ... e chi se ne impippa ... vuol dire che mi licenzio e
buonanotte agli amici.
Tonio: Senti, parla per te! Perché io non intendo perdere il mio lavoro; è vero chi il
nostro padrone è una sanguisuga, ma è sempre meglio di niente. Se perdo questo lavoro,
poi porterò alla tavola tua moglie e figliuoli miei?
Vincenzino: (mentre è preso dall’ammirare un quadro che pende da una parete) E
piantatela con queste litanie! Su smettetela e pensate a fare in fretta ... abbiamo perduto
già tempo abbastanza e il nostro lavoro è pagato a cottimo.
Genesio: Ed è quello che dicevo e questo se ne viene (con ironia) col piano ... lentamente ... e via dicendo! Così facendo, arriveremo a guadagnarci il tozzo di pane per la
vecchiaia!
Tonio: (infastidito) Sentite ... mi avete proprio infastidito con queste chiacchiere inutili
... abbiamo perduto quel poco di tempo che eravamo riusciti ad anticiparci. Perciò,
acqua in bocca e riprendiamo il nostro ritmo.
Genesio: (Mentre Vincenzino è preso completamente dal magnetismo sprigionato dallo
sguardo della ragazza ritratta nel quadro) Ehi ... me acqua in bocca (alterandosi) non
me l’ha detto ancora nessuno e tu proprio non saresti il tipo adatto dirmi certe cose. (e si
fa cadere intanto il tavolo di mano e minacciosamente si avvicina al compagno di
lavoro).
Vincenzino: (Lasciando il suo lavoro e fa per intervenire tra i due) Ma la volete
smettere? ... ora state proprio esagerando (e rivolto a Genesio) tu tieni la lingua a posto!
(e rivolto a Tonio) e tu non essere troppo meticoloso! Litigare tra noi poveri cristi, non
funziona! I ricchi vanno sempre d’accordo e le studiano tutte per andarci a ... e noi
invece litigando facciamo il loro gioco!
Genesio: (burlandolo) Sta parlando il sindacalista! Dai che se solo quello sparviero del
nostro padrone accenna a farti un minimo di rimprovero, tu ammutolisci come un pesce
e ti cali subito i calzoni ed ora ci vuoi tenere la predica?
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Vincenzino: (facendo segno con la testa) E che avrei le pigne in testa? Purtroppo per
non perdere il mio pane, faccio come tu dici e continuerò a fare così e farei ancora di più
e non me ne vergogno.
Genesio: E bravo il lecchino! La tua è proprio una bella lezione di lecchinaggio!
Vincenzino: (alterandosi e con un fare minaccioso) Io ... lecchino? Rimangiati quello
che hai detto! Io sono una persona che fa di tutto per conservarsi il proprio lavoro!
Genesio: (sdrammatizzando e quasi ridendo, accortosi di avere esagerato) Ma ... come
sei permaloso! Io non volevo dire ... volevo solo ...
Vincenzino: Rimangiati quello che hai detto ... oppure ... per quanto è certo Iddio ... da
qui ...
Tonio: (intervenendo) Ed ora siete voi che state esagerando (e rivolto a Genesio)
possibile che sputi fuori tutto quello che ti passa per la mente senza rifletterci? Ora stai
superando ogni misura! Ti conviene chiedergli scusa perché il sacco per oggi lo hai
bello e riempito.
Genesio: (accondiscendente) Questa volta lo so che mi sono lasciato prendere la mano e
so di aver sbagliato; quindi anche se non me lo avessi detto tu, lo avrei fatto comunque!
(e rivolto a Vincenzino) ho sbagliato e me ne scuso! Ma a me le prediche! non
piacciono! Io sono un istintivo ... non so tenere peli sulla lingua e per questo spesso
esagero, facendomi tanti nemici.
Vincenzino: (dandogli una pacca sulle spalle) Non ci pensiamo più e riprendiamo il
nostro lavoro, senza lasciarci distrarre da niente.
(I tre riprendono il loro lavoro: Vincenzino stacca dalla parete il quadro ed inizia ad
imballarlo ma lentamente perché si lascia prendere sempre dallo sguardo della ragazza
raffigurata, mentre Genesio e Tonio a smontare i piedi del tavolo. Improvvisamente
appare in scena lo scrittore Corrado Alvaro.)
Scena II
Personaggi: C. Alvaro, Vincenzino, Tonio, Genesio.
(Lo scrittore in veste da carnera e con un atteggiamento di compiacimento appare in
scena osservando i tre lavorare, ma dopo qualche secondo interrompe il suo silenzio.)
Alvaro: Bravi! Proprio bravi!
I tre: (Rivolgendosi sorpresi verso di lui e alzandosi) Buongiorno, buongiorno Don
Corrado!
Alvaro: Buongiorno, buongiorno ragazzi, continuate il vostro lavoro.
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Tonio: Forse siamo stati troppo rumorosi e vi abbiamo svegliato! Ci dispiace se questo
è accaduto! Poco fa ci siamo scambiati anche qualche chiacchiera di troppo e questo vi
avrà certamente svegliato.
Alvaro: No, no; non datevene pensiero, non mi avete affatto svegliato voi! Quando siete
arrivati, io ero già sveglio! Ero nell’orto! Ah questa casa quando sarò a Milano
certamente mi mancherà. Ogni mattina, di buon’ora è mia abitudine, prima di sedermi
alla mia scrivania, entrare nell’orto, mi piace sorbirmi la mia tazzina di caffè lì
all’aperto, bighellonando un po’. Questa innocente mania mi dà carica ed è un’abitudine
che mi trascino dietro da sempre, forse da quando ero bambino. Ricordo che allora, una
volta sveglio, subito mi precipitavo lì e mia madre, a voglia di sgolarsi che dovevo far
colazione, che facevo tardi a scuola. Io niente, ero irremovibile, lì volevo fare colazione
e lì costringevo mia madre a portarmela; io mi sedevo davanti ad un piccolo tavolo ed
era lì che consumavo la mia colazione e poi di corsa a scuola. Certe cose restano
inalterate nel tempo e noi non riusciamo mai ad isolare nell’adulto il bambino che
sonnecchia in noi.
Genesio: (a don Corrado) Poc’anzi, entrando ci avete dato del bravo, ma di cosa? E per
quale motivo?
Alvaro: Si è vero e non so neppure io come il discorso sia scivolato su di un argomento
così diverso che mi ha allontanato del tutto dal mio proposito iniziale! Ho detto che
siete bravi e lo ripeto perché mentre lavoravate, vi ho osservato con attenzione ed ho
scoperto che lavorate con precisione e scrupolo e poi, prima di entrare in questa stanza
sono stato in quella accanto, dove avete depositato il grosso del mobilio e le suppellettili
da voi imballate con cura. Ho notato che avete separato con tanta precisione gli oggetti
che mi accompagneranno nella mia nuova dimora dal mobilio destinato, mio malgrado,
a doverlo cedere in vendita. Questa cosa mi attanaglia il cuore, alcuni di quei pezzi sono
ricordi di famiglia e mi allontano da essi con dispiacere; ma la mia nuova casa non è per
niente grande e per questo sono costretto a disfarmi di tante cose. Purtroppo le case di
città sono piccole, o forse troppo piccole per noi abituati a queste grandi case di
campagna. Ho notato che avete deposto con estrema accortezza la cristalleria, i servizi
di ceramica, chiudendo ogni pezzo nell’ovatta per poi sigillarlo e segnando con molta
evidenza oggettistica fragile.
Tonio: Vi ringraziamo che avete riconosciuto ed apprezzato la serietà con cui lavoriamo! La nostra serietà e la nuova tecnica di imballare, unica in tutta la Calabria ci
rende molto appetibili e molto richiesti non solo dalle nostre parti, ma anche altrove.
Genesio: E poi il nostro modo di lavorare così ci viene quasi imposto dal nostro
beneamato datore di lavoro (con ironia). Lui è un tipo collerico e scorbutico! Basta un
nonnulla sul lavoro e, bene che ti vada, non ti sospende la paga per un po’ di tempo; lui
è un tipo che non va per le lunghe, lui ti licenzia e lo fa senza troppe cerimonie.
Alvaro: (sorpreso) Veramente è così?
Tonio: Purtroppo sì! Si comporta così!
Alvaro: Ma chi è il vostro datore di lavoro? È di queste parti?
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Genesio: No, non è di questo paese è di Papasidero, normalmente la gente di lì è nota
per la sua magnanimità; ma lui purtroppo fa eccezione alla regola; lui è della peggiore
risma di questo mondo, lo chiamano l’avvocato mancato per soprannome; è un Galina,
si chiama don Alfonso Galina.
Alvaro: Galina ... Galina (e fa l’atto di ricordarsi) questo cognome non mi è del tutto
sconosciuto.
Tonio: Si il padre, don Giulio Galina aveva una farmacia proprio al centro del paese;
faceva il farmacista, ma non aveva il titolo di studio adatto e, per quello che ne so io,
così la gente dice, era un droghiere. Lui aveva posto tutte le sue speranze in questo
figlio, unico figlio maschio e venuto per di più dopo otto femmine. Costui era destinato
a studiare farmacia. Ma pare che avrebbe trovato questi studi troppo difficili e per un
determinato periodo di tempo si sarebbe allontanato anche da casa, poi riprese gli studi
riscrivendosi all’università, cambiando facoltà, scegliendo legge. Ma neppure questa fu
la scelta giusta e così interruppe bruscamente gli studi senza volerne più sapere e da ciò
l’appellativo di avvocato mancato. Il padre non resse a lungo al grosso dispiacere e, dice
la gente, morì di crepacuore.
Alvaro: Ah sì, sì! ora che mi avete raccontato, rammento; il padre era stato compagno
di studi di mio padre, e poi pare che lì a Papasidero, proprio di fronte alla chiesa
dell’Incoronata tuttora c’è una drogheria, ora che ci penso, io ero bambino e sono
entrato anch’io in quella farmacia insieme a mio padre.
Genesio: Si, è così, la farmacia di un tempo è ora una drogheria; all’inizio, dopo la
morte di don Giulio, fu gestita dalla moglie, donna Dorotea, una donna di Girifalco,
dicono una gran donna che, rimasta vedova, si abbracciò la croce di otto figlie da
maritare.
Alvaro: A volte le donne sanno fare meglio degli uomini e sono certamente meno
vulnerabili di noi uomini nelle sventure. Ma ora riprendete il vostro lavoro, vi ho
distolto già troppo dai vostri impegni.
Tonio: (a Genesio) Interrompiamo per il momento di smontare il tavolo ed entriamo
nell’altra stanza, voglio controllare se tutto è stato imballato per bene (i due escono di
scena).
Scena III
Personaggi: Alvaro, Vincenzino, Concetto.
Alvaro: (rivolgendosi a Vincenzino) E tu cosa hai imballato così bene ? sembra proprio
che si tratti di un quadro, stando alla forma.
Vincenzino: Ed è proprio così! È un quadro, un quadro che mi ha tanto incuriosito,
(mentre tocca e colloca in un angolo il pacco) un quadro che mi ha lasciato dentro
qualcosa ... che non so descrivere.
Alvaro: (incuriosito e poi come se avesse intuito per cui prima a bassa voce, poi a voce
alta)
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Melusina! (poi guardando verso la parete dove esso era collocato) il quadro di
Melusina! ... Il quadro non è più là. No ... no ... ! Che sia rimesso dov’era. (e si avvicina
al quadro e lo inizia a scartare).
Vincenzino: (quasi intimorito) Io ... io ... non sapevo ... Signore si calmi l’aiuterò io ...
non si agiti!
Alvaro: (quasi non ascoltandolo chiama) Concetto ... Concetto.
Concetto: (suo cameriere fa la sua apparizione in livrea) Maestro, maestro, mi ha
chiamato, in che posso servirla?
Alvaro: Ecco! Allora a nulla è valso preparare con anticipo la lista degli oggetti: mi
sembrava di essere stato chiaro, per evitare equivoci avevo tenuto a precisare di voler
separare quelli da imballare e inviare nella mia nuova dimora da altri destinati alla
vendita ed escludere dall’imballaggio gli oggetti che dovranno viaggiare con me: di
quelli mi occupo personalmente io!
Concetto: Ma signore, ho predisposto personalmente che tutto si facesse secondo i suoi
desideri.
Alvaro: Ed allora come è potuto accadere che Melusina, il ritratto di Melusina sia finito
tra le cose imballate?
Concetto: Mi sembra strano perché l’altro giorno, quando è venuto l’antiquario Galina a
visionare il mobilio destinato alla vendita, lei non c’era, io ho pattuito, come lei aveva
raccomandato, il prezzo della vendita solo dei pezzi da lei contrassegnati con un
cartellino giallo. Anzi, ed io per evitare disguidi, mi sono permesso di apporre su oggetti
e mobilio destinato alla casa nuova, quelli che lei ha deciso di inviare tramite ferrovia un
cartellino rosso, gli altri oggetti non hanno avuto nessuna segnalazione. Per essere
preciso riprendo la lista che lei mi consegnò giorni fa (ed esce, ma ritorna subito con un
foglio che presenta ad Alvaro).
Alvaro: Ed allora questa lista?
Concetto: Eccola ! è qui con me, vede signore ... legga (e leggono a bassa voce) Ha
visto? Ricordavo bene tutto per filo e per segno! Il ritratto di Melusina figura tra le cose
non segnate. Anzi, l’altro giorno, quando l’antiquario ci ha fatto visita per stabilire le
modalità della compravendita, era in compagnia di un giovanotto a cui personalmente
ho consegnato copia della stessa lista! Il giovanotto di cui parlo penso che dovrebbe
essere qui, impegnato nei lavori di imballaggio.
Vincenzino: Nella stanza accanto dove stiamo depositando mobilio e cose imballate, ci
sono due miei colleghi, ci sono Genesio e Tonio.
Scena IV
Personaggi: Concetto, Vincenzino, Tonio, Alvaro, Genesio.
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Concetto: (e con un fare di chi ricorda) Tonio! pare che così si chiamasse il giovanotto
a cui avrei consegnato la lista.
Vincenzino: (a gran voce) Tonio, Tonio, vieni, vieni; qui ti cercano.
Tonio: (seguito da Genesio) Che gridi, cosa c’è?
Concetto: È vero che le ho consegnato l’altro giorno la lista degli oggetti da imballare,
con due elenchi, separando gli oggetti da vendere al suo datore di lavoro da quelli da
inviare nella casa del maestro?
Tonio: Sì è vero, ce l’ho qua con me! (ed estrae da un taschino un foglietto) ma è giusto
che mi venisse consegnato un qualche cosa che mi desse delle indicazioni per poter
lavorare, non ci vedo nulla di strano in tutto questo. Mi permetta di aggiungere che ho
trasmesso queste indicazioni anche ai miei compagni di lavoro!
Alvaro: Si vede che esse non sempre sono state rispettate.
Tonio: Perché, cosa è successo? Non è stato lei stesso a dire che stiamo facendo un
buon lavoro?
Vincenzino: No! Per errore, ormai ho capito, stavo impacchettando cose che non
dovevo.
Alvaro: Impacchettare, Melusina (con stizza).
Genesio: Melusina! E chi sarebbe questa Melusina.
Vincenzino: Il quadro ... il quadro di una ragazza, quel quadro che era appeso là.
Genesio: Tante storie per un quadro.
Tonio: Stai zitto, non prenderti certe confidenze, si vede che si tratta di un qualcosa che
sta molto a cuore al maestro.
Vincenzino: (inserendosi nel discorso) Si vede che questa ragazza forse era una sua
parente.
Tonio: (con un fare seccato) Parente o non parente, sei stato poco attento, cerca di
essere più sveglio quando ti viene commissionato un lavoro, sai bene come si
comporterebbe il nostro datore di lavoro in circostanze simili!
Alvaro: Chiudiamo qui la parentesi, il vostro datore di lavoro non è stato presente e la
cosa finisce qui. Ma, (con un fare pensoso) il vostro datore di lavoro è l’antiquario
interessato al mio mobilio? Quindi se ho ben capito, don Alfonso Galina, il mancato
farmacista, il mancato avvocato è l’antiquario; è diventato antiquario. Bravo ... bravo ...
ha capito tutto della vita ... Un buono a nulla nello studio, ora fa soldi a palate con
l’antiquariato. Come è vero che spesso si ribaltano i valori: gli ultimi nello studio con un
po’ di faccia tosta e con un po’ di sfrontatezza si inventano mestieri lucrosi e via.
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Genesio: Ha detto proprio bene; è proprio così e poi quel poco di studio che ha fatto gli
è servito ad impapocchiare la povera gente; dagli studi di farmacia ha tratto qualche
ricordo di nomi di qualche farmaco con cui dice di restaurare i mobili, da quelli di legge
si serve per intimorire i suoi clienti, quelli scomodi con la minaccia di citazione. E così
facendo gabba il mondo intero. Come è vero che il mondo è dei furbi.
Alvaro: (con un fare rassicurante) Non ci perdiamo in chiacchiere e riprendiamo il
lavoro (ed avvicinandosi a Vincenzino lo aiuta a scartare il quadro, lo solleva, lo
guarda con ammirazione) rimettiamolo al suo posto.
Vincenzino: Sì (e lo riattacca al chiodo, poi guardando il maestro) è molto bella! è una
sua parente?
Alvaro: Bella? Bellissima! no che non è una mia parente! ma è come se lo fosse! l’ho
vista sempre là sin da quando ero bambino e da allora sono abituato al suo sguardo che
mi segue dovunque! (e guarda il quadro con affetto)
Vincenzino: Ma allora si tratta di una persona che conta molto per lei?
Alvaro: Non saprei; ma sta di fatto che sono troppo abituato alla sua presenza ed è
divenuta per me, come del resto per la mia famiglia una nostra congiunta, anzi, i maschi
poi della famiglia hanno avuto sempre una specie di venerazione per questa fanciulla (e
la guarda con affetto). Melusina, così si chiama questa fanciulla, non l’ho mai
conosciuta e la sua storia è una storia unica e strana. Da bambino mi è stata sempre
raccontata da mio nonno ed io amavo questa storia, tanto che spesso prendevo mio
nonno per mano, lo portavo qui e davanti a questo quadro me la facevo raccontare,
senza mai stancarmi. Ricordo che provavo allora un senso di smarrimento guardando i
suoi occhi così profondi, quelle labbra che forse non hanno mai abbozzato un sorriso.
Mio nonno mi diceva che questa era una fanciulla singolare, bella, di una bellezza regale
e cocciuta più di una mula. La sua bellezza aveva tanto attratto un pittore straniero
capitato qui per caso che, suo malgrado contro la sua volontà volle ritrarla. Raccontano
anche che avesse sfidato finanche le ire di suo padre rifiutandosi di farsi ritrarre, ma
costretta ad accettare questa che lei sentiva come una violenza, pare che, a ritratto
ultimato, stesse per distruggerlo.
Vincenzino: È proprio una bella storia; ma poi come è capitato il suo ritratto in casa
sua?
Alvaro: In verità questo quadro fu regalato al mio bisnonno, quindi è un cimelio di
famiglia, ha visto tre generazioni. Mio nonno mi raccontava che se esiste questo quadro,
questo è opera di suo padre. Questo quadro ha fatto la fortuna di quel pittore; il pittore
era figlio di un amico del mio bisnonno, venuto da queste parti, suo ospite e colpito
dalla bellezza di questa contadinotta, l’aveva voluta ritrarre; con lo stesso volle
partecipare ad una rassegna pittorica vincendo il primo premio e lui per sdebitarsi
dell’ospitalità ricevuta e per dimostrargli la sua somma gratitudine gli fece dono del
quadro. E da allora ha sempre occupato lo stesso posto in questa casa e da qui verrà con
me ed occuperà la stessa posizione nella mia nuova casa.
(Mentre Vincenzino è preso dall’ascolto del racconto i due compagni continuano a
lavorare, ma seccati dal suo atteggiamento lo richiamano al dovere.)
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Genesio: Vincenzì, ma qui si batte la fiacca, tu con la scusa di Melusina la fai franca,
vuoi vedere che furbo come sei, costringi noi a fare pure il tuo?
Vincenzino: Non ti smentisci mai, sei il solito marrano, invece di cianciare a vuoto,
interrompi anche tu un po’ il tuo lavoro e vieni ad ascoltare.
Tonio: Dici bene, una piccola pausa fa bene e poi si riprende con più lena (i due si
avvicinano ai due intenti nel racconto).
Alvaro: Oggi sto in vena di nostalgie e perché no! Sta bene anche a me ritornare un po’
indietro con la memoria e la storia di Melusina, divenuta quasi leggenda si presta molto
a questo mio stato d’animo. (e guardando verso la porta) Concetto ... Concetto vieni
anche tu ad ascoltare la storia del ritratto di Melusina.
Concetto: (uscendo) Eccomi, sono proprio contento di conoscere questa storia da chi
certamente la conosce bene; ho sempre sentito qualcosa nel paese, ma sono tante voci
discordi.
Alvaro: Questo accade quando la storia diventa mito o leggenda e Melusina ora fa parte
di una leggenda.
Scena V
Personaggi: Alvaro, Concetto, Tonio, Vincenzino, Genesio.
Racconto di Melusina
(leggenda)
Alvaro: (racconta e tutti in silenzio ascoltano) Melusina era una creatura straordinaria,
tenace, di forte temperamento, di personalità spiccata, sanguigna come una del Sud,
caparbia, vestale dei principi in cui credeva. Una donna cresciuta in fretta, qui in questo
ritratto aveva quindici anni, una donna bambina, costretta da un destino infame ad
occuparsi della sua numerosa famiglia, sopportare un padre autoritario e violento, un
nonno vecchissimo, petulante e noioso, crescere una caterva di fratelli che la madre le
aveva lasciato morendo. Ma lei stanca di tutto e di tutti trovò nel pretesto del ritratto la
forza di ribellarsi a quella specie di vita nella quale non credeva e una sera, dopo una
tremenda lite col padre, scomparve e di lei nessuno più ha saputo mai niente.
Genesio: Una specie di strega e di santa!
Alvaro: Proprio così, tu l’hai ben definita, mai espressione più azzeccata è stata usata
per lei; la santa ha sempre suscitato in me una tenera commozione, una profonda
tenerezza, la strega mi ha sempre affascinato!
Ionio: No, una donna così, non l’avrei voluta conoscere! Le donne non hanno il diritto
di ribellarsi al proprio padre, al proprio marito!
Concetto: I tempi sono cambiati e in questo Melusina li ha anticipati.
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Alvaro: (pensoso) è una donna per il cui sacrificio le donne del Sud ne vanno fiere; lei
col suo atteggiamento ha riscattato secoli di sottomissione della donna all’uomo, di
soprusi, di inutili e superati pregiudizi. è una donna che certamente farà parlare sempre
di sé; lei ha gettato il primo sasso nelle acque torbide di questa società malata, spetta a
tutte le altre seguire il suo esempio ...
Vincenzino: (più ammirato che mai) Maestro, lei ha detto che questa fanciulla
scomparve e nessuno più l’ha rivista.
Alvaro: (un po’ intristito) Purtroppo sì e i fatti sono questi:
ATTO II
Scena I
Personaggi: Don Antonio da solo.
(è di prima mattina; in casa di Don Antonio Alvaro, bisnonno dello scrittore, il padrone
si è appena svegliato e gironzola un po’ in abiti da notte, coulotte e camice bianco).
Scena II
Personaggi: Don Antonio, Celeste sua domestica.
Don Antonio: (stiracchiandosi) Ah, meno male, una nottata di sonno tutta intera! Era
da tempo che non mi capitava! Ehi ... i pensieri ... i pensieri sono ... ed ora il raccolto in
rovina ... ora questioni col fattore ... ora la moria delle vacche ... ora le fiumare ti
invadono i terreni. E non se ne può più. (ed alza la voce) Cristo ... ma che ti ho messo
solo io in croce? Ma perché (rabbonendosi) tribolarmi? A che serve ... Ma ora sai che
faccio ... pianto tutto! Vendo tutto e mi ritiro e buonanotte! Tanto a che serve continuare
così? Un solo figlio ho e poi, quello smidollato, neppure si interessa di queste cose. Lui
studia ... il signorino studia ... lui ... neppure le conosce le nostre proprietà! Sì o no avrà
messo piede nei suoi poderi ... quindi quali rimpianti potrebbe avere? I rimpianti li avrei
io! Per adesso non ci pensiamo! Ora mi godo la mia tazzina di caffè! (e chiama a voce
alta) Celeste ... Celeste ... il caffè ... portami il caffè.
Celeste: (correndo) Padrone, padrone ... buongiorno, non mi ero accorta che vi eravate
svegliato! Ma adesso faccio subito ... il fuoco è già acceso. Faccio intanto venire
Maddalena a portarvi un po’ di pane fresco? Il forno di pane è già sfornato e un po’ di
ricotta! Gavino a momenti ci porterà le solite fuscelle.
Don Antonio: No, no ... per il momento niente! Poi magari più tardi ... Ora solo il caffè
... vai ... vai ... muoviti!
Celeste: Faccio prestissimo (ed esce).
Don Antonio: (intanto si accosta alla finestra e la spalanca) Ah ... una boccata d’aria
... il tempo sarà buono ... il cielo è coperto di rosa ... ancora le stelle ... nuvole non se ne
vedono. Sia ringraziato il Padreterno! Ha avuto finalmente compassione di noi. Ha
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chiuso i rubinetti. Quelle piogge della malora dei giorni passati hanno scatenato il
putiferio. La fiumara dell’Acquasparta ha coperto tutti ... i gelsomini ... i gelsomini (e fa
per imprecare) Porco ... (e si tiene le labbra guardando il cielo).
Celeste: (di ritorno ha vassoio e caffè) Ecco Don Antonio ... è bello fresco, fresco (e
appoggia tutto sul tavolo) è bollente (e fa per versare dalla caffettiera).
Don Antonio: (scontroso si avvicina al tavolo) Sì ... sì ... lascia tutto qui e vai via.
Celeste: (fa per andar via) Va bene ... quando vi volete vestire, basta chiamarmi, io sto
in cucina!
Don Antonio: (seccato) Sì ... sì ... ma che ora è ... e che giorno è oggi?
Celeste: (quasi fermandosi) Oggi è mercoledì.
Don Antonio: (sorpreso) è merco...le...dì...! Oh ... ma oggi ... presto ... presto... in fretta
(facendosi quasi cadere il caffè di mano) ... devo andare alla stazione ... che ora è? ...
presto ancora lì impalata ... vammi a prendere l’orologio nel taschino del panciotto e
chiamami in fretta quelle altre due bagasce.
Celeste: (quasi spaventata esce ed entra subito con l’orologio e guardandolo)
(timidamente) Sono le sei ...
Don Antonio: Le sei ... le sei. (e le tira di mano la catenella) meno male, è tardi ... non
ce la farò! Antonia, Bettina (a gran voce) e tu perché (a Celeste) lì impalata, presto nella
stanza accanto prendi i vestiti (e lui affacciandosi sul limite della stanza) Antonia ...
Bettina dove siete ... venite qui subito.
Scena III
Personaggi: Don Antonio, Bettina, Antonia, Celeste, Cristina.
Antonia: (quasi affannata) Padrone, padrone ... cosa c’è ... è successo qualcosa?
Bettina: (dietro ad Antonia e guardandola) Ma che c’è ... sono entrati anche stanotte i
ladri?
Don Antonio: (con ironia e pieno di livore) Quante spiegazioni ... vestitemi, vestitemi
in fretta ... la stazione ... alla stazione ... dovrò arrivare alla stazione per le sei e mezzo.
Ho un appuntamento ... deve arrivare una persona.
Cristina: (arrivata con dei vestiti e guarda le sue compagne) Facciamo in fretta.
Antonia: A me i calzoni (ed intanto si cala per infilarli al suo padrone).
Bettina: E a me ... a me la camicia ... il panciotto.
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Don Antonio: (un po’ lasciandosi vestire, un po’ vestendosi e aggiustandosi gli
indumenti addosso) in fretta ... in fretta ... non ho tempo da perdere ah ... questi
maledetti bottoni ... quanti ce ne azzeccano questi sarti; (poi rivolto a Celeste) Fai
apparecchiare il calesse (Celeste esce) corri ...
(Bettina ed Antonia si guardano, si lanciano uno sguardo d’intesa ed abbozzano un
sorriso, subito spento dagli occhiacci terribili del padrone; la scena è tragicomica).
Celeste: (di corsa) Pronto, pronto ... tutto pronto ... il calesse è fuori che aspetta ...
Marcucciu dormiva ancora, ma l’ho svegliato ed è pronto col calesse.
Don Antonio: (finendosi di allacciare le scarpe alza gli occhi su Celeste e quasi con
tenerezza) Sei una buona ragazza e capisci le cose a volo ... vali tanto oro quanto pesi.
Celeste: (compiacente) E allora (civettuola) valgo poco, perché peso poco.
Don Antonio: (rivoltosi a tutte e tre e schernendosi dello specchio offertogli da
Celeste) è un forestiero ... un pittore ... quello che andrò a prendere alla stazione. Il resto
ve lo dirò dopo ... ma mi raccomando ... non fatemi sfigurare ... è un cittadino ... è un
giovane abituato alle buone maniere (e rivolta a Cristina) Cristina, tu sei la meno rozza,
mi raccomando, grembiule e crestina e a voi due più pulite (ed esce).
Antonia: (un po’ risentita) Quante confidenze! Badasse per lui.
Bettina: (un po’ sorniona) Ma lascia perdere, in fondo è buono e noi possiamo ritenerci
fortunate ... chissà quante ragazze del paese vorrebbero essere al nostro posto ... fa
qualche sfuriata ... ma gli passa subito e noi qui stiamo come si dice “nel ventre della
vacca”.
Cristina: (un po’ impettita) Su, su alle nostre faccende, il padrone con l’ospite sarà qui
a momenti, tanto la stazione è a qualche miglio da qui.
Antonia: (un po’ malignosetta) E da noi che vuoi, tanto non siamo noi che dobbiamo
prepararci, sei tu che ti devi bardare, sei tu che devi portare ... la crestina (e scoppia a
ridere e così anche Bettina).
Cristina: (un po’ risentita) Non meriti risposta (ed esce).
Scena IV
Personaggi: Gavino, Bettina, Antonia, Cristina.
(Intanto da giù si sente chiamare a gran voce Don Antonio; è Gavino che viene a
portare della ricotta).
Gavino: Don Antonio, Don Antonio!
Bettina: (si affaccia alla finestra) Gavino, Gavino, che te strilli? Don Antonio non c’è.
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Gavino: Le fuscelle; ho portato le fuscelle! Come mai non c’è Don Antonio? Di solito
esce sempre dopo le otto.
Bettina: Ma perché deve dare di conto a qualcuno? E abbassa la voce, vieni su!
(Gavino sale le scale ed entrato nella sala, intuisce che c’è qualcosa di nuovo).
Gavino: Che c’è? Mi sembrate misteriose! (rivolto ad Antonia e a Bettia).
Antonia: A te, niente sfugge; in verità del nuovo c’è!
Bettina: Zitta! E se il padrone non vuole che se ne parli?
Gavino: (sbattendo quasi le fustelle sul tavolo) Ehi ... quante storie ... ma del resto a me
... (e non finisce l’espressione quando entra Cristina vestita da vera cameriera: guanti,
crestina, grembiule bianco con veste celeste).
Cristina: (guardandosi e girandosi) Come sto? Sono in ordine?
Gavino: (con occhi sbarrati) Ma che succede? Si direbbe che c’è aria di festa; e che si
festeggia oggi in questa casa?
Antonia: (con risentimento) Nessuna festa, oggi abbiamo visite, arriva in questa casa un
ospite, pare un forestiero.
Gavino: (rivolto a Cristina) E se il padrone ha voluto che ti conciassi così, vuol dire che
si tratta di un ospite di riguardo.
Cristina: E lo è! È (con voce stentorea) un pittore.
Bettina: Anzi sai che ti dico, sbrigati e vai via perché il padrone potrebbe arrivare da un
momento all’altro, lui è andato alla stazione a riceverlo e starà qui a momenti; prima di
partire si è tanto raccomandato con noi di farlo figurare bene, di mettere tutto in ordine,
e noi stesse vestirci meglio; se ti trova in casa sua e ti scopre così conciato sarebbe
capace di prendersela con noi, si intende non in presenza dei forestiero, ed io non voglio
correre rischi.
Gavino: (guardandosi e cercando di pulirsi) Me ne vado ... me ne vado ... Ma voi come
state diventando permalose (ed esce).
Scena V
Personaggi: Cristina, Antonia, Bettina.
(L’arrivo di Don Antonio col forestiero)
Cristina: Chissà che ora si è fatta! Ma credo che a momenti li vediamo arrivare.
Antonia: è già da un bel po’ che il padrone è uscito.
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Bettina: Zitte, zitte, mi sembra di aver sentito un calesse fermarsi; (origlia presso la
finestra) ecco il galoppo non c’è più; (si affaccia, e a bassa voce) sono loro, è il
padrone, Marcucciu sta scendendo.
Cristina: Allora su in fretta, sbrighiamoci, voi due andate giù; andate a ricevere, a fare
gli onori di casa.
Antonia: (con risentimento) Già ... lei non può, lei è la signora cameriera, (e guardando
Bettina) noi luride sguattere!
Bettina: Antonia, ma lascia perdere, dai l’impressione di essere gelosa!
Cristina: Ma la piantate? (ed intanto si sente bussare al portone) vi sembra questo il
momento di fare storie?
Bettina: (ad Antonia) Scendiamo in fretta; la signora cameriera (ricalcando la voce)
così ci comanda e i signori padroni non sanno aspettare!
Scena VI
Personaggi: Carlo di G., Don Antonio, Giuseppe, Marcucciu, Cristina.
(Fanno il loro ingresso in questa sala: Don Antonio Alvaro, seguito dal forestiero, il
pittore Carlo di Giammaria col suo domestico ed infine, Marcucciu, il garzone di casa
con grossi bagagli; ad attenderli, un po’ emozionata è Cristina, la cameriera)
Don Antonio: (al pittore) Prego, prego, entra, entra; scusami io ti do del tu, sei così
giovane e poi il figlio del mio più caro amico d’infanzia.
Carlo: (con un accento un po’ aristocratico) Questo mai, sempre dopo di voi, mi sento
onorato che siete stato voi a darmi del tu, lo stavo chiedendo io, ma la soggezione che
provo davanti a voi me lo avrebbe impedito.
Don Antonio: La soggezione, ma quale soggezione, io sono una persona qualunque e
poi potresti essere mio figlio, anzi avrai certamente gli anni suoi.
Carlo: No è che mio padre mi ha tanto parlato di voi, che mi pare di conoscervi da
sempre ... io so del vostro carattere ... del ...
Don Antonio: Avremo tempo per queste cose, ora pensiamo a sistemarvi ... (pratico
come è) sarai pure stanco, dovrai pur riposarti (e rivolto a Marcucciu) e tu vai a
depositare i bagagli nelle stanze degli ospiti ... Cristina dopo ti indicherà quale delle tre.
Marcucciu: Subito sarà fatto! (ed esce).
Don Antonio: (a Carlo) Carlo questa è Cristina ... (e Cristina accenna un inchino) di
qualunque cosa hai bisogno rivolgiti a lei ... lei è persona di fiducia.
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Cristina: Troppo buono, (e arrossendo) faccio del mio meglio per compiacervi e poi è
mio dovere.
Don Antonio: Finiamola con queste sdolcinature, lo sai che così la penso.
Carlo: (guardando ammirato la ragazza) Lieto di fare la sua conoscenza! (e rivolto a
Don Antonio) Grazie per le vostre premure; (e poi guardando la ragazza) mi sforzerò di
darvi il meno fastidio possibile! Delle faccende ordinarie si occuperà Giuseppe, il mio
domestico personale. (e lo guarda per avere assenso).
Giuseppe: Sicuro; ed allora che senso avrebbe la mia presenza qui.
Carlo: (a Don Antonio) Non saprei proprio come fare senza di lui; senza di lui mi
sentirei fuso. Oggi trovare una persona, prima di tutto che ti è affezionata, è una grazia
del cielo ... è così difficile ... perché normalmente chi ti sta d’intorno spesso è solo uno
scroccone; invece lui no ... lui è moderato, non esigente.
Don Antonio: Buon per voi, attorno a me, salvando la pace di qualcuno, ci sono certe
canaglie, ma per ora credo che sia il momento che ti ritiri a riposare. (e rivolto a
Cristina) Fai tu, di te mi fido ... (ed esce). Ci vediamo più tardi!
Cristina: Gli darò la stanza più comoda. (e rivolto a Carlo) Signori seguitemi ...
Carlo: Grazie per la squisita attenzione! ... (ed escono di scena).
Scena VII
Personaggi: Giuseppe, Cristina.
(Dopo alcune ore Giuseppe, domestico di Carlo di Giammaria viene a comunicare che
il suo padrone si è svegliato e vorrebbe fare colazione)
Giuseppe: C’è nessuno? ...
Cristina: Eccomi (mentre si sistema gembiule e guanti) in che posso essere utile?
Giuseppe: è che il mio padrone si è svegliato e vorrebbe fare colazione.
Cristina: Subito sarà fatto.
Giuseppe: Ecco, vorrei, occuparmi io del mio padrone, io conosco le sue abitudini;
basta che mi sarà indicata la cucina ...
Cristina: Questo mai, anche lei è ospite e in casa Alvaro non è mai accaduto che un
ospite si prepari la colazione da solo, perché credo che anche lei ha bisogno di far
colazione, mi dica piuttosto cosa gradisce il suo padrone e cosa lei.
Giuseppe: Per me un bel caffè lungo e macchiato, io sono di gusti semplici, mentre per
il mio padrone le cose sono un po’ più complicate, lui preferisce una cioccolata calda,
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con biscotti, tanti, quelli della casa Vincenzoni, solo quelli mangia, oppure, se questi
non ci sono, dei biscotti all’anice; di mattina a colazione mangia tanto, preferisce anche
del pane tostato col miele, una bella fetta di torta di mele e tanto tanto latte, quello
appena munto.
Cristina: Per il latte non ci sono problemi, in casa c’è tanto latte, ma non abbiamo né
biscotti né usiamo torte; qui siamo di gusti semplici. Comunque per i prossimi giorni
non ci saranno problemi, perché si provvederà a fornirci di quello che sarà di suo
gradimento. Intanto andrò in cucina e farò del mio meglio (ed esce).
Scena VIII
Personaggi: Carlo, Giuseppe, Cristina, Don Antonio.
Carlo: (in vestaglia) Devo dire che anche se ho dormito solo qualche oretta, mi è
bastato a rimettermi in sesto. In treno non si dorme, quelle cuccette per chi soffre di
claustrofobia sono quanto di peggio ti possa capitare. Non vedevo l’ora di mettere piede
a terra, le ultime ore di viaggio sono state lunghe e noiose. Cercavo di distrarmi, di
applicarmi a leggere qualche rivista, ma non mi riusciva.
Giuseppe: Signore la colazione sarà pronta a momenti; veramente volevo essere io a
preparargliela, ma Cristina, la domestica di casa, quasi se ne è risentita quando glielo ho
detto.
Carlo: Mi sembra proprio una personcina a modo, mi ha fatto una buona impressione.
Certamente non è una domestica raffinata, ma fa del suo meglio e si vede.
Cristina: (interrompendo il loro discorso) Signori, ecco servita la vostra colazione; per
voi il vostro caffè, per il signore la cioccolata; (e la versa in una grossa tazza) è già
zuccherata, assaggi, se vuole ancora altro zucchero, non ha che a dirlo; le ho preparato
del pane tostato col miele, ma non sono riuscita a trovarle i biscotti a cui è abituato, per
la torta non ho avuto tempo, ma le assicuro che per domani non sarà così. Sa, ho chiesto
a Giuseppe come era abituata a far colazione ed ho saputo.
Carlo: Grazie, (bevendo la cioccolata) è proprio squisita e ben zuccherata, (e
inzuppando il pane) è stata proprio molto garbata e non credo che avrebbe potuto fare di
più.
(Intanto che domestico e pittore consumano la colazione, arriva Don Antonio).
Don Antonio: Ah ... bene, bene, (guardando il pittore) ti vedo riposato, alla stazione,
avevi il viso tirato, gli occhi infossati, si vedeva, eri proprio stanco.
Carlo: Come dicevo, è bastata qualche oretta di sonno in un letto caldo e comodo e via
subito la stanchezza, e poi la cordialità della vostra casa.
Don Antonio: Ah ... cose da niente ... piuttosto cosa mangi? (e riflettendo) queste cose
non sostengono ... danno languore ... so io quello che ci vuole per incominciare bene la
giornata. (e rivolto a Cristina) Ora che ci penso, non ho ancora fatto colazione, non ne
ho avuto il tempo ... Preparami come sempre.
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Cristina: Qui o in cucina?
Don Antonio: Qui ... qui ... oggi è una giornata particolare.
Cristina: Ma Don Antonio, proprio la solita colazione? (ed esce)
Don Antonio: (con voce paterna) La solita (e rivolto a Carlo) è proprio una ragazza in
gamba e poi è volenterosa, non sa approfittare è tutto per la casa; farà la fortuna di chi se
la sposa. Pure io, confesso, ci avrei fatto un pensierino, ma son troppo vecchio.
Carlo: Via ... è ancora un bell’uomo!
Don Antonio: Ah ... questa poi.
Cristina: (col vassoio su cui c’è del pane e della ricotta) Eccovi servito; (e gli mette
davanti ogni cosa) il pane è ancora bello caldo, la ricotta l’ha portata Gavino qualche
minuto e qualche minuto fa era ancora calda, se volete anche del latte, andrò a
prendervelo (rivolta a Carlo)
Don Antonio: No, così va bene. Ecco questa è la mia colazione di tutti i giorni, Così sto
bene tutto il giorno, e spesso salto il pranzo ...
Carlo: Io non potrei mangiare a questo modo di prima mattina, mi sentirei appesantito e
poi l’odore dei colori mi darebbe nausea.
Don Antonio: Ed io ti dico che non è così, se vuoi, puoi anche provare, così mi darai
ragione.
Carlo: Ci proverò uno di questi giorni. Ma credo che non mi andrà.
Don Antonio: (rivolto a Carlo). Carlo, figliuolo, scusami se ti chiamo così, sei così
vicino negli anni a mio figlio, (e un po’ risentito) quello smidollato, ha piantato tutto
qua, e se ne è andato a tentare la fortuna chissà dove, lui la fortuna ce l’aveva qui ... (poi
rivolto a Giuseppe) Scusaci, vorremmo essere lasciati un po’ soli! (e rivolto a Carlo) tu
permetti?
Carlo: Ci mancherebbe altro! (e a Giuseppe) precedimi in camera, io ti raggiungerò a
tra poco! Intanto sceglimi i vestiti da indossare.
Giuseppe: (andando via) Ma si deve uscire?
Carlo: No ... no ... non credo proprio ... mi sento ancora un po’ stanco ... perciò una
cosa vale l’altra. Non ti lambiccare il cervello. Ecco da soli, ha da farmi qualche
confidenza?
Scena IX
Personaggi: Carlo, Don Antonio.
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Don Antonio: Non proprio, ma da soli, mi riesce più naturale aprirmi. Sai sono un orso
a parlare di ricordi, mi riesce difficile, figuriamoci in presenza di estranei. Potresti dirmi
che sei un estraneo per me. Ed invece non è così. Io ho imparato a volerti bene sin da
quando sei nato. Tuo padre mi ha sempre parlato di te; ho tante lettere di tuo padre, tutte
conservate. (e apre un cassetto e ne estrae un po’) Vedi, ne riconosci la grafia?
Carlo: (con un velo di tristezza) Si certamente, sapevo che avesse un amico qui in
Calabria, ma che eravate così legati, no ... anche lui non preferiva parlare dei sentimenti.
Era anche lui, come dite voi, un po’ orso. Il suo è stato un destino crudele. Prima ha
perso la mamma, dopo pochi anni dalla mia nascita. Da allora non si è più ripreso. Il
cuore, è andato sempre più peggiorando, e poi qualche mese fa ci ha voluto lasciare.
Don Antonio: Che stesse così male, non me lo ha mai confessato, ma l’avevo inteso
dalle lettere che diventavano sempre più rare. Lui che aveva la penna facile, mi inviava
almeno un paio di lettere a settimana. Poi piano piano, saltavano i mesi e in
quest’ultimo periodo non ricordo più neppure l’ultima.
Carlo: Veramente l’ha sempre detto a me; ma io, un po’ mi annoiavo, un po’ non
sapevo cosa scrivere, così ho rinviato sempre fino a quando non sono stato costretto a
farlo.
Don Antonio: E quando lo hai fatto è stato troppo tardi, nemmeno un telegramma per
avvisarmi di quello che era accaduto, e così non ho avuto neppure il conforto di vederlo
per l’ultima volta.
Carlo: (contristato) Lo so, ho sbagliato e me ne rammarico, ed ora più che mai.
Don Antonio: Tuo padre era un uomo speciale, ma anche un po’ avventato. Sin da
ragazzo aveva qualcosa che lo rendeva diverso non solo da me. Aveva, e questo da
sempre, una grande smania di viaggiare, di cose nuove, questo paese gli stava stretto e,
terminati gli studi, contro il parere di tuo nonno, lasciò ed abbandonò tutto. Si
accontentò di fare il bibliotecario, un impiegatuccio da poco, vivendo anche maluccio,
perché all’inizio, dopo che si stabilì a Milano, non se le è passata per niente bene.
Carlo: Credo che lui non abbia mai dato tanto peso al danaro, quell’impiego gli piaceva
perché gli dava la possibilità di leggere e a lui piaceva tanto leggere.
Don Antonio: Eh ... se non lo so ... è stata una cosa che si è trascinata sempre ... dalle
elementari ... Suor Immacolata ... pare che così si chiamasse, lo chiamava ... il mio
adorato topolino biondo perché stava sempre lì a rovistare tra le scartoffie. A me, solo la
polvere di quel vecchiume, mi dava il voltastomaco ... io ho preferito sempre l’aria ...
vivere all’aperto. E perciò non sono andato al di là del ginnasio. Vuoi che non ero in
grado di imparare quelle quattro nozioni di quei furbastri dalla tonaca nera? Ero meno
dotato di qualche mio coetaneo divenuto tisico per lo sforzo di quelle cose da studiare?
Carlo: (sorridendo) Lo so che eravate sveglio! Mio padre me lo ha sempre detto!
Speciale eravate voi; voi avevate capito tutto della vita. Ma mio padre era di pasta
diversa ... inseguiva chimere.
Don Antonio: Un’altra chimera è stata tua madre; una gran bella donna, nessuno le
toglie i suoi meriti, ma una ballerinetta per la quale tuo padre perse il lume della
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ragione. E vuoi che una ballerina possa essere una buona madre? una buona moglie?
Quella, prima lo ha salassato fino all’ultima goccia di sangue e poi vi ha abbandonati;
tuo padre per lei vendette la sua parte di eredità; lui povero illuso, la copriva di regali,
accontentandola in tutto.
Carlo: (con tristezza) E l’ultimo regalo fu quella maledetta macchina! Io la ricordo
ancora, era una Ford gialla. Una sera, dopo un ennesimo litigio, lei, furibonda uscì
sbattendo la porta. Da allora non è più tornata! Il giorno successivo il Corriere della Sera
a grossi caratteri riportava: “Cadavere di una donna rinvenuto in una Ford gialla,
schiantatasi contro un albero”.
Don Antonio: E glielo dicevo sempre a tuo padre, moglie e buoi dei paesi tuoi. Ma lui
ha sempre fatto orecchie da mercante. Si sposa una ballerina e poi fa il geloso. La
gelosia è quello che lo ha ammazzato; ma ora voltiamo pagina ... Vedo che questo
racconto ti fa male. Io sono contento di averti in casa mia, e per tutto il tempo che
vorrai, anzi se decidessi di stabilirti qui, io sarei all’ultimo cielo, tanto quello smidollato
di mio figlio, si è messo in testa di fare pure lui il forestiero ... Però credo che dovrai
fare visita ai tuoi parenti, è tuo dovere e poi farai come ti detta il cuore.
Carlo: Ci andrò, ma per loro sono un estraneo, il figlio di una donna perduta che è stata
la rovina del loro congiunto. Io stesso non me la sentirei.
Don Antonio: Rispetto i tuoi sentimenti, ma soprattutto la tua volontà.
Scena X
Personaggi: Giuseppe, Carlo, Don Antonio.
Giuseppe: (con alcuni indumenti e rivolto a Carlo) Signore avrei pensato a questa mise
... pantalone beige con panciotto piede-poole di tonalità beige più chiaro e più scuro,
camicia ... mi dica lei il colore.
Carlo: (rivolto a lui) Giallina, bianca o celeste fa lo stesso, perciò scegli tu (e lo liquida
in fretta).
Don Antonio: No ... aspetta ... non andar via! Quello che avevo in mente di dire (e
rivolto a Carlo) a te, penso sia giusto che ascoltiate tutti e due: quando andrete in giro
per il paese, non aspettatevi un’accoglienza calorosa. Qui, da queste parti ... la gente è
schiva ... bada ai fatti suoi ... o almeno così lascia intendere ... ma poi dalle persiane ... o
dagli usci ... vede e sente tutto ... si sa è gente di paese ... qui non succede mai niente e
l’arrivo di un forestiero è un evento. Se il forestiero è poi un pittore, allora si diventa
ancora più guardinghi; gli uomini tengono le loro donne in casa, lontano dagli occhi
indiscreti di quello che per loro è motivo di perdizione per le loro donne.
Giuseppe: (scoppia in una fragorosa risata) Come ... come?
Carlo: (rimproverandolo) E tu, componiti! Che c’è poco da ridere! Le donne di
Calabria sono oneste e laboriose. Questo me lo ha sempre detto mio padre.
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Don Antonio: Lo erano, tuo padre parlava delle donne della nostra adolescenza; sai
anche qui è arrivato il progresso, e queste di adesso non sono più quelle di una volta;
hanno in testa certe cose. Meno male che io non ho figlie femmine, altrimenti mi
avrebbero fatto passare guai. Sento dire dai miei fattori, qualcuno che ha figlie femmine,
che queste si ribellano, alzano la voce. Ed io tutto questo non lo avrei sopportato.
Carlo: è tempo che anche la Calabria si svegli!
Scena XI
Personaggi: Carmelo, Bettina, Melusina.
(E passato qualche giorno dall’arrivo in casa di Don Antonio Alvaro del pittore Carlo
di Giammaria, quando una mattina di buon’ora: la scenografia è del tutto cambiata;
essa è costituita da: una piccola e povera casa con un portoncino, ci sono delle scale
che portano ad esso, accanto ad esse un lavatoio, un acciottolato. Su per le scale
scende un uomo: è il padre di Melusina, con lo schioppo sulle spalle, passa in quel
momento Bettina con un grosso paniere.)
Carmelo: (con fare serioso) Bettina ... Bettina ... (e gli va incontro per fermarla) ma è
vero quello che si mormora in paese? L’ho saputo ieri sera alla taverna.
Bettina: (un po’ misteriosa) E che ne so quello che si mormora; qui la gente è cattiva,
non si fa mai i fatti suoi; e poi non so niente ... i fatti miei mi faccio.
Carmelo: Ehi ... io niente ti avevo chiesto ... se me lo vuoi dire ... viva a Dio ... se no si
campa lo stesso. Ieri sera da Peppuccio senza Dio, sai, quella taverna all’angolo è
entrato Gavino, il pastore del tuo padrone, aveva bevuto un po’ ed ha raccontato ...
Bettina: Sono fatti suoi quello che ha detto ... da me niente uscirà ... (e fa l’atto di
cucirsi la bocca) quell’ingrato niente sa tenersi dentro, farà i conti col padrone. Eppure
gli era stato raccomandato di tenere la bocca chiusa.
Carmelo: Ma allora è vero? ... è vero che Gavino è un po’ visionario, però non poteva
inventarsi proprio tutto! Sì, avrà anche esagerato, ha detto che il forestiero starà con voi
tre mesi.
Bettina: Ma se non lo sa neppure il padrone, come fa a saperlo lui.
Carmelo: Ma allora è vero! Chi è, in paese lo conosce qualcuno? E poi cosa sarà mai
venuto a fare un cittadino in un paese così, dove non c’è niente?
Bettina: è un pittore! Ma io non so niente, non ti ho detto niente (e scappa).
Carmelo: Un pittore da queste parti? (un po’ incredulo, poi si gira e chiama sua figlia)
Melusina ... Melusina.
Melusina: (affacciandosi) Ma che va a fuoco il pagliaio? Vi ho sentito, vi ho sentito!
Voi non date mai tempo a nessuno, avete sempre la neve in tasca che si scioglie. Che c’è
... si può sapere?
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Carmelo: Ho motivo di dirti che in questi giorni ... insomma affacciati il meno possibile
alla finestra ... anzi non ti affacciare proprio ... tieniti chiusa in casa.
Melusina: Ed ora anche questo? Cos’è questa novità? Perché chiudermi in casa? Mi
mettete agli arresti domiciliari, ora?
Carmelo: Perché ... perché ... ho detto così e basta! Quante spiegazioni ti debbo dare,
perché ho ragione di dirti così e a te niente debbo spiegare.
Melusina: Si vede che questa è una delle vostre giornate (e fa l’atto di chi è pazzo) ed io
con tanto che ho da fare dentro, sto ancora ad ascoltarvi (ed alterandosi se ne entra
dentro).
Carmelo: Tutta sua madre ... bella come il sole ... ma più cocciuta di una mula ... ha
sempre quella lingua biforcuta ... l’ultima parola è sempre la sua ... fa sempre quello che
gli pare ... per quanto parla ... poteva fare l’avvocato ... è meglio che me ne vado ... non
ho intenzione di fare questione. (e si avvia per istrada)
Scena XII
Personaggi: Melusina, nonno Zi Biase.
Melusina: (con una cesta di panni, scendendo parla da sola, mentre mette a bagno i
panni) Quanti ne sono! ... e quello se ne esce ... chiuditi in casa ... e questi chi li lava? ...
lo fa lui? Oh quanto sarei voluta nascere uomo; ora pure io me ne andavo a zonzo come
fanno tutti ... loro con la scusa del lavoro se ne stanno tutto il giorno all’aperto ... poi di
sera ... chi ci dice a che ora devono rincasare. Mio nonno, quando si arrabbia, mi dice
sempre che non dovevo portare la gonnella, ma i calzoni. Parole sante! quanto lo avrei
voluto.
Zi Biase: (scendendo con il bastone) Melusina ... ma cosa ti diceva tuo padre prima? Vi
ho sentito sai ... perché stavate litigando? ...
Melusina: (spazientita e a bassa voce) Uff ... dai a bere anche a questo! (e cambiando
discorso) nonno, vi siete bevuto il latte? ve l’ho messo nella scodella ... accanto al letto,
sulla sedia.
Zi Biase: (un po’ risentito) Ma chè ... mi hai preso per rimbambito? Ti avevo chiesto ...
e tu mi rispondi ... se non me lo vuoi dire ... sei la padrona ... ma la prossima, volta non
ti permettere sai! (e fa l’atto di alzare il bastone sta quasi per cadere e Melusina lo
soccorre).
Melusina: (un po’ sorridendo e un po’ accomodante) Avete visto che cosa succede ad
alzare il bastone? Il latte ve lo siete bevuto? ...
Zi Biase: Il latte ... il latte ... non sono mica un bambino ... e poi no ... l’ho fatto cadere
... non l’ho visto ... la colpa è tua ... tu lo hai messo sulla stessa sedia dove stavano
questi calzoni ... il latte se l’è bevuto questi calzoni ... guarda ... guarda qui.
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Melusina: Ed ora restate senza colazione? Altro latte non ce n’è.
Zi Biase: Non ti preoccupare, mi mangio due fichi e sto a posto. Però mi raccomando,
non fare più questione con tuo padre, quello non ha pazienza, non ne ha mai avuta. Non
sa che con le donne ci vuole pazienza.
Melusina: (quasi sorridendo) E con gli uomini allora che cosa ci vorrebbe? ... voi
potete ogni cosa ... urlare ... bestemmiare, picchiare ... fare ritorno all’alba e noi zitte ...
pronte a capire, sopportare e piangere in silenzio.
Zi Biase: E purtroppo questo è il destino delle donne!
Melusina: E che bel destino che è il vostro! Ma è scritto da qualche parte che così si
dovrà andare avanti? Io non ci sto ... così devono andare le cose e perché non cambiarle?
Per quello che mi riguarda farò a modo mio.
Zi Biase: Vedi ... non ti sarà possibile ... da sempre è andata così ...
Melusina: è andata così e così andrà sempre? No ... non ci credo ... verrà anche il
momento in cui uno dice basta. Chissà quante giovani come me dicono basta in silenzio.
Basta avere il coraggio di dirlo ad alta voce ... di gridarlo e il gioco è fatto ... Bisogna
che qualcuno incominci e le altre si accoderanno, poi saremo un esercito e le cose
veramente cambieranno. Ci vorrà tempo, ma sento che questo accadrà.
Zi Biase: Sono troppo vecchio per capirti, ma ho l’impressione che avrai davanti a te
tempi molto duri.
Scena XIII
Personaggi: Pittore, Giuseppe, un gruppo di ragazzini.
(Un gruppo di ragazzini gioca parte a campana, parte a morra davanti casa di
Melusina; passa Carlo di Giammaria, il pittore col suo domestico, recante un grosso
album da disegno. Due ragazzini litigano:)
Filippuccio: Ed allora tocca a me.
Rafiluccio: No a me; tu hai già giocato, ora il gioco passa a me.
Filippuccio: Ma tu sei lento, sembri una tartaruga ... salti male.
(intanto un altro gruppo di tre monelli fanno il gioco della morra, è un greve
chiacchiericcio, un vociare d’inferno; Giuseppe e Carlo proprio in quel momento
passano e Giuseppe ...)
Giuseppe: (ammirato) Signore, signore questa scena, questa scena, le pare, ... questa
scena potrebbe ritrarre ... Ha visto che visi ... e che occhi?
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Carlo: Sarebbe interessante, ma io non faccio il fotografo; faccio il pittore ... come
sarebbe possibile portare sulla tela questa vitalità ... questo chiacchiericcio ... quest’atmosfera.
(i ragazzi si vedono osservati e scappano, si mettono in agguato, aspettano che quelli
vadano via.)
Giuseppe: Perché sono andati via? Faceva così piacere vederli tutti insieme giocare,
rincorrersi ... dalle nostri parti non si usa, i nostri bambini non sono così vivaci ... pare
che hanno dentro qualcosa di spento.
Carlo: Qui la gente è diversa, è discreta, parla poco ... non è sfacciata ... (e riflettendo) è
... come se vedesse il mondo dalla fessura di una persiana chiusa ... vede una fetta del
suo mondo, ed ama e si accontenta solo di questo mondo; così mi diceva mio padre. Io
allora non sapevo cosa volesse dire. Ora lo so ... ora proseguiamo ... andiamo in
campagna ... lì forse qualche particolare della natura selvaggia di questa terra mi potrà
attrarre e può darsi che troverò spunto per buttare giù qualche bozzetto.
Giuseppe: La natura è certamente fonte inesauribile di ispirazione, ma è troppo statica,
non ha movimento, non crea emozioni.
Carlo: (incuriosito) Parli come un poeta, bravo ...!
Giuseppe: è la sua vicinanza, il suo contatto, da lei ho imparato tanto ... tante cose, ad
osservare ... a riflettere ... a leggere i colori. Però non è stato sempre così; all’inizio,
quando l’accompagnavo per reggerle le sue cose, mi annoiavo ... sbadigliavo. Lei era
troppo preso per accorgersene ... Quante volte avevo pensato di licenziarmi. Ma ora no
... starei al suo servizio anche senza paga ... e mi sento felice se penso che sono presente
ad ogni pennellata. Quando vedo una sua opera finita, mi sento orgoglioso ... è come se
anch’io avessi contributo ad essa ... non so come ... ma è come se qualcosa di me si
fosse fermata su quella tela.
Carlo: (sempre più ammirato) Mi stupisci sempre più, non mi avevi mai parlato così,
avevo sempre avvertito una certa sensibilità, ma una tale profondità no. Però ti devo
confessare, confidenza per confidenza, i tuoi consigli spesso mi sono stati utili, quando
nella scelta degli oggetti da riprodurre, tu spesso sai prevenire le necessità, è come se mi
leggessi dentro la creatività nascente ... il momento da cogliere, l’estro che mi fa
convergere tutte le mie facoltà su quel particolare ... Andiamo ... andiamo ... penso che
questa sia la mattinata giusta.
Scena XIV
Personaggi: Filippuccio, Rafiluccio, Melusina.
(I due ragazzini ritornano a giocare ed uno dei due)
Filippuccio: Hai visto? Quello era il pittore!
Rafiluccio: Il pittore? E chi è il pittore?
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Filippuccio: Quello che ... come si dice ... disegna le cose sui cartoni! Perché, non hai
mai visto un quadro? Il pittore è quello che fa i quadri.
Rafiluccio: E perché uno fa il pittore? A cosa serve fare il pittore.
Filippuccio: Che ne so ... su una pagina del mio sillabario c’è un pittore ... ma che te le
dico a fare queste cose, tu sei ignorante. Ha ragione mio padre quando mi dice che non
debbo stare in tua compagnia, perché tu a scuola non ci vai e non sai niente.
Rafiluccio: Vuoi fare il professorone perché sai una cosa, una cosa da niente, e vuoi
fare il professorone. Ma perché tu sai chi è la marmotta?
Filippuccio: La marmotta è ...
Rafiluccio: Hai visto? Che non lo sai! È un animale che dorme tanto tanto sotto terra.
(e riprendono il gioco. Poi Filippuccio chiama Melusina)
Filippuccio: Melusina ... Melusina.
Melusina: Ehi cosa strilli così ... questa volta cosa vuoi!
Filippuccio: (mettendosi la mano davanti alla bocca) Hai visto? È passato il pittore.
Melusina: è passato chi? ...
Rafiluccio: (un po’ ironico) Il pittore ... il pittore.
Filippuccio: Ehi abbassa la voce.
Rafiluccio: Perché mi porta in galera?
Melusina: E per questo mi chiami? ... tu piuttosto pulisciti la campanella che ti cola dal
naso e poi vieni su a farti i compiti.
Filippuccio: (mortificato) Quella ha sempre qualcosa da dire; (e pulendosi col dorso
della mano il naso) ha proprio ragione il babbo quando dice che le donne dovrebbero
nascere con la bocca cucita.
Rafiluccio: E tu te l’immagini così? (e ride).
Filippuccio: Ridi, ridi ... te la vorrei far tenere pure a te una sorella rompiscatole come
quella ... ora se ha detto che devo salire ... lo devo fare perché sarebbe capace di
portarmi sopra per le orecchie.
Rafiluccio: E asciugati ... la campanella (e ride).
Filippuccio: Ora che andrò sopra ... la faccio vedere io! ... quella lì ha la lingua troppo
lunga, lo dice pure il nonno.
249
Scena XV
Personaggi: Filippuccio, Rafiluccio, Carlo, Giuseppe, Melusina.
(mentre i due ragazzini sono intenti nel loro discorso, si vedono di ritorno dalla
passeggiata ecologica, il pittore e il suo domestico; nell’aria si sente una musica, un
canto popolare).
Rafiluccio: Guarda, guarda lì ...
Filippuccio: Dove? ... dove? ...
Rafiluccio: Lì ... in quella direzione ... non è quello il pittore? Passa di qui un’altra
volta!
Filippuccio: è vero ... nascondiamoci ... non facciamoci vedere ...
Rafiluccio: Ma perché ...?
Filippuccio: Perché ... perché ... è un forestiero! (e i due si nascondono)
Carlo: Sì hai ragione; la campagna è troppo scontata per destare in me la curiosità
necessaria per trovare motivi di ispirazione ... però ... quei ... gelsomini ... non mi
sarebbe dispiaciuto riportarli sulla tela ... quel profumo mi è rimasto ancora dentro.
Giuseppe: Ma il profumo ... come è possibile ritrarlo? ... Le nature, le nature morte ... se
fatte bene a limite si fanno ammirare ... ma non destano forti emozioni. La vera pittura è
quella che accende la fantasia dell’artista ed emozione nello spettatore. Perciò i
gelsomini ... lasciamoli belli e vegeti in un bel vaso, ma riprodotti sulla tela perdono per
sempre la loro fragranza.
Carlo: (come se non lo seguisse più) Sss ... sss. Questa voce ... come è orecchiabile ... (e
si gira intorno ma non vede nessuno) da dove viene? ...
Giuseppe: (cercando di comprendere la direzione) Sembra da quella direzione (e indica
la finestra di Melusina).
(Proprio in quel momento Melusina si affaccia e stende dei panni bagnati ed
accompagna questa sua azione cantando una canzone popolare)
Carlo: (estasiato, ascolta la bella canzone ... osserva la ragazza e si ferma ad osservare
il movimento delle dita e abbassa la voce) Ecco la Euterpe ... che voce incantata! ...
canta proprio bene.
Giuseppe: Ed è anche una bella fanciulla. Quanta grazia nel viso e nei movimenti.
Carlo: (osservandola meglio) Un viso bellissimo ... luminoso ... (e la guarda di profilo)
un profilo alla greca ... sembra una sacerdotessa di Afrodite ...
250
Giuseppe: Potrebbe essere una erede della dea ... non dimentichiamo che stiamo in
Calabria e lungo le sue coste tante sono le cittadine fondate dai greci ... e chissà se del
sangue delle antiche matrone non scorra nelle vene di questa fanciulla.
(improvvisamente Melusina si sente osservata, smette di cantare e sbattendo la finestra
si rifugia in casa).
Carlo: Le donne ... le donne mediterranee ... sono le più belle che esistono al mondo ...
hanno rotondità perfette, pelle scura e lucente, occhi neri e profondi ... sguardo
ammaliatore ... fronte spaziosa, portamento deciso ... sotto quel petto prorompente e
ansimante nascondono una grande anima. Lo sguardo ... il loro sguardo ora cattivo e
luccicante come lama al sole ... ora pudico e remissivo è veicolo di messaggi
incomprensibili.
Giuseppe: Come fa a conoscerle così bene?
Carlo: Non le conosco affatto, così me le descriveva mio padre e questa fanciulla me le
richiama nella mente (pensa), forse ... forse ci siamo ... forse ho trovato l’oggetto che
accende la mia fantasia, il motivo ispiratore ... sì, sarà questa fanciulla ... divina
fanciulla ti immortalerò. Da domani (esaltandosi) mi pianterò qui e qui starò giorni e
giorni davanti a questa umile casa fino a quando non sono riuscito a ritrarla; da domani
cavalletto, tela e pennelli sarete i miei compagni ed insieme ci sosteniamo in questa
avventura.
Giuseppe: Signore, ma come corre! Come faremo per avvicinare la ragazza; se vorrà
ritrarla dovrà pur contattarla, avere il suo assenso; la fanciulla deve pur posare per lei! E
crede che tutto questo sarà facile ... si è reso conto della sua reazione scopertasi solo
osservata?
Carlo: A questo non avevo pensato. Ma non mi interessa ... qualche mezzo lo troveremo ... Ora sono troppo felice ... sento come una luce dentro di me ... un qualcosa mi
dice che è giunto il mio momento ... il mio momento propizio. Questa fanciulla sarà la
mia fortuna. Il destino me l’ha fatta trovare sui miei passi ... da tempo mi aspettavo
l’occasione giusta ed ora che si è presentata non la vanificherò ... Nella vita ognuno ha il
suo treno in corsa che non passa due volte, dobbiamo noi essere attenti a saperlo
prendere. Certo non è facile, ma dobbiamo spingerci perché, passato, esso non ritorna
più.
Giuseppe: Si è fatto tardi, rincasiamo, è quasi ora di pranzo e non è corretto fare
aspettare Don Antonio, lui è puntuale, preferisce pranzare presto, ne discutiamo con lui,
lui ci dirà come poter avvicinare questa fanciulla.
Carlo: Questa è una buona idea (e si avviano).
Scena XVI
Personaggi: Giuseppe, Don Antonio, Carlo.
(Intanto sopraggiunge Don Antonio che li vede di lontano e si avvicina ad essi)
251
Don Antonio: Già di ritorno dalla vostra passeggiata?
Giuseppe: (ossequioso) Mi sono permesso di ricordare al signore (rivolto a Carlo) che è
quasi ora di pranzo ed era il caso di fare di ritorno a casa.
Don Antonio: Fate bene, però potete anche intrattenervi ancora, perché ho da sbrigare
delle faccende, se voi rincasate presto, avvisate Celeste che oggi si pranza con un po’ di
ritardo. (ed intanto s’accorge che Carlo guarda la finestra dove prima si era affacciata
Melusina) Carlo, cosa osservi con tanta attenzione?
Carlo: Niente, stavo riflettendo proprio su questo angolo: è uno scorcio interessante,
potrebbe prestarsi bene ad essere dipinto. (ma lo dice poco convinto)
Don Antonio: Voi artisti sareste capaci di trovare ispirazione ovunque! Non so cosa ti
possa dire questa casa così diroccata; questa grossa fenditura.
Giuseppe: Veramente più che la casa, al signore interessa chi ci abita; poco fa si è
affacciata una fanciulla di cui siamo rimasti ammirati; questa fanciulla potrebbe essere
motivo di ispirazione.
Don Antonio: (quasi interdetto) Chi Melusina? Sì qui abita Melusina, la figlia di
Carmelo “u’ patanaru”, io conosco il padre, anzi venivo proprio da lui.
Carlo: Si è vero, quella fanciulla l’ho osservata bene, è un soggetto interessante, le
potrei fare un ritratto, tutto di lei spinge la mia mano a ritrarla.
Don Antonio: E che problema c’è, basta dirlo al padre e la cosa si farà!
Carlo: Credo che incontrerò delle difficoltà perché, quando si è vista osservata, si è
chiusa dentro e non è più uscita.
Don Antonio: Le donne dalle nostre parti, usano comportarsi così, non sono sfacciate ...
Carlo: Ma potrebbe mostrarsi ritrosa e non essere d’accordo.
Don Antonio: A noi non interessa quello che lei pensa, l’importante è quello che pensa
il padre. Parlerò oggi stesso col padre, visto che proprio da lui venivo e io so come
convincerlo. Le donne da noi ragionano con la nostra testa, vogliono quello che noi
vogliamo e non si discute ... L’uomo che non è capace di farsi rispettare, non è uomo e
Carmelo “u’ patanaru” fino ad ora non si è fatto mai mettere la veste da nessuno, è un
uomo tutto d’un pezzo, lui conosce quali sono gli argomenti giusti per farsi rispettare.
Fidati (rivolto a Carlo) di me: le donne qui parlano con la nostra voce e pensano con la
nostra testa ed ora lasciatemi da solo. (e i due escono di scena)
Scena XVII
Personaggi: Don Antonio, Melusina, Carmelo.
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(Don Antonio si avvicina alla casa di Melusina e bussa al portoncino, si affaccia
Melusina).
Don Antonio: (fa l’atto di bussare, bussa più volte) Non c’è nessuno! Strano.
Melusina: Chi è, ah! siete voi, Don Antonio? volete mio padre?
Don Antonio: Sì, è lui che cercavo, tu sai sempre tutto, tu sei a posto, beato quello che
ti sposa.
Melusina: Mi volete lusingare; ecco mio padre (e rivolto al padre) Pà affacciatevi, qui
c’è Don Antonio che vi vuole.
Carmelo: (affacciandosi) Quale onore, Don Antonio, in cosa posso servirvi, salite,
salite.
Don Antonio: No, no non voglio disturbare, è meglio che scendi tu, ti voglio parlare a
quattrocchi.
Carmelo: Scendo subito (e in un baleno è giù)! Ecco Don Antonio, sono a vostra
disposizione, ditemi in cosa posso esservi utile.
Don Antonio: Veramente ci ho ripensato a proposito delle giornate lavorative fatte per
il raccolto, ne stabilimmo dieci, quante ne bastavano per questo lavoro; invece ci ho
ripensato, tu sei un gran lavoratore, un uomo che la fatica se la mangia, che non sa
starsene con le braccia piegate, e un uomo così non fa mai soffrire la fame alla sua
famiglia. Allora io mi sono detto perché impegnarlo solo come bracciante? È
volenteroso, è forte come una quercia, è fidato ed allora perché non assumerlo come
persona fidata?
Carmelo: (sorpreso e felice) Grazie Don Antonio, grazie ... grazie assai ... (e fa per
baciargli le mani) Non ho ancora capito cosa dovrei veramente fare, ma mi basta sapere
che dovrò lavorare al vostro servizio e tutto mi sta bene. Farò tutto quello che voi mi
dite senza risparmiarmi, farò anche le cose più umili, il guardiano dei porci perché la
fatica non è vergogna e non vi deluderò.
Don Antonio: E allora ritieniti assunto, fai come credi, da domani stesso, più tardi passa
per casa e definiamo la paga.
Carmelo: Vi pare, datemi quello che volete, voi siete di buon cuore, tutti vi conoscono
per la vostra generosità e quello che stabilite voi, a me sta bene.
Don Antonio: Bene, avrei ancora un’altra cosa da dirti, ma penso che ora non sia il
caso; te lo dirò magari un altro giorno.
Carmelo: No dite, dite pure, Don Antonio; se avete bisogno di me, disponete di me
senza riserve, lo sapete, io vi sono devoto ed affezionato perché rinviare il discorso ad
un altro giorno, se possiamo concluderlo oggi, perché aspettare?
Don Antonio: Veramente più che di te, avrei bisogno di Melusina ...
253
Carmelo: Melusina ... non vedo cosa c’entra Melusina nei nostri affari.
Don Antonio: Aspetta ... mi sono espresso male ... non volevo dire così e tu non
interrompermi ... vedi poc’anzi Melusina era affacciata alla finestra e ...
Carmelo: Vi ha mancato di rispetto? Non avete che a dirmelo ed io, per quanto è certo
Iddio, saprò io come metterla a dovere, vi farò chiedere scusa in ginocchio.
Don Antonio: No ... no ... niente di tutto questo ... sei troppo precipitoso; anzi la tua
Melusina è una ragazza a modo e bella.
Carmelo: Ma allora ho capito, gli volete trovare marito, ma è troppo giovane, ha solo
quindici anni e poi è lei che manda avanti questa baracca.
Don Antonio: Ma benedetto figlio mio, ti vuoi star zitto? Vuoi ascoltarmi per Dio! Ah!
... ma siete tutti così ... volete parlare sempre voi, pensate di avere il dono di precedere i
pensieri degli altri e dite le più grosse sciocchezze (e tutto di un fiato) Melusina è stata
vista alla finestra da un pittore, il quale vorrebbe farle il ritratto! Tutto qui, il pittore è un
forestiero ospite mio.
Carmelo: (quasi inorridito) E me lo dite così! Come se fosse una cosa di tutti i giorni,
come un pittore, un uomo, uno sconosciuto dovrebbe scrutare mia figlia dappertutto per
poi ritrarla? (ripensandoci) quegli occhi si fermeranno sul viso, sulle labbra, sui fianchi
di Melusina e poi ... no ... no ... questo non è possibile ... Melusina non è in vendita ...
Melusina appartiene per il momento a me e poi all’uomo che se la sposa.
Don Antonio: Calmati, tu pensala come vuoi ... ma non è così e poi il pittore è un
forestiero e una volta fatto il ritratto, se riuscirà pure a farglielo, andrà via da qui con
questo ritratto.
Carmelo: Andrà via con Melusina.
Don Antonio: Col ritratto di Melusina. Vedi Carmelo, cerca di ragionare, gli uomini del
Nord sono diversi da noi, loro sono aperti a certe cose, non hanno pregiudizi; se fosse
accaduto una cosa del genere altrove, non solo la ragazza, ma lo stesso padre si sarebbe
sentito lusingato. Ma se vuoi così, allora vuol dire che non se ne farà niente. Dirò al
pittore che qui non si usa, che non sta bene fare un ritratto ad una fanciulla (e sta per
andar via).
Carmelo: Ma se fosse accaduto a voi, voi come vi sareste comportato.
Don Antonio: Ad essere sincero, credo che pure io avrei agito istintivamente come te.
Ma poi riflettendoci su ...
Carmelo: Mi avete convinto ... Ho apprezzato la vostra sincerità. Acconsento! Mi costi
quel che costi, non mi resta che affrontare Melusina.
Don Antonio: A te non manca modo! Domani falle indossare il più bel vestito e
mettersi al collo il più bel fazzoletto e poi al pittore il resto.
254
ATTO III
Scena I
Personaggi: Carmelo, Melusina, Zi Biase.
(Melusina di buon’ora si reca nell’orto a governare le galline, quando si sente
chiamata dal padre).
Carmelo: Melusina....a....a... Melusina ... Dove mai si sarà cacciata? (uscendo fuori) in
casa non c’è; (e guardandosi intorno) qui neppure! (e fa per entrare nell’orto).
Melusina: Cosa c’è che gridi tanto!
Carmelo: Mi sono svegliato e non ti ho vista, mi sono preoccupato!
Melusina: E da quando in qua ti spaventi se non mi vedi?
Carmelo: Sempre più sfrontata che mai (ed alza la voce).
Melusina: S... e smettila di urlare che svegli vecchio e marmocchi.
Carmelo: II vecchio e marmocchi, il vecchio ... è tuo nonno (ed urla) porta rispetto a
tuo nonno; i marmocchi sono i tuoi fratelli.
Melusina: (sarcastica) Svegli il nonno e i fratellini. Così ti va bene? Ero nell’orto a
governare le galline. Mi sono svegliata un po’ prima e in silenzio me ne sono scesa
nell’orto a pulire un po’ di qua, perché se si sveglia la tribù, e fai qua, e fai là non ti resta
mai tempo abbastanza per fare tutto.
Carmelo: Sì lo so che hai sempre ragione tu, tu sei una ragazza con la testa quadrata,
ma spesso sei un po’ ... introppicosa e questo mi manda in bestia, mi fa saltare i nervi; e
così va a finire che urlo anche quando non ce n’è motivo.
Melusina: Sì ...! Il tuo è un vizio e non sai fare diversamente.
Carmelo: Lo vedi? Non dai mai ragione agli altri; con te non si può parlare, di mattina
scappi come una lepre a sguinzagliarti per l’orto, e non ti si vede; di sera vai a dormire
con le galline e ugualmente non ti si vede, mi lasci un po’ di minestra sul tavolo che
trovo puntualmente semifredda che mangio come un cane e tutto qui.
Melusina: E mi diverto io? Voi almeno a sera vi recate alla taverna e parlate con
qualcuno. Io mi sento più sola di voi; vostro padre, i miei fratelli e la casa mi stanno
portando via la pelle.
Carmelo: Ti capisco, però sei anche tu che non ti risparmi niente. Ad esempio che
necessità c’era di alzarti all’alba? Io mi sono svegliato e a non vederti nel tuo letto a
momenti mi veniva un colpo; poi, ripensandoci, tra me e me mi sono detto, come è fatta
255
quella, dove vuoi che vada! Aveva tanto da fare che sarà caduta dal letto. A me
piacerebbe che qualche volta tu ti sedessi un po’ accanto, mentre mangio, che mi
raccontassi come hai passato la giornata, cosa ti passa per la mente ... invece ... niente ...
Addirittura stiamo sotto lo stesso tetto e ci ignoriamo.
Melusina: Pà ... cosa vi debbo raccontare? Le mie giornate le conoscete come le vostre
tasche ... sempre uguali ... sgobbare da mattina a sera e Iddio lo sa in quante faccende,
lavare, pulire sono le cose di tutti i giorni e le meno pesanti, tagliare la legna,
trasportarla in casa, andare alla fonte, riempire le brocche e vivere così per una come
me, a quindici anni non c’è da stare allegri. Lo so io vi capisco, voi avete perduto la
compagna e questo vi pesa, ma io ho perduto chi mi poteva sostenere quando avevo
voglia di piangere, quando mi passavano grilli per la testa. Voi siete un uomo e certe
cose le figlie non le raccontano ai padri, hanno bisogno delle mamme, della loro
mamma. Ora è bene che ognuno di noi ritorni alle proprie cose (e fa per girarsi
indietro).
Carmelo: Aspetta ... che ti devo parlare ... vedi, tu non mi aiuti, (e devia il discorso) ma
perché porti quelle scarpacce sgangherate, quel vestito così consumato, quel grembiule
così ... Ma che io non porto soldi abbastanza per comprartele queste cose? Possibile che
non ti si veda mai con cose nuove? A che serve perdere tempo gironzolando per il
mercato a comprarti calze, scialli se poi non metti mai niente?
Melusina: Pà, ma che dite? Io sono andata nell’orto, nel pollaio, non mi sono mica
recata in chiesa; io, quando vado in chiesa, lo sapete come mi agghindo; corpetto di
velluto, gonna di seta lucente a fiori, scialle lungo e rosso, scarpette di raso, mi faccio
guardare io! Ed ora per il pollaio che ci volevano le scarpe di cristallo di Cenerentola?
Si vede che stamattina non ci state con la testa ...
Carmelo: Hai la capacità di deviare sempre il discorso, di smontarmi. Io ti volevo dire
che più tardi, non farti vedere in giro così conciata, vestiti bene, sistemati meglio quei
capelli.
Melusina: Ma che stai cercando di dirmi, che mi stai cercando marito? Bada a quello
non ci sto proprio, quando voglio maritarmi, basta guardarmi in giro o mi vuoi dire che
devo recarmi in fiera?
Carmelo: Non si tratta né di fiera e né di altro e (alterandosi) in quanto a guardarti in
giro per maritarti, poi la vedremo! Basta, più tardi vestiti bene e non fare domande
perché ... perché, perché abbiamo visite. Oggi viene da noi una persona, una persona
importante, e non voglio fare brutta figura!
Melusina: E chi sarebbe?
Carmelo: Il pittore, quel forestiero ospite di Don Antonio.
Melusina: Ah ... pure tu con questo pittore ... qui, da quando è arrivato questo pittore
(con ironia) non si parla d’altro; pare che stia diventando un affare di stato. E perché poi
da noi? cosa cerca da noi? che c’entriamo noi con lui?
Carmelo: Veramente da me, niente; è te che cerca!
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Melusina: Me cerca? Voi cosa dite? Non dite niente?
Carmelo: (burbero) Quante storie, già ho sprecato abbastanza fiato. Intorno alle dieci,
viene questo qui che ti deve fare un ritratto.
Melusina: (prima sorpresa e irritandosi) Che ...e...e...! a me il ritratto, come il ritratto!
In che senso!
Carmelo: Sì il ritratto (e alzando la voce) il ritratto ... e basta, io mi sono impegnato.
Melusina: (alterandosi) Tu ti sei impegnato, non so con chi e né mi interessa saperlo! E
allora ... il ritratto te lo fai tu! Io neppure morta!
Carmelo: (perdendo la pazienza) E morta sarai (bistrattandola) se non fai quello che
dico io. Disgraziata ... tu sei la tua rovina ... la mia rovina ... la rovina di casa mia.
Maledetto quel giorno che arrivasti in casa mia.
Melusina: (più alterata) No ... no lo dico io maledetto il giorno in cui qui arrivai. (e
incomincia a piangere).
Carmelo: Sciagurata ... io ti ... (e la minaccia).
Melusina: Aiuto ... aiuto ... ahi ... mi uccide ...
Carmelo: Ti uccido, davvero, mangiapane a tradimento ... cuciti quella bocca, te la
chiudo io a calci e a pugni. Cosa tieni in questa testa, quel marcio che tieni te lo faccio
uscire ...
Melusina: Nonno ... nonno ... corri ... aiutami.
Zi Biase: (uscendo con le brache in mano) Fermo, fermo ... cosa succede... ma la vuoi
ammazzare?
Carmelo: Sì ... questa disgraziata ... questa ... è la mia disgrazia!
Melusina: Nonno ... nonno (sfugge al padre e si aggrappa al nonno).
Zi Biase: Calmatevi, ma si può sapere cosa è successo?
Carmelo: Niente ... è testarda come un mulo.
Melusina: (da dietro il nonno) Sono testarda perché non voglio farmi il ritratto.
Zi Biase: Il ritratto ... ma cosa vuol dire?
Carmelo: Smidollata ... smidollata sei ... poche persone hanno la fortuna che hai avuto
tu e tu non lo capisci ...Vuoi buttare via un’occasione d’oro.
Zi Biase: Spiegatevi ... mi sento un citrullo tra due pazzi.
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Carmelo: (tentando di picchiarla ancora) io mi sono impegnato con Don Antonio e
questa. sciagurata fa tanto la difficile.
Melusina: Ah! L’impegno lo hai preso con Don Antonio, e perché non presta sua figlia
per il ritratto.
Carmelo: Tu istighi soltanto, non ci sono figlie di Don Antonio; è meglio che lascio
perdere, se no in galera vado a finire per colpa tua. (e fa per uscire di scena)
Zi Biase: Ecco, fai proprio bene, accomoderò io la cosa.
Scena II
Personaggi: Melusina, Zi Biase.
(Il nonno tenta di calmare Melusina usando le armi di cui dispone).
Melusina: (gettando le braccia al collo del nonno) Nonno ... Nonno ... Mi ha fatto male
... vedi ... (e gli mostra i lividi) poteva uccidermi (singhiozzando).
Zi Biase: (rassicurante) Calmati ... calmati ... figliola mia ... tu sei troppo istintiva ... hai
la testa dura ... hai lo stesso suo maledetto carattere ... non sai tenere la lingua a posto....
Melusina: E io che cerco conforto (piangendo) in un uomo (e allontanandosi) tutti
uguali ... tutti uguali ... siete. Poi figuriamoci, tu il padre di mio padre ... potevi mai
darmi ragione?
Zi Biase: Calmati (afferrandola) calmati ... non è così ... non ti sto dando torto.
Melusina: Ma non mi dai ragione.
Zi Biase: Ma lasciami finire; in certi casi non ha senso stabilire chi ha torto e chi ha
ragione. L’importante è arrivare ad un accordo e poi ... la ragione e il torto non si
possono dividere come una torta. Insomma voglio dire che tutti e due avete un po’
ragione e un po’ torto. Vedi ... tu hai una lingua troppo lunga ... e lui è istintivo e spesso
diventa violento. Dovreste essere un pochino più comprensivi l’uno verso l’altro e non
si arriverebbe a tanto.
Melusina: A chiacchiere tutto è possibile; ma poi vorrei vedere te al posto mio.
Zi Biase: Adesso non ci dilunghiamo su quello che è successo; raccontami, cos’è la
storia del ritratto?
Melusina: L’hai detto; è una storia in cui non ci capisco niente! Ho capito solo che c’è
un pittore che vuole farmi un ritratto! Non so altro e che c’è di mezzo Don Antonio
Alvaro con il quale tuo figlio ... dice di essersi impegnato! Tutto qui. E non capisco
perché proprio io sarei stata prescelta.
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Zi Biase: Vedi, io non so perché tuo padre si è impegnato, ma se lo ha fatto, avrà le sue
buone ragioni. Tuo padre è un istintivo, ma non uno sconsiderato; si vede che non ha
potuto agire diversamente, perché, considerandolo, non credo proprio che gli abbia fatto
piacere accettare tale proposta, impegnandosi. Tu cerca di capirlo ... tuo padre non è un
pupazzo ... lui è un uomo che tiene alla parola data e se si è impegnato non può venire
meno alla promessa.
Melusina: Ma perché lui non è un pupazzo ... ma allora il pupazzo sarei io? Io che
c’entro ... ma poteva almeno chiedere il mio consenso. Invece ... ma che serve parlare ...
io sono una donna e le donne non contano ... non hanno cervello ... il mio consenso ...
(con ironia) non si usa! Mai questo ... se no la onorabilità di un padre dove va a finire?
Zi Biase: Io lo so, ti senti un po’ offesa, e lo capisco ... però ...
Melusina: Però ... però ... che cosa tu capisci, voi non potete capire ... perché sarò io a
dover farmi ritrarre! No ... io non voglio ... ho paura ... provo vergogna.
Zi Biase: Paura, vergogna ... ma di che cosa? Non esagerare.
Melusina: Lo dicevo ... non potevi capire ... vorrei vedere voi al posto mio sotto quegli
occhi che ti scrutano, dappertutto, che ti studiano ... che indugiano sui miei capelli, sulla
fronte, sulle labbra ... sul petto ... sul mio petto.
Zi Biase: Ma sei vestita! ... cosa fa? (e un po’ divertito abbozzando un sorriso) e poi
vedere ... e non toccare son cose da crepare (e ride anche Melusina).
Melusina: Tutti uguali ... non c’è niente da fare! Così volete e così farò; più tardi mi
agghindo come non mai! Il ritratto me lo farò e poi vedrete (e seria esce di scena).
Zi Biase: Chissà cosa vorrà mai dire! Il necessario che se n’è convinta, poi staremo a
vedere.
Scena III
Personaggi: Carlo, Giuseppe, Melusina e Carmelo.
(Più tardi, intorno alle dieci, come stabilito il pittore e il suo cameriere sono davanti
casa di Melusina, hanno con loro pennelli, colori e tavolozze)
Carlo: (rivolto a Giuseppe) Giuseppe, fermiamoci; siamo arrivati! Mentre tu predisponi
ogni cosa, io busso al portoncino. Il ritratto lo faremo poi fuori, davanti casa. Questa
luce mi piace.
Giuseppe: Aspetti signore, va bene in questa direzione impiantare il cavalletto?
Carlo: Fai tu, vedremo dopo! Non ti nascondo che mi sento un po’ emozionato ed
ansioso! Ritrarre una persona in carne ed ossa mi eccita, non m’era ancora capitato
prima. E poi sapere che la persona da ritrarre è una fanciulla un po’ ritrosa, questo
accresce maggiormente la mia ansia. Don Antonio si è tanto raccomandato di essere il
più possibile gentile e accorto con lei.
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Giuseppe: Ma signore, l’ansia che prova è eccessiva! Lei è la cortesia in persona. Vedrà
che andrà tutto bene.
Carlo: (rassicurato bussa ed aspetta che si affacci Melusina e sarà lui a parlare per
primo) Buon giorno Melusina, io la conosco, l’ho vista più volte passando di qui, non so
se lei mi conosce, io sono Carlo di Gianmaria e (rivolto al suo cameriere) questi è ....
Melusina: (stando sulle sue) Sì so tutto, preferisce ritrarmi dalla finestra o devo
scendere giù?
Carlo: Mi piacerebbe ritrarla da vicino, perciò è il caso che scenda giù, se questo le
sembra troppo, potrei anche ritrarla alla finestra.
Melusina: (decisa) Non voglio esserle di ostacolo nel suo lavoro, se ha deciso così, così
si farà. Verrò giù. (e scende)
Carlo: (rivolto a Giuseppe) Mi sembra risentita.
Giuseppe: Era da aspettarselo! Comunque è andata meglio di quanto si pensasse.
Melusina: (arrivando) Eccomi, (e dura) eccellenza, dica lei tutto, io non so niente, non
sono abituata a certe novità.
Carlo: (rassicurandola) Vedrà, questa novità le piacerà (e la guarda con attenzione) e
se può, la prego, non mi tratti con troppa freddezza; in questo stato mi riuscirebbe
difficile ritrarla.
Melusina: Signore, non può mica pretendere che le butti le braccia al collo! Sono così e
non posso cambiare di punto in bianco.
Carlo: (guardandola con ammirazione) Vede, Melusina, noi dobbiamo essere amici, io
ho bisogno che lei mi tratti con familiarità; tra noi si deve stabilire un feeling, come ...
spiegarle, un rapporto ... una comunione, se no mi sarà impossibile ritrarla.
Melusina: Non si sforzi di trovare le parole giuste, ho capito, anche noi donne abbiamo
un cervello.
Carlo: Non ne ho mai dubitato; non era questo che volevo dire, se persiste in questo
atteggiamento, mi disarma, mi scoraggia.
Melusina: Non so né incoraggiare né scoraggiare; sono pronta a posare per lei e questo
le deve bastare ... perde il suo tempo se spera di trovare in me un’alleata.
Carlo: Ma mi basta sapere che non sia offesa con me.
Melusina: Non con lei in particolare, ma con chi non ha rispetto della persona, uomo o
donna che sia.
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Carlo: Lei è una persona straordinaria, lo avevo intuito solo guardandola di lontano, ora
ne ho la certezza; continuare a parlare, ho capito che non si approda a niente, perciò sarà
meglio far parlare i colori; loro, più che le parole, potranno dire di lei (e rivolto a
Giuseppe). Avvicina un po’ tutto, lì c’è troppa luce, mettiamoci all’ombra, è bene che
sarà lei ad essere illuminata (e avvicinandosi di più a Melusina) Melusina, la prego, resti
così ... sì, proprio così, con le labbra appena socchiuse, (e la sistema di profilo)
leggermente di profilo, così la perfezione del suo volto sarà maggiormente valorizzata.
(rivolto a Giuseppe) gessetto nero per segnare i contorni (e si avvicina al cavalletto e
aggiusta la tela).
Giuseppe: Tenga ... preparo intanto i colori per il carnato?
Carlo: Sì ... ma stai attento alle tonalità del rosso, il giallo, la base dovrà essere rosa.
Giuseppe: Signore, la tavolozza contiene tutte le tinte possibili, io le scelgo quelle da
lei indicate, poi sarà lei a miscelarle come crede.
(Carlo quasi non lo ascolta e preso dal sacro fuoco dell’arte, si dà anima e corpo a
quello che dovrà essere il suo capolavoro, ogni tanto si ferma e si allontana dalla tela
per studiare i lineamenti di Melusina. Melusina è come se si fosse automatizzata, ha un
sorriso appena abbozzato, uno sguardo che quasi non esprime più rancore, né
risentimento).
Giuseppe: è bella, proprio bella (e guarda il quadro e la fanciulla).
Carlo: è qualcosa di più, se fosse una creatura marina, oserei dire è una perla; il volto,
la fronte sono perlacei, quasi lunari, ma lo sguardo ... lo sguardo acceso e profondo la
riporta alle sue radici, è una creatura che esprime forza, sicurezza, sentimenti di purezza;
una creatura che suscita in chi la guarda un senso di serenità ...
Giuseppe: Signore, è stato rapidissimo, nel creare questo dipinto; di solito lei lavora su
più bozzetti; sono, oserei dire, ammirato e sorpreso non solo di questa sua assoluta
rapidità, ma soprattutto della immancabile precisione con cui ha curato tutti i particolari.
Carlo: Questo è possibile ... quando il dipinto è già dentro di te ... e Melusina era già
dentro di me sin da quando la vedemmo di sfuggita. (poi rivolto a Melusina) Melusina,
grazie per aver fatto di me un vero pittore, ecco si guardi, si riconosca in questo quadro.
Melusina: Non c’è bisogno; il dipinto è suo ed è frutto della sua fantasia. Io non sono
chi lei ha ritratto, io sono me stessa (e senza degnarlo di uno sguardo scompare).
(Intanto fa ritorno a casa il padre di Melusina, Carmelo e trova i due davanti al
ritratto, Carlo gli va incontro)
Carlo: Signor Carmelo, è stato di parola, mi ha aiutato, vuole vedere (e gli mostra il
quadro) la sua Melusina?
Carmelo: (burbero) Non dovete ringraziare nessuno, e se lo volete fare, dovete
ringraziare il vostro amico, in quanto a Melusina, non c’è bisogno, (e fa cenno di non
voler guardare) la vedrò su (e scompare).
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(i due raccolgono in silenzio tutto e vanno via: Giuseppe gli attrezzi da lavoro, il pittore
il quadro con molta delicatezza.)
Conclusione
(Carmelo si alza di buon’ora e s’accorge che il letto di sua figlia è intatto, come se
nessuno ci avesse dormito dentro, ed ha subito un triste presentimento ed agitandosi la
cerca nel casolare, fuori, nell’orto, ma niente, non c’è; poi inizia a chiamarla a gran
voce tanto da svegliare il vicinato. La notizia fa il giro del paese e si inizia a parlare di
scomparsa; il paese è a soqquadro, anche Don Antonio Alvaro e la sua servitù ne è
stato informato e tutti si mettono alla sua ricerca, nella folla c’è chi dice di averla vista
per la strada che portava alla stazione, c’è chi giura invece che è salita sull’ultima
carrozza del primo treno di quel giorno, chi ancora che si era addentrata di notte nel
bosco, ma lì c’è un grosso burrone e da qui le peggiori deduzioni. Melusina è
scomparsa, è come se si fosse volatilizzata.)
Scena corale: Carmelo, Zi Biase, Filippuccio, Don Antonio, le tre ragazze, Marcuccio.
Carmelo: (con le brache in mano affacciandosi alla finestra) Ma dove starà, nel letto ...
no ... non c’era! Il letto è come se nessuno ci avesse mai dormito! Ma allora (e
scendendo le scale) starà nell’orto ... (e ad alta voce) Melusina ... Melusina...a...a...a!
niente, non risponde.
Zi Biase: (affacciandosi) Cosa succede? Qui c’è sempre baccano ... non si può mai
dormire, ci si fa la croce a prima mattina.
Carmelo: Ci volevate solo voi e poi la festa è completa ... quella non c’è in casa ... la
chiamo e non risponde e voi andate trovando che c’è? ...
Zi Biase: (sorridendo) Non ti angustiare! Non ho detto niente ... non avevo capito ... ma
non ti preoccupare che adesso sbucherà dall’orto. (ed entrambi si dirigono nell’orto
chiamandola).
Carmelo: Melusina...a...a... questa non passa giorno che non te ne combina una.
Zi Biase: Melusina...a...a controllati che svegli il vicinato. (rivolto al figlio).
Carmelo: Non fatemi bestemmiare ... se quella è venuta così un po’ di colpa è anche
vostra. Sapevo io come farle uscire quel sangue pazzo che ha in testa ... ma voi avete
fatto sempre il mammasantissima e questa si comporta così! Non rispetta nessuno ... non
rispetta neppure voi ... Ma che non so che con voi è sempre scorbutica ... pare che
avesse la lingua indemoniata! (e poi alza di più la voce)
Melusina... a... (rivolto al padre) voi aspettate qui... (e scompare nell’orto, ritorna e
appare distrutto)
Zi Biase: E allora?
Carmelo: E allora che cosa? E allora niente, non c’è! (e alza gli occhi al cielo) Ora ti
metti anche tu! Che ti ho fatto per meritarmi questa sorte ... mi hai tolto una moglie ed
ora ...
262
Zi Biase: Zitto ... non bestemmiare ... vedrai che tutto si aggiusterà ... forse sarà andata
da Don Antonio ... a volte scambia qualche chiacchiera con le donne di casa.
Carmelo: Ma che cazzo ... state dicendo? A quest’ora in casa di estranei! Ma allora
cosa può essere accaduto? Ma allora è ... fuggita! (e fa una smorfia di disperazione)
Oddio! Cosa sto dicendo ... Melusina fuggita ... no ... non può essere (e poi aumentando
la disperazione) gente ... Melusina ... la mia Melusina non c’è ... è sparita.
Filippuccio: Nonno ... nonno (e svegliandosi) Mi sono spaventato! Svegliandomi non
ho trovato nessuno in casa! ... ma perché Melusina non c’è ... dov’è? ... perché papà fa
così.
Zi Biase: Niente ... niente Filippuccio ... tua sorella non si trova e tuo padre è
preoccupato.
Filippuccio: E dove è andata?
Zi Biase: Non fare domande ... corri ... corri a casa di Don Antonio e chiama qualcuno.
Và e fà in fretta.
Gavino: (uscendo col bastone si ferma a guardare quello che accade) Carmelo ... ma
che dici ... vedrai che non è così ... calmati ... Melusina da qualche parte starà.
Carmelo: Bella scoperta ... ma dove? ... quella testa gloriosa ... ma se la trovo ... che
dico se la trovo? Quando la trovo, la farò rinsavire ... potrebbe mettersi tutto il paese di
mezzo.
(Intanto arriva gente: Don Antonio preceduto dal ragazzino; c’è Antonia, Bettina,
Celeste, si unisce a loro Marcucccio).
Don Antonio: Carmelo ... cosa racconta Filippuccio? ... non ti spaventare ... il paese è
tanto piccolo; adesso ... lo battiamo palmo a palmo e la troveremo.
Carmelo: (scoppiando a piangere) Don Antonio mio, e se non la dovessi trovare come
farò? Già ho perduto sua madre ... io lei non la voglio perdere.
Don Antonio: (si commuove, ma si dà contegno) Ma non ti preoccupare, cerca di essere
uomo ed un uomo non si comporta così.
Marcuccio: (correndo) Io l’ho vista ... l’ho vista ...
Zi Biase: Dove, quando ... non farci stare in pena.
Marcuccio: L’ho vista ieri sera, era molto tardi.
Carmelo: Di sera? Di sera uscire di casa? La vedremo.
Don Antonio: Non essere violento ... fallo parlare (e rivolto a Marcuccio) ma dove l’hai
vista? Per Dio ...
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Marcuccio: Io stavo chiudendo tutto e stavo per andare a dormire ... quando ho visto
passare qualcuno ... all’inizio non l’avevo conosciuta ... era buio ... e poi avvolta in uno
scialle scuro ... sembrava proprio una statua.
Carmelo: (spazientito) Vai avanti, lascia i particolari, come sai che era lei?
Marcuccio: Difatti non lo posso giurare, ma mi è parsa certamente lei da un particolare!
Io ho socchiuso piano piano la porta e sono uscito fuori, lei così imbaccuccata, anche se
di tanto in tanto si girava indietro per accertarsi di non essere vista, mi è passata davanti
e un po’ più distante del palazzo di Don Antonio si è fermata, mi è parso che stesse
inciampando, a quel punto le è caduto dal capo lo scialle e mi è sembrato che fosse la
sua sagoma, il chiarore della luna ha illuminato un po’ la sua figura era lei.
Zi Biase: E non l’hai fermata ... non le hai detto cosa facesse a quell’ora lì, dove
andasse.
Marcuccio: E perché lo dovevo fare?
Don Antonio: Tu sei una bestia matricolata! Una giovane donna fugge di casa, è sera, tu
la vedi e non la fermi.
Marcuccio: E come facevo a saperlo?
Don Antonio: Tu al posto del cervello non so cosa tieni; lasciamo perdere e dicci
piuttosto dove era diretta.
Marcuccio: L’ho seguita fino a quando il buio della notte me lo ha permesso, ho visto
che era diretta verso la salita che porta al monastero delle Carmelitane scalze.
Carmelo: Dalle monache ... e a fare cosa? ... non ci credo!
Don Antonio: Non è così ... anch’io ieri sera a quell’ora ho visto quell’ombra, ero
sveglio ... non avevo sonno e non so perché mi venne di affacciarmi. Ho visto passare
un’ombra, non ho capito chi fosse ... ma ho preso il lume e ho potuto vedere che
l’ombra prendesse la via della stazione; però non posso giurare che sia lei ...
Carmelo: Ah! Ecco ... perciò il letto intatto ... quella sciagurata non si è proprio ressa a
letto ... ha aspettato che la casa dormisse. Ma la troverò ... dovessi andare anche in capo
al mondo e qui la condurrò.
Celeste: (con titubanza) Ahimè, anch’io ieri sera ho visto passare un’ombra e mi
sembrato che prendesse la via del bosco.
Carmelo: La via del bosco? Ma nel bosco c’è il burrone! Dio ... Dio ... fa che non sia
così ... fa che lì non sia mai entrata.
(ed intanto fa il suo ingresso in scena Corrado Alvaro, lo scrittore).
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Alvaro: Ma Carmelo, il papà di Melusina in capo al mondo non risulta che sia mai
andato e né mai Melusina qui sia ritornata. Da allora di Melusina neppure l’ombra, ella
si è dileguata con la sua stessa ombra ... Ma in S. Luca se passa qualche bella ragazza
dallo sguardo profondo, ha lo sguardo di Melusina, se ci si sofferma presso il burrone
del bosco c’è chi sente la sua voce. Nelle sere tempestose il vento passa sulle case
portando ora su di me, ora su di un altro lo spettro di Melusina ...
FINE
* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *.* * * * * * * * * * *.* * *
Le opere rappresentate sono state liberamente rivisitate e rielaborate dalla sottoscritta,
accuratamente studiate ed interiorizzate dagli allievi con finalità espressamente
educative.
Conclusione
Quando è iniziata questa esperienza, io animata da tanto entusiasmo, accarezzavo l’idea
di un grande ed ambizioso disegno, quello di creare una compagnia stabile all’Itis con
docenti fissi ed allievi ovviamente ricambiabili; ma, non solo il progetto è rimasto nella
mia mente, quando addirittura di anno in anno, mi sono vista circondata sempre meno
da gente interessata. Però, nonostante tutto e a conti fatti, posso ritenermi soddisfatta,
perché come è vero che ho incontrato non poche difficoltà a portare avanti tale attività,
così è altrettanto vero che sono stata anche sostenuta ed aiutata da tanti e tanti colleghi
che mi hanno incoraggiata facendomi capire che non dovevo demordere, che non potevo
abbandonare proprio quando ormai il teatro, con tutti i suoi andirivieni stava diventando
una istituzione all’Itis. E lo è diventato, adesso è il fiore all’occhiello tra le tante attività
che qui si svolgono; è perfino divenuto lo specchietto delle allodole nell’orientamento.
All’inizio di ogni anno scolastico, nella programmazione è stata inserita con priorità in
assoluto l’attività di orientamento con cui l’Itis incrementa la platea scolastica
attirandola facendo ricorso anche al teatro.
Tra le persone che hanno creduto in me non posso dimenticare il capo d’istituto che sin
dall’inizio non solo si è adoperato in concreto, ma ha sempre avuto parole di
incoraggiamento per me che qualche volta ho conosciuto momenti di crisi personali. Ed
io posso dire, di essere stata abbondantemente ripagata di tanti torti dall’ottima riuscita
dei lavori che sono stati accompagnati sempre da una grossa carica di umanità,
manifestata dall’entusiasmo, naturalmente sprigionato al momento, durante e alla fine di
ogni rappresentazione.
Inserimento del teatro tra le discipline, oggetto di studio
Un episodio molto caro che mi è rimasto proprio dentro, (ricordo, poteva essere tra fine
marzo e inizio aprile ‘94) fu quando un giorno, arrivata a scuola, mi imbattei nel
preside, il quale alla mia vista come un bambino e con un fare tra l’ironico e il
soddisfatto mi disse “salutiamo la nostra capocomica; (con questo appellativo usa
chiamarmi al termine di ogni lavoro quando a rappresentazione ultimata, invita me a
salutare il pubblico e i ragazzi che hanno recitato) d’ora in poi, lei lo è diventata
ufficialmente ... ha sentito pure lei la notizia riportata ieri dal telegiornale?” L’avevo
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ascoltata pure io; la Pubblica Istruzione inseriva il teatro tra le discipline curriculari. Per
me questa fu una conferma dell’idea che avevo sempre avuto del teatro.
Il teatro entrava nella scuola dalla porta maestra divenendone parte del curriculo; io ne
fui contenta perché da questo momento non avrei dovuto più sopportare atteggiamenti
ostili al mio operato. E col passare del tempo me ne sono sempre più convinta perché
esso, soprattutto da quest’anno in corso con la riforma della scuola media superiore
figura tra le attività culturali che potranno accrescere col credito formativo la
valutazione finale dell’allievo.
Questo significa che gli è stata riconosciuta la stessa valenza educativa delle altre
discipline; io invece, esagerando un po’, ritengo che esso, per certi aspetti, potrebbe
rappresentare la sintesi ideale del sapere. Infatti per fare teatro necessita un cumulo di
conoscenze che spaziano in ogni direzione nell’universo conoscitivo andando dal
pratico allo scientifico, dalla classicità al quotidiano; il tutto rivissuto nell’interiorità di
chi si accosta a questo mondo fascinoso, per poi ricostruirlo con la fiaccola del suo
amore e della sua fantasia.
Certamente il ragazzo che si avvicina a questa attività, all’inizio è ignaro di quanta
cultura possa ricevere dal teatro; poi, strada facendo, impara che esso gli insegna a
riflettere e a comprendere che le parole, le stesse parole, a seconda delle circostanze,
degli umori, degli atteggiamenti, delle diverse inflessione di voce, si trasformano in
potenti veicoli di idee, che l’interpunzione ha un importanza capitale nella formulazione
e trasmissione di concetti. Spesso da solo riuscirà a comprendere che una pausa non
afferrata al punto giusto cambia totalmente il significato dell’azione. Ciò dimostra che il
teatro è uno dei mezzi didattici più completi perché, mentre nutre la fantasia tessendo le
corde della creatività con cui accende la luce della passione, non esula dal rispetto di
norme essenziali che inchiodano l’alunno diventato attore all’osservanza della
disciplina, elemento indispensabile di ogni azione scenica.
L’alunno che a scuola fa teatro apprende quasi naturalmente l’abitudine
all’autodisciplina che inavvertitamente diventa una nota del suo carattere.
E non a caso le finalità legate a questa attività non sono solo di natura didattica, ma
vanno molto al di là di essa e tra le quali le più significative sono le seguenti: aiutare il
ragazzo nella fase della crescita socializzante; allontanare le insicurezze dell’età
adolescenziale, migliorare i rapporti interpersonali, scoraggiare l’abbandono scolastico;
avvicinare il ragazzo al teatro come risposta alle devianze giovanili; potenziamento
delle conoscenze storico-letterarie; arricchimento del lessico; migliorare le cadenze
dialettali tramite esercitazione di dizione; il teatro come possibile opportunità di lavoro
ed infine, il teatro come momento di aggregazione e di svago.
Il docente alla ricerca di un metodo di lavoro per insegnare a fare teatro
Durante il percorso teatrale, poiché mi accorgevo che cresceva sia l’interesse della
platea scolastica per il teatro, sia il desiderio di fare sempre meglio da parte degli allievi
nella recitazione, prendevo sempre più coscienza che avevo bisogno proprio io di
sapere, di capire e di addentrarmi sempre più in questo mondo, di acquisire maggiore
consapevolezza di questa realtà, di costruirmi insomma quelle conoscenze adatte a poter
fare teatro.
Purtroppo, lo confesso, quando ho iniziato, ho avuto l’impudenza di accostarmi
all’attività senza avere la minima indicazione né tecnica, né teorica che mi permettesse
di poter lavorare. Mi sono affidata al mio intuito, al mio desiderio di voler fare, alla mia
volontà di andare avanti, al mio temerario coraggio; ma a mano a mano che penetravo in
questo mondo, a mie spese, mi rendevo conto che incontravo delle grosse difficoltà
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dovute soprattutto all’assenza di un necessario corredo idoneo. Allora ho capito che
tutta la mia volontà possibile non mi bastava più; e lo avevo sperimentato sulla mia
pelle, su errori commessi su cui poi sono ritornata e su cui ho riflettuto; e di questo sono
cosciente perché di ogni lavoro rappresentato conservo la ripresa che ho ben custodita.
Dopo qualche giorno mi sono rivista ed ho meditato su cose che ritenevo sbagliate il cui
errore era causato o dalla inesperienza o perché lasciate troppo all’improvvisazione; e
proprio questi momenti mi hanno fatto capire che se volevo continuare a battere questa
pista, non potevo improvvisarmi; avevo bisogno di studiare, di apprendere, insomma
conoscere almeno le tecniche indispensabili. Ed allora proprio simultaneamente allo
svolgimento del secondo progetto triennale “Lo studio della letteratura attraverso il
teatro” mi sono impegnata nella richiesta di un triennio di corsi di aggiornamento agli
organi preposti che mi è stato concesso con la trattazione delle seguenti tematiche:
1) La storia delle rivendicazioni sociali attraverso il teatro tra `800 e `900;
2) Tecnica e comunicazione teatrale;
3) La scenografia, chiave di lettura della condizione umana attraverso il segno tangibile
della voce degli oggetti nella loro rappresentazione.
Il primo corso era mirato a dimostrare come dalla lettura di un’opera letteraria espressa
in qualsiasi genere (romanzo, novella, rivista, lirica) si potesse creare un canovaccio e
da esso un copione da rappresentare, curando soprattutto la maniera di fare “scene”.
La scelta della tematica di chiara matrice sociale era più che altro rivolta ai nostri
interlocutori–allievi affinché potessero comprendere ancora meglio la concretezza del
teatro e il suo efficace messaggio civile.
Il secondo è stato finalizzato all’acquisizione di tecniche gestuali, mimica facciale,
esercitazione di dizione e di “ortoepia”.
Il terzo, indubbiamente più complesso, perché rivolto a conoscere l’evolversi della
scenografia dal mondo classico ai giorni nostri è stato finalizzato all’acquisizione di
conoscenze soprattutto teoriche dei vari generi del teatro dal classico al comico
rapportati alle diverse tecniche scenografiche per la loro rappresentazione.
Per una questione di tempo il corso si è fermato all’aspetto essenzialmente teorico che
prevedo di completare con un ulteriore corso di aggiornamento di carattere tecnico di
cui è stata inoltrata richiesta per il prossimo anno. Ovviamente a seguire tali corsi da me
proposti c’è stato un apprezzabile numero di colleghi, che anche non impegnati
direttamente nell’attività di drammatizzazione, ne riconosce la validità didattica e
pertanto ha inteso apprendere qualche conoscenza in merito.
La partecipazione a tali corsi non ha voluto significare che si è diventati “mostri sacri”;
ma a voler testimoniare l’impegno e l’attenzione che si ha per esso e il desiderio di “fare
meglio” con qualche conoscenza più tecnica. E continuare in maniera più matura questo
lavoro che porto avanti da oltre quindici anni.
Poiché il portare a compimento sia i due progetti triennali, come menzionato, “lo studio
della letteratura attraverso il teatro”, sia il citato triennio dei corsi di aggiornamento, mi
avevano un po’ fiaccata, avevo pensato di concedermi un intervallo di qualche anno; ma
un po’ la richiesta martellante dei colleghi di non interrompere un’attività così avviata,
un po’ io stessa non proprio convinta di quanto andavo dichiarando, la visita di un ex
mio allievo che ha seguito a scuola un triennio di recitazione, impegnato nella
realizzazione del primo progetto teatrale ed attualmente impegnato in un corso di arte
drammatica, con il superamento di un esame non facile, mi hanno fatto ritornare sui
miei passi.
E così qualche cosa anche quest’anno mi inventerò da rappresentare.
Di tutto quanto raccontato la cosa per gli altri straordinaria, ma per me naturale è che
tale attività nata così quasi per gioco, poi divenuta una disciplina di studio, poi
un’attività sociale che apre la scuola al territorio, in qualche caso, è divenuta anche
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opportunità di lavoro. Infatti come il caso citato, ce ne sono ancora altri due; due allievi
che hanno seguito un triennio di recitazione a scuola, hanno scelto il teatro come
mestiere nella vita. Questi ragazzi hanno seguito un corso di arte drammatica e sono
diventati attori di professione.
Che emozione, vederli recitare! Adesso sono loro i miei maestri! perciò, quando penso
di abbandonare tutto, il pensiero di questi ragazzi mi dà la carica giusta; e, trasportata da
queste irripetibili “memorie”, ritorno indietro sui miei passi e così sarà fino a quando ne
avrò la forza.
FINE
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CIVILTA` CAMPANA