2014 numero 2 febbraio Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Remote monete (del VI e IV secolo a.C.) lo testimoniano. Esse provenivano quasi tutte da città dell'Asia Minore, come Aspendo in Panfilia, Olba in Cilicia, Berrito e Tebe nella Troade. Il simbolo si sarebbe quindi diffuso in occidente attraverso i greci che con le tre gambe marchiavano diverse monete (a esempio quelle di Atene del VI sec a.C., ma anche successivamente nelle urbi di Paestum, Elea, Terina, Metaponto e Caulonia). In Sicilia, invece, pare essere stato Agatocle (in Siracusa) ad usare il simbolo sulle monete e forse come sigillo personale. E' solo in epoca romana che la trinacria perde il suo intrinseco significato religioso per diventare esclusivamente il simbolo geografico della Sicilia. In quell'epoca a Palermo la gorgone con tre gambe appare nel suo aspetto definitivo sulle monete. Ma al posto dei serpenti, la testa della gorgone è decorata con tante spighe. Spighe di grano che tributavano alla Sicilia il suo ruolo di granaio dell'antico impero romano. Sicilia sinonimo di fertilità e prosperità. Ma perchè è stata usata la testa di una gorgone? Perchè, se il significato religioso della trinacria non c'era più, si continuò ad usare una immagine mistica come quella della gorgone? La gorgone, amici miei, è un dettaglio tipicamente siciliano. In tutte le altre rappresentazioni, le gambe erano legate tra loro attraverso un cerchio o un punto. E la "Trichetria" è fortemente legata alla mitologia greco orientale. I nostri avi erano soliti decorare tempi, vasi e case con maschere e raffigurazioni pittoresche per scongiurare, allontanare o annullare influssi maligni. Proprio come il gesto delle corna che noi usiamo per esorcizzare il male. Per il siciliano doc, religioso e superstizioso per tradizione familiare, la trinacria è un talismano portafortuna. Vogliamo concludere questo articolo spiegando anche il perchè del giallo e del rosso presenti nel vessillo ufficiale della regione Sicilia. Il giallo ed il rosso stanno a rappresentare rispettivamente il coraggio delle città di Palermo e poi di Corleone, che per prime si sollevarono contro i francesi durante i vespri siciliani del 1282. Nella bandiera siciliana campeggia in bella mostra il simbolo di una testa femminile con tre gambe piegate (triscele) e mosse direttamente dal capo. In araldica questa raffigurazione prende il nome di trinacria. La testa rimanda chiaramente alle gorgoni, mostri della mitologia greca di aspetto mostruoso, ali d'oro, mani con artigli di bronzo, zanne di cinghiale e serpenti al posto dei capelli. Esse erano tre e rappresentavano le perversioni: Euriale rappresentava la perversione sessuale, Steno la perversione morale e Medusa (la più famosa, unica mortale tra le tre e custode degli Inferi) la perversione intellettuale. Anticamente il nome della Sicilia era quello di Triquetra o Trinacria. Questo perchè, a differenza della classica forma tonda di tutte le altre isole, la Sicilia ha una configurazione geografica strana. E' caratterizzata da tre promontori, Pachino, Peloro e Lilibeo e tre vertici che quasi istintivamente rimandano al triangolo. Ed è probabilmente in epoca ellenistica che la cultura greca, colma di dei, semidei e mostri mitologici, coniò il simbolo della gorgone con tre gambe attaccate direttamente alla testa associandolo piano piano alla nostra terra e ai misteri che la avvolgevano (un tempo la fine del mondo con tanto di colonne d'ercole era molto più vicina alla Sicilia di quanto possiamo oggi immaginare). Ma da dove trae origine questo simbolo? Ce ne sono mai stati di simili nella storia dell'uomo? In questo gli studiosi sono concordi nel ritenere che la trinacria sia un antico simbolo religioso orientale che rappresentava il dio del sole nella sua triplice forma di primavera, estate e inverno. 1 Un bel ponte CINISI LEGINO Il 5 gennaio scorso ricorreva il 30° dall’omicidio di Pippo Fava, abbiamo trovato questo articolo a firma del figlio Claudio e ve lo proponiamo: Risiko Quella sera eravamo in quattro. Noi quattro, come al solito, attorno al tavolo della cucina a casa della signora Roccuzzo. Riccardo scelse i gialli, che non voleva mai nessuno. Antonio e Miki rossi e neri, una vecchia sfida di colori dominati che non si risolveva mai. Io mi presi i verdi, colore fesso, tiepido, di quelli che non lasciano traccia. Giocammo con candore e accanimento, come sempre, improvvisando alleanze, attacchi e ripiegamenti, sacrifici, tradimenti: tutto. Il canovaccio prevedeva ruoli immutabili. Miki con la sua bella faccia da guappo dava la scalata al mondo spostando armate attraverso oceani immaginari. Antonio, prudente come un segretario di sezione, puntava alla Cina, cuore immobile di un’Asia attraversata da straordinarie mitologie, la Yacuzia, la Kamchatca, il Siam… Riccardo intanto s’ammassava da qualche parte e lì aspettava la guerra, saggio immobile, come se quell’unico territorio posseduto fosse l’isola di Stromboli, protetta dal mare e dagli dei. Di me non so, non ricordo: applicavo le regole del gioco, attaccavo, arretravo, passavo la mano. Pensavo che le guerre si vincono provando a non perderle, facendo i ragionieri sulle baionette. Avevo ancora un’età onesta, mi era consentito non capire un cazzo. Insomma la partita fu come altre cento prima di quella sera: lunga, sfacciata, riottosa. Nessuno vinceva, nessuno vinse. Non so chi, alle tre del mattino, prese il logoro cartone del risiko e lo fece saltare in aria mescolando definitivamente carri armati, territori, ambizioni. Per la prima volta scegliemmo di non arrivare fino in fondo: ci mandammo allegramente affanculo e ce ne andammo a dormire strippati di amaro averna, sazi e giusti come chi crede di essere immortale. Il giorno dopo ammazzarono mio padre. Dopo trent’anni, se dovessi portare con me una cartolina di quei giorni e degli anni che vennero dopo, sarebbe questa. Il tavolo della signora Roccuzzo, il cartone slabbrato del risiko, la faccia ancora immacolata di quattro ragazzi che si stanno giocando l’ultima partita, prima che la vita gli precipiti addosso. Domenica 5 gennaio alle ore 21 presso la Parrocchia di S. Ambrogio di Legino Enzo Motta ha portato il saluto del Sodalizio ai ragazzi della Parrocchia Ecce Homo di Cinisi (Palermo) -patria di Peppino Impastato - parrocchia gemellata con quella di Legino nel nome dei loro giornali che si chiamano entrambi IL MELOGRANO (Ne abbiamo recentemente parlato su queste colonne su segnalazione dell'amico Renato Cesarò.) L'incontro era dedicato alla difesa della legalità contro la mafia. I ragazzi di Legino hanno riferito di aver partecipato a un "campus" in Umbria per bonificare un "terreno mafioso" assegnato a "Libera". I ragazzi di Cinisi hanno parlato delle loro tante iniziative portate avanti in un ambiente che solo lentamente sta prendendo coscienza della valenza negativa del sentire mafioso, mentre cercano di far capire che solo legalità e solidarietà possono mutare radicalmente la qualità della vita in quelle contrade. Enzo Motta ha portato la sua testimonianza: nato in un paese ad alto tasso di mafia, ha visto la stessa abbandonare i suoi interessi verso le terre e il bestiame per emigrare nelle città, attratta dagli appalti, dalle speculazioni edilizie e dal "pizzo", sul commercio, fino ad arrivare alla droga e al riciclaggio degli enormi guadagni che questa procura, in attività apparentemente lecite con la complicità dei "colletti bianchi". Su questo terreno però la mafia cresciuta in efferatezza ha coinvolto donne e bambini, ha ucciso magistrati e giornalisti, ha praticato vendette trasversali, perdendo il credito che godeva fra la gente (salvi i quartieri degradati delle metropoli) e si identifica con la criminalità comune, rischiando di essere battuta sul campo dalle forze dell'ordine. Ma per estirparla, anche al nord, dove ha creato delle "filiali" occorre farla finita (come ricorda il nostro giornalista-scrittore Matteo Collura) con la mentalità mafiosa basata su un diffuso "familismo amorale" che inquina tutti gli ambienti (anche quelli politici), che corteggia il potere e prescinde dal merito. Speriamo di ripetere l'esperienza. Claudio Fava da “I Siciliani Giovani” A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?” 2 Stefano Bertè Tante le testimonianze di sentito cordoglio arrivate al “Pirandello” da parte di coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato quali Franco Astengo, Emilio e Paola Sidoti, Pina Zanghi, Salvatore e Lena Finocchiaro, Dario Caruso e Il Circolo degli Inquieti, Silvia Bottaro e le Associazioni “Aiolfi”, e “ A Campanassa”. Milazzo (ME) 1°dicembre 1923 Savona 9 gennaio 2014 L’avevo conosciuto oltre 45 anni fa quale Consigliere della Cassa di Risparmio di Savona, poi, come il Direttore Didattico che aveva lasciato un segno indimenticabile in Val Bormida e in seguito ci eravamo ritrovati “colleghi” nella vita del nostro Sodalizio, sempre presente, attivo e propositivo per tutte le nostre attività. In questi ultimi anni con Stefano, ci vedevamo spesso, quasi quotidianamente, incrociandoci per strada, fra una commissione e l’altra e l’incontro era sempre, oltre che mio, anche un suo piacere, perché vedevo il dolce sorriso illuminargli il volto. Quando, più spesso, potevamo dedicarci qualche minuto, seduti ad un tavolino del caffè, che peraltro non accettava mai che offrissi, mi beavo della lucida, pacata e civile conversazione che riusciva ad imbastire. Sentiva sempre l’esigenza di sottolineare l’importanza dell’educazione, intesa come senso di responsabilità, di impegno e mi confessava della sua ancora grande voglia di conoscere, leggendo in continuazione: “ Mia moglie dice che ha sposato un libro!” mi ripeteva e io sapevo che invece lui si prodigava in casa quotidianamente con affetto e attenzione. Poi parlavamo dei nostri “giovani” e traspariva l’orgoglio per il figlio Daniele così come io rendevo palese l’orgoglio per i miei. E con grande intelligenza, apprezzando l’attività del NuovoFilmstudio “La Scuola al Cinema”, ribadiva l’importanza dell’attenzione verso i giovani, “il nostro futuro” e talvolta si accalorava nel vedere e sentire quale degrado culturale manifestassero proprio coloro che avrebbero dovuto dare l’esempio. Svelava la sua natura di Maestro, l’insegnante che non perde mai di vista il ruolo e continua ad esserlo sempre, con quanta discrezione e tanta più efficacia. Quante volte abbiamo parlato di “dignità”, quel valore che oggi sembra di seconda serie e che invece è la cartina di tornasole nei rapporti fra persone, fra genti, fra popoli. Ecco perché mi piace definire l’amico uomo degno, della cui amicizia sono stato onorato e che non dimenticherò. Insieme a Giovanna ti salutiamo con stima e affetto. Ciao Stefano. --------BUONA LETTURA – “IL PARTIGIANO DI PIAZZA DEI MARTIRI” DI ENZO BARNABÀ Buona lettura è uno spazio per “assaggiare” libri buoni, ovvero utili, piacevoli, intelligenti, capaci di lasciare un segno nell’immaginazione di chi li sfoglia. Un taccuino per catturare le impressioni, i messaggi e le parole che escono di pagina in pagina, ma anche per incontrare scritture nuove e legate all’attualità. Un angolo per parlare di libri e condividere il gusto di una buona lettura. È un libro che racchiude tante vicissitudini, le une intrecciate alle altre, come in un gioco di rimandi: la storia di Ciro, il siciliano che combatte i nazisti e che il 17 marzo del 1945 finisce impiccato a Belluno; la vicenda del movimento di liberazione nel Nord Italia; le peripezie di un figlio alla ricerca del padre. È Il Partigiano di Piazza dei Martiri (Infinito edizioni) il nuovo libro di Enzo Barnabà, un fine lavoro di ricerca con indosso la fresca veste del romanzo. L’autore ci regala una storia liberamente ispirata alle vicende di “Ciro” – la cui reale biografia viene presentata in fondo al libro – dove le esperienze vissute dai personaggi concorrono a delineare il profilo dello stesso Barnabà, narratore ormai maturo e non più solo linguista o storico. Perché se è vero che il racconto poggia su ricerche, documenti e testimonianze, tanto da presentarsi come una cronaca viva in cui non mancano lo spirito storico e critico, è altrettanto vero che Il Partigiano di Piazza dei Martiri si avvale di un’efficace struttura narrativa, di un godibilissimo intreccio e di uno stile chiaro e preciso, che facilita il lettore nel prendere subito parte ai casi dei personaggi. Vale la pena ripercorrere la trama: al centro della vicenda, l’imprevedibile irruzione della figura del partigiano Salvatore Cacciatore, nome di battaglia “Ciro”, nel trantran decisamente moderno e irrisolto del figlio Giulio, sessantenne milanese di origine siciliana. Giulio ha sempre creduto che il padre – di cui non porta il cognome – fosse disperso in Russia, 3 ma, dopo un colloquio del tutto casuale con un amico, inizia a dubitarne. Decide così di scoprire la verità e di intraprendere un lungo viaggio che lo porta da Milano a Dubrovnik, dalla Sicilia a Roma, dalla Carnia alle Dolomiti. Un percorso in cui scopre che il giovane fascista Salvatore, dopo aver lasciato il seminario poco prima di prendere i voti, parte alla conquista della Libia convinto della missione civilizzatrice dell’Italia. Ben presto, però, fortemente deluso dal fascismo, lascia il Centro d’addestramento Carristi vicino Pordenone in cui viene collocato dopo esser stato ferito in guerra e fa perdere le sue tracce, tanto da essere ufficialmente dichiarato disperso. E lo crede disperso anche la fidanzata siciliana, la bella Saretta, da cui aspetta Giulio, il figlio che non conoscerà mai. Ma in realtà Salvatore si reca in Jugoslavia, si ritrova con i partigiani, assume il nome di “Kamen”, che significa “roccia”, e sposa l’ideale comunista. Poi torna in Friuli, combatte nel battaglione “Gramsci” e opera come capo partigiano nella zona di Perarolo, dove, con il nome di battaglia di “Ciro”, compie diverse azioni contro i tedeschi, finché, forse tradito da alcune donne per questioni di gelosie, è catturato e impiccato il 17 marzo 1945 a un lampione della piazza principale di Belluno, quella che sarà chiamata “Piazza dei Martiri”. Ecco: questa è la storia di Ciro. E la storia di un pezzo del nostro Paese. Perché Barnabà non dimentica nulla: la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia, la guerra civile, le barbarie nazifasciste, le torture, le persecuzioni. E nel farlo raggiunge il bersaglio, ovvero quella capacità di comunicare, far discutere, conoscere. Lo raggiunge proprio perché, in primo piano, irrompe la logica romanzesca che riesce a rendere conto dei fatti. Il viaggio di Giulio diventa così un travaglio interiore, un lento e profondo processo di fiera identificazione con quel padre tanto immaginato che ora si trasforma in realtà, seppur lacerata. Barnabà vince la scommessa di essere tanto più vero quanto più ascolta i suggerimenti della letteratura. Egli scrive con convinzione della storia proprio perché si pone all’ombra del racconto. Libro veloce, che si apprezza per la mobilità della prospettiva, Il Partigiano di Piazza del Martiri lascia al lettore l’impronta pungente dell’ideale, della passione, della quotidianità, di quegli aspetti che si riverberano sui padri e sui figli, sulla storia e su chi la interroga scrivendo. di Mara Pardini Enzo Barnabà è nato a Valguarnera (Enna) nel 1944. Dopo la maturità classica ha studiato Lingua e letteratura francese a Napoli e a Montpellier e Storia a Venezia e Genova. Ha insegnato Lingua e letteratura francese in vari licei del Veneto e della Liguria. Passato alle dipendenze del ministero degli Esteri, ha svolto la funzione di lettore di Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Aix-en-Provence e di insegnanteaddetto culturale ad Abidjan, Scutari e Nikšić. Vive a Grimaldi, dove la riviera del ponente ligure si confonde con quella francese. Ha pubblicato 15 libri, tra i quali: Le ventre du python, Editions de l’Aube, 2007; Sortilegi. Racconti africani (con Serge Latouche), Bollati Boringhieri, 2008; Morte agli Italiani!, Infinito edizioni, 2010 (tradotto in francese col titolo Mort aux Italiens!, Editalie, 2012). Nel pomeriggio del prossimo 4 marzo grazie a Feltrinelli Point, con gli amici Enzo Barnabà e Matteo Collura presenteremo il libro, in Sala rossa gentilmente messa a disposizione dal Comune di Savona. Per Natale mi sono regalato il nuovo libro di Gabriello Montemagno, nato a Caltagirone nel 1938 e che ha lavorato per 25 anni al quotidiano L’Ora e per circa 20 anni alla Rai siciliana, nonché autore, regista e attore teatrale. Il titolo è Il Babbìo, Storia della stampa satirica a Palermo e contiene interessanti spunti che contribuiscono a dare dei Palermitani un’immagine argutamente autoironica. Nel dialetto siciliano 'Babbiare' significa 'prendere in giro', 'sfottere'. La parola deriva dal termine 'Babbo' che in siciliano indica una persona scema,stupida, che facilmente si fa prendere in giro. Tipica frase in cui viene impiegato il termine babbiare è: Mi stai babbiando? (cioè: mi stai prendendo in giro?) 4 La stampa umoristica palermitana tra ‘800 e ‘900 fu fortemente condizionata dal credo politico dei suoi creatori, non disdegnò l’uso del dialetto e produsse giornali dai titoli già di per sè identificativi del contenuto del foglio. Spesso vi si riscontravano uno o più motti che caratterizzavano il giornale, le caricature (i cosiddetti puppazzetti) che accompagnavano gli articoli erano più o meno esasperate e graffianti e il tratteggio dei disegnatori locali più noti rifletteva lo stile artistico del periodo. Tra i giornali umoristici pubblicati a Palermo dopo l’unità d’Italia vanno ricordati Belzebù o il diavolo ambulante, che si dichiarava nel sottotitolo “gazzetta enciclopedica umoristica” e che si pubblicò nel 1861; Il Somaro, quotidiano del 1862; Il Rigoletto, settimanale umoristico, che si pubblicò dal 1867 al 1875; Momo, settimanale diretto da Pietro Messina, che ebbe tra i suoi collaboratori Ludovico Perrone Paladini e che si pubblicò per due anni dal 1869 al 1870 con un buon successo; il famoso Piff! Paff ! Ricordiamo anche Chicot, un settimanale illustrato diretto da Matteo Dominici, che si pubblicò dal 1882 al 1883, e Papiol. Per quel che riguarda la stampa più spiccatamente satirica occorre fare un passo indietro negli anni: già nel periodo dei moti, in particolare nel biennio 1848-1849, la produzione di stampa politica dal taglio fortemente sarcastico era notevole: basti pensare a Non ne posso più (1848), Pasquino (1848); Il Pio IX e Ferdinando (1848), I diavoli della Zisa (1863) e La forbice, quest’ultimo pubblicato nel 1848 e fino al 29 maggio 1849 e riapparso nel 1869 per andare avanti fino al 1902; infine Il Diavolo zoppo venne pubblicato settimanalmente con un buon successo dal 1885 al 1895. Il volume documenta attraverso una dettagliata rassegna come l’umorismo e la satira fossero lungo i due secoli espressione fondamentale dell’attività intellettuale siciliana e della vita culturale, artistica, socio-politica e mondana della città di Palermo. Non é da meno il prof. Salvatore Paolino nato a Modica nel 1939 dove vive sin dalla nascita e dove ha concluso la carriera di Preside del Liceo Classico “Tommaso Campanella“. Chiddi sì ca èrunu tièmpi ! che ci è stata segnalata dall’amica Franca M.Ferraris che ringraziamo. Ecco un paio di poesie: L’ aucieddu ri Masciu Turi Cummari Pippina, avi ‘m pièzzu ca num miru voscia suòru ‘a gnìa Trisìna. Ni sapiti còrca còsa? Nun vulissi ca partiu Senza rarimi l’aucièddu Ca ci rise ri tinirimi Fina a cuannu ma mugghieri Nun turnava ri lu viagghìu. So pigghiàu cu tantu amuri chè sa manu ra ma cagghia: “Stati cueto Masciu Turi, sacciu comu cuvirnallu: ‘a scagghiola ogni matina, a lattuchedda a manzuornu e a cangiarici l’accua ‘na vota o juornu.! Nun vulissi cummari Pippina Cà a rituorno ma mugghieri Nun truvannolo ò sa puòstu ‘u circassi p’o cuartieri. Si sapissi ca ‘gnia Trisina Si lu misi ntà sa càgghia ‘a finiri a sparatina È sicuro, nun si sbàgghia! (traduzione per i non udenti) L’Uccello di Mastro Turi “Comare Peppina, è da un pezzo che non vedo vostra sorella Teresina. Ne sapete qualcosa? Non vorrei che fosse partita senza prima restituirmi l’uccello che le avevo dato in custodia fino a quando mia moglie non fosse tornata dal viaggio. Se lo prese con tanto amore con la sua mano dalla mia gabbia.” “State tranquillo Mastro Turi, so come governarlo: la scagliola la mattina, la lattughina a mezzogiorno e il cambio dell’acqua una volta al giorno.” “Non vorrei comare Peppina che al ritorno, mia moglie non trovandolo al suo posto, lo cercasse per il quartiere. Se sapesse poi che Teresina l’avesse messo nella sua gabbia, che finisca in sparatoria è sicuro che non sbaglia!” E’ autore di una raccolta di poesie in dialetto dedicata alla sua città dal titolo: 5 Arà LE SIGNORINE DI VIA QUARDA con gli amici ad annusare la notte “Arà chi si rici gnìa Cuncetta Chi fa nz’arricugghìu vuòscio maritu O putamentiè ancora a travagghiari Anchi si ciùi è o scuru ca si fedda?” “E a bui chi vi n’amporta,ddon Pppinu, Picchì nun vi faciti i caddi vuosci” .“Ma picchì v’a picchiati,gnia Cuncetta Si parra sulu tantu pi parrari. Aieri mi parsi ca trasì nta ‘gna Razzietta Chidda ca stapi a Punta e valatedda Vicinu o tabacchinu ‘i Malantrinu E vinni rucchieddu e fazzeletta.” “Ciuttuosto,ddon Pippinu Ci ata a diri a voscia mugghieri Ca cuannu ci fa bisita ‘u jarzuni Ro massaro pi binnirici ‘i ricotti Mentri siti a travagghari, ri non pigghairsi ri còllera e a lamintarisi ciù picca si ci su’ aumienti ri lu priezu” un divertissement dell’amico calabro savonese Gianni Gigliotti Le ricordo bene le signorine! Anni cinquanta, facili da contattare, il nome e il numero di telefono scritto sulle pareti del ‘cessi pubblici’, a Savona in via Aonzo, allora anche con servizio docce perché pochi l’avevano in casa, settanta lire, compreso un asciugamano dal colore incerto, un panetto di pietra pomice spacciato per sapone, con la pedana di legno scivolosa a rischio trauma e l’acqua a spruzzi alterni tra il bollente e il sotto zero e dalle ‘cabine‘ affiancate, in genere con soli uomini, a vociare a gara le più ‘colorite e scurrili parole di questo mondo’, un quarto d’ora di tempo massimo per lavarsi e asciugarsi oppure la tariffa raddoppiava, ovviamente vietato entrare in compagnia ma allora non si usava. Eppure che felicità!, cari amici miei, oggi ben oltre i settant’anni (a questo punto, visto la benevolenza della vita, è quasi doveroso dire ‘che Dio sempre ci benedica, viva l’amore e viva… la rima’. Poi, puliti come polli spiumati, meglio se in compagnia, tutti a fare caciara e poi il sesso a pagamento in una delle numerose ‘case chiuse’, le ‘maisons’, in via Quarda, via Fraschieri, corso Mazzini, vicoli Gallico e Crema: ambienti e ragazze puliti e dal buon profumo di lavanda (controllate settimanalmente dalla Questura, con libretto sanitario severissimo, chi aveva qualche problema di malattia o altro obbligata a recarsi in ospedale per i controlli e cure). Gentilissime e sorridenti, non tutte giovanissime, che sbarcavano così il lunario spesso inviando parte del denaro guadagnato ai vecchi genitori lontani, o per mantenere i figli agli studi magari privi del padre in quanto in carcere, con buoni rapporti con i vicini di pianerottolo ai quali spesso facevano regali a motivo del disturbo sovente arrecato. Le signorine prendevano per mano i clienti per metterli a loro agio accompagnandoli per mano in camera, si atteggiavano ad amiche, la solita pantomina, per poi concludere con orgasmi simulati per evitare che ‘i maschi’ ci restassero male, con il solito zuccherino: ‘mi hai fatto impazzire, torna presto’, senza mai sgarrare sui tempi e soprattutto sulle prestazioni come da tariffario ben in vista appeso sulla porta interna oltre che nella sala d’ingresso dove si pagava anticipatamente alla ‘maitresse’ salvo conguaglio per eventuali extra richiesti in ‘corso d’opera’. ORSU’ Orsù, che si dice donna Concetta, è già rincasato vostro marito oppure è ancora a lavorare, anche se già il buio si taglia a fette? E a voi che ve ne importa,don Peppino. Perché non vi fate i cavoli vostri? Ma perché ve la prendete donna Concetta? Si parla solamente per parlare. Ieri mi è parso di vederlo entrare da donna Graziella quella che ha il negozio a “Punta e valatedda” vicino alla tabaccheria dei Malandrino e vende rocchetti e fazzoletti. “Piuttosto,don Peppino,dovete dire a vostra moglie, quando le fa visita il garzone del massaro per venderle le ricotte, mentre siete al lavoro, di non farsi prendere dalla collera e a lamentarsi di meno se ci sono aumenti di prezzo.” A proposito di prezzi… "Pur non avendo avuto l'opportunità di frequentare le 'case chiuse', per altro senza per questo dovermi scusare o vergognare, magari rammaricandomi in quanto la sessualità è elemento fondamentale della vita intima di ciascuno di noi, ho un ricordo romantico delle 'signorine' che lavoravano sullo stesso pianerottolo dove abitavo: gentili ed educate mi volevano bene ed io non dimentico. E poi, e poi il tempo scapigliato di allora era sicuramente più morale di quello di oggi avvelenato da falso perbenismo e intolleranza." (gg) 6 un pulsante e i nipoti a considerarci degli alieni perché non guardoni dei siti porno. Fino all’arrivo della ‘pillola blu,’ la rivincita, e che rivincita! Noi vecchietti, in quattro e quattr’otto abbiamo surclassato figli e nipoti sempre più annoiati, sempre più ammosciati, smarriti nelle loro crisi esistenziali e ormonali. "Il mare è sempre uguale / sbuca dalla finestra in alto della scala / solo l'odore è diverso / scivolano i ricordi come gocce di sudore / ed hanno il sapore dell'acqua salata. Via Quarda / dopoguerra / macerie e povertà / contrabbando e suoni di sirene. La trattoria della Francese a cento lire / la Fratellanza a due passi con il ballo del sabato / e poi / e poi gli amici / si sa come vanno a finire queste cose. Tutti insieme ad annusare la notte / in fila dietro la porta / a contrattare gli spiccioli e le signorine. Volano le ore / già si odono i rintocchi della Campanassa / l'alba s'intrufola rubando i sogni e l'allegria / c'è profumo di caffè nella stanza / chiude il casino / è tempo di fuggire via." da “Trucioli Savonesi” Era il periodo d’oro del contrabbando di sigarette, centinaia di scatoloni che passavano sotto il naso di tutti, si nascondevano nelle cantine, nelle dispense, nei forni a legna, la povera gente guadagnava qualche lira per la custodia, qualcuno si arricchiva, ma tutto era pacato, una cosa normalissima e con il sorriso sulle labbra. Scriveva Mario Soldati ‘non ho mai perso la speranza, salendo quella scala, di trovare la donna della mia vita e la trovavo sia pure per pochi minuti’. I preti, nelle loro prediche domenicali in chiesa, ammonivano di votare ‘la croce’, cioè la Democrazia Cristiana per non andare all’Inferno, intanto le Brigate Rosse studiavano il da farsi. Con la sua rivoluzione giovanile ibrida sociale del ’68, sembrava si dovesse sovvertire il tran tran di un’Italia bacchettona, ma tutto si è esaurito con ‘i fiori nei cannoni invece dei proiettili’. Le signorine, loro no, sempre tranquille e operose a svolgere il loro mestiere senza ipocriti pudori, da dieci anni circa traslocate dalle ‘case chiuse ai marciapiedi’ per via dello sfratto proclamato da santa Lina Merlin (20 settembre 1958), i ragazzini potevano facilmente abbordarle, oggi ancor più facilmente, nessuno chiedeva la loro età, le malattie veneree proliferano. Noi, sempre più vecchi e incazzosi, per l’età e gli acciacchi, prostata infiammata e pancia debordante, ad arrangiarsi come potevamo, a inventarci giorno per giorno il piacere della vita, pur se frastornati da ‘quel mostro invadente di internet,’ con i figli a declassarci perché incapaci di premere ----- Bello l’incontro con l’ICIT all’Istituto “Boselli” il 21 gennaio scorso, nel corso del quale abbiamo potuto assistere al filmato della rappresentazione teatrale Le spade e le ferite andato in scena a San Miniato di Pisa nel luglio del 2000. La visione è stata preceduta dal messaggio che l’Autrice Elena Bono (classe 1921) ci ha inviato per l’occasione, a mani della sua più accreditata biografa e affettuosa sostenitrice Stefania Venturino, anche lei,scrittrice e giornalista: "L' Opera ha un senso universale, metastorico, che trascende gli stessi protagonisti con i loro temperamenti, pulsioni e passioni personali. Impero e Papato, i due cardini dell' ordine mondiale, pretendenti al dominio del mondo, fatalmente dovevano lottare tra loro, nel segno e nel sogno di una impossibile unità dello spirituale e del temporale (prevalendo -ovviamente- per la Chiesa lo spirituale e per l' Impero il temporale). 7 Fisico e metafisico: termini di un conflitto interno ad ognuno di noi e che non avrà mai fine se non con la fine del mondo. Lo scontro qui si storicizza in due formidabili personaggi: Federico II Hohenstraufen, nipote del Barbarossa, e Innocenzo IV Fieschi dei Conti di Lavagna, già esattori del fisco imperiale e come tali gratificati in terre, titoli e privilegi dal Barbarossa stesso. Nemici, un tempo amici e speculari tra loro, entrambi soccombono stremati dall' immane sforzo, segnando con la loro fine il tramonto stesso del medioevo con le sue ideologie o miti che dir si voglia. La Liguria, coinvolta nella querelle, pagò duramente la "colpa" di aver dato non solo i natali ma anche appoggio morale e materiale a Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna. Straziata, stuprata, insanguinata, l' umile gente trova la forza civile e cristiana di rialzarsi, di rialzare cose e chiese, di riprendere a vivere, a operare, portando così avanti la Storia. La quale non è gestita unicamente dai potenti ma grava specialmente sulle spalle della gente qualunque. Sulle spalle di ciascuno di noi.” “Quando combattono gli elefanti, i fili d’erba sono i primi ad essere schiacciati”. Due grandi attori come Massimo Foschi (Federico II) e Eros Pagni,(Innocenzo IV), una regia teatrale affidata ad un maestro delle opere teatrali e cinematografiche quale Ugo Gregoretti, e la regia televisiva del siculo toscano Salvatore Ciulla, una scenografia che completa con uno scenario costruito, l’architettura medievale della Piazza di San Miniato hanno danno vita ad una rappresentazione storica di due archetipi del potere temporale e spirituale: Le spade. Nella prima parte, forse la migliore, con i dialoghi fra Federico II e Pier delle Vigne si evidenzia un linguaggio drammaturgico che è la fusione di molti apporti linguistici. Il polilinguismo di FedericoII figlio di tedeschi, nato in Puglia, cresciuto in Sicilia con coetanei arabi che si fonde col protoitalico partenopeo del capuano Pier delle Vigne. Un mosaico linguistico di tedesco e francese, che acquista ulteriore forza dal latino liturgico, che fa da collante universale. Forse troppo calcato l’aspetto dittatoriale di FedericoII “stupor mundi” e la scarsa santità del genovese Conte di Lavagna (Innocenzo IV), che nel dialetto dei carruggi, perde la sacralità del ruolo. Ma le due figure ritrovano una dimensione umana nella comune attesa della morte,che li riporta in mezzo a quel popolo cosi vulnerabile (Le ferite), di fronte allo scontro dei grandi. In questo mulinare di lingue internazionali ci è venuto alla mente un proverbio africano che recita: Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena. Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta un'epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome. Federico secondo, imperatore d'Alemagna e re di Sicilia, chiamato da Dante “cherico grande”, cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel novelissimo signore, nella cui corte a Palermo venia “la gente che avea bontade, sonatori, trovatori e belli favellatori”. E perciò i rimatori di quel tempo, ancorchè parecchi sieno d'altra parte d'Italia, furono detti siciliani. Che cosa è la cantilena di Ciullo? È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutt'i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia. Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze, mescolata di voci siciliane, napolitane provenzali, francesi, latine. Diamo ad esempio due strofe: P.S. Si narra che solo pochi giorni dopo l’elezione di Innocenzo IV, peraltro avallata da Federico II, lo stesso Federico II ebbe la conferma che il papa non poteva che difendere gli interessi della Chiesa e commentò: “Ho perso l'amicizia di un cardinale e guadagnato l'inimicizia di un papa.” La curiosità di ricordare o ritrovare le informazioni sulla nascita della lingua italiana, mi fanno andare sugli scaffali in alto della libreria (quelli di non agile consultazione) e tirare giù un vecchio volume: Storia della letteratura Italiana di F.sco De Sanctis 1870…. E’un tutt’uno aprirlo alla prima pagina e condividere con voi l’immediata emozione, con la promessa che… (segue) Capitolo I I SICILIANI 8 AMANTE più o meno di verisimiglianza, ma non si può affermare per la insufficienza de' documenti. Oltreché, non è questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di così alto interesse, materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni. Si possono affermare alcuni fatti. La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della nazione, parlata e scritta da' chierici, da' dottori, da' professori e da' discepoli. Ricordano Malespini dice che Federico secondo seppe “la lingua nostra latina e il nostro volgare”. Molte sono le femine c'hanno dura la testa, e l'uomo con parabole le dimina e ammonesta: tanto intorno percacciale sinchè l'ha in sua podestà. Femina d'uomo non si può tenere. Guàrdati, bella, pur di ripentere. MADONNA Che eo me ne pentesse? Davanti foss'io auccisa, ca nulla buona femina per me fosse riprisa. Er sera ci passasti correnno alla distisa. Acquistiti riposo, canzoneri: le tue parole a me non piaccion gueri. La canzone è tirata giù tutta d'un fiato, piena di naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia, ineducata. E perciò il documento è più prezioso, perchè se l'ingegno del poeta apparisce ne' concetti e ne' sentimenti e nell'andamento vivo e rapido del dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino di quel tempo. E studiando in quella forma, è facile indurre che c'era allora già la nuova lingua, non ancora formata e fissata, ma tale che non solo si parlava, ma si scriveva; e c'era pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di concetti, e con le sue forme tecniche e metriche già fissate. Chi sa quanto tempo si richiede perchè una lingua nuova acquisti una certa forma, che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace che la lingua di Ciullo, ancorachè in uno stato ancora di formazione, dovea già essere usata da parecchi secoli indietro. E ci volle anche almeno un secolo, perchè fosse possibile una scuola poetica, giunta allora all'ultimo grado della sua storia, quando i concetti, i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in tutti i medesimi. Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come e quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si può congetturare con Camilleri - De Mauro. Il dialetto è cosa seria Questo non è un libro per giovani. È un colloquio tra due grandi vecchi della nostra cultura, Andrea Camilleri scrittore e Tullio De Mauro linguista, che ragionano, discutono, argomentano della lingua che hanno vissuto. Camilleri, naturalmente, ne parla da scrittore, cioè racconta della sua lingua, di quella speciale maniera siculo-italiana che ha inventato e che è diventata una sorta di koinè tra i suoi ammiratori (e ammiratrici). A De Mauro invece sta più a cuore lo stato di salute culturale del paese, anche se ogni tanto anche lui lascia affiorare qualche vena di autobiografia linguistica. Tra le due prospettive, che si intrecciano, si incontrano, spuntano frammenti e episodi minuti (piccole storie, battute di persone illustri e no, schegge di vita) spesso di irresistibile comicità. Inoltre si costruisce, sempre più nitido, il quadro inquieto del nostro passato linguistico. Anzitutto per quanto riguarda il posto del dialetto. «Il dialetto è sempre la lingua degli affetti» dice Camilleri, «un fatto confidenziale, intimo, familiare». 9 Ma De Mauro lo contrasta: «A Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto». famiglia, dove l'italiano «lo adoperavamo per sottolineare, per mettere in chiaro, per prendere le distanze, per dire "te lo dico una volta e per tutte"». Ho detto all'inizio che questo non è un libro per giovani. La discussione di cui dà conto è infatti quasi per intero incentrata sul passato, recente o remoto. In questa dimensione, lo scrittore risulta per così dire più appagato del linguista: specchiandosi nel passato Camilleri ha guadagnato un linguaggio e una maniera; De Mauro invece ha dovuto registrare una serie di storiche sconfitte (circa l'alfabetizzazione, la diffusione della cultura di base, la qualità del linguaggio pubblico...). Poco o nulla si dice di quel che ci aspetta. Camilleri sembra fiducioso che le lingue di immigrazione possano arricchire l'italiano, anche se nulla finora dà conferma di questo fatto. L'emergere di nuovi ceti, nuovi media e nuovi set comunicativi, unito al degradarsi della qualità dell'istruzione e della trasmissione del sapere ci preparano sicuramente nuovi, non necessariamente affabili, modi di usare la lingua e le lingue. Che i due dialoganti abbiano deciso di non farne parola per non lasciare l'amaro in bocca al lettore? I dialoganti concordano però sul fatto che sui dialetti si è abbattuta nella storia italiana, dal fascismo in poi, una serie di attacchi che hanno finito per sfibrarli, senza riuscire a sopprimerli. Infatti (ricorda De Mauro) i dialetti esistono ancora e sono parlati diffusamente, ma non hanno più un supporto solido. Ciò che è andato perduto è «la trama di cultura materiale che era la cultura dei campi e la cultura dei mestieri». Il racconto della nostra storia linguistica recente quale affiora dagli interventi di De Mauro è del resto il racconto di una serie di sconfitte. Anzitutto quella di tutti i progetti educativi riguardanti la lingua e le capacità connesse: al fallimentare sforzo del fascismo di unificare linguisticamente il paese e di estirpare la "mala pianta" dialettale si somma lo scacco degli obiettivi concepiti a partire degli anni Settanta. De Mauro ne ricorda impietosamente gli effetti: oggigiorno «cinque italiani ogni cento sono incapaci di leggere e capire qualche parola scritta. Solo il 29% riesce a inoltrarsi nella lettura superando il secondo questionario [di alcune indagini internazionali] e a rispondere bene al terzo, quarto e quinto questionario. Il 71% non ce la fa...». Maliziosamente, Camilleri tira fuori un esempio dal linguaggio dei media: «Nei giorni del terremoto in Emilia il corrispondente [di Sky Tg24] ha detto: "ci sono sciacalli in giro che vanno nelle case abbandonate, vuote perché la gente è scappata, a fare rappresaglia di tutto quello che trovano"». Nel dialogo i media appaiono del resto come uno dei principali avversari di una lingua di decente livello, insieme al radicato animus burocratico del paese e la provinciale dipendenza nei confronti dell'inglese e di ogni infima moda originante da culture "forti". La natura della letteratura è un altro degli assi di questo intrigante volumetto. Camilleri, non a caso, ama nei “Promessi Sposi” l'andamento cinematografico e la «narrazione visiva straordinaria». Si proclama «uno scrittore di cose» (anche se i suoi lettori sono attratti forse più dal suo linguaggio). E racconta di come si rese conto che non era l'italiano la lingua giusta per le sue storie: «Sentivo che il mio italiano aveva un respiro corto». A trovare la "sua" lingua arrivò quando, dopo aver raccontato la trama del suo primo romanzo al padre malato, questi gli suggerì di metterla per iscritto come l'aveva raccontata a lui, cioè con quel «misto di italiano e siciliano» che si usava nella sua Acireale Il Carnevale Siciliano Il Carnevale è sempre stato e sempre sarà il sinonimo della licenziosità, del divertimento estremo, dello sfarzo nel gioco, nel travestimento e nella tavola. Anticamente i festeggiamenti legati a questa manifestazione profana e folcloristica duravano più di un mese, a partire dal giorno seguente l'Epifania e fino al giungere della più triste ed austera Quaresima, ma dopo il terremoto dell'undici gennaio 1693 (ne abbiamo parlato il mese scorso) la durata della festività incominciò ad esser ridotta ed attualmente essa dura una settimana da anteporre alla Quaresima che essa anticipa. 10 Tra le maschere siciliane più caratteristiche del passato occorre decisamente ricordare quelle dei "Jardinara" (giardinieri) e dei "Varca" note soprattutto nella provincia di Palermo e quella di Abbatazzu della tradizione siciliana, durante l'antico e famoso Carnevale barocco di Acireale, storicamente in uso dal 1667 in provincia di Catania e gemellato con il Carnevale di Viareggio. Vestito in maniera stravagante, usava portare grandi parrucche bianche in testa, indossava abiti di damasco ricchi di fronzoli ed andava in giro con grossi libri, irridente a nobili ed ecclesiastici ma con l'autorizzazione della Chiesa. Aveva un grande tovagliolo appeso al collo, che era un antico segno dato alle persone infette e probabilmente aveva l’intento di esorcizzare le paure di un periodo storico (il XVII secolo) travagliato da gravi pandemie. L’Abbatazzu era anche detto Pueta Minutizzu perché soleva recitare delle poesie grottesche e maliziose. Secondo alcuni storici, la maschera ironizzava sulla classe clericale del tempo, ed in special modo sull’Abate-Vescovo di Catania, Mons. Michelangelo Bonadies, nella cui diocesi ricadeva per l’appunto la cittadina. Tra le altre maschere tradizionali del passato si possono ricordare quelle che servono da parodia ai maggiori esponenti delle classi sociali cittadine: si hanno così le innumerevoli rappresentazioni dei "Dutturi", dei "Baruni" e degli "Abbati". Il carnevale si sarebbe diffuso grazie ad alcune famiglie provenienti da Napoli, “i Napuliti”: sarebbero stati loro, all’inizio dell’800, a dare vita ai primi festeggiamenti del Carnevale e a portare in Sicilia le prime maschere di “u Nannu ca’ Nanna” e i momenti tradizionali della festa: la “bruciatura del Nannu” e la“lettura del testamento”. Il nanno (nonno) è un personaggio bassino e rubicondo simbolo dell’allegria e dello stesso Carnevale che, tra folklore e leggenda, viene bruciato al rogo il martedì grasso. La sua morte avviene dopo la lettura del testamento da parte del‘notaro Menzapinna (Mezzapenna) e rappresenta la fine dell’abbondanza e dell’allegria ma anche una sorta di rito di purificazione. Con le lacrime della Nanna, che rappresenta la fertilità e l’abbondanza ma anche il dolore per l’arrivo della penitenza, si celebra la fine del Carnevale e l’inizio della Quaresima. Anche il fasto culinario legato al Carnevale è un degno segnale dell'abbondanza della ricorrenza: durante questa settimana si fa largo uso di sughi di carne e di pietanze elaborate, come i "maccheroni al ragù" e l'antico "Minestrone del giovedì grasso" preparato nella Contea di Modica (prevede di unire non solo le classiche verdure come le patate, le fave secche sgusciate, una cipolla, prezzemolo, sale e pepe, ma anche il lardo di maiale privato di cotenna e tagliato a cubetti), di dolci ricchi come le "Teste di Turco" ( frittelle dolci ripiene di crema ed uva passa prodotti a ModicaRg-) e dolci meno elaborati come la "Pignoccata" (dolce preparato impastando farina, tuorli, zucchero ed un pizzico di sale; l'impasto così preparato è tagliato in tocchetti successivamente fritti in sugna bollente, sgocciolati e decorati con miele allentato con acqua d'arance e spolverati di cannella spellata; il dolce prende questo nome perché assume la forma di pigna). Ma il Carnevale è soprattutto una festa da ballo con la "quadriglia o Controdanza" . Un tempo serate di ballo se ne contavano a dozzine, e le numerose sale addobbate venivano visitate da gruppi mascherati, costituiti da persone di età diversa che per una o più sere diventavano bambini, coperti com’erano da abbigliamenti insoliti, per lo più da capi di vestiario rivoltati e strani, o con il solo “dominò“ e un velo sul viso per non farsi riconoscere, o una maschera: guidava il gruppo il "bastoniere", chiamato così per il bastone che portava, il quale entrava per primo nella sala decorata (generalmente era la sala da pranzo) e "ordinava" il ballo. Durante il ballo si ricercava da parte di tutti di riconoscere le identità dei mascherati, impresa chiaramente non facile e comunque, a tutti, riconosciuti o meno, non si negava un po’ di rosolio, un buon bicchiere di vino e qualche dolcetto tipico (tutu e catalani, chiacchere, biscotti all’uovo). 11 ‘sta contradanza potta l’alligria - c’e’ u chitarrista cca nasca additta. Giramu tutti a manu ritta. (Beni chi balla!) - v’ha cumannatu ccu tanta ‘mputtanza, ci fazzu applarisi a ‘sta contradanza. La Controdanza, importata probabilmente in Sicilia dai Normanni, è un ballo tipico, con passo cadenzato francese, effettuato con efficacia durante il periodo di Carnevale, inoltre, nelle feste paesane, e specialmente nelle antiche feste nuziali. Una danza comandata, dove i partecipanti eseguivano delle figurazioni, delle coreografie, appunto, sotto le disposizioni del cosiddetto “caposala”. La musica che si effettuava in questa danza sembrava battere il ritmo del canto delle cicale, mentre il suono acuto di un "fischietto” pretendeva di rappresentare la gioia delle coppie che, con allegria, danzavano e creavano armonia, con riverenze e figure di danza, fino nelle mattinate. Ricordiamo anche, che la quadriglia o controdanza, ballo che risale al XVII secolo, faceva parte delle “danze di società” ed era considerata una danza “calata” dai ceti più alti alle classi popolari. La quadriglia si balla in famiglia, balla la madre, il padre e la figlia - come diceva una famosa canzone popolare degli anni ’50. Ogni singolo brano viene denominato Caddozzu (il nodo della salsiccia) e la buona riuscita di questa danza è affidata al maestro che la guida e alle dame e cavalieri che prendono al volo i suggerimenti per i vari passi. Ora sta al maestro eseguire i vari caddozzi, mischiarli e personalizzarli. Riportiamo il testo antico in siciliano, della CONTRODANZA SICILIANA: I° CADDOZZU Attenzioni, prufissuri, maestri valenti, dami e cavaleri. Ccu tanta aliganza ora ci abballamu ‘na bilissima contradanza; e la cumannu ccu tantu amuri. . . Musica prufissuri! - i cavaleri ccu stu’ pinzìnu a la so’ dama fari ‘n inchinu facci ccu facci ccu la distanza abballamici ‘sta bedda contradanza - l’omu e la donna manu ccu manu. . . prestu lu cicculu cumminamu - l’òmini fremmi, li vrazza a ponti, li donni nsutta pàssunu sfronti (Attenzioni ppi tacchi a spillu!) - chi festa ‘i ballu, chi contradanza, chi beddi coppi di grandi ‘mputtanza! - ‘sta contradanza mi pari scinàriu, giramu tutti a lu cuntrariu - chi sona beddu u maestru Falconi. Abballamu tutti ccu soddisfazioni (lagghi abballàmu ca’ cauru c’è!) - c’e don Giuvanni ca pari ‘na nuzza, lassu a Lola e mi pigghiu a Santuzza - c’abballa bedda a signura Ciccina! . . Ogni cavaleri cangia ‘na signorina - forza! Abballamu cummari Lucia, O fimmini sciacquati e tisi Omini beddi,bravi e curtisi, Facemu tutti 'na granni rota, 'Na cuntraddanza cu vota e svota: Mittemu subitu sta rota avanti Cu 'na quadrigghia la cchiù brillanti; Però, amiciuzzi , faciti un inchinu Prima a la fimmina chi è a vui vicinu, Poi accuminciati , signuri cari, Vutannu a dritta senza stancari A manu manca vutannu puru Canciari è beddu mossi e figuri . O fimmineddi , vutati arreri, Vutati tutti, gran cavaleri; Cchiù di 'na soggira sugnu siccanti, Vutassi arreri stu gran vulanti. Ora facemu lu valanzè, Facemu tutti lu turdimè E doppu chistu ,picciotti beddi, Purtamu a spassu li cumpagneddi E iemu sempri pi a stessa via, Canciamu donna,pi curtisia. Lassamu a chista cchiù picciuttedda: Chista di ccà è donna di sfrazzu, Damucci tutti lu nostru vrazzu; Chist'autra avanti stidda è di luci, 12 Biata a chiddu chi la cannuci! Lassamu a chista ch'è grossa grossa, Pigghiamu a chista ch'è tutta ossa Ed è chist'autra donna frizzanti Prestu picciotti , passamu avanti! un vigoroso impasto di farina di semola e solo acqua tiepida. Quando la pasta è ridotta a lunghi cordoncini dello spessore di un grissino, si taglia a pezzetti lunghi qualche centimetro. Poi, con un abile movimento del palmo della mano, le donne premono sui tocchetti di pasta fresca gli spiti (spiedini, ferri da calza) ed è bravissima chi, nello stesso tempo, riesce a confezionare cinque o sei maccarruna cu puttusu (col buco) alla volta. Sfilati dai ferri i maccheroni vengono allineati sulla candida tovaglia per asciugare. Poi bisognerà coprirli con altre leggere tovaglie, affinché possano riposare nel pulito. La tradizione imporrebbe che venissero usati sovrapposti l’uno all’altro a gruppi di 4 dando luogo ai famosi maccheroni a 5 puttusa. 'Un vogghiu fari sta vista cchiui è nta 'na vota nni canciu dui. Ora, signuri, cuntrè facemu Picchì stancuzzi , sudati semu, Canciamu sempri pi nostri beni Picchi li fimmini su 'guai e peni; Canciamu ancora sempri girannu , Picchì li donni sunnu malannu, Chista è 'na fimmina ca 'un ridi mà: Prestu, canciamula pi carità! Lassamu a chista tipu modernu Chi tutti l'omini voli a lu 'nfernu; Adaciu vaiu e poi accussì Stavolta ,amici, nni canciu tri. Lassassi ognunu qualunqui amica: Doppu sta vesta lu beddu è Di fari tutti lu turdimè, Lu turdimè sulu nun stà, Facemu tutti lu cumprimà…. ( seguono altri che vi ricorderemo negli anni a venire) Andranno lessati in abbondante acqua salata e, scolati al dente e subito informaggiati, vanno girati nel tegame dove è stato preparato il “gran ragù della festa. Il ragù che rappresenta il festival del grasso del maiale. Per quattro persone circa quindi basteranno 600 grammi di pasta con i cinque buchi (in realtà sulle tavole siciliane per quattro persone se ne butta un chilo e mezzo) per un ragù che contempla: 300 grammi di cotenna, 400 grammi di salsiccia, 300 grammi di puntine di maiale, 1 litro di passata di pomodoro 3 cucchiaini di concentrato di pomodoro, 1 cipolla bianca molto grande, sale e pepe per condire (facoltativo: 1/2 bicchiere di vino rosso), olio extra vergine di oliva e foglie di alloro Soffriggere la cipolla in olio extra vergine di oliva. Aggiungere quindi la salsiccia tagliata a pezzi grossi (non importa se giganti perché se proprio vogliamo attenerci alla tradizione bisognerebbe lasciare interi i caddozza nodi.) Maccaruna ca sasizza di maiali È la classica pietanza del Carnevale siciliano, ma che negli ultimi decenni ha accentuato la tendenza al regresso, anche perché le donne di casa sempre meno sono indotte a cominciare all’alba o alla vigilia, a preparare i teneri maccarruna, ricavati da 13 E’ il giovedì grasso precedente la festa vera e propria: lo “zoppetto” era una delle tante personificazioni del diavolo, che aveva il compito di pervertire gli uomini mediante la voluttà, l’allegria e la spensieratezza, il termine “cammarsi” equivaleva a significare mangiare grasso con l’obbligo di darsi alle grandi abbuffate. La cotenna a strisce larghe (leggermente sbollentata prima a meno che non piaccia l’effetto chewing gum – ruminante) ma non troppo e le puntine. Far cuocere sfumando poi con un mezzo bicchiere di vino rosso e in questo momento aggiungere qualche foglia di alloro (da togliere a fine cottura). Aggiustare di sale e pepe e aggiungere quindi il pomodoro e il concentrato ma solo se piace il gusto più intenso. Lasciar cuocere adesso a fuoco lento fino in modo che la salsa impregni tutta la carne e la insaporisca. Condire quindi la pasta con questa salsa e qualche pezzettone di carne se si vuole. Tradizione vuole che venga servita in due modi. La prima è la pasta soltanto condita con il sugo e la carne a parte come secondo. La seconda prevede invece la presenza della carne nella pasta. (certo ritrovarsi pezzettoni abnormi di cotenna in mezzo alla pasta potrebbe far mancare un commensale a caso ma che importanza ha? Basta essere in tanti in tavola e non ci si accorge nemmeno del malcapitato. Non ultimo muore felice. Vorrebbe pure lamentarsi?). VECCHIO PAZZO Carnevale vecchio e pazzo S'è venduto il materasso Per comprare pane, vino Tarallucci e cotechino E mangiando a crepapelle La montagna di frittelle Gli è cresciuto un gran pancione Che assomiglia ad un pallone Beve, beve all'improvviso Gli diventa rosso il viso Poi gli scoppia anche la pancia Mentre ancora mangia, mangia Così muore il Carnevale E gli faremo il funerale Dalla polvere eri nato E di polvere è tornato. Dite che è grasso? Si il giovedì è anche il martedì , mentre le Ceneri sono dietro l’angolo… Insomma, non cominciamo con i soliti discorsi: il colesterolo, i trigliceridi, le stesse camurrìe… “Lu joviri di lu zuppiddu cu’ ‘un si cammarra è peggiu pi iddu” (Gabriele D'Annunzio) 14 A navi rutta ogni ventu è contrariu. A risicu sì piglianu li gabelli. A tempu di dilluviu, tutti li ‘strunza’ natanu A vecchi e stranii nun ci aviri fidi. Abballati,abballati….fimmini schetti e maritati. A ‘bbrigli sciorti. Accatta e pentiti Accatta e vinni quannu sì priatu e fatti zzitu quannu si ’nningatu. Accussì è lu munnu: cù acchiana e cù và à funnu. Accussì è lu munnu: cù godi e cù campa suspirannu. Acqua davanti….e ….ventu ‘darrè. Acqua d’agustu, ogliu, meli e mustu. Acqua d’Aprili, frummentu cu li varliri. Acqua di frivaru inchi lu granaru. Acqua e focu nun ci cogliri ‘mprisa. Acqua e sali a li magari. Acqua e suli fa lu lavuri, acqua e ventu fa lu frummentu. Acqua passata nun macina mulinu. Acqua, cunsigliu e sali a cù nun ti l’addumanna nun ci ‘nnì dari. Addiccari e disdiccari. Ad unu, ad unu, senza ammuttari! Affunna bona la zappa a la vigna, e scippa la mal’erba e la gramigna. Agghiorna e scura e su sempri vintiquattruri. Agliuttiri ‘feli’ pì ‘meli’….muccuna amari. Agneddu a sucu e finìu lu vattiu. Aguriu di strata e trivulu di casa. Agustu e rigustu è capu di ‘mmernu. A jornu si vidi cu persi la scarpa. Aju li gammi ca’ mi fannu giacumu…giacumu. Aju ‘nnà fami ca nun cci viu di l’occhi. Aju raggiuni e mi la manciu scasdata. Aiutarisi cu li mani e cu li pedi. Aiutati ca Diu t’aiuta. A li grana, ca lu surbizzu è lestu ! A li ‘nfilici e a li disgraziati, ccì chiovi ‘ntà lu culu anchi quannu su’ assittati. A li vicchiagli ‘nzantiu. All’annigatu, petri di ‘ncapu.. All’omu vecchiu e a lu cavulu hjurutu…. zoccu c’è fattu…c’è pirdutu. All’ortu e a lu mulinu…vacci d’ammatinu. Altizza…mezza bbìddizza. A lu cavaddu ‘mmidiatu ccì luci lu puli. Ama l’omu tò, cu lu viziu sò. Raccolta di detti e proverbi siciliani “Il proverbio è l’ingegno di un uomo e la saggezza di tutti” (Bertrand Russell) A cani vecchiu, lu vurpi ccì piscia. A cavaddu maghiru, Diu ccì manna muschi. A ccù ad atru fà……ad atru luci. A ccù assà, a ccù nenti. A li picciotti masciddi russi, a li vecchi sgracchi e tussi. All’antu, picciotti. A lu malu omu e a la mala fimmina…dunaci di lu tò ed appizzaci li spisi. A lu piritaru ccì vinni la tussi. A lu cavaddu ‘mmidiatu ccì luci lu pilu. Amatu nun sarai si sulu a tìa pinsirai. Amuri e gilusia, su sempri ‘ncumpagnia. Annata bisesta, biatu cu resta. A paisi d’unni và, comu vidi fari fà. Arcu siritinu, fa bon tempu a lu matinu. A Santu chi nun suda, nun ti cci addinucchiari. A spizzica e muddica. A tavula ci voli facci di ‘monacu’. A ccù avi li ‘murriti’ si li gratta. A ccù ci ardi ‘la spina’….si la tira. A ccù ci mancia la testa…..si la raspa. A ccù ti duna pani, dicci “Patri”. A ccù tuttu prumetti, tuttu creditu nun dari. A ch’è riduttu lu ‘gaddu’ di Sciacca… a essiri pizzuliatu di la jocca. A chi jocu jucamu? A chiummu ccì semu, a liveddu videmma, levati di sutta prima chi cadi. A la morti si scummoglianu li ‘detti’ e li ‘difetti’. A la squagliata di la nivi si vidinu li pirtusa. A lavari la testa a lu sceccu,si perdi acqua, sapuni e tempu. A lu dutturi, cunfissuri e avvucatu, cunfessaci cù virità lu tò passatu. A lu muru guasciu, ognunu si cì appoia. A lu surci vecchiu nun s’inzigna la tana. A lu malu omu e a la mala fimmina…dunaci di lu tò ed appizzaci li spisi. A lu paisi c’un sì canusciutu, comu sì vistu sì rassumigliatu. A lu pruvatu nun stari à pruvari, cchiassà lu provi..cchiù tintu ti pari. A lu tignusu: nnà crusta cchiù, nnà crusta menu.! A lu veru amicu parlacci chiaru. Ammatula si pisca, sì all’amu nun c’è lisca. Per i non udenti la traduzione verrà fornita a richiesta 15 Consorzio Associativo Officine Solimano ATTUALISSIMA! VENERDI 31 GENNAIO NUOVOFILMSTUDIO PRESENTA Una suora va dal medico: “Dottore, ho un attacco di singhiozzo terribile, sono già due giorni. Non riesco a mangiare e men che meno a dormire” “Stia calma che adesso la controllo” Terminata la visita le dice: “Ma sorella, lei è incinta!!” La sorella si alza immediatamente e presa dal panico esce di corsa dall’ambulatorio. Un’ora dopo il medico riceve una telefonata dalla madre superiora del convento: “Dottore, ma che cosa ha detto a sorella Carmen?” “Madre superiora, sorella Carmen aveva un attacco molto forte di singhiozzo e per guarire questa malattia la cura migliore sono dei grossi spaventi e così le ho detto che era incinta. Ha smesso di singhiozzare?” “Sì, sorella Carmen ha smesso di singhiozzare, ma padre Paolo si è buttato dalla finestra… Festival Desaparición ore 19.00 - incontro con il Ministro argentino Carlos Cherniak per parlare di Argentina, dittatura e Hijos, i figli dei desaparecidos argentini. ore 20.30 - proiezione del film documentario “Il sorriso del capo”. SABATO 1 FEBBRAIO ore 20,30 CATTIVI MAESTRI PRESENTANO Quei filini blu, di Silvia Nati. ------------------- Con Silvia Nati e Roberta Fornier. Autoproduzione. Regia di Annapaola Bardeloni. APPUNTAMENTI DA NON PERDERE SINO AL DUE FEBBRAIO Ispirato dalla storia una giovane deputata dell'attuale Parlamento argentino, lo spettacolo racconta di una ragazza che, ormai adulta, scopre di essere figlia di desaparecidos. Durante l'ultima dittatura argentina, i veri genitori di Victoria vengono arrestati e inghiottiti dalla terrificante macchina di repressione dei generali. Victoria nasce nel centro clandestino di detenzione della Marina, la ESMA, dove la madre è reclusa. Le prigioniere incinte subiscono tutte lo stesso destino: partoriscono, allattano i figli per una quindicina di giorni e poi sono eliminate con i famigerati "voli della morte", mentre i neonati vengono adottati da famiglie di militari o simpatizzanti del regime. Così la ragazza cresce inconsapevole delle sue vere origini fino al momento della rivelazione. A quel punto deve fare i conti con una vita vissuta nella menzogna, con gli affetti di quella famiglia che considerava sua e con la nuova famiglia che le si apre davanti, quella dei parenti dei suoi "veri" genitori. Come accettare una nuova identità? Come abituarsi a un nuovo nome? Si può diventare una nuova persona solo perché si accetta di riacquistarne il nome? Raccontare questa storia significa raccontare la storia dell'Argentina degli ultimi quarant'anni. La bella mostra di un caro amico e grande Maestro 16 È la storia dei trentamila desaparecidos, è la lotta delle coraggiose Madres e Abuelas de Plaza de Mayo che ancora oggi si battono per la giustizia e la memoria dei propri figli e nipoti. È la storia di un paese che finalmente decide di fare i conti con il passato riaprendo i tribunali e abolendo le leggi di impunità di cui i militari hanno goduto per anni. Identità imposta, identità personale, identità acquisita. Identità di un popolo. Alla presenza del maestro, saranno proiettati e successivamente dibattuti, tre lavori realizzati nel periodo 1968–1973 dalla Scuola Elementare di Albisola Superiore: San Francesco e il Lupo 3° film con i ragazzi, classe prima, 1968-69, 50’ Versione della famosa leggenda dei Fioretti incentrata su quel “Tu hai fatto male perché avevi fame”, con cui il Poverello di Assisi giustifica il Lupo. Per coinvolgere tutti i bambini il maestro riscrive e arricchisce la vicenda trasformandola in un soggetto fantasy che, narrando di un favoloso medioevo, parla anche dell’oggi. La leggenda, dopo una prima narrazione orale, diventa un’accattivante materia di studio quotidiano. Al momento del primo ciack, non solo i bambini hanno raggiunto, senza annoiarsi, i livelli d’istruzione fissati dai Programmi per la prima classe, ma sono tutti “nella parte”. GIOVEDI 6 FEBBRAIO ore 21 NUOVOFILMSTUDIO PRESENTA Il cinema dei ragazzi dell’insegnante Emilio Sidoti Un incontro sulla prima esperienza nazionale di Scuola attraverso il Cinema, ideata e realizzata dal maestro Emilio Sidoti. Tarzan Basso 6° film dei ragazzi, super 8 su DVD, classe quinta, 1972-73, 6’ Mauro è uno scolaro negligente e problematico, ma ha una fissazione: Tarzan, fino al punto di firmarsi sui quaderni anziché Mauro Basso, Tarzan Basso. Un giorno il maestro gli propone, per recuperare la sua attenzione, di girare un film scritto, sceneggiato e interpretato da lui stesso: un film su Tarzan. Mauro s’illumina tutto e scrive subito un’avventura di Tarzan. Allora l’insegnante organizza una ricerca sulle foreste pluviali e su quel centro d’interesse la classe s’impegna per circa un mese. Il maestro intanto impara che anche il disagio infantile può diventare uno stimolo per l’insegnamento. Tarzan Giorgio 7° film dei ragazzi, super 8 su DVD, classe quinta, 1972-73, 8’ Da mesi la classe quinta frequentata da “Tarzan Basso” conduceva una ricerca sull’inquinamento ambientale. Il piccolo Giorgio Fazio, l’alunno che aveva collaborato al Tarzan di Mauro, opera allora una congiunzione dei due temi. Giorgio intuisce che, in un mondo condannato all’inquinamento, per il re della giungla non v’è più spazio e allora scrive il soggetto per un secondo film su Tarzan. La storia è tutta una fuga: assediato dai miasmi, strozzato da fumi e da fetori tossici, l’eroe della selva pluviale è costretto a cercare scampo altrove. Dove? Nella città satura di veleni. Un modello analizzato e studiato anche in ambito internazionale in cui il maestro elabora una sua metodologia filmica, articolata in due filoni: - Cinema con i ragazzi in cui l’educatore propone il soggetto, lo sceneggia insieme alla scolaresca e cura le varie fasi della regia, mentre i bambini interpretano i vari personaggi. Questo mira a sviluppare l’intelligenza critica e a formare l’uomo e il cittadino. - Cinema dei ragazzi in cui l’educatore si riserva un ruolo di supporto tecnico, mentre il vero autore è il singolo bambino. Così il cinema diventa mezzo di auto espressione: dei sogni, del punto di vista, delle fantasie, dei disagi e dei problemi. 17 Varese, ghigna da emigrante, impantanato laggiù lontano. Poi quelle strade di auto scarburate e quella gente anni '50 già veduta, tuffato in una vita ritrovata, vera e vissuta, come entrare a caso in un portone di fresco, scale e odori abituali, posar la giacca, fare colazione e ritrovarsi in giorni e volti uguali, perché io ci ho già vissuto in Argentina, chissà come mi chiamavo in Argentina e che vita facevo in Argentina? Poi un giorno, disegnando un labirinto di passi tuoi per quei selciati alieni ti accorgi con la forza dell' istinto che non son tuoi e tu non gli appartieni, e tutto è invece la dimostrazione di quel poco che a vivere ci è dato e l' Argentina è solo l' espressione di un' equazione senza risultato, come i posti in cui non si vivrà, come la gente che non incontreremo, tutta la gente che non ci amerà, quello che non facciamo e non faremo, anche se prendi sempre delle cose, anche se qualche cosa lasci in giro, non sai se è come un seme che dà fiore o polvere che vola ad un respiro. L' Argentina, l' Argentina, che tensione! Quella Croce del Sud nel cielo terso, la capovolta ambiguità d' Orione e l' orizzonte sembra perverso. Ma quando ti entra quella nostalgia che prende a volte per il non provato c'è la notte, ah, la notte, e tutto è via, allontanato. E quella che ti aspetta è un' alba uguale che ti si offre come una visione, la stessa del tuo cielo boreale, l'alba dolce che dà consolazione e allora, com'è tutto uguale in Argentina! Oppure, chissà com'è fatta l' Argentina, e allora... "Don't cry for me, Argentina"... DOMENICA 2 FEBBRAIO ore 22 RAINDOGS PRESENTA A Sud Viaggio musicale verso l’Argentina Recital musicale con Annapaola Bardeloni, Nicola Calcagno e Stefan Gandolfo. Trabateatro. L’Argentina... la terra promessa, il tango, il mate, i gauchos, la carne, la Casa rosada, il Rio. L’Argentina sognata, l’Argentina delle cartoline e dei depliant che pubblicizzano “la terra d’argento” ... cosa sappiamo dell’Argentina? La musica argentina, come quella di tanti paesi sud americani, ha dentro tre interi continenti: l’America delle origini, l’Europa dei conquistatori e l’Africa degli schiavi. Questa serata ci passa in mezzo tenendo uno sguardo lontano, attento e rispettoso. Questa serata in musica non vuole “scimmiottare”, vuole omaggiare con amore da lontano un paese accogliente, dove le contraddizioni si trasformano in creative meraviglie. Fuori dagli schemi raccontiamo in musica un viaggio nel tempo attraverso la musica argentina. “Quanto mare...” “Si se calla el cantor calla la vida” dice una canzone popolare argentina. “Se tace il cantore tace la vita” Perché la musica è vita e racconto e denuncia e poesia e salvezza. Francesco Guccini la cantava così nel 1983: Il treno, ah, un treno è sempre così banale se non è un treno della prateria o non è un tuo "Orient Express" speciale, locomotiva di fantasia. L' aereo, ah, l' aereo è invece alluminio lucente, l' aereo è davvero saltare il fosso, l' aereo è sempre "The Spirit of Saint Louis" , "Barone Rosso" e allora ti prende quella voglia di volare che ti fa gridare in un giorno sfinito, di quando vedi un jumbo decollare e sembra che s' innalzi all'infinito. Hasta luego ……E allora, perchè non andare in Argentina? Mollare tutto e andare in Argentina, per vedere com'è fatta l'Argentina. Il tassista, ah, il tassista non perse un istante a dirci che era pure lui italiano, gaucho di Sondrio o E un affettuoso saluto alla nostra cara corrispondente da Rosario in Argentina Ada Lattuca. Santuzzo 18