Storie sconosciute del Risorgimento
Le vite straordinarie del calabrese Antonio Garcea
e di sua moglie, la piemontese Giovanna Bertola
IL
La traduzione di Antonio
Garcea in catene al carcere
di Bagnoli a Napoli
dove resterà ventitré mesi
in attesa del processo
Era stato arrestato a Corfù
E LA
PATRIOTA
MAESTRA
di VITO TETI
a prima immagine che mi viene in mente è
unapiccola tecadi legnonellaquale ècontenuta una bottiglietta di vetro, con dentro un
minuscolo oggetto non facilmente riconoscibile e definibile. Si trova nella Biblioteca
del mio paese: la prima volta che l'ho vista qualcuno mi
spiegò che era un pezzo dell'aorta che Carlo Poerio lasciò in dono, per riconoscimento, ad Antonio Garcea,
suo compagno di prigionia e di battaglie nel periodo
del Risorgimento. Quel frammento di corpo, la reliquia di un “personaggio” sconosciuto, mi creava un
certo turbamento, mi faceva una certa impressione.
Carlo Poerio, nato a Napoli nel 1803, nel 1815 segue in
esilio il padre, convinto sostenitore del Murat, torna
nel 1848 e viene nominato ministro dell'Istruzione nel
L
governo costituzionale. Muore a Firenze il 28 aprile
1867 uno dei protagonisti del Risorgimento meridionale. Aveva manifestato il desiderio che il suo cuore
fosse diviso fra i suoi migliori amici, fra cui Garcea.
Una dichiarazione, datata Firenze 29 aprile 1867, recita: «Noi sottoscritti Medici Chirurghi Testimoni dichiariamo che essendo trapassato ieri verso le ore 4 e
1/2pom.l'illustreBaroneCarlo Poerioeoggi29nell'esecuzione della iniezione del Cadavere, desiderando
insieme ai suoi Amici che il cuore di sì illustre uomo
non dovesse essere sotterrato ma bensì conservato all'affetto degli Italiani e specialmente dei Meridionali,
così fu estratto e conservato in un'urna e suggellato
venne spedito al Municipio di Napoli e trovandosi presente il suo compagno di sventura Maggior Garcea
Antonio, che l'assistè nella malattia, ha espresso il desiderio di conservare un pezzo dell'Aorta come reliquia all'affetto della famiglia e alla commemorazione
deiPosteri. Eriposta invasodi cristalloda noisuggellato colle iniziali del Defunto C. P. su cera nera, e a rovescioi nostrinomi: Barellaie DeFranceschi. Perl'autenticità del pezzo patologico rilasciamo la presente».
La legalizzazionedelle firme deimedici edei testimoni
è fatta dal sindaco di Firenze in data 14 maggio 1867.
Un pezzo del cuore diventava reliquia di «nuovi
martiri». Sacrificio e martirio sono parole fondanti
dell'idea risorgimentale della nazione come comunità sacrificale. Nella costellazione mitologica nacontinua a pagina 16
16
Domenica 13 marzo 2011
Risorgimento segreto
Antonio Garcea nasce
a San Nicola da Crissa
nel 1820 da padre medico
Il paese era stato assediato
dal brigante Vizzarro
e dagli invasori francesi
La teca con l’aorta di Poerio
e la religione della patria
segue da pagina 15
zional-patrottica, i termini chiave, come
scrive acutamente Alberto Mario Banti
(“Sublime madre nostra”, 2010, p. 28),
«sacrificio» e «martirio» sono parole chiave che riprendono in toto il lessico cristiano, «proiettandolo dalla dimensione puramente religiosa nel campo della semantica politica», per cui martire è «colui che dà
testimonianza della sua fede politica al resto della comunità che ancora attende di
risvegliarsi, di capire il mistero dell'appartenenza nazionale e di partecipare con
i militanti alle azioni necessarie perché sia
restituita libertà e indipendenza alla nazione italiana da secoli caduta».
Il Risorgimento è anche una missione,
una nuova «traversata», quasi messianica, un sogno lungo un secolo da Dante a
Machiavelli, da Leopardi a Mazzini. La memorialistica e la letteratura risorgimentale affermano il culto degli eroi, nuovi santi, che sopportano torture e punizioni fisiche e psicologiche, che sacrificano gioventù, affetti, vita, fino all'estremo sacrificio:
il martirio per onorare la religione della
patria e della nazione. Il frammento del
corpo ha anche il valore rammemorante e
fondante. E' un elemento
di “resurrezione”, delRisorgimento. La costanza
e la tenacia «nel soffrire
eroicamente ogni martirio, e all'uopo la morte
stessa, se lo richiedeva la
causa santa che propugnavano» i sudditi che
combattevano il dispotismo, sono richiamate da
Giovanna Bertòla nell'
introduzione al volume
“Antonio Garcea sotto i
Borboni di Napoli. Rivoluzione d'Italia dal 1837
al 1862”(1862). Scrivela
Bertòla: «I martirii, gli
ergastoli, i ferri, la bipenne dei tiranni, non
valsero a svellere dal petto dei generosi questa
idea, che aveva formato il
sospiro di tante generazioni, e non avvi altro popolo d'Europa che annoveri nella storia del suo
risorgimento tanti martiri,quanti necontal'Italia, privilegiata regione,
ma disgraziatamente disgraziata per la turba dei
re codardi che l'hanno
infestata! Sulle ceneri e
sulle glebe imbevute del
sangue di tanti martiri,
l'Italia ha costituito questo edifizio che dicesi
Unità, e mercè d'ogni martire, preso anche
isolatamente, che portò la sua pietra al monumento, e per l'avvicendarsi delle umane
vicissitudini l'Italia siede al loco ove siede.
E quale è il peso sacro dovere d'un popolo
che sorge a nuova vita per impulso proprio
e propri stenti, se non quello di consacrare
la più bella pagina nel volume del suo risorgimento a quelli generosi che per essa
morirono? E se sulla tomba dei martiri l'Italiano non si prostra riverente, non deve
ancor confortare diricorrenza i superstiti
alle sciagure della patria?».
Garcea è “ritratto” nella prigione, magro, indifeso, mortificato, in attesa del
martirio secondo un'iconografia che ricorda quella dei martiri cristiani del primo secolo. Anche le stanze buie, senza luce
e aria, grotte naturali, ricordano i luoghi
del martirio dei cristiani.
Il pronipote di Garcea, Gian Carlo Olmi,
scrive ad Angela Malandri, autrice di una
tesi di laurea “Giovanna Bertòla Garcéa e
«La voce delle donne»” (Università degli
Studi di Parma, relatrice professoressa
Alba Mora a. a. 1994-95): «Faceva una certa impressione vedere il frammento (con
l'attacco dell'aorta)sotto spirito diuna fiala. Al principio del secolo dell'Aquila, in sedute spiritiche aventi come “medium” la
giovane Bice, figlia di Clorinda Garcea in
Corbi, veniva invocato lo spirito di Carlo
Poerio. Unavolta dettò al mediumun messaggio di simpatia per il socialismo, in cui
prevedeva che Vittorio Emanuele III sarebbe stato l'ultimo re d'Italia. Un'altra
volta rimproverò la zia Barberina perché
si era dimenticata di aggiungere il necessario alcool nella fiala. Nel 1928, commemorandosi a San Nicola da Crissa il cinquantenario della morte di Antonio Garcea e murandosi una lapide in ricordo di
lui e del fratello Graziano (patriota caduto
nel 1849 nella difesa di Marghera), mia
nonna [Luisa], con l'accordo dei fratelli, si
liberò dell'inquietante presenza relegammo il cimelio a quel municipio».
Don Anselmo Garcea, francesi, Vizzarro
e briganti nel decennio francese
Antonio (Pasquale Raffaele) Garcea nasce a San Nicola di Vallelonga (attuale San
Nicola da Crissa) il 4 giugno 1820. Il padre
Anselmo era nato nel 1773, a San Sostene e
sarebbe morto, nel paese di origine, nel
1830. Laureato in medicina e chirurgia
nel 1804 a Napoli, si sposta a San Nicola e
Dalla cura
delle reliquie
alle celle buie
la descrizione
del martirio
dei patrioti
richiama
il lessico cristiano
sposa Maria De Caria, figlia del farmacista
Antonio e di Gloria Signorello, nata a San
Nicola nel 1774 dove sarebbe morta nel
1850. Anselmo probabilmente eredita la
farmacia del suocero ed esercita anche la
professione di medico. Antonio ha due fratelli (Graziano e Felice) e cinque sorelle
(Candida, Antonia, Clementina, Emanuela, Clorinda). Un'altra scena mi porta sui
gradini della casa dove, la Posterara, Caterina Martino, che abitava nella casa di una
sorella di Garcea, mi raccontava dei francesi, «metà animali e metà cristiani», del
brigante Vizzarro e del medico Anselmo.
Risale a questo periodo la “canzone” di
Pappù Colacchiu, Nicola Martino, che
chiede rispetto e dignità. Il paese e il territorio erano scena delle gesta del terribile
brigante Vizzarro, Francesco Moscato,
che combatte aspramente i francesi, ma
perseguita anche molti appartenenti ai ceti popolari. Nelle note sulle vite dei più famosi capi briganti delle Calabrie redatte
dal generale Iannelli, chiamato a reprimere il brigantaggio durante gli anni 18101811 (se ne è occupato il Mozzillo) Vizzarro
è un brigante terribile, ma anche «formidabile, pieno di coraggio, ardito e sagace»:
dorme da solo, attira in tranelli amici e nemici, li uccide in maniera cruenta, taglia
loro latesta e lifa torturare da altri malcapitati. Viene infine
ucciso da una donna
con cui conviveva.
Caterina Bosco e altri testimoni, a cui ha
dato voce Sharo
Gambino, ripetevano narrazioni popolari che rivelavano
anche simpatia per
un giovane che diventa brigante feroce perché ha subito
un'ingiustizia: era
stato picchiato a
morte dai baroni De
Sanctis per essersi
innamorato di una
loro sorella. Vizzarro si nasconde in
grotte irraggiungibili. A questo punto
troviamo Alfonso
Garcea. Le cronache
francesi scrivono
che, dopo uno scontro avuto colla legione di Polistena, in cui
perde molti compagni, «riesce allo scellerato avere nelle
mani il capobattaglione di quella comune per nome
Lombardo, a cui gli fece vivo troncare la capo. Si trasferisce da colà in Vazzano per
commettere altre scellerataggini, nell'impostare i compagni, ordina che qualunque fosse passato di un tal sito avessero
fatto fuoco; dimentico il Bizzarro dell'ordine dato si sposta, e riceve un colpo nella
spalla destra: fu subito preso e condotto in
un arido bosco, chiama un suo amico chirurgo di San Nicola il quale lo guarisce
perfettamente, e ricompensò quell'infelice coll'averli dato la morte crudelmente,
morte meritata a questo briccone mentre
gli furono offerti dal signor generale Parteneaux pezze mille e le rifiutò, se avesse
fatto morire il brigante».
Diversa la versione di Caterina Bosco,
vissuta nella casa degli eredi di Colacchiu
e Garcea. «Se ne va questo Vizzarro e lo
sparano su un mulo. Il brigante disse cercate il dottore Garcea. Un brigante andò e
gli disse: “Ci hanno sparato il capo e voi vi
dovete mettere sopra un cavallo. Povero
afflitto chi poteva fare? Il brigante lo porta
avanti e indietro con il cavallo. Che chi poteva andare lì? Lo hanno aiutato le anime
del purgatorio. Vizzarro, coricato sopra
Domenica 13 marzo 2011
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L’infanzia
Veste l’abito clericale
A 18 anni incontra
i Carbonari
e poi i membri
della Giovane Italia
Da militare lavora
per la cospirazione
Scontri sulle barricate a Napoli del 15
maggio1848. Nella pagina a sinistra, Antonio
Garcea. Le illustrazioni di queste pagine
sono tratte dal libro di Giovanna Bertola
Garcea sul marito Antonio (Torino, 1862)
un letto, gli dice: “Dottore, mi hanno sparato al ginocchio. Mettete mani ché mi dovete sanare, perché è pericoloso. Mi dovete
sanare se no da qui non uscite, vi faccio
ammazzare”. Quindici notti è dovuto andare, con la neve e con il freddo, è dovuto
andare, povero mio. Lo prendeva un brigante di notte e lo portava nel bosco, dove
di giorno non poteva andare. Dopo quindici notti, il medico gli disse: “Alzati perché ti
veda, prenditi il bastone e cammina”. “Oh
dottore mio, come vi ringrazio…”. “Non ti
preoccupare che io vengo ancora a vederti.
Queste sono le medicine se ti servono. Sono venuto quindici giorni e altri giorni ancora vengo”. Povero Garcea di andare là
con quel brigante ché chiunque andava
non usciva vivo».
Non c'è alcun riferimento all'uccisione
del medico e, in realtà, la morte di Anselmo
Garcea è registrata in data 1830. Figure
come quelle di Colacchiu e di Garcea appaiono sofferte e drammatiche. Non è da
escludere che Anselmo Garcea, probabilmente di idee giacobine, doveva destreggiarsi tra francesi che si presentavano con
la violenza degli invasori, briganti e popolazioni che guardavano con terrore sia i
francesi che i briganti.
La rivolta del 15 maggio 1848 a Napoli
e le insurrezioni in Calabria
La Bertola scrive che Antonio Garcea a
dieci anni «vestì l'abitoclericale e studiava
lingua italiana e latina, giusta l'infelicissima istruzione di quei tempi ed in quel reame, ove si governava quel popolo, o per dir
meglio quel gregge umano, con tre frasi
dei Borboni: Forca, Feste, Farina». Indossa l'abito clericale fino ai 18 anni, ma già
nel 1837, aderisce alla setta dei «Carbonari montanari», di cui aveva, scrive la Bertola, l'indole «ardente, indomabile, infaticabile, ed una tempra forte e robusta». e più
tardi entra in contatto con i membri della
“Giovane Italia”. Nella vicina Pizzo, Benedetto Musolino nel 1832 aveva fondato la
setta dei Figlioli della Giovane Italia, organizzazione senza legami con la Giovane
Italia di Mazzini. E' un fiorire di sette e di
cospiratori, spesso in contrasto tra di loro,
e lo stesso Garcea, nelle memorie fornite
alla Bertola, non nomina mai Benedetto
Musolino. Nel1840 fuchiamato allaleva e
arruolato nel 4° Battaglione dei Cacciatori
dell'esercito delle Due Sicilie, prima come
foriere e poi come sergente. I cospiratori
nontardano adapprezzare Garceae loutilizzano come emissario nelle diverse province.
Nel 1843, dopo l'insurrezione delle Romagne, le «provincie meridionali, calde
quanto il loro vulcano, furono scosse dal
letargico stato». Garcea fa la spola tra i cospiratori di Napoli e quelli di Calabria e di
Messina. Deve ottenere una licenza regia.
Il generale Florestano Pepe, anche lui cospiratore, lo avvicina e gli consiglia di presentare domanda per esentarsi dal corpo
per sei mesi. Dopo tre giorni gli viene accordata la licenza. Da Napoli s'imbarca per
Messina e da qui passa a Reggio, Bagnara,
Palmi, Mileto, Monteleone, Nicastro e Catanzaro, da dove comunica con Cosenza.
Rinnova questi viaggi per nove volte.
L'insurrezione «contro la gendarmeria
sui calabri monti», scoppia il 15 marzo
1844 ma è soffocata nel sangue e il 25 luglio si conclude drammaticamente la spedizione dei fratelli Bandiera. Nel 1847, come scrive la Bertola, un «fremito generoso
ed unisono serpeggiava per l'itala terra».
Insorge il Reggino: Nunziante, il «bombardatore di Calabria», il 2 ottobre «sacrificava le primizie di quella rivoluzione: i
martiri di Gerace grideranno contro lui
eternamente vendetta!!». Garcea si muove
tra Napoli e la Sicilia. Carlo Alberto di Savoia dichiara guerra agli austriaci. Da
ogni paese d'Italia partono contingenti:
Guglielmo Pepe si muove da Napoli con
soldati e volontari. Garcea pensa di partire, ma il fratello Graziano, che si è già scritcontinua a pagina 18
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Domenica 13 marzo 2011
Risorgimento segreto
Dopo l’Unità d’Italia
a Mondovì incontra
e sposa Giovanna Bertola
una maestra che sarà
una straordinaria
femminista e meridionalista
segue da pagina 17
to tra i volontari, lo consiglia di restare a Napoli. Graziano si arruola nel battaglione Unione
di Ferrara: muore il 1849, il 23 aprile, sotto il
forte di Marghera, e «finiva in tal modo gloriosamente la carriera del soldato e della vita a 21
anni». Un altro sconosciuto calabrese morto
per l'unità d'Italia.
Napoli, scrive Bertola, «l'infelicissima Napoli è un campo di battaglia! L'interminabile
sorriso del suo cielo e sparito! Quel popolo gaio
ed allegroe tramutatoin soldati!Le suevie son
piene di popolo che grida tradimento, alle barricate». La Costituzione concessa dai Borbone
è stata annullata. Garcea passa dalla parte degli insorti, viene ferito alla mano, «brandisce la
sciabola, combatte!». Assieme ad altri insorti
decide di fuggire in Calabria. Ha con sé quattro
lettere: una per la Basilicata, una per Cosenza,
una per Catanzaro e un'ultima per Reggio.
Fugge su un calesse. Raggiunge Pagani, si
sposta a Nocera e a Vietri, arriva a Salerno. E'
un succedersi di eventi, incontri e luoghi. Raggiunge Lagonegro, Lauria, Castelluccia, Castrovillari. Raggiunge Cosenza, si presenta al
locale Comitato, è arrestato e portato al Castello come disertore dell'esercito. Liberato dai cosentini, riparte per Rogliano, dove incontra i
Morelli, arriva a Catanzaro la sera del 19 maggio.
Moti insurrezionali in Calabria
e battaglia dell'Angitola
I fatti di Napoli, scrive Bertola, avevano «ridestato quel fuoco che incendia, che divora nei
petti dei Calabresi». Garcea arriva in una terra
dove «dalle gole profonde e dai monti inaccessibili dei calabri Appennini sorse il grido di rivoluzione, qual sublime e terribile grido dei popoli stanchi ed oppressi!». A Filadelfia si forma
«uncampodi5000 uominiprontiavendicarei
fratelli trucidatinelle vie di Napoli».Garcea va
in Sicilia per procurare munizioni per gli insorti calabresi. Attraversa Pizzo, Monteleone,
Rosarno e Palmi e arriva a Bagnara, sempre
grazie al sostegno di rete di cospiratori, e su
una barca a vela raggiunge Cariddi, dopo tre
ore. Lascia la Sicilia in fiamme, raggiunge Villa San Giovanni con tre barili di munizioni e
parte per Catanzaro.
A Monteleone incontra i patrioti del luogo,
ma un telegramma da Pizzo annuncia la spedizione del generale Nunziante per le Calabrie.
La città è sgomentata. Si decide di passare all'azione. Garcea si mette in viaggio con Eugenio
De Riso, Annibale Frojo e 300 «giovani ardenti
di provarsi cogli sgherri», e giunge a Maida,
dove il generale Stocco era stanziato con i rivoluzionari nicastresi. Si unisce alla compagnia,
di Settingiano, comandata da Francesco Anghera e da Tommaso Notaro.
Nunziante intanto aveva occupato Pizzo e
Monteleone. Il quartier generale degli insorti è
a Maida. Garcea è nominato capitano di Stato
Maggiore, istruttore e organizzatore delle
truppe insurrezionali nel campo di Filadelfia.
Va a Mongiana, dove vi era una compagnia di
artiglieri, per rilevare materiale da guerra.
Percorre i villaggi familiari di Monterosso, Capistrano, Nicastrello, San Nicola, Vallelonga,
Simbario, Spadola, e si ferma nelle vicinanze di
Serra, dove incontra Luigi Chimirri. Con due
pezzi d'artiglieria e del materiale da guerra,
parte per attaccare un battaglione che Nunziante spedivaa Monteleone. Lasera siferma a
San Nicola, e avuta voce che Nunziante deviava
le forze e attaccava il campo di Filadelfia si dirige in questa cittadina. La battaglia dell'Angitola termina con la vittoria del Nunziante, anche per mancanza di coordinamento, errori e
divisioni dei rivoltosi. Garcea combatte con determinazione e coraggio tra il Calderaio e l'Amato. Non si scorderà di questa sua intraprendenza nemmeno il generale Stocco all'indomani dell'unificazione nazionale.
Arresto nelle acque di Corfù
la condanna, il carcere
Garcea decide di passare in Sicilia, dove i rivoluzionari siciliani comandati dal Ribott avevano avuto modo di apprezzarlo. Lascia l'isola,
deciso a raggiungere Venezia: in settecento,
partono dalla marina di Catanzaro, con materiale da guerra, su un brigantino. L'arresto
nelle acquedi Corfù è raccontatodalla Bertola,
da Luigi Settembrini e da Sigismondo Castromediano. Dal carcere di Reggio viene condotto, assiemead altriprigionieri nelbagno diNisida. Incatenato col compagno Raffaele Sadurny di Serra, resta a Nisida ventitré mesi, in attesa del processo. Dalla Vicheria, dove incontra Settembrini e Pironti, passa per le “prigioni” di Salerno, Polla, Sala, Lagonegro, Lauria,
Rotonda, Castrovillari, Spezzano, Taverna
Nuova, Cosenza, Rogliano, Soveria, Tiriolo e
Di carcere in carcere fino al 1860
«Calabresi, è l’ora del riscatto»
arriva a Catanzaro la vigilia di Natale. Rimane
in carcere tre mesi. Il processo comincia presso
la Corte Speciale di Catanzaro il 10 aprile 1951.
Il capitolo IX del libro della Bertola riporta: l'interrogatorio di Garcea, che si dichiara residente a San Sostene, e afferma di essersi non già ribellato, ma unito agli insorti che intendevano
difendere la Costituzione. Otto i capi d'imputazione, tra cui: avere fatto parte di banda armata
a Napoli il 15 maggio 1848; avere «fatto fuoco
contro le regie truppe dalle barricate al fine di
distruggere e cambiare il Governo»; essere stato protagonista del «devastamento dello stabilimento di Mongiana, spregiando le statue del
Re Ferdinando»; «avere eccitata in tutta la Calabria la rivolta, arringando il popolo nella
piazza pubblica di Vallelonga e che prendesse
le armi contro il legittimo sovrano». Il 9 giugno ventidue testimoni confermano le imputazioni. Garcea rifiuta la difesa d'ufficio e viene
condannato a trenta anni di ferri duri, alla
malleveria e a spese giudiziarie. Tre mesi nel
carceredi Catanzaroinattesa deltrasferimento nel luogo di pena. Il viaggio in catena, che
stringeva entrambi i polsi, e che lo legavano a
un altro prigioniero, dura ben venti giorni.
A Napoli è condotto nel deposito del Carmine: gli viene messa una catena che avrebbe te-
nuto per undici anni. Resta nel carcere di Procida dal 23 ottobre 1851 all'8 febbraio 1852,
quando assieme ad altri cinquanta prigionieri
(tra cui Carlo Poerio, Nicola Nisco, Vincenzo
Sigismondo, Sigismondo Castromediano, Domenico Lopresti) viene trasferito a Montefusco. Topaia, stanza angusta e buia, catene, condizioni malsane, cibo scarso e pessimo. Provocazioni. Prove di coraggio. Con Giuseppe Cimino, Antonio Garcea lamenta la pessima qualità
del pane e della zuppa: un sergente, dietro la
spiata di un condannato comune, lo fa punire
con delle tremede legnate sulla schiena. L'episodio è raccontato dalla Bertola, e un altro carcerato famoso, Sigismondo Castromediano,
descrive la forza d'animo e la dignità di Garcea.
Il 28 maggio 1855 è trasferito a Montesarchio
con altri trenta prigionieri tra cui: Carlo Poerio, Nicola Nisco, Domenico Lopresti, Stefano
Mollica, Sigismondo Castromediano, Nicola
Palermo, Vincenzo Dono, Francesco Morelli.
L'inattesa e avventurosa liberazione
Un decreto del 27 dicembre 1858 a novantuno condannati politici trasforma il carcere in
esilio perpetuo.Il 19maggio iprigionieri sono
collocati sullo Stromboli (la stessa nave che
aveva trasportato Garcea e gli altri dopo la cattura a Corfù). Destinazione l'America. La nar-
razione della Bertola è puntuale e toccante: la
vicenda è narrata anche da Settembrini, da Castromediano e diventa una sorta di leggenda
del Risorgimento italiano. Il figlio di Settembrini, Raffaele (era nato a Catanzaro), riesce a
“dirottare” la nave in Irlanda. Garcea si sposta
tra Queenstown Cock, a Londra, a Bristol. Un
mese dopo, il console greco lo informa di una
prossima guerra del Piemonte contro l'Austria. Così la Bertola: «Quando lesse il dispaccio, senza esitare corre a casa, chiede del compagno; era uscito; allora dello stesso si prende
un sacco da viaggio, vi aggiusta la biancheria,
fa una rassegna della sua roba, e nel consegnarla alla padrona di casa le dice queste parole: “Io parto, custodite questa cassa, con questo
baule, e questi due materassi, e questa altra roba che mi servii per undici anni nella galera.
Per me essa è il più caro tesoro che debbo conservare per eredità ai miei nipoti; ne affido a voi
la cura, perché sul momento parto per l'Italia,
se lascierò la vita sul campo, il compagno mio
la farà tenere ai miei parenti; se poi avrò il bene
di sopravvivere, appena vedrò libera la mia terra, verrò io stesso a riprendermi tutto, a rivedere questo suolo che mi rese salvo, e ad abbracciare tutti gli amici, che di necessità or mi tocca
di lasciare”». Parte,tragliattesati distimadel-
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Domenica 13 marzo 2011
le famiglie edelle persone che loavevano conosciuto, per Torino.
La formazione di Giovanna Bertola
Il 6 marzo del 1843 a Mondovì, un piccolo
centro in provincia di Cuneo, nasce Giovanna
Maria Cunegonda Bertola, figlia di Giuseppe e
di Francesca Bardissone. Sarebbe diventata la
fondatrice de «La Voce della donna», il «primo
periodico emancipazionista italiano» (cfr.
«Nuova DWF, n. 21, 1982, p. 96)» e la donna
che, assieme a poche altre, «pose le basi del futuro movimento suffragista e paritario» (come
scrive nel 1987 F. Pieroni Bortolotti). La Bertola è stata sottratta alla dimenticanza grazie a
Gino Reggiani che ha ripubblicato nel 1992 in
anastatica (La Pilotta Editrice Parma) con un
denso saggio critico, «La voce delle donne».
Fondamentale e ricca di notizie, di documenti,
relazioni (provenienti dall'Archivio Olmi) è la
bella e documentata tesi di laurea di Angela
Malandri, alla qualefaccio ampio riferimento,
in maniera necessariamente sintetica.
Giovanna Bertola nasce in una famiglia
agiata e illuminata: tra le sue letture infantili
opere di autori come Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo, ma anche Rousseau e Mantegazza,
Fourier e Saint Simon. I moti insurrezionali
del 1848 dei moderati e dei democratici ne segnano l'infanzia.
Dal dattiloscritto Vita di Giovanna Bertola,
redatto da Gian Carlo Olmi, pronipote di Garcea e Bertola, si evince che la famiglia di Giovanna conosceva in quel periodo una profonda
crisi economica: il padre aveva subito gravi
perdite finanziarie per avere garantito debitori insolventi e a causa del dissesto economico si
ritirò a Cigliè (Cuneo) per amministrare le terre del fratello monsignore Andrea, rettore del
Collegio Vescovilee professoredi latinoal ginnasio di Mondovì. La famiglia Bertola si trasferisce nel castello del conte di Capris di Cigliè,
dove Giuseppe svolge la mansione di amministratore.
Nel 1847 nasce Barbara, chiamata Barberina, la secondogenita di casa Bertola, che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella vita di
Giovanna. La madre delle due ragazze muore
giovane e il padre si risposerà. Grazie alle sollecitazioni e al sostegno dello zio Giovanna Bertola siiscrive allaScuola Magistraledi Mondovì, dopo aver superato l'esame di ammissione
con quarantaquattro punti su cinquanta. Dopo tre anni di corso, rivelandosi tra «le prime
per costante diligenza e fervido zelo nello studio», la Bertola sostiene l'esame per il conseguimento della patente di idoneità di maestra
normale digrado superiore.E' promossa,il 13
agosto 1861, con 77 punti su 100. Il tutto questo mentre viveva un'esperienza che le avrebbe
cambiato la vita.
Un «vero figlio delle rupi calabre»
e la giovane e colta maestra piemontese
«Un uomo ruvido e assai scarsamente erudito, tuttoché figlio d'un medico; bruno e alquanto butterato nel volto, dal quale forse emergeva
il riflesso del suo carattere energico, volenteroso d'operare, fermo e sprezzante nei rischi e
nelle sciagure; tarchiato, basso piuttosto che
no, e coi capelli neri brizzolati di bianco anzi
tempo, pei troppi patimenti sofferti. Un uomo
cosifatto non poteva che attirare l'attenzione di
chi lo guardava. Trascinato in miseria dalle
persecuzioni, non se ne lamentava, né curava
gli agi; insomma un vero figlio delle rupi calabre; e sarei più esatto se lo chiamassi uno strappo delle rupi medesime. […] Ardito, coraggioso e amante di libertà, non poté resistere agli oltraggi recati alla patria, e il 15 maggio, vestito
dalladivisa militare,fuveduto combatterecon
intrepidezza dalle barricate, nella Capitale.
[…] Conosco però gli strazi e le rovine che in
conseguenza della cattura, martoriarono il
povero Garcea; e comefosse condannato ai ferri, comecon mevenuto aMontefusco, equanto
onoratamente vi stette».
Così parla Sigismondo Castromediano di
Garcea (Carceri e galere politiche, Lecce, 1895,
Vol. II, pp. 22-23), il quale, nonostante i lunghi
anni di duro carcere,non esita di raggiungere
Torino per partecipare alla guerra contro l'Austria. Francesco Stocco, il generale che lo ha
avuto a fianco nell'insurrezione delle Calabrie
nel 1848, lo segnala al generale Luigi Mezzacapo e il 27 giugno 1859 Garcea diventa luogotenente dell'esercito sardo. L'anno seguente si
dimette per poter partecipare all'impresa garibaldina nell'Italia meridionale. Sbarcato in Calabria, mentre Garibaldi combatte a Calatafimi, Garcea il 29 maggio 1860 lancia un proclama ai calabresi: «L'ora del nostro riscatto è suonata, insorgete tutti in nome di Dio e d'Italia!
Scuotete un giogo che l'Europa dice meritato
perché vi vide vili e codardi! […] Insorgete dunque e sia uno il grido Viva l'Italia, viva Vittorio
Emanuele. Insorgete! I tiranni tremano, l'ora
loro è suonata».
E' in rapporto diretto e amicale con Garibaldi, Bixio e Menotti. Col grado di capitano e poi
di maggiore, organizza e comanda un battaglione di volontari denominato corpo dei Cacciatori di Mongiana. Protagonista alla presa
dei forti di Scilla e di Mongiana e alla liberazione di Gallipoli, partecipa, agli ordini del generale Giuseppe Avezzana, alla battaglia di Volturno e all'assedio di Capua, per la quale gli sarà concessa la medaglia d'argento nel 1863 (in
Malandri, op. cit., pp. 33-34). Da Avezzana riceve, il 19 febbraio, l'ordine di curare il trasferimento della divisione a Mondovì per essere là
aggregata alla 15ma Divisione, integrata nell'esercito regio. La divisione è comandata dal
generaleStefano Türr,patriota ungherese,ex
ufficiale dell'esercito austriaco, compagno
d'armi di Garibaldi. Garcea arriva a Mondovì
alla guida della divisione Avezzana, nel maggio 1861.
Secondo Gian Carlo Olmi, «Antonio Garcea rìa Sanchioli di Torino con la quale la Bertola
avrebbe incontrato per la prima volta Giovan- rilascia al tipografo il manoscritto. I coniugi
nina Bertola e un'altra fanciulla per la strada garantiscono lo smercio di 1500 copie al prezdi Mondovì, mentre passeggiava col generale zo di due lire a copia. Il volume è pubblicato a
Türr. Più tardi, recatosi al castello di Cigliè per Torino nel 1862 nella Tipografia Letterari di
chiedere di sistemare il cavallo nelle sue scude- Piazza SanCarlo 10. Nonsi sa perchénon sono
rie, incontra di nuovo Giovanna che avrebbe stampate la seconda parte sulle campagne del
subito il fascino della divisa (con mantello 1859 e del 1860 e una terza “Documenti e note”,
bianco) e verosimilmente del passato garibal- annunciate nell'indice. Gino Reggiani nota
dino del Garcea e decidere insieme di sposar- che il volume «non può vantare alcun pregio
si». Giuseppe Bertola, dopo incertezze per la letterario». Penso che esso vada letto con l'indifferenza di età, dà il suo consenso. L'11 ago- tendimento dichiarato dalla Bertola: «concorsto Antonio Garcea di San Niicola di Vallelon- rere, comunque meschinamente, a rendere
con qualche frutto più
ga e Giovanna Bertola di
popolari le nostre svenMondovì si univano in
ture, le nostre virtù».
matrimonio.
Come scrive A. M. Banti
L’uomo racconta
(op. cit. p. 15) perché l'ae la donna scrive
zione degli «eroi che si
La scena che provo a
sacrificano per la patria
immaginare è quella in
abbia un senso, è necescui Antonio Garcea, nelsario che tale azione sia
le lunghe e fredde giorricordata, commemonate autunnali e inverrata e costantemente
nali, racconta lesue “meportata a esempio».
morie” alla giovane moNel grandemito della
glie, colta e desiderosa di
nazione da costruire e
sapere, di scrivere, tradell'Italia da fondare gli
mandare. È sicuramente
«eroi maschi devono esuna grande novità, un risere capaci di difendere
baltamento della conla libertà e l'onore della
suetudine e non solo per
nazione armi alla maquel periodo, vedere un
no», mentre alle figure
uomo che racconta e una
femminili, invece, sono
donna che scrive. I meaffidati «compiti di namoriali del carcere non
tura diversa: di assisono una novità (si pensi
stenza, di aiuto e di soalle opere di Silvio Pellistegno psicologico agli
co, e poi a quelle di Luigi
uomini della nazione»
Settembrini, Nicola Pa(Ibid.,p. 40).LaBertola,
lermo, Sigismondo Canell'avvertenza al lettostromediano). I “patriore, scrive: «Noi donne
ti”vogliono narrare patiabbiamo come compito
menti, torture, sacrifici
come se il tempo potesse Antonio Garcea e il nipote Giuseppe Sgro. In essenziale le domestiche
cure; ma, Italiane, non
cancellarne le tracce. alto da sinistra, Giovanna Bertola Garcea
dobbiamo né sappiamo
Non sappiamo come si e l’attestato di Giuseppe Garibaldi
rimanere estranee alla
fondono racconto di Gar- Nella pagina a sinistra, Garcea
storia del nostro paese.
cea e scrittura di Bertola: nel carcere di Montefusco, marzo 1855
C'è d'uopo seguire con
le due “narrazioni” s'incontrano e si integrano. Antonio Garcea, nipo- premuroso affetto lo svolgimento dell'indite dei due, scrive: «La vita turbolenta di mio pendenza, della unità, ed apprezzare gli atti vanonno Antonio Garcea aveva trasmesso alla lorosi dei nostri cari…».
E' un patriottismo femminile che incontra e
sua giovanissima sposa una carica addirittura detonante di amore patrio, di superattività rende possibile il patriottismo maschile. «Non
professionale, familiare, civile, morale, stori- piangiamo lacrime imbelli se li vediamo stacca e perfino geografica, considerando gli spo- carsi dal nostro fianco per correre dove li chiastamenti nell'ancora giovane Italia di quegli mino l'onore e la patria, ma reprimiamo il sinanni: entrambi i miei nonni hanno preso sul se- gulto del cuore. Madri, sposi, sorelle, amanti,
rio il monito […]“Fatta l'Italia, ora bisogna fare non rallentiamo, bensì incoraggiamo, rafforgli italiani”. Ma forse mi sbaglio: perché è fuori ziamo l'ardore dei nostri cari al combattimento
di dubbio che la giovanissima Giovanna Berto- delle ultime battaglie». Nonostante la presenla era già intrisa di nobilissimi sentimenti di za delle figure retoriche risorgimentali, semamore delle istorie: amore senz'altro anche bra che la Bertola si discosti da un pensiero dominante e cominci ad individuare e a proporre
trasmessile dal suo zio Andrea».
E'datatamarzo1862 lascritturaprivatasti- un ruolo più attivo delle donne, meno dipenpulata dai coniugi Garcea col tipografo Zacca- dente da quello degli uomini. Nel libro c'è uno
sguardo femminile che diventerà sempre più
potente, lucido, penetrante negli scritti successivi.
Le azioni degli uomini
e «la voce delle donne»
Nel gennaio 1862 Garcea, da Torino, chiede
di essere trasferito allo Stato Maggiore delle
Piazze perché le condizioni di salute non gli
permettevano di svolgere agevolmente le attività nell'Arma di Fanteria. Ottiene il trasferimento, ma, per mancanza di posti disponibili, è
messo in aspettativa. Il 29 luglio 1862 nasce a
Empoli la primogenita della coppia cui viene
dato il nome di Clorinda, il nome di una sorella
del Garcea. Nel gennaio 1863, viene richiamato in servizio e destinato al comando della Piazza di Vasto, negli Abruzzi, dove gli vengono affidati compiti di repressione del brigantaggio.
Un momento drammatico della storia nazionale e non a caso, qualcuno ha parlato di guerra civile, di «conquista regia», di «annessione
piemontese». Sono devastati e incendiati paesi, uccisi migliaia di contadini, donne e bambini, “briganti”. Muoiono anche molti soldati del
nuovo Stato e anche ufficiali e soldati “meridionali”,“napoletani”che avevano subito carcere,
torture, martirio per opera dei Borboni. Il nuovo Stato nasce male e sceglie la via della repressione cruenta. Anche intellettuali democratici
e“progressisti”comincianoa teorizzarel'inferiorità razziale dei meridionali e la riduzione
del brigantaggio a questione criminale e non
sociale e politica come indicavano i meridionalisti. Deve essere stata lacerante la posizione
“mediana” (bisognerebbe leggere lo scritto di
Pasquale Rossi sui fatti del 1799) di chi ha represso persone indifese, in nome di quella patria in cui aveva creduto e anche pensando di
contrastare un possibile ritorno dei Borbone.
Gian Carlo Olmi ha ricordato le difficoltà e le lacerazioni vissute dai suoi antenati durante la
lotta al brigantaggio.
«Quando il marito presidiava Vasto [Giovanna Bertola] alloggiava al palazzo dei marchesi [di quella città]. Terribile fu soprattutto
una notte che passò sola poiché il marito era
andato a caccia di briganti, per di più questi
avevano minacciato di morte il capo famiglia.
Il giorno dopo fu fatta una retata di briganti,
che vennero fucilati sulla piazza gremita di
gente. Giovannina che assisteva dal balcone
del palazzo non ebbe cuore di rimanere».
Il “ritrarsi”diGiovanna erail segnodi undisagio e di una disapprovazione dei “cospiratori” che avevano sognato la soluzione dei problemi dei ceti popolari?
Garcea, con un provvedimento del 6 settembre 1863, è trasferito a Messina e, da qui nel
maggio 1864, a Parma (dove giunge il 28 luglio) come maggiore delle piazze, alle dipendenze del colonnello Giuseppe Doria. I Garcea
si stabiliscono in una casa di proprietà di un
fornaio, al numero 42 di Borgo di Asse, vicino a
Piazza Duomo. Ospitano fino al giugno 1865
Bruno Bosco, nato nel 1854, figlio di Emanuela, sorella di Garcea, e Caputo Francesco, nato
in Calabria il 25 dicembre 1854, artista di canto, e, a quanto pare, anche lui parente di Garcea. I due ultimi ospiti della famiglia si trasferiranno a Napoli, nel giugno 1865.
Giovanna Bertola mette in atto quanto aveva
pensato a Firenze nel 1863: la creazione di un
periodico che facesse sentire, alta e forte, la voce delle donne. Può contare sulla collaborazione di altre donne, in primo luogo dell'inseparabile e preziosa sorella, e sul sostegno del marito, il cui nome compare nelle varie sottoscrizioni per la raccolta di fondi proposte dal giornale. Gerente responsabile del giornale è Francesco Capano, il cuginoacquisito, che viveva con
loro a Parma. Il primo gennaio 1865 viene
stampato nella tipografia di Pietro Grazioli di
Parma il numero saggio, oggi introvabile, de
«LaVocedelledonne». Latiraturadellarivista
è di ben tremila copie, con diffusione in tutta
Italia poiché il progetto dichiarato e perseguito dalla Bertola era quello di dare vita a un giornale nazionale.
Non è possibile segnalare difficoltà, consensi, ostilità che hanno accompagnato il cammino della rivista. Va segnalato, tuttavia, come
una rivista che nasce con il programma di
«educare, istruire, consigliare, parlare di diritti e di doveri» delle donne è una novità assoluta nel paesaggio editoriale del nuovo Stato e
sicuramente un momento importante per la
storia del movimento femminile. La redazione
si concentra su questioni elettorali, e la rivista
dedica un intero numero alla scadenza elettorale della politica nazionale nell'ottobre 1865,
secondo appuntamento elettorale del nuovo
Stato. Nessun giornale prima de «La Voce delle
Donne», come scrive Angela Malandri, reclamò il suffragio femminile «giusto e santo diritto», sollecitando le donne a interessarsi delle
vicende politiche, nonostante che «a sé serba il
sesso forte questo con numerose altre prerogative». La questione privilegiata su tutte fin
dall'inizio, è però, quella dell'istruzione femminile.
La scuola è il luogo nel quale le «disuguaglianze possono essere perpetuate, o eliminate, è il luogo nel quale si può e si deve costruire il
pareggiamento e l'armonia dei due sessi»
(Reggiani, op. cit., p. 27). La polemica si fa
aspra anche nei confronti della dottrina cristianaeavolte vieneaffrontato,inmanieradecisa, la questione dell'educazione religiosa delle donne e dei suoi effetti negativi sull'istruzione delle stesse. La rivista ha una buona accoglienza in ambiente moderato e su certa stampa locale, ma riceve aspre critiche che arrivano
soprattutto dal Vescovo di Parma e dagli ambienti più conservatori.
continua a pagina 20
20
Domenica 13 marzo 2011
Risorgimento segreto
Le molte e rilevanti analogie
della storia raccontata
nel romanzo della Banti
e nel film di Mario Martone
con l’epopea del patriota
di San Nicola da Crissa
21
Domenica 13 marzo 2011
Ringraziamenti
Anna Banti e, a sinistra, la
copertina di “Noi credevamo”
Sotto, Antonio Garcea sul vapore
“Lo Stromboli” nel luglio 1848
Questo scritto inedito è la sintesi di un lavoro
su Antonio Garcea e altre figure ed eventi
poco noti del Risorgimento calabrese che
verrà pubblicato presso Rubbettino Editore. Con lo stesso editore è in corso di stampa, in edizione critica e con saggi introduttivi, il volume di Giovanna Bertòla “Antonio
Garcea sotto i Borboni di Napoli. Rivoluzione d'Italia dal 1837 al 1862” (Torino 1862),
che sarà distribuito gratuitamente ai ragazzi
delle medie di S. Nicola da Crissa. Un ringraziamento particolare a Silvestro Bressi, che
mi ha fornito la prima copia a stampa. Le
due iniziative editoriali e culturali sono realizzate con la collaborazione e il contributo di
Emilio Perri, discendente di una sorella di
Garcea, Antonia, che abita la casa in cui è
nato Garcea, e che ha il culto delle memorie
familiari. Lo ringrazio vivamente per la preziosa vicinanza. Con senso di amicizia ringrazio Giovannina Bosco Degni, anche lei
discendente di un'altra sorella di Garcea,
Emanuela, per i documenti e le foto che mi
ha fornito, ma soprattutto per le informazioni che mi ha dato con generosità. Per la realizzazione di questi lavori ho avuto modo di
sentire Angela Malandri, attenta studiosa
della Bertòla, i fratelli Roberto ed Emanuele
Olmi, il loro cugino Gian Luigi Olmi, discendenti diretti dei Garcea Bertòla. Desidero
ringraziarli per l'amabilità e la disponibilità
con cui hanno accolto la notizia della mia iniziativa e, soprattutto, per la passione con cui
custodiscono memorie e documenti di una
vicenda che appartiene alla migliore storia
d'Italia, a quella per cui abbiamo il piacere di
continuare a sentirci e a dirci italiani. (vi. te.)
Da sinistra, Mario Martone, una scena del film “Noi credevamo”
e l’inaugurazione della lapide a Garcea San Nicola da Crissa
nel 1928. In basso, il documento con il quale Carlo Poerio lascia
un pezzo dell’aorta al “compagno di sventura” Antonio Garcea
Garcea e Lopresti?
Sembrano la stessa persona
segue da pagina 15
Non mancano le ironie di giornali progressisti e liberali, di tendenze garibaldine, che non
consideravano la scrittura affare di donne. Caterina Pigorini Beri, autrice nel febbraio del
1865 di un libretto sull'istruzione femminile,
dichiara ammirazione per il coraggio e la fermezza della Bertola, ma entra in garbata polemica col periodico e insiste sui ruoli tradizionali femminili. La rivista vive tra difficoltà economiche e appelli di sostegno. Dopo quattordici numeri, deve rinunciare al proposito ambizioso di uscire due volte a settimana.
Neanche la scadenza quindicinale è rispettata e nel 1867 escono soltanto due numeri. La
rivista riesce a mantenere una diffusione nazionale e infatti vi si registrano abbonati in Sicilia e in Calabria, come a Firenze e a Modena.
L'ultimo numero esce a Parma l'1 gennaio
1867 e nella Biblioteca Palatina è conservato
l'unico numero stampato a Firenze, martedì 22 gennaio
1867. La Bertola tenace e combattiva, cambia prospettiva,
immaginando iniziative concrete e tempi più lunghi. Si convince, sempre più, che bisogna
fondare scuole in tutta la penisola perché «la civiltà e il progresso vanno di pari passo colla maggiore o minore istruzione della donna»,
come scriveva Adele Campana («La voce delle
donne», 1 marzo 1865).
Intanto Antonio Garcea, nel marzo 1867,
viene posto in aspettativa «per riduzione di
corpo»: congedato dal ruolo di maggiore della
Piazza di Parma, lascia, con la moglie, la città
nell'autunno del 1867. A Parma il 22 maggio
1865 era nata la secondogenita, Luisa Letizia
Alessandrina, battezzata il 27 maggio da Louse-Julie-Caroline Murat, figlia di Gioacchino
Re di Napoli, moglie del conte Giulio Rasponi
di Ravenna.
Garcea, forse, non gradisce l'aspettativa: ottiene di essere messo a riposo per andare volontario con Garibaldi, che il 23 ottobre 1867 varcavaiconfinidello StatoPontificioperprendere Roma. La sconfitta di Mentana modifica i
programmi di Garcea, che coerentemente democratico, non si sentiva a suo agio in quella
sorta di “accantonamento” che conoscevano
tanti ex cospiratori contro i Borbone e che avevano combattuto insieme a Garibaldi.
Il trasferimento a Reggio e a Catanzaro:
l’istruzione femminile nel Sud
«L'educazione della donna non racchiude
soltanto l'idea della educazione della metà del
genere umano, ma dell'umanità intera». Così
scrive Giovanna Garcea Bertola nella Relazione sullo Istituto Normale femminile di Catanzaro (Catanzaro, 1874, p. 4). Una convinzione
profonda che l'accompagneràsempre, soprattutto al Sud, a Reggio e a Catanzaro, dove è protagonista di iniziative scolastiche, ricostruite
dalla Malandri.
La Bertola anticipa, anche se per caso, il
viaggio e le inchieste al Sud dei meridionalisti e
individua, come poi avrebbero fatto i più illuminati esponenti dellaquestione meridionale,
nell'analfabetismo e nella mancanza di scuole
le ragioni dell'arretratezza di quelle aree.
La prima tappa, dopo Parma, è Empoli. Da
questa città Giovanna Bertola avvia il progetto
di un «Istituto internazionale
femminile Carlo Poerio», un
collegio femminile d'educazione e d'istruzione secondo i bisogni delle classi agiate. L'iniziativa raccoglie adesioni anche
tra importanti personaggi
pubblici e del Corpo Diplomatico e Consolare delle Nazioni
Estere. La fondazione di un
«educandato laico» necessitava di cospicui finanziamenti e per tenerlo in vita era necessaria una retta che si aggirava intorno alle 600 lire annue, una cifra accessibile a poche famiglie, mentre per un educandato gestito da religiose, erano sufficienti 350-400 lire. La Bertola pensa al sostegno di almeno quattrocento
azionisti, ma la sottoscrizione non ha gli effetti
sperati. Aderiscono quattro membri del Governo (su nove),nove rappresentanti diploma-
tici, fra cui quello inglese e americano, undici
deputati, tra i quali patrioti come Silvio Spaventa e, con una lettera, Giuseppe Garibaldi.
L'iniziativa non va in porto e allora, quasi
gioco del destino, è, nella terra del marito, a
Reggio Calabria che ha inizio la carriera di
educatrice della Bertola. Con una lettera del 25
novembre 1868, l'impresa delle Strade Ferrate
Calabro Sicule da Messina invia a Reggio all'ill.mo Sig. Cav. Garcea lo stato di nomina ad
ispettore delle Ferrovie del Servizio Commerciale Dipendente direttamente dalla Direzione. A Reggio nasce, Anselmo, il primo figlio
maschio.
Giovanna è invitata a fondare il Collegio convitto delle «nobili donzelle», divenuto in seguito il collegio «Vittoria Colonna». Lo Statuto è di
particolare interesse poiché la Bertola espone
le proprie concezioni, inserendo l'educazione
fisica tra gli scopi fondamentali del collegio:
una visione pioneristica per le posizioni dell'epoca.
Una Commissione di Vigilanza, composta da tre uomini e tre
donne, «incaricate di vigilare
sulla istruzione intellettuale,
sullo avviamento morale, sulla
perizia nei lavori femminili, ed
in generale sullo andamento
della educazione impartita alle
alunne del Collegio; inveglierà
egualmente sulla nittitazione, sul vestire, sulla pulizia della persona ed in generale su tutto
ciò che riguarda l'igiene personale delle alunne». Ogni alunna doveva portare con sé per ridurre le spese i seguenti oggetti: vestiario, letto in ferro, catinelle di rame, posate e bicchiere
d'argento, cassettone con fornitura di attrezzo
da toeletta e da lavoro. Un lungo articolo di «Fede e avvenire» di Messina, 8 giugno 1873, nell'avviare la sottoscrizione per una medaglia all'illustre pubblicista, ricorda l'importanza dei
gli studi e del giornale da lei fondato, elenca i risultati ottenuti e anche i sacrifici per fondare
un istituto nella marina di Siderno. Giovanna
Bertola è definita «donna che l'Italia e l'intera
Europa onorano», annoverata fra le «donne illustri del sec. XIX»; la prima a istituire e a inaugurare nel Meridione una scuola laica che si
pone come fine principale l'educazione intellettuale delle donne.
Nel dicembre 1871 la Direzione della Scuola
normale femminile di Catanzaro comunica alla Bertola la nomina a direttrice del convitto,
annesso alla scuola fondata nel 1863. Il 23 dicembre del 1871 nasce il secondo figlio maschio di casa Garcea, Giuseppe Roberto. Nel
1873, maestra assistente presso la scuola normale di Catanzaro, riceve l'incarico dal Consiglio Municipale di Ispettrice delle scuole elementari cittadine. I riconoscimenti che la Bertola riceve non attenuano il suo disagio per le
gravi pecche dell'organizzazione dell'istruzione pubblica, che la portano a dimettersi dai
suoi incarichi, dopo avere denunciato tale situazione in una relazione a stampa del 21 agosto 1874 inviata al Prefetto della città. La relazione, attentamente esaminata dalla Malandri, è davvero istruttiva perché fornisce un
quadro sullo stato dell'«educazione morale ed
intellettuale in Italia», i problemi della scuola
di Catanzaro, la situazione di degrado dei locali
del convitto, le pessime condizioni igieniche, le
molte iscrizioni soltanto per avere un sussidio
governativo e provinciale; l'uso
delle raccomandazioni tramite
un sistema clientelare con i
membri della Giunta esaminatrice. E' una denuncia di impronta “meridionalistica”, fatta da una maestra, che individua una sorta di «martirio della
scuola in Calabria», anticipando, quasi, le amare analisi, accompagnate da impegno, di Zanotti Bianco e di
Isnardi. La Bertola avanza proposte concrete:
ricerca di un locale adatto, stanziamento da
parte delle Provincia di un adeguato finanziamento dell'istituto, mutamento del personale
addetto alla direzione.
Il 2settembre 1874 ilPrefetto, probabilmente per evitare che la Bertola si dimettesse dai
suoi incarichi, si congratula con lei per il servizio prestato. La famiglia Garcea nel 1875 si tro-
Fu una paladina
dell’istruzione
femminile
Le condizioni
della scuola
a Catanzaro
vava a Velletri, dove la Bertola ricopre il ruolo
di direttrice delle Scuole femminile e di maestra di quarta elementare, fino all'anno scolastico 1877-1878. Il contributo fornito dalla
giovane maestra all'istruzione della donna in
Calabria è pubblicamente riconosciuto il 19
maggiodel 1875,quando GiuseppeGaribaldi,
festeggiato a Velletri, la decora con la medaglia d'oro, offertale il 1° maggio dai cittadini e
dalla stampa di Reggio Calabria. Si manifesta
ammirazione per la «Illustre Pubblicista e benemerita educatrice», che contribuì molto «all'ordinamento ed incremento dell'istruzione
laica della Donna».
Antonio Garcea aveva, intanto, lasciato il
suo impiego nelle Ferrovie di Reggio Calabria,
dove aveva acquistato anche una vigna, che
vendette per comprarne una o più a Velletri,
senza ricavarne il rendimento sperato. Non
era, con ogni evidenza, uno di
quegli uomini risorgimentali e
garibaldini che avevano usato
il loro passato per ottenere onori, danaro, posti di comando.
Nel 1875 a Velletri si ammalano di scarlattina tutti e quattro i figli di Garcea e Anselmo,
di sette anni, muore. Nel gennaio 1878 Garcea si ammala di
broncopolmonite: ricoverato all'Ospedale di
Santo Spirito a Roma muore il 28 aprile 1878.
La «Riforma», ricordata da Gian Paolo Garcea
nella Vita di Antonio Garcea, scrive come Garcea «dotato di un gran cuore e di una grande
onestà» fu amato da tutti e non a caso gli uomini di stato più eminenti,a cominciare da Crispi
e dal giureconsulto senatore Conforti, ministro di Grazia e Giustizia, «si onorarono della
sua amicizia e gli furono larghi di conforto nel
suo letto di dolore». Il Duca Sigismondo di Ca-
stromediano, scrive il 13 maggio 1878 a Giovanna Garcea per consolarla della morte del
marito e lei risponde, qualche giorno dopo. con
una lettera da Velletri. Non senza enfasi la «Riforma», scrive: «Morì da eroe come visse […]. Il
nomediAntonio Garceaormaiappartienealla
storia. Alla sua degna e colta consorte ed ai tre
figli lascia un nome intemerato […]».
Amaro il commento del nipote Gian Paolo
Garcea: «Il suo nome non è certo passato alla
storia come affermava il necrologio all'indomani della sua morte. Non sono del resto passati col loro nome alla storia tantissimi altri
che con lui lottarono per la libertà costituzionale e l'avvenire d'Italia».
L'intensa attività di Giovanna Bertola
dopo la morte di Garcea
Un'altra immagine,un'altra fotografia.Antonio Garcea seduto in divisa d'ufficiale dell'esercito, alla sua sinistra, in piedi, un giovane ufficiale, con il
braccio sulla spalla dello zio.
Quest'ultimo, Giuseppe Sgro,
nato probabilmente nel 1828,
figlio di Candida Garcea, sorella maggiore di Antonio, e di
Francesco Sgro, maggiore dell'esercito, è stato luogotenente
di Garcea nel 1860 nel battaglione Cacciatori di Mongiana. Ha combattuto
nelle campagne garibaldine, ottenendo la medaglia d'argento al Volturno, e in seguito nella
repressione del brigantaggio. Giovanni Bertola, dopo la morte del marito e del figlioletto Anselmo, si trova, da sola, con tre figlie di sedici,
tredici e sette anni. Percepisce uno stipendio
annuo di lire 1000, ma ha scarse possibilità di
ottenere una pensione. Nasce un legame tra
Giovanna e Giuseppe e dall'unione nel 1881
una bambina di nome Cesarina. Prima della
Antonio Garcea
muore a Roma
nell’aprile 1878
nascita della bambina i due si uniscono in matrimonio religioso perché Giovanna possa
conservare il diritto alla pensione di reversibilità di Garcea. I tre figli avuti con Antonio non
prendono bene la nuova unione della madre e
considerano Sgro una sorta di intruso. La stessa madre, come riferiscono ancora alcuni parenti nel paese, non condivise la scelta del figlio. Il legame non ha lunga durata. Giovanna
si disamorò presto di Giuseppe, descritto come
uomo gioviale, sveglio, ma «grossolano» e i
due di fatto vissero sempre separati, anche se
regolarizzarono la loro posizione, celebrando
il matrimonio civile il 30 settembre 1896.
Dal 1878 Giovanna Bertola svolge la sua attività in diverse scuole: ad Avezzano, a Bobbio,
dove resta ben 15 anni, di nuovo ad Avezzano, a
Lagonegro, all'Aquila, a Macerata. Intensa la
sua vita intellettuale, fatta di frequentazioni
con Bixio, Garibaldi, Anna Maria Mazzoni, Adelaide Folliero
De Luna, i parlamentari Gioacchino e Achille Rosponi, Francesco De Sanctis.
Nel 1897 in uno scritto intitolato “Educazione della donna”
continua le sue proposte innovative e scrive che sarebbe «invero un grave errore se alla donna, come nei tempi difficili del dispotismo, si
proibisse l'ingresso al santuario della scienza». Afferma anche la possibilità per le donne
di accedere all'Università perché altrimenti
«non sarebbe mai raggiunto quel grado di civiltà, alla quale tutti aspiriamo, quando non
fosse tenuta alla dovuta altezza la dignità della
donna, quando non si coltivassero le sue attività intellettuali, quando il suo cuore non venisse informato al sentimento de' suoi doveri verso la famiglia e la patria».
Si stabilisce, dopo la pensione, nel 1916,
presso la figlia Cesarina a Cellino Attanasio
(Teramo) e poi,in compagnia dell'inseparabile
sorella Barberina, a Bobbio presso la figlia Luisa, dove muore il 31 agosto 1920. E' sepolta nella tomba di famiglia Olmi-Giorgi. Aveva sistemato meticolosamente tutte le sue carte, che
consentono di scrivere pagine importanti della storia politica, sociale, civile, culturale dell'Italia, delle donne e degli uomini, che faticosamente diventavano italiani. Come Antonio
Garcea, non ha ancora avuto la notorietà che
meriterebbe.
Noi credevamo…noi crediamo…
Domenico Lopresti e Antonio Garcea
«…eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla
quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi
credevamo».
Il finale del romanzo Noi credevamo (1967) di Anna Banti
(pseudonimo di Lucia Lopresti) ristampato nel 2010, è, a
mio giudizio, una delle più riuscite “storie” italiane scritte il
secolo scorso. Il romanzo della
Banti è avvincente, scritto in
un italiano classico, elegante e
raffinato, che coniuga la capacità di restituire episodi e figure del Risorgimento e una grande capacità introspettiva. E'
un romanzo amaro, dolente, vero. La storia del
Risorgimento scritto con rabbia, come nota
Enzo Siciliano, una storia sui paradossi e sugli
inganni della storia. Siamo nel 1883. Domenico Lopresti, un gentiluomo calabrese, di credo
mazziniano e rivoluzionario, è chiuso, stanco e
ammalato nella sua casa di Torino, dove vive
con la moglie, una figlia che lo accudisce e un figlio smarrito, irriso dai compagni per le sue
Una storia
sugli inganni
della storia
origini. Amareggiato, senza alcuna indulgenza per gli altri e per se stesso, ripercorre la sua
giovinezza in Calabria, la sua adesione alla
Giovane Italia, le cospirazioni, l'arresto, il carcere duro a Montefusco e a Montesarchio. Sfilano nei suoi ricordi personaggi che hanno fatto la storia e chelui ha incontrato e conosciuto:
Garibaldi, Musolino, Cialdini. E si muovono
ignoti rivoluzionari, carcerati, briganti, guardie, traditori, trasformisti, donne appena incontrate, la mamma, la sorella, un nipote e altri
parenti. Scorrono i luoghi ariosi della sua infanzia, le topaie borboniche dove più volte rischia di morire, e poi i giorni della libertà, che
ottiene quando ormai, in sua assenza, le utopie, i sogni, le speranze soccombevano sotto i
colpi della realtà e dei compromessi. Dopo l'unificazione riceve un incarico a Reggio nella
Marina e qui vive l'ultima illusione: aiutare Garibaldi nella nuova impresa,
che però viene fermato in
Aspromonte. Accetta la condizione di sconfitto, come capita
a tanti che avevano creduto in
un'Italia repubblicana e democratica e avevano sacrificato
affetti, giovinezza, ricchezze,
salute. Le memorie, specie
quelle dell'infanzia stemperano l'amarezza, hanno un valore terapeutico,
salvifico, aiutano Lopresti a mettere in ordine
pensieri ed eventi, e alla fine a tirare un giudizio disincantato sugli uomini nei quali aveva
creduto e su un esito non previsto e non desiderato del Risorgimento.
Ho letto il libro di Anna Banti contemporaneamente a quello di Giovanna Bertola su Garcea. Ho immaginato che Lopresti e Garcea, vivi
grazie a narrazioni e scritture molto diverse,
fossero la stessa persona. Il protagonista del
romanzo della Banti percorreva gli stessi luoghi di Garcea: Pizzo, Chiaravalle, Reggio Calabria e si spinge, nelle sue passeggiate giovanili, fino ai boschi di San Nicola. Entrambi sono
rinchiusi nelle stesse carceri: Montefusco e
Monteserchio, con gli stessi personaggi: Poerio, Settembrini, Castromediano. Entrambi,
dopo l'unità d'Italia, hanno un impiego simile
nella stessa città, Reggio Calabria: Lopresti
nella marina e Garcea nelle ferrovie, un impiego che è una sorta di allontanamento degli ex
cospiratori ed ex garibaldini dalla vita pubblica e politica per chi manteneva posizioni intransigenti. Entrambi sposano una donna piemontese e si trovano a vagare nell'Italia appena nata. La Banti scrive la sua storia di “finzione”traendo spunto dalle vicende del nonno Domenico Lopresti di Pizzo, uno dei tanti patrioti,
rivoluzionari e uomini del Risorgimento dimenticati come Garcea. I due si sono conosciuti nella realtà: sono stati condannati assieme a
trenta anni per i fatti del '48 e sono stati nelle
stesse prigioni, come ricorda anche Castromediano.
Dal romanzo della Banti, Martone ha tratto
un film ambientato in posti diversi da quelli descritti nellibro ecambiando, comeavviene nella libera trasposizione cinematografica di
un'opera letteraria, luoghi, storie e personaggi. Qualcuno ha protestato perché Martone
avrebbe ignorato i patrioti calabresi e l'importanza del Risorgimento nella regione. Come se
un'opera di finzione dovesse necessariamente
riflettere la trama del romamzo, che è esso stesso opera di finzione. Non è possibile riflettere
sui legami e sul rapporto tra verità, storia, narrazione, finzione, ma ledue “memorie”mi portano a singolari domande, cui non so rispondere. Come ha vissuto Garcea gli eventi postunitari? Anche lui con l'amarezza e il disincanto
del rivoluzionario Lopresti della Banti? Avrà
detto anche lui con Garibaldi e tanti altri giovani del Risorgimento: «Non è questa l'Italia che
io sognavo?». Mi piace immaginare che l'incontro diGarcea con laBertola abbiapotuto attenuare amarezzee delusioni,abbia datoall'ex
carbonaro e garibaldino un nuovo senso. Mi
piace pensare che l'incontro li abbia arricchiti e
cambiati e spinti a essere operosi e propositivi
senza troppe recriminazioni.
Non dovremo stancarci maidi segnalare i limiti e gli errori del Risorgimento e dell'unificazione nazionale, ma penso che la tendenza a
scrivere una «controstoria» dell'unità d'Italia
porta a considerazioni e a conclusioni infondate, che negano altre verità, altre storie, altri
sentimenti, altre passioni. A lasciare perplessi
non è tanto la riflessione sul tradimento degli
ideali del Risorgimento, già segnalato, dagli
stessiprotagonisti delusiquanto lanegazione
tout court dell'importanza che il Risorgimento ha avuto nel Sud. Quel guardare sempre all'indietro con un “noi” contrapposto agli “altri”, senza visione prospettica,
senza capacità di sognare un
mondo nuovo come facevano i
giovani rivoluzionari del Risorgimento. Ricostruzioni rancorose, nostalgiche, retoriche
sembrano affermare un'identità per difesa e dimenticano come comunque, nel bene e nel
male, l'unità d'Italia sia stata
realizzata anche con l'apporto decisivo dei meridionali. In un periodo di leghismi e separatismi, di filoborbonismi e di revisionismi estremi, la storia dell'incontro di un cospiratore calabrese e di una donna emancipata piemontese, una vicenda che ha prodotto mutamenti e
costruito nuove identità, mi è parsa molto bella
ed esemplare, immaginando un'Italia da costruireedainventare, pernondoverlaalmeno
ricordare.
Vito Teti
Un incontro
d’amore
rivoluzionario
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