REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato
N.4317/2008
Reg.Dec.
N. 8276 Reg.Ric.
ANNO 2003
la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello N. 8276/2003 proposto da Iqbal Zafar rappresentato e
difeso dall’avv. Paolo Rolfo con domicilio eletto in Roma Via Appia Nuova
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contro
Questura di Brescia rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello
Stato con domicilio in Roma Via dei Portoghesi 12
e nei confronti di
Ministero dell'Interno rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello
Stato con domicilio in Roma Via dei Portoghesi 12
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia Brescia N.356/2003 , resa tra le parti,
Visto l’atto di appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti appellate;
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
CA
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N.R.G. 8276/2003
Alla pubblica udienza del 6 Maggio 2008, relatore il Consigliere
Cons. Marcella Colombati ed uditi, altresì, gli avvocati Rolfo e l’avv. dello
Stato Maddalo;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza resa in forma semplificata n. 356 del 2003 il Tar per
la Lombardia, sede di Brescia, ha respinto il ricorso del sig. Iqbal Fazar, di
nazionalità pakistana, avverso il provvedimento del Questore di Brescia del
14.11.2002 che ha negato il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro
subordinato, rilasciato la prima volta nel 1996 e valido fino al 22.6.2002
“per attesa occupazione”; nel diniego veniva indicata la intervenuta sentenza
di condanna dello straniero, in data 12.12.2001, alla pena della reclusione di
anni 1 e mesi 6 per il reato di associazione a delinquere finalizzata al
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (reato previsto e punito ai
sensi degli artt. 416 c.p., 110 c.p. e 12, comma 1, della legge n. 286 del
1998), condanna che rappresentava una condizione ostativa alla permanenza
nel territorio dello Stato.
Il Tar ha ritenuto sostanzialmente:
- che la circostanza che la sentenza penale sia stata emessa ai sensi
dell’art. 444 c.p.p. (sentenza di patteggiamento) non priva di rilevanza la
condanna;
- che, in base al principio tempus regit actum, si applica la normativa
vigente al momento dell’adozione del provvedimento amministrativo
impugnato e cioè la legge n. 189 del 2002 che espressamente considera
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quale causa ostativa anche la condanna emessa a seguito di patteggiamento
per lo specifico reato;
- che, anche applicando la normativa previgente, la condanna
avrebbe comunque avuto rilievo sotto il profilo della pericolosità del
soggetto per l’ordine e la sicurezza pubblica, attesa la tipologia del reato
ascritto, commesso ed accertato, con l’aggravante del fine di lucro;
- che, nonostante che il primo permesso di soggiorno sia stato
rilasciato il 23.3.1996, risulta dal libretto di lavoro che lo straniero ha
lavorato
soltanto
dal
2.11.2000,
in
precedenza
sostentandosi
presumibilmente con il provento di reati.
La sentenza è ora appellata dall’interessato sulla base delle seguenti
considerazioni pur non esplicitate in motivi di ricorso: a) ai sensi dell’art.
445 c.p.p., la sentenza di patteggiamento non ha effetti nei giudizi civili o
amministrativi e quindi la condanna non doveva avere rilievo “nell’attuale
sede amministrativa”; b) il procedimento per la richiesta di proroga del
permesso di soggiorno è iniziato con istanza del 26.4.2002 sotto la vigenza
della legge n. 268 del 1998 e si è concluso il 14.11.2002, in data successiva
all’entrata in vigore della legge 30.7.2002 n. 189, che ha modificato i
presupposti per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno, in
particolare inserendo quale causa ostativa al rilascio del titolo la sentenza di
patteggiamento per lo specifico reato; c) al momento della richiesta di
patteggiamento l’imputato non era consapevole che la condanna avrebbe
avuto riflessi sulle successive vicende del permesso di soggiorno; d) il
combinato disposto di cui all’art. 4, comma 3 e all’art. 5, comma 5, della
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legge n. 268 del 1998 e successive modifiche dovrebbe applicarsi soltanto
alle sentenze di patteggiamento successive all’entrata in vigore della legge
n. 189 del 2002; e) il provvedimento di diniego, invece che limitarsi a
prendere atto di una sentenza di condanna come previsto dalla nuova
normativa, avrebbe dovuto valutare l’eventuale pericolosità sociale del
soggetto come imposto dall’art. 4, comma 3, nella previgente formulazione;
f) egli si è inserito nel contesto sociale, dalla fine del 2000 svolge regolare
attività lavorativa e non ha altri precedenti penali a suo carico; g) la
eventuale pericolosità sociale di un soggetto si deve fondare, non sulla sua
responsabilità penale, ma su un giudizio prognostico nel quale possono
essere utilizzati una serie di elementi rivelatori della capacità e della
propensione a delinquere ai sensi della legge n. 1423 del 1956; h) in via
subordinata, ove si ritenesse applicabile la nuova normativa, il Tar non ha
considerato che la condanna era stata sospesa dal giudice penale sulla
presunzione di una corretta condotta futura del soggetto; i) ancora in via
subordinata, il tenore del nuovo art. 4, comma 3, e l’uso della forma plurale
( “...per reati previsti…”) dovrebbe escludere un automatico diniego nel
caso di una singola condanna e si dovrebbe accertare la effettiva pericolosità
sociale.
Si è costituito in giudizio il Ministero dell’interno, contestando
diffusamente la fondatezza dell’appello.
Con ordinanza n. 4582 del 2003, la IV Sezione ha respinto l’istanza
cautelare, perché il soggetto, “a causa dei fatti di cui alla condanna penale,
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non possiede i requisiti per la concessione della proroga del permesso di
soggiorno”.
All’udienza del 6 maggio 2008 la causa è passata in decisione.
L’appello deve essere respinto.
Preliminarmente osserva il Collegio che l’atto di appello è stato
notificato all’Avvocatura distrettuale di Brescia e non invece all’Avvocatura
generale dello Stato; ciò renderebbe inammissibile il gravame, ma, per
costante giurisprudenza e in applicazione del principio di conservazione
degli atti processuali che può desumersi dall’art. 156, comma 3, c.p.c.
(Cons. di Stato, VI n. 3536 del 2006 e richiami ivi contenuti), il vizio è
sanato dalla costituzione in giudizio dell’Amministrazione dello Stato, che
non si è riferita a questioni pregiudiziali ma si è difesa nel merito della
vicenda contenziosa.
Quanto al merito, i precedenti della Sezione sono nel senso che:
- nel vigore dell’originario art. 4, comma 3, del d. lgs. n. 268 del
1998, la sentenza di condanna pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. non
possa essere considerata quale unico elemento preclusivo dell’accoglimento
della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, dovendo
l’amministrazione verificare la complessiva pericolosità sociale del
condannato; quando la sentenza di patteggiamento sia stata emessa prima
dell’entrata in vigore delle modifiche recate dalle legge 20.7.2002 n. 189
(che al nuovo articolo 4, comma 3, testualmente precludono il rilascio del
titolo anche a seguito di sentenza patteggiata e che non contengono
disposizioni applicabili retroattivamente), si deve comunque valutare, per il
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principio dell’affidamento e della certezza delle conseguenze derivanti dai
comportamenti degli imputati, la pericolosità sociale del soggetto (Cons. di
Stato, VI, n. 3319 del 2006 e richiami ivi contenuti);
- (ma) l’autorità di polizia gode, ai fini della tutela dell’ordine
pubblico, di ampia discrezionalità nel valutare i presupposti di pericolosità e
inaffidabilità
per
la
sicurezza
pubblica
che
da
soli
e
anche
indipendentemente dall’esistenza di una condanna penale, possono essere
posti a fondamento di un provvedimento sfavorevole per l’interessato; la
condanna a pena patteggiata non esclude comunque la valutabilità dei fatti
ad essa connessi in vista della formulazione di un giudizio sulla condotta
dello straniero e sul possesso da parte sua dei requisiti per il rinnovo del
titolo; all’ampio apprezzamento discrezionale rimesso all’amministrazione
fa riscontro una limitata sindacabilità dello stesso in sede giurisdizionale,
ristretta al vaglio estrinseco in ordine alla sussistenza di eventuali profili di
travisamento, illogicità e arbitrarietà (Cons. di Stato, VI, n. 3829 del 2006;
VI, n. 5800 del 2007), che nella specie non si rinvengono.
Orbene, è vero che la scelta di definire il processo con il rito di cui
all’art. 444 e seg. c.p.p. investe il diritto di difesa dell’imputato, che è
indotto alla richiesta di applicazione concordata della pena nella
consapevolezza delle conseguenze che da essa possono derivare, ma ciò non
esclude che anche quella sentenza è emessa su motivata valutazione da parte
del giudice dell’insussistenza dei presupposti per addivenire ad una sentenza
di proscioglimento
e previo accertamento della corretta qualificazione
giuridica del fatto ascritto e delle circostanze ad esso afferenti, quali
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presupposti della formulazione della richiesta di applicazione negoziata
della pena.
Di ciò ha tenuto conto il Questore di Brescia anche se con
motivazione del tutto succinta, perché il riferimento alla sentenza
patteggiata si deve intendere come riferimento al fatto storico e alla gravità
del reato (associazione a delinquere per favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina), il cui rilievo sull’ordine e la sicurezza pubblica è dimostrato
dalla “ratio” della legislazione sui flussi migratori.
Questa, secondo la giurisprudenza della Sezione (Cons. di Stato, VI,
n. 1527 del 2007), nell’individuare una strada intermedia tra l'apertura
incondizionata delle frontiere e la chiusura totale, ammette l'ingresso e il
soggiorno degli stranieri nel limite di un numero massimo accoglibile, tale
da assicurare loro un adeguato lavoro, mezzi idonei di sostentamento, e cioè
un livello minimo di dignità e di diritti, ovvero valutando le particolari
esigenze umanitarie, che consentono una deroga alle norme sull'ingresso
(tutela della famiglia e dei minori, ricongiungimento familiare; concessione
dell’asilo politico per straordinari motivi umanitari ovvero dello stato di
rifugiato politico in caso di persecuzioni dovute a ragioni etniche, religiose
o politiche), escludendo però, per ragioni di ordine pubblico e di sicurezza
dello Stato, coloro che non sono in regola con i requisiti richiesti.
Nel sistema di bilanciamento riconosciuto come necessario anche
dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 353 del 1997 e 148 del 2008), oltre
alle ragioni di solidarietà umana il legislatore ha infatti considerato anche i
valori di presidio delle frontiere (nazionali e comunitarie), la tutela della
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sicurezza interna del Paese, la lotta alla criminalità, lo stesso principio di
legalità, per cui chi rispetta la legge non può trovarsi in una posizione
deteriore rispetto a chi la elude.
Ciò premesso, il Questore nel suo provvedimento di diniego, nel
richiamare la sentenza di condanna, ha implicitamente ma sostanzialmente
considerato i fatti accertati dal giudice penale, quali la corretta
qualificazione giuridica del comportamento posto in essere dall’imputato e
la circostanza che i reati contestati erano avvinti dal nesso della
continuazione essendo stati commessi in esecuzione di un unico disegno
criminoso diretto a favorire l’ingresso e la permanenza di stranieri
clandestini secondo un “programma di sodalizio”; ha altresì considerato che
il giudice penale aveva rilevato l’assenza delle condizioni per pronunciare
sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. anche a causa delle
testimonianze sui fatti a seguito dei risultati della corposa attività di
intercettazione telefonica e di quelli delle perquisizioni effettuate e, da
ultimo, che la sospensione della pena era stata concessa esclusivamente per
l’incensuratezza dell’imputato.
Nella nota della Questura del 11.2.2003, depositata nel corso del
giudizio di primo grado, sono esplicitamente richiamati i fatti e il
comportamento dello straniero nel corso degli anni di permanenza in Italia;
in particolare si rileva che lo straniero è stato tratto in arresto nel 1999 e fino
al luglio 2000, che prima di ciò era stato raggiunto da provvedimenti
restrittivi quali il divieto di dimora a Brescia e a Milano e l’obbligo invece
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di dimorare nel Comune di Sarezzo, che pur presente nel territorio dal 1997
non aveva una fissa dimora e non risultava aver sempre lavorato.
Orbene, anche se per costante giurisprudenza le motivazioni del
provvedimento impugnato di regola non possono essere integrate da
successive considerazioni svolte dalla p.a. in sede giurisdizionale, non c’è
dubbio che nella sentenza ora impugnata il giudice ha anche rilevato che dal
libretto di lavoro emerge che lo straniero, pur presente in Italia dal 1996
(23.3.1996, data di rilascio del primo permesso di soggiorno), avrebbe
lavorato regolarmente soltanto dalla fine dell’anno 2000, dovendosi
presumere che in passato si sia sostenuto con i proventi ottenuti dalla
commissione di reati; su questo specifico punto motivazionale della
sentenza non c’è nessuna censura nell’atto di appello.
Va aggiunto che non rileva la lunghezza del procedimento
amministrativo, addebitabile soltanto alla p.a., che avrebbe comportato
l’applicazione della nuova disciplina in danno dell’interessato, perché il
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, attesa la tipologia del
reato di particolare allarme sociale.
Né rileva che la sanzione penale sia stata sospesa, con ciò, ad avviso
del condannato, essendosi già espresso il giudice penale per la non
pericolosità del soggetto, perché, come ha rilevato la giurisprudenza, diverse
sono le valutazioni agli effetti penali da quelle che la p.a. deve svolgere ai
fini amministrativi (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 2008)
Nemmeno si può seguire la tesi dell’appellante secondo cui la nuova
disciplina non si applicherebbe comunque nel caso di una sola condanna per
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l’uso della locuzione al plurale della norma (“…per reati previsti…”),
perché non è la condanna in sé che viene in evidenza, ma il fatto storico che
da essa è evidenziato e la desumibile pericolosità sociale del soggetto.
Conclusivamente l’appello non può essere accolto; le spese
processuali vanno compensate in relazione alla specialità delle questioni
esaminate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta,
definitivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe; spese
compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità
amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 6 Maggio 2008
con l’intervento dei Sigg.ri:
Giovanni Ruoppolo
Presidente
Paolo Buonvino
Consigliere
Domenico Cafini
Consigliere
Roberto Chieppa
Consigliere
Marcella Colombati
Consigliere Est.
Presidente
Giovanni Ruoppolo
Consigliere
Marcella Colombati
Segretario
Giovanni Ceci
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N.R.G. 8276/2003
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il....10/09/2008
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
Maria Rita Oliva
CONSIGLIO DI STATO
In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)
Addì...................................copia conforme alla presente è stata trasmessa
al Ministero..............................................................................................
a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642
Il Direttore della Segreteria
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