2014 numero 2 febbraio
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Picciotti carissimi,vasamu li mani.
Remote monete (del VI e IV secolo a.C.) lo
testimoniano. Esse provenivano quasi tutte da città
dell'Asia Minore, come Aspendo in Panfilia, Olba
in Cilicia, Berrito e Tebe nella Troade. Il simbolo si
sarebbe quindi diffuso in occidente attraverso i
greci che con le tre gambe marchiavano diverse
monete (a esempio quelle di Atene del VI sec a.C.,
ma anche successivamente nelle urbi di Paestum,
Elea, Terina, Metaponto e Caulonia).
In Sicilia, invece, pare essere stato Agatocle (in
Siracusa) ad usare il simbolo sulle monete e forse
come sigillo personale.
E' solo in epoca romana che la trinacria perde il suo
intrinseco significato religioso per diventare
esclusivamente il simbolo geografico della Sicilia.
In quell'epoca a Palermo la gorgone con tre gambe
appare nel suo aspetto definitivo sulle monete.
Ma al posto dei serpenti, la testa della gorgone è
decorata con tante spighe. Spighe di grano che
tributavano alla Sicilia il suo ruolo di granaio
dell'antico impero romano. Sicilia sinonimo di
fertilità e prosperità.
Ma perchè è stata usata la testa di una gorgone?
Perchè, se il significato religioso della trinacria non
c'era più, si continuò ad usare una immagine mistica
come quella della gorgone? La gorgone, amici miei,
è
un
dettaglio
tipicamente
siciliano.
In tutte le altre rappresentazioni, le gambe erano
legate tra loro attraverso un cerchio o un punto.
E la "Trichetria" è fortemente legata alla mitologia
greco orientale. I nostri avi erano soliti decorare
tempi, vasi e case con maschere e raffigurazioni
pittoresche per scongiurare, allontanare o annullare
influssi maligni. Proprio come il gesto delle corna
che noi usiamo per esorcizzare il male.
Per il siciliano doc, religioso e superstizioso per
tradizione familiare, la trinacria è un talismano
portafortuna.
Vogliamo concludere questo articolo spiegando
anche il perchè del giallo e del rosso presenti nel
vessillo ufficiale della regione Sicilia.
Il giallo ed il rosso stanno a rappresentare
rispettivamente il coraggio delle città di Palermo e
poi di Corleone, che per prime si sollevarono contro
i francesi durante i vespri siciliani del 1282.
Nella bandiera siciliana campeggia in bella mostra
il simbolo di una testa femminile con tre gambe
piegate (triscele) e mosse direttamente dal capo. In
araldica questa raffigurazione prende il nome di
trinacria. La testa rimanda chiaramente alle gorgoni,
mostri della mitologia greca di aspetto mostruoso,
ali d'oro, mani con artigli di bronzo, zanne di
cinghiale e serpenti al posto dei capelli. Esse erano
tre e rappresentavano le perversioni: Euriale
rappresentava la perversione sessuale, Steno la
perversione morale e Medusa (la più famosa, unica
mortale tra le tre e custode degli Inferi) la perversione
intellettuale. Anticamente il nome della Sicilia era
quello di Triquetra o Trinacria. Questo perchè, a
differenza della classica forma tonda di tutte le altre
isole, la Sicilia ha una configurazione geografica
strana. E' caratterizzata da tre promontori, Pachino,
Peloro e Lilibeo e tre vertici che quasi
istintivamente rimandano al triangolo. Ed è
probabilmente in epoca ellenistica che la cultura
greca, colma di dei, semidei e mostri mitologici,
coniò il simbolo della gorgone con tre gambe
attaccate direttamente alla testa associandolo piano
piano alla nostra terra e ai misteri che la
avvolgevano (un tempo la fine del mondo con tanto
di colonne d'ercole era molto più vicina alla Sicilia
di quanto possiamo oggi immaginare).
Ma da dove trae origine questo simbolo? Ce ne
sono mai stati di simili nella storia dell'uomo?
In questo gli studiosi sono concordi nel ritenere che
la trinacria sia un antico simbolo religioso orientale
che rappresentava il dio del sole nella sua triplice
forma di primavera, estate e inverno.
1
Un bel ponte
CINISI
LEGINO
Il 5 gennaio scorso ricorreva il 30° dall’omicidio
di Pippo Fava, abbiamo trovato questo articolo a
firma del figlio Claudio e ve lo proponiamo:
Risiko
Quella sera eravamo in quattro. Noi quattro, come
al solito, attorno al tavolo della cucina a casa della
signora Roccuzzo.
Riccardo scelse i gialli, che non voleva mai
nessuno. Antonio e Miki rossi e neri, una vecchia
sfida di colori dominati che non si risolveva mai. Io
mi presi i verdi, colore fesso, tiepido, di quelli che
non lasciano traccia.
Giocammo con candore e accanimento, come
sempre, improvvisando alleanze, attacchi e
ripiegamenti, sacrifici, tradimenti: tutto.
Il canovaccio prevedeva ruoli immutabili.
Miki con la sua bella faccia da guappo dava la
scalata al mondo spostando armate attraverso
oceani immaginari. Antonio, prudente come un
segretario di sezione, puntava alla Cina, cuore
immobile di un’Asia attraversata da straordinarie
mitologie, la Yacuzia, la Kamchatca, il Siam…
Riccardo intanto s’ammassava da qualche parte e lì
aspettava la guerra, saggio immobile, come se
quell’unico territorio posseduto fosse l’isola di
Stromboli, protetta dal mare e dagli dei.
Di me non so, non ricordo: applicavo le regole del
gioco, attaccavo, arretravo, passavo la mano.
Pensavo che le guerre si vincono provando a non
perderle, facendo i ragionieri sulle baionette.
Avevo ancora un’età onesta, mi era consentito non
capire un cazzo.
Insomma la partita fu come altre cento prima di
quella sera: lunga, sfacciata, riottosa.
Nessuno vinceva, nessuno vinse.
Non so chi, alle tre del mattino, prese il logoro
cartone del risiko e lo fece saltare in aria
mescolando definitivamente carri armati, territori,
ambizioni.
Per la prima volta scegliemmo di non arrivare fino
in fondo: ci mandammo allegramente affanculo e ce
ne andammo a dormire strippati di amaro averna,
sazi e giusti come chi crede di essere immortale.
Il giorno dopo ammazzarono mio padre.
Dopo trent’anni, se dovessi portare con me una
cartolina di quei giorni e degli anni che vennero
dopo, sarebbe questa. Il tavolo della signora
Roccuzzo, il cartone slabbrato del risiko, la faccia
ancora immacolata di quattro ragazzi che si stanno
giocando l’ultima partita, prima che la vita gli
precipiti addosso.
Domenica 5 gennaio alle ore 21 presso la
Parrocchia di S. Ambrogio di Legino Enzo Motta
ha portato il saluto del Sodalizio ai ragazzi della
Parrocchia Ecce Homo di Cinisi (Palermo) -patria
di Peppino Impastato - parrocchia gemellata con
quella di Legino nel nome dei loro giornali che si
chiamano entrambi IL MELOGRANO
(Ne abbiamo recentemente parlato su queste
colonne su segnalazione dell'amico Renato Cesarò.)
L'incontro era dedicato alla difesa della legalità
contro la mafia. I ragazzi di Legino hanno riferito di
aver partecipato a un "campus" in Umbria per
bonificare un "terreno mafioso" assegnato a
"Libera".
I ragazzi di Cinisi hanno parlato delle loro tante
iniziative portate avanti in un ambiente che solo
lentamente sta prendendo coscienza della valenza
negativa del sentire mafioso, mentre cercano di far
capire che solo legalità e solidarietà possono mutare
radicalmente la qualità della vita in quelle contrade.
Enzo Motta ha portato la sua testimonianza: nato in
un paese ad alto tasso di mafia, ha visto la stessa
abbandonare i suoi interessi verso le terre e il
bestiame per emigrare nelle città, attratta dagli
appalti, dalle speculazioni edilizie e dal "pizzo", sul
commercio, fino ad arrivare alla droga e al
riciclaggio degli enormi guadagni che questa
procura, in attività apparentemente lecite con la
complicità dei "colletti bianchi".
Su questo terreno però la mafia cresciuta in
efferatezza ha coinvolto donne e bambini, ha ucciso
magistrati e giornalisti, ha praticato vendette
trasversali, perdendo il credito che godeva fra la
gente (salvi i quartieri degradati delle metropoli) e
si identifica con la criminalità comune, rischiando
di essere battuta sul campo dalle forze dell'ordine.
Ma per estirparla, anche al nord, dove ha creato
delle "filiali" occorre farla finita (come ricorda il
nostro giornalista-scrittore Matteo Collura) con la
mentalità mafiosa basata su un diffuso "familismo
amorale" che inquina tutti gli ambienti (anche quelli
politici), che corteggia il potere e prescinde dal
merito.
Speriamo di ripetere l'esperienza.
Claudio Fava da “I Siciliani Giovani”
A che serve essere vivi,
se non c’è il coraggio di lottare?”
2
Stefano
Bertè
Tante le testimonianze di sentito cordoglio arrivate
al “Pirandello” da parte di coloro che lo hanno
conosciuto e apprezzato quali Franco Astengo,
Emilio e Paola Sidoti, Pina Zanghi, Salvatore e
Lena Finocchiaro, Dario Caruso e Il Circolo degli
Inquieti, Silvia Bottaro e le Associazioni “Aiolfi”, e
“ A Campanassa”.
Milazzo (ME)
1°dicembre 1923
Savona
9 gennaio 2014
L’avevo
conosciuto oltre
45 anni fa quale
Consigliere della Cassa di Risparmio di Savona,
poi, come il Direttore Didattico che aveva lasciato
un segno indimenticabile in Val Bormida e in
seguito ci eravamo ritrovati “colleghi” nella vita del
nostro Sodalizio, sempre presente, attivo e
propositivo per tutte le nostre attività.
In questi ultimi anni con Stefano, ci vedevamo
spesso, quasi quotidianamente, incrociandoci per
strada, fra una commissione e l’altra e l’incontro era
sempre, oltre che mio, anche un suo piacere, perché
vedevo il dolce sorriso illuminargli il volto.
Quando, più spesso, potevamo dedicarci qualche
minuto, seduti ad un tavolino del caffè, che peraltro
non accettava mai che offrissi, mi beavo della
lucida, pacata e civile conversazione che riusciva
ad imbastire.
Sentiva sempre l’esigenza di sottolineare
l’importanza dell’educazione, intesa come senso di
responsabilità, di impegno e mi confessava della
sua ancora grande voglia di conoscere, leggendo in
continuazione: “ Mia moglie dice che ha sposato
un libro!” mi ripeteva e io sapevo che invece lui si
prodigava in casa quotidianamente con affetto e
attenzione.
Poi parlavamo dei nostri “giovani” e traspariva
l’orgoglio per il figlio Daniele così come io rendevo
palese l’orgoglio per i miei.
E con grande intelligenza, apprezzando l’attività del
NuovoFilmstudio “La Scuola al Cinema”, ribadiva
l’importanza dell’attenzione verso i giovani, “il
nostro futuro” e talvolta si accalorava nel vedere e
sentire quale degrado culturale manifestassero
proprio coloro che avrebbero dovuto dare
l’esempio.
Svelava la sua natura di Maestro, l’insegnante che
non perde mai di vista il ruolo e continua ad esserlo
sempre, con quanta discrezione e tanta più efficacia.
Quante volte abbiamo parlato di “dignità”, quel
valore che oggi sembra di seconda serie e che
invece è la cartina di tornasole nei rapporti fra
persone, fra genti, fra popoli.
Ecco perché mi piace definire l’amico uomo degno,
della cui amicizia sono stato onorato e che non
dimenticherò. Insieme a Giovanna ti salutiamo con
stima e affetto. Ciao Stefano.
--------BUONA LETTURA – “IL PARTIGIANO DI
PIAZZA DEI MARTIRI” DI ENZO BARNABÀ
Buona lettura è uno spazio per “assaggiare” libri
buoni, ovvero utili, piacevoli, intelligenti, capaci di
lasciare un segno nell’immaginazione di chi li sfoglia.
Un taccuino per catturare le impressioni, i messaggi e le
parole che escono di pagina in pagina, ma anche per
incontrare scritture nuove e legate all’attualità. Un
angolo per parlare di libri e condividere il gusto di una
buona lettura.
È un libro che racchiude tante vicissitudini, le une
intrecciate alle altre, come in un gioco di rimandi: la
storia di Ciro, il siciliano che combatte i nazisti e
che il 17 marzo del 1945 finisce impiccato a
Belluno; la vicenda del movimento di liberazione
nel Nord Italia; le peripezie di un figlio alla ricerca
del padre.
È Il Partigiano di Piazza dei Martiri (Infinito
edizioni) il nuovo libro di Enzo Barnabà, un fine
lavoro di ricerca con indosso la fresca veste del
romanzo.
L’autore ci regala una storia liberamente ispirata
alle vicende di “Ciro” – la cui reale biografia viene
presentata in fondo al libro – dove le esperienze
vissute dai personaggi concorrono a delineare il
profilo dello stesso Barnabà, narratore ormai maturo
e non più solo linguista o storico.
Perché se è vero che il racconto poggia su ricerche,
documenti e testimonianze, tanto da presentarsi
come una cronaca viva in cui non mancano lo
spirito storico e critico, è altrettanto vero che Il
Partigiano di Piazza dei Martiri si avvale di
un’efficace struttura narrativa, di un godibilissimo
intreccio e di uno stile chiaro e preciso, che facilita
il lettore nel prendere subito parte ai casi dei
personaggi.
Vale la pena ripercorrere la trama: al centro della
vicenda, l’imprevedibile irruzione della figura del
partigiano Salvatore Cacciatore, nome di battaglia
“Ciro”, nel trantran decisamente moderno e irrisolto
del figlio Giulio, sessantenne milanese di origine
siciliana. Giulio ha sempre creduto che il padre – di
cui non porta il cognome – fosse disperso in Russia,
3
ma, dopo un colloquio del tutto casuale con un
amico, inizia a dubitarne.
Decide così di scoprire la verità e di intraprendere
un lungo viaggio che lo porta da Milano a
Dubrovnik, dalla Sicilia a Roma, dalla Carnia alle
Dolomiti. Un percorso in cui scopre che il giovane
fascista Salvatore, dopo aver lasciato il seminario
poco prima di prendere i voti, parte alla conquista
della Libia convinto della missione civilizzatrice
dell’Italia. Ben presto, però, fortemente deluso dal
fascismo, lascia il Centro d’addestramento Carristi
vicino Pordenone in cui viene collocato dopo esser
stato ferito in guerra e fa perdere le sue tracce, tanto
da essere ufficialmente dichiarato disperso.
E lo crede disperso anche la fidanzata siciliana, la
bella Saretta, da cui aspetta Giulio, il figlio che non
conoscerà mai.
Ma in realtà Salvatore si reca in Jugoslavia, si
ritrova con i partigiani, assume il nome di
“Kamen”, che significa “roccia”, e sposa l’ideale
comunista. Poi torna in Friuli, combatte nel
battaglione “Gramsci” e opera come capo
partigiano nella zona di Perarolo, dove, con il nome
di battaglia di “Ciro”, compie diverse azioni contro
i tedeschi, finché, forse tradito da alcune donne per
questioni di gelosie, è catturato e impiccato il 17
marzo 1945 a un lampione della piazza principale di
Belluno, quella che sarà chiamata “Piazza dei
Martiri”. Ecco: questa è la storia di Ciro.
E la storia di un pezzo del nostro Paese.
Perché Barnabà non dimentica nulla: la lotta
partigiana per la liberazione dell’Italia, la guerra
civile, le barbarie nazifasciste, le torture, le
persecuzioni.
E nel farlo raggiunge il bersaglio, ovvero quella
capacità di comunicare, far discutere, conoscere.
Lo raggiunge proprio perché, in primo piano,
irrompe la logica romanzesca che riesce a rendere
conto dei fatti.
Il viaggio di Giulio diventa così un travaglio
interiore, un lento e profondo processo di fiera
identificazione con quel padre tanto immaginato
che ora si trasforma in realtà, seppur lacerata.
Barnabà vince la scommessa di essere tanto più
vero quanto più ascolta i suggerimenti della
letteratura.
Egli scrive con convinzione della storia proprio
perché si pone all’ombra del racconto.
Libro veloce, che si apprezza per la mobilità della
prospettiva, Il Partigiano di Piazza del Martiri
lascia al lettore l’impronta pungente dell’ideale,
della passione, della quotidianità, di quegli aspetti
che si riverberano sui padri e sui figli, sulla storia e
su chi la interroga scrivendo.
di Mara Pardini
Enzo Barnabà è
nato a Valguarnera
(Enna) nel 1944.
Dopo la maturità
classica ha studiato
Lingua e letteratura
francese a Napoli e a
Montpellier e Storia
a Venezia e Genova.
Ha insegnato Lingua
e letteratura francese
in vari licei del
Veneto e della
Liguria.
Passato alle
dipendenze del
ministero degli Esteri, ha svolto la funzione di
lettore di Lingua e letteratura italiana presso
l’Università di Aix-en-Provence e di insegnanteaddetto culturale ad Abidjan, Scutari e Nikšić. Vive
a Grimaldi, dove la riviera del ponente ligure si
confonde con quella francese.
Ha pubblicato 15 libri, tra i quali: Le ventre du
python, Editions de l’Aube, 2007; Sortilegi.
Racconti africani (con Serge Latouche), Bollati
Boringhieri, 2008; Morte agli Italiani!, Infinito
edizioni, 2010 (tradotto in francese col titolo Mort
aux Italiens!, Editalie, 2012).
Nel pomeriggio del prossimo 4 marzo grazie a
Feltrinelli Point, con gli amici Enzo Barnabà e
Matteo Collura presenteremo il libro, in Sala rossa
gentilmente messa a disposizione dal Comune di
Savona.
Per
Natale mi sono regalato il nuovo libro di
Gabriello Montemagno, nato a Caltagirone nel 1938
e che ha lavorato per 25 anni al quotidiano L’Ora e
per circa 20 anni alla Rai siciliana, nonché autore,
regista e attore teatrale.
Il titolo è Il Babbìo, Storia della stampa satirica a
Palermo e contiene interessanti spunti che
contribuiscono a dare dei Palermitani un’immagine
argutamente autoironica.
Nel dialetto siciliano 'Babbiare' significa 'prendere
in giro', 'sfottere'.
La parola deriva dal termine 'Babbo' che in siciliano
indica una persona scema,stupida, che facilmente si
fa prendere in giro.
Tipica frase in cui viene impiegato il termine
babbiare è: Mi stai babbiando? (cioè: mi stai
prendendo in giro?)
4
La stampa umoristica palermitana tra ‘800 e ‘900 fu
fortemente condizionata dal credo politico dei suoi
creatori, non disdegnò l’uso del dialetto e produsse
giornali dai titoli già di per sè identificativi del
contenuto del foglio.
Spesso vi si riscontravano uno o più motti che
caratterizzavano il giornale, le caricature
(i
cosiddetti puppazzetti) che accompagnavano gli
articoli erano più o meno esasperate e graffianti e il
tratteggio dei disegnatori locali più noti rifletteva lo
stile artistico del periodo.
Tra i giornali umoristici pubblicati a Palermo dopo
l’unità d’Italia vanno ricordati Belzebù o il diavolo
ambulante, che si dichiarava nel sottotitolo
“gazzetta enciclopedica umoristica” e che si
pubblicò nel 1861;
Il Somaro, quotidiano del 1862; Il Rigoletto,
settimanale umoristico, che si pubblicò dal 1867 al
1875; Momo, settimanale diretto da Pietro Messina,
che ebbe tra i suoi collaboratori Ludovico Perrone
Paladini e che si pubblicò per due anni dal 1869 al
1870 con un buon successo; il famoso Piff! Paff !
Ricordiamo anche Chicot, un settimanale illustrato
diretto da Matteo Dominici, che si pubblicò dal
1882 al 1883, e Papiol. Per quel che riguarda la
stampa più spiccatamente satirica occorre fare un
passo indietro negli anni: già nel periodo dei moti,
in particolare nel biennio 1848-1849, la produzione
di stampa politica dal taglio fortemente sarcastico
era notevole: basti pensare a Non ne posso più
(1848), Pasquino (1848); Il Pio IX e Ferdinando
(1848), I diavoli della Zisa (1863) e La forbice,
quest’ultimo pubblicato nel 1848 e fino al 29
maggio 1849 e riapparso nel 1869 per andare avanti
fino al 1902; infine Il Diavolo zoppo venne
pubblicato settimanalmente con un buon successo
dal 1885 al 1895.
Il volume documenta attraverso una dettagliata
rassegna come l’umorismo e la satira fossero lungo
i due secoli espressione fondamentale dell’attività
intellettuale siciliana e della vita culturale, artistica,
socio-politica e mondana della città di Palermo.
Non é da meno
il prof. Salvatore
Paolino nato a
Modica nel 1939
dove vive sin
dalla nascita e
dove ha concluso
la carriera di
Preside del Liceo
Classico “Tommaso Campanella“.
Chiddi sì ca èrunu tièmpi !
che ci è stata segnalata dall’amica Franca
M.Ferraris che ringraziamo. Ecco un paio di poesie:
L’ aucieddu ri Masciu Turi
Cummari Pippina,
avi ‘m pièzzu ca num miru
voscia suòru ‘a gnìa Trisìna.
Ni sapiti còrca còsa?
Nun vulissi ca partiu
Senza rarimi l’aucièddu
Ca ci rise ri tinirimi
Fina a cuannu ma mugghieri
Nun turnava ri lu viagghìu.
So pigghiàu cu tantu amuri
chè sa manu ra ma cagghia:
“Stati cueto Masciu Turi,
sacciu comu cuvirnallu:
‘a scagghiola ogni matina,
a lattuchedda a manzuornu
e a cangiarici l’accua
‘na vota o juornu.!
Nun vulissi cummari Pippina
Cà a rituorno ma mugghieri
Nun truvannolo ò sa puòstu
‘u circassi p’o cuartieri.
Si sapissi ca ‘gnia Trisina
Si lu misi ntà sa càgghia
‘a finiri a sparatina
È sicuro, nun si sbàgghia!
(traduzione per i non udenti)
L’Uccello di Mastro Turi
“Comare Peppina, è da un pezzo che non vedo
vostra sorella Teresina. Ne sapete qualcosa? Non
vorrei che fosse partita senza prima restituirmi
l’uccello che le avevo dato in custodia fino a
quando mia moglie non fosse tornata dal viaggio.
Se lo prese con tanto amore con la sua mano dalla
mia gabbia.”
“State tranquillo Mastro Turi, so come governarlo:
la scagliola la mattina, la lattughina a mezzogiorno
e il cambio dell’acqua una volta al giorno.”
“Non vorrei comare Peppina che al ritorno, mia
moglie non trovandolo al suo posto, lo cercasse per
il quartiere.
Se sapesse poi che Teresina l’avesse messo nella
sua gabbia, che finisca in sparatoria è sicuro che
non sbaglia!”
E’ autore di una raccolta di poesie in dialetto
dedicata alla sua città dal titolo:
5
Arà
LE SIGNORINE DI VIA QUARDA
con gli amici ad annusare la notte
“Arà chi si rici gnìa Cuncetta
Chi fa nz’arricugghìu vuòscio maritu
O putamentiè ancora a travagghiari
Anchi si ciùi è o scuru ca si fedda?”
“E a bui chi vi n’amporta,ddon Pppinu,
Picchì nun vi faciti i caddi vuosci”
.“Ma picchì v’a picchiati,gnia Cuncetta
Si parra sulu tantu pi parrari.
Aieri mi parsi ca trasì nta ‘gna Razzietta
Chidda ca stapi a Punta e valatedda
Vicinu o tabacchinu ‘i Malantrinu
E vinni rucchieddu e fazzeletta.”
“Ciuttuosto,ddon Pippinu
Ci ata a diri a voscia mugghieri
Ca cuannu ci fa bisita ‘u jarzuni
Ro massaro pi binnirici ‘i ricotti
Mentri siti a travagghari,
ri non pigghairsi ri còllera
e a lamintarisi ciù picca
si ci su’ aumienti ri lu priezu”
un divertissement dell’amico calabro savonese
Gianni Gigliotti
Le ricordo bene le signorine! Anni cinquanta, facili
da contattare, il nome e il numero di telefono scritto
sulle pareti del ‘cessi pubblici’, a Savona in via
Aonzo, allora anche con servizio docce perché
pochi l’avevano in casa, settanta lire, compreso un
asciugamano dal colore incerto, un panetto di pietra
pomice spacciato per sapone, con la pedana di legno
scivolosa a rischio trauma e l’acqua a spruzzi alterni
tra il bollente e il sotto zero e dalle ‘cabine‘
affiancate, in genere con soli uomini, a vociare a
gara le più ‘colorite e scurrili parole di questo
mondo’, un quarto d’ora di tempo massimo per
lavarsi e asciugarsi oppure la tariffa raddoppiava,
ovviamente vietato entrare in compagnia ma allora
non si usava.
Eppure che felicità!, cari amici miei, oggi ben oltre i
settant’anni (a questo punto, visto la benevolenza
della vita, è quasi doveroso dire ‘che Dio sempre ci
benedica, viva l’amore e viva… la rima’.
Poi, puliti come polli spiumati, meglio se in
compagnia, tutti a fare caciara e poi il sesso a
pagamento in una delle numerose ‘case chiuse’, le
‘maisons’, in via Quarda, via Fraschieri, corso
Mazzini, vicoli Gallico e Crema: ambienti e
ragazze puliti e dal buon profumo di
lavanda (controllate
settimanalmente
dalla
Questura, con libretto sanitario severissimo, chi
aveva qualche problema di malattia o altro
obbligata a recarsi in ospedale per i controlli e
cure).
Gentilissime e sorridenti, non tutte
giovanissime, che sbarcavano così il lunario spesso
inviando parte del denaro guadagnato ai vecchi
genitori lontani, o per mantenere i figli agli
studi magari privi del padre in quanto in carcere,
con buoni rapporti con i vicini di pianerottolo ai
quali spesso facevano regali a motivo del disturbo
sovente arrecato.
Le signorine prendevano per mano i clienti per
metterli a loro agio accompagnandoli per mano in
camera, si atteggiavano ad amiche, la solita
pantomina, per poi concludere con orgasmi
simulati per evitare che ‘i maschi’ ci restassero
male, con il solito zuccherino: ‘mi hai fatto
impazzire, torna presto’, senza mai sgarrare sui
tempi e soprattutto sulle prestazioni come da
tariffario ben in vista appeso sulla porta interna
oltre che nella sala d’ingresso dove si pagava
anticipatamente alla ‘maitresse’ salvo conguaglio
per eventuali extra richiesti in ‘corso d’opera’.
ORSU’
Orsù, che si dice donna Concetta, è già rincasato
vostro marito oppure è ancora a lavorare, anche se
già il buio si taglia a fette?
E a voi che ve ne importa,don Peppino. Perché non
vi fate i cavoli vostri?
Ma perché ve la prendete donna Concetta?
Si parla solamente per parlare.
Ieri mi è parso di vederlo entrare da donna Graziella
quella che ha il negozio a “Punta e valatedda”
vicino alla tabaccheria dei Malandrino e vende
rocchetti e fazzoletti. “Piuttosto,don Peppino,dovete
dire a vostra moglie, quando le fa visita il garzone
del massaro per venderle le ricotte, mentre siete al
lavoro, di non farsi prendere dalla collera e a
lamentarsi di meno se ci sono aumenti di prezzo.”
A proposito di prezzi…
"Pur non avendo avuto l'opportunità di frequentare
le 'case chiuse', per altro senza per questo dovermi
scusare o vergognare, magari rammaricandomi in
quanto la sessualità è elemento fondamentale della
vita intima di ciascuno di noi, ho un ricordo
romantico delle 'signorine' che lavoravano sullo
stesso pianerottolo dove abitavo: gentili ed educate
mi volevano bene ed io non dimentico.
E poi, e poi il tempo scapigliato di allora era
sicuramente più morale di quello di oggi avvelenato
da falso perbenismo e intolleranza."
(gg)
6
un pulsante e i nipoti a considerarci degli alieni
perché non guardoni dei siti porno.
Fino all’arrivo della ‘pillola blu,’ la rivincita, e che
rivincita!
Noi vecchietti, in quattro e quattr’otto abbiamo
surclassato
figli
e
nipoti
sempre
più
annoiati, sempre più ammosciati, smarriti nelle
loro crisi esistenziali e ormonali.
"Il mare è sempre uguale /
sbuca dalla finestra in alto della scala /
solo l'odore è diverso /
scivolano i ricordi come gocce di sudore /
ed hanno il sapore dell'acqua salata.
Via Quarda /
dopoguerra /
macerie e povertà /
contrabbando e suoni di sirene.
La trattoria della Francese a cento lire /
la Fratellanza a due passi con il ballo del sabato /
e poi /
e poi gli amici /
si sa come vanno a finire queste cose.
Tutti insieme ad annusare la notte /
in fila dietro la porta /
a contrattare gli spiccioli e le signorine.
Volano le ore /
già si odono i rintocchi della Campanassa /
l'alba s'intrufola rubando i sogni e l'allegria /
c'è profumo di caffè nella stanza /
chiude il casino /
è tempo di fuggire via."
da “Trucioli Savonesi”
Era il periodo d’oro del contrabbando di sigarette,
centinaia di scatoloni che passavano sotto il naso di
tutti, si nascondevano nelle cantine, nelle dispense,
nei forni a legna, la povera gente guadagnava
qualche lira per la custodia, qualcuno si arricchiva,
ma tutto era pacato, una cosa normalissima e con il
sorriso sulle labbra.
Scriveva Mario Soldati ‘non ho mai perso la
speranza, salendo quella scala, di trovare la donna
della mia vita e la trovavo sia pure per pochi
minuti’.
I preti, nelle loro prediche domenicali in chiesa,
ammonivano di votare ‘la croce’, cioè la
Democrazia Cristiana per non andare all’Inferno,
intanto le Brigate Rosse studiavano il da farsi.
Con la sua rivoluzione giovanile ibrida sociale del
’68, sembrava si dovesse sovvertire il tran tran di
un’Italia bacchettona, ma tutto si è esaurito con ‘i
fiori nei cannoni invece dei proiettili’.
Le signorine, loro no, sempre tranquille e operose a
svolgere il loro mestiere senza ipocriti pudori,
da dieci anni circa traslocate dalle ‘case chiuse ai
marciapiedi’ per via dello sfratto proclamato
da santa Lina Merlin (20 settembre 1958), i
ragazzini potevano facilmente abbordarle, oggi
ancor più facilmente, nessuno chiedeva la loro età,
le malattie veneree proliferano.
Noi, sempre più vecchi e incazzosi, per l’età e gli
acciacchi,
prostata
infiammata
e
pancia
debordante, ad arrangiarsi come potevamo, a
inventarci giorno per giorno il piacere della vita, pur
se frastornati da ‘quel mostro invadente di internet,’
con i figli a declassarci perché incapaci di premere
-----
Bello l’incontro
con l’ICIT all’Istituto “Boselli”
il 21 gennaio scorso, nel corso del quale abbiamo
potuto assistere al filmato della rappresentazione
teatrale Le spade e le ferite andato in scena a San
Miniato di Pisa nel luglio del 2000.
La visione è stata preceduta dal messaggio che
l’Autrice Elena Bono (classe 1921) ci ha inviato per
l’occasione, a mani della sua più accreditata
biografa e affettuosa sostenitrice Stefania
Venturino, anche lei,scrittrice e giornalista:
"L' Opera ha un senso universale, metastorico, che
trascende gli stessi protagonisti con i loro
temperamenti, pulsioni e passioni personali. Impero
e Papato, i due cardini dell' ordine mondiale,
pretendenti al dominio del mondo, fatalmente
dovevano lottare tra loro, nel segno e nel sogno di
una impossibile unità dello spirituale e del
temporale (prevalendo -ovviamente- per la Chiesa
lo spirituale e per l' Impero il temporale).
7
Fisico e metafisico: termini di un conflitto interno
ad ognuno di noi e che non avrà mai fine se non
con la fine del mondo.
Lo scontro qui si storicizza in due formidabili
personaggi: Federico II Hohenstraufen, nipote del
Barbarossa, e Innocenzo IV Fieschi dei Conti di
Lavagna, già esattori del fisco imperiale e come tali
gratificati in terre, titoli e privilegi dal Barbarossa
stesso. Nemici, un tempo amici e speculari tra loro,
entrambi soccombono stremati dall' immane sforzo,
segnando con la loro fine il tramonto stesso del
medioevo con le sue ideologie o miti che dir si
voglia. La Liguria, coinvolta nella querelle, pagò
duramente la "colpa" di aver dato non solo i natali
ma anche appoggio morale e materiale a Sinibaldo
Fieschi dei Conti di Lavagna.
Straziata, stuprata, insanguinata, l' umile gente
trova la forza civile e cristiana di rialzarsi, di
rialzare cose e chiese, di riprendere a vivere, a
operare, portando così avanti la Storia.
La quale non è gestita unicamente dai potenti ma
grava specialmente sulle spalle della gente
qualunque. Sulle spalle di ciascuno di noi.”
“Quando combattono gli elefanti, i fili d’erba sono
i primi ad essere schiacciati”.
Due grandi attori come Massimo Foschi (Federico
II) e Eros Pagni,(Innocenzo IV), una regia teatrale
affidata ad un maestro delle opere teatrali e
cinematografiche quale Ugo Gregoretti, e la regia
televisiva del siculo toscano Salvatore Ciulla, una
scenografia che completa con uno scenario
costruito, l’architettura medievale della Piazza di
San Miniato hanno danno vita ad una
rappresentazione storica di due archetipi del potere
temporale e spirituale: Le spade.
Nella prima parte, forse la migliore, con i dialoghi
fra Federico II e Pier delle Vigne si evidenzia un
linguaggio drammaturgico che è la fusione di molti
apporti linguistici.
Il polilinguismo di FedericoII figlio di tedeschi,
nato in Puglia, cresciuto in Sicilia con coetanei
arabi che si fonde col protoitalico partenopeo del
capuano Pier delle Vigne.
Un mosaico linguistico di tedesco e francese, che
acquista ulteriore forza dal latino liturgico, che fa
da collante universale.
Forse troppo calcato l’aspetto dittatoriale di
FedericoII “stupor mundi” e la scarsa santità del
genovese Conte di Lavagna (Innocenzo IV), che
nel dialetto dei carruggi, perde la sacralità del ruolo.
Ma le due figure ritrovano una dimensione umana
nella comune attesa della morte,che li riporta in
mezzo a quel popolo cosi vulnerabile (Le ferite), di
fronte allo scontro dei grandi.
In questo mulinare di lingue internazionali ci è
venuto alla mente un proverbio africano che recita:
Il più antico documento della nostra
letteratura è comunemente creduto la cantilena o
canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di
Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena.
Quale delle due canzoni sia anteriore, è
cosa puerile disputare, essendo esse non principio,
ma parte di tutta un'epoca letteraria, cominciata
assai prima, e giunta al suo splendore sotto
Federico secondo da cui prese il nome.
Federico secondo, imperatore d'Alemagna e
re di Sicilia, chiamato da Dante “cherico grande”,
cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel
novelissimo signore, nella cui corte a Palermo
venia “la gente che avea bontade, sonatori,
trovatori e belli favellatori”. E perciò i rimatori di
quel tempo, ancorchè parecchi sieno d'altra parte
d'Italia, furono detti siciliani. Che cosa è la
cantilena di Ciullo?
È una tenzone, o dialogo tra Amante e
Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega
e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo
nelle canzoni popolari di tutt'i tempi e luoghi, e che
trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il
Frustino e la Crestaia.
Ciascuna domanda e risposta è in una strofa
di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre
rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua
è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e
nelle desinenze, mescolata di voci siciliane,
napolitane provenzali, francesi, latine.
Diamo ad esempio due strofe:
P.S.
Si narra che solo pochi giorni dopo l’elezione di
Innocenzo IV, peraltro avallata da Federico II, lo
stesso Federico II ebbe la conferma che il papa non
poteva che difendere gli interessi della Chiesa e
commentò:
“Ho perso l'amicizia di un cardinale e guadagnato
l'inimicizia di un papa.”
La curiosità di ricordare o ritrovare le informazioni
sulla nascita della lingua italiana, mi fanno andare
sugli scaffali in alto della libreria (quelli di non
agile consultazione) e tirare giù un vecchio volume:
Storia della letteratura Italiana di F.sco De
Sanctis 1870….
E’un tutt’uno aprirlo alla prima pagina e
condividere con voi l’immediata emozione, con la
promessa che… (segue)
Capitolo I
I SICILIANI
8
AMANTE
più o meno di verisimiglianza, ma non si può
affermare per la insufficienza de' documenti.
Oltreché, non è questo il luogo di esaminare e
chiarire quistioni filologiche di così alto interesse,
materia non ancora esausta di sottili e
appassionate discussioni.
Si possono affermare alcuni fatti.
La lingua latina fu sempre in uso presso la parte
colta della nazione, parlata e scritta da' chierici,
da' dottori, da' professori e da' discepoli. Ricordano
Malespini dice che Federico secondo seppe “la
lingua nostra latina e il nostro volgare”.
Molte sono le femine
c'hanno dura la testa,
e l'uomo con parabole
le dimina e ammonesta:
tanto intorno percacciale
sinchè l'ha in sua podestà.
Femina d'uomo non si può tenere.
Guàrdati, bella, pur di ripentere.
MADONNA
Che eo me ne pentesse?
Davanti foss'io auccisa,
ca nulla buona femina
per me fosse riprisa.
Er sera ci passasti
correnno alla distisa.
Acquistiti riposo, canzoneri:
le tue parole a me non piaccion gueri.
La canzone è tirata giù tutta d'un fiato, piena di
naturalezza e di brio e di movimenti drammatici,
rapida, tutta cose, senza ombra di artificio e di
rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in
forma ancor greggia, ineducata. E perciò il
documento è più prezioso, perchè se l'ingegno del
poeta apparisce ne' concetti e ne' sentimenti e
nell'andamento vivo e rapido del dialogo, la forma
è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino
di quel tempo.
E studiando in quella forma, è facile indurre
che c'era allora già la nuova lingua, non ancora
formata e fissata, ma tale che non solo si parlava,
ma si scriveva; e c'era pure una scuola poetica col
suo repertorio di frasi e di concetti, e con le sue
forme tecniche e metriche già fissate.
Chi sa quanto tempo si richiede perchè una
lingua nuova acquisti una certa forma, che la renda
atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace
che la lingua di Ciullo, ancorachè in uno stato
ancora di formazione, dovea già essere usata da
parecchi secoli indietro.
E ci volle anche almeno un secolo, perchè
fosse possibile una scuola poetica, giunta allora
all'ultimo grado della sua storia, quando i concetti,
i sentimenti e le forme diventano immobili come un
dizionario e sono in tutti i medesimi.
Come e quando la lingua latina sia ita in
decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle
varie plebi, come e quando siensi formate le lingue
nuove o moderne neolatine, quando e come siesi
formato il nostro volgare, si può congetturare con
Camilleri - De Mauro. Il dialetto è cosa seria
Questo non è un libro per giovani.
È un colloquio tra due grandi vecchi della nostra
cultura, Andrea Camilleri scrittore e Tullio De
Mauro linguista, che ragionano, discutono,
argomentano della lingua che hanno vissuto.
Camilleri, naturalmente, ne parla da scrittore, cioè
racconta della sua lingua, di quella speciale maniera
siculo-italiana che ha inventato e che è diventata
una sorta di koinè tra i suoi ammiratori (e
ammiratrici).
A De Mauro invece sta più a cuore lo stato di salute
culturale del paese, anche se ogni tanto anche lui
lascia affiorare qualche vena di autobiografia
linguistica.
Tra le due prospettive, che si intrecciano, si
incontrano, spuntano frammenti e episodi minuti
(piccole storie, battute di persone illustri e no,
schegge di vita) spesso di irresistibile comicità.
Inoltre si costruisce, sempre più nitido, il quadro
inquieto del nostro passato linguistico.
Anzitutto per quanto riguarda il posto del dialetto.
«Il dialetto è sempre la lingua degli affetti» dice
Camilleri, «un fatto confidenziale, intimo,
familiare».
9
Ma De Mauro lo contrasta: «A Venezia come a
Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il
dialetto».
famiglia, dove l'italiano «lo adoperavamo per
sottolineare, per mettere in chiaro, per prendere le
distanze, per dire "te lo dico una volta e per tutte"».
Ho detto all'inizio che questo non è un libro per
giovani.
La discussione di cui dà conto è infatti quasi per
intero incentrata sul passato, recente o remoto.
In questa dimensione, lo scrittore risulta per così
dire più appagato del linguista: specchiandosi nel
passato Camilleri ha guadagnato un linguaggio e
una maniera; De Mauro invece ha dovuto registrare
una
serie
di
storiche
sconfitte
(circa
l'alfabetizzazione, la diffusione della cultura di
base, la qualità del linguaggio pubblico...).
Poco o nulla si dice di quel che ci aspetta. Camilleri
sembra fiducioso che le lingue di immigrazione
possano arricchire l'italiano, anche se nulla finora
dà conferma di questo fatto.
L'emergere di nuovi ceti, nuovi media e nuovi set
comunicativi, unito al degradarsi della qualità
dell'istruzione e della trasmissione del sapere ci
preparano sicuramente nuovi, non necessariamente
affabili, modi di usare la lingua e le lingue.
Che i due dialoganti abbiano deciso di non farne
parola per non lasciare l'amaro in bocca al lettore?
I dialoganti concordano però sul fatto che sui
dialetti si è abbattuta nella storia italiana, dal
fascismo in poi, una serie di attacchi che hanno
finito per sfibrarli, senza riuscire a sopprimerli.
Infatti (ricorda De Mauro) i dialetti esistono ancora
e sono parlati diffusamente, ma non hanno più un
supporto solido. Ciò che è andato perduto è «la
trama di cultura materiale che era la cultura dei
campi e la cultura dei mestieri».
Il racconto della nostra storia linguistica recente
quale affiora dagli interventi di De Mauro è del
resto il racconto di una serie di sconfitte.
Anzitutto quella di tutti i progetti educativi
riguardanti la lingua e le capacità connesse: al
fallimentare sforzo del fascismo di unificare
linguisticamente il paese e di estirpare la "mala
pianta" dialettale si somma lo scacco degli obiettivi
concepiti a partire degli anni Settanta. De Mauro ne
ricorda impietosamente gli effetti: oggigiorno
«cinque italiani ogni cento sono incapaci di leggere
e capire qualche parola scritta.
Solo il 29% riesce a inoltrarsi nella lettura
superando il secondo questionario [di alcune
indagini internazionali] e a rispondere bene al terzo,
quarto e quinto questionario. Il 71% non ce la fa...».
Maliziosamente, Camilleri tira fuori un esempio dal
linguaggio dei media: «Nei giorni del terremoto in
Emilia il corrispondente [di Sky Tg24] ha detto: "ci
sono sciacalli in giro che vanno nelle case
abbandonate, vuote perché la gente è scappata, a
fare rappresaglia di tutto quello che trovano"».
Nel dialogo i media appaiono del resto come uno
dei principali avversari di una lingua di decente
livello, insieme al radicato animus burocratico del
paese e la provinciale dipendenza nei confronti
dell'inglese e di ogni infima moda originante da
culture "forti". La natura della letteratura è un altro
degli assi di questo intrigante volumetto.
Camilleri, non a caso, ama nei “Promessi Sposi”
l'andamento cinematografico e la «narrazione visiva
straordinaria».
Si proclama «uno scrittore di cose» (anche se i suoi
lettori sono attratti forse più dal suo linguaggio).
E racconta di come si rese conto che non era
l'italiano la lingua giusta per le sue storie: «Sentivo
che il mio italiano aveva un respiro corto».
A trovare la "sua" lingua arrivò quando, dopo aver
raccontato la trama del suo primo romanzo al padre
malato, questi gli suggerì di metterla per iscritto
come l'aveva raccontata a lui, cioè con quel «misto
di italiano e siciliano» che si usava nella sua
Acireale
Il Carnevale Siciliano
Il Carnevale è sempre stato e sempre sarà il
sinonimo della licenziosità, del divertimento
estremo, dello sfarzo nel gioco, nel travestimento e
nella tavola.
Anticamente i festeggiamenti legati a questa
manifestazione profana e folcloristica duravano più
di un mese, a partire dal giorno seguente l'Epifania
e fino al giungere della più triste ed austera
Quaresima, ma dopo il terremoto dell'undici
gennaio 1693 (ne abbiamo parlato il mese scorso)
la durata della festività incominciò ad esser ridotta
ed attualmente essa dura una settimana da anteporre
alla Quaresima che essa anticipa.
10
Tra le maschere siciliane più caratteristiche del
passato occorre decisamente ricordare quelle dei
"Jardinara" (giardinieri) e dei "Varca" note
soprattutto nella provincia di Palermo e quella di
Abbatazzu della tradizione siciliana, durante
l'antico e famoso Carnevale barocco di Acireale,
storicamente in uso dal 1667 in provincia di Catania
e gemellato con il Carnevale di Viareggio.
Vestito in maniera stravagante, usava portare grandi
parrucche bianche in testa, indossava abiti di
damasco ricchi di fronzoli ed andava in giro con
grossi libri, irridente a nobili ed ecclesiastici ma con
l'autorizzazione della Chiesa.
Aveva un grande tovagliolo appeso al collo, che era
un antico segno dato alle persone infette e
probabilmente aveva l’intento di esorcizzare le
paure di un periodo storico (il XVII secolo)
travagliato da gravi pandemie.
L’Abbatazzu era anche detto Pueta Minutizzu
perché soleva recitare delle poesie grottesche e
maliziose. Secondo alcuni storici, la maschera
ironizzava sulla classe clericale del tempo, ed in
special modo sull’Abate-Vescovo di Catania, Mons.
Michelangelo Bonadies, nella cui diocesi ricadeva
per l’appunto la cittadina.
Tra le altre maschere tradizionali del passato si
possono ricordare quelle che servono da parodia ai
maggiori esponenti delle classi sociali cittadine: si
hanno così le innumerevoli rappresentazioni dei
"Dutturi", dei "Baruni" e degli "Abbati".
Il carnevale si sarebbe diffuso grazie ad alcune
famiglie provenienti da Napoli, “i Napuliti”:
sarebbero stati loro, all’inizio dell’800, a dare vita
ai primi festeggiamenti del Carnevale e a portare in
Sicilia le prime maschere di “u Nannu ca’ Nanna” e
i momenti tradizionali della festa: la “bruciatura del
Nannu” e la“lettura del testamento”.
Il nanno (nonno) è un personaggio bassino e
rubicondo simbolo dell’allegria e dello stesso
Carnevale che, tra folklore e leggenda, viene
bruciato al rogo il martedì grasso.
La sua morte avviene dopo la lettura del testamento
da parte del‘notaro Menzapinna (Mezzapenna) e
rappresenta la fine dell’abbondanza e dell’allegria
ma anche una sorta di rito di purificazione.
Con le lacrime della Nanna, che rappresenta la
fertilità e l’abbondanza ma anche il dolore per
l’arrivo della penitenza, si celebra la fine del
Carnevale e l’inizio della Quaresima.
Anche il fasto culinario legato al Carnevale è un
degno segnale dell'abbondanza della ricorrenza:
durante questa settimana si fa largo uso di sughi di
carne e di pietanze elaborate, come i "maccheroni
al ragù" e l'antico "Minestrone del giovedì
grasso" preparato nella Contea di Modica (prevede
di unire non solo le classiche verdure come le
patate, le fave secche sgusciate, una cipolla,
prezzemolo, sale e pepe, ma anche il lardo di maiale
privato di cotenna e tagliato a cubetti), di dolci
ricchi come le "Teste di Turco" ( frittelle dolci
ripiene di crema ed uva passa prodotti a ModicaRg-) e dolci meno elaborati come la "Pignoccata"
(dolce preparato impastando farina, tuorli, zucchero
ed un pizzico di sale; l'impasto così preparato è
tagliato in tocchetti successivamente fritti in sugna
bollente, sgocciolati e decorati con miele allentato
con acqua d'arance e spolverati di cannella spellata;
il dolce prende questo nome perché assume la
forma di pigna).
Ma il Carnevale è soprattutto una festa da ballo con
la "quadriglia o Controdanza" .
Un tempo serate di ballo se ne contavano a dozzine,
e le numerose sale addobbate venivano visitate da
gruppi mascherati, costituiti da persone di età
diversa che per una o più sere diventavano bambini,
coperti com’erano da abbigliamenti insoliti, per lo
più da capi di vestiario rivoltati e strani, o con il
solo “dominò“ e un velo sul viso per non farsi
riconoscere, o una maschera: guidava il gruppo il
"bastoniere", chiamato così per il bastone che
portava, il quale entrava per primo nella sala
decorata (generalmente era la sala da pranzo) e
"ordinava" il ballo.
Durante il ballo si ricercava da parte di tutti di
riconoscere le identità dei mascherati, impresa
chiaramente non facile e comunque, a tutti,
riconosciuti o meno, non si negava un po’ di
rosolio, un buon bicchiere di vino e qualche
dolcetto tipico (tutu e catalani, chiacchere, biscotti
all’uovo).
11
‘sta contradanza potta l’alligria
- c’e’ u chitarrista cca nasca additta.
Giramu tutti a manu ritta. (Beni chi balla!)
- v’ha cumannatu ccu tanta ‘mputtanza,
ci fazzu applarisi a ‘sta contradanza.
La Controdanza, importata probabilmente in Sicilia
dai Normanni, è un ballo tipico, con passo
cadenzato francese, effettuato con efficacia durante
il periodo di Carnevale, inoltre, nelle feste paesane,
e specialmente nelle antiche feste nuziali.
Una danza comandata, dove i partecipanti
eseguivano delle figurazioni, delle coreografie,
appunto, sotto le disposizioni del cosiddetto
“caposala”.
La musica che si effettuava in questa danza
sembrava battere il ritmo del canto delle cicale,
mentre il suono acuto di un "fischietto” pretendeva
di rappresentare la gioia delle coppie che, con
allegria, danzavano e creavano armonia, con
riverenze e figure di danza, fino nelle mattinate.
Ricordiamo anche, che la quadriglia o controdanza,
ballo che risale al XVII secolo, faceva parte delle
“danze di società” ed era considerata una danza
“calata” dai ceti più alti alle classi popolari.
La quadriglia si balla in famiglia, balla la madre, il
padre e la figlia - come diceva una famosa canzone
popolare degli anni ’50.
Ogni singolo brano viene denominato Caddozzu
(il nodo della salsiccia) e la buona riuscita di questa
danza è affidata al maestro che la guida e alle dame
e cavalieri che prendono al volo i suggerimenti per i
vari passi.
Ora sta al maestro eseguire i vari caddozzi,
mischiarli e personalizzarli.
Riportiamo il testo antico in siciliano, della
CONTRODANZA SICILIANA:
I° CADDOZZU
Attenzioni, prufissuri, maestri valenti,
dami e cavaleri.
Ccu tanta aliganza
ora ci abballamu ‘na bilissima contradanza;
e la cumannu ccu tantu amuri. . .
Musica prufissuri!
- i cavaleri ccu stu’ pinzìnu
a la so’ dama fari ‘n inchinu
facci ccu facci ccu la distanza
abballamici ‘sta bedda contradanza
- l’omu e la donna manu ccu manu. . .
prestu lu cicculu cumminamu
- l’òmini fremmi, li vrazza a ponti,
li donni nsutta pàssunu sfronti
(Attenzioni ppi tacchi a spillu!)
- chi festa ‘i ballu, chi contradanza,
chi beddi coppi di grandi ‘mputtanza!
- ‘sta contradanza mi pari scinàriu,
giramu tutti a lu cuntrariu
- chi sona beddu u maestru Falconi.
Abballamu tutti ccu soddisfazioni
(lagghi abballàmu ca’ cauru c’è!)
- c’e don Giuvanni ca pari ‘na nuzza,
lassu a Lola e mi pigghiu a Santuzza
- c’abballa bedda a signura Ciccina! . .
Ogni cavaleri cangia ‘na signorina
- forza! Abballamu cummari Lucia,
O fimmini sciacquati e tisi
Omini beddi,bravi e curtisi,
Facemu tutti 'na granni rota,
'Na cuntraddanza cu vota e svota:
Mittemu subitu sta rota avanti
Cu 'na quadrigghia la cchiù brillanti;
Però, amiciuzzi , faciti un inchinu
Prima a la fimmina chi è a vui vicinu,
Poi accuminciati , signuri cari,
Vutannu a dritta senza stancari
A manu manca vutannu puru
Canciari è beddu mossi e figuri .
O fimmineddi , vutati arreri,
Vutati tutti, gran cavaleri;
Cchiù di 'na soggira sugnu siccanti,
Vutassi arreri stu gran vulanti.
Ora facemu lu valanzè,
Facemu tutti lu turdimè
E doppu chistu ,picciotti beddi,
Purtamu a spassu li cumpagneddi
E iemu sempri pi a stessa via,
Canciamu donna,pi curtisia.
Lassamu a chista cchiù picciuttedda:
Chista di ccà è donna di sfrazzu,
Damucci tutti lu nostru vrazzu;
Chist'autra avanti stidda è di luci,
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Biata a chiddu chi la cannuci!
Lassamu a chista ch'è grossa grossa,
Pigghiamu a chista ch'è tutta ossa
Ed è chist'autra donna frizzanti
Prestu picciotti , passamu avanti!
un vigoroso impasto di farina di semola e solo
acqua tiepida.
Quando la pasta è ridotta a lunghi cordoncini dello
spessore di un grissino, si taglia a pezzetti lunghi
qualche centimetro.
Poi, con un abile movimento del palmo della mano,
le donne premono sui tocchetti di pasta fresca gli
spiti (spiedini, ferri da calza) ed è bravissima chi,
nello stesso tempo, riesce a confezionare cinque o
sei maccarruna cu puttusu (col buco) alla volta.
Sfilati dai ferri i maccheroni vengono allineati sulla
candida tovaglia per asciugare.
Poi bisognerà coprirli con altre leggere tovaglie,
affinché possano riposare nel pulito.
La tradizione imporrebbe che venissero usati
sovrapposti l’uno all’altro a gruppi di 4 dando luogo
ai famosi maccheroni a 5 puttusa.
'Un vogghiu fari sta vista cchiui
è nta 'na vota nni canciu dui.
Ora, signuri, cuntrè facemu
Picchì stancuzzi , sudati semu,
Canciamu sempri pi nostri beni
Picchi li fimmini su 'guai e peni;
Canciamu ancora sempri girannu ,
Picchì li donni sunnu malannu,
Chista è 'na fimmina ca 'un ridi mà:
Prestu, canciamula pi carità!
Lassamu a chista tipu modernu
Chi tutti l'omini voli a lu 'nfernu;
Adaciu vaiu e poi accussì
Stavolta ,amici, nni canciu tri.
Lassassi ognunu qualunqui amica:
Doppu sta vesta lu beddu è
Di fari tutti lu turdimè,
Lu turdimè sulu nun stà,
Facemu tutti lu cumprimà….
( seguono altri che vi ricorderemo negli anni a venire)
Andranno lessati in abbondante acqua salata e,
scolati al dente e subito informaggiati, vanno girati
nel tegame dove è stato preparato il “gran ragù
della festa. Il ragù che rappresenta il festival del
grasso del maiale.
Per quattro persone circa quindi basteranno
600 grammi di pasta con i cinque buchi (in realtà
sulle tavole siciliane per quattro persone se ne
butta un chilo e mezzo) per un ragù che contempla:
300 grammi di cotenna,
400 grammi di salsiccia,
300 grammi di puntine di maiale,
1 litro di passata di pomodoro
3 cucchiaini di concentrato di pomodoro,
1 cipolla bianca molto grande, sale e pepe per
condire (facoltativo: 1/2 bicchiere di vino rosso),
olio extra vergine di oliva e foglie di alloro
Soffriggere la cipolla in olio extra vergine di oliva.
Aggiungere quindi la salsiccia tagliata a pezzi
grossi (non importa se giganti perché se proprio
vogliamo attenerci alla tradizione bisognerebbe
lasciare interi i caddozza nodi.)
Maccaruna ca sasizza di maiali
È la classica pietanza del Carnevale siciliano, ma
che negli ultimi decenni ha accentuato la tendenza
al regresso, anche perché le donne di casa sempre
meno sono indotte a cominciare all’alba o alla
vigilia, a preparare i teneri maccarruna, ricavati da
13
E’ il giovedì grasso precedente la festa vera e
propria: lo “zoppetto” era una delle tante
personificazioni del diavolo, che aveva il compito
di pervertire gli uomini mediante la voluttà,
l’allegria e la spensieratezza, il termine “cammarsi”
equivaleva a significare mangiare grasso con
l’obbligo di darsi alle grandi abbuffate.
La cotenna a strisce larghe (leggermente
sbollentata prima a meno che non piaccia l’effetto
chewing gum – ruminante) ma non troppo e le
puntine.
Far cuocere sfumando poi con un mezzo bicchiere
di vino rosso e in questo momento aggiungere
qualche foglia di alloro (da togliere a fine cottura).
Aggiustare di sale e pepe e aggiungere quindi il
pomodoro e il concentrato ma solo se piace il gusto
più intenso.
Lasciar cuocere adesso a fuoco lento fino in modo
che la salsa impregni tutta la carne e la insaporisca.
Condire quindi la pasta con questa salsa e qualche
pezzettone di carne se si vuole.
Tradizione vuole che venga servita in due modi.
La prima è la pasta soltanto condita con il sugo e la
carne a parte come secondo.
La seconda prevede invece la presenza della carne
nella pasta.
(certo ritrovarsi pezzettoni abnormi di cotenna in
mezzo alla pasta potrebbe far mancare un
commensale a caso ma che importanza ha? Basta
essere in tanti in tavola e non ci si accorge
nemmeno del malcapitato. Non ultimo muore felice.
Vorrebbe pure lamentarsi?).
VECCHIO PAZZO
Carnevale vecchio e pazzo
S'è venduto il materasso
Per comprare pane, vino
Tarallucci e cotechino
E mangiando a crepapelle
La montagna di frittelle
Gli è cresciuto un gran pancione
Che assomiglia ad un pallone
Beve, beve all'improvviso
Gli diventa rosso il viso
Poi gli scoppia anche la pancia
Mentre ancora mangia, mangia
Così muore il Carnevale
E gli faremo il funerale
Dalla polvere eri nato
E di polvere è tornato.
Dite che è grasso?
Si il giovedì è anche il martedì ,
mentre le Ceneri sono dietro l’angolo…
Insomma, non cominciamo con i soliti discorsi:
il colesterolo, i trigliceridi, le stesse camurrìe…
“Lu joviri di lu zuppiddu cu’ ‘un si cammarra
è peggiu pi iddu”
(Gabriele D'Annunzio)
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A navi rutta ogni ventu è contrariu.
A risicu sì piglianu li gabelli.
A tempu di dilluviu, tutti li ‘strunza’ natanu
A vecchi e stranii nun ci aviri fidi.
Abballati,abballati….fimmini schetti e maritati.
A ‘bbrigli sciorti.
Accatta e pentiti
Accatta e vinni quannu sì priatu e fatti zzitu
quannu si ’nningatu.
Accussì è lu munnu: cù acchiana e cù và à
funnu.
Accussì è lu munnu: cù godi e cù campa
suspirannu.
Acqua davanti….e ….ventu ‘darrè.
Acqua d’agustu, ogliu, meli e mustu.
Acqua d’Aprili, frummentu cu li varliri.
Acqua di frivaru inchi lu granaru.
Acqua e focu nun ci cogliri ‘mprisa.
Acqua e sali a li magari.
Acqua e suli fa lu lavuri, acqua e ventu fa lu
frummentu.
Acqua passata nun macina mulinu.
Acqua, cunsigliu e sali a cù nun ti
l’addumanna nun ci ‘nnì dari.
Addiccari e disdiccari.
Ad unu, ad unu, senza ammuttari!
Affunna bona la zappa a la vigna, e scippa la
mal’erba e la gramigna.
Agghiorna e scura e su sempri vintiquattruri.
Agliuttiri ‘feli’ pì ‘meli’….muccuna amari.
Agneddu a sucu e finìu lu vattiu.
Aguriu di strata e trivulu di casa.
Agustu e rigustu è capu di ‘mmernu.
A jornu si vidi cu persi la scarpa.
Aju li gammi ca’ mi fannu giacumu…giacumu.
Aju ‘nnà fami ca nun cci viu di l’occhi.
Aju raggiuni e mi la manciu scasdata.
Aiutarisi cu li mani e cu li pedi.
Aiutati ca Diu t’aiuta.
A li grana, ca lu surbizzu è lestu !
A li ‘nfilici e a li disgraziati, ccì chiovi ‘ntà lu
culu anchi quannu su’ assittati.
A li vicchiagli ‘nzantiu.
All’annigatu, petri di ‘ncapu..
All’omu vecchiu e a lu cavulu hjurutu….
zoccu c’è fattu…c’è pirdutu.
All’ortu e a lu mulinu…vacci d’ammatinu.
Altizza…mezza bbìddizza.
A lu cavaddu ‘mmidiatu ccì luci lu puli.
Ama l’omu tò, cu lu viziu sò.
Raccolta di detti e proverbi siciliani
“Il proverbio è l’ingegno di un uomo e la saggezza
di tutti”
(Bertrand Russell)
A cani vecchiu, lu vurpi ccì piscia.
A cavaddu maghiru, Diu ccì manna muschi.
A ccù ad atru fà……ad atru luci.
A ccù assà, a ccù nenti.
A li picciotti masciddi russi, a li vecchi
sgracchi e tussi.
All’antu, picciotti.
A lu malu omu e a la mala fimmina…dunaci di lu
tò ed appizzaci li spisi.
A lu piritaru ccì vinni la tussi.
A lu cavaddu ‘mmidiatu ccì luci lu pilu.
Amatu nun sarai si sulu a tìa pinsirai.
Amuri e gilusia, su sempri ‘ncumpagnia.
Annata bisesta, biatu cu resta.
A paisi d’unni và, comu vidi fari fà.
Arcu siritinu, fa bon tempu a lu matinu.
A Santu chi nun suda, nun ti cci addinucchiari.
A spizzica e muddica.
A tavula ci voli facci di ‘monacu’.
A ccù avi li ‘murriti’ si li gratta.
A ccù ci ardi ‘la spina’….si la tira.
A ccù ci mancia la testa…..si la raspa.
A ccù ti duna pani, dicci “Patri”.
A ccù tuttu prumetti, tuttu creditu nun dari.
A ch’è riduttu lu ‘gaddu’ di Sciacca…
a essiri pizzuliatu di la jocca.
A chi jocu jucamu?
A chiummu ccì semu, a liveddu videmma,
levati di sutta prima chi cadi.
A la morti si scummoglianu li ‘detti’ e li
‘difetti’.
A la squagliata di la nivi si vidinu li pirtusa.
A lavari la testa a lu sceccu,si perdi acqua, sapuni
e tempu.
A lu dutturi, cunfissuri e avvucatu, cunfessaci cù
virità lu tò passatu.
A lu muru guasciu, ognunu si cì appoia.
A lu surci vecchiu nun s’inzigna la tana.
A lu malu omu e a la mala fimmina…dunaci di lu
tò ed appizzaci li spisi.
A lu paisi c’un sì canusciutu, comu sì vistu sì
rassumigliatu.
A lu pruvatu nun stari à pruvari, cchiassà lu
provi..cchiù tintu ti pari.
A lu tignusu: nnà crusta cchiù, nnà crusta menu.!
A lu veru amicu parlacci chiaru.
Ammatula si pisca, sì all’amu nun c’è lisca.
Per i non udenti la traduzione verrà fornita a richiesta
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Consorzio Associativo Officine Solimano
ATTUALISSIMA!
VENERDI 31 GENNAIO
NUOVOFILMSTUDIO PRESENTA
Una suora va dal medico:
“Dottore, ho un attacco di singhiozzo terribile,
sono già due giorni. Non riesco a mangiare e men
che meno a dormire”
“Stia calma che adesso la controllo”
Terminata la visita le dice:
“Ma sorella, lei è incinta!!”
La sorella si alza immediatamente e presa dal
panico esce di corsa dall’ambulatorio.
Un’ora dopo il medico riceve una telefonata dalla
madre superiora del convento:
“Dottore, ma che cosa ha detto a sorella Carmen?”
“Madre superiora, sorella Carmen aveva un
attacco molto forte di singhiozzo e per guarire
questa malattia la cura migliore sono dei grossi
spaventi e così le ho detto che era incinta. Ha
smesso di singhiozzare?”
“Sì, sorella Carmen ha smesso di singhiozzare,
ma padre Paolo si è buttato dalla finestra…
Festival Desaparición
ore 19.00 - incontro con il
Ministro argentino Carlos
Cherniak per parlare di
Argentina, dittatura e Hijos,
i figli dei desaparecidos
argentini.
ore 20.30 - proiezione del
film documentario “Il sorriso
del capo”.
SABATO 1 FEBBRAIO ore 20,30
CATTIVI MAESTRI PRESENTANO
Quei filini blu, di Silvia Nati.
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Con Silvia Nati e Roberta Fornier. Autoproduzione.
Regia di Annapaola Bardeloni.
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
SINO AL DUE FEBBRAIO
Ispirato dalla storia una giovane deputata
dell'attuale Parlamento argentino, lo spettacolo
racconta di una ragazza che, ormai adulta, scopre di
essere figlia di desaparecidos.
Durante l'ultima dittatura argentina, i veri genitori
di Victoria vengono arrestati e inghiottiti dalla
terrificante macchina di repressione dei generali.
Victoria nasce nel centro clandestino di detenzione
della Marina, la ESMA, dove la madre è reclusa.
Le prigioniere incinte subiscono tutte lo stesso
destino:
partoriscono, allattano i figli per una quindicina di
giorni e poi sono eliminate con i famigerati "voli
della morte", mentre i neonati vengono adottati da
famiglie di militari o simpatizzanti del regime.
Così la ragazza cresce inconsapevole delle sue vere
origini fino al momento della rivelazione.
A quel punto deve fare i conti con una vita vissuta
nella menzogna, con gli affetti di quella famiglia
che considerava sua e con la nuova famiglia che le
si apre davanti, quella dei parenti dei suoi "veri"
genitori.
Come accettare una nuova identità?
Come abituarsi a un nuovo nome? Si può diventare
una nuova persona solo perché si accetta di
riacquistarne il nome? Raccontare questa storia
significa raccontare la storia dell'Argentina degli
ultimi quarant'anni.
La bella mostra di un caro amico e grande Maestro
16
È la storia dei trentamila desaparecidos, è la lotta
delle coraggiose Madres e Abuelas de Plaza de
Mayo che ancora oggi si battono per la giustizia e la
memoria dei propri figli e nipoti.
È la storia di un paese che finalmente decide di fare
i conti con il passato riaprendo i tribunali e
abolendo le leggi di impunità di cui i militari hanno
goduto per anni.
Identità imposta, identità personale, identità
acquisita. Identità di un popolo.
Alla presenza del maestro, saranno proiettati e
successivamente dibattuti, tre lavori realizzati nel
periodo 1968–1973 dalla Scuola Elementare di
Albisola Superiore:
San Francesco e il Lupo 3° film con i ragazzi,
classe prima, 1968-69, 50’
Versione della famosa leggenda dei Fioretti
incentrata su quel “Tu hai fatto male perché avevi
fame”, con cui il Poverello di Assisi giustifica il
Lupo.
Per coinvolgere tutti i bambini il maestro riscrive e
arricchisce la vicenda trasformandola in un soggetto
fantasy che, narrando di un favoloso medioevo,
parla anche dell’oggi.
La leggenda, dopo una prima narrazione orale,
diventa un’accattivante materia di studio
quotidiano.
Al momento del primo ciack, non solo i bambini
hanno raggiunto, senza annoiarsi, i livelli
d’istruzione fissati dai Programmi per la prima
classe, ma sono tutti “nella parte”.
GIOVEDI 6 FEBBRAIO ore 21
NUOVOFILMSTUDIO PRESENTA
Il cinema dei ragazzi
dell’insegnante Emilio Sidoti
Un incontro sulla prima esperienza nazionale di
Scuola attraverso il Cinema, ideata e realizzata dal
maestro Emilio Sidoti.
Tarzan Basso
6° film dei ragazzi, super 8 su DVD, classe quinta,
1972-73, 6’ Mauro è uno scolaro negligente e
problematico, ma ha una fissazione: Tarzan, fino al
punto di firmarsi sui quaderni anziché Mauro
Basso, Tarzan Basso.
Un giorno il maestro gli propone, per recuperare la
sua attenzione, di girare un film scritto, sceneggiato
e interpretato da lui stesso: un film su Tarzan.
Mauro s’illumina tutto e scrive subito un’avventura
di Tarzan.
Allora l’insegnante organizza una ricerca sulle
foreste pluviali e su quel centro d’interesse la classe
s’impegna per circa un mese. Il maestro intanto
impara che anche il disagio infantile può diventare
uno stimolo per l’insegnamento.
Tarzan Giorgio 7° film dei ragazzi, super 8 su
DVD, classe quinta, 1972-73, 8’
Da mesi la classe quinta frequentata da “Tarzan
Basso” conduceva una ricerca sull’inquinamento
ambientale.
Il piccolo Giorgio Fazio, l’alunno che aveva
collaborato al Tarzan di Mauro, opera allora una
congiunzione dei due temi. Giorgio intuisce che, in
un mondo condannato all’inquinamento, per il re
della giungla non v’è più spazio e allora scrive il
soggetto per un secondo film su Tarzan.
La storia è tutta una fuga: assediato dai miasmi,
strozzato da fumi e da fetori tossici, l’eroe della
selva pluviale è costretto a cercare scampo altrove.
Dove?
Nella città satura di veleni.
Un modello analizzato e studiato anche in ambito
internazionale in cui il maestro elabora una sua
metodologia filmica, articolata in due filoni:
- Cinema con i ragazzi in cui l’educatore propone
il soggetto, lo sceneggia insieme alla scolaresca e
cura le varie fasi della regia, mentre i bambini
interpretano i vari personaggi.
Questo mira a sviluppare l’intelligenza critica e a
formare l’uomo e il cittadino.
- Cinema dei ragazzi in cui l’educatore si riserva
un ruolo di supporto tecnico, mentre il vero autore è
il singolo bambino.
Così il cinema diventa mezzo di auto espressione:
dei sogni, del punto di vista, delle fantasie, dei
disagi e dei problemi.
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Varese, ghigna da emigrante, impantanato laggiù
lontano.
Poi quelle strade di auto scarburate e quella gente
anni '50 già veduta, tuffato in una vita ritrovata,
vera e vissuta, come entrare a caso in un portone di
fresco, scale e odori abituali, posar la giacca, fare
colazione e ritrovarsi in giorni e volti uguali,
perché io ci ho già vissuto in Argentina, chissà
come mi chiamavo in Argentina e che vita facevo in
Argentina?
Poi un giorno, disegnando un labirinto di passi tuoi
per quei selciati alieni ti accorgi con la forza dell'
istinto che non son tuoi e tu non gli appartieni, e
tutto è invece la dimostrazione di quel poco che a
vivere ci è dato e l' Argentina è solo l' espressione
di un' equazione senza risultato, come i posti in cui
non si vivrà, come la gente che non incontreremo,
tutta la gente che non ci amerà, quello che non
facciamo e non faremo, anche se prendi sempre
delle cose, anche se qualche cosa lasci in giro, non
sai se è come un seme che dà fiore o polvere che
vola ad un respiro.
L' Argentina, l' Argentina, che tensione!
Quella Croce del Sud nel cielo terso, la capovolta
ambiguità d' Orione e l' orizzonte sembra perverso.
Ma quando ti entra quella nostalgia che prende a
volte per il non provato c'è la notte, ah, la notte, e
tutto è via, allontanato.
E quella che ti aspetta è un' alba uguale che ti si
offre come una visione, la stessa del tuo cielo
boreale, l'alba dolce che dà consolazione e allora,
com'è tutto uguale in Argentina!
Oppure, chissà com'è fatta l' Argentina, e allora...
"Don't cry for me, Argentina"...
DOMENICA 2 FEBBRAIO ore 22
RAINDOGS PRESENTA
A Sud
Viaggio musicale verso l’Argentina
Recital musicale con Annapaola Bardeloni, Nicola
Calcagno e Stefan Gandolfo. Trabateatro.
L’Argentina... la terra promessa, il tango, il mate,
i gauchos, la carne, la Casa rosada, il Rio.
L’Argentina sognata, l’Argentina delle cartoline e
dei depliant che pubblicizzano “la terra d’argento”
... cosa sappiamo dell’Argentina?
La musica argentina, come quella di tanti paesi sud
americani, ha dentro tre interi continenti:
l’America delle origini, l’Europa dei conquistatori e
l’Africa degli schiavi.
Questa serata ci passa in mezzo tenendo uno
sguardo lontano, attento e rispettoso.
Questa serata in musica non vuole “scimmiottare”,
vuole omaggiare con amore da lontano un paese
accogliente, dove le contraddizioni si trasformano
in creative meraviglie.
Fuori dagli schemi raccontiamo in musica un
viaggio nel tempo attraverso la musica argentina.
“Quanto mare...”
“Si se calla el cantor calla la vida”
dice una canzone popolare argentina.
“Se tace il cantore tace la vita”
Perché la musica è vita e racconto e denuncia e
poesia e salvezza.
Francesco Guccini la cantava così nel 1983:
Il treno, ah, un treno è sempre così banale se non è
un treno della prateria o non è un tuo "Orient
Express" speciale, locomotiva di fantasia.
L' aereo, ah, l' aereo è invece alluminio lucente,
l' aereo è davvero saltare il fosso,
l' aereo è sempre "The Spirit of Saint Louis" ,
"Barone Rosso"
e allora ti prende quella voglia di volare che ti fa
gridare in un giorno sfinito,
di quando vedi un jumbo decollare e sembra che
s' innalzi all'infinito.
Hasta luego
……E allora, perchè non andare in Argentina?
Mollare tutto e andare in Argentina, per vedere
com'è fatta l'Argentina.
Il tassista, ah, il tassista non perse un istante a dirci
che era pure lui italiano, gaucho di Sondrio o
E un affettuoso saluto alla nostra cara
corrispondente da Rosario in Argentina
Ada Lattuca.
Santuzzo
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2006 numero 8 Dicembre