A cura del Centro di PG e consulta per la Formaziuone ISPETTORIA LOMBARDO EMILIANA 344 2 Bozza realizzata in data 7 ottobre ’07 BMV del Rosario “vestizione dei primi salesiani” 343 6.2.2 Il quotidiano........................................................... 299 6.2.3 L’educazione .......................................................... 299 6.2.4 I sacramenti............................................................ 300 6.2.5 I sacramenti............................................................ 301 6.2.6 Le missioni .............................................................304 6.2.7 Da mihi animas caetera tolle .................................305 6.3 LA CONGREGAZIONE SALESIANA OGGI ........................... 307 6.3.1 Figure significative della vocazione religiosa salesiana ....................................................................................... 307 Strumenti ......................................................................... 307 Strumenti ......................................................................... 313 1. CARITAS CHRISTI URGET NOS: GIOVANI PER I GIOVANI......................................................................... 314 1. CARITAS CHRISTI URGET NOS: GIOVANI PER I GIOVANI......................................................................... 315 Strumenti ......................................................................... 316 3.0 Premessa ...................................................................317 3.1 Elementi caratteristici del Sistema preventivo .......... 318 3.2 Ragione, religione e amorevolezza ........................... 320 3.4 L’ «Amorevolezza» cuore del metodo educativo....... 328 Alcuni criteri per la compilazione...................................334 Alcuni criteri per la compilazione...................................335 342 3 Consentitemi, venerati Confratelli, di parlare anche della formazione nei Seminari maggiori. Al riguardo, il Concilio Vaticano II, nel suo decreto Optatam totius, ha stabilito norme importanti che, purtroppo, non sono ancora state pienamente attuate. Ci vale in particolare per l’istituzione del cosiddetto corso introduttivo prima dell’inizio degli studi veri e propri. Questo non dovrebbe soltanto trasmettere una solida conoscenza delle lingue classiche, che occorre espressamente esigere per lo studio della filosofia e della teologia, ma anche la familiarità con il catechismo, con la pratica religiosa, liturgica e sacramentale della Chiesa. Dinanzi al crescente numero di persone interessate e di candidati che non provengono pi da una formazione cattolica tradizionale, un tale anno introduttivo urgentemente necessario. Inoltre, durante questo anno lo studente può raggiungere una chiarezza maggiore sulla sua vocazione al sacerdozio. D’altro canto, le persone responsabili della formazione sacerdotale hanno la possibilità di farsi un’idea del candidato, della sua maturità umana e della sua vita di fede. I cosiddetti giochi delle parti con una dinamica di gruppo, i gruppi di autocoscienza ed altri esperimenti psicologici sono invece meno adatti allo scopo e possono creare piuttosto confusione ed incertezza. Benedetto XVI, ai Vescovi tedeschi in visita “ad limina”, 1.XII.06. 4 17.1 RETTITUDINE DI COSCIENZA E APERTURA ALLA REALTÀ .......................................................................................................... 219 17.2 EDUCAZIONE ALLA CORRETTA INFORMAZIONE ........... 221 17.3 STRUMENTI O STRUMENTALIZZATI: INTERNET E CELLULARE ........................................................................................ 221 13.3.1 Internet: i rischi della rete. .................................. 222 Una nuova forma di dipendenza ..................................... 222 17.4 LETTURA E CRITICA DELLA SITUAZIONE ODIERNA ........ 227 17.5 ATTENZIONE ALLE PROBLEMATICHE GIOVANILI .......... 227 Strumenti ......................................................................... 228 3. VITA DI PREGHIERA .................................................... 232 3.1 VITA NELLO SPIRITO: COS'È? .......................................... 232 3.2 G RADUALE ACQUISIZIONE DI UN TEMPO DI PREGHIERA PERSONALE ........................................................................................ 233 3.2.1 Un poco di metodo ................................................. 233 3.2.2 Possibile struttura della preghiera settimanale ..... 234 3.2.3 L’adorazione: Lui è fedelmente qui ....................... 235 3.3 “IL TEMPO DELLA PAROLA” ........................................... 241 3.3.1 Introduzione ........................................................... 241 3.3.2 LA P AROLA.................................................................. 247 3.3.3 LE VIE… .................................................................... 249 3.3.4 LA DEFINIZIONE DI LECTIO DIVINA ............................. 252 3.3.5 LE TAPPE DELLA LECTIO DIVINA ................................. 253 4.1 INTRODUZIONE ALL’EUCARISTIA................................... 262 4.2.1 Liturgia della Parola ............................................. 263 4.2.2 Liturgia Eucaristica ............................................... 265 4.3 INTRODUZIONE ALLA RIC ONCILIAZIONE ....................... 269 4.3.1 Confessio Laudis: il grazie e la lode...................... 270 4.3.2 Confessio Vitae: l’accusa ...................................... 270 4.3.3 Confessio Fidei: dal credo all’impegno................. 272 5.1 Introduzione secondo le dimensioni umana, cristiana e consacrata..................................................................................... 273 5.2. OBBEDIENZA ................................................................ 274 5.2.1 L’OBBEDIENZA SALESIANA .......................................... 274 5.3. P OVERTÀ ....................................................................... 279 5.3.1 La povertà salesiana ............................................. 279 5.4. CASTITÀ ........................................................................ 286 5.4.1 La castità salesiana ............................................... 286 6.1 D. B. – B IOGRAFIA E RITRATTO SPIRITUALE .................. 295 6.2. LA S PIRITUALITÀ G IOVANILE S ALESIANA .................... 295 6.2.1 Le origini ............................................................... 295 341 11. EMOZIONI E LORO LETTURA.................................149 Il Prenoviziato 12. VINCOLI E RICONOSCENZA NELLE RELAZIONI FAMILIARI .................................................................... 152 12.1 SVINCOLO E ONNIPOTENZA ......................................... 155 12.2 D EL NON LASCIARE ANDARE ........................................ 162 12.3 IN SINTESI, DISTACCO E FAMIGLIA D’ORIGINE .............. 170 13. CAPACITÀ RELAZIONALE: VITA FRATERNA ED APOSTOLICA ................................................................ 171 13. CAPACITÀ RELAZIONALE: VITA FRATERNA ED APOSTOLICA ................................................................ 172 13.1 P ROTAGONISMO NELLA RELAZIONE – PRIMO PASSO .....172 13.2 G ESTIONE DEL CONFLITTO .......................................... 172 13.3 LEGAMI DI SIMPATIA (IN COMUNITÀ E COI RAGAZZI) .... 179 13.4 LAVORARE INSIEME ...................................................... 179 13.5. LE RELAZIONI CASO , INCONTRO E AFFETTO ................ 180 13.5.1 “Sistemi di congelamento” la “psicologia basata sui luoghi comuni”........................................................................ 180 13.5.2 Dire grazie - Superare le stagnazioni relazionali 182 13.5.3 La comunità campo base – le figure in comunità.184 13.5.4 Il corpo del profeta - La comun icazione non verbale .......................................................................................... 185 13.5.5 La fraternità......................................................... 187 14. SENSO DI RESPONSABILITÀ.................................... 189 14.1 D OVERE QUOTIDIANO.................................................. 189 14.1.1 Il lavoro................................................................ 189 14.2 F EDELTÀ E PROTAGONISMO NEGLI INCARICHI COMUNITARI ...................................................................................... 192 14.2.1 La fedeltà .............................................................192 14.3 SENSO DEL CONCRETO , ................................................ 197 14.4 ORDINE ........................................................................ 197 P ER IL CAMMINO DI INTERIORIZZAZIONE ............................ 210 Compiti del PreN 1.Il PreN è un tempo per approfondire la già avvenuta opzione vocazionale alla vita salesiana. Ciò significa: porsi in una dinamica di verità nel farsi conosce, nella totalità di ciò che ho vissuto e ciò che vivo: come desideri, atteggiamenti, scelte. Introducendo e presentando la famiglia d’origine Manifestando con sempre maggior chiarezza le motivazioni e i sentimenti che spingono a scegliere la vita salesiana 2. Il PreN è un tempo di formazione soprattutto umana, compito non facile oggi, data la fragilità psicologica che investe l’intera società. Ciò vuol dire: conoscenza e gestione del proprio mondo interiore formandosi ad una serena e matura affettività attraverso un uso responsabile della libertà con una crescente capacità di prendere decisioni 3. Il PreN è anche tempo di formazione cristiana, il che vuol dire: un buon radicamento della fede un’iniziazione alla preghiera, alla liturgia, alla devozione mariana… Il PreN richiede... - 16. FATICA, SACRIFICIO E ASCESI ..............................211 16.1 ASCESI ......................................................................... 211 Per il cammino di interiorizzazione ................................ 218 17. COMUN-I CARE: “MI INTERESSO”......................... 219 340 5 che coloro che iniziano questo cammino abbiano già fatto un discernimento riguardo alla loro vocazione salesiana. un’esperienza comunitaria l’assunzione del percorso formativo e il tempo per eseguirlo Linee per un cammino di formativo 6.2 MI HAI FATTO COME UN PRODIGIO SAL 139 (138)............. 85 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 94 APPENDICE: LA TRAPPOLA… ................................................ 95 7.1. STORIA, MEMORIA E RILETTURA: TRACCIA ....................... 99 7.2. L’AUTOBIOGRAFIA......................................................... 102 7.2.1 Conoscenza della persona ..................................... 102 7.2.2 Momento giusto per l’autobiografia ...................... 103 7.2.3 Istruzioni per l’autobiografia ................................ 103 7.2.4 Lettura dell’autobiografia ..................................... 103 7.2.5 Dialogo sull’autobiografia .................................... 103 RFS 331. Il pre-noviziato viene impostato in modo tale che il candidato raggiunga i seguenti obiettivi specifici: – maturare come uomo e come cristiano; – conoscere la propria vocazione e approfondire l’opzione vocazionale mediante l’accompagnamento dei formatori; – fare esperienza comunitaria e riflettere seriamente sulla vita salesiana; – verificare l’idoneità necessaria ad iniziare il noviziato; – decidere in modo cosciente e libero da pressioni esterne e interne; – assumere un chiaro atteggiamento formativo. 8. L’IMMAGINE DI SÉ ....................................................... 105 8.1 LE IMMAGINI DI SÈ ......................................................... 105 8.1.1 Immagine sana e adeguata .................................... 105 8.1.2 Immagine negative ................................................. 106 8.1.3 Immagine montata ................................................. 107 8.1.4 Immagine ipervalorizzata ...................................... 107 Per il cammino di interiorizzazione ................................ 109 8.1.5 Alcune condizioni per un’immagine reale ............. 110 La Comunità proposta può divenire luogo per un ulteriore passaggio vocazionale espresso nella tappa del PreN . Fatto il discernimento basilare e ritrovati i requisiti fondamentali: di un primato di Dio, espresso in un cammino di preghiera e di vita sacramentale al di là degli istituzionali momenti comunitari di una umiltà che si traduce in disponibilità costante al servizio di coloro che hanno bisogno, soprattutto nei tempi “liberi” dove più emerge l'esercizio maturo della libertà L’animatore vocazionale, in accordo con i confratelli con cui ha più confronto formativo, può proporre il passaggio al PreN, facendo emergere dal giovane il desiderio di percorrere questa nuova tappa formativa che inizia con una domanda formale da presentare all’Ispettore. Questo tempo non ha espressioni diverse rispetto alla CP, se non nella coscienza di vivere quanto chiesto nella logica di un confronto più stretto con la vita salesiana, espresso nella specificazione dell’itinerario formativo settimanale. Al termine dell'anno scolastico intorno alla festa di Maria Ausiliatrice normalmente viene formulata la domanda per l’ammissione al noviziato. La metodologia formativa è incentrata sul "vieni e vedi" e quindi dallo "stare con". Una dinamica di crescita non per itinerari teorici, ma per convivenza, che ha nel formatore il punto di riferimento. Esso è chiamato ad una attenzione a lungo raggio sulla crescita umana, cristiana e di vita religiosa. Ogni intervento dovrebbe toccare i tre ambiti che sono intrecciati e correlati in forma strettissima. Alcune linee di lavoro insieme fanno emergere difficoltà, indelicatezze, ombrosità che nel dialogo personale poi dovrebbe essere chiarite. Il confronto e lo sguardo della comunità 6 9. L’ACCETTAZIONE DI SÉ............................................. 112 9.1 Accettazione.............................................................. 113 Per il cammino di interiorizzazione ................................ 120 APPENDICE - LA RICONOSCENZA......................................... 121 P ER IL CAMMINO DI INTERIORIZZAZIONE............................ 127 10.1 CORPOREITÀ E VOCAZIONE .......................................... 131 10.1.1 Il corpo................................................................. 131 10.1.2 La prospettiva biblica .......................................... 133 10.1.3 Il corpo nel cristianesimo .................................... 134 10.1.3 Il corpo in relazione............................................. 135 10.2 IDENTITÀ E DIFFERENZA SESSUALE .............................. 138 10.2.1 Il mistero della comunione inscritto nella dimensione biologica della sessualità umana ............................... 138 10.2.2 Attrazione amicizia e amore: maturazione affettiva ed impegno spirituale.................................................................... 139 10.2.3 Elementi di riflessione su alcune problematiche connesse all'identità e al comportamento sessuale....................... 141 10.2.4 Sessualità e senso del peccato: la gioia di riconoscersi bisognosi d'amore per amore alla verità.................. 145 10.2.5 La castità dono di Dio: valore pedagogico e spirituale di sè............................................................................... 146 339 Indice C OMPITI DEL PRE N ................................................................. 5 I L P REN RICHIEDE ... ............................................................... 5 0.1. CONCETTO DI FORMAZIONE.............................................. 8 Per il cammino di interiorizzazione .................................... 9 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 11 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 13 0.2. ACCOMPAGNAMENTO...................................................... 14 0.3. D ISCERNIMENTO .............................................................15 1. CONOSCERSI E FARSI CONOSCERE ......................... 18 1. CONOSCERSI E FARSI CONOSCERE ......................... 19 1.1. CONOSCERSI .................................................................... 19 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 25 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 26 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 28 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 42 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 44 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 45 2.2 IL SILENZIO ...................................................................... 47 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 53 3.1 LE MOTIVAZIONI ..............................................................54 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 60 3.2 I DESIDERI .......................................................................61 3.1.1 L’uomo e Dio desiderano ......................................... 61 3.1.2 Definizione di desiderio ........................................... 62 3.1.3 Oggi crisi di desiderio.............................................. 63 3.1.4 Educazione – formazione ai desideri ....................... 64 Per il cammino di interiorizzazione .................................. 67 4. MATURITÀ PSICOLOGICA E SANTITÀ CRISTIANA .............................................................................................68 4.1. CRITERI DI MATURITÀ ...................................................... 68 4.2 AUTOCONTROLLO ............................................................ 69 4.3 AUTONOMIA .................................................................... 70 4.4 ALTRUISMO .....................................................................70 4.5 AUTENTICITÀ...................................................................70 4.5.1 Veradicità.................................................................71 6.1 LA PARABOLA DEI TALENTI: MATTEO 25,14-30................. 81 338 7 salesiana sono un grande contributo per la chiarificazione di dubbi e incertezze del formatore. É difficile delineare una metodologia comune di accompagnamento visto che sempre di più emergono personalità molto differenti. Ogni occasione può essere opportuna per dare linee di percorso. Il vivere insieme permette di aiutare il giovane a dare un giudizio sull'esperienza che sta vivendo, sulle sue modalità di affrontarla, sulle reazione che emergono di fronte agli eventi ecc… La prima forma di accompagnamento è lo sguardo attento sulla persona, unita alla metodologia della parolina all'orecchio, o meglio alla parola breve ma sul quotidiano. C'è diffidenza nei confronti di colloqui regolari e prolungati. Essi possono esserci nella misura in cui emergono particolari difficoltà che devono essere chiarite. Un'ulteriore opportunità è fornita dopo gli incontri mensili del GRiGiò o dopo le serate formative in CP. Lì la risonanza fra progetto carismatico e vita personale hanno un interessante confronto, ma anche un luogo rischioso di verifica se non associate ad una coerenza che si dimostra nel quotidiano in una disponibilità costante, in una docilità concreta, in una crescente gioia che coinvolga tutti gli ambiti. I prenovizi partecipano per quanto è loro possibile alla vita della comunità salesiana pur rispettando i tempi dei loro impegni di studio o di lavoro. Il contatto con le famiglie avviene a partire da quando un giovane entra in comunità proposta e maggiormente s'intensifica con l'inizio del PreN. Le relazioni sono di accoglienza in comunità e di visita dell'incaricato della comunità dentro le famiglie. L'unico incontro ufficiale avviene una volta all'anno nella festa delle famiglie dei salesiani a cui si invitano pure le famiglie dei prenovizi e dei giovani che risiedono in CP. Ma come si può ben intuire, se il cammino formativo è personalizzato per ciascun giovane lo è maggiormente per le loro famiglie. 0. Introduzione 0.1. Concetto di formazione A. Cos’è la formazione? Scuola - libri - letture – esami - ricerca… = NFORMAZIONE Quando si richiede un cambio nell’essere: “più attento agli altri, più pronto a perdonare, più innamorato di Cristo, più disponibile alla Chiesa…Più paziente. Più generoso…Più ..... Dentro” allora si parla di = TRASFORMAZIONE B. Di che tipo di trasformazione si sta parlando? Non semplicemente a livello esterno: comportamenti, costumi, rapporti... Ma a livello profondo della persona: affetti, motivazioni, convinzioni, timori, desideri... L’Educazione non è questione di corazza. “Educazione è cosa di cuore” = parte da un cuore, da una profondità di vita = per trasformare un altro cuore «Le chiamate divine a vita più perfetta certamente sono grazie speciali e molto grandi, che Dio non fa a tutti» «Le vocazioni si conservano solo con la preghiera. Chi lascia la preghiera, certamente lascerà la vocazione. Ci vuole preghiera e molta preghiera» «La base delle vocazioni è la frequenza ai Santi Sacramenti» «Il più gran dono che Dio possa fare ad una famiglia, è quello di una vocazione al sacerdozio. Quando un figlio abbandona i genitori per obbedire alla vocazione, Gesù Cristo prende il suo posto nella famiglia» (D ON BOSCO ) 2. Presentazione sintetica del noviziato e linee per la preparazione immediata Cfr FSDB 357-372 Inizio ufficiale dell’esperienza salesiana: Scoprire la vocazione divina Sperimentare concretamente uno stile di vita Verificare la netta intenzione Verificare l’idoneità 4 dimensioni del cammino conoscenza e accettazione di se crescente ottimismo e disponibilità gestione del tempo configurazione a Cristo - l’educatore - il ragazzo Se è così - il principio fondamentale della formazione è: solo la persona può formare se stessa! La formazione è sempre disponibilità formativa. La formazione “è sempre un’autoformazione”. “Infatti nessuno può sostituire la persona nella sua libertà e responsabilità!” (PDV 69). È un passare dal rapporto docenti\discenti fondato sul dovete… (assistere i ragazzi, essere fedeli alle pratiche di pietà, preparare bene la scuola, essere puntuali...) a quello formativo dove c’è un coinvolgimento del profondo che tocca sentimenti, timore, progetti, traguardi, ecc… in una condivisione che è passaggio “di vita”. 8 337 Per il cammino di interiorizzazione 1. Prototipo di domanda al noviziato Parola di Dio scelta città, 24 maggio anno Solennità di Maria Ausiliatrice Il nostro approccio alla formazione è quello di ricevere\ accumulare istruzioni o è quello d’essere protagonisti della formazione, e cioè imparare a determinare da sé i traguardi fissando tragitti e poi verificare i progressi? A…………, direttore della Comunità Salesiana di …………. Carissimo Signor Direttore, dopo alcuni anni di accostamento al carisma salesiano attraverso […. esperienze varie …]. Soprattutto in questo ultimo periodo ho potuto ancora di più sperimentare lo stile salesiano mediante [l’esperienza della vita comunitaria … condivisione del lavoro apostolico … comunità proposta … gruppo ricerca …]. È importante qui porre gli elementi sopra indicati dal punto 2 al punto 6. Per questo io, [nome e cognome], in piena libertà, dopo aver avuto il parere positivo del mio confessore e della mia guida spirituale, domando di poter iniziare il noviziato salesiano per dedicare la mia vita a Dio e ai giovani attraverso la consacrazione religiosa nella congregazione salesiana. La motivazione fondamentale che mi spinge a tale scelta è innanzitutto il Signore che mi chiama a donare la vita per il Regno dei Cieli. L’ideale di essere «segno e portatore dell’amore di Dio ai giovani», specialmente ai più poveri, ha trovato una lieta accoglienza nel mio cuore. In questi anni di discernimento tale ideale è potuto diventare realtà. Di questo ringrazio Dio, da cui mi sento personalmente chiamato a seguirlo sempre più da vicino. Non mancano certamente anche alcune difficoltà: […la mia superbia personale che a volte mi porta ad essere autosufficiente, a non voler dipendere da nessuno; il mio legame ancora troppo stretto con il “mondo” e le sue finalità; la mia poca fiducia e speranza nella potenza di Dio e dei suoi mezzi che non mi permette di abbandonarmi con serenità alla sua volontà...] Il sentimento che però più prevale in me in questo momento resta la fede in Dio, unico punto di riferimento sul quale, ne sono certo, la casa della mia vita resta costruita sulla roccia. Maria, Madre e Maestra della mia vocazione, e don Bosco, padre, maestro e amico dei giovani mi guidino e mi proteggano sempre. Con stima e riconoscenza (Firma) 336 9 Il lavoro nel profondo della persona avviene quando la persona: - entra in se stessa - e confronta i suoi sentimenti, le sue motivazioni con... E’ il viaggio più difficile soprattutto in una cultura come quella odierna che lo impedisce. Eppure la ricchezza della persona sta proprio a questo livello C. Come si fa questo lavoro nel profondo della persona? Preghiera Riflessione Condivisione Confessione Direzione spirituale Colloquio Progetto personale Diario... Tutti questi mezzi portano la persona dentro di sé D. Qual è il traguardo di tutto questo lavoro di trasformazione? Assomigliare sempre di più a Gesù Cristo, profondamente uomo (massimamente maturo) vero Dio! (… molti educatori cristiani credono che assomigliare a Cristo sia solo un atto religioso dimenticando che la conformazione a Lui è il massimo dei cammini di umanizzazione) Configurarsi sempre di più a Gesù Cristo! Alcuni criteri per la compilazione 1. 2. 3. Una Parola sintesi di una chiamata che prima di ogni cosa. Una comunità. Va indirizzata al direttore della comunità Una persona singolare. Nome e cognome del richiedente e luogo/data di presentazione 4. Una storia in relazione. Breve cenno al cammino svolto (soprattutto gli ultimi anni: scuola, oratorio, gruppo ricerca, esperienze di vita salesiana…) e al discernimento operato 5. Una percezione fondata. È la motivazione fondamentale per chiedere di entrare in Noviziato: «mi sembra di essere chiamato dal Signore alla vita salesiana» 6. Un’intenzione precisa. L’oggetto della domanda deve essere espresso in forma chiara: «chiedo di essere ammesso al noviziato salesiano» 7. La retta intenzione. La libertà nel porre quest’atto: negativamente, l’assenza di costrizioni; positivamente: la disponibilità a mettere nelle mani del Signore la propria esistenza per l’annuncio e la crescita del Regno di Dio secondo lo stile di don Bosco 8. Un cammino condiviso. Cenno del parere positivo del proprio confessore, del direttore spirituale e di coloro che mi hanno seguito nel cammino 9. Una fiducia tenace. Affidamento al Signore, a don Bosco, a Maria Ausiliatrice del proprio cammino futuro. 10. Un coinvolgimento personale e totalizzante nel segno della sua scrittura a mano. La nostra identità comprende 3 elementi, e ciascuno di loro porta a Gesù Cristo: consacrato (= far propria la forma di vita praticata da Gesù e proposta ai discepoli) presbitero/coadiutore (= essere segno di Cristo pastore/figlio obbediente del Padre) salesiano (= imitare i tratti di Cristo a cui Don Bosco era molto sensibile: Cost 11) 10 335 Verso il Noviziato Per il cammino di interiorizzazione 334 Siamo vivamente consapevoli che il traguardo fondamentale della formazione (= della vita) non è: “farsi salesiano”, né “diventare prete”… ma il configurarsi sempre di più a Gesù Cristo? 11 E. Dove entra Dio in quest’opera di trasformazione? Dio ha la chiave del cuore umano; dunque, solo Dio può toccare l’uomo nel suo profondo. Dio è colui che forma - invisibilmente, attraverso il suo Spirito che abita nei nostri cuori e ci guida, ispira…. - visibilmente, attraverso le mediazioni umane (la Chiesa, la Congregazione, la comunità e le persone significative che ci sono posto accanto con responsabilità precise o per dono gratuito in questo cammino. Per questo in quanto chiamato ad essere educatori è maggiormente valido il principio che: “si dona solo ciò che si è formato nel proprio cuore… ciò che si VIVE, non ciò che si è imparato…” 12 - nel rispetto della sua autonomia nella sua profondità di spirito BOSCO G., Il Sistema preventivo ed altri scritti, Centro Salesiano S. Domenico Savio Editore, Arese, 1999. DELLA TORRE F., Lettera a Thomas Hall, Centro Salesiano S. Domenico Savio Editore, Arese, 1999. 333 F. L’amorevolezza è affetto CASTO e PURO : spogliato di ogni forma captativa, di attaccamento particolare, attaccamento morboso, dipendente. Castità è essenzialmente lo sbilanciamento radicali dell’IO su TU “Chi si lascia rubare il cuore da una creatura e che per far la corte a questa, trascuri tutti gli altri giovanetti” G. Amorevolezza è affetto che si offre come modello di comportamento. Il “modello” è essenzialmente una persona vicina e amante. Questa identificazione risulta un processo in diminuzione con il crescere dalla maturità sino ad un pacifico e graduale distacco. 4 sono le fasi della crescita: la dipendenza assoluta: accettazione di lasciarsi guidare assolutamente anche quando potrebbe già librarsi da sé, o a causa dell’educatore che continua ad esercitare il suo potere, o perché l’interessato non osa distaccarsi per timore di far soffrire, o perché entrambi vivono un rapporto di dipendenza. la dipendenza da apprendimento (nella linea del fare, del sapere, del saper-essere): qui risulta ancora una volta centrale il lavoro dell’educatore che deve via via fornire non tanto il contenuto ma il metodo di lavoro per potersi continuamente sviluppare da sé. la contrapposizione: è il momento in cui si deve giungere allo spostamento del baricentro verso l’interessato perché le scelte vengano da Lui e non da latri. In qyuesta fase vi può essere: la presa di distanza senza urti oppure con rotture più o meno evidenti l’autonomia: momento vertice di maturità nel quale il giovane vive un rapporto equilibrato di vicinanza e libertà, assumendo e valutando, ricevendo ma scegliendo da sé, Per il cammino di interiorizzazione Essendo i primi responsabili della propria formazione: Ci siamo messi all’ascolto dello Spirito? Quali sono i segni di questa disponibilità? Manteniamo un dialogo ed una interazione costante con le mediazioni? Quali sentimenti, atteggiamenti, scelte ho messo in atto nei loro confronti? 3.4.2 La maturità effettiva dell’educatore, condizione essenziale per accompagnare. La relazione educativo è un rapporto molto esplicito ma altrettanto “subdolo”, giocato sul detto, sul fatto, ma anche sul non detto e sul non fatto, sulle comunicazione esplicite ma pure su quelle inconsce. Per questo è essenziale primariamente la MATURITÀ DELL’EDUCATORE, espressa nella sua: - capacità di donazione - attenzione all’altro - comunicazione profonda 332 13 0.2. Accompagnamento L’obiettivo della personalizzazione è che la persona cresca e impari a crescere nella propria identità personale fino a diventare una persona matura in Gesù Cristo. Il modo più efficace di effettuare questa personalizzazione è l’ACCOMPAGNAMENTO perché introduce la persona alla conoscenza di sé, alla percezione della realtà e dei valori per sé stessa, aiutandola ad accettarsi e a possedersi, in un graduale distanziarsi da sé in ciò che la allontana da Dio e dai valori vocazionali per un orientamento costante alla volontà del Signore nelle circostanze concrete vedendo la vita in questa prospettiva, organizzando progressivamente l’esistenza secondo il progetto vocazionale. L’accompagnamento è necessario, data la fragilità culturale odierna per una mancata o carente formazione dell’identità personale Abbiamo bisogno di essere educati a: la conoscenza di sé la gestione del proprio mondo interiore la capacità di scegliere e fare decisioni ad amore la vita come dono e compito la scoperta della propria vocazione Le due forme dell’accompagnamento Accompagnamento comunitario: Tutto ciò che contribuisce alla crescita dei singoli membri e di tutta la comunità: l’ambiente, il clima, i rapporti interpersonali, l’orientamento da parte dei responsabili…. Accompagnamento personale: Tutto ciò che aiuta ognuno ad assumere e interiorizzare la sua identità vocazionale: il colloquio, la direzione spirituale, la confessione, gli “scrutini”…. L’ACCOMPAGNAMENTO mira ad aiutare il candidato a crescere nella statura di Gesù Cristo. In questo cammino, egli ha bisogno di scoprire la propria vocazione, mediante una più chiara comprensione di se stesso e del disegno di Dio. Questo compito si chiama DISCERNIMENTO. 14 mortificazione…” D. L’amorevolezza è affetto CONCRETO e SOVRANNATURALE: amore che non si ferma di fronte a nulla, non si accontenta di parole ma si compromette, passa ai fatti…cercando la loro “salvezza” che è felicità totale e totalizzante. “… La mia affezione è fondata sul desiderio che ho di salvare le vostre anime, che furono tutte redente dal sangue prezioso di Gesù Cristo, e voi mi amate perché cerco di condurvi per la strada della salvezza eterna” E. L’amorevolezza è affetto INCONDIZIONATO: nonostante le mancanze che può aver compiuto o compiere. Questo crea la persona perché aumenta il sentimento d’essere degno d’essere amato e rispettato come realtà unica e irripetibile con un valore insuperabile. - Se la persona ha un’immagine negativa di sé risulta incerto, indeciso, lacunoso e carente. Se ha un’immagine “aeureolata” fondata sull’ambizione e sulla negazione dell’errore e delle proprie povertà risulterà in cammino verso l’isolamento. Mentre il cammino del realismo nasce da un contesto di fiducia, riconoscente della propria dignità e del proprio limite che non riduce il suo sentirsi capace, importante, caro pur in crescita. Tale immagine è frutto di autodelimitazione o di una “valutazione” esterna. Per questo si comprende il valore dell’incondizionato amore. - tale amore senza condizioni crea persone felici, mentre le condizioni (norme soffocanti) creano sin dai primordi persone interiormente bloccate. Questo non significa l’assenza di normatività e di tracciati di percorso ben definiti, tutt’altro. Questo implica invece che l’educatore faccia operazioni di “ MAIEUTICA” e non di “investitura”. Operazione che richiede una grande libertà , capace di far sprigionare dall’interno, le energie di vita. - Anche l’intervento duro e perentorio è necessario ma non deve mai bruciare il rispetto della persona, deve tener conto della visione e della capacità di valutazione della situazione da parte dell’educando, deve saper tener aperta la porta del dialogo “ Regolatevi in modo da lasciar la speranza al colpevole che possa essere perdonato” 331 - lasciando sempre la speranza di perdono e togliendo ogni possibile idea di “vendetta” di “passione” 3.4.1 Caratteri dell’amorevolezza salesiana A. L’amorevolezza è FAMIGLIARE: significa “stare con”, porsi al loro livello, partire dalle cose che piacciono a loro, dar loro confidenza. “Io vedevo parecchi buoni preti, che lavoravano nel sacro ministero, ma non poteva con loro contrarre alcuna familiarità… Più volte piangendo diceva tra me e anche con altri: - Se io fossi prete, vorrei fare diversamente; vorrei avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dir loro buone parole…” “ Vidi che ben pochi preti e chierici si mescolavano tra i giovani e ancor più pochi prendevano parte ai loro divertimenti… Negli antichi tempi dell’oratorio lei non stava sempre in mezzo ai giovani e specialmente in tempo di ricreazione?… Ora i superiori sono considerati come superiori e non più come padri, fratelli e amici; quindi sono temuti e poco amati.” B. L’amorevolezza è CORDIALITÀ o PROFONDITÀ D’ AFFETTO “Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate giovani perché io vi ami assai; vi posso accertare che troverete libri propostivi da persone di gran lunga più virtuose e più dotte di me, ma difficilmente potrete trovare chi più di me vi ami in Gesù Cristo e che più desideri la vostra felicità” “Sono pochi giorni che vivo separato da voi, o figlioli, e mi sembra siano già trascorsi più mesi. Voi siete veramente la mia delizia e la mia consolazione, e mi mancano l’una e l’altra di queste due cose quando sono da voi lontano” C. L’amorevolezza è affetto DIMOSTRATO ed ESPRESSO: “parlare con il loro linguaggio, con termini a loro chiari” “… Ci manca il meglio… che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati… Che essendo amati in quelle cose che loro piacciono, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a vedere l’amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco; quali sono la disciplina, lo studio, la 330 0.3. Discernimento1 Chi fa il discernimento? Ciascuno è il primo protagonista. Si lascia guidare, si mette in discussione e in atteggiamento di apertura allo Spirito e alle diverse mediazioni formative. La Congregazione da parte sua cerca di conoscere e di vagliare l’autenticità della chiamata di chi chiede un’appartenenza profonda ad esso. - Dio Salvezza. Alcuni elementi di sintesi Travaglio giovane: insieme di energie interiori numerosi e svariati messaggi\ proposte contestuali orizzonti attuali fede in Cristo: sorgente di senso, speranza sul futuro, dono divino dinamica trasformatrice del quotidiano forza della libertà individuale (norma non interiorizzata, ignorata o relativizzata) coscienza orientamento oggi debole conseguenti atteggiamenti ambigui "di moda" rischio di sovrapposizione di criteri e riferimenti piuttosto che elaborazione di un codice unitario di vita Coscienza: luogo dell'incontro personale\profondo fra uomo e Coscienza +\- distorta visione di Dio, Parola, Mentalità di fede: orientamento nel quotidiano al Vangelo Passi da compiere: discernimento: riconoscere Dio ed il suo agire, il bene dal male, il peccato e le sue strutture. Per giungere ad esercitare autonomia e responsabilità. Cfr il percorso del GriGio, I livello: “Il discernimento”, pp. 48-61. CG XXIII, nn. 181- 191. CENCINI A., I sentimenti del Figlio. Il cammino formativo nella vita consacrata = Psicologia e formazione 19, EDB, Bologna 1998, pp. 169-177. ARLEDLER G., Il discernimento spirituale. Teoria e orientamenti = Animatori di pastorale giovanile e vocazionale 16, EP, Milano, pp. 10-31. RUPNIK M. Il discernimento. Prima parte: verso il gusto di Dio = Betel 11, Lipa, Roma 2001, pp. 25-34. 15 1 Il confronto con il vangelo. Formazione critica nei cfr dei modelli culturali sino a piccoli gesti di obbiezione sulla base dell’unica Parola Educarsi al senso del mistero luogo dove Dio opera ma pure dove l’iniquità trova dimora. Debolezza intrinseca e progressivamente radicata chiede d’essere illuminata e sorretta costantemente dalla grazia. La norma allora apre a questo confronto illuminante e sorreggente, questo cammino non facile. Il discernimento. Il profondo non è immediato. Attenzione costante a Dio, certezza esperienziale che Dio parla, si comunica, e che la mia attenzione a Lui è la conversione radicale. È vivere una relazione aperta, coscienti che ciò che conta è fissare lo sguardo su Lui e che non posso chiudere il percorso senza la certezza che lui si esprima mi cambi. Preghiera e ascesi costante, rinunciando al proprio volere. Pensiero, azione come se non dipendesse totalmente da me. È necessaria una radicale umiltà. - Dio parla attraverso i sentimenti ed i pensieri dell’uomo stesso. - Ma vi sono alcuni pensieri attraverso i quali Dio non parla\deviano\illudere\confonderci, provenienti da noi, dal mondo dal diavolo. - Non basta verificare che questi siano buoni, ma che siano per me buoni, per la mia vita. Perché lo spirito è personalizzatore della salvezza. I sentimenti differentemente dai pensieri rivelano più facilmente la concretezza della persona, la sua memoria. Lo Spirito Santo ha la sua voce più eloquente nell’amore, luogo della verità dell’uomo stesso. Ciò che è mosso dallo spirito allora porta a pienezza. Mt 15,19 Mc, 13,33 Discernimento a 4 livelli: o distinguere dentro di me o il distinguere della Parola o il distinguere delle motivazioni La coscienza socializzata = fare le cose per il giudizio degli altri il razionalismo = il dovere per il dovere o il perfezionismo l'esigenza del cuore = coscienza profonda o Il distinguere in relazione: la direzione spirituale Gv 8,32 ss 16 L’educatore è un individuo consacrato al bene dei suoi allievi, perciò deve essere pronto ad offrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è civile, morale, scientifica educazione dei suoi allievi (dal Sistema Preventivo) Lasciare ai giovani ampia libertà di parlare di cose che loro maggiormente aggradano. Il punto sta di scoprire in essi i germi delle loro buone disposizioni e procurare di svilupparli. E poiché ognuno fa con piacere soltanto quello che sa di poter fare, io mi regolo con questo principio ed i miei allievi lavorano tutti non solo con attività, ma con amore.112 4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, ù tutto spera, tutto sopporta. 13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! (1Cor 13) L’amorevolezza suscita allora: grande DISPONIBILITÀ nel dono affettuoso e gratuito di sé ai giovani, un amore sacrificato e manifesto Che crea FAMIGLIARITÀ (opposta a formalismo, collegialismo, ufficialità, burocrazia e diplomazia e cosmesi nella relazione: “chissà cosa dirà la gente”) in un grande clima di RISPETTO (coscienti della loro creaturalità, personalità ed unicità) e questo anche quando si deve intervenire con i castighi quali: - ultima risorsa - che debbono essere fatti nel momento opportuno 112 MB 329 17,85-86 Avete ragione! Avete ragione! O religione o bastone; voglio raccontarlo a Londra 111 3.4 L’ «Amorevolezza» cuore del metodo educativo L’educazione è cosa di cuore (MB 16,439-447) Asse centrale perché tocca l’elemento più profondo della personalità dell’uomo: quello affettivo e luogo della maturazione armonica. Tenerezza, dolcezza, amabilità luoghi ed espressioni dell’equilibrio di una persona espressi nel rapporto interpersonale in sintonia con le esigenze del proprio essere profondo e del contemporaneo rispetto dell’altro. La maturità affettiva si realizza solo: - a partire dalla coscienza della propria ricchezza interiore autoscoperta o rivelata da altri, - e dalla vittoria delle forze di tenerezza – amore su quelle dell’istintività e del possesso - attraverso la via del sentirsi amati - al momento opportuno (per non protrarre relazioni di dipendenza o di elemosina d’affetto) Questa maturità si realizza attraverso un’evoluzione che non ha conosciuto esperienze gravi di sbarramento (non amore; traumi, abbandoni, divisioni…) o un cammino di guarigione sviluppantesi attraverso l’eliminazione delle tossine negative attrverso un’AMICIZIA autenticamente profonda, liberante le energie d’amore. Questo cammino racchiude in se una dose di pericolosità che richiede una maturità culturale, affettivo e spirituale dell’educatore non indifferente. Amicizia che non si deve mai chiudere ma resta disponibili ad ogni persona da amare Gesù si rivolge a coloro che hanno creduto e che vogliono rimanere fedeli alla sua parola. Mai sentirsi a posto, bisogna sempre ricercare la Verità, la conoscenza della Verità, per essere poi liberi L’unica schiavitù della libertà cristiana è il dono, il rapporto di coppia non basato sul possesso, ma sul dono Meno ho, più mi sento libero. 4 tipi di libertà: - libertà dalle cose - libertà dal tempo - libertà dalle idee - libertà degli affetti Più sei vero, più sei libero, più doni L’educazione è il risvegliare nelle coscienze la verità che è dentro le coscienze, in modo che esse diventino capaci di ragionare da sé, di giudicare da sé, di farsi libere in un mondo in cui la libertà è un rischio, una conquista e mai un dato di fatto o un dono radicale.2 - Nessuna ingenuità sul fatto che se non si scopre la verità di sé non si sarà mai liberi - dobbiamo accettare di non sapere e di non conoscerci a fondo - dobbiamo fare la fatica ed entrare nella scoperta del nostro io attuale - identificando ciò che è nostro malgrado ci impedisce di fare una offerta libera - per evitare che il cammino sia inconsistente - il cammino formativo = sapere dove lavorarsi Ho bisogno che ci mettiamo d’accordo – dice don Bosco ai suoi ragazzi in una buona notte – fra me e voi devono regnare vera amicizia e confidenza (MB 7,504) Dove l’amore è FIDUCIA: ottimismo verso l’altro che è riconosciuto portatore di Dio soprattutto di Dio Dove l’amore è FRANCHEZZA: ricerca della verità che può a volte anche ferire ma per irrobustire. Severità, decisione e franchezza nella carità sono vie non escluse dall’amorevolezza. 111 (MB 328 7,557) 2 17 BALDUCCI E., L’insegnamento di don Milani, Roma 1995, p. 100. per la santità loro. Lui instancabile strumento di salvezza perché Lui per primo si sentiva un salvato. La santità proposta come ideale educativo, affascinante e realizzabile Meta accessibile a tutti Nella vita ordinaria di ogni giorno Allegria, studio, purezza, obbedienza, amore di Dio e del prossimo (Cfr … con Domenico Savio) Attraverso l’esercizio delle virtù: della fede amorosa e della carità operosa, senza comprimere l’umano ma innalzandolo nella professionalità del proprio stato, in un clima di sobrietà religiosa. - Incoraggiare, - porgere comodità di frequenza , - rilevando la bellezza, la grandezza, la santità del cammino religioso, - senza mai obbligare - ma agendo in modo che i giovani sia spontaneamente invogliati ai sacramenti - accostandosi con piacere, volentieri e con frutto Cammino di fede che tocca e coinvolge tutta la vita perché don Bosco stesso ne era completamente coinvolto. Per questo solo un educatore cristiano può con efficacia riprodurre il sistema educativo Due signori inglesi, uno dei quali era ministro della regina Vittoria, …vennero condotti da don Bosco nella sala dove facevano studio circa cinquecento giovanetti. Si meravigliarono non poco vedendo tanta moltitudine di fanciulli in perfetto silenzio, con un solo assistente soèpra la cattedra … Come mai possibile, domandò il Ministro, di ottenre tanto silenzio e tanta disciplina? Ditemelo; e voi, e aggiunse al suo compagno che era il suo segretario, scrivete quanto dità questo sacerdote. «Signori , rispose don Bosco, il mezzo che si usa tra noi non si può usare fra voi» Perché Perché sono arcani solamente svelati ai cattolici Quali? La frequente confessione e comunione e la messa quotidiana ben ascoltata Avete proprio ragione. Noi manchiamo di questi potenti mezzi di educazione, non supplire con altri mezzi? Se non si usano di questi elementi di religione, bisogna ricorrere alle minacce ed al bastone 18 327 Egli comunicò ciò che egli stesso era: con la sua tensione costante, unificatrice, infaticabile, entusiasta e quasi ossessiva: la salvezza dei giovani: “desiderio di vedervi felici nel tempo e nell’eternità” G,. Lombardo, laicista, nel 1920 nella rivista “La Rinascenza Scolastica” affermava: Don Bosco: era un grande, che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della Chiesa … seppe creare un imponente movimento di educazione ridandole il contatto con le masse…Per noi, che siamo fuori dalla Chiesa e di ogni Chiesa, egli è pure un eroe …D. Bosco? Il segreto è lì: un’idea! La nostra scuola: molte idee. Molte idee può averle anche un’imbecille, prete o non prete, maestro o non maestro. Un’idea è difficile. Un’idea vuol dire un’anima… 3.3.1 Da mihi animas coetera tolle Non angelismo, né sovrannaturalismo, egli era un uomo del suo tempo ma sapeva armonizzare bene Pane, lavoro, Paradiso Sanità, Scienza, Santità Dove l’idea generatrice implica l’esclusione del resto , meglio la gerarchizzazione, la strumentalizzazione del resto in favore della salvezza che si opera nella Chiesa, nella famiglia, nella comunione dei credenti, attorno ad un Padre, il papa. Di fronte a masse scristianizzate imponente e preoccupante perché accompagnata da disumanizzazione don Bosco reagì mostrando come la proposta di “un Valore assoluto” proposto dalla religione divenisse il fatto essenziale del suo cammino d’elevazione dell’umano non solo verso mete, ma verso la somma meta. Contro la superficialità dilagante che chiama o meglio identifica in Dio mille surrogati il cammino di don Bosco è un cammino che fa tornare costantemente alla vera profondità dell’Essere, chiedendo le motivazioni di una ricerca. Ecco l’inserimento della pedagogia dei sacramenti, (Sicuro che solo Dio ha in mano le chiavi del cuore) soprattutto Eucaristia e Riconciliazione, luoghi della trasformazione interiore e d’aiuto profondo della preghiera (luogo dell’incontro profondo, il più profondo quello con la Verità, Dio) dell’osservanza religiosa (dell’impegno radicale dove tutto l’uomo è coinvolto) della catechesi (ambito della conoscenza delle proprie domande profondi e delle risposte di Dio) mariana (mostrando la tenerezza, la forza e la sicurezza che solo una madre può dare) 326 1. Conoscersi e farsi conoscere3 Gnosce te ipsum: conosci te stesso. È questo uno dei precetti morali universalmente noti scolpiti nel tempio di Apollo presso Delfi, città situata sulla parte inferiore delle pendici meridionali del Parnaso, a circa 600 metri di altezza sul golfo di Corinto. Sin dall’inizio è determinate partire con il piede giusto e focalizzare il fatto che il segreto di questo cammino consiste nel mai separare le due domande fondamentali: “chi sono io? Chi sei Tu?”. La società odierna insegna che una persona vive nella misura in cui una persona ha una idea di sé. Se però questa idea viene distrutta, nascono le frustrazioni. Ecco perché le due domande sono inscindibili. 1.1. Conoscersi4 Gn ót hi se au tó n, "conosci te stesso". Secondo gli studiosi della storia della filosofia, questa antica iscrizione di un tempio greco non intendeva suggerire a chi la leggeva la necessità della conoscenza psicologica del "sé", del profondo. Indicava piuttosto l'importanza per la persona di riconoscersi come uomo, nella propria pochezza creaturale, non come un dio. In seguito, con il passare del tempo, l'espressione è venuta a indicare un ideale di conoscenza per- sonale, e ci fa comprendere che il conoscersi è un impegno lungo e difficile. Alla luce dell'esperienza, che ho accumulato in tanti anni, della conoscenza che altri hanno avuto o hanno di sé, vorrei proporre, a modo di spunti per la vostra riflessione, sette brevi tesi, al fine di aiutarvi a focalizzare meglio questo ideale che è certamente parte del momento particolare che state vivendo. 1. La conoscenza di sé è imperfetta e parziale Pr im a te si : la conoscenza di sé è sempre imperfetta e parziale. Ne ho avuto ulteriore conferma leggendo qualche tempo fa un quotidiano che si pubblica nella Svizzera italiana. Due pagine del giornale erano dedicate a un'intervista da me rilasciata sulla Lettera pastorale Il lembo de l ma ntello, del 1991. Scriveva l'articolista, a modo di 3 Cfr. GOLEMAN D., Intelligenza emotiva. Che cos’è. Perché può renderci felici, BUR Saggi, Milano 200210 . MARTINI C.M., Tu mi scruti e mi conosci, Ed. Ancora, Milano 19907. MARTINI C.M., Conoscersi, decidersi, giocarsi. Gli incontri dell’ora undicesima, Ed. CVX, Roma 1993. AAVV, Conoscersi in Dio. La fede orizzonte della conoscenza di sé, Glossa, Milano 2007. 4 MARTINI C.M., Conoscersi… oc, pp. 17-24. 19 commento: «Forse è stata una sorpresa anche per lui l'evoluzione avvenuta in padre Carlo Maria Martini, una volta diventato Arcivescovo di Milano e Cardinale della Chiesa. L'esperienza pastorale di una città come Milano e di una Diocesi come quella ambrosiana, ha profondamente segnato quest'uomo schivo, timido, dall'imponenza un po' aristocratica, immerso fino allora nei suoi studi di critica testuale. Il servizio alle Chiese sorelle d'Europa e del mondo gli ha poi dato un'esperienza universale dei grandi problemi del nostro tempo e l'ha trasformato profondamente nell'animo. Lo studio-so rigoroso e riservato ha sentito diventare sempre più impellente il bisogno di parlare». Queste parole mi hanno spinto a chiedermi: mi conoscevo secondo tale descrizione? Probabilmente, anche in età avanzata ci si può accorgere di essere valutati diversamente da come ci si pensava. La conoscenza di sé è dunque parziale, tende a crescere, non è mai finita. Il quadrato dell'auto-coscienza distingue gli aspetti che io conosco di me e quelli che altri conoscono di me; e ancora, distingue ciò che io non conosco di me e ciò che gli altri non conoscono di me. Ci sono colorazioni e sfumature diverse, perché io posso conoscere dei lati della mia personalità che chi mi vive accanto non conosce affatto. Oltre ad essere parziale, la conoscenza di sé è in divenire; se è vero che l'uomo raggiunge l'integrazione tra i valori religiosi e i valori umani tra i trenta-quarant'anni, allora è difficile raggiungere una piena conoscenza di sé prima di quella età; le mie carte non sono scoperte del tutto, c'è ancora qualcosa che deve emergere. E tuttavia è estremamente importante lo sforzo di autoconoscenza quando ci attendono delle decisioni gravi, definitive. 2. Conoscersi richiede la collaborazione di altri Seconda tesi: per conoscermi ho bisogno della collaborazione di chi conosce alcuni aspetti di me che io non conosco. Devo quindi evitare che altri, per svariati motivi, abbiano paura di rivelarmi quello che di me vedono e comprendono. Questa collaborazione richiede fiducia, rapporto di trasparenza, soprattutto se la conoscenza di me è finalizzata a una mèta esterna, non a un'analisi caratteriale. 3. La conoscenza di sé passa attraverso qualche sorpresa Terza tesi: nel cammino verso l'autoconoscenza si incontrano delle sorprese, talora amare, che possono portarci a concludere, per esempio: non credevo di essere così debole, così sensibile, così suscettibile, così incapace di trattenere l'ira. Ricordo una persona che pensava di essere attratta dal servizio ai poveri e che l'aveva svolto per tanto tempo; una volta mi confidò: "Non avrei mai immaginato che si potessero detestare tanto i poveri, non immaginavo di giungere a vivere momenti di profondo rifiuto!". Spesso la sorpresa è costituita dal nostro comportamento durante una prova fisica, una malattia per esempio: eravamo convinti di saper vivere la sofferenza e invece scopriamo che non riusciamo ad accettarla. Anche nel campo degli affetti possiamo sorprenderci: teoricamente conoscevamo il rischio di una certa dipendenza affettiva, ma non pensavamo proprio che un giorno ci saremmo trovati dentro. 20 – la solidità d’essere , che è caratterizzata da: presa di coscienza del proprio essere profondo, del positivo, del meglio si sé, delle ricchezze e qualità, di cui ciascuno è dotato - dalla fiducia data a questa profondità - dall’adesione stabile a questo che diviene libertà creativa - dalla serenità sostanziale anche nei momenti duri Questa prima solidità non è completa se non è accompagnata dalla solidità affettiva e solidità spirituale. - La solidità affettiva si esprime nella: - attenzione sempre più accogliente degli altri - della capacità di comunicare con gli altri in modo profondo - rispettando l’autonomia - esprimendo l’affetto adeguandosi all’ambiente ed alle persone. - la solidità spirituale è proporzionata alla coscientizzazione del bisogno di Dio il che implica: - un primordiale riconoscimento della sete d’Assoluto qualsiasi nome gli si voglia dare - percependo gradualmente questi come un “al di là” che si supera inglobandoci - divenendo docili a tale presenza che fa compiere un cammino di crescita verso un orizzonte che si allarga mentre si procede - Il sistema preventivo si inserisce in questo cammino di maturazione a servizio di tutte e tre le aree tratteggiate, servizio totale e creativo, sintetizzato nel motto “onesti cittadini e buoni cristiani” dove si educa evangelizzando e si evangelizza educando. 3.3 La «Religione» nella prassi di don Bosco Don bosco nella sua unità interiore di uomo pienamente della terra è stato ugualmente uomo di Dio: “profondamente uomo e profondamente santo”. Vivendo in un momento storico oggettivamente difficili non si è fermato alla lagnanza sul suo tempo ma si è lanciato nell’opera di “elevazione” senza sosta. Don bosco ha maturato atteggiamenti di ricerca, d’incontro e di dialogo, capace di comprensione profonda dei giovani Tanto da cogliere SEMPRE il bene esistente in ciascuno di loro al di la della scorza rigida e increspata È in questa profondità che egli si è inserito, rispondendo al loro anelito profondo d’Assoluto con una franca proposta cristiana integrale, proporzionata alla loro età. 325 – – – – Maturi culturalmente in modo dinamico e critico, in fedeltà ai valori della tradizione e dell’apertura alle esigenze della storia; Cresca in libertà e senso di responsabilità specialmente nel momento delle decisioni che richiedono rettitudine e coerenza; Sia in grado di rapportarsi creativamente nei confronti di progetti vocazionali che possono richiedergli un’utilizzazione del suo potenziale umano, affettivo, spirituale, culturale a favore di giovani più poveri e abbandonati; Maturi un progetto di vita che unifichi il suo bisogno di agire, d’amare, di relazionarsi attorno ad alcuni valori prioritari assunti responsabilmente nel contesto sociale, affettivo e religioso in cui vive. 3.2.2 « Rendere ragionevoli anche i castighi » Ne1 sistema preventivo egli riconosce possibile il castigo alle seguenti condizioni: – Non punite mai se non dopo aver esauriti tutti gli altri mezzi; – Procurate di scegliere nelle correzioni il momento favorevole; – Togliete ogni idea che possa far credere che si operi per passione; – Regolatevi in modo da lasciar la speranza a1 colpevole che possa essere perdonato. La pedagogia moderna si allinea con queste posizioni insistendo che quanto più c’è stima e amore, tanto più la semplice disapprovazione, la diminuzione di fiducia, di familiarità e d’amicizia e un castigo temuto e perciò efficace. E molto importante che il castigo sia compreso e accettato dal ragazzo; ciò e possibile quando 1’educatore fa capire che castigando, soffre e gli dispiace. Questo modo di fare non umilia e non deprime. Il castigo e utile mezzo educativo, a certe condizioni, per aiutare una persona a correggersi. Occorre che sia ritardato il più possibile, che sia ragionevole e che si parli al cuore della persona senza collera, senza freddezza e durezza. Soprattutto occorre che l'interessato stesso ne ometta la ragionevolezza. Ragione è maturare personalità libere, responsabili nelle scelte…disponibili al dono di sé, orientate a vivere dentro un progetto di vita nel quale impegnare le proprie doti. Questo porta come conseguenza 324 4. Ci si conosce più per riflesso che per autocontemplazione Quart a tesi: come conosco meglio il mio corpo, in tutte le sue parti, guardandomi in uno specchio che mi riflette, così mi conosco spiritualmente meglio agendo e poi riflettendo su quanto ho fatto, piuttosto che contemplandomi e soppesandomi a fondo. La conoscenza di sé è successiva alla presa di coscienza della tensione conoscitiva, operativa, affettiva, volitiva, decisionale. È il giocarmi, decidendomi e agendo, che mi permette di riflettere poi su di me. 5. Conoscenza e feed-back Quinta tesi: il feed-back, la risonanza che ricevo da altri (può benissimo essere una critica) su ciò che ho detto o su ciò che ho fatto, è uno strumento molto utile per conoscermi. Dobbiamo dunque valorizzare come feed-back anche le critiche, senza accanirci e rifiutarle, anche se sono ingiuste. Il valorizzarle ci aiuta, tra l'altro, a smontare l'irritazione provocata dai giudizi su di noi, che riteniamo sbagliati. L'autoconoscenza infatti ha bisogno, per crescere, di una riflessione serena e oggettiva sulle risonanze negative, e non solo positive, che suscitiamo negli altri; come ha bisogno dell'umile accettazione del-le sorprese amare. 6. Il rischio di uno sviluppo morboso della conoscenza di sé Sesta tesi: chi, come noi, ha una vita intellettuale, rischia lo sviluppo morboso e canceroso della conoscenza di sé, il rischio cioè che si verifichi una sproporzione tra la tensione verso l'essere e la riflessione su ciò che in realtà sono e su come opero. Qualcuno considera caratteristico dei giovani preti questo pericolo di eccesso di soggettività. Probabilmente è vero, perché l'atmosfera nella quale viviamo spinge a porsi istintivamente al centro, a considerarsi con sempre maggiore attenzione. Tuttavia dobbiamo vigilare sul fatto che, se non c'è una proporzione equilibrata tra conoscenza e azione diretta da una parte e autocoscienza dal-l'altra, uno dei due elementi è fatalmente destinato a prevalere. 7. I nostri errori Alla luce delle sei tesi, è facile elencare una se-rie di errori in cui cadiamo: sono errori per difetto o per eccesso. a) Errori per difetto di soggettività: non riflette-re mai su di sé, non esaminarsi mai, non impara-re dagli errori che commettiamo, negare sempre le critiche; rovesciare la colpa di ogni situazione sugli altri o sull'ambiente, sulle strutture, sulla società; redigere analisi straordinarie sulla struttura senza minimamente coinvolgersi; non ascolta-re quello che gli altri hanno da dire su di noi. Si tratta di errori "per difetto", in quanto chi li compie rifiuta l'autoconoscenza: per ignoranza o per difetto di coscienza. Molte persone che non hanno studiato, che non hanno vocabolario, che sono oppresse dalla fatica e dal lavoro, sono incapaci di autocritica e finiscono così per vivere di ripicche, di gelosie, di maldicenze. Può però succedere anche a noi di chiuderci dentro noi stessi, di difenderci, di non accettare di conoscerci, dando sempre ad altri la colpa di tutto ciò che non va. 21 Nel passaggio tra errori per difetto ed errori per eccesso, possiamo collocare il caso di chi è in preda a immagini ossessive di sé, anche negative; oppure a immagini di autocompiacimento che non sono frutto di conoscenza, pur se appaiono quasi un eccesso di soggettività; penso inoltre a forme di narcisismo negativo (quali depressioni, continuo disgusto di sé, morboso deprezzamento di sé che poi crea paura e senso di inadeguatezza). b) Errori per eccesso di soggettività: carico di soggettività che turba la semplicità e la linearità dell'azione, della conoscenza e dell'amore - è nell'azione, nella conoscenza e nell'amore che la persona si esprime. L'autocoscienza è indubbiamente necessaria, dal momento che conoscenza e amore sono liberi ed è dunque impossibile non conoscere di conosce-re, non conoscere di amare. Quando però è presente un eccesso di soggettività, riflettiamo troppo minuziosamente su noi stessi (in linguaggio ascetico si parla di scrupolo), svigorendo la forza dell'azione e restando sempre indecisi, titubanti sul futuro, ingarbugliati sul passato immediato e anche sull'oggi. Un altro errore per eccesso è quello di cavilla-re su di sé in continuazione, costruendo teorie senza fine. Un altro ancora è quello di dipendere eccessivamente da ciò che sentiamo di noi stessi, un sentire magari elaborato attraverso esami e analisi che pesano e gravano. Tutti errori o difetti che derivano dal non riconoscimento pratico e dalla non osservanza delle sei regole sopra esposte. Quali di questi difetti sono più comuni in noi? Forse nei preti giovani (o comunque nei giovani) prevale la soggettività per eccesso. Naturalmente, dipende dai temperamenti; tuttavia credo che la società, la cultura contemporanea, il possesso di strumenti mentali, porta facilmente all'eccesso di autoanalisi. Non voglio affatto squalificare l'autoconoscenza, che è invece fondamentale (non a caso l'ascetica ha sempre insistito su di essa); semplicemente desidero sottolineare che dobbiamo guardarla con qualche attenzione. 8. "Signore, tu sai che io ti amo" Concludo con la settima tesi e la esprimo riprendendo la risposta di Pietro a Gesù risorto: "Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo". Penso sia l'ultima parola sulla conoscenza di sé. In un momento di grave decisione, Simon Pietro è interrogato da Gesù sulla coscienza che ha del suo amore, del suo volergli bene "più di costoro". Pietro non nega questa conoscenza di sé, però preferisce appellarsi al Signore: "Certo, Signore, tu sai che ti voglio bene. Tu sai tutto, tu sai che ti amo" (cf Gv 21,15-17). Al culmine della conoscenza di sé c'è il fidarsi della conoscenza che il Signore ha di me, un fidarsi espresso in un atto di amore, di abbandono, che evidenzia l'aspetto trascendentale della seconda tesi: la conoscenza di sé richiede - soprattutto davanti alle grandi scelte della vita - la collaborazione di altri. 22 per aiutare gli educatori a trasformare le relazioni con i giovani in modo che risultino promuoventi e capaci di interpretare fino in fondo, nel caso concreto, i bisogni più profondi della persona cosi come sono vissuti. Essi possono essere i seguenti: – Bisogno d’essere se stessi: il giovane sente in se il bisogno di rispondere ad un movimento di fedeltà a se, di dono di se, d’affermazione, di stima e di riconoscimento della sua identità; – Bisogno di «essere di più»: il giovane quando va in un ambiente e accosta una persona, vorrebbe prendere le vitamine necessarie per crescere in modo compiuto; deve essere accolto e appagato in questa direzione; – Bisogno di proteggersi: per mettersi al riparo, difendere la propria vita e 1’essere, 1’unita personale ha bisogno di certezze profonde, di ragioni essenziali di vita per resistere di fronte a tutto ciò che tende a distruggerla o impoverirla o massificarla o spezzarla; – Bisogno di rifarsi: spesso, in momenti particolari, il giovane desidera rientrare in se per riposarsi, tornare in un ambiente per rivitalizzarsi, ricercare persone armoniche e luminose per riprendere vita e forza accanto a loro. La soddisfazione di questi profondi bisogni contribuisce a svegliare le sonnecchianti ricchezze d’essere e liberare le energie di vita che sono in lui perché la sua umanità risulti sana ed equilibrata.»,.Non si tratta, nel clima dello stile preventivo, di inventare metodi, mezzi, sistemi « ragionevoli »; e necessario « essere ragionevoli » e più ancora « vivere in modo ragionevole ».Tutto nell’educatore deve essere « ragionevole » nel senso che egli ha già 1’esperienza della « vita profonda » e la disposizione a cogliere nei giovani, per una speciale predilezione nei loro confronti, le loro ricchezze d’essere, il loro positivo e il meglio di se, a rilevarlo, sostenerlo, amarlo affinché anche la loro « vita profonda » si amplifichi e si unifichi senza restringersi, si dilati senza mutilazioni o devastazioni. « Essere ragionevoli » con i giovani vuol dire occuparsi perché la loro persona: 323 - adesione concreta e pratica, fiducia comprensiva e piena di buon senso, comunicazione profonda e rispettosa, ottimismo cordiale e sereno. Ciò richiede una radicale conversione negli atteggiamenti che fanno da supporto alle relazione interpersonali. L’educatore deve potersi riprendere in mano, rivedere il « fondo del suo essere » e assicurarsi che sia caratterizzato da una qualità di presenza, da una qualità di amore, da una qualità di essere. In altre parole si richiede: – Autenticità: fedeltà a se stesso, a ciò che sente, prova, vive, come conseguenza della lucidità e del1’accettazione di se; capacità di esprimere ciò che sente e vive, di vedere la propria esperienza senza mascherarne la più piccola parte; – Amore: comprensione (= gusto per l’interiorità» del giovane per sentire come lui sente, facendo fare al cuore più che alla logica il primo passo per giungere al livello dei suoi sentimenti), accettazione (= attitudine a non giudicare anche se non si condividono le soluzioni, poiché solo cosi la persona si sente libera di agire come crede), affetto (= simpatia che mette a contatto il cuore con il cuore, 1’essere con 1’essere, il mistero con il mistero in un continuo stupore per 1’altro), benevolenza (= desiderio che 1’altro viva il suo essere in pienezza e lucidità a modo suo), rispetto dell’autonomia (= desiderio che 1’altro eserciti la sua libertà interiore); – Solidità PRESA DI COSCIENZA, gioiosa e permanente, delle proprie RICCHEZZE d’essere, del positivo su cui poggiare la propria esistenza specie nei «colpi duri » della vita. Tale presa di coscienza non è possibile senza 1’abitudine a vivere a casa propria né si realizza al di fuori di PROFONDE E CORRETTE RELAZIONI INTERPERSONALI. L’amicizia è la via più rapida per giungervi, se percorsa con impegno, rettitudine, pazienza e continuità.In questo modo e assicurato l’ASCOLTO attento, comprensivo, fatto di benevolenza verso il giovane che si confida e che chiede aiuto, che si vuole dire fino in fondo, abbordando a volte le zone più inesplorate del suo vissuto anche più lontano e nascosto. È molto da fare Secondo John Luft e Hari Ingham ciascuno di noi è rappresentabile con quattro aree: L'area aperta è costitui ta da quegli aspetti di noi che cor sciamo e che, senza reticenze, siamo disposti ad aprire ali' tro: dati anagrafici o professionali o personali che possono e cupare tutto Io spazio del quadrante ma anche, in certe siti zioni, ridursi drasticamente: non faccio fatica ad immagine un contest o in cui non vorrei dire nemmeno come mi chiame dove abito. L'area nascosta , nata dall'incontro tra "noto a me" e "ignoto agli altri" contiene ciò che noi conosciamo di noi stessi e che fa ciamo di tutto per non fare conoscere agli altri. Ciascuno di noi ha il diritto di avere e mantenere un nucleo tutto suo, che lo protegga dalle invasioni altrui; se così non fosse saremmo a rischio di compromissioni psichiche. D'altra parte però questa parte di noi «è popolata da ansie, paure, fantasie strane, desideri repressi od impossibili... e spesso viaggia intrecci ata a sensi di colpa. Noi crediam o di provare i esclusiva questi sentimenti, quelle emozioni... Per questo quando scopriamo di non essere i soli, quando avvertiamo di condividere con altri queste situazioni, ci sentiamo come liberati»102. E queste considerazioni potrebbero già da sole costituire un buon motivo per potenziare l'assemblea fraterna! L'area inconscia è quella a cui si dedica elettivamente la psicoterapia, ma è riconosciuto che gli apprendimenti ottenuti dalle altre aree ci avvicinano sempre di più al nostro preconscio, a quella zona cioè che fa da cerniera tra la zona conscia e quella sconosciuta. È però l'area cieca , nata dall'incrocio tra «noto agli altri» e «ignoto a me» a sembrarci estremamente stimolante: gli altri, quando ci osservano, si rendono conto che noi non siamo solo ciò che affermiamo o crediamo di essere. La scoperta che gli altri conoscono qualcosa di noi meglio di quanto noi stessi la conosciamo non solo mette in crisi una prassi acquisita dalla "psicologia fondata sui luoghi comuni", ma è un colpo veramente duro al nostro narcisismo. […] L'apprendiment o che ci può venire dalla parte cieca è proprio questo: accettare ogni feedback negativo con la 322 23 noto agli altri I. Aperta II. Nascosta ----------------- ----------------- IV. Cieca III. Inconscia ----------------- ----------------- Ignoto agli altri convinzione che tratti di un servizio che ci viene reso, nella certezza che una conoscenza di sé sempre più ampia ed approfondita porta sicuramente col tempo, maggior fiducia e maggior libertà. E, di conseguenza superare quella sensazione sgradevole di frustrazione, quel sen di smarrimento non di rado accompagnato da desiderio di rivai verso chi tanto ha osato, rendendosi responsabile di un simile a franto, vincere la propria inibizione ad impostare un rapporto leale ed autentico e riuscire ad offrire a nostra volta riscontri e rimani agli altri, anche se negativi. 5 La conoscenza di sé non è un dato acquisito una volta per tutte. È un processo in divenire frutto di una pluralità di contributi sintetizzabili nella capacità equilibrata di introspezione nel dono del rapporto con gli altri, più o meno sereno nel porsi di fronte al nostro Creatore, unico che ci cosce in pienezza perché ci ha plasmati sulla misura del Figlio prediletto Ecco perché la metodologia che è opportuno mettere in atto percorre vie diverse quella dell’attenzione a se stessi attraverso alcuni imput strutturati (enneagramma, test e colloquio con lo pscicologo, ecc..) per abilitarci gradualmente alla coscientizzazione di ciò che siamo, delineando un profilo di sé che faccia da base per il continuo percorso di crescita. GILLINI G. – ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione. Proposta di lavoro per l’autoformazione di gruppi di presbiteri, di consacrate e di consacrati, Queriniana, 2003, pp. 296-298. 24 5 concretezza e aderenza alla realtà giovane, flessibilità nel programma, uso della razionalità in funzione preventiva e motivante. b) La religione D. Bosco », aveva una coscienza educativo-pastorale religiosamente finalizzata alla salvezza «totale» del giovane. In questo contesto Dio e il « primo servito » e 1’idea cristiana esplicita supera ogni neutralismo e qualunquismo ideologico. L’interesse religioso tra i giovane oggi e solo apparentemente sopito. Oggi educare religiosamente vuol dire forse « motivare a fondo » per rendere plausibile 1’opzione cristiana e per radicarla nel progetto di vita. c) L’amorevolezza Nello stile di D. Bosco si può tradurre con i seguenti termini: umanità, cordialità, accoglienza, dolcezza aperta e limpida affettività. « Vedo, conosco: ma cio non basta; ci manca il meglio: e cioe che i giovani non solo siano amati, ma che essi ricono- scano di essere amati. Che essendo amati in quelle cose che piacciono loro, col partecipare alle 1oro in- clinazioni imparino a vedere 1’amore iri qiieIIe cose che naturalmente loro piacciono poco come lo studio, la disciplina, la mortificazione... e queste cose imparino a fare con slancio c amore » (Lettera da Roma del 10 maggio 1884). L’amorevolezza dunque implica il buon rapporto pedagogico, il vero « essere con » per prevenire e formare, lo stare insieme per co11aborare, aiutare, promuovere la crescita e anche difendere da eventuali pericoli, l’aiutare incondizionatamente nonostante le mancanze con un affetto puro e limpido non turbato da egoismi sensuali o da attaccamenti particolari. Implica la democratizzazione dei rapporti, con la partecipazione responsabilizzata dei ragazzi ed una grande capacità di ascolto e di disponibilità. Prevenire significa porre le condizioni per esprimersi, creare, fare, correndo anche qualche rischio calcolato. Amorevolezza vuol dire fiducia trasparente da parte dell’educatore nella capacità di stare a fianco del giovane per fare di lui un collaboratore, un animatore responsabile, un futuro esperto in educazione 3.2.1 La fiducia nella «ragione» come guida alla «vita profonda» . Nello stile educativo di D. Bosco si intende per «ragione»: - presenza continua e ragionevole, - dialogo aperto e disponibile, 321 Accoglienza e volontà di comprensione sono gli ingredienti della prima confidenza che apre il cuore - Per il cammino di interiorizzazione Amate ciò che amano i giovani; state sempre in mezzo a loro Accoglienza è anche saper scusare, attendendo con pazienza. Un amore positivo che punta in alto In ciascuno avvi un punto accessibile al bene Chi sono io? (prova a tracciare un identikit e confrontati con chi ti sta accanto, integrando con semplicità quanto non hai evidenziato) Quali sono i miei tratti salienti? Quali sono le mie maggiori fatiche? Pur sapendo che il male ed il bene sono presenti a volte insieme per questo puntava sul sacramento della riconciliazione per evidenziare la vittoria in ogni situazione del Cristo sul male e sul peccato. - Esserci (stare sempre con; con buona cera) – Ascoltare – Dare buon esempio – Dimostrare amore – Dare il Paradiso 3.1.3 L’ambiente educativo della “famiglia” Impegno per il dovere e gioia dello stare insieme Vivere di carità «Chi vuol essere amato deve far vedere che ama. Chi sa poi di essere amato, ama; e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani» «l’educatore deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire la civile, scientifica, morale educazione dei suoi allievi» confidenza presenza continua ragionevolezza: buon senso, concretezza, aderenza alla situazione dei giovani fra dovere e libertà gioiosa solo la “fiducia originale” fra genitori e figli ha il potere di strutturare la personalità globale nella direzione della vita e di promuovere la crescita nella direzione dell’essere 3.2 Ragione, religione e amorevolezza «Due sono i sistemi in ogni tempo usati nella educazione della gioventù: preventivo e repressivo… Diverso e, direi opposto, e il sistema preventivo. Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti c poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano sempre sopra di loro 1’occhio vigile del direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida, diano consigli e amorevolmente correggano. Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra 1’amorevolezza; percio esclude ogni castigo violento e cerca di tenere lontano gli stessi castighi leggeri. La pratica di questo sistema e tutta appoggiata sulle parole di S. Paolo: «La carità è paziente e benigna» a) La ragione Nella pedagogia 320 «boschiva» significa: buon senso, 25 Quello della relazione con gli altri di sintonia o anche di scontro, nella quale cogliere al di là dell’oggettiva fatica, l’altro come fondamentale via per la rivelazione di ciò che sono al di là di paludamenti di cui ci siamo rivestiti per difesa o fuga. - Per il cammino di interiorizzazione Chi sono le persone con cui più facilmente mi relaziono? Cosa fanno emergere di me? Quali tratti con loro potenzio e quali accantono? Chi sono le persone con cui faccio più fatica a stare? In quali situazioni emerge particolarmente la tensione? Quali sono i tratti di me che avrei voluto non emergessero e quali la situazione di contrasto mette in evidenza da arricchire, riconoscendola così come occasione positiva? 26 leale attorno agli interessi del tempo libero sino a quelli profondi ed interiori: amicizia. Strumenti: Parolina all’orecchio, foglietti, attenzione personalizzata, con un’attenzione a tutte le componenti del giovane: fisica (gioco), religioso-morale, intellettuale ed affettiva Con una concezione ottimistica e realistica delle capacità umane: dal meno al più, senza alcuna oppressione delle energie fantasiose del singolo, orientando il tutto verso il bene, il vero, il bello, attraverso pietà, studio, l’allegria. 3.1.2 La presenza fraterna dell’educatore “assistente” Dal tener lontano al indicare la via giusta: prevenzione e direzione, attraverso una PRESENZA: viva, attiva, costruttiva di un amico, in piena corresponsabilità Con le seguenti caratteristiche: - L’amore educativo implica: benevolenza = stima e valorizzazione dell’altro come persona Promozione = riconoscimento dell’altro come nella sua effettiva alterità e nelle sue esigenze profonde Reciprocità = amicizia e sostegno nelle scelte importanti - Il tatto pedagogico: «si prendono più mosche con un piatto di miele che con un barile d’aceto» (S. Francesco di Sales) - L’autorità come autorevolezza: “parliamo principalmente al cuore della gioventù, e la nostra parola è Parola di Dio” (MB 5,225) “si dia agio agli allievi di esprimere liberamente i loro pensieri; ma si stia attenti a retificare” (Reg.) la religiosità: assistenza non è sorveglianza ma fraterna e paterna presenza vigile ed amorevole, non esercizio di potere ma comprensione, pazienza, vitalizzazione e consolidamento dei germi di vita già presenti è stare con - Un amore che fa il primo passo Per carità, non aspettate che i giovani vengano a voi. Andate voi da loro, fate voi il primo passo. E per essere accolti, discendete dalla vostra altezza. Mettetevi al loro livello, dalla loro parte - Un amore che sa farsi vicino Avvicinare i giovani senza giudicarli, né scandalizzarsi dei loro limiti ed errori 319 invitava i suoi educatori a farsi un quaderno intitolato L’Esperienza registrando inconvenienti, disordini , sbagli ecc…riprendendo poi ogni tanto queste note) (MB 12,69) Una grande risonanza per: - Modernità (con attenzione alle dimensioni umane – S. Alfonso) - Ottimismo (gioia – S. Filippo) - Limpida ispirazione cristiana - Forte organizzazione (S. Carlo Borromeo) - con un temperamento «aperto alla vita» - per la «riscoperta» dell’amore educativo come risposta al radicale bisogno dell’uomo di “amare ed essere amato”, sintetizzata nella frase che a don Rua, suo successore, sussurrò prima di spirare: «fatti amare» (MB 18,537) 3.1 Elementi caratteristici del Sistema preventivo 3.1.1 L’educazione “individualizzata” - Ciascun giovane è al centro con la sua personalità, in un processo formativo fatto d’inviti, proposte, possibilità, scelte e decisioni Lasciamo ai giovani piena libertà di parlare di cose che maggiormente loro aggradono. Il punto sta di scoprire in essi i gerrmi delle loro buone disposizioni e procurano di svilupparli. E poiché ognuno fa con piacere soltanto quello che sa di poter fare, io mi regolo con questo principio e i miei giovani lavorano tutti non solo con attività, ma con amore.110 Don Bosco conosceva per nome i suoi 600-700 ragazzi domenicali, a ciascuno per l’Immacolata e per Maria Ausiliatrice faceva arrivare un biglietto personalizzato e ciascuno diceva di essere il “preferito” da don Bosco. Perché egli guardava ad ogni giovane come un essere unico, redento da Cristo, con una vocazione particolare. E questo senza eccezioni di sorta. - attenzione anche all’ambiente, al clima generale il che implica la costruzione di piccoli tasselli che tocchino e si rivolgano alla coscienza e attendono l’adesione personale e libera - una sintonia ambientale che parte dalla comunione condivisione dell’équipe formativa - l’opera educativa è incompleta e poco efficace se non sfocia nel rapporto: personale, spontaneo ed aperto alla confidenza fra educatore e educando partendo da una collaborazione sincera e “Io sono anzitutto parte di un gruppo familiare e sociale ben individuato. Ciascuno di noi è qui perché è figlio dei suoi genitori, parte di una società, di un gruppo religioso, culturale e umano. Come tale è oggetto dell'amore di Dio che lo chiama nella sua storia. «Tu Signore sei colui che mi ha amato, mi ha cercato in questa famiglia, in relazione con questi genitori, fratelli, sorelle, parenti, amici: persone che condividono l'immediata esperienza della mia esistenza. Tu mi hai voluto e mi ami nelle mie relazioni di scuola, di cultura, di società». Nell'insieme di queste relazioni c'è tuttavia una parola personale e irripetibile: «A te, dico!». E a nessun altro. Per capire chi siamo noi ci viene chiesto di renderci conto della singolarità della nostra storia. La nostra vicenda personale è così unica che Dio l'ha voluta per se stessa e non l'ha messa in dipendenza da nessun'altra. Questa è la dignità assoluta della mia persona: il fatto che Dio mi vuole per me stesso. Ha dunque a cuore la singolarità della mia vita e del mio cammino, anche se a me appare poco interessante, povero, modesto. Dio ha in mente e ha in mano la mia storia come storia singolarissima, che non vuole cambiare con nessun'altra. Non vuole barattarci con nessuno perché il nostro valore è definitivo e irrevocabile. Dio si è compromesso per la mia storia personale. A questa verità forse noi pensiamo poco, non diamo importanza a noi stessi, mentre sta proprio qui la fonte della nostra dignità personale. La radice, l'origine del nostro essere con gli altri, del fare comunità, dell'avere creatività, sta in questa parola: «A te dico!». E importante riuscire a cogliere nella preghiera, magari per un solo istante, la bellezza di: «A te dico!». «Signore, davvero a me?». «Sì, proprio a te!». «Davvero, Signore, tu che sei così grande, infinito, tu che hai creato l'universo, che vivi da sempre e per sempre, mi dici questa parola?». «Sì, a te e per te!». Non dovremmo mai finire di stupirci di questa verità!”. 6 Quella del porsi alla presenza di Dio, nella Sua parola e nel Suo mistero d’amore. In questa linea la lectio divina quotidiana è il luogo privilegiato della conoscenza di me. Lì emergono guardando a Gesù il Figlio perfetto ciò che sono io, il cammino da compiere, le possibilità da sviluppare in un confronto che non è assolutamente svilente perché il Suo giudizio non è mai umiliante. “Guardando Gesù negli occhi, ha sperimentato che cosa vuoi dire essere amato davvero da Dio, ha sentito che cosa significa essere capito, essere preso sul serio, ha capito che cosa vuoi dire che la vita ha valore nelle mani di Dio. Vorrei che ciascuno di voi si esercitasse in questo colloquio: «Signore, tu mi capisci, tu sei colui che prende sul serio la mia vita. Qualche volta io rischio di giocare con la mia vita. Tu però mi guardi perché mi hai fatto, mi hai creato, mi dai la vita. Tu mi vedi in un modo che mi fa sentire preso sul serio e capito a fondo»”.7 6 110 318 MB 17,85-86 7 27 C.M.MARTINI, Tu mi scruti e mi conosci, Ancora, Milano 1990 7, pp. 24 -25. C.M.MARTINI, Tu mi scruti…, oc, pp. 23. Per il cammino di interiorizzazione Al termine di un mese di lectio divina prova a fare sintesi di quanto è emerso come contributo per la conoscenza di te figlio nel Figlio, come coscientizzazione di ciò che sei, come percorso su cui sei stato invitato a crescere e sulla conoscenza di Gesù quale modello della tua persona 3. Nozioni sul sistema preventivo - 3.0 Premessa La cultura radicale: senza passato, senza futuro: un rizzoma autonomo ed autogestito Quale possibilità oggi di parlare d’educazione? Tre soggetti: giovani, società, educatori: lontananza dai modelli tradizionali, perdita di stabilità e progettualità, perdita della fiducia nel loro compito e nei loro punti fermi Quale rapporto fra la cultura attuale ed un sistema educativo di fine ottocento? Gli inizi in una non relazione… Quante volte – scrive don Bosco – avrei voluto parlare, chiedere loro consiglio o scioglimento di dubbi e ciò non poteva; anzi accadendo che qualche superiore passasse in mezzo ai seminaristi senza sapere la ragione, ognuino fuggiva precipitoso a destra e a sinistra come una bestia nera. Ciò accendeva sempre più il mio cuore di essere presto prete per trattarmi in mezzo ai giovanetti, per assiterli ed appagarli ad ogni occorrenza. Una rivelazione: non con le percosse All’età di nove anni ho fatto un sogno. Sarebbe rimasto profondamente impresso nella mia mente per tutta la vita. Mi pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una grande quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro. Cercai di farli tacere usando pugni e parole. In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi. Aggiunse: - Dovrai farteli amici con bontà e carità, non picchiandoli. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa cattiva, e che l’amicizia con il Signore è un bene prezioso. Un’esperienza di prima: san Francesco di Sales (1600) la dolcezza e la coscienza che tutti sono chiamati alla santità Un’esperienza sul campo: l’oratorio (apprezzava ogni intervento culturalmente profondo in ambito pedagogico ma il suo percorso formativo si delineò nell’esperienza, per questo 28 317 ma anche aspirazioni infinite. Abbisogna di beni materiali, ma soprattutto di senso e di valori spirituali. Secondo l'espressione di Agostino: "È fatta per Dio, assetata di lui". In altre parole, si può dire che nell'esistenza della persona diamo il primato alla dimensione religiosa. E lo stesso nell'educazione e promozione non per proselitismo, ma perché siamo convinti che essa costituisce la sorgente più profonda della sua crescita e felicità. Ne curiamo la profondità, il corretto sviluppo ed espressione. In un tempo di secolarismo e di religiosità sbandate, questo orientamento non è Dobbiamo gradualmente guardare a noi e a tutte le altre persone come al mistero di Dio che si manifesta. Allora ciò che siamo con anche i nostri problemi, le difficoltà, le antipatie… tutto insomma ci rivela la presenza di Dio nella nostra vita. Ecco cosa significa sapere chi sono io. Io sono un miracolo di Dio, in cui egli si rivela nella storia. 109 Nel cammino della conoscenza di sé stessi il Cardinal Martini individua tre tentazioni che possono insidiare il percorso: il blocco dell’espressività attraverso un vocabolario ridotto, una incapacità a sostenere il confronto a tracciare argomentazioni. Per questo una delle vie di coscienza di sé è la capacità di sostenere la fatica culturale, che apre orizzonti nuovi, che sostiene la capacità di comunicazione con il maggior numero di persone, che fa scendere nel profondo non solo di sé ma dell’umanità che ci precede. L’indisciplina dei sentimenti e delle emozioni, lasciando ad essi briglia sciolte creando così inattesi blocchi e tensioni che si esprimono con malumori, stanchezze, pigrizie, alti e bassi d’entusiasmo. Non è facile acquistare una consapevolezza di questi ma è indispensabile soprattutto per chi è chiamato per vocazione alla relazione educativa. Una delle esigenze che i padri spirituali dell'Oriente insegnavano al discepolo che voleva incominciare la vita monastica o il discepolato cristiano era questa: «Metti ordine nei tuoi pensieri, nelle tue fantasie, nei tuoi sentimenti! In caso contrario, essi ti sconvolgono, ti lacerano, ti buttano in direzioni opposte: e tu rimani, senza accorgertene, privo di forzai». Come fare per mettere ordine nei nostri sentimenti, affetti, emozioni, pensieri? Non sono necessariamente realtà cattive ma emergono per lo più in modo disordinato. Bisogna imparare ad esaminarsi. E vi indico quattro facoltà su cui esaminarvi. Dapprima la fantasia. Potete domandarvi: dove vanno i miei pensieri quando vagano in libertà? Poi le simpatìe o antipatìe. Queste ultime sorgono spesso all'improvviso per una offesa ricevuta, forse, o per uno sgarbo. Se non mi esamino bene, l'antipatia tende a cronicizzarsi. L'affettività può nascere talora inaspettatamente, senza che ce ne accorgiamo. È importante rendersene conto per ridimensionarla. I malumori. Perché sono di cattivo umore? Magari perché sta piovendo. Se capisco che è per questo, mi ridimensiono e dico a me stesso: «Pazienza, è solo un po' di cattivo umore». Do una ragione a ciò che sto vivendo. Tutto il passaggio dall'adolescenza alla maturità si gioca su questa capacità progressiva di esaminare, dominare, mettere ordine nella fantasia, nelle simpatie e nelle antipatie, nell'affettività, negli entusiasmi eccessi- senza significato né di facile realizzazione.” È un'assunzione di responsabilità contro ogni forma di deresponsabilizzazione. In quel "dammi" è racchiusa la volontà di custodia dell'altro, di cura, dentro cui matura ogni scelta vocazionale. Ai primi collaboratori, don Bosco non propose un itinerario formativo sui banchi ma "un esercizio concreto di carità verso il prossimo", a volte con compiti che potevano sembrare superiori alla loro età e formazione. Lui li ha responsabilizzati ponendosi accanto. "Prendi" invece rimanda ad una consegna, ad un'offerta. La dimensione vocazionale della vita è il passaggio da una concezione autogestionale della propria esistenza alla consegna a Dio di tutto se stesso perché ne faccia secondo la sua volontà il capolavoro che da sempre ha pensato per ciascuno. Se non coltiviamo in noi e nei nostri giovani questa dinamica della consegna, secondo gradualità e attraverso le mediazioni che fanno esercitare la virtù dell'obbedienza, non vi potrà essere alcun salto di qualità nell'adesione vocazionale. Vi è infine un elemento importante sintetizzato in quel "togli tutto il resto". Ascesi salesiana che rimanda alla temperanza, inscindibile dal lavoro. Una vita piena di "cose" difficilmente potrà: innalzare una preghiera, scaturita dal confronto con la Parola, che muove verso chi è nel bisogno, riconosciuto da occhi vigili che sanno scrutare non solo la superficie ma l'anima delle situazioni e delle persone. 2. Predilezione per i giovani Strumenti Esperienze pastorali progettate, guidate, verificate 109 J. E. VECCHI, Indicazioni per un cammino di spiritualità salesiana, ACG 354, settembre 1995. 316 29 vi, nella freddezza. Cominciamo a conoscerei meglio, a capire che il dialogo su di noi e il dialogo con Gesù viene bloccato tutte le volte che ci lasciamo dominare dalle facoltà che ho indicato. Ovviamente non dobbiamo eliminarle perché noi avremo sempre sentimenti, sensazioni, ecc. Sono proprio la ricchezza dell'uomo: però la persona matura ordinariamente vive le sue emozioni e i suoi sentimenti nella verità delle cose, dei rapporti, delle persone, delle responsabilità .8 La terza insidia, più difficile da cogliere, è l'autolesionismo. Vi sono situazioni in cui anche noi diventiamo un po' autolesionisti. Ci colpevolizziamo senza motivo, ci diamo la zappa, sui piedi, ci scoraggiamo quasi gustando lo scoraggiamento. Non potendo essere perfetti o i primi assoluti, ci prendiamo gusto a essere gli ultimi e a non valere niente. È tutto un gioco dell'orgoglio. Se una persona casualmente non ci guarda sorridendo, non ci saluta subito, pensiamo che ce l'ha con noi; se ci viene fatto un rimprovero non del tutto giusto, ci sentiamo maltrattati ingiustamente e ci irritiamo. Siamo al livello più profondo in cui giocano tutte le forme di tentazione che cercano di deprimerci, di appesantirci, di tarparci le ali. Se nella seconda insidia risaltava il ritmo selvaggio delle emozioni, qui c'è maggiormente il segno del maligno. È il maligno che ci suggerisce: «Non ce la fai, cederai, non puoi resistere alle tentazioni». A volte addirittura cadiamo nel male quasi per darci ragione della irritazione o della rabbia che proviamo. Ci lasciamo insomma veramente ingannare e blocchiamo tutto il nostro dialogo che dovrebbe sempre avvenire nella gioia, nella serenità, nella pace, nel dominio di noi stessi. 9 Il card. Martini ne parla in chiave di tentazione diabolica ma il passo precedente è una tentazione antropologica dovuta in parte alla fatica non assunta a prendersi la responsabilità del crescere, dalla paura a porsi in confronto con gli altri senza giustificazioni che chiudono o a fughe che allontanano, o infine dal non voler sviluppare quanto si è anche se non al massimo o meglio anche se non come noi vorremmo che fosse. Come uscire da queste tentazioni - Primariamente attraverso un dialogo onesto chiamando per nome reazioni, sentimenti, scelte. Questo imparare a dirsi entrando in dialogo fa emergere molto di più di quanto pensiamo di scoprire 8 9 30 C.M.MARTINI, Tu mi scruti, oc , pp. 35-36. idem, pp. 36-37. 1. Caritas Christi urget nos: giovani per i giovani107 Don Bosco e il coinvolgimento dei suoi giovani La fondazione della congregazione La passione apostolica Da mihi anima caetera tolle. Il motto è tratto dalla parola di Dio che viene riletta con gli occhi di don Bosco, dando forza all'interpretazione del quotidiano in chiave teologica, portando al dono totale di se per coloro a cui il Signore ci invia. È quel processo che definiamo Lectio Divina È essenzialmente una preghiera e Domenico Savio la comprende come tale. Non vi può essere alcuna comprensione della volontà di Dio senza una relazione orante con il Signore. Questo differenzia ogni apostolato, ogni gesto di carità cristiana dal generico volontariato o filantropia. Ogni dono caritativo è risposta ad un appello divino che chiamando invia. Ma una preghiera che arde di passione per il bene dei fratelli. Che non chiude in un intimismo escludente, ma apre gli occhi sulle necessità dei fratelli soprattutto dei più poveri e di coloro che stanno al nostro fianco. Don Bosco tornando dalla "Generala", da "porta Palazzo", dall'angolo "della forca", dalle vie della città, fa sintesi fra ciò che lo ha interpellato nella povertà dei giovani e la sua vocazione. Troppo spesso noi ed i nostri giovani non ci accorgiamo più del grido di tanti giovani "sfatti" da nuove ed antiche povertà. Questo sguardo approfondito sulla realtà diviene chiamata vocazionale. L'esercizio dello sguardo deve portare ad un appello alla vita perché divenga responsabilità concreta che risponde: "eccomi manda me!", contro ogni bestemmia salesiana a cui don Bosco costantemente invitava a 108 prenderne le distanze. “È una attenzione a tutta la persona ma con un primato alla spiritualità come radice e fonte di ogni vera umanità matura. "Anima" indica la dimensione spirituale dell'uomo, centro della sua libertà e radice della sua dignità, spazio privilegiato della sua apertura a Dio, dove si fa sentire e offre lo Spirito. […] La persona non vive di solo pane; ha, sì, bisogni immediati, 107 VECCHI J. E, Spiritualità …, oc, pp 53-63; 107-151. CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 9-26. DON BOSCO, Lettera da Roma. 108 Cfr, BRAIDO P., Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, LAS, Roma, 2003, pp. 347ss. 315 Dimensione Educativo pastorale 314 - - 31 con il “fai da te” e soprattutto facendoci illuminare dall’esperienza e dalla distanza di chi ci accompagna Secondo facendo un quadro completo di noi uscendo dal circuito normalmente ansiogeno del momento. È necessario imparare a prendere le distanze anche da noi stessi, dai nostri difetti, dalle nostre fatiche, dalle difficoltà. Occorre oggettivarsi chiedendosi “cosa mi sta succedendo?...” magari mettendo per iscritto, considerando la situazione puntualmente. Solo così distingueremo la difficoltà da noi riconoscendo che questa è la situazione in cui sono ora ma questa non mi esaurisce, non è il tutto di me. E proveremo un attimo di respiro chiedendogli “Signore cosa mi vuoi dire in questa situazione? Tu che hai un disegno su di me e mi ami quale passo vuoi farmi compiere?” Questo ultimo tratto introduce il terzo gradino che è una autentica confession fidei: Signore non solo mi conosci perché mi hai creato ma mi fido di te proprio perché sono così e mi sono così scoperto. So che Tu sei salvatore”. Questo apre all’umile fiducia di chi sa accogliere anche il proprio limite, senza attendersi magici cambi che trasformano tutto e subito, come il luogo dove Dio ci mostra ciò che siamo e il Suo amore che non è condizionato al nostro restituirgli una perfezione che è solo Sua. 2. Il profondo Per incontrare Dio, bisogna ritirare le nostre forze dentro di noi e concentrarci, sottrarci, per cosi dire, all'esterno. Concentrazione infatti vuol dire avere un centro, unico: se riusciamo a metterci cosi davanti al Signore, da noi si sprigiona una capacita incredibile. Ci pare persino di essere diversi, con una lucidità e una chiarezza mai sperimentate, e comprendiamo meglio la domanda: «Chi sono io ?».10 2.1. Il raccoglimento Una parola familiare alla lingua etico-religiosa del passato ma che nell'etica moderna si pronuncia di rado è quella di “raccoglimento”, di “uomo raccolto”. Tuttavia il suo contenuto oggi si riavvicina a noi, e sono soprattutto gli psicologi e gli educatori che cominciano a vedere la sua importanza. I pensieri di questa meditazione hanno perciò già un loro appiglio. Per meglio capire ciò che vi s'intende vogliamo chiarirci prima in che modo la nostra esistenza si struttura. Essa si tende fra due poli affini a quelli di cui si parlerà nel capitolo seguente sul silenzio e sulla parola. II primo polo è l'interiorità dell'uomo, il suo intimo centro. Dire che cos'è questo “centro” non è facile, ma chiunque pronuncia da se spontaneamente il termine sa che cosa intende: il punto di riferimento in direzione dell'interiorità; ciò che fa si che le sue energie, le sue qualità, i suoi sentimenti e le sue azioni compongano non un affastellamento confuso, ma un'unità. Questo è uno dei due poli; l'altro è tutto il complesso delle cose fuori di lui, degli eventi, delle situazioni, delle relazioni; gli altri uomini, la loro vita, la loro attività, la storia. In breve, il mondo, fin dove la forza del suo vedere e la capacità del suo esperire vitalmente riesce ad arrivare. Fra questi due poli, il centro dentro di me e il mondo intorno a me, oscilla la mia vita. Di continuo io esco verso le cose, osservo, afferro, posseggo, plasmo, ordino. Poi ritorno nella mia intimità, e là mi domando: Che cos'e questo? Perché questa cosa e così? A quale altro essa appare simile, e in che modo si distingue da altre cose? In che cosa consiste la sua essenza? Precisamente in questo, nella conoscenza, giunge a compimento ciò che ho esperito fuori di me. Quando voglio fare qualcosa, io non mi metto senz'altro all'opera, ma rifletto: Che cosa mi serve a tale scopo? Che cosa esige la situazione? Mi 10 32 idem, pp. 77ss. La paura. — Nel sogno dell'1-XII-1884, quando Don Bosco vide la riunione dei diavoli per distrugger la Congregazione salesiana non fu approvata l'insidia né con l'intemperanza né con le ricchezze, ma con la trovata sottile di un diavoletto che disse: “Persuadiamoli che l'essere dotto è quello che deve formare la loro gloria principale” (M.B. XVII 387). Studiare per far figura! Quando si vuole essere tutti dotti, addio oratorio festivo, addio scuole basse, istruire giovani poveri; non più le ore passate in confessionale; ma solo la predicazione rara, sfoggio della loro superbia. “Evangelizare pauperibus” (Evangelizzare i poveri) e non le signore e signorine della cattolica, ma coloro che puzzano di cipolle. Ebbene quel diavoletto ebbe il plauso generale. Don Bosco tremava pensando che un giorno potrebbe darsi che i salesiani facciano consistere il bene della Congregazione nella scienza. Lo dico a voi che frequentate l'Università, affinché a suo tempo e luogo possiate discendere. Disillusione. — Nel 1885 a Marsiglia Don Bosco diceva ad un suo amico e benefattore che aveva fatto tutto il suo possibile per formare le scuole cristiane e che moriva non abbastanza compreso. Don Bosco vide che i suoi vicini non lo capivano: “Quanto ha fatto Don Bosco pei riformar la scuola su basi schiettamente cristiane! Ora vecchio cadente( me ne muoio col dolore di non essere stato abbastanza compreso” (M.B. XVII, 442). E non diceva questo ad un salesiano, ma ad un laico. Noi abbiamo imparato da Don Bosco che dobbiamo studiare di tutto per fare del bene alle anime, per una scienza pratica. Dobbiam esser pronti all'apostolato cristiano, abbracciando tutto ciò che si può abbracciare nella scienza e a cui la Chiesa con le parole dell'Epistola ai Filippesi ci anima. Strumenti Letture Tempi di formazione Colloquio personale 313 Flavio. Di Patristica in seminario non c'era un corso speciale; egli però fece studi speciali su S. Agostino e su S. Gerolamo. La Agiografia la imparò sul Croiset, e sui Bollandisti, di cui da giovane prete lesse un volume al mese, e cosi tutti i 45 volumi. L'Apologetica sul Bergier, il miglior apologista d'allora (alcuni passi sono riportati nella Storia d'Italia). Per la storia ecclesiastica ch'e il suo tema preferito, lesse il Fleury che è antiromano e per reazione concepì un maggior attacca mento a Roma. Solo per la Storia ecclesiastica gli ho scoperte 80 fonti diverse. Cosi pure per la Storia d'Italia, la quale e un libro popolare...: eppure quell'uomo ha maneggiato 80 volumi! Il Muratori lo percorse tutto. Tutti si stupiscono al sapere questo e mi domandano: Come ha fatto a scoprire tante cose?...Don Bosco conobbe il latino, il greco, l'ebraico; sapeva Orazio e Virgilio a memoria; conobbe tutti i classici d'Italia in piccoli volumi della collezione Silvestrini di Milano, che prendeva in affitto per pochi soldi. Sapeva a memoria Dante, Petrarca e Tasso. Conosceva la geografia e ne fece un appoggio per la storia. In questo fu innovatore. Sentiva potentemente la necessità della cultura umana. Ciò che e più sbalorditivo in Don Bosco si è che la massima parte della sua scienza frutto è del suo lavoro personale. La facilità con cui parlava con ogni ceto di persone veniva dalla sua enorme cultura. Don Bosco faceva sempre ed in ogni ramo bella figura. Adesso veniamo a noi. Con quale spirito dobbiamo studiare? Don Bosco dovette studiare da sé per le circostanze dell'epoca e per la sua passione del sapere, per poter poi agire. Questo si concilia con la santità. Non dovete lasciare queste cose alla storia, ma dovete farle vostre, dovete imparare da Don Bosco la passione del sapere, l'indirizzo del sapere salesiano. Vorrei che sapeste quante notti ho passato in bianco fino a 35 anni, dimodochê con la mia industria personale ho potuto dare scuola d'arte all'Università. E non mi aveva insegnato nessuno. Cosi deve essere il salesiano. Ogni salesiano di razza deve moltiplicare le sue cognizioni per moltiplicare il bene che può fare. L'arte mi ha servito per portare la parola di Dio anche nell'Accademia delle Belle Arti. Bisogna come Don Bosco occupare il tempo, e come lui ingegnarsi da sé. Non bisogna confidarsi nel manualismo, perché questo è l'etisia della cultura, ma dobbiamo consultare le fonti. Bisogna che studiamo da noi, che siamo autodidatti. Bisogna che con S. Tommaso (II. II, 166-167) abbiamo la virtù della « studiositas », soprattutto lo spirito dello studio che è quello che ci interessa. Con quale spirito ed intenzione si deve studiare? Prima di tutto con lo spirito della scienza; questa e la pietà vogliono essere unite; e poi cor lo spirito utilitario. Ma soprattutto “ut perfectus sit homo Dei” (Affinché l'uomo di Dio sia perfetto), non dilettantismo. Permettete che richiami il pensiero di Don Bosco per una sua paura e per una sua disillusione. decido e solo allora io trovo «al di fuori» la direzione e l'ordine per ciò che devo fare. Finito il mio lavoro, ritorno di nuovo a me stesso e mi esamino: E andato tutto per ordine? Mi sono comportato come si deve con la tale e tal altra persona? Ho fatto il mio dovere? 312 33 Ma così dicendo abbiamo semplificato. L'”uscita” e il “rientro”, e di nuovo l'”uscita” e il “rientro” non si verificano una o due volte soltanto, ma innumerevoli volte; è un gioco ininterrotto di atti di cui è tutta fitta la nostra vita quotidiana. In tal modo le due sfere stanno in vicendevole rapporto. Ciò che si verifica di fuori viene guidato e giudicato da dentro; la realtà intima viene evocata, svegliata, alimentata da fuori. Se ci si domanda qual l'uomo che a questo riguardo risulta autentico, la risposta è: “Quello nella cui vita i due poli si esplicano effettivamente in un giusto rapporto; quello che nè si perde fuori, nè si consuma dentro; quello nella cui vita le due sfere si determinano e si completano in equilibrio a vicenda. Ma nella media della vita umana è diverso. Là le realtà della vita esterna hanno un peso soverchiante. La ricchezza delle loro forme, le impressioni incisive delle loro proprietà, i compiti che esse ci pongono, i loro valori ai quali si accendono i desideri, la loro pericolosità che genera paura: tutto ciò è cosi forte da avere il sopravvento al punto da esteriorizzare tutta la nostra vita. Nasce cosi l'uomo dissipato nelle cose esterne, il cui mondo interiore è debole e diviene sempre più debole. Ora tutto ciò si è verificato, tutto sommato, gia in passato. Gli spiriti preoccupati della formazione profonda dell'uomo, hanno sempre elevato i loro moniti. Ma oggi la situazione si è fatta più pericolosa, perché gli stimoli che assalgono l'uomo sono diventati assai più potenti e molteplici, e lo diventano sempre più. Oggi l'uomo è di continuo in faccende; e non entro ordinamenti in cui sia inserito, ma spesso in un caos di cui egli non ha più il controllo. Anche la “pubblicizzazione” dell'esistenza si è intensificata in un modo preoccupante: con sempre maggiore rapidità e completezza ciò che avviene viene comunicato, e con tale immediatezza che si può essere tentati di dire che la notizia appartiene all'evento; che questo è gia a priori destinato a svolgersi davanti ai microfoni e alle macchine da presa. La pubblicità penetra con sempre minori riguardi nella vita personale, così che la sfera privata va rapidamente scomparendo. I contenitori delle operazioni vitali dell'uomo sono diventati come vetro, e là gente si muove la dentro come frotte di pesci in un acquario che si può osservare da ogni lato in tutto ciò che vi si fa. È addirittura un simbolo il fatto che la casa moderna vada eliminando sempre più la parete. L'uomo che è dentro vive nello stesso tempo fuori e crede così di diventare libero. In realtà il suo mondo interiore si offusca. E come se tutto questo non bastasse, il mondo esterno viene espressamente introdotto in quello interno. Tutti conosciamo le case in cui non c'è mai silenzio, perché la radio vi strilla di continuo o il televisore le invade con le sensazioni del mondo nelle ore in cui l'uomo dovrebbe stare con se stesso. Di più ancora: essere religiosi vuol dire stare in colloquio con Dio. Dunque anzitutto parlarGli. Ma a che cosa in realtà si parla quando ci si rivolge a Dio? Per lo più come a una nebbia, oppure semplicemente come davanti a sè senza la consapevolezza d'un «Tu». Quando io parlo con una persona umana, cerco con i miei occhi i suoi, prendo contatto con l'espressione della sua faccia, in modo da avvertire che la mia parola arriva al poi ad un ramo particolare. Il Papa avrebbe voluto che nei seminari non si desse solo la scolastica, ma anche lo studio scientifico, la cultura del professionista. Questa è l'idea del Papa. La scolastica non serve per andare in treno. E così Pio XI ha voluto elevare agli onori gli altari l'enciclopedico del secolo XIII, Alberto Magno. Nelle mie lezioni di arte ho dimostrato che nel secolo XIII e XIV l'arte fu in corrispondenza con l'enciclopedia del tempo; ed abbiamo i pregevolissimi I bassorilievi delle cattedrali di Francia. E Dante nella Comedia riporta tutto lo scibile del suo tempo; neppure possiamo dimenticare Giotto. Don Bosco è umile e sorridente, ma quando lo guardate bene è un colosso. Quando scrutando i suoi scritti in una sola opera trovate 8o libri di bibliografia e libri grossi, c'è da strabiliare. La Chiesa ha attribuito a lui l'esortazione di San Paolo: “De cetero, fratres, quaecumque sunt vera, quaecumque pudica, quaecumque iusta, quaecumque sancta, quaecumque amabilia, quaecumque bonae famae, si qua virtus, si qua laus disciplinae, haec cogitate” (In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Fil 4,8). La Chiesa nella sua liturgia consacra la universalità di Don Bosco. Secondo Don Bosco il salesiano deve sapere ogni ramo. 1l nostro lavoro specifico di educatori fa si che lo studio abbia per noi uno scopo prati ed utilitario. Nessuno di noi dovrebbe studiare nulla che non serva per qualche scopo. Don Bosco lo vuole, lo raccomanda ai suoi chierici: per salvare anime più che si può. Noi dobbiamo studiare per essere attrezzati ad ogni sorta di bene. E Don Bosco come ha fatto? Se dobbiamo autoeducarci al tipo di Don Bosco, prendiamolo come esempio. In questo egli ci ha dato l'esempio pia luminoso. Potrei portarvi cinque passi di. Pio XI per mostravi come il Papa ha capito la scienza di Don Bosco. Se c'e una simpatia umana in Pio XI per Don Bosco è per questo: per lo studio. Il Papa, topo di biblioteca, capì che Don Bosco aveva buona stoffa di bibliotecario. Una gran parte della cultura di Don Bosco è addirittura sconosciuta. Bisogna esaminare la Storia ecclesiastica, la Storia sacra, la Vita; dei Papi, la Storia d’Italia. Don Bosco fu il precursore di quella cultura generale e in qualche ramo specializzata, di cui non tutti i sacerdoti hanno capito la necessita. 15 giorni fa, discutendo amabilmente con uno, e trattandosi di vedere come ordinare nei nostri studentati la Storia sacra e la Bibbia, dissi: leggete il tale volume della vita di Don Bosco vedrete come egli pensava; non c'era bisogno di decidere: Don Bosco ci aveva gia pensato. Vi dico anche tutti gli studi che ha fatto Don Bosco. La teologia dogmatica la dovette studiare con testi di seminario dove dal 1720 per legge del principe Amedeo II s'imponeva lo studio di S. Tommaso. II Piemonte era Tomista. La Scrittura la studiò da sé: lesse il Calmet. La Storia sacra l'ha imparata sulla Bibbia, e lesse da sé le Antiquitates Iudaicae di Giuseppe 34 311 Si va affermando così un tipo d'uomo che non ha più un centro vivo in sè. I fatti della vita lo percorrono di continuo e lo sospingono sempre più fuori. Egli si sente soffocare a starsene in camera sua; ha bisogno sempre di uscire. Non riesce a farcela a stare solo; deve esserci sempre gente a casa sua. Passare la sera tranquillo a leggere un libro gli sembrerebbe uno spreco, perché lui deve sempre «intraprendere qualcosa». L'esortazione a riflettere, faccia a faccia con se stesso, sulla propria vita – sugli incontri, le azioni, le responsabilità, gli atteggiamenti interiori – lo mette a disagio; non saprebbe neppure in che modo realizzare una simile riflessione, poiché, dopo appena un istante di concentrazione, si sentirebbe sfuggire a se stesso. A meno che le cose non stiano ancora peggio: che cioè egli non voglia più nemmeno vedere se stesso. La vita d'un uomo simile si esplica tutta in reazioni orientate verso il mondo esterno. Egli non sta fermo in nessun luogo, ma viene proiettato in ogni direzione da mille influssi. Egli non si possiede più, ma gli “capita” d'essere da qualche parte. Non ha più convinzioni, bensì opinioni che gli vengono sussurrate dai giornali e dalla radio. Non agisce più per intima iniziativa, ma a seconda che lo sollecitino gli urti che gli arrivano da fuori. Tutto ciò ha un suo particolare significato nella vita religiosa. In che cosa sta il nucleo di ogni religiosità? Nella coscienza della realtà di Dio; nell'essere consapevoli che Egli «è», ed è vivo in questo luogo, che agisce, domina, guida. Tale coscienza poi si approfondisce e si fa consapevolezza che Dio soltanto è, in senso proprio e originario, reale per se stesso, e che ogni realtà finita è reale soltanto «per mezzo di Lui» e «dinanzi a Lui»; che Egli soltanto agisce in forma sovrana e creatrice, e che noi possiamo agire soltanto in Lui. Religiosità significa condurre la propria vita sotto i suoi occhi. Noi ci domandiamo e proponiamo questo quesito: Quali sono le direzioni di Don Bosco in materia di studio? Che cosa ha fatto Don Bosco nella materia di studio? Come regolarci noi? E’ un tema fatto proprio per studenti salesiani.. Don Bosco amò e coltivò gli studi e lo studio. Bisogna distinguere perché corre differenza tra studio e studi. Amò lo studio, vuol dire che ebbe piacere di studiare; amò gli studi, invece, significa l'amore per questo o per quell' altro studio. Egli volle che lo amassero anche i suoi chierici. Se vi è cosa cara che Don Bosco ha raccomandato accanto alla formazione spirituale, è l'amore allo studio. Nel 1849-1850, ricevettè e stipò nelle stanze dell'Oratorio un buon numero di chierici del seminario che in quell' anno di rivoluzione era stato chiuso, e li educò come fossero suoi. E li incoraggiava agli studi. Ascanio Savio (vol.. III, 614616) dice che Don Bosco raccomandava di mettersi in grado con una Santa vita e una buona scienza teologica di salvare le anime più che si può). Ed è lo stesso pensiero di Pio XI. E non solo pensava alla scienza sacra, ma anche alle altre discipline. Don Bosco voleva che i suoi salesiani per potere essere educatori più completi ed i sacerdoti più buoni sapessero di tutto. Fu Don Bosco il primo che mandò i suoi preti all' Università dello stato, benché i suoi coetanei, che non capivano i tempi, lo criticassero (vol. VI,. 346). Il primo che lo imitò fu Mons. Moreno, Vescovo di Ivrea, di modo che i suoi preti coi rispettivi titoli poterono fare scuola ed avere in mano la gioventù. Purtroppo per molto tempo fu l'unico imitatore di Don Bosco in questo campo. Pio XI a questo proposito, tanto in quel discorso quanto nella sua Enciclica. “Ad catholici sacerdotii”, ha una intimazione minacciosa. “Quia tu scientiam repulisti, repellam to ne sacerdotio fungaris mihi” (Poiché tu rifiuti la conoscenza, rifiuterò te come mio sacerdote. Os 4,6). Il Papa faceva tale intimazione ai suoi chierici perché sapessero il valore dello studio per il sacerdote. Vedete la intensità di pensiero di Don Bosco e di Pio XI, che corrisponde a quello di S. Gregorio. A quelli della Crocetta il 6-VI-1929 il Papa fece un discorso intorno allo studio della teologia e all'indirizzo dello studio salesiano: “Niente teologia senza ascetica, e niente ascetica senza teologia” (M.B. XIX, 161). Non devi darti ad una pietà cosi vaporosa che non abbia fondamento nella teologia. Che cosa si deve studiare dal prete e dal salesiano? Rispondono tutti e due, il Papa e Don Bosco: “Le scienze sacre e la cultura umana”. Parole del Papa nella Enciclica “Ad catholici sacerdotii”: insiste che prete sia rivestito di quel patrimonio di dottrina che è comune ai dotti del suo tempo. Insiste che i chierici non si contentino di quel lavoro forse bastava in altri tempi. Il Papa non vuole che il sacerdote faccia la figura di un ignorante. II sacerdote deve avere un insieme di cultura generale (quella del liceo può essere sufficiente) che gli permetta di dedicarsi volto che mi sta dinanzi. E attraverso il volto a ciò che vi si esprime: allo spirito che pensa; al cuore che sente; alla persona che là esiste. Leggendo nel suo volto, io afferro le ripercussioni che vi si esprimono: afferro lui stesso. Sul colloquio con Dio c'è nei Salmi quest'espressione: «Cercare il volto di Dio», parlare a Dio in faccia. Ma quando avviene questo? Essere religiosi significa: “cercare il volto di Dio”, vivere in rapporto al suo volto. Ciò si fonda nel significato della creazione, secondo le parole di Agostino: 310 35 1. 2. 3. “Per Te, o Dio, Tu ci hai fatti” (Confessioni 1, 1). Ma tutto questo io posso, se a casa mia resto con me, padrone di me stesso; se il mio spazio interno e aperto e se il mio interlocutore mi è chiaro, chiaro per lo meno nel senso che io intendo davvero lui. Nell'esteriorità in cui per lo più mi trovo, nella agitazione che mi sconvolge, Dio viene per così dire cancellato. Le molte immagini delle cose, le molte facce degli uomini fanno sì che il volto di Dio – questa realtà misteriosa nota a chi ha rapporto con Lui – non possa farsi chiaro, ne possa pensarsi. Fino a qui si ha però solo uno sporgersi, un proiettarsi dell'uomo, non ancora un dialogo. Per il dialogo occorre anche la voce seconda, la voce di Dio. Anzi – ciò dicendo noi rimettiamo finalmente l'idea in ordine – questa voce è la prima. Giacche noi possiamo parlare a Dio solo quando Egli prima ci fa parlare; possiamo rivolgere a Lui la parola solo se Egli la sveglia in noi. Ora come parla Dio in noi? E in che modo Egli ci da dà intendere la sua parola e ci fa rispondere con la nostra? II parlare di Dio e il nostro ascoltare e rispondere lo chiamiamo coscienza» (Gewissen). Con essa, si presenta una situazione particolare, che suscita meraviglia. Di continuo noi siamo colpiti dall'appello che «il bene» rivolge a noi, che rivolge a noi «il giusto», ciò che è degno d'essere e che dev'essere. Questo bene è immenso e insieme è semplicissimo. Di continuo c'è qualcosa che ci sollecita: «Fammi, realizzami, introducimi nel mondo, affinché si formi il regno del bene!». A ciò risponde una voce dal mio centro, la coscienza. Supponiamo che essa risponda cosi: «Sì, lo voglio; ma in che modo lo devo fare?». Consegue allora, diciamo così un silenzio, poiché il bene è infinito nel contenuto quanto semplice nella forma, a tal punto che non può essere semplicemente «fatto». Ma allora si costituisce «la situazione»; si è già forse costituita e aspetta. Con la situazione le cose così si configurano. Ininterrottamente il flusso del tempo scorre accanto a me. Ma di continuo pure le cose, le relazioni, gli accadimenti prendono figura: questa stanza, questa persona, questo colloquio, questo dolore. E io di fronte. In tale particolare figura il bene si qualifica per quello che ora e qui si esige da me. Esso si volge a me, mi guarda, mi chiama: «Fa' questo, ora, qui!» e la «coscienza» e la capacità di percepire l'appello, di comprenderlo e di decidersi: «Si, lo voglio!». Tutto quest'insieme può essere colto in forma puramente etica. Allora significa la consapevolezza di stare sempre sotto l'obbligo morale e la capacità di riconoscere via via il senso concreto di quest'obbligo dalle varie situazioni. Ma il nucleo di tutto quest'insieme è costituito dal rapporto religioso. Poiché “bene” è in fondo Dio, la sua santità; e l'esigenza di attuare il bene nel mondo è la sua voce. Ma da me Egli domanda che io realizzi nel mondo il regno del bene, il suo regno, là dove sto, di ora in ora, a partire dalla situazione che via via di continuo nasce intorno a me per mezzo di Lui, del suo agire e del suo potere, a opera della sua Provvidenza. La sensibilità per questo continuo appello del bene; la capacità d'intendere l'ora come la precisazione del suo comando e d'intendere i presupposti dati per la sua attuazione; afferrarla, da una parte nella prontezza di una vera obbedienza e dall'altra nella fiducia di poterla interpretare e di potersi decidere: tutto ciò è possibile unicamente sulla base di un atteggiamento interiore fatto di attenzione, di prontezza, di presenza in certo modo già attuata innanzi a Dio, e questo è il “raccoglimento” Solo un uomo raccolto intende l'«ora»; se essa ha un significato grande – massimo fu quello che il Nuovo Testamento esprime con le parole: “il tempo è compiuto” (Mc 1, 15); oppure un senso più semplice, in modo che una decisione importante cada come si conviene; oppure in senso normalissimo, il che però vuol dire che ogni ora della vita ha la sua incidenza in vista del regno di Dio. Tutto ciò è possibile unicamente in un atteggiamento interiore che appunto si chiama raccoglimento. Ma il nostro pensiero va avanti ancora. Tutta l'esistenza dell'uomo si attua nel rapporto “io-tu” fra Dio e lui. Le cose sono create dal comando di Dio: «Egli comandò ed esse erano là», dice delle stelle il Salmo 146. E sussistono in forza di questo comando che le tiene nella loro essenza e realtà. Ma per l'uomo non è così. Il racconto della creazione esprime la maniera tutta speciale con cui l'uomo fu creato con la mirabile immagine che raffigura Dio che si piega sul blocco di terra plasmato in corpo umano e gli inspira l'elemento della vita. Si vuol dire così che l'uomo sta nel rapporto creativo non come specie, ma come singolo; e come singolo è da Dio inteso. Dio lo plasma inserito nel rapporto “io-tu” verso di Lui stesso. In tal modo la vita dell'uomo si attua in un O. Introduzione 0.1 Lo studio 106 « Ut perfectus sit homo Dei, ad omne opus bonum instructus ». (Affinché l'uomo di Dio sia attrezzato ad ogni sorta di bene). « Attende tibi et doctrinae » (Curati di te stesso e della dottrina). L'opera a cui attendono i chierici studenti dev'essere secondo il pensiero del Papa. Pio XI parlando ai suoi seminaristi a questo riguardo diceva: « Questa opera è duplicata: a) Preparazione di intelligenza,b) e preparazione della volontà. Due cose inscindibili e indispensabili sotto pena di nullità di preparazione e di azione » (Oss. Rom., 17VI1933). Don Rua nella circolare dell'8-X-1893 cita il detto di S. Francesco di Sales che la scienza sacra e l'ottavo sacramento della gerarchia ecclesiastica. Pio XI insisteva sulla necessità essenziale e sulla reciproca interferenza dei due fattori: scienza e pietà. “Lo studio senza pietà e una vana e pericolosa, per quanto lodevole attività” . Si sente che il Papa vuole parlare di scienza, ma non vuole far scappare la pietà. La virtù sacerdotale ha bisogno della scienza perché sia virtù cosciente, che sa che cosa deve essere; perché la pietà senza lo studio ben presto si riduce a poca cosa insufficiente a tutto: pietà e studio devono formare una figura sola. S. Gregorio Magno nei “Morali”, libro 1 pag. 32, dice: “Nulla est scientia si utilitatem pietàtis non habeat, et valde inutilis est pietàs siscientiae discretione careat” (Non è scienza quella che non si avvantaggia colla pietà, e perfettamente inutile e la pietà se manca del discernimento della scienza). Allora il Papa in quel discorso, dando ai suoi seminaristi una medaglia di Don Bosco, commentava le sue parole coll'esempio del nostro Santo. Lo presentava come modello di preparazione, di vita e d'attività sacerdotale. Qui dopo solenni sentenze, profonde, che si possono citare intorno alla sua vita interiore, viene a rilevare la vita intellettuale di Don Bosco. “Sfuggi purtroppo a molti quella che fu la preparazione di studio di quest' uomo, e sono moltissimi coloro i quali non hanno l'idea di quello che Don Bosco diede allo studio: continuò per molto tempo a studiare intensamente”. Portò le parole del Papa per dare autorità a ciò che dirò. Potrei riferire mezza Enciclica « Ad catholici sacerdotii ». 106 36 309 CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 107-112. Dimensione Intellettuale 308 continuo dialogo. Attraverso tutto ciò che gli accade, come pure attraverso ogni ulteriore moto della sua vita, Dio gli parla. L'atteggiamento religioso può essere addirittura definito nel senso che l'uomo impara a condurre un simile dialogo. Nel senso che l'uomo immette in questo dialogo tutto ciò che gli avviene e che fa; che lo intende e lo realizza ordinandolo a Dio. Ma come potrebbe essere possibile questo se l'uomo vive in distrazione continua? Di continuo fuori di sé, stirato in ogni direzione dalle impressioni che lo colpiscono? Egli può realizzare questa sua esistenza nel dialogo senza dubbio solo se il centro in lui è vivo; se egli è attento, in ascolto, e in un ascolto pronto all'azione, ossia “obbediente”. Realmente l'uomo attua la forma fondamentale della sua esistenza soltanto a misura del suo raccoglimento. Quanto è stato detto circa il rapporto “io-tu” con Dio vale in forma attenuata anche circa i rapporti con altri uomini. Da qualche tempo si va affermando che la nostra vita poggia sulla costante realizzazione del rapporto “io-tu” verso l'altro uomo. Ci si rende conto che il grande pericolo di questa nostra epoca delle masse e delle macchine, consiste nella codificazione dell’uomo. Ci rende attenti che l’atto con cui si conosce un uomo si svolge in una maniera diversa da quella con cui si conosce una cosa. Davanti ad una cosa io dico: “questa qua”; davanti ad un uomo: “Tu là”. Così si rivela il significato di ciò che si chiama “persona”: d’un essere situato nella sua libertà. Allon stesso modo che nel rapporto “io-Tu” affiora il giusto comportamento nei riguardi dell’altro uomo: il rispetto la fedeltà l’amore. Ma questo è possibile soltanto in un certo raccoglimento. Il dissipato si comporta con gli uomini come fossero cose. Egli le enumera; le cataloga mediante slogans; le usa in vista di scopi e ne abusa. Solo quando si costituisce quella vigilanza interiore tutta speciale, quella attenzione mirata che chiamiamo raccoglimento, risulta possibile l'incontro con l'uomo in quanto uomo. Ma il pericolo dell'evasione dai veri incontri umani, e perciò la necessità di vedere in essi un compito del nostro tempo, crescono nella misura in cui aumenta il numero degli abitanti della terra e nella misura in cui, in connessione con ciò, la nostra vita viene in proporzione sempre maggiore regolata dalle macchine, le quali trattano ciò che esse toccano come cose. Ma dobbiamo andare ancora oltre. Perfino l'opera dell'uomo – diciamo con più cautela: l'opera umana di superiore livello – può essere compresa unicamente nel raccoglimento. Come è possibile afferrare un'opera d'arte nella sua essenza particolare se non in modo che si verifichi a suo riguardo qualcosa che rifletta il rapporto “io-tu”? Come si distingue la 37 maniera con cui un vero intenditore penetra nell'intuizione dell'esperienza artistica da quella con cui un mercante la degrada a valore commerciale? Evidentemente sulla base di una dedizione verso l'opera, un rispetto che solo nel raccoglimento si rende possibile. Naturalmente ciò costa fatica. Basta osservare qualche volta come la gente si comporta in una mostra d'arte o in una Sala di concerto. I più non entrano nel rapporto genuino con l'opera, ma solo in un rapporto che la “reifica”; lo si vede dal modo come essi molto in fretta assumono un atteggiamento critico, confrontano e disistimano, il che penò vuol dire che prendono l'opera d'arte come un oggetto. Anche qui occorre dunque raccogliersi, e lo si vede dalla faccia di chi guarda o di chi ode se è o non è disposto e capace di tanto. Anzi si dovrebbe poter fare ancora un passo avanti e dire che anche la natura la incontra correttamente soltanto colui che le va incontro da una sua intimità in qualche modo raccolta. In che cosa infatti si distingue lo sguardo di un uomo che afferra in un albero il mistero della vita vegetale legata al suo luogo – un mistero che congiunge la profondità della terra, la vastità dello spazio e l'altezza del cielo – dallo sguardo del tecnico forestale che osserva l'albero in vista del taglio, o da quello del commerciante di legnami che ne calcola il valore economico? Il discorso si potrebbe radicalmente ripetere a proposito di qualsiasi realtà naturale. E il pericolo massimo del nostro tempo, con il suo turismo di massa e con le sue vacanze convertite in affare, consiste appunto nella rarefazione progressiva di questo atteggiamento. quanto uomo chiunque è in cammino verso la maturità piena che vi è solo in Cristo Gesù. Dialogo che sa utilizzare ogni mezzo, anche il meno “clericale” per diffondere l’amore alla vita, la chiamata di Dio per ogni uomo, il dono di una santità condivisa ecc… Oggi come per don Bosco è necessario coniugare Dialogo con fermezza o certezza della verità. Penso a Don Bosco, ed al suo epistolare. Il 90% della sua corrispondenza è economica. Una economia di comunione come diremmo oggi, un’economia di Dono, che lo portò a non avere rispetto umano d’innanzi ad alcuno. 6.3 La congregazione salesiana oggi 6.3.1 Figure significative della vocazione religiosa salesiana Artemide Zatti – Coadiutore Don Giuseppe Quadrio – Sacerdote formatore Don Vincenzo Cimatti Missionario Strumenti Incontri formativi Colloquio personale Letture Partecipazione alla preghiera comunitaria Rileviamo un'altra volta il concetto esposto all’inizio di questa riflessione. La virtù del raccoglimento significa che ci si è resi chiaro conto, grazie all'indole, all'educazione e all'esperienza, che la vita oscilla fra l'intimità della persona e l'esteriorità del mondo, fra il centro profondo e il grande tutto. E che si è in qualche modo superata la dissipazione e si è vinta l'esteriorizzazione di cui s'è detto, e si è in grado di far sì che il centro sia libero e operante. Tale compito ha indotto in ogni tempo uomini a fondare speciali e rigorose regole di vita: quelle dell'anacoreta e del cenobita. Entrambi i concetti intendono nell'etimologia la stessa cosa: cioè l'uomo risoluto a trovare la realtà più vera e autentica; a tal punto risoluto da volere solo essa. Perciò egli si sottrae a tutto il resto e si volge del tutto verso il «regno interiore»: o come anacoreta, che vuol dire uno che anche esteriormente vive in solitudine; oppure come cenobita, che vive insieme con gli altri, tuttavia in una comunità la cui regola è fatta in modo da garantire il più possibile una solitudine. Egli ritrae la sua attenzione, le sue inclinazioni, le sue energie dal vasto mondo e le concentra nella propria intimità. Rivolge la 38 307 “Io per voi studio per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono disposo anche a dare la vita” “Sarei disposto a strisciare la lingua da Valdocco a Superga pur di evitare un solo peccato mortale” Questa è la sua passione per le anime, che sono dono di Dio e tutta la sua vita Coetera tolle: se le anime, dono di Dio riempiono tutta la sua vita, sino a consumarla, allora Lui deve essere vuoto di tutto per lasciarsi riempire da queste. Toglimi tutto il resto…è il grido poi divenuto Lavoro e temperanza salveranno la congregazione le agiatezze la faranno morire È lo slogan della sua poverà senza misura. Povertà radicale per sé per essere dono totale per i suoi ragazzi di qualsiasi longitudine o altitudine. Ansia che va a cercarli, che li accoglie nel punto dove sono che ama le cose che loro amano perché essi amino quello che è bene per loro e che l’educatore dona loro. Le Figli di Maria Ausiliatrice, Monumento vivente a Maria, vivono gli stessi tratti della spiritualità ma con la peculiarità del volto femminile. Mi permetto solo di ricordare, le parole di Don Bosco nell’incontro con il primo gruppo di ragazze, che a Mornese donarono la loro vita ponendola nelle mani di d. Bosco: “Procurate di vivere abitualemte alla presenza di Dio. Siate dolci, pazienti amabili. Vegliate sulle ragazze, tenetele occupate, crescetele ad una vita semplice di amicizia col Signore, schietta e spontanea”.105 1. Don Bosco fu uomo del suo tempo, incarnato nella sua storia. A volte dei grandi santi della chiesa si è guardato ai Santi spirituali, rimanendo affascinati da questi, mettendo in secondo piano i santi in maniche di camicia. Don Bosco fu così prete “Laico” al punto da poter da assumere la vera laicità portandola a Dio. Dialogò con tutti ma con il coraggio di essere prete sull’altare, in cortile, nei laboratorio, nelle case dei principi e dei Signori. Dialogò con la coscienza di dover anche difendere la verità qundo veniva uccisa questa nella coscienza delle persone, soprattutto quella dei suoi giovani. Ecco dove si inserisce la vastissima opera di scrittore, di giornalista, di difensore e diffusore dell’amore alla chiesa ed al papato. Dialogo che partiva dalla coscienza che egli era sempre educatore, di chiunque incontrasse perché in 105 306 MB 10,592 sua attenzione sempre più intensamente su Dio che vive dentro di lui e si abitua a stare dinanzi al suo volto e a udire la sua parola. Questo noi non lo possiamo perché viviamo nel mondo e vi abbiamo i nostri compiti; siamo vincolati agli altri in forme molteplici e ci sappiamo a essi obbligati. Ma dobbiamo diventare familiari anche con il nostro intimo, se non vogliamo appartenere alla folla dei “dissipati”. Tutto ciò non si ottiene senza sforzo, senza serio e prolungato esercizio; senza ascesi. Il termine – ne abbiamo gia parlato – indica in origine nient'altro che “l'esercizio”. Ora esercizio significa svegliare un'energia che dorme; sviluppare un organo atrofizzato; abolire una abitudine cattiva e formarne una giusta, e via dicendo. Per esempio, decido di non uscire anche se mi alletta, e rimango a casa e cerco di rientrare in me per mezzo di un lavoro tranquillo, di un libro, o anche per mezzo di una onesta riflessione su me stesso. E questo senza artificiosità e senza commedia, ma seriamente e pulitamente. Se a casa mia non c'è tranquillità, o se non ho una stanza tutta mia, allora entro in una chiesa, mi siedo e sto solo con me stesso. Oppure: non permetto alla mia radio di distruggermi la pace con il suo chiasso e fracasso, ma la chiudo. Resisto all'impulso di accendere la televisione e di restare poi per delle ore in sua balìa ma leggo qualcosa di ragionevole. Stessa cosa con le riviste illustrate, questi coacervi di sensazione, di indiscrezioni e di spudoratezza: mi vieto di lasciarmi possedere da esse neppure per un quarto d'ora. Se vado per la strada tutte le eccitazioni del mondo moderno mi bombardano, il traffico, chiasso, le persone, la pubblicità, le vetrine. Da ogni parte mi si chiama, mi si tira, mi si porta via da me. Un bell'esercizio resistervi; non lasciarsi trascinare qua e là; restar calmi e con se stessi – e via dicendo. L'uomo – quello d'oggi più di tutti – vuole sempre andare, parlare, sentire, fare tutto insieme con gli altri. Vuole sempre vedere qualcosa, che accada qualcosa. Vuole tutto ciò fino alla mania, e se non ce l'ha, di viene inquieto e corre a cercarselo. Chi ha capito quale prezioso bene sia il raccoglimento, deve farsi superiore a tutto ciò; diciamo con più modestia, deve sempre più cercare di farsene superiore. È realmente una mania; ed è difficile vincere le manie, perché lo stimolo allora e penetrato nei nervi. Ci vuol tempo prima che scompaia, è però possibile ridurlo ai limiti. Ma nello stesso tempo si deve realizzare anche il lato positivo: il rafforzarsi del mondo interiore, rientrare in possesso di se stessi, l'indipendenza nascente da dentro. II lettore voglia non vedere in questo nostro discorso una predica moralistica, ma voglia intenderlo realisticamente, come un discorso di esperienza; come un segnavia per una 39 vita che vale la pena di vivere. Poiché la dissipazione, il continuo vivere fuori, rende vuoti. Quando si cerca di rappresentarsi l'esito estremo d'un simile disgregato modo di vivere, si può arrivare a pensare che la fine sarà una noia disperata, interrotta da esplosioni di disperata impazienza. Dunque bisogna ribellarsi all'esteriorizzazione per amore della vita, affinché essa mantenga un suo significato. Questo sarà possibile solo se mi sottopongo spesso a esame: Come è passata questa giornata? Mi sono realmente controllato? O mi sono lasciato soltanto incalzare dalle cose? La mia vita è forse tale da rendermi incapace di rientrare in me stesso? E come è possibile cambiare? E domande che siano serie; non con la sleale rassegnazione di chi si arrende perché in fondo non vuole che le cose cambino. E poi e soprattutto: cercare il volto di Dio. Realizzare quella che è la verità fondamentale della mia esistenza: Dio è l'eternamente esistente, il solo vivente assoluto. Egli è qui. Egli è «Colui che io invece sono grazie a Lui; sono qui davanti a Lui; sono semplicemente perché Egli lo vuole. Questo “Egli ed io… io davanti a lui… io grazie a Lui”; questo stare in ascolto della sua parola; questo cercare e dire: “Tu, o Dio”- questo rende viva e salda la mia interiorità. Una simile interiorità è il contrappeso da opporre alla massa delle cose, alla moltitudine delle persone e all'agitazione degli eventi esterni; da opporre alla pubblicità, alla moda e alla reclame. Essa è anche – dopo mezzo secolo di tristi esperienze noi dobbiamo sottolinearlo – l'unico contrappeso reale da opporre alla potenza dello Stato. Dello Stato moderno, razionalizzato, tecnicizzato, il quale è sempre in procinto di diventare uno Stato di massa e come tale totalitario, il quale per dominare l'uomo non potrà che cercare di strappargli il suo «io», la sua interiorità. La Rivelazione ci dice che l'uomo è immagine di Dio. Ne segue che Dio è il modello originario dell'uomo, e quindi partendo dall'uomo ci si apre una via del tutto logica verso Dio. Possiamo allora di conseguenza dire che Egli è, nella più perfetta delle forme, raccolto: del tutto unito; del tutto intimo a Se stesso; che del tutto compenetra Se stesso con la sua vita, con il suo sentimento, con la sua conoscenza. Nella storia della metafisica occidentale c'è un tentativo di approssimazione all'essenza dello spirito che dice: un essere e tanto più elevato di rango quanto esso è ricco e, nel contempo, semplice. Lo spirito è semplice in senso decisivo, non potendo essere ridotto in parti; ma esso si articola con i suoi atti diversi e successivi nella successione del tempo; con le sue relazioni al corpo di cui è l'anima e alle cose a cui si volge. 40 Sì che lo vedo – rispose don Bosco Ebbene ti ricordi del Sogno che hai fatto a 9 anni?… Poi fatti venire i giovani con don Bosco, aggiunse Guarda ora da questa parte, spingi il tuo sguardo e spingetelo pure voi, e vedete cosa sta scritto…ebbene cosa vedi? Vedo montagne, poi mari, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari Leggo – dice un ragazzo - : Valparaiso Io leggo – diceva un altro - : Santiago Io, esclamava un terzo, li leggo tutti e due. Ebbene – continua la pastorella – parti ora da quel punto e avrai una norma di quanto i Salesiani dovranno fare in avvenire. Volgiti ora da quest’altra parte, tira una linea visuale e guarda. Vedo montagne, colline, mari. E i giovani aguzzarono lo sguardo ed esclamarono in coro: Leggiamo Pechino Allora don Bosco vide una grande città, attraversata da un largo fiume, sul quale erano gettati alcuni grandi ponti. Bene – disse la Pastorella – Ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Santiago a Pechino, fanne un centro nel mezzo dell’Africa e avri un’idea esatta di quanto debbono fare i salesiani. Ma come fare tutto questo? – esclamò Don Bosco – Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i salesiani pochi. Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli, e dei figli loro. Ma si tenga fermo nell’osservanza della Regola e nello Spirito della Congregazione. Ma dove prendere tanta gente? Vieni qui e guarda. Vedi là cinquanta Missionari in pronto? Più in là ne vedi altri e altri ancora? Tira una linea da Santiago al centro dell’Africa. Che casa vedi? Leggo dieci centri di stazione Ebbene, questi centri che vedi formeranno case di studio e noviziato e darnno moltitudini di Missionari, al fine di provvedere queste contrade. E ora volgiti da quest’altra parte. Qui vedi dieci altri centri dal mezzo dell’Africa fino a Pechino. E anche questi centri somministreranno Missionari a tutte queste altre contrade. Là c’è Hong Kong, là Calcutta più in là Madagascar… 104 6.2.7 Da mihi animas caetera tolle Il cuore della spiritualità di don Bosco è sintetizzato nel cartello posto da Lui steso fuori dal suo ufficio Dammi le anime: è essenzialmente una preghiera, Lui è il destinatario, le anime sono sue, non sono proprietà di nessuno. Io le prendo su di me, io le guiderò a nome Tuo, io vivrò passionalmente per loro. 104 MB 305 XVIII, 71 - - No, no, ripigliò il Santo, voglio dire che la Madonna è proprio qui, in questa casa ed è contenta di voi e che se continuato con lo spirito di ora, che è quello desiderato dalla Madonna … Il buon Padre s’inteneriva più di prima e don Bonetti a prendere un’altra volta la parola: - Sì, così, così. Don Bosco vuol dirvi che , se sarete sempre buone, la Madonna sarà contenta di voi. Ma no, ma no, si sforzava di spiegare don Bosco, cercando di dominare la propria commozione. Voglio dire che la Madonna è veramente qui, qui in mezzo a voi. La Madonna passeggia in questa casa e la copre con il suo manto. 103 Lo spirito supremo, Dio, è del tutto semplice. Egli possiede la pienezza della vita nella pura semplicità dell'essere. Egli è del tutto raccolto, a Sé identico, e perciò del tutto padrone di Sè e beato. a. 6.2.6 Le missioni La missionarietà è come il vertice di quella carità pastorale di cui abbiamo parlato all’inizio, che caratterizzò San Paolo, Francesco di Sales, Filippo Neri, Teresina di Gesù, e che don Bosco portò nel cuore sino a sognare di divenire Lui stesso missionario fra le genti perché “nessuno si perda di coloro che il Padre gli ha affidato” e ancora secondo il Vangelo di Giovanni “vi sono altre pecore che non sono di quest’ovile, anch’esse io devo condurre, perché diventino un solo gregge sotto un solo pastore”. Questo fu il sogno di don Bosco. Sogno e sogni che caratterizzarono la sua vita. Penso al sogno della Patagonia ed al sogno della Cina. La nostra opera di Evangelizzazione ha i caratteri della pedagogia salesiana, che con paziente inculturazione fonda con la crescita umana la comunità dei credenti in Cristo. Nella notte dal 9 – al 10 aprile 1886, sognò di trovarsi sopra un poggio, dalla cui vetta scorgeva una selva, ma coltivata e percorsa da vie e da sentieri. Di là volse intorno lo sguardo e lo spinse in fondo all’orizzonte; ma prima dell’occhio, fu colpito il suo orecchio dallo schimazzo di una turba innumerevole di ragazzi. Per quanto facesse per scorgere donde venisse quel rumore, non vedeva nulla. Finalmente vide un’immensa quantità di giovani che, correndo intorno a Lui, gli andavano dicendo: Ti abbiamo aspettato, Ti abbiamo aspettato tanto, ma finalmente ci sei; sei tra noi e non ci sfuggirai! Don Bosco non capiva e pensava che cosa volessero da Lui qui ragazzi; ma mentre stava contemplandoli come attonito, vide un’immenso gregge di agnelli guidati da una Pecorella, la quale, separati i giovani, e le pecore, e messi gli uni da una parte e le altre dall’altra, si fermò accanto a don Bosco e gli disse: Vedi quanto ti stà innanzi? 103 MB 304 XVII, 557 41 Comportamenti: dobbiamo fare attenzione alla condotta, all’immediatamente visibile e percepibile, alle ripetizioni, alle abitudini, percependo dove vi è il divario fra ideale e reale. Per il cammino di interiorizzazione tale? Quali sono i tuoi gusti? Cosa ti fa godere e cosa ti fa soffrire? Come reagisci di fronte agli insuccessi o successi? Quali sono state fino ad ora le tue crisi, o quelle che hai reputato Quali rapporti sono i rapporti positivi e perché? E quali fastidiosi o insignificanti? Registra le reazioni istintive… magari nella dinamica dello scherzo, gli automatismi e le concessioni. Dove vi è incoerenza fra valore proclamato e vissuto li dobbiamo scrutare con diligenza perché luogo rivelativi… felice la sua sollecitudine per i bisognosi, che fa il primo passo nei confronti della cugina Elisabetta, per la sua fedeltà nell’ora della prova per la sua gioia nel mattino di risurrezione. Maria è segno di ogni confidenza che si realizza in una meta È l’aiuto per chi intraprende una navigazione, come quella della vita, non sempre, tranquilla Don Bosco sperimento questo aiuto e questa presenza: Tutto ha fatto Lei Sintetico è l’episodio del colera e la protezione di Maria: “Una sera, udendo come tutti parlavano del male, che faceva strage in Torino e qui d’attorno a noi, ci esortò a sperare nella Madonna, in questa maniera: “Se voi, o miei cari, mi promettete di non commettere volontariamente alcun peccato, credo di potervi assicurare, che nessuno di voi sarà colpito dal colera” [...] Il colera, infatti, colpì con violenza anche sua madre. Avvisato, lasciò tutto e corse a casa. La trovò gravissima. Tornò in fretta in Oratorio, e supplicò Don Bosco che venisse a confessarla e benedirla. Abitava davanti alla chiesa della Consolata. Don Bosco, passando davanti alla colonna dell’Immacolata posta sulla piazza, l’additò a Batista e gli disse: “Essa guarirà senz’altro tua mamma se le prometti di consacrare la tua vita, quando sarai prete, a farla conoscere e farla amare”. Francesia accettò il patto. Salirono nella stanza dell’ammalata. Don Bosco la confessò e la confortò. Poi venne il medico, e come unica cura cavò sangue cinque o sei volte dalle vene di quella povera donna. “Nonostante la cura”, la mamma di Batistan guarì e visse ancora per 21 anni. Tra i 44 volontari dell’Oratorio, nessuno fu toccato dal colera. Un risultato ai limiti del prodigioso.” Ulteriormente la coscienza della Sua presenza costante: A Nizza Monferrato la sera del 23 Agosto1885, don Bosco ormai cadente e senza un filo di voce, con il suo segretario incontra le suore del Capitolo generale e entrando nel parlatorio: disse: - - 42 303 Oh dunque voi volete che io vi dica qualcosa. Se potessi parlare, quante cose vi vorrei dire! Ma sono vecchio, vecchio cadente, come vedete; stento persino a parlare. Voglio dirvi solo che la Madonna vi vuole molto, molto bene. E sapete, essa si trova qui in mezzo a voi! Allora don Bonetti, vedendolo commosso, lo interruppe e prese a dire, unicamente per distrarlo: - Sì, così, così. Don Bosco vuol dire che la Madonna è vostra Madre e che essa vi guarda e vi protegge. sua infanzia è stata segnata da sua madre, donna umile e forte che indicava il cielo. Questa ha affidato il suo Giovannino alla Mamma del cielo, invitandolo ad invocarla tre volte al giorno facendo memoria del mistero dell’incarnazione con la preghiera dell’Angelus. Sin da quel sogno dei nove anni don Bosco incontra Maria come aiuto, lui stesso la ricorda così, quando obbietta all’uomo dalle vesti bianche che lui è un povero ragazzo e che non sa come guidare quei monelli: - Io ti darò la maestra. Sotto la sua guida si diventa sapienti, ma senza di lei anche chi è sapiente diventa un povero ignorante.- Ma chi siete voi? Io sono il figlio di colei che tua madre ti insegnò a salutare tre volte al giorno. La mamma mi dice sempre di non stare con quelli che non conosco, senza il suo permesso. Perciò ditemi il vostro nome. Il mio nome domandalo a mia madre. In quel momento ho visto vicino a lui una donna maestosa, vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in ogni punto ci fosse una stella luminosissima. Vedendomi sempre più confuso, mi fece cenno di andarle vicino, mi prese con bontà per mano e mi disse: Guarda. Guardai, e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi. Al loro posto c’era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi e parecchi altri animali. La donna maestosa mi disse: - Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Cresci umile, forte e robusto, e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu lo dovrai fare per i miei figli. Guardai ancora, ed ecco che al posto di animali feroci comparvero altrettanti agnelli mansueti, che saltellavano, correvano, belavano, facevano festa attorno a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, nel sogno, mi misi a piangere. Dissi a quella signora che non capivo tutte quelle cose. Allora mi pose una mano sul capo e mi disse: - A suo tempo, tutto comprenderai. Maria aiuta Giovanni nel suo cammino di educatore, come guida ma anche come modello. Così per ciascun giovane Maria è il modello di ogni uomo e donna di ogni discepolo e discepola riuscita in pienezza. Essa è modello per la sua fede forte, 302 b. atteggiamenti: predisposizioni ad agire, frutto di sedimentazione e memorizzazioni passate che incidono incoscientemente su criteri di giudizio, di scelta, simpatie o antipatie, nervosismi ecc… la coscienza ha una sua storia o preistoria, prodotto di un laborioso e misterioso processo che ha avuto luogo dentro di noi a volte anche a nostra insaputa chi cui avvertiamo solo il risultato o le conseguenze. Essi toccano le aree strategiche dell’agire. c. sentimenti: ciò che si prova dentro in alcune circostanze… (affronto, emarginazione….in rapporto con l’esterno… luogo rivelatore dell’io). d. motivazioni: ciò che spinge realmente ad agire. Fattore dinamico direzionale che attiva l’agire, 43 Per il cammino di interiorizzazione Quali sono i miei desideri? Quali sono le cose per cui sono disposto a fare fatica? Quali sono le cose che mi lasciano freddo? Quali sono le cose che nella nostra società mi provocano maggiormente? compiere, forza di Dio per percorrere le Sue vie, luogo in cui l’ottimismo si rinnova perché incentrato più sulla misericordia che sulla paura del castigo, dona la gioia del perdono del Padre, ricostruisce e rinsalda la comunione, purifica le intenzioni, rinnova energie di cammino ecc… In chiave pedagogica allora Eucaristia e riconciliazione sono inscindibili, una pedagogia non umana ma divina che trova nel sono delle due colonne, un tracciato di crescita sicura in un contesto che don Bosco non aveva paura di definire un contesto di lotta: Figuratevi di essere con me sulla spiaggia del mare, o meglio sopra uno scoglio isolato, e di non vedere attorno a voi altro che mare. In tutta quella vasta superficie di acqua si vede una moltitudine innumerevole di navi ordinate a battaglia…, armate di cannoni e cariche di fucili, di armi di ogni genere, di materiale incendiario ed anche di libri. Esse si avanzano contro una nave molto più grande e alta di tutte, tentando di urtarla…il vento è contrario e il mare agitato sembra favorire i nemici. In mezzo all’immensa distesa del mare si elevano dalle onde due robuste colonne, poco distanti l’una dall’altra. Sopra di una vi è la statua della Vergine Immacolata,, ai suoi piedi pende una largo cartello con questa iscrizione: “Auxilium Christianorum”; sull’altra, sta un’Ostia…e sotto un altro cartello con le parole “Salus Credentium”. Il comandante supremo della grande nave, che è il Romano Pontefice, vedendo il furore dei nemici e il mal partito nel quale si trovano i suoi fedeli, convoca intorno a sé i piloti delle navi secondarie…il papa sta al timone e tutti i suoi sforzi sono diretti a portare la nave in mezzo alle due colonne. Il combattimento si fa sempre più accanito; ma inutili riescono gli sforzi della flotta nemica: la grande nave procede sicura e franca nel suo cammino. Avviene talvolta che, percossa da formidabili colpi, riporta nei suoi fianchi larga e profonda fessura, ma subito spira un soffio dalle due colonne e le falle si rinchiudono e le ferite si otturano… Il papa, superando ogni ostacolo, guida la nave in mezzo alle due colonne, quindi con una catenella che pende dalla prora, le lega a un’ancora della colonna su cui vi è l’Ostia ed un’altra a quella su cui è collocata la Vergine Immacolata. Allora succede un gran rivolgimento: tutte le navi nemiche fuggono, si disperdono, si urtano, si fracassano a vicenda. 102 6.2.5 I sacramenti Nel cammino educativo compiuto da don Bosco con i suoi ragazzi don Bosco fa esperienza della maternità potente di Maria. La 44 102 MB 301 VII,169 affinchè il male non domini la loro fragilità. Questa presenza ci apre alla conoscenza vitale del mondo giovanile e alla solidarietà con tutti gli aspetti autentici del suo dinamismo. e. Per il cammino di interiorizzazione Quanto la mia fede orienta e cambia il mio agire? Dove ho sperimentato questa incidenza che trasforma? Quali sono invece gli ambiti che vanno parallelamente per al 6.2.4 I sacramenti In questa prospettiva pedagogica i sacramenti dell’Eucaristia e della riconciliazione sono “riletti” in chiave pedagogica non tanto per i “degni” e per i “perfetti” ma per l’homo viator, come sostegno del e nel cammino di crescita. da qui l’insistenza di don Bosco per la comunione frequente contro il costume anche fra i seminaristi dell’Eucaristia solo in momenti particolari. La sua esperienza da seminarista ne è una prova: La vita religiosa era molto accurata. Ogni mattina la Messa era accompagnata dalla meditazione e dal rosario. A mensa stavamo in silenzio: si ascoltava la lettura della “storia Ecclesiastica” del Bercastel. Confessione ogni quindici giorni. Chi voleva, poteva accostarsi alla confessione ogni Sabato. La Santa Comunione si poteva ricevere solo alla Domenica e alle altre feste. Se qualcuno voleva nutrirsi dell’Eucarestia durante la settimana, doveva compiere una disubbidienza. Mentre gli altri scendevano per la colazione, entrava furtivamente nella chiesa di San Filippo. Ricevuta la Comunione, poteva raggiungere gli altri mentre entravano a scuola o nella stanza di studio. Questa manovra era proibita dal regolamento. Ma i superiori, che vedevano benissimo ciò che capitava, non dicevano niente. Tacitamente approvavano. Usando questo strano sistema, ho potuto fare la comunione moltissime volte. E posso dire che essa fu il più efficace nutrimento della mia vocazione. vangelo? Questo particolare della vita seminaristica, che considero negativo, è stato ora cancellato dall’arcivescovo Gastaldi. I chierici, se si sentono preparati, possono ricevere l’Eucaristia tutti i giorni. (MO, 75) - - 300 opzioni di fondo: radice, tesoro e cuore Eucaristia che non è solo partecipazione alla celebrazione ma è visita alla presenza reale di Gesù che ci ricorda un camminare con noi (Lc 24), un rinnovo costante delle motivazioni del nostro agire, un diffondere nella giornata il dono della sua amicizia. In questa linea si colloca la celebrazione del Sacramento della riconciliazione, sacramento pedagogico per eccellenza: luogo della verità, incontro con il modello esclusivo, sintesi dei doni attesi dall’uomo, rinnovo per un cammino ancora da 45 Non si tratta di vivere una costante auto analisi ma assumere gradualmente una attenzione a se stessi…coscientizzando per che cosa o per chi sto agendo E questo lo si compie con una apertura sempre più ampia e vagliata agli apporti che possono venire da dentro, da un formatore, da una comunità , dal mondo, distanziandosi da ogni risentimento ma anzi riconoscendo in tutto ciò che gli assomiglia il luogo dove porre passi di crescita. Queste sono frutti di INCONSISTENZE che creano: spaccature (nervosismo, tensione nei rapporti, perdita interesse, difficoltà di realizzazione…) squilibrio di uso delle energie vitali attribuendo ad alcune cose troppa o troppo poca attenzione… (essere benvoluto…) proiettando una luce diversa sulle relazioni con Dio e gli altri divenendo perdita di libertà… essendo inconscia e solo visibile nelle conseguenze ( senso di fallimento e impotenza che invade tutto) automatismo non scelto che mette in atto primariamente difesa, negazione, proiezione e razzionalizzazione dura morire il passo grande è riconoscere la responsabilità individuale Per SUPERARLA è necessario allora: che non significa cancellarla ma ristabilire unità interna convertendo dinamismo centrifugo in centripeto: Dall’IO a DIO attraverso: - atteggiamento di responsabilità sulle proprie inconsistenze: coraggio di ammetterle con precisione e confronto quotidiano (negarle è subirle, scaricarle su altri è lanciare un boomerang, giustificarle o razionalizzarle o peggio nasconderla è suicidarsi a lungo termine) - rinuncia intelligente: sapere dire dei piccoli no significa staccare dipendenza da inconsistenze - Approdo alla libertà: dai no al distacco graduale dall’affetto nei confronti dei bisogni amando ciò che è chiamato ad essere. - Far girare la vita attorno al centro: ecco il credente, questo uifica anche nelle cadute che non sono viste se non nella prospettiva della gradualità del cammino. No impeccabilità ma lavoro umile e lento di presa di coscienza e possesso di sé. 46 6.2.2 Il quotidiano Da quanto detto è conseguente che la Spiritualità salesiana è essenzialmente una spiritualità del quotidiano quale: una spiritualità semplice – secondo lo stile teresiano – santa giovane una spiritualità non degli intervalli ma continua: cogliendo l’origine, il fine e la presenza di Dio in ogni azione, sentendo la necessità di pregare Dio senza sosta, in un dialogo semplice e cordiale con Cristo vivo e compiendo tutto per amore. Una spiritualità che non esclude nulla di buono ma eleva ogni realtà. Don Viganò amava parlare giustamente di liturgia della vita invocando per ogni componente della Famiglia salesiana la “grazia dell’unità”, quale dono in cui tutto in Dio è armonizzato, senza schizzofrenie, senza divisioni nè lacerazioni alcune. È la dimensione contemp-attiva della vita salesiana. Ecco la centralità del cortile, del laboratorio, della scuola nella nostra spiritualità. Di don Bosco si diceva “viveva come se vedesse l’invisibile” 6.2.3 L’educazione Il sistema Preventivo di don Bosco è racchiuso nella triade di: ragione – religione – amorevolezza. Cost. 38. [Per compiere il nostro servizio educativo e pastorale, Don Bosco ci ha tramandato il Sistema Preventivo.] “Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l’amorevolezza”: fa appello non alle costrizioni, ma alle risorse dell’intelligenza, del cuore e del desiderio di Dio, che ogni uomo porta nel profondo di se stesso. Associa in un’unica esperienza di vita educatori e giovani in un clima di famiglia, di fiducia e di dialogo. Imitando la pazienza di Dio, incontriamo i giovani al punto in cui si trova la loro libertà. Li accompagniamo perchè maturino solide convinzioni e siano progressivamente responsabili nel deliacto processo di crescita della loro umanità nella fede. Cost. 39. La pratica del Sistema Preventivo esige da noi un atteggiamento di fondo: la simpatia e la volontà di contatto con i giovani. “Qui con voi mi trovo bene, è proprio la mia vita stare con voi”. Stiamo fraternamente in mezzo ai giovani con una presenza attiva e amichevole che favorisce ogni loro iniziativa per crescere nel bene e li incoraggia a liberarsi da ogni schiavitù, 299 Cercai di farli tacere usando pugni e parole. In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi.Aggiunse:- Dovrai farteli amici con bontà e carità, non picchiandoli. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa cattiva, e che l’amicizia con il Signore è un bene prezioso. Confuso e spaventato risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante, che non ero capace a parlare di religione a quei monelli.In quel momento i ragazzi cessarono le risse, gli schiamazzi e le bestemmie, e si raccolsero tutti intorno a colui che parlava. C. Una santità per tutti, da proporre a tutti, feriale, senza eccezionalità: “noi facciamo consistere la santità nelle stare molto allegri” tanto che a Domenico Savio proibisce ogni tipo di penitenza ed ogni eccezionalità di percorso spirituale Filippo Neri è il secondo ispiratore dell’opera e dello Spirito del santo dei giovani. Due dimensioni sono emergenti: - L’oratorio: come Casa che accoglie, parrocchia che evangelizza scuola che avvia alla vita e cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria - La Gioia: è il secondo input preso da s. Filippo che innesca una catena di modalità di accostarsi alla vita che sono: - la fiducia costante nella provvidenza, per la quale regna il “non temere” di Gesù o il “Nulla ti Turbi” di S. Teresa la grande - l’ottimismo nella lettura degli eventi e della vita - la positività nel guardare e nell’accostarsi ad ogni giovane nel quale avvi sempre un punto accessibile al bene perché ispirandosi all’umanesimo di S. Francesco e di s. Filippo , don Bosco credette alla risorse umane e sovrannaturali dell’uomo, pur non ignorandone le debolezze - lo stile di libertà e di famigliarità che apre alla confidenza - il clima di festa quale via ed anticipazione del Paradiso. Don Bosco visse nella letizia diffondendo gioia ed educando ad essa 298 2.2 Il silenzio 11 La vita dell’uomo si svolge fra il silenzio e la parola; fra il tacere e il parlare. Sono poli affini a quelli considerati nella meditazione del raccoglimento. Si vuol dire che la parola è “spirituale”; ma questo non è esatto; essa è umana. In essa quella unità di materia e spirito che si chiama “uomo” raggiunge il suo massimo affinamento. Nel suono formato dal fiato fatto vibrare nella gola e nel petto, chi parla esprime ciò che egli interiormente intende. Prima egli ha il proprio pensiero dentro di sé, lo pensa, lo sente. Ma è nascosto. Poi egli lo traduce in un quid composto di suoni e rumori, è così si rivela a chi ascolta. Costui capisce ciò che intende chi parla, può rispondere, e si sviluppa in tal modo il dialogo. Tutto ciò e meraviglioso, è un grande mistero. Chi arrivasse a capirlo, avrebbe capito l’uomo. E non lasciamoci frastornare da banali teorie naturalistiche, le quali vorrebbero derivare la parola dai suoni espressivi dell’animale. I suoni animali possono esprimere quanto vogliono la paura o il dolore o la seduzione o altro: con tutto questo essi non sono ancora parole. La parola nasce solo quando la struttura sonora comunica un significato che è stato prima pensato, una verità. Di questo però soltanto l’uomo è capace, perché soltanto in lui c’è lo spirito personale. Quando un animale che vive con l’uomo sembra che faccia la stessa cosa, è un’illusione. Quello che l’animale ci fa sentire non è una comunicazione, ma un’ ”espressione”, anche se a volte assai complessa. L’atto di inserire nelle vibrazioni di un suono, una verità della vita, della scienza o della religione, lo può soltanto l’uomo. La parola è una delle forme fondamentali della vita umana; l’altra forma è il silenzio, ed è un mistero altrettanto grande. Silenzio non vuol dire soltanto che non si dice una parola o non si estrinseca un suono questo soltanto non è silenzio; anche l’animale è capace di tanto, e più ancora lo è un sasso. Silenzio è invece quello che si verifica quando l’uomo, dopo aver parlato ritorna in se stesso e tace. Oppure quando egli, potendo parlare, rimane zitto. Tacere può soltanto chi può parlare. Nel fatto che colui che parlando sarebbe “uscito fuori”, resta nel proprio riserbo interiore, in ciò consiste il silenzio: un silenzio che sa, che sente, che vibra di vita in se stesso. 11 GUARDINI R., Virtù. Temi e prospettive della vita morale. Morcelliana, Brescia 20014, pp. 181-208. 47 Le due cose ne fanno una sola. Parlare significativamente può soltanto colui che può tacere, altrimenti sono chiacchiere; tacere significativamente può soltanto colui che può anche parlare, altrimenti è un muto. In tutti e due questi misteri vive l’uomo; la loro unità esprime la sua esistenza. Ora, essere padroni del proprio silenzio è una virtù; su di essa vogliamo riflettere. Chi non sa tacere, fa della sua vita ciò che farebbe chi volesse espirare e non inspirare. Solo a pensarci ci viene l’angoscia. L’umanità di chi non tace mai, si dissolve. Parlando, ripetiamolo, l’intimo dell’uomo viene fuori. Ciò che io sento, penso, progetto, lo so anzitutto solo io; non appena lo traduco nella parola, si fa manifesto, si colloca nello spazio tra me che parlo e chi mi ascolta. In tal modo io dono, a chi ascolta, di partecipare a ciò che posseggo intimamente. Più di un conflitto si risolve nel semplice fatto che la parola lo porta fuori, all’aperto. Ma esistono esperienze di genere contrario. Quando uno ha compiuto un’azione generosa o delicata, sa benissimo che se la dicesse si guasterebbe. E allora egli la copre con il silenzio e là essa resta con lui. E se un giorno in un’ora oscura egli dovesse dubitare del senso della vita, allora quell’azione riaffiora in lui a giustificargli l’esistenza. Parlando, realizziamo la comunione tra noi. Quando due persone scambiano le loro idee circa una questione, le parole vanno e vengono tra i due: domanda e risposta, affermazione e obiezione, si avanza in chiarezza, si scende in profondità, finchè arriva il momento in cui entrambi sanno: la cosa sta così! Allora essi hanno comunione nella verità: un meraviglioso modo di essere insieme. Ma ci sono anche ore in cui la comunione non si vuole; in cui la verità contemplata interiormente non ha bisogno dell’altro. Per esempio una persona entra in una chiesa, ossia in un edificio in cui la presenza di Dio si rende sensibile e vi si siede. Sente le colonne che ascendono tutte intorno, lo spazio che lo cinge, vede le opere sacre, e in Lui si fa silenzio. Ciò di cuiegli ha allora interiore esperienza non appartiene alle parole. Chi cercasse allora di dire parole ne avrebbe detrimento. Parlando, l’uomo entra nella storia. Ecco, per esempio, una situazione in cui qualcosa deve essere deciso e l’uomo si domanda: Deve avvenire questo oppure quello? Se poi egli si decide e lo dice: Io la penso così e così, si ha allora storia. Giacché la parola ha peso, l’’uomo deve garantire per essa. La parola è una potenza; il nesso di causa ed effetto entra in atto, ed egli stesso ne viene afferrato. Ma se egli non vuole entrare nella storia, allora tace e si ritira nel suo riserbo. 48 Il “da mihi animas” sia una invocazione rivolta a Dio; la passione pastorale si fonda infatti su una solida vita spirituale, che fa riferimento a Dio Padre di tutti, a Gesù Buon Pastore, allo Spirito Animatore. Il servizio pastorale è espressione di un amore “più grande”; il ministero si fonda sulla sequela; l’apostolo Pietro può pascere gli agnelli del gregge di Cristo, perchè ama il Signore Gesù più degli altri. Il frutto carismatico della passione pastorale è la presenza tra i giovani e tra la gente; lasciamo tutto ciò che ci allontana dai giovani! La nostra presenza sia cordiale, aperta, accogliente, amorevole; essa sia costante e continua; la presenza tra i giovani sia animatrice e propositiva; sia vigile e preveniente. Questa è l’”assistenza salesiana”, che è un vivere insieme, un comunicare, un proporre la fede”.100 In questo ancora una volta don Bosco ci è maestro: Combal, professore all’università di Montpellier e vera celebrità medita, fu chiamato al letto dell’infermo don Bosco, quando questi era in viaggio a Marsiglia. Il dottore esaminò con attenzione don Bosco. Per più di un’ora lo interrogò, stette alquanto a pensare e non diceva nulla. Ebbene? Interrogò don Bosco Lei, rispose il medico, ha consumato la vita con troppo lavoro. È un’abito logoro, perché sempre indossato i giorni festivi, e i giorni feriali. Per conservare tuttavia quest’abito ancora un po di tempo, l’unico mezzo sarebbe di riporlo in guardaroba. Voglio dire che per lei la medicina principale sarebbe l’assoluto riposo. Ed è l’unico rimedio, al quale non posso assogettarmi, rispose sorridendo il 101 servo di Dio . B. La bontà di Francesco di Sales divenne per don Bosco Amorevollezza per i suoi ragazzi, amorevolezza che può essere racchiusa in alcune parole chiavi: Apertura e cordialità, capacità di fare il primo passo, rispetto e pazienza ad oltranza. Affetto di padre, fratello ed amico Capaci di corrispondenza d’amicizia Il sogno dei 9 anni traccia un percorso d’apostolato: Mi pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una grande quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro. 100 CEREDA F., Lettera ai confratelli dell’Ispettoria ILE, Maggio ’99. 101 MB 297 XVII, 57 finalmente raccogliere i giovani più abbandonati e più in pericolo di incamminarsi per una cattiva strada. Potrò dar loro la possibilità di diventare amici del Signore.” Guardando alla vita di Don Bosco, dei suoi esordi, comprendiamo la scelta di S. Francesco come s. Protettore e modello Tre mi sembrano essere le linee guida A. il suo essere pastore zelante, instancabile B. il suo essere dottore della carità, che fece dell’umanità accogliente e buona la via privilegiata dell’evangelizzazione C. il suo annuncio di una santità per tutti. Nella sua “Filotea” egli traccia le linee guida per una santità semplice, quotidiana, laicale e non esclusiva – escludente, nè eccezionale I tre caratteri che abbiamo enunciato di Francesco di Sales solcarono la vita di don Bosco al punto da divenire linee imprescindibili di percorso A. La carità pastorale di S. Francesco che poi fu di don Bosco nasce da quel “Caritas Christi urge nos” di Paolina memoria, che non lascia tranquillo il cuore del pastore quando sa che ancora un’ultima pecorella a cui tiene profondamente è fuori dall’ovile sicuro della felicità eterna. È una carità che si spinge sino alla temerarietà, che è carità senza misura, perché il Cristo non ha avuto misura nell’amore verso noi. Don Bosco non si risparmiò in nulla, sino all’ultimo. Don bosco andò al di la dei parametri del “clericale” per un’attenzione all’umanità totale perché totale era il suo coinvolgimento. “L’anima, ossia la vivacità e la vitalità di ogni nostra opera, è data dalla passione pastorale, cioè dallo slancio e dalla gioia di comunicare il vangelo ai giovani, soprattutto ai più poveri, e di farli incontrare con il Signore Gesù. Il cuore unificante della vita di Don Bosco è stato il “da mihi animas”; il centro di una vita frammentata, come è la nostra, è dato dalla salvezza della gioventù; l’identità delle nostre comunità, impegnate in molteplici e disparate iniziative, è chiaramente manifestata dal desiderio “di vedere i giovani felici nel tempo e nell’eternità”. La passione pastorale è il terreno fecondo da cui si sviluppa il senso pastorale, ossia la capacità di leggere le situazioni, di intuire possibilità inedite per causa del vangelo, di osare fino alla temerarietà. […] 296 Il discorso potrebbe continuare. Tutto ciò che ha d'importante la vita umana oscilla fra questi due poli della vita. Per lo più i poli non sono due ma uno solo, e questo allora non e veramente «polo», che ha bisogno del proprio polo opposto per essere elemento vivo; per lo più il parlare a semplicemente sovverchiante, perché l'uomo non pub tacere, anzi non vuole affatto tacere, dato che, tacendo veramente, entra in se stesso e questo gli a intollerabile. Rientrando vede tutto ciò che in lui c'è di misero, di sprovveduto, di corrotto e fugge via da se nelle parole. Solo nel silenzio si attua la conoscenza autentica. Conoscenza non e semplicemente notizia. Anche questa e senza dubbio buona e indispensabile. Si sa per esempio che una persona è malata e soffre. Ci si preoccupa, si cercano rimedi, o si chiama il medico, e tutto è in ordine. Invece chi mira alla conoscenza si domanda: Che cosa è mai questo, il dolore? Che cosa segue a causa del dolore in un'esistenza, quando il dolore viene interiormente accettato, vissuto, oppure respinto? E, nel caso di quest'uomo che soffre, come incide il dolore nella sua vita? Sono domande che non trovano risposta finche se ne parla. O forse una risposta estrinseca; non di certo una intrinseca che comprende e coglie l'essenza. A chi parla sfugge precisamente ciò di cui importa: l'intimo termine di confronto; lo sguardo sull'esistenza che ha davanti; l'intuizione che colga il modo come questa singola irripetibile esistenza si svolge. Per tutto ciò io devo concentrarmi; devo far silenzio, pormi interiormente dinanzi a ciò che intendo, penetrarlo identificandomi con il suo sentimento. Allora, nei buoni momenti, mi si fa chiaro: in quest'uomo sofferente avviene cosi e cosi. Questo solo e conoscenza, alba di verità. Chi non sa tacere, non la sperimenta mai. E ciò che vale della conoscenza vale anche del rapporto umano. Esso consiste in buona parte nel dare agli altri qualcosa di se stessi: una simpatia, un aiuto, una compagnia, lino alle forme di comunione completa. Ma pub uno dar via qualcosa di se stesso, se non possiede affatto se stesso? Chi non fa che parlare, non si possiede realmente, giacché scivola via di continuo da se stesso, e ciò che egli dona agli altri non sono che vacue parole. E finalmente: solo nel silenzio io pervengo davanti a Dio. Ciò è a tal punto vero che si è potuto fondare sul silenzio intere esistenze e farne una regola di vita. Esistono ordini religiosi di tal genere: impresa audace che, quando sia saggiamente impostata, conduce molto avanti nel silenzioso regno di Dio, ma che può farsi anche pericolosa dove manchi la generosità e la saggezza. Ma lasciamo stare questa condizione, e restiamo con la nostra vita d'ogni giorno. 49 Il principio d'ogni vita religiosa consiste nel farsi consapevoli che Dio è non si tratta semplicemente d'un sentimento o d'un'idea pensata, ma di realtà. Dio e più reale di me; la realtà autentica, in se stessa fondata, eterna. Ogni seria vita religiosa conduce all'esperienza che Dio è e che io sono soltanto davanti a Lui e in forza di Lui. Ma Dio non e soltanto reale, bensì è «Qualcuno», Lui stesso. In queste meditazioni si a già parlato del modo come la Scrittura esprime tutto ciò. Essa parla del suo volto: «Mostraci, o Signore, il tuo volto, e saremo salvi», dice il Salmo. Questa esperienza ci e familiare? Sappiamo qualche cosa del volto di Dio? Sappiamo il significato delle parole della Scrittura: «Dio si volge a me ... Egli mi guarda ... Egli mi pensa ...»? Solo allora potremo dire con significato e a giusto titolo: «Tu, o Dio ...». Abbiamo mai pensato quanto sia meraviglioso fatto che io possa dire a Dio: «Tu»? Il fatto che Egli sia per me addirittura il vero «Tu»? Essenziale a tal punto che a un orante si poterono rivolgere queste parole: «Dio e l'anima tua, e null'altro al mondo». Alla domanda dell'orante: «Signore, e gli altri?», la risposta fu: «Vale per tutti Dio e l'anima tua e null'altro». A questa realtà intima – «Dio e io» – non si perviene parlando, ma soltanto tacendo. Quando ci si raccoglie, lo spazio interiore si apre e la divina Presenza può annunciarsi. Tale silenzio bisogna impararlo; nessuna virtù arriva a noi al volo. Occorrono a questo scopo disposizioni: l'uomo che guarda dentro, non quello che non guarda quasi se non fuori. Ma questa sola disposizione non è sufficiente. Essa può rendere bensì l'uomo riflessivo, attento ai processi del proprio animo, serio, forse perfino malinconico. Ma tutto ciò è oscillante, esposto agli stati d'animo, alle esperienze vissute nel momento, e può a ogni istante essere contraddetto e sconvolto da fuori. Dobbiamo perciò darci da fare. Dobbiamo difenderci contro l'ininterrotto fiume di chiacchiere che percorre il mondo, difenderci come uno che ha il petto oppresso e cerca di assicurarsi il respiro. Altrimenti qualcosa inaridisce in noi. Ma il chiasso esteriore è soltanto una metà, e forse neppure quella più difficile da superare. L'altra metà è il chiasso interiore: il caos dei pensieri, il groviglio del desideri, le inquietudini e le angosce dello spirito, il peso delle depressioni, il muro delle ottusità, e tutte le altre cose che si ammucchiano nel nostro mondo intimo come detriti sopra una sorgente occlusa. Dobbiamo prendere tutto ciò sul serio. Elemento d'un giusto comportamento di vita è anche l'esercizio per imparare a tacere. Esso comincia con il tenere concretamente la bocca chiusa tutte le volte che l'esige la fiducia altrui, il dovere professionale, il tatto, rispetto della vita del prossimo. 50 6. Lo Spirito Salesiano 6.1 D. B. – Biografia e ritratto spirituale98 BOSCO G. (San), Memorie, Trascrizione in lingua corrente di Teresio Bosco, LDC, Torino Lumann, 200511 BOSCO T., Don Bosco. Una biografia nuova, LDC, Torino 1978. BROCARDO P., Don Bosco profondamente…, oc. 6.2. La Spiritualità Giovanile Salesiana99 6.2.1 Le origini “Questo era il luogo che la Provvidenza ci assegnava per la prima chiesa dell’oratorio. Per raggiungerlo si doveva passare per la porta dell’ospedale, percorrendo il piccolo viale che separava l’edificio dal Cottolengo e salire per la scala interna fino al terzo piano. Chiamammo l’Oratorio “di San Francesco di Sales” per due ragioni: - La Marchesa Barolo aveva l’intenzione di fondare una Congragazione di preti sotto la protezione di questo santo, e aveva fatto dipingere l’immagine di San Francesco di Sales all’entrata del locale che adattammo ad Oratorio. - Il nostro ministero esigeva grande calma e dolcezza. Ci eravamo perciò messi sotto la protezione di San Francesco di Sales perchè ci ottenesse da Dio la sua straordinaria mansuetudine e il suo successo nell’apostolato. C’era anche un’altra ragione. Gli errori contro la religione e specialmente il protestantesimo cominciavano ad insinuarsi pericolosamente nei nostri paesi, specialmente nella città di Torino. Ci mettevamo sotto la protezione di San Francesco di Sales perchè ci aiutasse ad imitarlo nella difesa della fede. 8 dicembre 1844. E’ la festa di Maria Immacolata, fa molto freddo e sta nevicando in maniera impressionante. Con il permesso dell’arcivescovo benediciamo la sospirata cappella. Celebro la Santa Messa, e molti ragazzi fanno la loro confessione e comunione. Durante la Messa, piango di consolazione perchè l’Oratorio mi sembra ormai una cosa fatta. Potrò 98 Sono armonizzazioni con gli orientamenti del dicastero della Formazione pubblicati il 24 luglio 2005 99 VECCHI J. E, Spiritualità…, oc, pp 22-36. CAVIGLIA A., Conferenze…, oc,, pp, 9-26. DON BOSCO, Vita del giovanetto Domenico Savio, Besucco Francesco, Magone Michele. 295 Dovere dell'esempio Dovrei trattare del nostro contegno in mezzo ai giovani, ma è tardi.. Ricordate solo cosa dice Don Bosco: “ Uno sguardo, un sorriso, una parola imprudente possono essere malinterpretate dai giovani i quali furono giä vittima delle umane passioni”. Noi figli di Don Bosco nel nostro modo di vivere, nel contegno esterno, nel parlare, sorridere, guardare, camminare dobbiamo avere quel non so che di indefinibile che si chiama riserbo; insomma avere un contegno che impone ai giovani la pedagogia della castità. Noi educhiamo i ragazzi soprattutto con il nostro esempio. E Don Bosco che ce lo ricorda nella Circolare del 5-II-74: “ La moralità degli allievi dipende da chi li ammaestra, da chi li dirige. Se pertanto vogliamo promuovere la morale e la virtù tra loro, dobbiamo possederla noi e farla risplendere nelle nostre opere, discorsi, in tutta la nostra vita”. Ed ancora nella stessa Circolare termina con queste parole che devono formare il ricordo dei nostri Esercizi: “ Il salesiano deve accoppiare alla povertà del vivere una esemplare osservanza delle Costituzioni è lo splendore della sua purezza”. E tutta un programma di vita: Se avremo la purezza nel cuore, la comunicheremo ai nostri giovani, come Don Bosco istillò a tutti la sua virtù angelica. Un chek up su come la si vive, sull'educazione degli occhi e del cuore e della mente, sull'uso dei mezzi di comunicazione. "Beati i puri di cuore perché vedranno Dio". L'impurità porta a non vedere Dio dove c'è e a crederlo dove non è. 294 L'esercizio porta inoltre a tacere talvolta anche quando si potrebbe parlare, soprattutto quando ciò potrebbe fare effetto: starsene zitti proprio allora è un ottimo esercizio per acquisire dominio sulla smania di parlare. E’ un bello sforzo quello di chi si fa in genere superiore a un vivere tutto fatto di chiacchiere. Quante cose superflue noi diciamo in un giorno, quante cose sciocche! Dobbiamo imparare a capire che il silenzio è bello; che non è un vuoto, ma vita genuina e colma. Di più ancora, bisogna imparare il silenzio interiore; i calmi indugi sulle domande importanti, sui compiti gravi della vita, sui problemi riguardanti una persona che ci deve stare a cuore. Allora noi faremo una singolare esperienza: che il nostro mondo interiore è vasto; che in esso si può andare sempre più a fondo. Agostino ci ha detto a questo riguardo cose profonde nelle sue Confessioni (per esempio, 10, 8 ss.). Ma noi siamo finora rimasti con il nostro discorso sul piano naturale; nella sfera della vita psicologica. Ora, all'uomo che si e affidato al mistero della grazia e della rigenerazione si garantisce ben di più. II messaggio dell'apostolo Paolo è dominato dalla convinzione che nell'uomo credente si sveglia una vita nuova e santa. Cristo, il Signore della risurrezione e della trasfigurazione, la risveglia in lui. Nasce allora un'interiorità, una profondità, che sta al di la della pura natura. Allo stesso modo che, al di là della naturale profondità psicologica, verso l'interno, la zona, dove Dio si eleva e dove il «Gloria a Dio nell'alto dei cieli» Lo cerca, esiste al di sopra dei pensieri e dei sentimenti naturalmente più elevati. Questa interiorità ce l'ha donata il Battesimo, e ora l'esercizio cristiano deve cercare di farla emergere dal mondo dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti. Noi vogliamo darci pena del silenzio per imparare a essere uomini. Il simbolo ammonitore esiste già nel nostro mondo: la “macchina per parlare”, il fonografo-registratore. Anche se interessante come risultato della scienza e come prodotto della tecnica, essa tradisce anche – insieme con le “macchine per pensare” e d'altro genere, i computers – la volontà segreta di togliere all'uomo la sua dignità. Ma non appena egli realmente impara a tacere e a parlare come si deve, l'uomo diviene inimitabile, poiché allora si rivela in lui l'immagine di Dio. Tentiamo ancora una volta di aprire lo sguardo, dalla prospettiva della vita umana che è un'immagine di Dio, in direzione dell'Archetipo. Gli atti del parlare e del tacere hanno per avventura forse un senso anche per Lui? C'è qualcosa in Lui per cui essi potrebbero essere un'analogia? E’ realmente così, come ce ne accertano due affermazioni della Rivelazione. La prima si trova nel messaggio che risuona in tutta la Scrittura: che Dio solo e Dio, e non c'e dio accanto a Lui; che egli solo e il Signore, il Libero che non dipende da nulla; l'Infinito e l'infinitamente Vivente, che ha ed e tutto. 51 Davanti a questa realtà sublime, trascendente ogni possibilità del pensare e sentire umano, falliscono tutte le immagini costituite da linee mosse o da voci risonanti. Senza dubbio i Salmi parlano di teofanie che al mistico per cui avvengono si manifestano con tempeste, con lampi e con tuoni e che suscitano nell'uomo l'eco di una «Onnipotenza» trascendente ogni creata potenza. Ma Dio ha rivelato una volta per sempre la verità decisiva a questo riguardo quando Egli chiamò il più tempestoso dei profeti, il grande Elia, dopo le sovrumane tensioni della sua lotta contro Achab e Gezabele, verso il sacro monte Oreb e manifestò all'uomo ardente chi Egli era. Gli ordinò: “Esci e fermati dinanzi al Signore sulla montagna: ecco che il Signore sta passando. Un vento impetuoso e forte da fondere le montagne e spezzare le pietre andava davanti al Signore; ma il Signore non era nel vento. E dopo il vento ecco un terremoto; ma il Signore non era nel terremoto. E dopo il terremoto ecco il fuoco; ma il Signore non era nel fuoco. E dopo il fuoco ecco una voce, un sussurro sottile”, e là era Dio (1 Re 19, 11-12). Non nelle immagini delle grandi potenze schiaccianti, ma in quella di un vento lieve Egli si rivela al suo profeta. E cosi noi possiamo bene andare avanti a dire: l'immagine significante la vita di Dio è quella della pace infinita d'un silenzio che tutto abbraccia. Il Nuovo Testamento ci delinea in proposito una seconda immagine e precisamente al principio del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, la Parola e la Parola era presso Dio, anzi la Parola era Dio» (1, 1). Alla fine del Prologo l'idea viene ripresa e portata in una misteriosa profondità: “Dio nessuno l'ha mai veduto, il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre, Egli ce ne ha parlato» (1, 18). Un'altra volta brilla qualcosa del mistero di Dio. Vi si dice che nell'unicità di Dio, intollerante d'ogni confronto, c'e una comunione; che nella sua schietta, assoluta semplicità c'è un faccia a faccia; che nella sua altezza c'è un dare e un prendere. Immagine di ciò è l'uscita della parola dal silenzio: un'immagine che poi si determina ulteriormente in quella della nascita del Figlio dal Padre. «Parola» è «Figlio», «discorso» è «nascita». Due immagini dell'incomprensibile entrambe. La prima immagine, quella del silenzio e della tacita semplicità, e la seconda, quella della nascita parlante e della comunione nell'amore, circoscrivono il mistero della Vita di Dio e della sua Santa sovranità. Quale mistero è, però, anche l'uomo in cui secondo la divina Volontà si riverbera la divina gloria originaria! E quale compito è per noi quello di custodirla in inviolata purezza! 52 invece sono atti contrari e fatti per abitudine, ci vuol maggior severità, eccetto che siano cadute di pura fragilità. Se si tratta di mancanze fatte con altri, allora è difficilissimo che uno cambi; la caduta si verifica anche quando l'individuo sia consacrato al Signore”. In totale egli deve mostrarsi rigoroso per l'ammissione al noviziato e rigorosissimo per l'ammissione ai voti. Degenerazione Guardate che fenomeno: il degenerato non si corregge. La sensibilità, la fragilità si spiega e si corregge con la volontà, col tempo, con l'aiuto di Dio, ma il degenerato che cerca il suo simile non si corregge; vestitelo come volete, ungetelo anche con l'olio di peperone. Di questi individui ne troverete ovunque; e il peggior pericolo della vita chiusa di collegio, di seminario, di quartiere, di prigione, di bastimento; e questa sorte di peccati è quasi incorreggibile nonostante tutti i pietismi, le lacrime, i misticismi e scuotimenti che si fanno nelle preghiere; anzi è proprio caratteristica dei pietisti, dei mistici, dei bigotti l'aver tendenza a questo genere di cose. Questo è non solo storia dolorosa, ma scienza psicologica. 293 male. Don Bosco insisteva che i salesiani devono essere tutti in cortile; che non pensino a divertire se stessi, ma giochino con i ragazzi, abbiano gli occhi di qua e di la: vigilare tutto. Nel 1868 diceva che “ immenso il bene che può fare un chierico, salendo una scala, guardando un luogo nascosto, facendo una scappata di sorpresa durante la ricreazione”. Osservanza dell'orario di sera; non fare conversazioni. Puntualità nel balzare dal letto... “ Sono stato mezz'ora di più a letto e non mi e accaduto niente”. “ Dì pure che il Signore ha operato un grande miracolo per tenerti salvo”. Mortificazione: “ Hoc genus daemoniorum non eicitur nisi per orationem et ieiunium” (Questo genere di demoni non può essere scacciato se non con la preghiera e il digiuno), e Don Bosco batte sulla tendenza dei chierici a fare merenduole, bicchierate, ribotte, ecc. Addormentarsi subito, pregando. Sveltezza nel fare le proprie cose quando si e agli adagiamenti per le necessità corporali. Non trascurare le pratiche di pietà. E conclude: “ La castita e la purezza sono virtù cosi belle che senza di esse un chierico, un Sacerdote è nulla. Se le possiede e tutto”. Per il cammino di interiorizzazione L’essenziale è invisibile agli occhi. Profondità di vita è la capacità di andare al di là della superficie delle cose che appaiono e ciò non è spontaneo, ma richiede capacità di concentrazione, d’essenzialità, di spogliazione di sé, eliminando tutto quanto non aiuta a giungere al cuore della vita. Dove, quando e perché ti scopri superficiale nel rapportarti al quotidiano preferendo “riempirti” di cose pur di non liberare le profondità del cuore? Incontaminati Nella relazione fatta al Papa nel 1879 Don Bosco potè dire: “ Finora posso attestare che non si e avverato il caso che un salesiano, dimenticando se stesso, abbia dato ragione di scandalo”. E dopo?... Veramente gia due anni prima, 18-II-1877, ai direttori riuniti aveva detto una sentenza molto grave e poi aveva aggiunto: “Mi vengono dicendo: ma non faccia lavorare tanto i suoi preti!”. Ed egli risponde: “ Il prete o muore per il lavoro, o muore per il vizio” Guardate in che stato doveva essere il suo sentimento in quella sera. Vegliare bene Don Bosco intravedeva che col moltiplicarsi della Congregazione potevano nascere degli inconvenienti, perciò insiste sull'accettazione e dopo quell' anno, in capitolo ancor più insistette. Inculca sette norme per l'accettazione al Noviziato, per l'ammissione ai voti e agli ordini. Non le enumero tutte, ma ne ha parecchie che sono singolari. Norme per ammettere alla prima prova. “ Chi ha precedenti di moralità dubbia o una catena di miserie, non sia ammesso alla prima prova, eccetto fossero cose isolate. I giovani che fanno pasticci al loro paese, fino all'ultimo non si ammettano, perché questi si freneranno al noviziato, e poi riprenderanno”. Fissando la norma per l'ammissione ai voti: “ Se si tratta di pensieri, letture, parole, fatali inclinazioni, si può sospendere il giudizio; se 292 53 3. Le motivazioni profondi e i desideri 3.1 Le motivazioni12 L'uomo, invece, è talmente padrone delle sue azioni umane e ragionevoli che le compie tutte per qualche fine e le può indirizzare ad uno o più fini specifici, a propria scelta […] Ora, qualche volta aggiungiamo un fine di perfezione minore di quello che avrebbe la nostra azione, qualche altra volta aggiungiamo un fine di uguale o simile perfezione e qualche altra volta ancora un fine più eminente e più elevato. Infatti, oltre all'aiuto del bisognoso, cui tende in modo particolare l'elemosina, non possiamo anche mirare 1. A conquistare la sua amicizia? 2. Ad edificare il prossimo? 3. A piacere a Dio? Che sono tre fini diversi, di cui il primo è inferiore, il secondo quasi non è migliore e il terzo molto più elevato del fine ordinario dell'elemosina: sicché, come vedi, possiamo dare diverse perfezioni alle nostre azioni, secondo la varietà dei motivi, dei fini e delle intenzioni che abbiamo quando le facciamo. … bisogna fare molta attenzione nel mettere ordine tra i vari motivi…se uno li mettesse in disordine, anteponendo il più piccolo al migliore, senza dubbio commetterebbe un errore riprovevole…molti motivi, li deve disporre secondo le loro qualità; altrimenti commette peccato, perché il disordine è peccato, come il peccato è un disordine.…Bisogna assegnare a ciascun fine il ruolo che gli compete e, di conseguenza, il più alto è quello di piacere a Dio. 13 CENCINI A. -MANENTI A., Psicologia e formazione, EDB, Bologna pp. 281-290. 13 S. FRANCESCO di SALES, Trattato dell’amore di Dio o Timoteo, ED Paoline, Milano 20013, LIBRO XI, Cap. XIII. 54 12 200312, più soltanto chierico e i chierici. Tra chierici giovani e persone anziane. Non c'è da stupirsi che delle volte accade: siamo 15 mila e quindi 15 mila uomini. Può avvenire che tu chierico ti trovi nella tua strada persona gia di età, di elevata condizione, che perda la testa attorno a te e tu incominci a perderla con farti la spartita profondamente tale da far scappare la vocazione. Cominci a fare il beccuccio, il ricciolo tira basin; ricordatevi il proverbio: “Omô porsei semper son bei” (uomini sporcaccioni sempre sono belli). Guarda mio caro prete giovane, puoi trovare degli inciampi in chi ti vuol bene come non si deve voler bene tra gli uomini, tra maschi su questa terra. Quando ho visto certe conciature, io ho detto: “ Vedo che lei farà il farmacista...”. Vidi curarsi di più, avvisai ancora; continuarono, e non parlai perché era troppo tardi. Fuga dai giovani Prevedo subito la obiezione: ma se dobbiamo stare in mezzo ai giovani? Rispondo: stare in mezzo ai giovani, si; ma non da solo a solo, non con uno più che con un altro, non a porte chiuse. Don Bosco a questo proposito esce in una sentenza angosciosa: “ La rovina di certe Congregazioni dedite all'educazione della gioventù deve attribuirsi a ciò: a non aver fuggito giovani. Ci sono delle esagerazioni dei cattivi ed anche delle calunnie, ma senza sospetto fondatissimo, e in molti casi successi non avrebbero osato i nemici ad insinuare esagerazioni e calunnie ed aggiungeva illustrando questa idea: “ Io sono venuto sino all'età (1865) senza conoscere questo pericolo, ma dopo di allora ho dovuto vedere e purtroppo convincermi che questo pericolo gravissimo c'è, e non solo c'è, ma c'è instante e tale da metterci bene in guardia”. Doveva essere successo qualche scandalo rumoroso e tale da buttar in aria una istituzione e degli accreditati religiosi; da questo Don Bosco capisce il pericolo, lo dice instante e tale da metterci bene in guardia. Don Barberis ha registrato anche la conclusione: “ Non mai baci, carezze, mani sulla faccia », tanto più adesso che sono vestiti... come nel paradiso terrestre. Non amicizie particolari coi giovani, specialmente se avvenenti, perché si fa parlar male e si finisce peggio; non scrivere lettere troppo sdolcinate, non occhi troppo espressivi, non regalucci particolari pericolosissimi, non condurre anche per motivo buono i ragazzi in camera e parlare in confidenza a porte chiuse. Altri documenti Sono precetti che Don Bosco ripeté sempre. Nel 1876 parla ai chierici dell'Oratorio sulla castità e sul conservare la vocazione raccomanda per loro: Esatta osservanza dei propri doveri secondo le Regole; Puntualità nel trovarsi in ricreazione ed avere gli occhi ai musoni che stanno nei cantucci, perché ozio in ricreazione e la sorgente di ogni 291 Negli Esercizi del 1868 a Trofarello fa una predica esclusivamente sulla mortificazione ed ha per tema: Il corpo che si corrompe aggrava l'anima, e parla della mortificazione degli occhi e del gusto. L'anno dopo tiene una conferenza per la conservazione della castità e svolge quel: “Subtrahe ligna foco si vis extinguere flammam” (Togli la legna dal fuoco se vuoi spegnere la fiamma). Ancora negli Esercizi di Trofarello del 1869 trattando dei tre voti delineava i mezzi positivi e negativi per conservarsi casti. Questa conferenza fu riassunta male, ma l'anno dopo per fortuna, la ripetè tale quale negli Esercizi di Lanzo a cui era presente Don Barberis che prese nota diligentemente di tutto e così sappiamo cosa intendeva Don Bosco quando parlava della difesa della virtù. Negli Esercizi di Lanzo nel 1870 discorrendo disse questa sentenza che non va dimenticata: “La gioventù è un'arma pericolosissima del demonio contro le persone consacrate al Signore”. E’ il pericolo professionale per noi che »n questa materia. Finalmente negli Esercizi di Lanzo del 1875 spiegava i mezzi negativi: “ Accipe fugam si vis parare victoriarm” (Fuggi se vuoi preparare la vittoria). Ed enumera le 5 fughe che si trovano nello Scavini (I, 1 cap. 2: “ Dei peccati in specie”). Le cinque fughe Fuga dalle persone dell'altro sesso. Trattenersi poco con esse, non usare familiarità, facezie. Un ecclesiastico non deve faceziare con loro; non essere orsi, ma neppure permettersi scherzi: col fuoco non si scherza! Uscendo di casa frenare la libertà degli occhi, non guardare per istrada... se le rondini hanno il becco… Gia anni prima parlando ai giovani Don Bosco il 5-VII-1867 aveva avvertito che non bisognava trattenersi tanto in parlatorio, ma fare in modo che le persone di altro sesso andassero via al più presto, anche se parenti. Ai chierici disse: “ Ecco che un chierico a casa trova la cognata, la sorella, la cugina, e il demonio che sa fare la logica e sa fare le astrazioni toglie la parola: cognata, sorella, cugina, e lascia solo la parola: donna; toglie la parola: religiosa e lascia zitella, signorina... E che cosa succede?”. Fuga dalle conversazioni secolaresche, e andare in mezzo alla gente del secolo. Adesso c'è la cattolica, cioè i secolari che vengono da noi per essere formati, quindi il problema cambia aspetto, ma rimane. Fuga dalle visite Se vengono a trovarvi, sbrigatevi, dice Don Bosco, e siate prudenti e vigilanti, perché le visite in parlatorio sono uno dei maggiori pericoli; non è raro il caso che il parlatorio è diventato anticamera del Municipio. Fuga dalle amicizie Tra noi e i giovani, tra confratelli; fuggire le amicizie troppo intime e tenere. Non mai grossolanità, familiarità, mettere le mani addosso. Non è raro che possa avvenire tra laici e i chierici, tra chierici e laici, tra chi non è 290 Il termine motivazione copre una serie di altre parole del linguaggio comune: intenzione, desiderio, fine, interesse, movente, scelta, preferenza... Tutti termini indicanti che il comportamento segue una direzione che gli è stata impressa prima che si manifestasse. La motivazione è ciò che è capace di «muovere» il soggetto. Indica l’insieme dei motivi e delle attese che spingono ad agire (questa può essere anche sono interiore come la fantasia o l’elaborazione intellettuale). È la risposta alla domanda del «perché questa azione?», nel duplice senso di «che cosa la origina?» e «a cosa tende?». La motivazione ha infatti due aspetti: uno attivante (prontezza all'azione) e uno direzionale (dirige verso una particolare direzione). Motivazione a un termine cumulativo: ogni comportamento significativo è originato da una pluralità di motivi più o meno consci e centrali. Dato che il processo della decisione inizia sempre con una valutazione intuitiva, ci sono dei motivi emotivi. Tuttavia perché l'azione sia matura, occorre un motivo razionale che nasca dalla valutazione riflessiva. L'atto di scelta è messo in moto da un giudizio intuitivo ma esige una decisione deliberata. Il criterio del «mi piace» non è sufficiente a fondare un'azione libera e non da garanzie sulla perseveranza di tale azione. Tutti i motivi — dato che provengono da una valutazione — devono essere almeno in parte consci; tuttavia poiché la valutazione può anche essere il prodotto di fattori di cui la persona non è consapevole al momento, ci possono anche essere dei motivi inconsci. Sono le memorie affettive che riaffiorano. Se voglio fare un viaggio devo conoscere le ragioni per farlo, e forse al momento non so che uno dei motivi reconditi è evadere dall'ambiente. Non esiste distinzione netta fra motivi consci e inconsci: è più esatto dire che le motivazioni hanno la duplice componente conscia e inconscia […]. I motivi possono essere attuali o abituali. I motivi attuali derivano da una valutazione fatta qui e ora (intenzione attuale), mentre i motivi abituali (o disposizioni motivazionali) derivano da una valutazione fatta nel passato, ma che rimane tuttora efficace: non è mai stata ritirata e continua ad influire anche se dimenticata (intenzione abituale) […] Ogni azione contiene dunque una gerarchia di motivi: alcuni più importanti e altri più periferici. Il motivo centrale dominante quello che prevale, cioè coordina a finalizza tutte le energie implicate nell'azione e da ad esse un significato e una direzionalità. Il motivo dominante è la risultante del rapporto dinamico tra tutte le componenti della personalità. Secondo Kelman esistono tre diversi modi di essere motivati: compiacenza, identificazione, internalizzazione. Li descriviamo separatamente, ma nelle situazioni di vita reale si presentano in forma mista: l'importante sarà vedere quale prevale . [? elemento di verifica !] 55 A. Compiacenza Secondo questo processo la persona adotta un atteggiamento al fine di ottenere una ricompensa o evitare una punizione dal gruppo di appartenenza o da un'altra persona, senza convinzione circa il contenuto del comportamento stesso. I premi-punizioni non sono necessariamente di carattere fisico ma, più spesso, psicologico: ritiro dell'affetto, non considerazione, indurre sentimenti di colpa. «Se fai cosi, mi fai morire di crepacuore» è uno dei condizionamenti più potenti. Non vi è dunque un reale consenso. Il soggetto non necessariamente crede nei contenuti e nel valore di quell'atteggiamento, semplicemente spera di ottenere un vantaggio e vi si adatta più o meno passivo e senza coinvolgersi: dice e fa la cosa attesa in una particolare situazione indipendentemente da quella che può essere la sua opinione personale. L'atteggiamento appreso non è creduto, ma serve per produrre un effetto sociale; rimane quindi estraneo alla persona stessa [esterno] e dura finchè essa ha bisogno di quell'effetto [temporaneo alla persona stessa], o non ha ancora ottenuto vantaggio o non sa cautelarsi diversamente dal pericolo della punizione […] La compiacenza corrisponde alla funzione utilitaria degli atteggiamenti, essendovi in gioco ricompensa o punizioni; ma può essere in relazione anche con la funzione difensiva dell'io se il premio e di natura psicologico-morale (ad esempio conformarsi per non sentire i sensi di colpa legati ad un rimprovero). Dal punto di vista strutturale, la persona compiacente e un inconsistente. Chi è tirato in una direzione dai valori e spinto nella direzione opposta dai propri bisogni, vive uno stato di contraddizione per cui necessita di un sostegno esterno al fine di mantenere il suo atteggiamento; se il sostegno viene meno, probabilmente crollerebbe anche l'atteggiamento. B. Identificazione Secondo questo processo la persona adotta un comportamento perché le serve per stabilire o mantenere una relazione gratificante con un'altra persona o gruppo; tale relazione è gratificante nel senso che aiuta la persona a conservare un'immagine positiva di sé. La relazione può essere stabilita nella realtà o nella fantasia. Ad esempio, il ragazzo che diventa medico perché il padre lo (o lo era); […] o il giovane che assume i valori del suo gruppo di appartenenza, a volte fino ad imitare la voce e il frasario del leader. Esistono tre orme di identificazione: — Classica: l'individuo assume totalmente o parzialmente l'identità del modello: vuole essere come lui; fa, crede, dice ciò che l'altro fa, 56 Questa è la vera grandezza di Don Bosco, la sua concezione di moralità, della pedagogia del costume: noi lavoriamo in mezzo ai giovani per impedire il peccato. Teniamolo bene a mente: sopra e prima, in ordine di idee e di tempo, della “pedagogia della castità” anzi come mezzo supremo di questa pedagogia, Don Bosco mette “la castità della pedagogia”, ossia la castità dell'individuo che educa, sia nel linguaggio, sia nei modi, sia nella persona. Inutile parlare di gigli all'altare se tu sei un carciofo. “ Nemo dat quod non habet” (Nessuno dà ciò che non ha). Ecco una delle grandezze di Don Bosco! Tutto quel mondo lubrico di produzioni sulla purezza che è uscito in questi ultimi 30 anni, anche dei cattolici, pretende di insegnare ai giovani come devono stare a posto: ma non osservano la regola nostra, hanno un linguaggio tale, che se uno non sa, impara quella volta: si dimenticano della “ castità della pedagogia”. Questi sono tutti libri sbagliati, e in tutti questi libri... non tutte le verità si possono dire! Per essere salesiani più vicini a Don Bosco, per essere imboscati completamente, teniamolo ben presente! Conservarsi difendersi Veniamo agli elementi specifici della materia. A un totale traviato, dice Don Bosco nel 1876: “ Guardi, lasciamo a parte la teologia, la morale, la mistica, l'ascetica; tutto si riduce a questo: conservarsi puri e santi al cospetto di Dio”. Sono precisamente le parole del S. Cafasso e di Don Bosco sulle orme del Maestro; insegna sempre come si fa per conservarsi casti. Conservarsi e conservare la castità e sempre la sua parola, che viene completata dal concetto della difesa: conservarsi e difendersi. E’ classico nel capitolo di Magone in cui mette in fila i sette carabinieri che si pongono ai piedi della Madonna per difendere e conservare castità. Non è altro che una idea popolare dei sette mezzi per conservarsi casti. Troverete dei santi che hanno scritto su questa materia molti pensieri; i più portano in alto teologicamente e misticamente parlando dell'amore di Dio: chi ama Dio, non ama le creature, si distacca da esse; ora tutta la purezza e amor di Dio, è non andare dietro alle creature; chi ama Dio non ama se stesso, non ama, non segue le proprie tendenze. Don Bosco ha molto più pratica; realista, positivo, egli sapeva che pur parlando dell'amor di Dio si poteva rimanere come prima, quindi si limitò ad indicare i mezzi negativi a preferenza dei positivi, per difendersi, per conservarsi. Tutti gli altri ragionamenti li conosceva, eppure ai suoi giovani, ai chierici, ai preti ragionava cosi! I suoi mezzi 289 Don Bosco sapeva la teologia un po' meglio, e se noi vediamo che egli insiste molto su questo punto è perché è il punto centrale della vita dell'adolescente e per la condizione tutta speciale della vita educativa a cui deve formare i suoi figli, poiché essi non sono per fare il prete ma per lavorare per la gioventù. Dato questo, deve formarli secondo la sua idea centrale, e quindi insiste maggiormente su tale argomento e noi lo rileviamo dal testo delle Regole: “ Chi non ha fondata speranza...”, ed altrove: “ Chi non ha fondata speranza di potersi moralmente salvare da questi peccati è meglio che non si faccia né prete né chierico”. E Don Bosco nel trattare questa materia non fa questioni teologiche ne questioni di coscienza. I teologi discutono fin dove si può giungere senza peccato grave...; povero Cuore di Gesù: appendiamo tanti quadri e poi misuriamo col millimetro fin dove possiamo arrivare senza ammazzarti! La grandezza di Don Bosco Vediamo come Don Bosco considerava l'individuo e l'ambiente. Per lui il chierico è ancora adolescente, anzi dice che questo stato dura sino ai 30 anni; ora per il fattore oggettivo del salesiano che vive tra i giovani, e può avere delle impressioni individuali, soggettive, e ha delle responsabilità particolari, Don Bosco da delle norme speciali sul modo di trattare i giovani, di preservarli dal male ossia di educarli al costume. Ecco ciò che non posso sviluppare nelle conferenze di pedagogia salesiana, perché mi manca ordinariamente un ambiente che capisca. crede e dice. Vuole essere simile a lui o addirittura essere lui. — Reciproca di ruolo: le due parti si identificano a vicenda per cui uno tende ad agire secondo le aspettative dell'altro e viceversa. Ognuno dei due gioca il ruolo che gratifica l'altro: io sono come tu mi vuoi e viceversa. — Con un gruppo. Per conservare o migliorare l'immagine di se la persona modellacomportamento secondo le aspettative e direttive del gruppo, le quali a loro volta possono essere state formulate in vista di una risposta da ottenere. Anche qui, il motivo dell'aggregazione a l'autodefinizione: come membro di un certo gruppo mi sento uno che vale, il protagonista, il depositario della verità, una persona che conta... Le qualita del gruppo (reali o immaginarie) passano al mio io rinforzando la mia identitä. Queste tre forme ci dicono quindi che grazie all'identificazione, la persona si comporta come l'altro, secondo le aspettative dell'altro o come il gruppo vuole. L'identificazione è di qualità superiore rispetto alla compiacenza. Qui c'e anche un'accettazione privata-interiore, oltre che pubblica-esteriore dell'atteggiamento adottato: ci si crede veramente in ci6 che si a imparato. In secondo luogo, la manifestazione di quell'atteggiamento non è condizionata dall'osservabilità da parte dell'agente influenzante: infatti quell'atteggiamento è la risultante di una relazione identificatoria con un gruppo o una persona vista come attraente e non come detentrice di premi e punizioni. Ma la differenza più grande e che il processo dell'identificazione uno stadio necessario nell'acquisizione dei valori. Per apprendere opinioni bastano i mezzi didattici (libri e conferenze); per apprendere valori occorrono dei modelli di riferimento. Il valore come il messaggio che per essere trasmissibile necessita di una relazione; a da questa che nasce l’apprendimento. […] Questo processo rimane tuttavia insufficiente e può anche assumere un carattere difensivo: è solo una fase nel cammino di maturazione. L'identificazione a insufficiente poiché l'atteggiamento che essa origina a attivato solo nel contesto della relazione auto-definitoria; gli atteggiamenti appresi, anche se creduti, vengono espressi quando l'individuo agisce nel contesto della relazione su cui si basa la identificazione. […] Le motivazioni non sono ancora diventate convinzioni, non sono integrate nel sistema dei valori dell’individuo, ma tendono a rimanere isolate e incapsulate entro certe condizioni. In secondo luogo, l'atteggiamento — anche se creduto —rimane condizionato nella sua perseveranza dalla esistenza della relazione stessa e dipendente dal supporto sociale: dura finche dura la relazione; se questa finisce o non è più auto-definitoria, la persona rischia di abbandonare ciò che la relazione le aveva fatto apprendere. E il caso dei giovani in cui 288 57 Terminologia Don Bosco rifugge totalmente dal rimescolare questa materia, rifugge persino dall'usare i termini usuali, per lui non esistono termini specifici, ma solo i comuni, virtù, modestia, innocenza e virtù per eccellenza; così dice Don Bosco: “Chi può capire capisce, e chi non sa, non capisce e tanto meglio”. Così per il contrario usa i termini: peccato, caduta, disgrazia, disonestà, parole tutte che non turbano e fanno capire coloro che hanno bisogno. Aspetto pratico Invece di fare questioni di teologia e di coscienza, Don Bosco ne fa sempre una questione di grazia di Dio: avere la grazia di Dio e non offendere Dio, non cadere in peccato. Mentre invece non fa questioni teoriche di pedagogia di costume, di educazione del costume. Il sistema di Don Bosco su questo punto è tutto qui: impedire il peccato; ecco la vera pedagogia del costume! Per questo Don Bosco è definito: “ Padre degli adolescenti”, e ricordiamolo sempre: centro dell'adolescenza è quello che si chiama pubertà. impegno politico, ecclesiale, sociale... dura finche non si sposano o non hanno trovato una professione: a questo punto la relazione con il gruppo può anche continuare ma l'immagine positiva di sé è ora legata ad altre fonti. L'assunzione del comportamento a strumentale alla relazione e la sussistenza di esso dipenderà dalla sussistenza della relazione. L'identificazione può anche essere di natura difensiva dell'io: permette di mantenere la stima di se altrimenti non sostenibile; un appoggio passivo sul proprio simile per evitare angosce e responsaabilità […]. Quest'eventualità si realizza soprattutto in persone con una percezione di se negativa, insicure e indecise, bisognose di essere valutate positivamente dagli altri e di riuscire altrettanto bene in tutto quello che fanno. […] L'identificazione a quindi un processo di apprendimento ambivalente, e costituisce uno stadio intermedio nella maturazione dei motivi, ma mai la meta. […] L'identificazione fine a se stessa impedisce la crescita. Ciò che fa scattare l'identificazione è la scoperta nell'altro dell'appello ad essere se stesso. […] L'identificazione è fonte di crescita nella misura in cui fa apprendere atteggiamenti aumentano i valori. È bloccante quando gratifica quella parte dell'io contraddittoria ai valori. […] Per esempio… il bisogno di conoscenza fa crescere se serve per approfondire le conoscenze, è un ostacolo se messo al servizio dell'aggressività (= dimostrare i torti altrui) o dell'esibizionismo (= fare sfoggio della propria cultura e riuscire vincente) […] Alla base dello stile di vita possiamo dunque avere due grandi classi di motivazioni: una auto-centrata e una etero-centrata. Da notare che grazie ai meccanismi di difesa una può coprire l'altra: ciò che appare neutrale o etero-centrato può in realtà essere dissonante ed auto-centrato. […] Ciò che in concreto complica le cose è il fatto che l'identificazione che non internalizzante è sperimentata emotivamente come più gratificante dell'altra [???], di qui la conclusione indebita che proprio per questo sia fattore di crescita: «dal momento che stiamo bene insieme, non capisco perchè tutto questo non sia anche buono», «siccome piace, quindi è anche utile». Spesso si confonde fra esperienza emotivamente stimolante ed esperienza internalizzante, eguagliando indebitamente «mi piace» con il «mi giova». […] L'identificazione internalizzante, al contrario, nascerà all'interno di relazioni non soffocanti, che lasciano un margine di libertà o addirittura la promuovono e non funzionano da riempitivo della solitudine; per questo può costituire un prezioso stimolo per la crescita. C. Internalizzazione Secondo questo processo la persona accetta un'influenza sociale facendo suoi valori e atteggiamenti suggeriti, perché ne vede la validità 58 lavoro per impedire il peccato deve essere ridotto quasi ad impedire questo genere di peccati. Benché Don Bosco non sia un manoveggente o un esagerato, tuttavia in questo consiste la quintessenza del suo valore storico ed educativo. E’ giusto scientificamente e moralmente pensare così. Infatti la Chiesa definisce Don Bosco: “Padre degli adolescenti, dedicato all'educazione della gioventù” Ora da più di 40 anni la scienza si è volta a studiare per l'adolescenza il tremendo problema psicofisiologico, naturale, spirituale della pubertà, vale a dire come si svolge, quali effetti produce nei caratteri e nei temperamenti, nell'abitudine, nella volontà, nella psiche del giovane questo fenomeno di rinascita dell'organismo umano. Potrei citarvi più di duemila autori, di studiosi di questo problema, tra cui i cattolici sono molto pochi. Il classico libro del Mendousse: “ L'anima dell'adolescente “ riduce tutta la questione della moralità nell'adolescenza a questo problema della pubertà, del fatto e del fattore psicofisiologico. Don Bosco lo aveva capito 50 anni prima: per lavorare tra gli adolescenti bisogna tener presente lo stato in cui si trovano: la pubertà. E siccome la rinascita fisica porta con sè alcuni fatti, ecco che Don Bosco dirige tutto il suo studio e lavoro a preservare l'anima dei giovanetti dal peccato, e per peccato non ritiene altro che questo. Non è esagerazione, perché dopo 50 anni la scienza viene a dargli ragione. Neh, che Don Bosco se si studia incomincia a diventare grande?! Anche nell'ambiente della vita religiosa salesiana ed educativa cioè uno dei tre perni su cui si aggira tutto il sistema spirituale. E’ una delle tre idiosincrasie naturali di Don Bosco: ozio, intemperanza, immodestia, a cui per esperienza ne aggiunge una quarta: la mormorazione; proprio come dicono i Proverbi: “Tre cose non tollero ed una non posso sopportare...” (Pr 30,21-23). Interpretazione errata Per l'immodestia Don Bosco ebbe fin da fanciullo, come ho gia detto, una ripugnanza naturale, tanto è vero che noi salesianetti suoi divoti seguaci abbiamo inteso inesattamente e frainteso la sua tradizione; da noi quasi non si considera peccato se non quello, e non solo nei giovanetti dove c'è tanto da discutere sulla responsabilità e gravità, ma anche per noi stessi. Quando si è superata quella faccenda, non si bada più ad altro, non si ha sensibilità morale per la giustizia, l’onestà, la sincerità, la carità, la responsabilità per noi queste sono tutte cosette qualunque. No, abbiamo frainteso una tradizione e quindi guastato il senso morale; siamo freddi in certa materia, ma amorali in tutto in resto. Condizione essenziale 287 96 5.4. Castità 5.4.1 La castità salesiana 97 Conserv arci casti e puri al cospetto di Dio (S.G. Cafasso). “Conservarci casti e puri al cospetto di Dio” sono le parole costantemente usate dal Santo Cafasso in questa materia, ed ereditate da Don Bosco, che sempre si valse di questa espressione per indicare la direzione dello spirito su questo tema. Tema delicatissimo per la nostra vita interna ed individuale; come per la vita esterna per i nostri rapporti con il prossimo ed in particolare con ciò che deve essere la materia del nostro lavoro, il materiale educativo nei rapporti con la gioventù. Tema delicatissimo ed arduo e non sempre definibile nei riguardi dell'individuo e della coscienza. Lascio a parte tutta la delicatissima questione dell'ordinando di fronte a questa materia e ciò che è disposto per i chierici nelle disposizioni della Santa Sede e delle Curie. Chiaroveggenza di Don Bosco Ho detto tema arduo e non sempre definibile, perché nella coscienza umana c'è una parte inconoscibile anche all'individuo stesso. Alcuni poi parlano dell'uomo senza considerare che ha i piedi in terra; altri invece lo trattano come non avesse la testa in cielo. Interessante sarebbe lo studio della psicofisiologia scientifica, ma noi dobbiamo attenerci all'aspetto salesiano della materia, perché, guardiamo bene, questo e il tema primordiale della salesianità. Don Bosco ha lavorato per tener indietro la gioventù in ciò che riguarda questa materia. Questo e il punto centrale della pedagogia pratica di Don Bosco, che ridotta nella formula più semplice consiste nel preservare dal peccato l'anima dei giovanetti e coltivare in essi la grazia di Dio (ecco i Sacramenti). Per i giovanetti Don Bosco non teme quasi altro che peccato brutto. Il nostro 96 VIGANÒ E., Un progetto…, oc, pp. 176-197. CENCINI A., Il fascino sempre nuovo della verginità. Dal silenzio «impuro» al coraggio giovane = animatori di pastorale...10, 1997, Paoline Edit.Libri-Milano. AAVV, Affettività, sessualità e vocazioni: quale cammino di maturazione nella direzione spirituale. In "Vocazioni" 3, 2003; AAVV, Come annunciare la vocazione alll'amore verginale nella pastorale vocazionale,. In "Vocazioni" 1, 2001. pp 926; 52-70. ACG, 366, 1-3. 97 286 CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 46-55. intrinseca e li scopre coerenti con il proprio sistema di valori. Internalizzare significa Introdurre quaIcosa all’interno del proprio essere, farlo proprio, riconoscervi l'identità personale. Il motivo dell'adesione è il contenuto stesso dell'atteggiamento e non le pressioni sociali di compiacenza o le relazioni gratificanti con qualche fonte influente. La proposta dell'altro è accettata non perché è l'altro che la fa, ma perché è valida in se e l'altro è credibile. Ciò che è stato internalizzato — proprio perché sorretto da una valutazione interiore — diventa socialmente indipendente e parte del sistema di valori dell'individuo: una vera e propria convinzione. […] Per la perseveranza dell'atteggiamento non c'è bisogno del rinforzo sociale: la gratificazione a già nel vivere la convinzione stessa alla quale si è fedeli anche quando nessuno l'applaude o quando si dovrà pagare cara questa fedeltà. […] L’internalizzazione da un tono specifico alla vita ed in particolare: - stile realista (senza esaltarsi o abbattersi, scorgendo negli altri dei nemici o oggetti al suo servizio, o attendendosi gratificazione a tutti i bisogni con pretesa ma disposto a dare. In questa linea darà per scontato che dovrà pagare di persona ed in perdita. La sua visione sarà a totalizzante senza escludere aspetti indesiderati o fermandosi sul parziale che acceca. Se questo avvenisse la reazione conseguente sarebbe multipla a partire da alienazione dalla realtà personale (non si riconosce più) e sociale (non si ritrova più nel gruppo), i pensionamenti precoci e la ricerca del «nido su misura», oppure la rabbia con aspettative sognate. - capacita di sopportare la tensione (sopportando fatiche e disagi) ed anche la relativa rinuncia ai valori contrari (il problema non è la rinuncia ma la ragione per la quale si accetta la rinuncia; la rinuncia non crea frustrazione quando è motivata dall'io ideale: l'uomo si riconosce nel valore scelto, soprattutto ne avverte l'attrattiva che gli da la duplice forza di tendere al valore e di controllare i bisogni ad esso opposti). Al centro vi è un valore e non un bisogno e la tensione di aver rinunciato ad un bisogno dissonante non invade tutta la persona. L’alternativa non scompare e rimane attraente ma è posta in secondo piano. - esercizio efficace delle attività (Noi siamo portati dentro le attiività a vivere una pluralità di ruoli diversi a volte frammentati o conflittuali. Il rischio è quello della dispersione o della cristallizzazione. Chi ha internalizzato ha saputo armonizzare i diversi ruoli, dando l’importanza che meritano orinandoli e vivendoli come mezzi. I valori sono i fini mentre i ruoli sono i mezzi se non si vuole che l’attività sia fine a se stessa ed il ruolo diventa l’assoluto e rinunciarvi porta alla crisi di identità) 59 Per il cammino di interiorizzazione Esempio di verifica delle motivazioni sul tema della gratuità dell’agire 1. “Per nulla”. Quando fai qualcosa: quali sono le motivazioni che ti spingono? Lo fai sperando di guadagnarci qualcosa? oppure c’è qualcosa d’altro che ti muove? Sei capace di fare verità dopo aver agito, magari riconoscendo e ammettendo le tue contraddizioni, le tue falsità, il tuo cercare di stare con un piede in due scarpe? 2. Chi sta al centro della tua vita cristiana, delle tue scelte e delle tue motivazioni? Il Vangelo o il tuo punto di vista? La gratuità è estranea ad ogni interesse personale ed è il concentrato della Charitas sine modo di Gesù: misuri le tue motivazioni (prima durante e dopo) il tuo agire sul modo di pensare, parlare ed agire di Gesù? Lo scarto che ci trovi, come pensi di colmarlo? 3. La gratuità è sinonimo di totalità. Quali sono gli spazi, le cose, gli affetti, le realtà che non sei disposto a consegnare e concedere? Che cosa ti tiene legato a ciò che, a bene pensare, non ti appartiene perché dono? E perché fai così fatica a disfartene? Ricorda che la vera risposta vocazionale è un atto di libertà. 60 Nel resto andiamo avanti come insegnano i nostri superiori, come possiamo, ricordandoci sempre che quando si viaggia in terza classe si arriva sempre prima che non quelli di seconda e di prima, perché i carrozzoni sono piu vicini alla locomotiva, poiché Gesù ha detto: “Beati paperes spiritu” (Beati i poveri in spirito). 285 solo una casa ma tutta la Congregazione: sono schiaffi agli altri e invito a fare altrettanto e purtroppo questi cattivi esempi vengono soprattutto dai preti. Attenzione! Le eccezioni Dobbiamo togliere da noi ogni particolarità: vi sono di quelli che non vogliono assoggettarsi ad essere come gli altri. Sono generalmente dei bifolchi arricchiti, dei paesani che vogliono far i signori, i pescecani: è gente che vive di egoismo: quaerunt quae sua sunt (cercano il proprio interesse). Ce n'è almeno uno per casa. Io domando se sia lecito che vi siano dei salesiani poveri e dei poveri salesiani. Alcuni non vogliono essere poveri e cosi abbiamo dei salesiani di prima, di seconda e di terza classe. No, tutti di terza e non avvenga che dopo un mese dalla messa esploda l'uomo latente, l'uomo vero che non si adatta alla vita comune, ricercato negli abiti e nel vestiario, nel mobilio e nella camera, ed ha bisogno di farsi servire; in una parola vuol passare in seconda classe. Come è brutto! Non lo dico più. Non tenere danari A pag. 13-14 dei suoi ricordi confidenziali Don Bosco parla del tenere danaro presso di sé: “L'osservanza di questo articolo terrà lontano da noi la peste più fatale per la Congregazione”. Qui ci sono dei testimoni: Don Olivazzo che ha vissuto ai miei tempi ed allora non si faceva questione se era lecito o no andare alla Comunione con più che mezza Lira in tasca. Noi fummo creati nel periodo della mezza lira. A quel chierico che richiedeva se poteva tener qualche lira, Don Bosco rispose tche non sapeva come si potesse andare alla Comunione con una disubbidienza simile. Don Ubaldi che riceveva 40.000 Lire all'anno non teneva in tasca neppure i soldi per il tram; anche egli era stato fabbricato ai tempi dei 10 soldi. Adesso purtroppo entrano di più i danari e coi danari la mondanità, la ricerca del piacere; l'egoismo, la gelosia, si ricerca la roba da mangiare e da bere, nasce la disuguaglianza, entra la venalità: questi ottiene tutti i servizi che vuole perché paga; entra... l'uscita di casa; l'andare a divertirsi, speriamo... solo a bere la birra. Don Bosco l'ha detto ben chiaro: e la rovina della Congregazione. Conclusione II nostro stemma “Lavoro e Temperanza” include la povertà, perché povero necessariamente lavora ed è temperante. Ecco quindi che nel nostro segno di croce abbiamo messo: lavoro, temperanza; povertà, bontà, sacramenti e Maria. Il nostro principio deve essere quello della semplicità, della antimondanità; tutto ciò che è ricercato, lussuoso, particolare, deve essere escluso. 284 3.2 I desideri 14 “Non possiamo sapere se amiamo il Signore sopra ogni cosa…, ma possiamo sapere se desiderano amarlo. Non appena abbiamo formulato il desiderio di amore, subito incominciamo ad avere un po’ d’amore: e man mano che questo desiderio va crescendo, anche va aumentando l’amore. Chi ardentemente desidera d’amare, ben presto amerà ardentemente” 15 Dinanzi a te sta ogni mio desiderio. Non dinanzi agli uomini, che non possono vedere il cuore, ma dinanzi a te sta ogni mio desiderio. Sia dinanzi a lui il tuo desiderio; ed il Padre, che vede nel segreto, lo esaudirà. Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Perché non invano ha detto l'Apostolo: Pregando senza interruzione. Forse noi senza interruzione pieghiamo in ginocchio, prostriamo il corpo, o leviamo le mani, per adempiere all'ordine: Pregate senza interruzione? Se intendiamo il pregare in tal modo, credo che non lo possiamo fare senza interruzione. Ma c'è un'altra preghiera interiore che non conosce interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato, non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere la preghiera, non cessar mai di desiderare. Il tuo desiderio continuo sarà la tua continua voce. Tacerai se cesserai di amare. 16 3.1.1 L’uomo e Dio desiderano Agostino definisce l’uomo un animale desiderante, come emerge da tutti i testi biblici. L’uomo è tensione costante verso qualcosa che è sempre oltre che soltanto Dio può colmare meglio: l’unico desiderio è vedere Dio (Sal 42,2; 63,2-3; 119,20; 123,2; 130,6; Is 26,8; Ap 22,20; Es 33,13.18). Desiderio a cui risponde ma sempre in modo incompleto aprendo a nuova attesa. È lui che lo ha posto dentro il suo cuore. Quindi è un desiderio profondo, radicale universale e inestirpabile, inappagabile ed inappagato. Desiderio che può deviare e divenire seduzioni deformi e perverso di quell’unico originario. Questo desiderio ha la medesima dinamica di manifestazione: attrazione che seduce 14 Cfr. CENCINI A., Il mondo dei desideri. Orientamenti per la guida spirituale, Ed. Paoline, Milano 1998. CENCINI A. …… Vocazioni 2007… 15 S. FRANCESCO di SALES, Trattato…, oc, LIBRO XI, Cap. XII,2. 16 AGOSTINO d’IPPONA, Esposizione sui salmi, La cittadella, Assisi. 61 morte. illusione di felicità azione conseguente di possesso o conquista manifestazione del suo potere che toglie libertà e conduce alla Questo implica un continua conversione per riportare a galla l’unico a cui si anela. Dio pure desidera, e Gesù ne è il vertice con il suo ardente, angoscioso e pervasivo volere la gloria del Padre e mostrare agli uomini l’amore con cui sono amati. In ogni uomo vi è una traccia del desiderio divino ossia di ciò che Dio desidera per l’uomo e di ciò che è il vertice e la pienezza, l’infinito di ogni cosa, ossia Dio stesso. 3.1.2 Definizione di desiderio - Dal punto di vista filosofico, il desiderio fa riferimento alla mancanza dell’oggetto (negativo) e che è appetitoso (positivo) - Dal punto di vista pedagogico, è la tensione psichica con cui si aspira ai beni (fisiologici-autoconservazione o autorealizzaione-autotrascendimento) che ancora non si posseggono - Dal punto di vista psicologico confluenza di viversi atteggiamenti interiori che generano modi d’essere e di agire Non è allora un cieco impulso o una voglia matta, un essere eccitati da ciò che è piacevole ma una tendenza significativa verso qualcosa che è apprezzato in sé e pure in relazione con la propria persona, una aspirazione con tutte le forze verso qualcosa che vale in se e che si pone al centro della vita e del futuro Esso è costituito da due elementi: verità e libertà, perché percepito come qualcosa come significativo, che ha sapore, che dà senso dentro il quale la mia identità è posta in relazione nei confronti dei quali si pongono dei passi conseguenti. Due componenti lo delineano: l’appagamento e il suo opposto. Il desiderio nasce da un vuoto da un limite e conduce verso l’opposto nel quale però non trova compimento, perché cresce quando si realizza, creando un nuovo appagamento “da un lato è già appagante e ppagato nella suia tensione continua e creativa, dall’altro è insaziabile perché segno della dimensione trascendente dell’uomo”. È questa la natura contraddittoria del desiderio. 62 Il mondo ci riceverà sempre con piacere finale ci cureremo della salvezza della gioventù piu povera e piu pericolante. Questa è la vera agiatezza che nessuno verrà mai a rapirci”. E’il uo testamento! Possiamo dimenticarlo? Saper star senza Grande è la parola detta da Don Bosco nel 1858: “La povertà bisogna averla nel cuore per praticarla, bisogna tenerla davanti per comprenderne tutto il segreto della pratica”. In pratica abbiamo bisogno di molte cose per l'esercizio della perfezione propria del nostro Istituto; non apparteniamo all'Ordine mendicante e quindi abbiamo edifizi e attrezzatura differenti. Ciò che e necessario od utile per l'esercizio della nostra perfezione rientra nel riguardo della povertà; anzi Don Bosco lo estende anche nel riguardo dell'età, del lavoro, della malattia; e questo è gia compreso nell'Epistola 2a di S. Pietro: “ Maxime qui laborat in verbo Domini...”(Specialmente colui che fatica nella parola del Signore...), ma in qualunque posizione noi ci troviamo, per noi rimane sempre il principio che è il segreto della nostra vita: “L'amore alla semplicità, al tenore di vita povera: saper star senza”. Basterebbe questa frase per farci capire in pieno lo spirito della nostra povertà. che hai; Vari aspetti della povertà. Ci sono sei qualità di povertà: tre buone, tre non buone: La povertà inculcata da N.S.G.C.; La povertà di consiglio: Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello La povertà di professione: non è altro che quella di consiglio praticata nello stato religioso. Ci sono poi tre aspetti non buoni, antireligiosi, rovinosi: La povertà forzata di chi non è mai contento, piagnucola, si lamenta sempre, non ne ha mai abbastanza; vogliono essere poveri a patto che non manchi loro mai nulla. La povertà smentita con la immortificazione, colla mondanità, colla ricerca delle delicatezze, l'abbondanza dei cibi. Povertà, ma con una casa ben distinta e di lusso, tutto nuovo e della migliore qualità. La povertà schernita, la beffa della povertà; la povertà di coloro che vivono nella Congregazione ed applicano quello che dice S. Paolo Unusquisque habet sum » (Ad ognuno il proprio), ossia han soldi in tasca; prendono quello che da la Congregazione e poi si arrotondano la vita con tutti i conforti; hanno il denaro, lo spendono e poi lo dicono ancora in faccia: “Questo melo pago io; questo alla Congregazione non costa niente perché me lo hanno regalato”. Bastano pochi di costoro per rovinare non 283 Don Bosco sempre inculca di lavorare come, fanno ipoveri, lavorare per renderci degni della Provvidenza, usare bene della carità che il mondo viene facendoci. Questa è per lui un'idea costante, e nel 1885 inculca la povertà con questa sentenza: “Ricordiamoci che da questa osservanza dipende in massima parte il benessere della Congregazione e dell'anima nostra. La Divina Provvidenza ci ha finora aiutati e speriamo che seguiti ancora ad assisterci per intercessione di Maria SS. che fu sempre nostra buona Madre; ma noi dobbiamo avere ogni diligenza per fare buon uso ed economia di tutto quello che non è strettamente necessario”. La suppellettile Soprattutto aveva Don Bosco un timore speciale: che alcuno potesse dire: “Questa suppellettile, non ha segno di povertà; questa mensa, questa abitazione non è da povero”. Nell'ultimo suo testamento del 1886 scrive: “Chi porge motivo ragionevole di fare questi discorsi cagiona un disastro alla Congregazione. Sia sempre la nostra gloria la povertà. Guai a noi se coloro che ci fanno la carità potranno dire che noi teniamo una vita piu agiata della loro!”. Eppure alcune volte avrebbero ragione se entrassero nella camera di qualche confratello. Don Rua fu l'incarnazione della povertà salesiana, perché presentava Don Bosco alla lettera. Nella sua circolare del 1885 conforme a quella del 1886 insiste anch'egli sulla mobilia e abitazione che non sono conformi allo spirito di povertà. Morto Don Bosco, un prete preso dalla giovinezza, si mise a fare il signorino, la sua camera diventò un piccolo salotto. Don Rua avvisato,va a trovarlo, guarda, riguarda, poi tentennando il capo: “Non è mica da povero, è roba da ricchi, la tua camera non è da povero”. Dopo alcuni giorni vede un carretto che trasporta un pianoforte: “Dove lo portate?”. “Nella camera del tale “. “Per adesso portatelo la,servirà nelle feste grandi quando si dovrà cantare la romanza”. E cambia casa all'individuo. Passato un certo tempo va a fare visita a quella casa, e appena giunto: “Conducimi nella tua stanza, voglio vederla...Già, già, anche trasportarti non basta; guarda, questa roba non è da povero: metti via questo tavolino...” ed a forza di “no” e di “metti via” gli ha spogliato la stanza. Alla base vi è l’esperienza del limite unita alla percezione che intravedere un obiettivo che risponde a quella mancanza e per questo sentito come vero per la propria vita. Si rinforza nella tensione verso questa meta resistenzo alla frustrazione di non poterlo perseguire immediatamente. Il desiderio non si compie quando l’oggetto è posseduto ma quando colui che desidera decide di tendere verso l’oggetto, concentrando l’energia nella tensione. {?} Vi è un legame stretto fra desiderio e decisione. Solo questi mette in atto l’intero dinamismo psichico. Nella tensione vi è già l’appagamento che apre a nuova ricerca, nuova tensione, nuova libertà. La condizione iniziale per desiderare è la capacità di dare senso alle cose scoprendone la verità intima sapendo rinunciare a ciò che blocca ad un livello più basso rispetto al desiderio di partenza. È necessaria pazienza e costanza nell’attesa per giungere al compimento trasformando questo tempo in momento di purificazione e crescita del desiderio stesso, domandandosi cosa sia al centro della sua attesa. Se il desiderio si affievolisse sarebbe il segno della sua falsità. Desiderare a aprirsi al nuovo che non si conosce ed al futuro che viene in qualche modo anticipato attivando la volontà, smuovendo energie, dando forze per superare le fatiche e il coraggio per attendere la realizzazione. È il desiderio che muove l’intero apparto psichico e non la volontà. Colui che desidera è intelligente e curioso Intuitivo e cerca il senso vero delle cose Scruta e discerne le cose Ammira e contempla la realtà Non si ferma alle difficoltà e godono di ogni vibrazione 3.1.3 Oggi crisi di desiderio Desideriamo poco e spesso tutti allo stesso modo Corto raggio – immediato e di gruppo o Questo a causa di un vuoto educativo ed esistenziale che è frutto di un permissivismo esasperato, un soddisfacimento immediato per cui è difficile primariamente delineare i propri sogni. o La conseguenza è la sovrabbondanza di beni più che desideri, per cui non vi è più il “diritto d soffrire” implicito in ogni crescita. Facciamo di tutto per proteggere, anticipare desideri, risparmiare delusioni, togliendo però pure la grande esperienza della conquista. o Il desiderio si nutre di bellezza quando oggi vi è uno scadimento del gusto estetico divenuto ambiguo, con II testimonio di Don Bosco Nel suo testamento l'ultima raccomandazione è: “Amate la povertà se volete far fiorire la Congregazione” (M.B. XVIII, 271). Nella stessa pagina ha ancora un'altra sentenza: “Quando incominceranno tra noi le comodità e le agiatezze la Congregazione avrà finito il suo tempo. 282 63 o debolezza di criteri e che non danno motivazioni forti per le scelte individuali. Per cui le scelte se vengono fatte sono su provocazione per funzionalità o utilità, facendo calcoli per interesse. Allora il desiderio è povero e debole come fosse una cosa inutile o di lusso. Una ulteriore dinamica oggi emergente è quella della paura che assume diversi volti: quella del futuro, di ciò che sta all’intorno, della società, dei rapporti. Questo smorza il desiderio e pone nella logica opposta che è quella della prevenzione. Desiderio Creativo Frutto dell’attrazione Il sogg. si lascia conquistare L’ogg. è bello e affascinante Prevenzione Reattivo Frutto della paura il sogg. si cautela l’ogg. è brutto E in questo siamo circondati da una miriade di informazioni preventive che smorzano o In questo contesto tutto appare dovuto e deve essere nella categoria della perfezione, rispondendo a principi di soddisfazione immediata e totale da una parte e da noia per una clonazione assistita dall’altra. Solo chi vive nella gratitudine ha uno sguardo carico di desiderio diversamente al prevenzione qui si manifesta come risarcimento per un esistenza che non corrisponde di cui i genitori divengono l’emblema di una colpevolezza da indicare. 3.1.4 Educazione – formazione ai desideri Spesso non siamo consapevoli di ciò che desideriamo, e se effettivamente lo desideriamo al di là della formulazione intellettuale o volontaristica perché in effetti il cuore è abitato da latri desideri. Non basta esprimere ciò che si sente dentro, accontentandosi di essere sinceri perché questo spesse volte non coincide con ciò che è vero. La sincerità è immediata e soggettiva, registrando ciò che uno prova e facendo emergere ciò che uno vorrebbe possedere. La verità del desiderio è un'altra cosa: è ciò che attiva il cuore, la mente, la volontà e spesso non è subito evidente, ma funziona come motivazione nascosta che spinge ad agire in una ben precisa direzione. Sincerità non è allora sinonimo di verità. spirito di povertà, mentre quelli che lo mantennero fiorirono meravigliosamente, per es. i Cappuccini. Chi è povero pensa a Dio, quasi costretto dalla necessità, Non e bella cosa essere obbligati a pensare a Dio? La raccomandazione di Pio IX La sera del 19-II-1863, giorno in cui le Congregazioni Romane approvarono la nostra Congregazione, Don Bosco si trovò a colloquio con Pio IX. Tra le altre cose il Papa disse: “Badate di non accogliere nella vostra Congregazione né ricchi né nobili e tenetevi sempre alla gioventù povera e abbandonata, alle classi diseredate”. Agiatezze In una conversazione del 14-VIII-1876, già ricordata, Don Bosco ricorda tre cose che gettano giù lo spirito della Congregazione: l'ozio, la ricercatezza e l'abbondanza dei cibi, l'egoismo e lo spirito di riforma o mormorazione, ed aggiunge: “Ma io vedo già entrare tra di noi una agiatezza che spaventa”. Forse alcuno aveva messo un tappeto sul tavolino e due sedie invece di una, uno straccio alla finestra della soffitta, un paio di scarpe nuove un mese prima di gettar via le vecchie... E l'anno prima aveva detto: “In casa già si tende all'agiatezza e per poco che si trascuri verrà subito qualche grave inconveniente o qualche caso deplorevole”. Santa esagerazione! Eppure tutti i santi fondatori sono stati così. Nell'inverno del 1880 va a S. Benigno, tiene una conferenza al personale della casa e proibisce di fare i pastrani ai chierici: “Costa troppo, il chierico deve darsi da se il calore”. Con quel freddo, senza riscaldamento e senza pastrano, eppure si stava bene! Quella volta alcuni gli dissero: “Mettiamo qualche cosa alle finestre” “Questo è fare il signore”. “Ma un po' di decoro... !”. “Il decoro dei salesiani è la povertà”, ha risposto secco e quando rispondeva secco era secco realmente, perché aveva una voce squillante e parlava a denti stretti. Carità e povertà Don Bosco in questa materia è quasi feroce, eppure nel suo ultimo ha due pagine meravigliose sul modo di trattare gli indisposti, gli ammalati, chi ha gia lavorato molto. Raccomanda di essere larghi con loro, purché non si faccia la seconda tavola. Invece nel 1885 quando scrive la circolare, ha espressioni come questa: “Una veste, un tozzo di pane devono bastare per un religioso”. La povertà e la Provvidenza 64 281 per evitare il peccato, che non sempre è grave, ma per accendere in noi un desiderio di essere poveri nello stretto senso canonico della parola, secondo lo spirito della nostra Congregazione. Questa povertà si esplica non solo nel non possedere e nel non amministrare, ma soprattutto nella volontà di essere povero ossia voler vivere e diportarsi da povero. Povero personalmente, accettando, cercando ciò che è effetto di povertà e non amandola in astratto, ma in concreto. Don Bosco a pag. 16 dei ricordi confidenziali ai direttori: “Amiamo la povertà ed i compagni della povertà, perché ciò che ci fa più danno sono gli astratti”. Tutti amano la gioventù, ma quando hanno 50 pulci tra i piedi li manderebbero... a chi li ama di più. Il Vangelo non ha insegnato ad amare l'umiltà, ma il prossimo, il singolo, individuo, particolare. Così ci ha voluti Don Bosco. Poveri personalmente, accettando e ricercando chi che e effetto della povertà, amando il tenore della vita povera, semplificando tutto quello che ci deve servire. Così deve essere povero chi vuole vivere salesianamente la sua salesianità, ossia come è vissuto Don Bosco. L’idea classica di Don Bosco La povertà in se stessa non ha valore intrinseco; il Signore la inculca solo in quanto porta con sé un distacco dalla ricchezza. La povertà ha dunque solo valore per il suo contenuto spirituale della mortificazione, del distacco. Tutta l'ascetica di Don Bosco sulle tracce di quella Alfonsiana è ascetica del distacco. Per Don Bosco la povertà è una perfezione spirituale. Egli ha cominciato dal niente, ha continuato tutta la vita nella povertà, è vissuto in maniera esemplare ed eroica nella sua povertà personale. Mamma Margherita (proprio da lei aveva attinto la sua perfezione) prima di morire gli faceva ancora delle raccomandazioni su questo punto: “Guarda di mostrare semplicità e povertà nell'opera tua... nelle cose che farai cerca la gloria di Dio, ma bada che attorno a te vi sono di quelli che vogliono la povertà solo per gli altri e non. per se stessi”. Averla nel cuore C'è una massima di Don Bosco del 1858 the da sola vale un discorso: “La povertà bisogna averla nel cuore per praticarla”. Magnifico è il libro che ha scritto quest'anno il sig. Don Ricarldone, ma nonostante tutto quello che dice e proibisce non otterrà nulla, se non l'avremo nel cuore. Nel 1859 Don Bosco dice ad alcuni confratelli: “Essere pochi e poveri non è un impedimento: anzi grande impresa è la povertà: essa è la nostra fortuna, una benedizione di Dio e noi dobbiamo pregare il Signore a volerci mantenere sempre nella povertà volontaria”. Dopo queste parole, ricorda come molti ordini religiosi decaddero, perché non seppero conservare il primitivo 280 Spesso nel cuore abitano desideri autentici che però non sono facilmente individuabili o non si riescono a far emergere perdendo così la verità della persona. Il percorso da compiere in sè e con la propria guida è a volte una vera discesa agli inferi esponendosi a scoprire i propri “mostri” che non si pensava di trovare dentro sé altre volte sarà un trovare la perla preziosa, passando quindi dall’apparenza alla realtà attraverso due movimenti: quello dello scavare e quello dello scalare. o Scavare i desideri è identificare la storia di un desiderio cogliendone l’origine nell’esperienza individuale È andare in profondità al di là del visibile: passando dai comportamenti agli atteggiamenti (gli stili di vita, le predisposizioni ad agire, i modi ormai appresi) dal detto ai sentimenti (dagli espressi ai più nascosti) per giungere alle motivazioni, ossia i veri perché che spiegano azioni e progetti. Se questo percorso in profondità è compiuto dentro la costanza di una relazione orante con il Signore emerge chiaramente la verità di noi stessi di fronte alla verità di Dio. Lui pone luce dentro la nostra realtà. Lui con la Sua Parola, la Sua croce e l’Eucaristia divengono setaccio che fanno emergere desideri, tendenze, paure. È preghiera di discernimento. Gesù chiede al cieco «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». Mar 10,51 Domanda apparentemente inutile, tanto è evidente la situazione ma egli vuole che il cieco interroghi se stesso e prenda coscienza del desiderio passando da un bisogno fisico a quello di salvezza. o Scalare i desideri è scrutare la posizione possibile, il suo futuro Dove può portare questo desiderio? Che cosa c’è al di là della immediata soddisfazione? Come potrebbe essere realizzato in pienezza? Quele è il suo vero punto di arrivo? Scalare significa scoprire e impedire tutti quei tentativi meschini e riduttivi di dare risposte che di fatto restano in superficie del problema, invece di giungere al bene. Cogliere dentro il singolo vero desiderio il respiro di divinità è l’unica via per dare senso ed unità a tutte le fatiche, perché ogni esperienza autenticamente umana mette in relazione con il Tu che desidera la “vita abbondante” Andare oltre se stessi, oltre il proprio pensiero e sentire per accogliere il “magis”. 65 Nessun desiderio è troppo piccolo per essere fuori da questa prospettiva. A volte i desideri sembrano in opposizione ma nella ricerca di godimento e distensione umana anche la più povera è posta la ricerca di quel qualcosa di più a cui anela ogni cuore. Scalare significa alzare lo sguardo imparare a puntare al massimo, a non accontentarsi di gratificazioni parziali o illusorie, a non adeguarsi all’opinione della maggioranza, fermandosi all’io attuale. Anche questo nella realtà della preghiera è lasciarsi modellare dai Suoi desideri anche se questo significa farsi torcere, ossia volgere il desiderio verso l’obiettivo finale facendo saltare la misura umana delle nostre aspirazioni spalancando gli spazi illimitati del desiderare divino. Questo può suscitare paura e voglia di azzerare tutto, accontentandosi di molto meno e dando retta a più miti consigli. Ma proprio il clima di preghiera ci pone nella certezza che Lui trasformerà e purificherà, perché l’amore è sempre trasformante, coscienti dall’altro canto che questo chiede un lungo apprendimento e non è per nulla spontaneo ma attraverso la guida e l’ascolto dei silenzi di Dio. chi non è abulico e incosciente. È meritoria quando uno deve operare su un binario che va in un punto morto o peggio ancora. Sacrificio quando bisogna stare con uno che comanda senza esserne degno, o in modo indegno o con passione personale contro di te; e sacrificio quando chi comanda non ha di buono che la veste che ha indosso, ma anche e soprattutto in questi cosi tu devi vedere Dio. Troverai persone che sono incapaci, superiori sbagliati ce ne sono, troverai alcuni che Leopardi dice: « Discepoli di tale di cui mi sarà vergogna essere maestro”. Gente che ha raggiunto il posto con mezzi subdoli..., potrai trovare le persone più sante messe su da un intrigante che l'ha con te, e non ne imbrocchi una. L'aveva gia previsto S. Benedetto al capo settimo delle Regole parlando dell'umiltà: «Il quarto grado dell'umiltà, egli dice, e il sapersi dirigere in questa posizione”. E ce ne sono di questi. Un salesiano illustre che portava il cilicio (Don Fascie) è stato 5 anni con un superiore di questo genere. Concludendo La materia dell'obbedienza per noi figli di Don Bosco non è questione casuistica e di canoni, è umiltà nei sentimenti, sacrificio interno della volontà, di giudizio e qualche volta anche sacrificio esterno e carità verso il superiore. Con questo spirito che ha fatto trionfare la Congregazione nel mondo, ricordiamolo bene: i raggi della nostra aureola, i 4 principi che cirendono gloriosi davanti alla Chiesa e alla storia sono: Lavoro, Temperanza, Povertà e Disciplina. Scheletro che sorregge il salesiano, è l’unico carisma che in realtà don Bosco ha richiesto, la logica dell’obbedienza non è quella del servilismo L’obbedienza è gioiosa, schietta e ideologica, è rinunciare all’indipendenza e cercare la libertà (servire regnare est), diventi utile quando accetti di essere inutile 5.3. Povertà94 5.3.1 La povertà salesiana 95 “Beati pauperes spiritu...” (Beati i poveri in spirito... Mt5,3). Lo spirito di povertà è quello che ci assicura il cielo. Il tema che ci proponiamo è quello della nostra povertà, della povertà salesiana. A noi non interessa la catechesi del voto o la infrazione del voto in senso teologico, ma ci interessa la volontà di praticarla; dobbiamo ridestarne lo spirito non solo 94 VIGANÒ E., Un progetto…, oc, pp. 158-175. ACG 367, 1 – 4. 95 66 279 CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 40-45. quindi il principio fondamentale della vita salesiana: l« Lavorare tutti con disciplina di famiglia nell'unione per la maggior gloria di Dio e per poter ottenere il fine collettivo che è la salvezza delle anime. Questo è il concetto di Don Bosco diffuso in tutti i suoi scritti e ricordate il grido d'angoscia: « Ma ora i superiori vogliono essere superiori e non sono più padri, fratelli, amici; sono temuti e non amati ». E lo scatto che ha: « Ma perché si vuole sostituire la freddezza di un regolamento al principio della carità? ». Per il cammino di interiorizzazione Cosa c’è dietro questo desiderio? Che cosa dice della mia vita? È davvero ciò che mi sta a cuore o copre qualcosa di ben più profondo di cui non sono consapevole? Imboschiamoci Studiamo Don Bosco, altrimenti andiamo canonizzandoci e dimentichiamo il principio fondamentale della Congregazione che è la bontà. Questo dev'essere il principio direttivo del sistema preventivo anche nei superiori. Si pubblichino dei libri di lettura spirituale apposta per noi dettati per il nostro spirito, come si era prescritto nel Capitoto Generale di 35 anni fa, altrimenti andiamo leggendo altri libri e perdiamo il nostro spirito. II nostro testo è Don Bosco e non altri... e non la vogliono capire. La questione di principio Don Bosco ci si presenta come per l'osservanza e la austerità piuttosto severo, rigido, direi intransigente. Infatti nel 1885 ai direttori dice cose molto forti: « Finora l'obbedienza da noi fu più personale che religiosa. Evitiamo questo inconveniente e non obbediamo perché il tale comanda, ma obbediamo per motivo superiore, perché chi comanda è Dio, comandi poi per mezzo di chi, vuole ». Nel 1886 il 3-X me presente, in quel famoso giorno in cui saltò su contro la mormorazione, contro lo spirito di critica, proprio in quella circostanza, pronunciò questa sentenza: «un sacrilegio fare il voto di obbedienza e poi regolarsi come fanno taluni che obbediscono solo quando loro piace ». Ed in altra circostanza: « Recedendo dai nostri voti facciamo un furto al Signore, perchè ritogliamo ciò che abbiamo messo nelle sue mani ».Una volta Don Bosco mandò un ordine ad un tale che era stimato e chiamato santo e che ci teneva a tale appellativo e questi non si piegò. Ne mandò un secondo ed ottenne il medesimo risultato. Manchè per la terza volta lo stesso ordine mediante una persona e l'individuo non si piegò. Allora Don Bosco: « Il tale fa il santo ma non obbedisce nemmeno a Don Bosco... Consultate tutto il Martirologio e vedrete che San Testone non c'e ancora ». Catena... d'oro La vita sotto obbedienza la conosco da 54 anni e vi posso dire tanto biograficamente come storicamente per altri che è vita di sacrificio, ma l'atto più meritorio di tutta la vita perché comprende il sacrificio della nostra personalità; e sacrificio della nostra volontà e quindi e più duro di tutti per 278 67 4. Maturità psicologica e santità cristiana 4.1. Criteri di maturità Nelle scienze umane oggi sembra essere abbandonato il concetto di maturità sostituito al massimo con quello di maturazione nelle diverse fasi, perché la prima fa riferimento ad una concettualizzazione della persona in chiave di staticità ed ad uno sguardo giuridico valutativo mentre si predilige la dimensione pedagogica. Si parla allora di una pluralità di nascita con nuove sintesi e nuove scelte: fase di sopravvalutazione l’esperienza del limite coscientizzazione della fatica al cambiamento disorientamento della riqualificazione del senso delle cose sino alla consegna totale di se stessi con la serenità di lasciar spazio agli altri - uomo come essere capace di relazioni gratuito e libere capacità di affidarsi capacità di condividere capacità di prendersi cura - uomo che ha interiorizzato i valori e non solo li ha indossati (cfr. 2.1 C) - uomo che ha preso coscientemente e serenamente la responsabilità del suo cammino di crescita (cfr. 0.1) Anche nell'obbedienza bisogna fare delle distinzioni: c'e la questione del principio e quella della forma. II principio incrollabile è questo: •necessità e dovere di obbedire. La forma invece consiste nello speciale concetto dell'obbedienza nel regime salesiano, ossia nel modo di attuare il principio. Vediamo quindi questa forma. L'idea di Don Bosco su questo punto è quella di un'obbedienza, di una disciplina di famiglia. Nella celeberrima lettera del 10.V.1884 colpisce superiori che vogliono essere considerati come superiori e non più come padri ed amici: sono temuti e non amati. Ma perché sostituire la freddezza rigida di un regolamento al principio della carità, dell'obbedienza amorosa ed amorevole? Amorosa nel principio, amorevole nella forma? Il regime di comunità interessa solo quando si sente di essere in famiglia; solo in simile ambiente tutti sono interessati per il bene comune. Tutti obbediscono al capo e padre, ma il padre deve essere padre ed amico. Per gli altri interessi comuni deve tenerci uniti un fine, un motivo superiore e non quello di guadagnare i soldi, ma il bene, la conquista delle anime, la salvezza della gioventù, che abbiamo in casa. Quindi non solo disciplina che scansa la sanzione canonica, ma cooperazione volonterosa di tutti per il lavoro: per questo abbiamo come stemma: Lavoro e Temperanza; per questo Don Bosco volle che ogni casa fosse una famiglia sotto un padre comune, e benché i papà non siano tutti uguali, pure si vuole sempre loro bene. Insisto su questa idea, perché se entrerà nelle case, i superiori non ne avranno dispiacere e la Congregazione andrà avanti meglio. Padre e non capo ufficio. Don Bosco volle obbedienza in vista dell'unione, quindi obbedire ad uno per essere uniti. Ai direttori riuniti 3.11.1876 dice: « Se un prete solo ha fatto tante cose con niente, che cosa non faranno 330 persone riunite e forti? » (Allora i salesiani erano 330). Unione sì; ma unione di figli e di fratelli col padre e non unione di impiegati che si uniscono al capo ufficio; quindi il padre sia padre e non il cavaliere, commendatore che comanda a tutti gli impiegati. Se il padre considera i dipendenti come gli impiegati, allora anche i sudditi lo considerano come capo e non come padre di famiglia. Nei ricordi confidenziali ai direttori per ben 16 pagine Don Bosco insegna ai direttori come si fa a fare il padre. Il colpo d'ala Nella Circolare inedita nella fine di aprile 1885 in cui ci convince che tutto va fatto per la gloria di Dio, aggiunge: «Dobbiamo obbedire non perché è comandato, ma per una ragione superiore, per la gloria di Dio». Sul medesimo concetto insiste nelle norme ai direttori del 1884 manoscritte. Unione nell'obbedienza per la gloria di Dio è un motto di Don Bosco. Ecco 68 277 Vi sono dei concetti di obbedienza che annullano la spiritualità. Prendete il cap. VI, 1, 3 delle Regole di S. Ignazio: «Perinde ac cadaver,ac baculus » (Come un cadavere e un bastone). Questa è obbedienza rigida, fredda, che annulla la personalità, non è fatta per noi: noi siamo salesiani e facciamo i voti secondo le Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales e non secondo le Regole e le Costituzioni della Compagnia di Gesù. Questo principio riportato e magnificato da tutti i libri d'ascetica non è il nostro. Noi non dobbiamo essere delle marionette senz'anima. C'è pure una teoria paralizzante, disfattista, conventualista che serpeggia e s'inculca senza saperlo e conduce a gravi conseguenze. Stiamo attenti noi abbiamo un altro spirito che si riassume nel motto salesiano “Vado io”. Non so quanti giorni di indulgenza abbia, ma certo un maggior bisogno per la Congregazione che è cresciuta tutta con «vado io» così in forza di sacrifici: solo così si spiegano le missioni perché S. Madre Chiesa arriva poi solo dopo a organizzare, a reggimentare ciò che è frutto dei sacrifici di coloro che hanno detto: «vado io» L'eresia e la bestemmia salesiana C'è però anche il contrario della medaglia che è una eresia salesiana espressa nella forma: «la regola e basta». C’è n'è uno per casa di questi batticolpo e posapiano: c'è del lavoro enorme da fare ed essi si scusano sempre: « Nessuno me l’ha detto ». Io li prenderei a...! Simile all'eresia, anzi peggiore ancora è la bestemmia salesiana: «non tocca a me». Brucia la casa: « Non tocca a me »; un rubinetto perde acqua: « Non tocca a me »... e andate avanti di questo passo. Povera Congregazione, starebbe fresca se avesse un certo numero di questa gente. Per delineare bene il nostro spirito possiamo definirci cosi: « Una Congregazione in cui tutte le azioni, attività, iniziative personali sono inquadrate in una organizzazione disciplinata dall'obbedienza ». E quindi il nostro concetto affatto differente da quello degli altri Ordini. L'esempio Permettetemi una parentesi: bisogna che noi abbiamo consapevole del nostro stato di preti. Il prete è sempre prete. I coadiutori, i chierici guardano a lui, e quindi in grazia della pretura siamo tenuti a dare buon esempio; alcune volte costa un po' caro, ma pure tocca a noi dirigere la macchina, perché siamo noi la ruota principale del meccanismo che chiamerò. Lanzo, Cuorgnè, Chieri... Per gli altri le disubbidienze sono scappatelle da collegiali, per noi invece sono consapevoli, premeditate; questo intacca la compattezza della disciplina comune: dobbiamo ricordarci che abbiamo obbligo sacrosanto di mostrarci agli altri più solleciti nell'obbedire: è un obbligo inerente alla nostra condizione. 4.2 Autocontrollo 17 Autocontrollo significa gestire se stessi nella dinamica dell’Unum, Verum, Bonum, Pulcrum cioè del trascendente, della verità di noi stessi. Autocontrollo in termini di discernimento San Francesco di Sales ribadisce varie volte che l’uomo ha una distinzione intrinseca una parte superiore ed una inferiore, nell’una vi sono gli istinti nell’altra abita la verità di noi stessi, luogo dell’appello di Dio, e della vera umanità. È in questa sfera che nasce la purificazione dal controllo sociale, che ci pone in balia delle opinioni, apprezzamenti… degli altri da quello formale\giuridico che ci mantiene nella logica del solo dovere con correlato senso di colpa per giungere gradualmente al controllo valoriale che trova in ciò che è stato interiorizzato il punto di confronto al “controllo” teologico cosciente d’essere alla Sua presenza quale custodia forte che ha posto un cherubino a difesa del giardino (Gn 3,24) e di te (Sal 91) presenza preveniente che mantiene su ciascuno uno sguardo amante verità giudicante senza confusione sul bene e sul male per cui alcuni atteggiamenti non li attuerò al “controllo” cristologico per cui la prova di verifica continua è data dalla crescita nella somiglianza a Lui. Autocontrollo allora in questa chiave è cammino di identificazione a Cristo, ai suoi pensieri, al suo modo di parlare, al suo modo di agire… 17 La tematica della rinuncia vista nell’internalizzazione delle motivazioni. CHAUCHARD P., Il dominio di se stesso. Psicofisiologia della volontà = I prismi 2, Edizioni Paoline, 1992 9 Cinisello Balsamo (Mi). La nostra obbedienza 276 69 4.3 Autonomia18 4.4 Altruismo 4.5 Autenticità “Chi si conosce davvero, si rende conto di quello che può fare e di quello che non può fare. L'autenticità e una virtù fondamentale: è il coraggio di essere se stessi nel bene, nei talenti che si hanno e anche nei limiti che ciascuno di noi ha. Tuttavia e molto difficile essere autentici in una società competitiva come la nostra, nella quale alcuni hanno successo, riescono ad acquistare potere su altri: potere culturale, morale, non soltanto economico. La tentazione è sempre di non essere noi stessi bensì di imitare negli atteggiamenti esterni chi ha successo. Nasce cosi il divismo: si imita il cantante alla moda, il calciatore, l'uomo politico, ecc. Ci può essere, è vero, un aspetto giusto nell'ispirarsi a un modello. Molto spesso però ci sta sotto una sottile menzogna: sapendo di non valere molto, cerco di immedesimarmi, almeno con la fantasia, in quel dato attore o cantante o politico o calciatore o pugile. Mi leggo in quella persona, fantasticamente, e rinuncio alla semplice verità e forza della mia vita. Noi talora cadiamo in questa piccola trappola addirittura anche a riguardo dei Santi. C'e un modo di guardare ai Santi che non e educativo per la nostra crescita ma illusorio. Vorremmo essere ciò che non siamo e la fantasia ci fa credere di essere diversi dalla nostra verità, ci fa scambiare l'entusiasmo che sentiamo […] C'e in me una aspirazione che devo tradurre con realismo nelle mie capacita concrete.[…] C'e dunque in noi o attivamente (per quanto ci riguarda) o passivamente (per quanto riguarda gli altri) una sorta di abitudine a ingrandire la realtà, a fare di noi un personaggio o a fare di altri un personaggio, uscendo dalla verità del Vangelo e dalla semplicità dei rapporti. Dobbiamo continuamente imparare a godere delle doti che abbiamo senza insuperbirci, e a non rattristarci di quelle che non abbiamo e che altri hanno. […] Chi sono io? Non corro forse it rischio di irritarmi, di preoccuparmi quando mi sembra di essere lasciato da parte o di inorgoglirmi e irrigidirmi quando sono messo al centro della situazione? Maria ne è l’emblema 18 In parte già trattata in relazione alle motivazioni nella dinamica dell’identificazione Cfr. CENCINI A.-MANENTI A., Psicologia e formazione, EDB, Bologna 200312, pp. 286-293. 70 apostolico di Don Bosco ha potuto deporre che tanto prima quanto dopo la sua morte, mai si erano avverate scissure fra le case, mai ribellioni, mai tentativi di riforma. E questa deposizione è del 1908, ossia di vent'anni dopo la morte di Don Bosco, ossia dopo il decennio nero profetato nel sogno del 1871.E dite se non siamo quel che siamo. Vedete che sono salesiano a150%? Un solo peccato all'anno. Una vera disubbidienza canonica, cioè che al superiore rivestito dalla potestà del can. 501 si risponda « no », su 12.800 salesiani, non credo che ne capiti uno all'anno in tutta la Congregazione. Degli autonomi ve ne sono dappertutto, anche tra quelli che hanno i galloni sulle braccia. Momenti cattivi, momenti di nervi ce ne sono, ne abbiamo provato un po' tutti. Vi sono anche sbagli dei superiori, e non è ribellione dire che ci sono dei superiori sbagliati: sono 1200 persone che hanno potestà dominativa in Congregazione, tante case altrettanti direttori, sarebbe divino se non se ne sbagliasse uno...Anche S. Romana Chiesa sbaglia qualche volta sbaglia scegliere i suoi vescovi, e poi deve ritirarli e sopportarli. Ora nella quasi totalità siamo disciplinatissimi: lasciate che i superiori gridino, che facciano prediche dotte e vi scaraventino addosso tutto S. Tommaso e ascetica, lasciateli dire, devono farlo. La pratica però è questa, che siamo della gran brava gente. Pericolo della legalità Vengo alla pratica della nostra vita. Tutti sanno il canone 501 della potestà dominativa e delle persone in cui risiede. Tutti gli altri invece, prefetto, catechista, consigliere, comandano solo rappresentativamente, ma non hanno poteste. dominativa. Gli stessi superiori del Capitolo, eccetto il Rettor Maggiore, comandano solo collegialmente. (Don Bosco nel1’1869 ha spiegato tutto questo ai chierici aspiranti e novizi e quindi credo di poterlo dire ai teologi). Ragionando a forza dei canoni sembra che si debba obbedire solo quando entra la forza del voto ed allora anche facendo il testone, il ribelle, il capriccioso “come voglio io”, si continua a fare la Comunione tutti i giorni perché non si cade in peccato mortale e così si ha lo spettacolo di testoni permanenti che fanno imperturbabili la loro Comunione quotidiana. Don Bosco non aveva questa idea. Se qualcuno faceva cosi lo chiamava a parte e: «Come vai alla Comunione con questa condotta? ». Ed aveva ragione perché il Signore lascia entrare tutti, ma poi guarda se hanno la veste nuziale. Se fossimo andati a punta di canoni o di Costituzioni, la Congregazione sarebbe ancora in Via Cottolengo 32, non sarebbe una città nei limiti di Torino, ma sarebbe ancora alla casa Pinardi. Vado io 275 5.2. Obbedienza92 5.2.1 L’obbedienza salesiana93 Prima di parlare di obbedienza vi suggerisco di leggere le Regole di S. Benedetto; vi troverete la vera vita e la vera personalità spirituale. Conviene che leggiate non solo perché un buon salesiano deve sapere parole per ogni ramo e poi spenderle bene, ma soprattutto perché l'ultimo benedettino e Don Bosco, e S. Benedetto il primo Don Bosco. E prima ancora di imboscarvi in obbedienza, ossia di dirvi come Don Bosco ci vuole, premetto tre consolazioni: 1. In fatto di morale è raro che la mancanza di obbedienza giunga alla gravità del peccato mortale; per questo ci vuole o una disobbedienza in forma canonica o di categorica infrazione al voto. Tutte le nostre scappatelle sono scappatelle da collegiale, tutte birichinate anche se abbiamo i capelli bianchi . 2. S. Anselmo dice chiaramente che non c'è da disperare di un religioso finché non infrange i voti; egli poi ragionando la mentalità benedettina: per cui l’unico voto è quello dell'obbedienza che lega al convento; quindi basta non scappare... 3. In via di fatto consoliamoci: tra tutte le Congregazioni attive che brillano nella Chiesa per la loro disciplina, la Congregazione salesiana sta alla pari dei Gesuiti, cioè in primo piano. (Mettiamo Gesuiti, perché bisogna dir cosi). L'esperienza che ho della vita mi fa nutrire questi sentimenti: non c'è nessun'altra Congregazione che abbia tanta pazienza, disciplina soggezione, tanto spirito di obbedienza, quanto la Congregazione salesiana. Noi siamo addirittura miracolati perché gli altri Ordini hanno un'obbedienza da cui non si scappa, perché hanno insegnato ogni passo ed il superiore non può comandare più di quello che è nel libro. Chi entra deve praticare la Regola, un binario ed uno solo. Noi invece dipendiamo sempre dal superiore locale, cambiare direttore vuol dire cambiare tutto quanto. Eppure noi ci stiamo e sopportiamo."Don Rua nel processo 92 VIGANÒ E., Un progetto evangelico di vita attiva , LDC – Torino, 1982, pp. 134-157. CNV, Chiamati a libertà: obbedienza e vocazioni, Ed. Rogate – Roma, 1998 ACG 375, 1 – 4. MANZI F. – GILLINI G. – ZATTONI M.T., Diventare obbedienti come Gesù. Perché proporre ai ragazzi l’obbedienza cristiana, In dialogo, Milano 1999. 93 274 CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 55-60. Il fatto straordinario che le succede è un evento nuovo che pensa di non meritare: «Ma che cos'e? Come mai a me? Perche? Che c'entro io?». […] Noi cogliamo qui l'atteggiamento radicale di una vocazione che nasce dalla semplicità: «Signore, so di non poter pretendere niente. Sono contento che tu mi ami così come sono e se tu mi chiami, Signore, io sono pronto». La domanda: «Chi hai scelto, Signore?», trova la risposta coerente: «Hai scelto uno che sembrava molto meno capace di altri e che però aveva la semplicità di cuore, la prontezza a servirti senza pretesa». Qualche volta, paragonandoci a tanti migliori di noi e ai quali non sembra sia stata donata la vocazione che è proposta a noi, dobbiamo chiedere con molta umiltà al Signore “perché ci ha scelti?”. Ci ha scelto non perché siamo particolarmente bravi o brillanti ma perché ci ama. «Signore, desidero ringraziarti e chiederti la grazia di affidarmi a te, di non tirarmi indietro. Fa', o Signore, che io non i sottragga ma mi ponga con semplicità nelle tue mani».”19 4.5.1 Veradicità20 Una virtù che ai nostri tempi ha subito gravi perdite è la veracità. Intendiamo con questa parola l'amore per la verità, la volontà che la verità debba essere conosciuta e accettata. Essa significa anzitutto che chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in certe circostanze, può provocare fa- stidi, danni e pericolo; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza. Di essa non si dice: Tu la puoi dire quando ti piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità; non la devi né ridurre, né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche quando la situazione ti vorrebbe indurre a tacere, o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una domanda. Anche a prescindere da ciò, tutto il nostro essere si fonda nella verità. Avremo ancora occasione di parlarne. I rapporti degli uomini tra loro, le strutture della società, l'ordine dello Stato, tutto ciò che si chiama costume morale, ed egualmente l'opera dell'uomo nelle sue molteplici forme: tutto si fonda sull'istanza che la verità sia un valore. Veracità significa dunque che l'uomo possegga questo involontario sentimento: che la verità dev'essere detta, assolutamente. Naturalmente, si noti bene, nel presupposto che l'altro abbia un diritto d'essere 19 20 71 MARTINI C. M., Tu mi scruti…, oc, pp. 51-57. GUARDINI R., Virtù…, oc, pp. 21-32. informato in proposito. In caso contrario, sarà una questione di esperienza e di prudenza l'intuire la corretta forma d'un eventuale silenzio. Sarà bene inoltre avvertire che per la veracità della vita quotidiana non è indifferente l'interna sicurezza rispetto alle diverse situazioni esistenziali, oppure possesso più o meno grande di una lingua o d'una facilità di parola. E’ una questione di formazione morale, di cui l'educazione deve preoccuparsi. Certe bugie nascono da timidezza e da imbarazzo, ed egualmente da un dominio insufficiente della lingua. Problemi del tutto particolari al riguardo nascono da situazioni a noi note della storia e della nostra epoca: quando, per esempio, un regime tirannico opprime la vita e non consente forme di convinzione personale. Allora l'uomo si trova in condizioni di costante necessaria autodifesa. Coloro che usano violenza non hanno nessun diritto di pretendere la verità e sanno pure che non possono aspettarsi la verità da nessuno. In situazioni di violenza oppressiva la lingua perde il proprio significato. Essa diviene, sulla bocca degli oppressi, uno strumento di legittima difesa, fuorché nel caso in cui la situazione arrivi al punto da esigere una testimonianza, in cui chi parla arrischia i propri beni e la propria vita. Intuire e giudicare tutto ciò è un problema di coscienza. E chi vive in sicurezza e libertà farà bene a domandarsi, prima di giudicare, se egli abbia realmente diritto di giudicare. In ogni caso veracità significa dire la verità; e non solo una volta, ma di continuo; in modo che ne emerga un atteggiamento costante. Essa crea nell'uomo, nel suo essere e nel suo agire, un che di chiaro e di fermo. Significa non soltanto dire la verità, ma anche farla; giacché si può mentire anche per mezzo di azioni, di atteggiamenti e di gesti, quando tutto ciò sembra manifestare qualcosa che non è. Ma veracità e di più ancora. Abbiamo gia detto che non esistono virtù separate. Certamente è già capitato a tutti noi di notare che la natura non conosce il suono “puro” e libero, ma che ogni suono contiene sempre sovrasuoni e sottosuoni, che è dunque un accordo; che egualmente non compare mai in natura il colore puro, ma solo mischiato con altri colori. Così non esiste neppure la “pura” veracità; essa sarebbe dura e si muterebbe in ingiustizia da sé. Ciò che esiste è la veracità vivente, dove interferiscono gli altri elementi del bene. Esistono persone veraci per natura. Sono troppo pulite per poter mentire; troppo unitarie con se stes- se, o si potrà talvolta dire: troppo orgogliose per questo. Ciò è a tutta prima magnifico; ma una persona di tal fatta facilmente si troverà nel pericolo di dire cose in momenti ai quali non appartengono; di ferire o di danneggiare altri. Una verità detta in un momento sbagliato o in un modo errato può perfino sconvolgere qualcuno fino al punto che egli potrà a stento ritrovare poi la propria esatta posizione morale. Questa non sarebbe una veracità vivente ma unilaterale; nociva, anzi disastrosa. Senza dubbio esistono momenti in cui non è lecito guardare né a destra né a sinistra, ma bisogna uscire con la franca verità. Di regola però vale il fatto che noi esistiamo nel contesto dell'esistenza, e in questo contesto si dà, oltre il postulato della verità, anche quello del riguardo per la persona altrui. Perciò la manifestazione della verità dev'essere regolata anche dal tatto e dalla bontà, se vuole avere tutto il suo valore umano. 72 5. Introduzione ai consigli evangelici 5.1 Introduzione secondo le dimensioni umana, cristiana e consacrata91 Dim. Umana Vita cristiana Vita consacrata La cura delle relazioni L'altro e la solidarietà Affettività equilibrata Flessibilità e accettazione Il primato dell'essere Il dono cristiano Il regno di Dio I puri di cuore Ob. alla volontà di Dio Essenzialità e condivisione La v. frat. in comunità La missione (GxG) Il voto di castità Il voto di obbedienza Il voto di povertà La “perfezione” della vita cristiana data dai consacrati: essere segno evidente del primato di Dio e del suo Regno. Dio esiste Il suo amore può colmare una vita Persona di Gesù, innamorarsi di Dio Geremia: “Tu mi hai sedotto, mi hai circuito” Dio è come la cancrena, Dio è come l’edera, due persone che stanno insieme non possono avere paura di farsi vedere, testimoniano il loro amore, testimoniano agli esterni e a se stessi Maria è l’emblema della consacrazione Bisogna dare tutto al Signore, macinare la Parola di Dio, con coraggio di un confronto Giovanni 12, 1-8: Marta serviva, Lazzaro era un commensale, Maria “donna del profumo”, tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento, costato 30 monete d’argento si poteva rivendere per 300 denari. O si spreca (passione) o si ruba (avere paura) Cfr. Quaderni del GrGio, la scelta, incontro I, IV, VII. RUPNIK M. Dall'esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa, Lipa, Roma 20023, pp. 5-71. SPIDLIK T., L'«uomo di Dio». Alle radici della vita religiosa, Lipa, Roma, 2003, pp. 13-36. 53-68. ACG 382, 4; ACG 365, 1 – 3. 273 91 mi mette a disagio sentirmi avvolto dalla sensualità, da desideri che non vorrei, da fantasie che mi disturbano... … 4.3.3 Confessio Fidei: dal credo all’impegno A questo punto comincia la confessione di fede, la richiesta di essere liberati, purificati da ciò che non vogliamo essere, di essere cambiati: "Crea in me, o Dio, un cuore nuovo, donami la gioia della tua salvezza, non privarmi del tuo santo spirito, perché non è la grandezza del mio pentimento, bensì il tuo amore che trasforma la mia vita! ". t la preghiera che ci immette pacificamente nella misericordia di Cristo, quella misericordia che scende su di noi nel sacramento della penitenza. Il primo frutto dell’incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù. La seconda sottolineatura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la « penitenza » che vuol fare e Gesù l'approva. Zaccheo propone ciò che e più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui. Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova. Per lui il frutto di «penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano). P- la sua personale, storica, precisa penitenza. Gesù l'approva e gli dice: « Oggi la salvezza e entrata in questa casa». … Invece di chiedere a me stesso, a me sacerd6te: «che cosa devo dare come penitenza?», posso chiedere a questa persona, a questa sorella, a questo fratello che è venuto da me: «quale penitenza credi che ti sarebbe utile? quale opera di giustizia, di pietà, di misericordia corrisponde in questo mome La verità si dice non entro uno spazio vuoto, ma in direzione dell'altro; perciò chi la dice deve anche sentire che cosa essa, nell'altro, provoca. Paolo ha detto una parola la cui energia significativa è intraducibile: i destinatari della lettera, ossia i cristiani di Efeso devono aletheùein en agape. Il termine principale della proposizione, alétheia, verità, è diventato verbo: «veritare», cioe «dire, fare, essere la verità». Ma «nell'amore» (Ef 1, 15). Affinché la verità sia viva, vi si deve aggiungere l'amore. Viceversa esistono anche persone nelle quali il sentimento per l'altro è assai fortemente sviluppato. Esse avvertono immediatamente la sua situazione intima; sentono il suo essere e il suo stato d'animo; percepiscono i suoi bisogni, timori, tormenti, e si trovano perciò nel pericolo di cedere all'influsso della sfera vi- tale altrui. Allora esse non solo hanno riguardo, ma si adattano; indeboliscono la verità o la sottolineano troppo forte; manifestano identità di opinione dove in realtà non ne esiste. Anzi quest'influsso può già a priori determinare i loro pensieri a tal punto che va perduta non soltanto l'indipendenza esteriore della loro parola e del loro comportamento, ma anche l'interiore autonomia del giudizio. Anche in questo caso l'aspetto vivente della verità è in crisi, giacché a essa appartiene la libertà dello spirito di vedere ciò che è; la decisione responsabile che sostiene il suo giudizio anche contro la simpatia e la disponibilità all'aiuto; l'energia della persona, la quale sa che la dignità personale sta o cade con la fedeltà alla verità. Abbiamo cosi gia due elementi costitutivi dell'amore alla verità se questa ancora vuole davvero essere una virtù: il riguardo a colui che ascolta e il coraggio di parlare nelle contingenze difficili. Ma occorrono altri elementi ancora: per esempio, esperienza della vita e comprensione per la vita come è. Chi vede la vita con eccessiva semplicità crede di esprimere la verità, quando invece le reca violenza. Ad esempio, gli viene da dire di un altro: «Costui è un vile!». In realtà la persona in questione semplicemente non possiede la dirittura di colui che è sicuro di se stesso; la sua coscienza è angosciata e ha paura di agire. Quel giudizio pareva colpire nel segno; ma colui che lo pronunciò difettava di esperienza della vita, altrimenti egli avrebbe avvertito nell'altro i segni del blocco psicologico. Oppure il giudizio decide che l'altro a uno sfacciato, mente invece a un timido che cer- ca di infrangere le proprie costrizioni interiori. Si potrebbe dire dell'altro ancora. Si capirebbe sempre di più che una forza vivente di verità coinvolge tutto l'uomo. Un mio amico notò un giorno durante una conversazione: «La veracità è la più sottile delle virtù. Ma c'e gente che la manovra come un bastone». Tutti i rapporti degli uomini tra loro, tutta la vita della comunità umana si fondano sul rispetto della verità. L'uomo è un essere misterioso. Una persona sta dinanzi a me: io vedo la sua figura, sento la sua voce, posso anche afferrare la sua mano; ma ciò che vive in lui mi è ignoto. E quanto più questa sua vita intima è essenziale, tanto più essa giace in profondità. Si verifica così il fatto inquietante che i rapporti vicendevoli fra uomini – ossia la maggior parte della realtà della vita – si 272 73 fondano in una relazione che va dall'ignoto all'ignoto. Quale sarà il ponte? L'espressione del volto e dei gesti, l'atteggiamento, l'azione, ma soprattutto la parola. Per mezzo della parola l'uomo comunica con l'uomo e quanto più questa parola è degna di fiducia, tanto più è sicuro e fecondo il rapporto. Le relazioni umane hanno inoltre gradi di profondità e di importanza molto diversi. La graduatoria conduce attraverso forme di fortuito cameratismo e di semplice utilitarismo fino alla vita del cuore, alle cose dello spirito, alle questioni della responsabilità, al rapporto da persona a persona. La strada avanza sempre più in profondità verso le zone del tutto singolari dell'intimità personale; verso la sfera della libertà dove non è possibile il calcolo. In tal modo la verità della parola diviene sempre più importante. Ciò vale per ogni forma di rapporto, vale soprattutto per quelle forme su cui si fonda la vita autentica: amicizia, comunione di lavoro, amore, matrimonio, famiglia. Le forme comunitarie, che devono durare, crescere e farsi feconde, devono crescere sempre più quanto alla verità dell'uno verso l'altro, altrimenti si disintegrano. Ogni menzogna distrugge la comunione fra gli uomini. Ma il mistero va più oltre ancora. Consiste non soltanto nel fatto che ogni rapporto si muove dal segreto dell'uno verso il segreto dell'altro, ma ognuno di noi ha relazione anche con se stesso. In tal modo l'uomo si articola, per così dire, in due esseri e si affaccia anche davanti al proprio essere. Io mi osservo, mi esamino e mi giudico; e decido a mio riguardo. Poi questa duplicità si risolve di nuovo nell'unità dell'io, e reca risultato di quel raffronto. Nel divenire della vita interiore questo accade di continuo; e la forma del suo adempiersi. Ma che cosa avviene se io stesso non sono vero di fronte a me? Se io inganno me stesso? Invento a me stesso le cose? E noi non facciamo questo di continuo? L'uomo che ha «sempre ragione» non ha forse realmente torto nel più pericoloso dei modi? E l'uomo per il quale gli altri sono sempre colpevoli, non è forse quello che di continuo sorvola sopra la propria colpevolezza? E colui che impone sempre la propria volontà, non vive forse nel fatale inganno su quanto egli sia insensato, presuntuoso, chiuso di cuore, prepotente, e quanto sia disastroso il suo modo di fare? Se dunque io voglio comunicare correttamente con me stesso – e partendo da me stesso con gli altri – non posso sorvolare sulla mia realtà, non posso fantasticare, bensì devo essere vero verso me stesso. Ma quanto è difficile tutto ciò; e quante cose avremmo da lamentare a nostro riguardo, se ci esaminassimo con lealtà! La verità dona all'uomo solidità e fermezza. Egli ne ha bisogno, perché la vita non è soltanto un'amica, ma anche una nemica. Dappertutto interessi s'urtano gli uni contro gli altri, di continuo insorgono suscettibilità, invidie, gelosie, odii. La semplice diversità del carattere e dei punti di vista crea grovigli. Anzi, già semplice fatto che per me esiste «l'altro», per il quale io a mia volta sono «l'altro», è radice di conflitti. In che modo li posso risolvere? Difendendomi, certamente; la vita è sotto molti aspetti lotta, in questa lotta mentire e ingannare potrebbe sembrare utile talvolta. Ma ciò che nel complesso dona sicurezza, è la verità, la lealtà, la fiducia. Esse creano ciò che dura: stima e confidenza. Tutto ciò vale anche di fronte a quella grande potenza che compenetra tutta la vita, e che si chiama «Stato». Non è per nulla un caso che tutte quelle volte che lo «Stato», i cui fondamenti dovrebbero essere diritto e la libertà, si perverte in 74 DIO MI HA DATO TUTTO: ... Soprattutto MI HA DATO SUO FIGLIO GESÙ, CHE "HA DATO LA SUA VITA PER ME". IO INVECE vivo come se Dio non ci fosse non lo ringrazio mai la sua Parola non mi interessa lo offendo con le parole non sento il bisogno di incontrarlo spesso (S. Messa ...) almeno come sento il bisogno di stare con i miei amici … DIO MI HA DATO UNA FAMIGLIA, GLI EDUCATORI, GLI AMICI E TANTE ALTRE PERSONE IO INVECE vivo senza ascoltarli non li aiuto mai li "uso" soltanto quando mi fanno comodo disprezzo chi non è come me offendo le persone, le prendo in giro non faccio nulla per aiutare chi è debole, povero... penso solo a me … DIO MI HA DATO ... ME, Spirito (anima, intelligenza, volontà) e Corpo ... PER DIVENTARE UN UOMO (UNA DONNA) GRANDE ... PERFETTO ... UN "DIO"! IO INVECE 271 vivo e faccio tante cose, ma non ho un progetto non ho voglia di "diventare grande" non curo la crescita della mia intelligenza lascio il mio carattere in balia di una volontà debole non mi preoccupo di sviluppare quelle virtù (qualità) umane che mi rendono una persona gradevole, educata, gentile... trascuro - metto a rischio - la mia salute faccio del mio corpo un idolo ho vissuto alcune esperienze sbagliate con la mia compagnia mi lascio andare facilmente, anziché allenarmi nel dominio di me stesso 4.3.1 Confessio Laudis: il grazie e la lode Confessio laudis (ringrazio, lodo, esprimo la mia gioia). "Confesso" (= racconto; testimonio ...) la bontà del Signore nella mia vita, ringraziandolo per alcune cose belle che ho vissuto, per esempio: Signore, ti ringrazio • perché in questo tempo mi hai aiutato a ... • perché si è compiuta la tal cosa ... • perché ho potuto avvicinare quella persona ... • perché mi sento più tranquillo ... • perché ho superato un momento difficile ... • perché ho pregato meglio ... • perché ... Bastano poche cose, che però ricordo volentieri, perché ancora adesso, quando ci penso, mi fanno contento. Mettendo al primo posto la lode di Dio, l'affermazione della sua bontà e tenerezza, le meraviglie da lui compiute nella vostra vita, significa porre primariamente l’opera della sua Bontà. 4.3.2 Confessio Vitae: l’accusa cadute). Confessio vitae (racconto a Dio la mia vita nelle sue fragilità e Dalla lode per le Sue meraviglie il cuore si apre, riafferma il tempo passato e presente, facendoci confessare quello che siamo, dicendo a Dio i sentimenti di fondo - nervosismi, inquietudini, amarezze, disgusti, inimicizie - che ci pesano e che sono la radice di tante mancanze. Di fronte alla bontà del Signore che ho appena "confessato", mi accorgo che io non sono stato sempre capace di rispondere con la mia vita. Il cristiano "scopre" le sue colpe specchiandosi in Gesù e nella sua Parola, e sente l'onesto bisogno di domandargli perdono. Lo faccio lasciandomi guidare da questa semplice traccia. Sono soprattutto atteggiamenti/stili/abitudini da cui nascono gesti, azioni, comportamenti concreti. Più che un elenco di peccati, dico a Dio che cosa adesso mi mette a disagio, cosa vorrei che non fosse stato. Scelgo le cose più vere per me e le dico con semplicità. Il dialogo, il perdono del Sacramento della Riconciliazione sta in mezzo a queste due realtà e aiuta l'uomo a crescere verso quella maturità che gli permette di presentarsi con fiducia al giudizio di Dio. C’è quindi una grande serietà in questo dialogo penitenziale: in esso si rivela la bontà di Dio che, mediante la Chiesa, restituisce gradualmente l'uomo alla coscienza della sua dignità e lo prepara a un giudizio divino che svelerà il miracolo di amore che Dio ha fatto in ciascuno di noi, poveri peccatori. (Miserere, pp. 72-74) 270 regime tirannico, si afferma anche in egual misura la menzogna. Di più ancora: la verità si svalorizza; cessa di essere norma e al suo posto subentra il successo. Perché? Perché lo spirito dell'uomo per mezzo della verità si riconferma di continuo nel diritto che gli è essenziale; la persona si accerta nella sua dignità e libertà. Quando essa può dire: «E’ cosi», e questa proposizione ha peso ufficiale, perché la verità è in onore, allora tutto ciò è una difesa anche contro la volontà di potenza che è all'opera in ogni realtà statale. Ma se a questa riesce di svalorizzare la verità, allora il singolo è abbandonato a ogni sopraffazione. La più orribile espressione della violenza è quando viene infranta nell'uomo la coscienza della verità, cosi che egli non e più in grado di dire: «Questo è e questo non è». Coloro che lo causano – nella prassi politica, nella prassi giudiziaria e in qualsiasi modo – dovrebbero avere la chiara visione di quello che fanno: essi defraudano l'uomo della sua umanità. Quella visione li dovrebbe sconvolgere. La verità è pure ciò per cui l'uomo sta saldo in se stesso e diventa un carattere. Il carattere si fonda sul fatto che nell'uomo in questione si è convertita in natura quella fermezza che si esprime nelle formule: ciò che è, è; ciò che è giusto deve verificarsi; io rispondo di quanto mi è stato affidato. Nella misura che questo si verifica, l'uomo acquisisce stabilità in se stesso. Ma non è la più ovvia delle cose? Non sussiste forse in se stesso ognuno di noi per il fatto appunto che egli è se stesso? Nella stessa maniera che ogni animale è se stesso, la rondine rondine e la volpe volpe? Qui noi non possiamo pensare in modo approssimato, giacché molto dipende dalla precisione in tali questioni. Perché l'animale fa subito l'impressione dell'autoidentità? Perché esso è «natura»; un essere vivente senza spirito personale. L'elemento «spirituale» in esso – ordine, esistere e comportarsi significativo – è spirito del Creatore e non suo proprio. Nell'uomo invece c'e auto-spirito, c'è la persona pensante e libera. In conseguenza di questo egli è, d'un intero mondo, superiore all'animale. Ma proprio per questo gli manca la naturale autoidentità dell'animale. Egli è minacciato da parte del suo stesso spirito, quale può di continuo oltrepassare il suo proprio essere e disporre di se stesso, ma proprio per questo anche rimettere in questione se stesso, falsificarsi. Se a tutto ciò aggiungiamo quanto la fede ci dice a riguardo dello sconvolgimento ereditario derivato dal peccato originale e dai successivi peccati, allora noi vediamo che l'uomo è un essere fondamentalmente minacciato e che deve di continuo fare i conti con le cattive possibilità della sua anima. Visto da questo angolo, egli non è semplicemente se stesso, il proprio esatto io, ma è come in via per diventarlo, è alla ricerca di sé e quando egli agisce come si deve, lo «diviene». E’ dunque molto importante domandarci da che cosa, al di la di ogni tensione e perturbazione, nell'interiorità più profonda dell'esistenza, si possa elaborare la vera identità. Ma allora la vera risposta – prima d'ogni altra risposta possibile – dice che ciò avverrà grazie alla volontà di verità. In ogni vero pensiero e parola e azione, si conferma, impercettibilmente ma efficacemente, l'intimo centro dell'uomo, il vero io. Quanto compromettente è allora l'illusione dell'uomo che si inganna circa il proprio genuino essere, e il modo come essa si verifica di continuo nei discorsi, negli scritti e nella prassi educativa! A tal punto che talvolta si può avvertire con spavento: quell'uomo di cui parlano la scienza, la letteratura, la politica, i giornali, i film, non è affatto l'uomo! E’ un'illusione, oppure un'affermazione in vista di qualche scopo, o un'arma, o semplicemente completa mancanza di idee! 75 Le nostre considerazioni sono andate lontano. Nella prima meditazione abbiamo detto che ogni vir- tù è tutto l'uomo; ciò è stato un'altra volta riconfermato. Di più ogni virtù va, oltre l'uomo, fino a Dio. Riflettiamo un momento su quanto segue. Quando dico che due più due fa quattro, io so che è senz'altro quattro e soltanto quattro e sempre quattro. So che così è esatto e anche un solo istante in cui ciò non sarebbe più esatto non verrà mai, anche nel caso in cui si verificassero certe, ma dunque sempre univoche, condizioni di più alta matematica. Che cosa fonda questa sicurezza che non potrà mai essere diversa? Che cosa fa sì, al di là di questi semplicissimi rapporti significativi, che ogni genuina conoscenza nell'istante del suo accendersi ci dia la certezza del così è e non altrimenti? Naturalmente se non sono abbastanza attento, se il mio pensiero non è abbastanza preciso, io posso sbagliare. Questo può succedere e succede anche ogni giorno. Ma quando io ho veramente capito, allora so che è cosi. Che cosa crea questa strana sicurezza spirituale, fondata come sopra l'inafferrabile? Non può essere che qualcosa che viene da Dio. Qualcosa, che non ha origine nell'uomo stesso, penetra nell'agire e nell'esperire umano. E’ una potenza; e non la potenza violenta d'una realtà costrittiva, ma la potenza d'un significato che mi appella e che testimonia di se; una si- gnificante potenza, che suscita nell'uomo quella fermezza a cui diamo il nome di «convinzione». Su questa esperienza fondamentale Platone ha fondato tutta la sua filosofia. Egli ha chiamato questa potenza «luce»; la luce più alta, anzi la vera luce che s'irradia dal vero sole. Questo sole è Dio, che egli – l'abbiamo gia detto – definisce con il nome di agathon, il «Bene». Poi Agostino ha introdotto quest'idea, con riferimento a Giovanni, nel pensiero cristiano, un'idea che vi è diventata feconda. Che cos'è in ultima analisi e in senso proprio la verità? E’ il modo con cui Dio è «Dio» e sa di sé; sa di sé e nel suo sapere porta se stesso. La verità è l'indistruttibile, inattaccabile fermezza con cui Dio, conoscendo, fonda tutto in se stesso. Essa esce da Lui nel mondo e gli dona stabilità. Penetra la realtà esistente e le dona essenza. S'irradia nello spirito dell'uomo e gli dona quella chiarezza che si chiama conoscenza. In ultima istanza vale il fatto che l'ordine dell'uomo alla verità è ordine a Dio. Chi mente si ribella a Dio e tradisce la radice significativa dell'essere. Nel mondo la verità è debole. Basta una piccolezza per oscurarla. Il più stupido degli uomini può ferirla. Ma arriva sempre l'ora in cui le cose cambiano. Allora Dio fa si che la verità acquisisca tanta potenza quanto essa è vera, e questo sarà il Giudizio. Il «Giudizio» significa che la possibilità di mentire ha una fine, perché la verità penetra onnipotente ogni spirito; perché s'irradia per ogni parola; perché riempie dominatrice tutto lo spazio. Allora le bugie si manifestano per quello che Sono, anche quando esse fossero così bene intenzionate, così intelligenti, così brillanti; svelate come un'illusione, come un niente. Facciamo circolare questi pensieri nella nostra testa, anzi tutta la nostra sensibilità, attraverso il nostro cuore. Forse così un giorno sentiremo veramente che cos'e la verità: l'irremovibile che c'e in essa, la luce silenziosa, l'altezza. Allora noi vorremo legarci a lei con quanto c'è in noi di più interiore e di più fedele. Vorremo assumere responsabilità a suo riguardo e darci pena per essa. Tutto ciò andrà incontro a contrasti, a crisi, non per nulla siamo uomini. Ma nella nostra vita deve esserci questo punto fisso, che la verità è il fondamento di ogni cosa: del rapporto dell'uomo con l’uomo, dell'uomo con se stesso; del singolo verso la comunità, e soprattutto verso Dio, anzi di Dio verso di noi. 76 4.3 Introduzione alla riconciliazione89 La croce 90 Noi cristiani non siamo scandalizzati dal crimine, perché sappiamo che l’uomo, il quale, è capace di un enorme eroismo, è capace altresì di compiere il male più grande. Il segno della nostra fede e il segno della nostra vittoria è la croce, dove lo stesso Amore con la maiuscola è stato ingiustamente sacrificato e reso vittima innocente. Nella croce di Cristo, Dio ha abbracciato tutto il male del mondo, di ciascuno di noi, facendo di questo abbraccio - per quanto paradossale possa sembrare - la roccia più salda sulla quale costruire la speranza di un mondo umano. Cristo, il Figlio di Dio, ha fatto di questo abbraccio la rivelazione suprema e ineffabile di Dio come misericordia infinita, come puro amore che dona se stesso, che pone se stesso, letteralmente, “al posto dei peccatori”, affinché essi possano ritrovare la via della verità e della pace. Cristo nella sua croce rivela così, rivelando Dio come amore vittorioso sull’odio e sul peccato, il valore della vita e della persona umana; testimonia che ogni vita umana, creata a immagine di Dio, è sempre portatrice, per il fatto stesso di essere umana, di una dignità unica, sacra, conferitale da questo Amore, e della quale nessuno può disporre se non per legittima difesa, o per scongiurare il danno della perdita di altre vite innocenti. Questo ha come conseguenza che la storia, nonostante tutte le innumerevoli miserie di cui è piena, non è abbandonata a se stessa, ma che nella propria carne racchiude il seme dello Spirito di Dio, che Cristo ha consegnato agli uomini con il dono di se stesso. Perciò la croce di Cristo è un segno glorioso di vittoria, perché è il segno che la misericordia di Dio non si allontanerà mai dagli uomini, nè si lascerà sconfiggere dai nostri mali. La croce di Cristo rende ragionevole e non semplicemente volontaristica e arbitraria la speranza umana di un senso positivo nella storia, di un trionfo finale del bene e dell’amore.” 89 Gasparino A., Il sacramento del perdono gioia e festa di Dio e dell'uomo – LDC, Torino 1998. Rupnik M. I., L'esame di coscienza. Per vivere da redenti = Lipa, Roma, 2002. SPIDLIK T., L'arte di purificare il cuore, Lipa, Roma, 2000,= PAGANI S., Cerco il tuo volto. Introduzione alla vita spirituale. Centro Ambrosiano, Milano 2003, pp. 30-63; 100-106. PAGANI S., L'accompagnamento spirituale dei giovani. Verso una regola di vita, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1997, pp. 112-122. CCC 1422-1470; ACG 369 90 269 MARTINEZ J, Omelia alla celebrazione per le vittime dell’attentato, 12.III.2004. La tavola 88 L'altare è la tavola, la pietra del sacrificio, quel sacrificio che costituisce - per l'umanità caduta - il solo mezzo di prendere contatto con Dio. L'altare è il luogo di questo contatto: attraverso l'altare Dio viene verso di noi e noi andiamo a Lui. Esso è l'oggetto più santo del tempio, perché lo si riverisce, lo si bacia e lo si incensa. È un centro di raggruppamento, il centro dell'assemblea cristiana; e a questo raggruppamento esteriore corrisponde un raggruppamento interiore delle anime e dell'anima “Forze molteplici vi sono nell'uomo: conoscendole, egli può abbracciare tutt'intorno le cose, stelle e montagne, mari e fiumi, piante ed animali e tutta l'umanità ch'è vicino a lui, e così arricchire il suo mondo interiore. Egli le può amare, le può odiare e respingere; può porsi contro di esse oppure tendervi ed attirarle a sé. Può agire sul mondo circostante e modificarlo secondo il proprio volere. Un vario ondeggiare di gioia e di brama, di afflizione e d'amore, di calma e di eccitazione accompagna il ritmo del cuore. La sua forza più nobile è però questa: il riconoscere che v'è qualcosa di più alto sopra di lui; il venerare codesto qualcosa di più alto ed inserirvisi. L'uomo può conoscere al di sopra di sé Dio, Lo può adorare e può offrire se stesso « affinché Dio sia glorificato». Questa è l'offerta: che la sublimità di Dio risplenda nello spirito; che l'uomo adori questa sublimità; non si attardi egoisticamente nei propri possessi, bensì li trascenda, impegni se stesso affinché l'eccelso Iddio venga glorificato. La forza più profonda dell'anima è la sua capacità di offerta. È nell'intimo dell'uomo che hanno sede la calma e la limpidezza donde sale l'offerta a Dio. Appunto di questo nucleo più intimo, calmo e forte, proprio dell'uomo, l'altare di pietra è il segno visibile. Esso sta nella parte più santa della chiesa, elevato da gradini sul resto dello spazio, che pure è distinto esteriormente dalle altre opere dell'uomo, distaccato come il santuario dell'anima. Saldamente eretto sullo zoccolo sicuro, come il volere verace dell'uomo che non ignora Dio ed è deciso a impegnarsi per Lui. E sullo zoccolo la « mensa », un luogo ben preparato su cui è presentata l'offerta. Nessuna angolosità, superficie tutta libera. Nessuna penombra né azione nell'oscurità, bensì aperta a tutti gli sguardi. Così, come l'offerta ha da aver luogo nel cuore. Tutta dispiegata dinanzi allo sguardo di Dio, senza riserve né secondi fini. Ma l'uno è in intima relazione coll'altro: l'altare esteriore con quello interiore. Quello è il cuore della chiesa; questo la realtà più profonda di un petto umano che palpiti, del tempio interiore, del quale l'esterno colle sue pareti e volte è espressione e similitudine.” 88 268 GUARDINI R., I santi…, oc, pp. 81-83. 5. L’enneagramma e i test psicoattitudinali: una provocazione per la conoscenza di sé Provocazioni e tentativi di rilettura cristiana della propria personalità. In quanto provocazione per verificare la nostra conoscenza di sé e coscientizzarne gli elementi, usiamo l’enneagramma come strumento di introspezione e di comprensione si sé e degli altri. E’ chiaro che ogni strumento, come la stessa libertà umana, può .essere usato per il bene o per il male per cui c’è chi se ne serve per autoaccettarsi e chi per biasimarsi, chi per diventare più compassionevole verso gli altri e chi per giudicarli ad etichettarli. Il termine "enneagramma" è di origine greca ed è composto da due parti: "ennea" che significa nove, e "gramma" che significa punti. L’enneagramma è caratterizzato dal simbolo di una circonferenza con nove punti di riferimento. Esso è uno strumento aperto al trascendente come orizzonte della piena realizzazione umana, non avanza pretese teologiche, ma è finalizzato alla crescita umana e spirituale. La divulgazione dell’enneagramma al vasto pubblico è avvenuta inizialmente ad opera dei Gesuiti, che gli hanno dato per così dire un "battesimo cristiano" facendo tesoro delle sue intuizioni nel corso di ritiri spirituali e incontri di formazione. Chi fa uso di questo strumento si avvale della mediazione delle nove tipologie per comprendere meglio se stesso, essere più comprensivo nei confronti del prossimo prendendo maggiore consapevolezza delle proprie tendenze e degli ostacoli che interferiscono nel rapporto. Ovviamente, l’enneagramma non presume di ridurre l’uomo a una teoria o a una tipologia, ma offre utili chiavi di lettura per capire o riconciliarsi con la propria personalità, dalle sue debolezze alle sue potenzialità. Resta chiara che ogni persona risulta plasmata da una varietà di fattori storici, ambientali, familiari, culturali ed esistenziali che fanno sì che ognuno sia un mistero più ricco e complesso della propria tipologia. L’enneagramma contempla il processo di crescita in un orizzonte umano e spirituale. Da una parte, l’uomo per raggiungere la pienezza deve conoscersi e riscoprire la propria essenza e autenticità; dall’altra, é chiamato a proiettarsi verso il trascendente e l’incontro con Dio. Nel processo dell’autoconoscenza l’enneagramma non si ferma solo alla fase diagnostica puntualizzando tendenze tipiche o ricorrenti delle 77 nove tipologie, ma prospetta itinerari concreti di crescita e di conversione che comporta il sacrificio della propria egocentricità che si identifica con la legge della rinuncia proposta da Gesù: "Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà; chi invece l’avrà perduta la salverà" (Lc17,33). L’enneagramma è solo una mappa che non serve se non si è disposti a compiere il viaggio. Punti di una antropologia di riferimento 1. La ricerca dell’unità Un primo terreno di convergenza si basa sulla concezione antropologica dell'uomo visto come essere in relazione con Dio, con gli altri, con se stesso, con la natura. L’uomo manifesta la nostalgia di unità e la consapevolezza che la crescita umana e spirituale della persona dipendano dal raggiungimento di un'unità smarrita. L’obiettivo è promuovere una visione integrale della persona, che trova nel comandamento dell'amore (Lc10,27) la sua sintesi più profonda. del vino in sostanza del corpo e del sangue di Cristo. La Chiesa cattolica insegna che ogni eucaristia, in quanto memoriale dell'evento sacrificale di Cristo, è attualmente sacrificio: la Chiesa lo prende come dono del Signore e ne fa il suo sacrificio. Per questo i fedeli sono invitati ad offrire se stessi a Dio in ubbidienza e devozione: perché come ancora san Paolo scrive: "chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna". 4.2.5 L’altare Termine derivante da Altus, probabilmente da Alere = nutrire, indicando la mensa destinata a ricevere gli olocausti offerti in dono e quasi in cibo alle divinità mentre in senso metaforico Alere = far crescere, sollevare indicando il posto elevato ove si facevano le offerte di incenso o di animali in forma cruenta. Luogo Pietra angolare che è Cristo. "Stringendovi a Lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo" (1Pt 2,4-5). dei sacrifici: Presso gli Ebrei l'altare (mizbeah, ciò su cui si sacrifica) era in origine connesso con una apparizione di Dio (Mosè elevò un a. ai piedi del Sinai: Esodo 24, 4) e su di esso si uccideva l'animale offerto alla divinità Tomba (cfr. reliquie dei martiri, partecipi del sacrificio di Cristo): se l'altare è il Cristo e il Corpo di Cristo, allora dobbiamo comprendere quest'ultima espressione in tutta la sua ampiezza: essa designa anche il Corpo mistico. Tale è la significazione delle reliquie che sono inserite obbligatoriamente in ogni pietra d'altare. Banchetto della Pasqua: L'altare è la mensa dell'ultima cena, il Calvario della Passione. Mensa del Paradiso: l'altare dei nostri templi non è altro che il simbolo terrestre di questo archetipo celeste. Ap, 19, 9: Allora l'angelo mi disse: «Scrivi: Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell'Agnello!». Poi aggiunse: «Queste sono parole veraci di Dio». Lu, 12, 37: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 2.La consapevolezza della divisione interiore dell'uomo Un secondo ambito riguarda l'esperienza di una ferita originale che l'antropologia cristiana definisce "peccato", inteso come la frattura dell'uomo nelle sue relazioni. È il tentativo umano di creare Dio a propria immagine, invece di essere immagine di Dio. L'uomo chiamato ad essere collaboratore di Dio abusa della sua libertà, sperimentando la divisione, il disordine e la morte che porta a trasformare in idolo il proprio falso io. L'uomo diventa così prigioniero del proprio io, delle proprie false personalità che ne condizionano la libertà. 3.La necessità di liberazione Dinanzi a queste situazioni di divisione e schiavitù, si avverte l'esigenza di un superamento trascendentale. Nell'esperienza di peccato l'uomo è consapevole di non potersi salvare con le sole sue forze, ma di aver bisogno dell'aiuto di Dio che opera, in modi molteplici e misteriosi, attraverso gesti di perdono, accoglienza e liberazione. Dio offre la grazia per guidare l'uomo verso la realizzazione del suo progetto, nella specificità della sua condizione storica e delle sue caratteristiche personali. La liberazione avviene attraverso l'apertura dell'uomo alla misericordia di Dio che, in Cristo, lo libera dal peccato e, attraverso la grazia, lo apre alla vita nuova, ma necessita anche della risposta libera e consapevole dell’uomo che diviene sforzo personale per superare condizionamenti, che necessitano di una onesta conoscenza di sè. 78 267 il memoriale della risurrezione dai morti del Cristo Crocifisso, l'offerta dei doni consacrati a Dio Padre, l'invocazione dello Spirito sui comunicandi, le intercessioni in favore della Chiesa, del papa e del vescovo della comunità locale, il ricordo di tutti i defunti e la richiesta di "aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e madre di Dio, con gli apostoli e tutti i santi". la dossologia, "per Cristo, con Cristo ed in Cristo", a "Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli", cui l'assemblea si unisce con l' Amen, conclusivo. 4.2.3 I Riti di Comunione I riti di comunione hanno inizio con la recita o il canto della preghiera del Signore, il Padre nostro. Lo scambio di un segno di pace è l’emblema della comunione ed impegno per ciò di cui ci si ciberà L’avvicinarsi all'altare, ove ricevono sulla lingua o sul palmo della mano,87 il Corpo di Cristo, cibandosene. In circostanze particolari anche i fedeli possono bere anche al calice, presentato con la formula "il Sangue di Cristo", ma sussistono difficoltà pratiche, che ne riducono la pratica, spesso limitandola a Messe celebrate in piccole comunità di preghiera. La comunione al sangue di Cristo può però avvenire anche per intinzione: l'ostia è immersa dal ministro della comunione nel calice del vino eucaristico e ricevuta dal fedele solo in bocca. Altre modalità per ricevere il Sangue di Cristo sono con la cannuccia o con il cucchiaino, ammessi solo in casi particolari con l'autorizzazione del Vescovo diocesano. 4.La discesa: itinerario di conversione La salvezza e/o la crescita comportano il cammino della discesa e dell'umiltà, nel distacco dall'uomo vecchio per rivestire l'uomo nuovo. Nell'antropologia cristiana, l'itinerario della conversione è stato consacrato da Cristo nel Mistero Pasquale ed è fatto proprio dal cristiano nelle promesse battesimali. La vita del credente esige rinuncia e distacco: (Lc.9:23-24; Gv.12,24). La croce comporta l'accettazione dei limiti imposti dalla natura, la rinuncia al proprio egoismo e alle proprie sicurezze, l'apertura al prossimo nella sua diversità. Il linguaggio della croce è il linguaggio della discesa, della negazione di sé per ritrovarsi. Nell’enneagramma la scoperta iniziale della propria tipologia provoca smarrimento, vergogna, sentimenti di autorecriminazione o di autogiustificazione. C'è chi accetta solo la parte positiva e rifiuta quella negativa. Riconoscere i propri giochi e le proprie maschere richiede umiltà e saggezza perché è solo accettando la propria oscurità, che si diventa liberi di amare la propria verità. 5.Il compito perenne di onorare la persona Generalmente, è partendo dalla capacità di accettazione di sé che si creano le necessarie premesse per un atteggiamento di accoglienza, perdono e tolleranza verso il prossimo. 4.2.4 Banchetto e sacrificio "Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice voi annunziate la morte del Signore finché egli venga". È necessario soffermarsi in modo particolare sulla comprensione dell'eucaristia come memoriale (anamnesi): questo termine nel contesto biblico - quindi con il termine ebraico "zikkaron" - indica azioni rituali riferite ad un evento (salvifico) passato in grado di attualizzarlo, rendendolo presente ai celebranti nelle sue stesse dimensioni salvifiche, e proiettandolo anche verso il futuro. Strettamente legata alla persistenza dell'opera salvifica del sacrificio del Signore sulla croce è la presenza reale del Signore nelle specie eucaristiche, che si compie per transustanziazione della sostanza del pane e 87 266 “Quando ti avvicini a ricevere il Corpo del Signore, non avvicinarti con le palme delle mani distese né con le dita separate, ma facendo della tua mano sinistra come un trono per la destra dove sederà il Re. Con la cavità della mano ricevi il Corpo di Cristo e rispondi «Amen»” (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche, Sec. IV) 79 6. Mercante di talenti Vi è oggi una fatica oggettiva nei giovani a percepire se stessi con realismo ed obiettività. Questa debole conoscenza di sé e una fragile identità personale rendono faticoso anche la progettazione del proprio futuro. Ulteriormente la complessità della ricerca scientifica e l’estremo procedimento analitico del conoscere da una parte fanno sapere di più ma dall’altro creano maggiori dubbi. Così la facilità di rapporto con tanti beni di consumo rende il rapporto con la realtà scontato che pare non dover essere conquistata e quindi viene disattesa che di conseguenza non pare venga più assunta con responsabilità L’uso esasperato dell’immagine porta a costruire ogni cosa su questa unità di misura ossia sul metro del giudizio degli altri e del loro riconosciemento. Narciso domina la cui immagine nega se necessario i sentimenti per ottenere il potere ed il controllo sugli altri mentre quando la realtà diviene disorientante la via è quella della fuga.21 Questa assunzione della realtà deve essere un processo graduale, costante e a partire dalle piccole cose. 21 Cfr. PAGANI S., L'accompagnamento spirituale dei giovani. Verso una regola di vita, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1997, pp. 55-65. 80 calcio all’oratorio, della offerta per la nuova canonica, non trovano eco all’ambone, ma presso un leggio ordinario che non sia copia dell’ambone. Dignità dell’Ambone. Poiché il luogo proprio della proclamazione della Parola si diversifica architettonicamente dal resto, deve essere concepito come uno spazio sopraelevato, stabile, decoroso, sobriamente ornato. Questo luogo non può essere sostituito, salvo il depauperamento sia della stima che della venerazione della Parola, da un leggio movibile e traballante. Sarebbe auspicabile che ogni ambone proclamasse, col suo solo splendore, che esso è il luogo da dove Dio continua a parlare al suo popolo. 4.2.2 Liturgia Eucaristica Gesù "prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo». Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati»". (Mt 26,26-28). 4.2.1 La presentazione dei doni (offertorio) Lo stesso posizionamento sull'altare del pane e del vino è un gesto simbolico]: esprime il dono e la partecipazione dell'assemblea dei fedeli nella presentazione del pane–cibo quotidiano, e del vino-bevanda della festa. Il sacerdote a nome del popolo benedice Dio per questi alimenti fondamentali: "Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo… Proprio per la loro provenienza, questi alimenti significano il radicamento del culto cristiano nella natura (per l'origine) e nella storia (per il lavoro umano). Tutte le preghiere eucaristiche in uso configurano una unica azione eucaristica-sacrificale, espressa in parole e gesti dal sacerdote; l'assemblea è invitata ad unirsi all'azione del celebrante, in quanto egli dice: "Rendiamo grazie al Signore nostro Dio"; "È cosa buona e giusta" ed attende che essa ratifichi la propria preghiera con l' Amen. 4.2.2 La preghiera eucaristica Essenzialmente, la preghiera eucaristica è così costituita: il prefazio di rendimento di grazie, che si eleva a Dio Padre per l'azione salvifica compiuta dal Figlio, trova conclusione nel canto del "Santo"; l' epiclesi si ha l'invocazione dello Spirito Santo, affinché il pane e il vino "diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, nostro Signore"; il racconto della Cena, nel quale sono ripetute le parole che Gesù disse ai suoi discepoli riuniti la sera "prima di morire per noi sulla croce"; 265 Più propriamente si può dire che le Sacre Scritture sono prima di tutto Parola di Dio, poi libro (Bibbia): il libro è indispensabile per conservarla, ma è al servizio di un Dio che deve essere ascoltato direttamente. “Ascolta Israele…”: questo versetto del capitolo 6 del Deuteronomio è divenuto la preghiera quotidiana di ogni ebreo e Gesù lo ricorderà allo scriba che gli si presenta per chiedere quale è il primo comandamento. Per questo è contraddittorio vedere un’assemblea puntare gli occhi su un foglio quando il lettore arriva all’ambone. adesso. Una parola attualizzata La Scrittura è Uno che mi parla; è Parola che interpella me, qui, Un Ascolto che trasforma “l’oggi”, perché è una Parola viva. Pregare è soprattutto ascoltare, un ascolto che permette una risposta alle mie domande sull’oggi: su come impostare le mie giornate, come agire in una determinata situazione. È il criterio di discernimento per le mie scelte. È un porre la nostra vita al setaccio di questa Parola. Da ciò nasce spontaneamente un esame della vita (questa è anche la giusta via di preparazione al sacramento della riconciliazione): questa Parola che cosa dice alla mia storia, che cosa chiede di cambiare? Che novità introduce? Per me… come la mia vita, la mia azione,… 6.1 La parabola dei talenti: Matteo 25,14-30 Il contesto Il capitolo XXV di Matteo, di cui fa parte il brano dei talenti affidati, è dentro la grande sezione dei “discorsi sulla fine” che si apre con il cap XXIV, tutto il clima è quello escatologico della venuta del regno. Ecco il vero protagonista. Regno che determina e muove la vita come esistenza carica di responsabilità. La parabola in considerazione invece si inserisce fra quella delle vergini sagge e stolte, di cui sembrerebbe una continuazione con il tema del “vegliare”, e quella sul giudizio finale, di cui anticipa il manifestarsi col tema della “retribuzione”. È parabola della parusia che racconta dell’avvento del Figlio dell’uomo e del periodo intermedio che la comunità deve utilizzare nel modo migliore, con responsabilità sul dono ricevuto. Il testo La parabola è infiorata di termini tecnici bancari. I dialoghi sono costruiti su perfetti parallelismi (parole degli schiavi – ripresa del padrone – imperativo finale) I cambi dei tempi del verbi sono simbolici (19; 29) per indicare le tre dinamiche del testo (passato; presente; sintesi proverbiale) 4.2.2 L’Ambone Il luogo da cui si proclama la Parola fu detto "ambone", pare, perché ci si sale (anabaino) e quindi luogo elevato L’importanza della Sacra Scrittura affermata dal Vaticano II si allarga inevitabilmente al luogo da dove essa è proclamata. A tale proposito, nell’introduzione all’ordinamento delle Letture della Messa, si chiede che il luogo della Parola risponda alla dignità della Parola di Dio e richiami il rapporto con l’altare. Deve essere evidente che nella Messa viene preparata la mensa della Parola di Dio e del Corpo di Cristo. Infatti l’ambone ha uguale dignità e importanza dell’altare, l’uno richiama l’altro in quanto il Verbo annunciato dall’ambone si fa ‘carne’ sull’altare. E’ questa la realtà che permette alla Chiesa di parlare di "due mense" della Parola e dell’Eucaristia. Ambone come luogo della Parola, non delle parole. Solo le letture bibliche hanno luogo all’ambone unitamente al Salmo responsoriale e al preconio pasquale. Si possono proferire dall’ambone l’omelia e la preghiera dei fedeli, data la strettissima relazione di queste parti con tutta la Liturgia della Parola. Il commentatore, il cantore o l’animatore del canto e tantomeno l’annunciatore della prossima festa parrocchiale, della partita di Mt 25,14 264 81 Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi [schiavi] e consegnò loro i suoi beni. I beni lasciati dal signore, sono somme principesche. Sapendo che un denaro era lo stipendio per una giornata di lavoro e che un talento corrispondeva a trentamila denari, i conti sono subito fatti (83 anni di lavoro!). Il padrone affida il suo patrimonio senza assegnare loro un incarico particolare, lascia ad essi di decidere il modo di comportarsi. I suoi beni – non nostra proprietà. Percepire che quanto possediamo è proprietà Sua è una rivoluzione prospettica. Custodi e non proprietari. Gestori e non creatori… A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Il padrone conosce i suoi schiavi e ne sa valutare le capacità. Al padrone interessa anche mettere alla prova la sua gente. 15 È molto interessante il fatto che la distribuzione dei doni in forma differente è effettuata secondo due elementi: Lui il Signore, è per Sua natura colui che sa che cosa è il bene di ciò che ha creato Il dono è secondo la possibilità di gestione, di custodia di ciascuno. Lui che ci conosce sino in fondo sa la nostra potenzialità di deposito. Posto questo Lui non sta addosso (cfr meditazione precedente sulla Madre di Zebedeo). Parte, ha affidato a noi la responsabilità del dono, e si fida. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito [essendo andato il] a impiegarli [trafficò con essi] e ne guadagnò altri cinque. 17 Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18 Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno [scavò la terra] e vi nascose il denaro del suo padrone. Non appena il padrone è partito, il primo si mette subito al lavoro. Mentre il terzo seppellisce. Il seppellire era quello che si faceva nei tempi di guerra, quando il denaro era esposto al pericolo di cadere in mano al nemico. Sceglie la strada che gli pare sicura. Secondo il diritto rabbinico, chi sotterra un depositum in caso di furto non era tenuto al risarcimento. 16 Viene ribadito che i doni non sono di colui che ora li possiede Si evidenzia il contrasto fra l’impiego immediato dei primi al di là della quantità di partenza e di arrivo e l’uso innaturale del bene da parte del terzo (quando mai il denaro lo si sotterra, neanche fosse un seme… solo il burattino Pinocchio può cadere nel tranello del gatto e volpe di turno!). L’insipienza è proprio la gestione contro natura del bene ricevuto in custodia. 19 Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò [viene], e volle regolare [regola] i conti con loro. Il Signore tornerà. Non è l’immediata prospettiva retributiva dell’antico testamento (peccato – castigo). Ma è rimando al tempo eterno dell’incontro con Lui che pone il giudizio (krineo). Davanti a Lui, e solo davanti a Lui emerge il ben-uso dei beni ed l’innaturale utilizzo. Questione di tempo. La lunga gittata dice prospettiva di raccolto, “dai loro frutti li riconoscerete”. L’immediato potrebbe appagare in sicurezza (il soldo nascosto al sicuro fa porre sonni tranquilli, meno i talenti trafficati con i rischi relativi al mercato) ma a lungo termine risulta sterile, infecondo, in perdita (i soldi neppure posti in banca non danno nemmeno gli interessi, anzi perdono gradualmente il potere di acquisto) 4.2.1 Liturgia della Parola “La lettura del Vangelo costituisce il culmine della stessa Liturgia della Parola; all’ascolto del Vangelo l’assemblea viene preparata dalle altre letture, proclamate nel loro ordine tradizionale, prima cioè quelle dell’Antico Testamento e poi quelle del Nuovo”. (OLM 13) Cristo è “presente nella Sua Parola: è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (Cost. Liturgica nr.7). Una parola efficace Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Is 55,10 Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, 11 così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata. Gen, 1, 3: Una parola proclamata E’ una grande e bella responsabilità dunque essere lettori!! Ed è pure un compito esigente: si tratta ne più ne meno di prestare la propria voce al Signore. Una lettura fatta bene inizia dal tempo precedente a quando viene fatta: deve cioè essere preparata. Una lettura che allora è scandita, non biascicata, calma e calda, senza frette e paure. Il modo infine del lettore di lasciare il suo posto per portarsi all’ambone fa già parte dell’atto di leggere. Deve essere un gesto sobrio e corretto. Si avvia con calma, senza partire prima dell’Amen della colletta o durante l’ultimo ritornello del Salmo Responsoriale. Prende posto all’ambone in posizione eretta, magari posandovi le mani, pur senza appoggiarsi. Prima della lettura guarda l’assemblea per stabilire la comunicazione, e durante la lettura della Parola di Dio la sua funzione è d’unire in un'unica comunicazione la Parola e l’assemblea unendo voce e sguardo. Tutto questo si impara!! Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò [portò] altri cinque, dicendo: Signore [padrone], mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. 21 Bene, servo buono e fedele, gli Una parola ascoltata Una delle maggiori preoccupazioni del Concilio Vaticano II fu quella di offrire ai fedeli un più largo e diretto accesso alla Parola di Dio. Il segno più evidente è l’uso della lingua corrente nella Liturgia. 82 263 20 4. Vita sacramentale e devozione mariana 4.1 Introduzione all’Eucaristia86 Liturgia è un termine che deriva dalla parola greca λ ε ι τ ου ργ ί α , che può essere translitterata come leitourghía, e significa "lavoro comunitario, della gente, un'opera, un ufficio pubblic.". In quanto tale, il termine non ha esclusivamente ambiti di applicazione religiosi, sebbene questi ne siano indubbiamente i più noti. In ambito religioso indica le forme pubbliche della preghiera. Le comunità cristiane primitive praticavano già alcune azioni cultuali e quindi si può dire che svolgevano delle liturgie. Si pensi al rito battesimale, a cui si accompagnavano formule di "professione di fede" e formule tipiche di preghiera. Anche il radunarsi domenicale delle comunità per celebrare la frazione del pane, ossia l'eucarestia, compresa come il farsi presente, in maniera reale, del Signore risorto era un azione cultuale. I modi e le forme dei riti del culto cristiano primitivo si rifanno e si collegano alla tradizione giudaica, ma ciò non sminuisce la novità e l'originalità neotestamentaria del culto. Tale concezione appare tutta incentrata sugli eventi salvifici operati da Cristo nella sua Pasqua di morte e risurrezione: la liturgia è la modali° cultuale del farsi presente di quegli eventi e offre la possibilità di tornare ad accedervi. La liturgia appare altresì relativa alla concreta esistenza del cristiano, la cui vita dovrebbe essere per intero un atto di culto. Col passare dei secoli si sono sviluppate le forme, i testi, i tempi, i luoghi della Liturgia. L'anno liturgico è organizzato attorno al nucleo centrale della domenica e della Pasqua. Le grandi aree ecclesiastiche danno man mano vita a complessi programmi rituali con libri, gestualità, testi, canti e musiche appropriate. Si ha lo sviluppo di diversi tipi di luoghi per il culto con il connesso apparato di sculture, pitture, arredi, paramenti, creati per decorare e arricchire detti luoghi. Questa ricchezza di forme porta però con sè dei limiti che si materializzano nel fatto che la Liturgia cessa progressivamente di essere compresa come azione comune del popolo cristiano sotto la guida di un ministro e diviene sempre più una celebrazione riservata agli specialisti del culto, attività di pertinenza del solo clero. Sarà il concilio Vaticano II a riproporre una comprensione teologica e linguistica della liturgia e ad avviare una riforma intesa a restituire alla comunità la possibilità di partecipare attivamente alla liturgia. 86 262 CCC 1322-1405; ACG 371 disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco [su poche cose], ti darò autorità [ti costituirò] su molto; prendi parte alla [entra nella] gioia del tuo padrone. 22 Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. 23 Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco [su poche cose], ti darò autorità [ti costituirò] su molto; prendi parte alla [entra nella] gioia del tuo padrone. Entrare nella gioia, fa trasparire il riferimento al banchetto della gioia messianica che si celebrerà nel regno di Dio. Abbondanza e felicità sono le dinamiche che abitano la realtà del banchetto. Vi sono degli elementi comuni negli incontri del Signore con i primi due servi: la riconsegna di un bene non loro una consegna moltiplicata, che ha portato frutto i complimenti del Padrone che ridona moltiplicata nuova responsabilità la presa di coscienza che il dono che avevamo tra le mani non era gran che, in proporzione a ciò che verrà poi affidato, ma che quel poco è determinante per la verifica della nostra bontà (= corrispondenza alla natura del bene affidatoci) e della nostra fedeltà (= corrispondenza alla natura del compito affidatoci) la gioia goduta è quella di Dio 24 Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore [padrone], so [conosco te] che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui [hai] il tuo. È durissima la reazione del servo “sotterratore”: la sua è una visione drammaticamente negativa del suo padrone, un immagine negativa e terribile di colui che gli ha affidato i suoi beni. Contrasto evidente: donatore – terrificante. Uomo duro – non c’è il benefattore gratuito, non c’è il misericordioso e nemmeno la paternità infinitamente amorosa Mieti dove ha seminato (di nuovo questo errore di prospettiva scambia ancora il donatore per un contadino!!!) Ma soprattutto non c’è figliolanza ma sudditanza paurosa Qui si rivela la radice di tutte le scelte erronee precedenti, un’immagine di Signore tuttaltro che divino-cristiana. 26 Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo [pigro], sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso [?]; 27 avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando [venendo io], avrei ritirato [recuperato] il mio con l'interesse. 28 Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché 83 a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 30 E il servo fannullone [l’inutile] gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Altrettanto dura è la risposta del Signore la definizione del servo l’autorivelazione di un Signore “miracoloso” conosciuto ma non amato. l’accusa ancora più dura di quella di minimalista (banchieri) ma nichilista (sotterratore). la perdita di ciò che gli era stato affidato la consegna a chi possiede già perché ha scoperto la natura e la vocazione del ricevuto e del donante l’abbandono del malvagio al non senso delle tenebre dove vi è disperazione. Amerai come la pupulla dei tuoi occhi chiunque ti dirà la Parola del Signore (Lettera Barnaba) 3.3.5.7 Actio Ora và e fà lo stesso (Lc 10,37) È un “fare” la Parola. Una parola che modella la mia vita e si modella (visualizza) nella mia vita Il ricordare la Parola durante la giornata serve non come esercizio intellettuale, mnemonico ma per riorientare l’azione, un rimettersi alla presenza di Lui e “fare tutto con perfezione” per LUI. Lo scriversi la frase biblica al mattino e porla in luoghi visibili (agenda, scrivania, luogo visibile) durante la giornata è coltivare la pianta della Parola che cresce nel nostro giardino. Così la Parola diventa preghiera continua e orientamento dell’azione. I frutti della parola allora saranno: l’uscita dal caos, dalla frenesia del fare per il fare. la capacità di discernimento, prendendo in ogni momento una decisione secondo il Vangelo. La conversione continua come orientamento a Cristo, per non essere spettatori della Parola. La missionarietà: una parola felice per la mia vita incontenibile. È chiaro che non si può uscire dalla lectio senza un itinerario di vita. Allora è utile progettare a largo raggio sino a giungere al giorno. In questa ottica la tradizione ha posto momenti forti nell’anno “spirituale”, che scandendo la meditazione della parola toccano la vita nel cammino di costante conversione. Per questo una possibile progettazione potrebbe essere Una parola che realizza un progetto Esercizi Spirituali Rivedo e progetto la mia vita a partire da ciò che la Parola mi ha suggerito ed ha illuminato sulle mie fragilità Ritiro mensile Concretizzo per il mese che si apre il proposito degli esercizi, dopo aver verificato il cammino fatto. Sacramento della riconciliazione Il sacramento inizia la sua preparazione a partire dalla Parola ascoltata che getta luce sui 15 gg che hanno preceduto; verifica l’attuazione del mio progetto e orienta il cammino successivo Lectio quotidiana La Parola di Dio quotidiana concretizza per l’oggi la chiamata di Dio alla sua sequela ed alla conversione 84 261 ma è pure lo spazio in cui il cielo si dona alla terra e vi è comunicazione fra Dio e l’uomo. Luogo dove Dio abita la terra, la storia e si relaziona con l’uomo. Vivere contemplando allora è il modo di vivere di chi vive il trascendente come accessibile, vicino (pur rimanendo nascosto, velato) dove Dio abita la mia storia, santificandola. Il corpo della massima contemplazione è stato certamente il corpo di Gesù di Nazareth, nel quale il divino e l’umano si sono fatti uno: il massimo della contemplazione è l’unione fra ciò che viviamo e il progetto di Dio rivelato dalla Parola, colui che “celebra la liturgia della vita” senza alcuna schizofrenia. Per questo ogni realtà che incontro diviene manifestazione della stessa Parola. Il contemplativo riesce quasi per connaturalità a percepire le presenze infinitesimali, piccolissime, di Parola di Dio che ci sono in ogni realtà del cosmo e della storia. Il contemplativo non è un tagliato fuori ma colui che con gli occhi del cuore (diventati così acuti) legge ogni realtà con i filtri di Dio, anche dove gli altri vedono solo nero. Da qui nasce l’ottimismo, il portatore della “bella notizia di vittoria”, colui che rincuora, colui che apre gli occhi, colui che non si perde mai di coraggio, perché sa per certo che anche negli eventi più drammatici, Dio ha in mano le sorti della storia. Un guardare a tutto attraverso la lente di “Cristo crocifisso” il che implica occhi che vedono, salvezza, riconciliazione, offerta, dono, ecc…in una prospettiva di risurrezione. La radice della contemplazione è la nascita dell’uomo nuovo, unico missionario in cui la parola si è incarnata non solo nella sua visione ma nella sua vita. 3.3.5.6 Collatio Tutti i monaci si riuniscono e, rimanendo ciscuno al proprio posto dopo la recita della Scrittura, uno inizia la conversazione (Girolamo) So infatti che il più delle volte ho compreso in presenza dei fratelli molte cose della parola sacra, che da solo non potrei afferrare…Accade così, per dono di Dio, che mentre si comprende di più ci si insuperbisce di meno: siete voi che mi fate imparare ciò che insegno. (Gregorio Magno) La parola va vissuta ma insieme. È questa la nostra natura. Questa è la natura della Chiesa, la parola cresce comunicandola. Ecco un modo profondo per aiutarci autenticamente: comunicandoci intuizioni, esperienze, opere che la Parola sta compiendo nella nostra vita. Il comunicarci la Parola è essenzialmente un aiuto a realizzarla. Non si tratta di esibizione nè dispute culturali, ma di dono vicendevole, parola annunciata dal Gesù che c’è nel fratello. Protagonista non è l’individuo ma Gesù. È partecipare agli altri qualcosa di mio. È accogliere dagli altri il dono che Dio ha fatto a loro. Faccio attenzione perciò ad uscire dal genericismo; sono io che ho sentito affondare la spada della Parola nel mio cuore, sulla mia relatà, non su un anonimo di altri tempi o un prototipo anonimo: 260 6.2 Mi hai fatto come un prodigio Sal 139 (138) Il salmo è una delle più penetranti riflessioni sul significato e sulla presenza di Dio in tutta la letteratura religiosa. Locus classico della onnipotenza – scienza e onnipresenza di Dio. Dio si proietta in ogni direzione, al di sopra e al di sotto innanzi e indietro. L’arco della vita: vv. 1-6: sedersi e alzarsi sono due estremi che racchiudono l’estremo arco della vita umana (2re 19,27). Un arco che esemplificato, nella sua totalità controllata da Dio, racchiude una serie di altri poli o componenti fondamentali. Il pensare, camminare, riposare,la via della vita, la parola, le dimensioni spaziali L’arco del tempo e dello spazio: (vv. 7-12) Le 4 dimensioni universali: altezza, profondità, oriente ed occidente. Le 2 alternanze cicliche temporali: notte e giorno L’arco della vita nascosta (vv. 13-18): dal grembo materno al grembo accogliente della terra. Tra due grembi. L’uomo nella sua folle fuga non riesce a sfuggire dalla Sua presenza, non riesce a sfuggire all’inseguimento d’amore. Il salmo “esprime lo stupore dell’uomo che scopre che in tutte le sue vie egli è coinvolto in relazioni che restano nascoste all’occhio naturale. Egli non appartiene interamente a se stesso né vive esclusivamente la sua vita per se stesso perché dappertutto scopre invisibili legami che lo vincolano alla realtà di Dio” (Weiser) Genere letterario Testo di chiara natura sapienziale pur delineando l’onniscienza, onnipresenza ecc… di Dio non in chiave filosofico-teologica ma in chiave relazionale fra un “io” piccolo e scrutato ed un “tu” incommensurabile e scrutatore. Temi chiave Scrutare (sal 44,22; Ger 17,10; Gb 13,9;28,27) esaminare – provare (Ger 9,6; 11,20; 12,3; 17,10; 20,12; cf. 6,7; Gb 7,18; 23,10) immagine della tessitura (Gb 10,11) Struttura Meditazione sapienziale 85 1-6: la conoscenza divina Preghiera: 1-3 tu conosci 4-6 tu conosci 7-12: lo spazio e i tempi 7-10 lo spazio 11-12 il tempo 13-18: la creazione e conoscenza dell’uomo 13-15 la creazione 16-18 la conoscenza divina 19-24: il giudizio divino 19-22 contro empi 23-24 sull’orante 1.23. Scrutare 1.2.23. Conoscere 3.24. Tutte le mie vie 2.23. I miei pensieri-progetti Itinerario sul mistero di Dio, insondabile se non nei contorni, pur essendo operante ed efficace. La presenza di Dio è un š am, “là” (v. 8.10) ma è anche un “oltre”, è avvolgente e penetrante, è un «com-prendere» in totalità e pienezza. Anzi, la sua «conoscenza» è creatrice (vv. 13-18) e può trasformarsi in «guida» (vv. 10.24). Dio è «là» (vv. 8.10) ma è anche «con» (`immak, v. 18) e può persino condurre verso la «via eterna» (v. 24), cioè nell'area della sua trascendenza. «Le qualifiche di Dio seguono un movimento oscillatorio dall'astratto al concreto: saggezza spirito presenza (vv. 5-7) mano destra (v. 10) opera (v. 14) libro (v. 16) occhi (v. 16) pensieri (v. 17). A cui corrisponde da parte dell'uomo: Dio invisibile e inafferrabile rivela il suo pensiero attraverso la sua essere seduto/in piedi (v. 2) camminare/riposarsi (v. 3) opera spalle fronte (v. 5) ossa (v. 15) giorni (v. 16) cuore (v. 23) pensieri (v. 23) via di menzogna/via della vita (v. 24). Al contrario, l'uomo, fatto di carne e di sangue, vale per i progetti che concepisce nel suo cuore». 86 Nasce da una parte l’invocazione di perdono, dall’altra il desiderio di iniziare un cammino di conversione. È il riconoscimento della nostra povertà che si confronta con la sua costante fedeltà. Oratio di domanda La presa di coscienza delle nostre lontananze non ci fa sfociare nello scoraggiamento “tanto… non cambio”. Sino ad ora abbiamo chiesto cose, non lo Spirito (Lc 11,9-10). Dio non solo attende che chiediamo aiuto ma attende che gli chiediamo di donarci se stesso nel suo Spirito, il resto verrà di conseguenza. Chiedere il dono dello Spirito è chiedere la somma di ogni dono desiderabile: è docilità, è creazione, è vita nuova è… La parola è pro-vocante interpella e ci forza dall’interno. Per cui di fronte alle nostre inadempienze essa ci smobilita. Restare nella lectio smuove, perché a confronto con la Parola anche i momenti più bui possono essere riletti in chiave di salvezza. Oratio di Ringraziamento Quando ci si accorge che Lui “Ha vinto il mondo” allora nasce sempre il ringraziamento: l’Eucaristia. Ci accorgiamo che la nostra vita è diretta da chi con amore educativo ci ha accompagnatio con fedeltà, prevenendo, assistendo, risanado, trasformando così alla sua luce le esperienze di caduta in valichi di maturazione. Oratio di lode È la gioia incontenibile dei piccoli, è il gusto che nasce dalla gratuità, dalla spontaneità, dalla creatività del dono. Esperienza a volte inenarrabile. Momenti diversi, distinti e confluenti ma anche momenti che si intrecciano senza una chiara distinzione, come lo Spirito suggerisce, ma sempre ed unicamente dialogo con Lui, in una relazione fra persone: non in cerca di emozioni. Preghiera che tende a dilatarsi che non si chiude perché toccando la vita tocca persone, situazioni, mondo. Dialogo profondo che è personale ed ecclesiale. Risposta alle sue richieste, alle sue pro-vocazioni, il nostro “eccomi”. Trasformare in preghiera la Sua Parola è parlare a Lui con il suo linguaggio. 3.3.5.6 Contemplatio Spesso si è identificata la contemplazione con una sorta di ideale elevazione che riservasse l’eletto per un giardino chiuso, con la conseguente chiusura all’esterno. Esperienza per pochi. Contemplare deriva dalla composizione di due elementi cum-templo con-tempio. Dove il tempio è si lo spazio delimitato, separato dal mondo 259 vegli o dorma cresce ugualmente. L’essenziale è che egli abbia seminato in un terreno disposto a lasciarsi arare, fecondare, rigirare. È la visione sacramentale della Parola, certi che essa da frutti di per sé perché è il Signore che agisce dentro di noi. Qui la Parola permea mentre la si riprende (in questo contesto è nata la tradizione della prelettura). La memoria ha qui una buona funzione. Allora questa Parola viene ripetuta con una certa frequenza, come una goccia che scava il cuore, come una mucca che rumina il suo cibo, per gustarne tutta la fragranza scoprendo che quella Parola su Dio è un suo atteggiamento da sempre o quella Parola sull’uomo è dell’uomo di ogni tempo: è anche per me. La Parola svela così tutto il suo saporoso contenuto. Confronto I Padri chiamavano questa fase quella sella syn-krisis con-giudizio, discernimento. Krinein è il verbo che indica il lavoro del setacciare il grano. Per questo la fase della meditazione è un porre la nostra vita al setaccio di questa Parola. E nel momento che qualcosa impedisce alla luce di permeare il tutto, lì inizia la scrematura, che sconvolge le nostre false sicurezze per compiere nuovamente la creazione. Ne nasce spontaneamente un esame della vita (questa è pure la giusta via di preparazione al sacramento della riconciliazione): questa Parola che cosa dice alla mia storia, che cosa chiede di cambiare? Che novità introduce? Per me…Come la mia vita, la mia azione,…. (e qui si possono passare in rassegna le giornate trascorse o i possibili avvenimenti della giornata che si apre) il mio apostolato diventano Parola di Dio? Sono trasformate da essa? Occorre una buona dose di sincerità, una fatica perché cambia. 3.3.5.5 Oratio È il momento della presa di coscienza del grido ineffabile che è presente dentro di noi ma non trovava sino ad ora i termini giusti per esprimersi Oratio di riparazione La parola di Dio “è una spada a doppio taglio che penetra sino nel profondo”. Così se abbiamo camminato secondo lo Spirito, la Parola non può non averci ferito come: Isaia (Is 6,5ss), come gli ascoltatori di Pietro il giorno di Pentecoste (At 2,37) che non possono fare a meno di confessarsi bisognosi di misericordia. Commenta Monloubou: «Quali che siano gli atti del fedele e quale che sia la sua vita, che sia in piedi, seduto o cammini, che. compia l'una o l'altra delle innumerevoli azioni di cui questi tre atteggiamenti privilegiati sono simbolo, che affronti l'esistenza combattendo, che tenti 'di sormontare i conflitti o invece s'applichi a unire i contrari o che tenti d'incontrare la calda intimità di cui ha un desiderio profondo, Dio lo «conosce». Paragrafo stupendo che dice così tante cose in così poche parole: e che con grande arte mette il simbolismo al servizio della tesi». […] «Nella maggior parte il Sal 139 è costruito su un'opposizione molto netta: cominciando con il rifiuto e la fuga il salmista arriva al cammino in comune, alla marcia in direzione di colui da cui all'inizio aveva voluto allontanarsi. Infatti i primi.12 versetti illustrano con maggiore o minore chiarezza il tema della fuga. L'uomo è in cammino e il suo movimento tende ad allontanarsi da qualcuno: Jahweh, che è l'unico qui a indossare le note simboliche dell'uomo in piedi. Il salmista è in marcia ma per fuggire da Dio. Verso quale direzione? Non se ne dice nulla. Solo la fuga lo occupa ma essa è impossibile ... Lo scopo del poema è quello di mostrare che non è possibile all'uomo impegnarsi in un cammino che lo allontani realmente da Dio. In un contrasto che colpisce, l'ultimo versetto evoca l'eroe del salmo in marcia sulla via dove Dio lo conduce. Questo cammino va verso una meta discretamente suggerita da un nome di tempo, 1'«eternità», ma la meta non è altro che Dio. Così chi voleva che la sua vita fosse una fuga da Dio arriva ad accettare di camminare con lui, con Dio come guida e verso lui come meta ... La vita del fedele non è che un cammino compiuto alla sua presenza e che lo conduce a lui» 22 La mano di Dio si posa sul fedele (v. 5) e abbraccia tutto lo spazio (v. 10) eppure resta sempre al di fuori di esso. In pratica il poema sottolinea due aspetti complementari. Lo spazio è pieno di Dio, lo spazio nasconde nel suo interno il segreto dell'azione di Dio e anche il segreto del male, che a lui si oppone (vv. 19-22), in un impasto misterioso. La stessa impostazione regge anche l'uso del simbolo temporaleesistenziale. Il testo è colmo di polarismi che esprimono semiticamente l'intero, le coppie antitetiche notte-giorno e oscurità-luce sono gli antipodi del tempo; come la «via», il cammino è una nota metafora per rappresentare l'intero percorso della vita. Ora su questa totalità del tempo, che avvolge l’uomo e gli si attacca alla pelle, si stendono lo sguardo e l'azione divina. Dio non solo conosce l'esistere dell'uomo ma ne è intrinsecamente partecipe col suo efficace atto creativo, col suo intessere la realtà fisica e interiore dell'uomo, col suo inseguire l'uomo nella sua storia. Eppure egli trascende il 22 258 87 Monloubou L:, L’immaginaire des Psamistes,Paris, 1980. tempo, può avviarci su una «via eterna» (v. 24) ove egli vive in un'intatta perfezione ed eternità. vv 1-6: L’onniscienza divina Verbo della conoscenza jd’ indica una penetrazione totale del conoscente nell’oggetto della sua conoscenza. E questo raggiunge la sua radicalità quando il soggetto è Dio, colui che sa perché tutto ha creato (1Sam 2,3; Sal 7,10; 14,2; 17,3-4; 26,2; 44,22; Ger 12,3; Gb 28,23; Na 1,7; Gn 18,19; Es 33,12; 2Sam 7,20; Am 3,2; Os 5,3; 13,5; Gb 11,11; 1Re 8,39; Sir 17,19; 23,19). Oltre la superficie delle cose, nel segreto più recondito dell’essere. Il signore può perforare tutte le cortine protettive dell’orgoglio e dell’autodifesa umana. Giobbe di fronte a questo reagisce sentendosi perseguitato (7,12-20; 10,20; 14,16; 23,10-12). Il salmista qui vuole invece tracciare questo sguardo come una partecipazione affettiva e paterna che ha come scopo la salvezza e la liberazione dell’uomo (Sal 94,11; 144,3; Os 6,6; Ger 1,6; 12,3; Gv 10,14; 2Tm 2,19). È una conoscenza efficace che crea disagio nel peccatore ma che nel giusto, pur creando imbarazzo e rispetto, deve diventare fonte di abbandono e di speranza. Questa totalità è espressa nei bipolarismi: sedersi – alzarsi; camminare – sostare; dietro – davanti; pensiero – via – parola; lontano – sopra di me; elevato – meraviglioso. Estremismi nei quali è racchiuso tutto il mediano. “da ogni parte ero investito da te, Signore” (Agostino, confessioni, VIII, 1,1) vv 7-12: L’onnipresenza divina la dimensione spaziale caratterizza immediatamente questa seconda strofa. Nei versetti 7-10, i quali sono rinchiusi tra due antropomorfismi: quello del “respiro-volto” e quello della “mano – destra”. Ciò che vivifica e ciò che identifica da una parte e ciò che è potente ed efficace dall’altra. Da una parte ciò per cui l’uomo è dall’altra ciò per cui l’uomo cammina nel bene perché è guidato. Ma entrambi i simbolismi dicono spazialità: l’uno totalizzante in quanto in delimitabile dall’altra perché nelle categorie dei limiti in cui è compreso il tutto: sinistra e destra – nord e sud. Nei versetti 8-10 vi sono tracciati i due assi: quello verticale: cieli – sheol (per indicare la discesa è utilizzato il verbo del distendersi per il sonno quasi ad indicare una concezione particolare del regno della morte. Anche qui pare un modo particolare di vedere questa onnipresenza per cui lo sgheol non è il regno dell’abbandono di Dio.) e quello orizzontale: est – ovest. 88 È il secondo gradino della nostra ascesa, dove la Parola di Dio diviene Parola di Vita. La lettura e la comprensione non rimangono un’operazione di accumulo di nozioni, ma devono toccare la vita, sconvolgerla per ricostruirla secondo Dio. Se la lectio è un’operazione che può essere anche comunitaria la meditatio è squisitamente personale: riprende il messaggio della lectio e inizia a personalizzarlo. Leggere attentamente, trascrivere e imparare a memoria sono tre modalità semplici di far sedimentare la Parola in noi. Allora la frase su cui lo Spirito ha soffermato la nostra attenzione, diviene unica espressione illuminante che ripetuta continuamente diviene un tutt’uno con me, che scritta su un quaderno delle meditazioni, può tracciare percorsi di vita, perché lo scrivere fissa indelebilmente ciò che a volte la memoria scolorisce, e così questa Parola diviene il luogo della verifica oltre che della progettazione. Tre momenti risultano salienti nella seconda fase: Raccolta “Martellando” il ferro rovente produce scintille di luce, la voce proclamata fra le montagne fa eco sonoro pur con sfumature diverse, “la Parola – dicono i Padri – si spiega con la Parola”. Così la Parola chiave si illumina con un ricordo, ci rende presente un altro passo, un’altra Parola, sino a quando la memoria non si ferma. Parliamo a questo punto di eco biblica. In quale altro brano ho già trovato situazioni analoghe, parole simili ecc… le note e i rimandi solitamente apposti nelle bibbie sono di grande aiuto. Quella Parola può essere anche letta e compresa alla luce della Chiesa che è l’incarnazione di questa Parola nella sua storia di santità ricordando soprattutto episodi della vita di santi che l’anno vissuta e come lo hanno fatto. Per noi particolarmente illuminate è la vita di don Bosco, di Madre Mazzarello e dei santi della famiglia salesiana. Ecco l’eco salesiana. È chiaro che per fare questo bisogna avere una grande familiarità con la Parola di Dio che va letta “gratuitamente” senza nemmeno «l’interesse» della preghiera e la conoscenza della santità della Chiesa. Ognuno di noi si accosta con il suo bagaglio e secondo la sua necessità; come nell’esodo il popolo raccoglieva la manna secondo il suo bisogno ed il raccoglierne di più produce solo marciume. Senza alcuna frustrazione nè scoraggiamenti. Ruminatio È il momento dell’elaborazione del raccolto fatto. I Padri della Chiesa avevano un’estrema fiducia nella Parola la quale sia che il contadino 257 Un brano è comprensibile solo a partire dal suo contesto più ampio per poi scendere via via al particolare che è la singola azione, il singolo personaggio, la singola Parola. All’uomo del nostro tempo il linguaggio della bibbia non è immediatamente comprensibile. La redazione dei testi biblici risente di un contesto culturale e storico ormai lontano. Per questo la lettura ha bisogno di una introduzione, di studio, che può essere fornita minimamente attraverso la lettura delle note o delle introduzioni ai libri sacri. Già i padri della Chiesa percepivano la ricchezza del testo ma anche la sua complessità per questo elaborarono una dottrina circa il “senso” delle scritture per giungere al contenuto essenziale L’analisi grammaticale pone attenzione alla Parola, il suo valore semantico, al suo valore grammaticale evidenziano il cuore dell'espressione. Il procedimento è possibile nei due versi: dalla Parola al suo contesto o dal brano alla Parola, certi come i grandi monaci medioevali che ogni Parola è sacra come l’Eucaristia in cui ogni frammento contiene il tutto. Soprattutto se è un testo evangelico, la mia attenzione deve lasciarsi afferrare dalla Persona di Gesù. Atteggiamenti, parole esclamazioni, sguardi, cenni: non c’è nella che, se colto con attenta lettura, non sia rivelazione per me della sua personalità umana e divina, unica al mondo e presente qui e ora , come risorto accanto a me e rivelante il Mio volto di uomo “che deve crescere alla statura dell’uomo perfetto”. In questa fase possono essere utili alcuni commentari, che però hanno anche il rischio di catturare tutta l’attenzione trasformando il primo momento della lectio divina, nell’unico momento. Il Card. Martini consiglia di leggere con la penna, sottolineando verbi, evidenziando i soggetti principali, evidenziando in un cerchio ciò che mi colpisce di più o ciò che è il fulcro del testo. Una lettura fatta con il cuore orientata alla comunione, che non è separata dal sentimento, per non essere “ciceroniani”. Dopo aver letto e riletto il testo, averlo compreso nel suo contesto e nella sua struttura è importante fermarsi su una frase, su una espressione, su una Parola che colpisce il cuore. Il primo momento si conclude con la ripetizione continua, quasi un “martellamento” della Parola chiave per fissarla nel nostro cuore di pietra. In chiave salesiana, il valore dell’eco biblica è associabile a quanto don Bosco invitava a vivere attraverso la mediazione delle giaculatorie. 3.3.5.4 Meditatio Maria conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. 256 Infine il poeta passa all’aspetto temporale ritmato dal flusso luce – tenebra (simbolo molte volte utilizzato nel testo biblico per rimandare allo sheol, qui penetrato e vinto senza alcuna difficoltà) vv 13-18: La creazione dell’uomo 13-16a è un grido di stupore e di adorazione davanti al creatore di un simile capolavoro (sal 8). Questo capolavoro intessuto finemente e con precisione sin nel profondo. Le viscere, i reni sono il simbolo delle realtà più intime e nascoste, sede della vita sensitiva ed affettiva secondo il mondo biblico. Dio modella questo con precisione tanto che si afferma: “tu mi hai intessuto nel seno di mia madre” dove quel verbo è difficilmente traducibile, meglio sarebbe Dio mi tesse e mi pro-tesse. Creazione e provvidenza sono coinvolte sin dal grembo materno della madre (Gb 1,10.21; 10,11; Sal 5,12; 140,8) Questo capolavoro il più alto della creazione, curato nei minimi dettagli. Il v. 15 ha un particolare dove si dice che l’uomo è rqm indicante un tessuto broccato con rilievi e una gamma multicolore di sfumature. (Cfr la descrizioni dei ricami della tenda del convegno: Es 26,36; 27,16; 28,39; 35,35; 36,37; 38,18.23; 39,29). Come lo sheol, cuore della terra, oscuro è penetrato da Dio, così il ventre di una madre è penetrato dallo sguardo e dall’opera di Dio che edifica il suo capolavoro nei minimi dettagli. 16-18b delinea la conoscenza mirabile da parte di Dio di questa creatura descritta. In questa parte è forte il simbolismo del libro, nel quale Dio registra in anticipo tutta la nostra vita nelle sue dimensioni più nascoste, segno \simbolo della sua viscerale premura per ciascuno che nel nuovo testamento Gesù sintetizzerà con l’immagine dei capelli contati dal Padre. L’uomo si sente allora avvolto da una passione amorosa che fa di Lui l’essere più esaltato (cfr Sal 8) sin dalle sue più remote origini vv 19-24: Il giudizio di Dio tre sono i personaggio che nel movimento finale si delineano Dio, punta del triangolo della relazione al quale convergono sia l’orante che l’empio Il secondo personaggio è l’empio, ampiamente tratteggiato nei suoi lineamenti essenziali con una serie vivace di definizioni. Il termine è un singolare collettivo, opposto al giusto. Massa perversa che rifiuta Dio, coloro che sono idolatri. Essi parlano di e contro Dio considerandolo come gli altri idoli che si possono manipolare a proprio desiderio. Negano così il Dio creatore e glorioso, presente nella vita di tutti i giorni. 89 Il terzo personaggio è l’orante: è colui che si tiene lontano dai peccatori, che riduce i nemici £a vanità”, la cui causa coincide con la causa di Dio. Eco salesiana Margherita, essendo essa donna di gran fede, in cima a tutti i suoi pensieri, come pure sulle sue labbra, v'era sempre Iddio. D'ingegno sveglio e di facile parola, sapeva in ogni occasione servirsi del Nome di Dio per padroneggiare il cuore dei suoi fanciulli. Dio ti vede: era il gran motto, col quale rammentava ad essi come fossero sempre sotto gli occhi di quel gran Dio, che un giorno li avrebbe giudicati. Se loro permetteva di andare a sollazzarsi nei prati vicini, li congedava dicendo: Ricordatevi che Dio vi vede. Se talora li scorgeva pensierosi e temeva covassero nell'animo qualche piccolo rancore, loro susurrava all'improvviso all'orecchio: Ricordatevi che Dio vi vede e vede anche i vostri più reconditi pensieri. Se, interrogando qualcuno di essi, cadeva in sospetto che potesse scusarsi con qualche bugia, prima di averne la risposta ripeteva: Ricordati che Dio ti vede. Senza saperlo ripeteva ai figli le parole dette da Dio ad Abramo: Cammina alla mia presenza e sii perfetto. E il ricordo che Tobia dava al suo figlio: Tutti i giorni della tua vita abbi Dio nella mente (MB I,p. 44) Erano prossime le vacanze. La sera del 21 agosto, salito sul pulpitino e aspettato un poco per dar tempo agli artigiani di prender posto presso gli studenti, dopo un esordio atto a conciliare col silenzio l'attenzione, svolse mirabilmente il pensiero della presenza di Dio, presentandolo quale mezzo efficace per passare le vacanze senza cadere in peccato. Ora fate un po' di silenzio, che voglio dirvi qualche cosa. […] S'avvicina il tempo delle vacanze, tanto per gli studenti come per gli artigiani, gli uni per riposarsi la testa, gli altri per riposarsi le spalle e le braccia. Io dovrei dare agli uni ed agli altri qualche consiglio adattato per passarle bene, ma vi sono dei consigli generali che possono valer per tutti. Il consiglio adunque che io son solito a dare è questo: quando siete in vacanza, mettetevi pure in libertà, fate pure disordini, ma cercate di ritirarvi in un posto in cui il Signore non vi veda: chiudetevi in una stanza remota della casa, andate a basso in cantina, salite anche sul campanile, o nascondetevi nel folto di una foresta, purchè non sia presente il Signore. Credo però che non vi sarà nessuno così gonzo. Ah! voi conoscete subito essere impossibile sottrarvi agli occhi di Colui che vede contemporaneamente ogni cosa in ciclo e in terra. Questo pensiero ci deve accompagnare in ogni tempo in ogni luogo, in ogni azione. E come osereste commettere un atto che possa offendere il Signore, se Egli ha la potenza di farvi all'istante restar secca la mano mentre vi accingete a commetterla, o farvi intorpidire la lingua mentre pronunciate quella cattiva parola? Dunque quando vi troverete a casa fra i 90 3.3.5.3 Lectio È lo studio attento delle Scritture fatto con uno spirito tutto teso a comprendere (GUIDO II) a. Il testo Innanzitutto è essenziale la scelta di un testo. La Parola ci è donata dalla Chiesa nella forma delle letture liturgiche o attraverso l’accostamento ad un libro biblico visto nella sua globalità. Per questo la lectio può essere fatta sotto la forma di lectio continua assumendo un testo dal suo inizio al suo termine o attraverso le parti donate dalla liturgia, scegliendo per la nostra meditazione o le prime letture o i testi evangelici della liturgia del giorno (ad esempio negli anni pari la prima lettura, negli anni dispari i testi dell’Evangelo). La Parola necessita di un testo che analogicamente come il pane è la materia in cui incontare il Cristo. Per questo nelle nostre liturgie incensiamo il testo, così la nostra cura deve permanere anche nella custodia dei testi individuali. Le modalità di lettura Si tratta di leggere il testo e non una volta sola. Leggere con attenzione è porre il fuoco sulla grammatica, sulla sintassi, sui personaggi, sui verbi, sui sentimenti. Lectio che a volte non si esaurisce nella lettura del testo biblico, spesso difficile, ma può essere supportata da commentari esegetici o spirituali che hanno già sbriciolato il testo per i lettori. La lettura va concentrata sul testo, fatta con lentezza, calma “con gli occhi fissi su di Lui” (Lc 4,20) come quel giorno a Nazareth, occhi che devono essere semplici, puri, docili, umili occhi del corpo e del cuore, che hanno un’unica preoccupazione. Una lettura fatta con la testa godendo i frutti che la scienza offre. Le capacità umane non sono mortificate, in questa prima fase è necessario lo studio razionale, studio degli aspetti storici (situazione umana trattata),letterari (linguaggio, stile, generi letterari, autori, epoche, formazione dei testi), teologici (il messaggio di Dio e il suo volto che si rivela) del testo, contemplando il progetto di Dio, la storia di salvezza che in tutti i libri e nella loro unità è tratteggiata. La fedeltà nel perseguire questo significato letterale della Parola di Dio è uno delle costanti necessarie all’autentica lectio per non cadere nella manipolazione fantasiosa, soggettivistica, a servizio dei nostri sentimenti. 255 accosta alla lectio divina è bene che non si arrivi ad essa fagocitati da mille altre cose, con la testa piena di … Nella tradizione salesiana l’intuizione di don Bosco: “la buona notte”. È l’ultimo pensiero positivo che segna il mio riposo cosicchè possa liberare la nostra mente dagli affollamenti della giornata e preparare con la pace della notte l’impostazione della giornata successiva. In questo potrebbe essere utile inserire al termine della nostra giornata, proprio prima di spegnere la luce la prelettura della Parola che al mattino accosterò con la lectio divina. L’alfa e l’omega delle mie giornate, il primo e l’ultimo pensiero. Il silenzio sacro don Bosco lo viveva in questa logica, di preparazione al momento di comunione con il Signore con cui iniziava la giornata. Se Lui è un “Dio Geloso” lo è perché sa che noi siamo fragili e non possiamo porre tutto insieme e a volte se lo facciamo rischiamo di non scegliere sempre il meglio, ecco perché fare delle scelte di qualità. 3.3.5.2 Preparazione immediata: INVOCATIO Necessita innanzitutto un clima di calma e di silenzio in cui tutto di noi dica un atteggiamento d’ascolto Il nostro corpo non è indifferente all’incontro con la Parola. Così in ogni nostro incontro il nostro corpo assume un atteggiamento diverso a seconda dell’importanza che diamo ad esso. Il nostro respiro è il segno più evidente dello Spirito che opera dentro di noi: che grida con gemiti inesprimibili L’invocazione allo Spirito è allora il via di questo dialogo amoroso: Lui ha illuminato lo Scrittore, Lui vivifica e rende efficace la Parola. Mi metto, umile, sulla sua lunghezza d’onda, chiedendogli che consumi in me qualsiasi resistenza anche inconscia. Dammi un cuore in ascolto – dice Salomone nel TM - (1Re 3,9): un cuore come una pellicola, che si lascia impressionare dalla luce in un istante e per sempre Il che implica un grande atteggiamento di umiltà, la Parola non si deposita in un terreno plastificato. Un terreno autosufficiente, un terreno peccaminoso. La Parola non sopporta il peccato. L’invocazione può essere molto semplice, un grido, che si ritma con il respiro: inspirazione espirazione Vieni Spirito santo Spirito plasmami Rinnovami … 254 vostri amici e compagni, se qualcheduno vi consiglierà di tenervi lontani dalla Chiesa, o d'andare in qualche luogo pericoloso, o di fare qualche altra azione cattiva, rispondete come fece già una volta Giuseppe, quando in Egitto volevano fargli commettere un peccato: E come posso io offendere alla sua presenza il mio Signore? E noi Cristiani dobbiamo dire ancora dì più: e come possiamo noi offendere alla sua presenza il nostro Dio, Dio onnipotente che ci ha creati, Dio misericordioso che ci ha redenti, Dio infinitamente buono che ci ricolma ad ogni istante di suoi benefizi, Dio giusto che potrebbe con un solo atto della sua volontà toglierci questa nostra misera esistenza? (XIII, p. 427-429) Nei cortili e in tutte le stanze della casa disponeva che li interni e gli esterni avessero sott'occhio il Crocifisso e l'immagine di Maria, perchè si avvezzassero a vivere alla presenza del Signore. E il pensiero della divina presenza era così vivo nella sua mente che trasparivagli nella fisionomia; ed io osservandolo mi sentiva eccitato ad esclamare: Conversatio nostra in coelis est. Dovunque fosse, anche a mensa, o solo nella propria camera, era sempre composto ne' suoi atti; i suoi sguardi teneva raccolti e il capo piuttosto chino, come di chi sta innanzi ad un gran personaggio, o meglio, al SS. Sacramento dell'altare. (III, p. 588) Gli alunni vivevano alla presenza di Dio, e su tutte le mura leggevasi scritto a grossi caratteri: DIO TI VEDE. Con tale importantissimo ricordo D. Bosco sapeva loro ispirare un grande raccoglimento durante le preghiere, di cui rilevava l'efficacia dimostrandole un colloquio faccia a faccia con Dio stesso. Quindi anche le brevi orazioni, che precedevano e seguivano tutte le occupazioni di studio e di lavoro, e il pranzo e la cena, si recitavano con molta divozione. (IV, p. 683) Ed ora, Beatissimo Padre, soggiunse D. Bosco, abbia la bontà di suggerirmi una massima che io possa ripetere a' miei giovani, come ricordo uscito dalle labbra del Vicario di Gesù Cristo. La presenza di Dio! rispose il Papa: dite ai vostri giovani in mio nome che si regolino sempre con questo pensiero!... (V, p. 908) D. Bosco nei suoi passi era guidato dal Signore, perchè uomo di preghiera continua, quantunque non avesse nessuna di quelle esteriorità e pratiche che generalmente si vedono negli altri Santi. Era la sua quell'orazione attiva, la quale consiste nello stare continuamente alla presenza di Dio, col fine, non solo di servirlo, ma godendo e rallegrandosi tra le proprie occupazioni, nel vedere attuarsi in ciò che si sta facendo la volontà del Signore. (VI, p. 530) Ha scritto S. Francesco di Sales: “ Vi è una certa maniera di pregare, 91 molto facile, molto utile, che si fa coll'assuefare l'anima nostra alla presenza di Dio, ma in maniera che questa produca in noi una unione intima, nuda, semplice e perfetta. Oh che preziosa orazione è questa! ” (VI, p. 531) Una Parola che viene dalla Chiesa e torna ad essa nel servizio ai fratelli e nella lode liturgica vero alveo di annuncio, vero ambiente per la sua proclamazione. Nel frattempo era incominciata la novena che precedeva la festa dell'Immacolata Concezione di Maria Vergine SS.; e D. Bosco, mentre esortava i suoi alunni a celebrarla con molta pietà, scriveva i fioretti da praticarsi in que' giorni. Ogni sera ne veniva proposto e spiegato uno, ora da lui stesso, ora, essendo egli impedito, da D. Rua Michele. Al nono punto si legge “Il massimo e più potente custode della purità è il pensiero della presenza di Dio.” (VII, p. 331) La lectio: un ascolto orante di Lui La lectio divina è una forma di preghiera, la forma più classica, un ascolto amoroso (Lc 10,40), un’incontro: “ci si incontra perché ci si vuole bene; se non c’è amore, l’incontrarsi non significa niente. La bellezza di un incontro è dato dall’importanza che una persona assume per l’altro: più per me conta quella persona, più incontrarla è una gioia” ma pregare è soprattutto ascoltare, è porre al centro l’altro perché il parlare rende protagonisti, l’ascoltare pone la focalizzazione su un altro. Un Ascolto che trasforma «l’Oggi», perché è una Parola viva. E qui è importante il concetto di Ispirazione. Lo Spirito non ha operato solo illuminando lo scrittore ma continua ad operare nella mia lettura. Dio parla ora. La Scrittura è Uno che mi parla. Parola che interpella me, qui, adesso. Nella Chiesa Armena prima del Vangelo vi è un dialogo fra il diacono e l’assemblea: D: State attenti Ass: è Dio che parla una ascolto è sempre compromettente un ascolto che risponde alle mie domande sull’oggi. Su come impostare le mie giornate, come agire in quella situazione, è il criterio di discernimento per le mie scelte. Percependo una speciale provvidenza nella Parola donatami dalla Chiesa ogni giorno. Non scelta da me stesso, ma donatami un ascolto che deve essere costante per rendermi famigliare l’idioma. Tutti i giorni bisogna mettersi in ascolto per non essere degli estranei, dei turisti della Parola. Come gente che ha fretta di vedere molte cose ma non abita. (venite e vedete… e quel giorno si fermarono con lui). Non è necessario allora leggere molto. Basta talora un versetto per riempire tutta la giornata e qualche volta più di una giornata Allora: applica tutto te stesso, mettiti in gioco con tutte le tue facoltà: intelligenza, sentimento, fantasia… Proseguendo a tener fedelmente, nell'umiltà più profonda, il pensiero rivolto a Dio, arriva a comprendere sempre più nettamente la propria nullità, e la sublime maestà di Dio e la bellezza ineffabile del premio che ci tien preparato, e sente sempre il bisogno di stare ognor prostrato innanzi a Lui ad implorare la sua infinita misericordia. Invece, chi pieno di sè, trascura la vita interiore, non pensando che alla vita terrena, nè d'altro preoccupandosi, muore presto alla grazia, e cade e ricade tra le zanne del mostro infernale, che è sempre in giro, come leone ruggente, per rapire le anime a Dio. Mentre anche nelle prove più gravi chi vive unito abitualmente con Dio, resta nella sua grazia, perchè Dio lo difende a spada tratta, e gode del suo aiuto quaggiù, e si assicura il gran premio del paradiso. L'umiltà, quindi, è la strada del paradiso. Dov'è umiltà, dice S. Agostino, ivi è grandezza, perchè l'umile è unito con Dio. E l'umiltà non consiste nell'apparir meschini nel vestire, nel fare, nel parlare; ma nello star prostrati, con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutta l'anima, alla presenza di Dio, consci della nostra nullità, implorando di continuo la sua misericordia. (X, p.77) La cronaca poc'anzi citata serba anche il ricordo di una visita fatta allora da Don Bosco alle Suore di Alassio. Interrogatele se avessero molto lavoro e udito che sì: Ebbene, guardate, disse, quando io vado nelle case e sento che c'è molto da lavorare, vivo tranquillo. Dove c'è lavoro, non c'è il demonio. Ne andò a vedere tre che erano ammalate. Dopo voltosi alle altre che tutte ve l'avevano accompagnato, domandò: Di quale virtù volete che vi parli? Esse che avevano sempre tanto da fare e non sapevano come praticare quella regola che diceva di « stare continuamente alla presenza di Dio », unanimi risposero: Ci parli dello stare sempre alla presenza di Dio. Ed egli: Sarebbe veramente bello che le Figlie di Maria Ausiliatrice stessero perpetuamente alla presenza di Dio!... Ma possiamo fare così: rinnovare l'intenzione di far tutto alla maggior gloria di Dio ogni volta che si cambia 92 - - - - - 3.3.5 Le tappe della Lectio divina 3.3.5.1 Preparazione lontana: claustrum Il nostro è un “Dio Geloso”, non ammette concorrenti, rivali. Non possiamo porre Lui accanto alle mille altre cose. Così soprattutto se ci si 253 Possiamo quindi concludere che la Scrittura non è tanto un insieme di libri di dottrina, ma di coinvolgimento, di dialogo; un insieme di libri che racchiudono la verità e ci illuminano sul mistero di Dio e sul mistero dell'uomo immerso nel mistero dell'amore, della tenerezza e della misericordia del Signore.” (Tratto da MARTINI C.M., Cinque vie di avvicinamento alla bibbia, Lezione del Cardinale Arcivescovo agli studenti della Scuola Militare Teulié - Milano, 14.11.2001) 3.3.4 La definizione di lectio divina Lectio Lettura Lettura Divina Ciò che noi abbiamo visto, ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita. contemplativa: lettura che prega lettura che è preghiera. Una lettura nella fede, inspirito di preghiera, credendo alla presenza attuale di Dio che mi parla, con la presenza di tutto me stesso in spirito di totale abbandono occupazione. Sopra il quale argomento ragionò un poco e infine conchiuse: Come vedete, non è poi tanto difficile farsi l'abito della continua unione con Dio. (XIII, p. 117) Dall’Epistolario di CATERINA DA SIENA Lettera 102 A frate Raimondo da Capua dell’ordine de’ predicatori Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi sposo vero della Verità e seguitatore e amatore d’essa Verità. Ma non veggo il modo che potiamo gustare e abitare con questa Verità se noi non conosciamo noi medesimi. Perocché nel cognoscimento di noi, in verità cognosciamo, noi non essere, ma troviamo l’essere nostro da Dio, vedendo che egli ci ha creati alla immagine e similitudine sua. La lettera della mistica Caterina ci mette tuttavia in guardia: nella ricerca della nostra identità, se pensiamo di muoverci solo con le nostre forze non approderemo a nulla. LETTURA DELLA PAROLA che deve portarci alla preghiera ed alla contemplazione, ponendole delle domande per la nostra vita di conversione. Lettura della Scrittura che è il Signore Gesù, parole d’amore dello Sposo (Cristo) alla sua Sposa (la Chiesa). Un rapporto amante di passione. Un Signore che parla attraverso, dentro queste parole. Il che implica una grande attenzione al testo ed una grande umiltà per non porci al di sopra di esso ma con lo stesso atteggiamento dei Padri della Chiesa i quali ritenevano che ogni minima espressione della sacra Scrittura possedesse un mistero, un messaggio di Dio per l’uomo d’oggi. Dire lettura qui implica ascolto in un contesto di silenzio, di svuotamento. Attribuire al testo un valore DIVINO chiede immediatamente un atteggiamento di fede. Parola non di uomini ma Parola ispirata dallo Spirito, Parola in cui lo Spirito è presente (cfr. due mense DV 21); Spirito che spira dalle scritture, parla attraverso di esse ed è presente realmente in esse. Per questo non può essere posto accanto, sullo stesso piano di altre letture, esige centralità. Lettura divina ECCLESIALE. Perché la Parola è data dalla comunità. Per cui non ci può essere lettura divina senza essere in comunione. 252 93 Per il cammino di interiorizzazione 1. Alla luce delle esperienze fin qui fatte, cerca di delineare quelle che sono le tue potenzialità fisiche, intellettuali, morali, quali sono le tue competenze sociali e quali sono i limiti emersi dal confronto con le persone che hai incontrato. 2. Sei consapevole del fatto che queste potenzialità, queste competenze, gli stessi limiti sono innanzitutto un dono\grazia di Dio, segni concreti e percepibili del Suo amore per te? Cosa fai per far maturare in te questa consapevolezza ed evitare così le derive dell’autoreferenzialità, del narcisismo, della paralisi egoistica? 3. Se queste potenzialità e questi limiti sono doni, che cosa ti dice attraverso di essi il loro Donatore? (Cerca di definire bene l’appello che attraverso le tue potenzialità naturali il Donatore ti lancia; il rischio è che, nell’incoscienza vocazionale, esse degenerino!) stesso che mi parla e mi interpella, e allora tante parole bibliche risuonano per me. Penso per esempio alla parola del vangelo di Giovanni: "Non si turbi il vostro cuore"; alla parola di Gesù a Pietro: "Non temere, sarai pescatore di uomini"; a un'altra parola di Gesù a Pietro: "Getta al largo la tua rete". Le sento dette a me da una Persona viva che mi parla e pensa a me, da Gesù stesso, da Dio che mi interpella; la Bibbia allora mi colpisce nel profondo e diventa un libro sul quale costruisco i miei atteggiamenti, un libro che mi conferma nel cammino che sto facendo oppure mi fa comprendere dove sto sbagliando. Un brano della lettera agli Ebrei, nel Nuovo Testamento, descrive la parola di Dio come "viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio", che "penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore". Quando una pagina della Scrittura, dei Salmi, del Vangelo è letta così, è certamente occasione di profondo mutamento interiore, di cambiamento di vita. Un ultimo sentiero -ma ce ne sarebbero altri- è quello del dialogo. La Bibbia è sorgente di dialogo interiore; cristianamente, è sorgente di preghiera. E' l'avvio di un dialogo perché, sentendomi interpellato, io rispondo e la mia risposta è preghiera. Una preghiera che può essere suscitata dalla Bibbia stessa, per esempio dai Salmi, da queste 150 poesie che sgorgano dal profondo del cuore, nelle quali e con le quali io parlo a Dio con parole che Dio mi mette sulla bocca. Oppure un dialogo libero, spontaneo, che parte da una pagina del Vangelo. La via del dialogo mi fa capire davvero che la Bibbia è parola di Dio, è Dio che mi parla e io gli rispondo, entro in preghiera, mi apro a una dimensione più alta di tutte le dimensioni visibili, partecipo a un mistero più profondo dell'essere, e mi sento quindi chiamato, commosso, coinvolto nell'intimo della coscienza. Il sentiero della preghiera non nega, ma riassume, eleva e supera i sentieri precedenti. Ricordo che quando, come Vescovo, spiegavo ai giovani la Bibbia nella Scuola della Parola che tenevo in Duomo -adesso la tengono i miei preti in molte chiese della diocesi-, il momento più commovente non era quello in cui pregavamo insieme o io spiegavo le pagine della Scrittura, ma il momento in cui cominciava il silenzio, un silenzio impressionante, prolungato, nel quale ciascuno si avviava al dialogo con Dio, veniva invitato a parlare con Gesù che ci parla nei testi sacri. In quel momento, infatti, la Bibbia acquista la sua valenza, e comprendiamo che, oltre a rivelarci noi stessi, ci rivela il mistero di Dio, dell'esistenza umana, i mistero della trascendenza e della morte. 94 251 perché, nel groviglio di tali emozioni e tensioni, sono coinvolti valori etici, umani e anche forti disvalori. Di qui la domanda: chi sono io? come posso orientarmi in questo guazzabuglio del cuore umano (come lo chiamava il Manzoni), in questa complicazione di sentimenti, di ripugnanze, di attrazioni, di speranze? E' la domanda che si pongono tanti giovani che mi scrivono: chi sono io? con quali sentimenti devo identificarmi? che cosa voglio veramente? Leggendo la Bibbia, frequentandola un po' familiarmente e con fiducia, ho avuto la grande sorpresa di trovarmi descritto. E' la scoperta che tante pagine della Scrittura sono lo specchio di me, mi aiutano a chiarirmi, a mettere in ordine sentimenti, pensieri, emozioni, a distinguere le emozioni passeggere da quelle durature, le emozioni costruttive da quelle distruttive. Perché la Bibbia è un capolavoro di umanità, descrive quasi in ogni sua pagina situazioni umane cosi concrete, cosi vicine a noi, puntuali, da meravigliarci ogni volta. Io mi vedo descritto, per esempio, nelle grandi figure dell'Antico Testamento: Abramo, Giacobbe, Giuseppe l'ebreo, Davide; vedo descritto il mio cuore, i miei ideali, le mie paure, debolezze, speranze. Quindi la Bibbia diventa un cammino per la conoscenza di sé. Vi sono poi pagine evangeliche in cui riceviamo davvero una luce per capire chi siamo. Alcuni brani mi hanno aiutato a definirmi, a collocarmi, a scoprire che cosa volevo. […] Ci riconosciamo in altri e diciamo: sono io, si parla di me. Questo è il sentiero dell'introspezione, del sentirmi interpretato dalle pagine della Scrittura, un libro pieno di umanità, di esperienze, un libro vero, concreto, non artefatto, nel quale imparo a leggermi. Da un certo momento della mia vita è stato un sentiero estremamente importante per prendere in mano la Scrittura. E ancora oggi, quando spiego la Bibbia alla gente, in particolare ai ragazzi e ai giovani, cerco di capire che cosa dice di me quel testo, che cosa mi fa comprendere di quanto sto vivendo, come mi aiuta a distinguere fra vero e falso nella mia vita, fra spontaneo e artefatto, fra autentico e artificioso. Emerge allora un’altra via che aggiunge qualcosa alla terza: non solo mi sento interpretato dalla Scrittura, ma interpellato, chiamato. A questo punto diventa chiaro nella coscienza di chi legge la Bibbia, che essa non è semplicemente parola di uomini, racconto di esperienze di umanità del passato ancora oggi valide, ma è parola di Dio. Non soltanto la Bibbia parla di me (la via dell'introspezione), bensì parla a me. Qualcuno mi parla attraverso le sue pagine. Quando scocca questa scintilla, la Bibbia è vista come un libro sempre più amico e familiare, mi parla confortandomi, incoraggiandomi, rimproverandomi, chiamandomi, consolandomi interiormente. E' Dio 250 Appendice: la trappola… 23 Seguendo il cammino di Davide in 2Sam 11 il Card Martini descrive alcune tappe della caduta nella trappola tesa contro di noi dopo aver riconosciuto i tanti doni, dell’essere stato scelto e di aver gradualmente iniziato a corrispondere e di essere uomo che si pone in relazione con Lui nella preghiera. È la trappola che può gradualmente vincolarci * “Ormai ho già fatto molto…” volendo riposare sugli allori, lasciandosi prendere dalla vanità, pensando di avere ormai delle maturità che lo salvano… certo di essere in grado di dominare sentimenti e realtà. “tanto per me non è neiente” e comincia il disordine dei sentimenti che lo divora, lo rode e lo fa giungere la secondo gradino della discesa * Egli sa che non dovrebbe fare ciò che desidera ma pensa che nessuno se ne accorgerà e che tutto si concluderà lì. * il terzo gradino è sentirsi furbi e malgrado tutto ce la farò e a cavarmela anche questa volta. . cedere a poco a poco iniziando dalla curiosità e così è arrivato al limite. Quante volte abbiamo detto “No! Io non mi comporterò mai così” nasce poi la disperazione, il tarlo della rabbia primariamente contro se stessi e poi la ricerca di una uscita dall’imbroglio iniziale. * si entra poi in uno stato di finzione così vergognoso che neppure ce se ne accorge più. “Davide è l'immagine dell'uomo che, pur avendo le migliori intenzioni, le pin nobili premesse, la più accurata educazione, è e rimane fragile e debole. Se avesse detto subito: «Ho sbagliato, sono stato imprudente, devo tirarmi indietro», sarebbe riuscito a spezzare questa spirale di morte. Ma di volta in volta riteneva di farcela, di saper mettere le cose a posto con la furbizia e cosi è arrivato al colmo della degradazione. Capire chi è l'uomo, chi sono io significa capire l'invocazione: “Signore, se non mi tieni la mano sul capo, io sono povero, fragile, debole, peccatore”. Quando comincio a non essere convinto di questa verità, a presumere di me, a non riconoscere le colpe leggere, a giocare con i miei sentimenti, rischio di essere intrappolato e di cadere da un'insidia in un'altra, trovandomi alla fine dove non avrei voluto. Leggendo alcuni versetti del vangelo di Marco, possiamo pregare: «Signore, tu hai parlato del cuore dell'uomo e hai detto: “Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: 23 95 MARTINI C.M., Tu mi scruti…, oc, pp. 65-69. fornicazione, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, stoltezza, superbia. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo” (cf. Mc 7,21-23). Signore, fammi capire che anche nel mio cuore ci sono le radici di queste cose. Se veramente voglio conoscere chi sono io, devo comprendere la grandezza e la forza della mia chiamata e insieme quel pozzo di oscurità e di fragilità che è dentro di me. Fino a quando non lo riconosco, non ho una personalità veramente libera. Mi illudo su di me e non acquisto la serietà e verità dell'agire di chi si riconosce debole e si rivolge continuamente a Te come Salvatore». Davide in trappola è l'immagine di tanti uomini d'oggi, e di ciascuno di noi, tutte le volte che, dimenticando questa verità su noi stessi, ci mettiamo in uno stato di incoscienza o di euforia, trascurando di rivolgerci a Gesù come Salvatore. «Ho peccato contro di te» (2 Sam 12). […] A questo punto del racconto profeta che con una parabola gli mostra la sua situazione in forma indiretta, l'ira di Davide si scatena […] Davide, pur esagerando, mostra di avere un profondo senso di giustizia. Benchè abbia vissuto un'esperienza fortemente negativa, conserva ancora il senso della verità. Tuttavia non è capace di applicarlo alla sua situazione: critica gli altri, li accusa, li giudica e però la trappola in cui e caduto gli impedisce di vedere il proprio peccato. […] Che cosa vuole da noi il nostro nemico? Vuole con- fonderci. Anche senza giungere a degli eccessi (Davide rappresenta un caso patologico), ogni volta che cediamo a qualche tentazione, il nemico fa in modo che a questa ne aggiunga un'altra. La confusione allora si accresce: stanchi di noi, sfiduciati, spauriti, diciamo a noi stessi che non siamo capaci di farcela, che non ci riusciremo mai. Una negligenza, un'arrabbiatura, un insuccesso, un peccato anche, diventano il punto di partenza per la trappola che il nemico ci prepara. La verità del nostro essere, invece, si riattiva tutte le volte che diciamo: «Ho peccato, ho sbagliato», tutte le volte che riconosciamo di essere stati vittima di qualche pigrizia, di un momento di fragilità. «0 Signore, insegnaci a lottare giorno per giorno, a combattere per la nostra verità e la nostra autenticità. Insegnaci, attraverso il dono meraviglioso del Sacramento della Penitenza, a dire la verità su noi stessi e a trovare la gioia di questa verità». Il Sacramento della Penitenza è uno dei mezzi fondamentali per ricostruire la verità della persona allora quando noi giungiamo a dirci, a esprimerci, a ritrovare l'equilibrio, a invocare su di noi la forza del perdono del Signore. «Fa', o Signore, che non trascuriamo dono della Penitenza che Tu hai messo nelle nostre mani. E fa' che sappiamo cogliere anche quelle realtà piccole, apparentemente di poco valore, le quali però sono inizio di turbamento e di insicurezza della nostra vita». Ciò che in noi produce turbamento, stanchezza, noia, malinconia, ha delle radici che vanno chiarite e messe alla luce: il Signore è luce, il Signore è gioia, il Signore vuole la verità e la gioia di noi stessi.” 24 96 24Idem pp. 69-71. mastica e frantuma, la preghiera la assapora, la contemplazione è la stessa dolcezza che dà gioia e ri-crea. La lettura si ferma alla scorza, la meditazione le penetra il midollo, la preghiera formula il desiderio, la contemplazione si diletta nel godimento della dolcezza raggiunta. (GUIDI II) Anche se inizialmente la Parola era per tutti via via si ridusse a pochi per ignoranza della lettera ed ignoranza della cultura religiosa ma la sete non si estinse e il nutrimento venne per mezzo della “bibbia dei poveri”: i dipinti delle chiese. Sino a quando lo scossone protestante non provocò la grande crisi. La lampada accesa dei fratelli protestanti: sola scrittura : esagerazione pro-vocante La grazia del Vaticano II: il ritorno alla Parola: le due mense La chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra tradizione, la chiesa le ha sempre considerate e le considera come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate da Dio e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la Parola di Dio stesso e fanno risuonare, nelle parole dei profeti e degli apostoli, la voce dello Spirito santo. (DV 21) 3.3.3 Le Vie… Vi sono varie vie di avvicinamento alla Bibbia, non alternative, ma complementari, che ci possono aiutare ad incontrare il Signore che parla. La via della “conoscenza di sé, o, in linguaggio moderno, la via dell'introspezione. E' una scoperta molto importante quando si riesce a farla. Come descriverla? Noi tutti, specialmente da giovani, viviamo emozioni profonde, tensioni interiori, esperienze emotive intense e pure mutevoli che si succedono l'una all'altra, situazioni di entusiasmo e di depressione, di sconfitta e di vittoria, di idealità e di tentazione. Facciamo fatica a capirci 249 È Gesù Parola che chiede obbedienza Parola che condanna Parola che chiede di abitare in noi (Gv 1,13; Mt 17,5; 3,17ss) (Dt 6,4-9; Gv 14,23) (Gv 12,48-50) (Gv 1,13; Col 3,16-17) (Sal 118; Eb 1,1; Gen 12,1; Es 34,1-2; Dt 5,1-5; Am 8,11-12; 1Sam 3,1.3-4.10.19-21; Ger 15,16; Ez 2,1; 3,1-3.10-11; Ne 8,13.8.9b) Chi l’ha ascoltato da vicino: i Padri - L’amore alla Parola “Ignoranza delle Scritture è Ignoranza di Cristo“ (S. Girolamo) “la lectio divina è una base assolutamente indispensabile per ogni vita ascetica seria e per ogni progresso nel discernimento spirituale…Ecco come devi intendere le Scritture: come il corpo unico e perfetto del Verbo…noi beviamo il sangue di Cristo non solo quando lo riceviamo secondo il rito dei sacri misteri, ma anche quando riceviamo le sue parole ove risiede la vita, come egli dice di se stesso: «Le Parole che ho detto sono Spirito e vita» (Origene) “Ecco ciò che guasta tutto: voi credete che la Lectio Divina sia un compito riservato unicamente ai monaci, mentre, invece, voi ne avete bisogno molto più di loro” (S. Giovanni Crisostomo) 7. La storia personale: casa del “Mistero” La Parola Il Medioevo: fra nutrimento e digiuno Il medioevo vide la fioritura della Lectio divina in ambito monastico particolarmente grazie a Guigo II, Voi che percorrete i giardini delle scritture non dovete attraversarli in fretta e nemmeno con negligenza; scavate ogni Parola per estrarne lo spirito; imitate l’ape diligente che estrae da ogni fiore il suo miele. Poiché il mio Spirito, dice Gesù, è più dolce del miele e la mia eredità più soave del favo. Provando in tal modo il sapore di questa manna nascosta, vi compiacerete ripetere con Davide: «Quanto sono dolci alle mie labbra le tue Parole» (GUERRINO D’IGNY) La lettura cerca la dolcezza della vita beata, la meditazione la trova, la preghiera la chiede, la contemplazione la gusta. La lettura porta, in qual modo, cibo solido alla bocca, la meditazione la 248 «Chi sono io? Chi sei Tu?». Io sono anzitutto parte di un gruppo familiare e sociale ben individuato. Ciascuno di noi e qui perché figlio dei suoi genitori, parte di una società, di un gruppo religioso, culturale e umano. Come tale e oggetto dell’amore di Dio che lo chiama nella sua storia. «Tu Signore sei colui che mi ha amato, mi ha cercato in questa famiglia, in relazione con questi genitori, fratelli, sorelle, parenti, amici: persone che condividono l'immediata esperienza della mia esistenza. Tu mi hai voluto e mi ami nelle mie relazioni di scuola, di cultura, di società». Nell'insieme di queste relazioni c'e tuttavia una parola personale e irripetibile: «A te, dico!». E a nessun altro.. Per capire chi siamo noi ci viene chiesto di renderci conto della singolarità della nostra storia. La nostra vicenda personale e cosi unica che Dio l'ha voluta per se stessa e non l'ha messa in dipendenza da nessun'altra. Questa e la dignità assoluta della mia persona: it fatto che Dio mi vuole per me stesso. Ha dunque a cuore la singolarità della mia vita e del mio cammino, anche se a me appare poco interessante, povero, modesto. Dio ha in mente e ha in mano la mia storia come storia singolarissima, che non vuole cambiare con nessun'altra. Non vuole barattarci con nessuno perché il nostro valore e definitivo e irrevocabile. Dio si e compromesso per la mia storia personale. A questa verità forse noi pensiamo poco, non diamo importanza a noi stessi, mentre sta proprio qui la fonte della nostra dignità personale. La radice, l'origine del nostro essere con gli altri, del fare comunità, dell'avere creatività, sta in questa parola: «A te dico! ». E importante riuscire a cogliere nella preghiera, magari per un solo istante, la bellezza di: «A te dico!». «Signore, davvero a me?». «Si, proprio a te!». «Davvero, Signore, tu che sei cosi grande, infinito, tu che hai creato l'universo, che vivi da sempre e per sempre, mi dici questa parola?». «Si, a te e per te! ». Non dovremmo mai finire di stupirci di questa verità. […] «O Padre, questa parola the tu hai detto su di me quando mi hai dato la vita e mi hai creato l'anima, tu l'hai ripetuta con amore, al momento del mio Battesimo». E questa, infatti, per ciascuno di noi la parola battesimale: “Risorgi, vivi la vita di Cristo, vivi una vita nuova, esprimi la potenzialità della tua vita». Chi sono io? Sono colui che e chiamato cosi da Dio. […] Noi siamo l'epifania di Dio. Occorre imparare quindi a guardare a noi e a tutte le altre persone come al mistero di Dio che si manifesta; arrivare a quella visione di fede che ci permette di scoprire la rivelazione di Dio nella storia. Allora i nostri problemi, le difficoltà, le antipatie, la 97 fatica nello studio, le stanchezze, le noie, il tempo brutto, i momenti grigi della giornata, la malattia, tutto, insomma, ci rivelerà la presenza di Dio nella nostra vita. Ecco che cosa significa sapere chi sono io. Io sono un miracolo di Dio, in cui egli si rivela nella storia. E chi sei tu, Signore? Tu sei colui che dici: «A te. Parlo a te! Vivi la pienezza della tua vita e non avere paura, non avere timore. Non importa che tu creda di avere poche doti, di non sapere fare questo o quest'altro perché io sono con te e questa è la tua vita ».25 Il filo rosso della salvezza: riconoscere la mediazione del Signore negli altri facendo particolare attenzione a: Chi ho ammirato di più? In che ambito si ritrovano? Che caratteri li accomunano? Riascoltiamo ancora un’altra parola del santo Padre ai giovani: «Vi esorto ad acquistare dimestichezza con la Bibbia, a tenerla a portata di mano, perché sia per voi come una bussola che indica la strada da seguire. Leggendola, imparerete a conoscere Cristo. Una via ben collaudata per approfondire e gustare la parola di Dio è la lectio divina, che costituisce un vero e proprio itinerario spirituale a tappe». […] Nell’ascolto della Parola maturate il discernimento sul vostro domani. Nel Percorso pastorale per il prossimo triennio ho scritto: «Ci pare che il termine biblico e teologico che coglie gli aspetti più originali e pregnanti dell’ascolto sia quello del discernimento: l’ascolto, cioè, raggiunge la sua verità piena quando si configura come esercizio di discernimento. Il discernimento comporta un duplice e inscindibile elemento: il giudizio e la scelta» (n. 24). Nell’ascolto meditato e pregato della parola di Dio potete trovare i criteri per leggere ed interpretare quanto succede nel mondo e nella vostra vita. Spesso, infatti, ci si sente frastornati di fronte alle informazioni e ai fatti che succedono attorno a noi. A volte siamo disorientati, incapaci di mettere ordine e valutare secondo verità, e così finiamo per cadere nell’indifferenza o per rassegnarci al pessimismo. Altre volte facciamo nostri quei criteri, che riflettono i luoghi comuni o la voce di chi ha più potere mediatico. Ma – diciamolo francamente - il profilo rimane basso e, a lungo andare, deludente. Nella parola di Dio, invece, si trovano i criteri che ci aiutano a fare chiarezza e che durano nel tempo, non passano con le mode e resistono ai cambiamenti culturali o ideologici. Quelle del Signore sono «parole di vita eterna», come ha proclamato un giorno – anche a nome nostro – l’apostolo Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Giovanni 6,68-69). Dal giudizio matura poi la scelta. «Si tratta, in forza di un giudizio credente e con l’energia della «legge dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesù» (Romani 8,2) di scegliere e di decidersi a utilizzare responsabilmente la propria libertà, a renderla cioè operativa mediante precisi atteggiamenti, comportamenti, opere e gesti. Ed è quanto avviene là dove c’è coerenza, corrispondenza armoniosa, quasi un’inscindibile alleanza tra il giudizio e la scelta, tra il “pensiero” di Cristo e l’“agire” di Cristo, che il discepolo è chiamato a imitare e rivivere nella sua esistenza con la luce e la forza dello Spirito» (Percorso pastorale, n. 24). 3.3.2 La Parola 98 25 idem, pp. 25-27. Alla sorgente: “in principio era la Parola” Parola che è, che era e che sarà: Parola che crea: “e Dio disse…e…fu” Parola viva efficace 247 (Gv 1,1; Eb 1,3; Ap) (Gn1) (Is 55,10-11; Eb 1,3) dedicata a dare corpo a quel disegno che Dio le indicava. È diventata protagonista nel fare proprie quelle parole e nell’attuarle dentro la sua libertà e la sua storia. Chiedo ora a ciascuno di voi, in particolare in questo anno, di creare le condizioni e di coltivare gli atteggiamenti che consentano un vero e proprio esercizio di ascolto. Da dove partire? Dalle vostre famiglie! Proprio lì, infatti, è più difficile custodire il tempo per il dialogo. Il tempo per il dialogo nella vostra casa va trovato! Sarà un ascolto benedetto quello che vi permetterà di ricomprendere la vostra storia. Vi aiuterà a fare chiarezza sui vostri progetti di vita e, se ci fossero delle incomprensioni o delle difficoltà, solo a partire dall’ascolto vi sarà possibile fare qualche passo verso la riconciliazione: sappiamo bene che non c’è altra via che ci renda veramente liberi e ci doni la pace. Dimostrate dunque la disponibilità e coltivate l’atteggiamento dell’ascolto in ogni vostra relazione con gli altri. C’è un’annotazione dei tempi passati che ci può far bene. E’ questa: gli antichi saggi di Israele facevano notare che l’uomo ha due orecchie e una bocca: il tempo dedicato all’ascolto dovrà essere almeno doppio di quello dedicato alla parola. 6. Nel racconto di Luca, Maria passa dalle domande sul senso e sulla possibilità di quella Parola alla disponibilità a viverla, e così quella Parola si fa carne nel suo grembo, è cresce di giorno in giorno - il tempo dell’attesa – fino a venire alla luce nella grotta di Betlemme. Anche voi, dunque, sentitevi chiamati ad essere testimoni di questa parola ascoltata e a portarla nel mondo nel quale ogni giorno camminate. Perché non rinnovare in voi questo desiderio e questo impegno? All’inizio del nuovo anno pastorale forse qualcuno di voi si starà chiedendo se riprendere o meno il proprio impegno dentro la comunità cristiana, come animatore, o educatore o catechista o in altre forme. So che a volte, per tante ragioni, può prevalere la voglia di lasciar perdere. Vorrei ricordarvi che il vostro impegno nella comunità cristiana non è un gesto di volontariato o di filantropia. È un servizio a Cristo stesso e al suo corpo che è la Chiesa; è una testimonianza straordinaria e insostituibile di Gesù, della sua cura da buon pastore per ogni uomo; è annuncio vivente del Vangelo e espressione limpidissima della carità di Cristo verso la povertà estrema e disarmante dell’uomo: la povertà della fede, la mancanza o il rifiuto dell’amore di Dio! Il vostro servizio è necessario, ed è prezioso. Vi auguro che, come Maria, siate docili all’invito del Signore per il bene della sua Chiesa e del vostro stesso bene. Ma la docilità vi sarà possibile ad una precisa condizione: che la parola di Dio ascoltata e meditata diventi vita della vostra vita! Fate della parola di Dio ascoltata la vita della vostra vita 246 7.1. Storia, memoria e rilettura: traccia26 Dio si è rivelato ed ha orientato il cammino del Suo popolo sempre dentro la storia, diventando così storia di salvezza. È in questo vissuto che Egli chiama. È necessario allora conoscere e coscientizzare sempre più questo vissuto fatto di persone di relazioni, di eventi, di risorse e di fatiche. È uno sguardo sul passato che non si fossilizza su questo in forma da trovare i “colpevoli” o i “capri espiatori” da allontanare nel deserto su cui esorcizzare gli attuali peccati ma per fare del passato il luogo di una riconoscenza dell’opera di Dio che anche nelle vicende dolorose si rivela con la forza della sua Pasqua. Questo passato può essere una delle chiavi interpretative dei desideri e delle ansie delle soddisfazioni o delle ricerche attuali, sfide reali dell’oggi che spesso determinano anche problemi o sfide del presente e del futuro. È necessario allora scoprire dentro questa storia le sue tracce al di là della presunzione possibile di sapere già tutto anche della Sua presenza che tocca ogni cosa. Metodologicamente lo scriverla costringe ad essere chiari e concreti, cogliendo le connessioni fra gli avvenimenti, fissando conclusioni e interrogazioni facendo uno scavo profondo in una memoria che passa dall’essere memoria affettiva per giungere a quella biblica. 27 Ogni avvenimento se viene letto alla luce del “suo agire sempre”, 28 alla nostra memoria non può essere accantonato, dimenticato o definito insignificante. Non avvengono in altri termini coscienti coscienti rimozioni. Se qualcosa non viene compreso diventa l’ulteriore occasione per maturare che l’esistenza è mistero posto tutto nelle sue mani che ci supera. È il principio della totalità,29 dove tutto è de Lui abitato e che proprio in questa storia Lui mostra il Suo volto ed il nostro destino. Allora parlare della propria storia è parlare di Diocostantando il bene o l’amore ricevuto, la custodi a percepita che fa nascere la contemplazione meravigliata e riconoscente. 26 Cfr. CENCINI A., La storia personale casa del Mistero. Indicazioni per il discernimento Vocazionale = Animatori di pastorale giovanile e vocazionale, 9, EP, Milano. CENCINI A., I sentimenti del Figlio…, oc, pp. 89-94. CENCINI A., Dio della mia vita. Discernere l’azione divina nella storia personale = I quaderni di Padre Cencini, EP, Milano 2007. 27 Cfr. I quaderni del grigio – la scelta, pp.16-21. 28 Gesù disse loro: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero». Gv 5,17 29 Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Rm 8,28 99 Questo principio di totalità fa si che il positivo debba essere tutto scoperto, riconosciuto nella sua profondità riconoscente, ed un negativo da vedere, chiamare per nome integrare. Per questo è importante operare: un riconoscimento accettazione attraverso l’esercizio dell’esame di coscienza il perdono riconciliazione mettendosi dentro la prospettiva della propria debolezza come luogo dell’essere costitutivamente perdonati trasformazione trasfigurante che parte dalla coscienza di essere costantemente chiamato non nonostante i nostri peccati ma dentro il peccato. Questo dentro una lotta con e contro se stesso. Il principio di totalità trova nella lettura Cristologia della vita il significato pieno dentro quattro passaggi: ripercorrere con i propri affetti i misteri oggettivi della vita di Gesù è la conoscenza contemplativa della vita di Cristo ripercorrere con il Figlio dell’uomo la storia soggettiva dei propri affetti con un confronto fra i miei affetti sentimenti, relazioni, impulsi, motivazioni ecc.. e quelli di Gesù. Ripercorrere alla luce dei misteri di Cristo la propria storia facendoci scoprire quali fasi della vita devono essere rinnovate in Lui per cui anche gli eventi più duri alla Sua luce acquistano senso (storia di Giuseppe) Rivivere gli affetti come mediazione della Sua grazia percependo quanto vivo come occasione preziosa d’identificazione a Cristo. Lui è percepito in ogni frammento. Dentro questa storia, fra le righe, sono a volte nascoste le domande inespresse, i sogni mal interpretati o delusi o inibiti, una sufficienza ostentata e solo apparente ma soprattutto la voglia profonda e incancellabile di autenticià. In queste pieghe abita la domanda di Gesù che ha bisogno di acqua come al pozzo di Sichem. Questo può sembrare strano scuotendo il cuore presentandosi come qualcosa di impensato ma che suscita attrazione misteriosa. A volte l’accostamento con questa “storia” pone una sana inquietudine che apre ulteriori domande, che deve portare ad una apertura oltre le individuali economie e le paure quotidiane perché supera perché è “lui che chima”. È il Mistero che invade. 100 mondo - anche senza saperlo - attende da voi! E se Gesù vi chiama, non abbiate paura di rispondergli con generosità, specialmente quando vi propone di seguirlo nella vita consacrata o nella vita sacerdotale. Non abbiate paura; fidatevi di Lui e non resterete delusi». 4. Ma questa sera, immagino, che voi facciate vostra la stessa domanda che Maria ha rivolto all’angelo: «Come è possibile?». Certo, voi mi direte: come è possibile mettere in pratica la parola del Signore che ascoltiamo quando questa parola, come nella vita di Maria, cambia in modo radicale la nostra esistenza? Come è possibile, oggi, assumere la logica e i criteri del Vangelo quando la società sembra muoversi – anzi di fatto si muove - in direzioni esattamente opposte? Lo abbiamo sentito anche nei dialoghi della veglia di questa sera. Come è possibile attuare il disegno di Dio dentro le logiche complesse delle prospettive di lavoro che un giovane vede davanti a sé, dentro le dinamiche affettive spesso ingarbugliate, dentro una situazione socio-politica globale sempre più incerta e piena di paure? Questa domanda – come è possibile? – può nascere anche da una realistica ma timorosa presa di coscienza dei propri limiti: un giovane potrebbe pensare che la parola del Signore sia troppo alta ed esigente per le sue capacità, perché non si ritiene all’altezza e non si sente adeguato. 5. Per la verità, anche Maria ha sentito la sproporzione tra il progetto di Dio e la sua piccolezza, ma ha saputo mettersi in gioco e fidarsi. Lei ha accolto quella Parola, custodendola pazientemente e facendola crescere. Allo stesso modo il cristiano che si mette in ascolto del Signore non deve lasciarsi travolgere dai ritmi frettolosi - come se le cose di Dio fossero soggette alla logica della produttività e del successo - ma deve coltivare la pazienza di lasciar maturare nel tempo quella Parola. Mi pare che alla radice delle ansie di non pochi giovani ci sia l’eccessiva premura di risolvere subito i problemi; la pretesa di ottenere risposte immediate e, possibilmente, facili; di arrivare presto anche nella vita di fede a risultati gratificanti e umanamente misurabili. L’ascolto, invece, chiede tempo e silenzio, chiede fatica e docilità. Anche nei rapporti interpersonali, dentro la famiglia, nelle dinamiche di coppia, nelle amicizie e nei gruppi, l’ascolto reciproco è la condizione del dialogo e della buona qualità della convivenza e della collaborazione. Se prevale invece la voglia di essere protagonisti e di apparire, se l’imposizione del proprio parere detta lo stile della comunicazione, come è possibile giungere a un’autentica disponibilità all’ascolto? Maria ha saputo farsi interpellare dal messaggio dell’angelo, ha fatto piazza pulita dei suoi progetti di un tempo, senza voltarsi indietro, e si è decisamente e unicamente 245 Eppure Dio sceglie per parlare un contesto difficile e inospitale, non famoso né importante, bensì limitato da molti pregiudizi e intolleranze. Possiamo, allora, cercare di immaginarci la giovinezza di Maria, il tempo del suo progetto di vita, la primavera dei suoi sogni e dei suoi ideali, e pensare alle attese e alle paure che solcavano il suo cuore, alla trepidazione con cui si protendeva al futuro, alla realizzazione delle meraviglie promesse e al calcolo delle possibili incognite, delle risorse disponibili e dei passi necessari per raggiungerle. 2. Dentro questa casa, nel cuore di Maria, irrompe la parola del Signore. Innanzitutto, l’angelo Gabriele le rivela: “Tu sei piena di grazia, il Signore è con te!”. E’ davvero significativo che prima di ogni consiglio o di ogni proposta, prima di manifestare lo scopo della sua missione, l’angelo annunci a Maria questa verità inattesa, sconvolgente e consolante ad un tempo. La parola del Signore rivela a questa donna la sua dignità straordinaria, le dice che è destinataria nientemeno che della cura amorosa e del progetto inimmaginabile di Dio, le parla del suo futuro, anzi del futuro dell’umanità. Anche a voi, cari giovani, la parola di Dio dice che non siete soli e che potete sempre contare sulla vicinanza del Signore. In ogni momento, ma in modo particolare in quelli decisivi o difficili, in quelli di una scelta o di una crisi, provate a ripetervi questa parola semplicissima e formidabile, vera e autentica: “Il Signore è con me!”. È solo un primo passo, magari piccolo, ma è importante per non scoraggiarsi, per dire che vale la pena di fermarsi, di fermarsi per ascoltare quanto il Signore ha da dire, per comprendere che – se si vuole - si può trovare la forza di prendere una decisione o di assumersi un impegno. Dio parla in ogni contesto di vita, senza privilegiare quelli più favorevoli. Anche oggi, dentro la complessità della nostra cultura e dentro le sfide di questo nostro tempo, Dio parla all’uomo. 3. Luca ci riferisce della reazione di Maria al saluto dell’angelo: «A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto» . E dunque, anche voi, come lei, chiedetevi che senso ha per la vostra esistenza la parola del Signore. Domandatevi che posto essa occupa nell’economia delle vostre giornate e delle vostre settimane, fermatevi a pensare che cosa essa dice circa la vostra identità e il vostro destino. Sono sicuro: ne resterete stupiti e affascinati. Il Santo Padre Benedetto XVI, nel messaggio per la XXI Giornata Mondiale della Gioventù di quest’anno, scriveva: «E’ urgente che sorga una nuova generazione di apostoli radicati nella parola di Cristo, capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo e pronti a diffondere dappertutto il Vangelo. Questo vi chiede il Signore, a questo vi invita la Chiesa, questo il 244 Non si deve però né banalizzare né difendersi per in-fedeltà verso se stsessi ed il mistero dell’azione di Dio nella propria vita ma prendere \si sul serio. Tale memoria è il fondamento di un progetto di vita costruito sulla certezza che Dio non viene mai meno. È memoria proiettata verso il futuro. Questa memoria della fedeltà di Dio è forza per la fedeltà dell’uomo che anche nella sua fragilità trova solo lì la sua origine, la sua forza, l’entusiasmo per camminare. Scrivere la propria storia è attenzione a eventi, emozioni, aspettative che poi potranno essere decifrate in chiave di decisionale. Fra storia e decisione vi è una connessione che non può mai essere scissa. Legame inconscio o riflesso che chiede di essere in qualche modo valorizzato e orientato perché non diventi un boomerang che si ritorce contro. Questa storia non è un deterministico destino che ha un seguito fatale senza alternativa, ma anche se non vi è stata responsabilità sul passato ma è appello per una libera e responsabile risposta: libertà che dà significato agli eventi, responsabilità che non subisce ma orienta gradualmente introducendo novità che rinnovano. L’amore trasforma a partire da se stessi perché il senso delle cose non sta nella superficie ma nell’amore fatto di perdono invocato e ricevuto, di aperture progressive, di riletture sbloccanti, di autoconsapevolezze diverse, senza autocomissiserazione, né determinismi che uccidono. Dentro questo percorso non si deve assolutamente escludere la logica del percorso vitale come via crucis segno di una libertà di essere e amare che porta nella logica divina. La vita diventa così dall’accadimento (qualcosa che viene subito) all’avvenimento (che dice coinvolgimento con qualcuno che av-viene) sino a divenire evento (dimensione salvifica che ha in Cristo il suo vertice). Toccare là dove esiste una certa tensione emotiva, la dove qualcosa è stato irrisolto, la dove ci si sente in discussione, dove la vergogna può non voler affrontare, o dove il coraggio di riconoscere la verità o dove c’è stata o c’è estrema debolezza lì il Signore vuole prendere dimora per nostra adesione libera. 30 Qui si gioca la verità interiore. Qui nasce la vera adesione a Cristo e il vero annuncio, come per la donna samaritana. Che lascia definitivamente la brocca e ormai libera dal e nel suo passato può affrontare la vita e le relazioni. 30 Dare un nome alle proprie ferite. Le sconfitte accumulate sinora vanno fatte emergere in superficie: emarginazione da parte dei coetanei, legami parentali infelici, insuccessi scolastici o sportivi, ferite nel campo affettivo (autoerotismo esasperato interpretato come valvola di decompressione...) 101 31 7.2. L’autobiografia L’autobiografia è come una fotografia che rivela molto di una persona, ma non tutto. Essa è utile sia per la riflessione su di sé, sia per la manifestazione alla guida. L’autobiografia è un aiuto per avviare l’esperienza della direzione spirituale. Don Bosco considerava di estrema importanza il rapporto con la guida spirituale fin dai primi passi, come ha fatto egli stesso con don Calosso: “Mi sono messo nelle sue mani. Gli ho fatto conoscere tutto me stesso: ogni parola, ogni pensiero, ogni azione. In tal modo, con fondamento mi ha potuto guidare”. L’importanza dell’autobiografia deriva dal fatto che mediante il racconto si giunge più facilmente alla comprensione di sé, degli altri, del mondo, di Dio. In ambito cristiano pensiamo alle narrazioni della Sacra Scrittura, delle “confessioni” dei mistici, delle agiografie. Nella vita religiosa pensiamo allo spirito dell’Istituto che viene trasmesso attraverso la narrativa, specie quella del fondatore; oggi “si forma narrando”. Nel racconto cerchiamo il senso del tempo che abbiamo vissuto e il senso del nostro futuro. Anche quando può sembrare che la nostra narrazione riguarda gli altri, in verità essa parla di noi stessi. Il racconto è sempre manifestazione e rivelazione della persona. 7.2.1 Conoscenza della persona In essa si cerca di comprendere la persona: qual è il senso della sua vita? come è giunto alle soglie della nostra casa? qual è la percezione della sua identità? L’autobiografia ci fa percepire le diverse scelte della persona, la sua crescita, le difficoltà, le sue reazioni, la sua identità. Tutto ciò viene compreso dal punto di vista “interno”, dal di dentro. Può darsi che non si giunga a dire tutto; ma ciò che è emerso è unico e prezioso. Interessante è comprendere soprattutto la dimensione vocazionale, il suo sorgere, i primi passi, le sue motivazioni. Il parlare di sé è necessario. Non si può infatti conoscersi senza farsi conoscere; non si può accogliere il dono della vocazione senza disponibilità a farsi accompagnare. 31 CEREDA F., L’autobiografia, come mezzo di formazione e discernimento durante il PreN , Roma, 1 maggio 2004. 102 vi parlano non per il loro interesse, ma perché vi ritengono davvero importanti e preziosi e hanno autentica cura di voi. 3.3.1.4 Tu hai parole di vita eterna! Questa sera voglio assicurarvi, ancora una volta ma con una forza nuova, che chi certamente non vi deluderà con la sua parola è il Signore. Nella parola della sacra Scrittura voi potete immergervi nella storia d’amore di Dio con il suo popolo, con ogni uomo. Dio non solo risponde alle domande dell’uomo, ma condivide in piena solidarietà le sue vicende. La parola di Dio è luce e vita, è energia creatrice, ossia opera ciò che dice, è fonte di libertà e di gioia. Non è una parola lontana da noi, ma prende carne e sangue dentro la storia dell’uomo e gli rivela la dignità vera e il destino di una felicità piena e intramontabile. «Il Dio della Bibbia è un Dio che parla. Ma un Dio che parla richiede ascolto. In questo sta la differenza tra la preghiera pagana e quella biblica: non un parlare a Dio, ma un ascoltare Dio. Il punto di partenza è l’ascolto, il punto di arrivo è la carità» (Percorso pastorale, n. 18). Ora un esempio affascinante e straordinario di questo ascolto di Dio che trasforma la vita è quello che abbiamo letto nella pagina dell’annunciazione raccontata dall’evangelista Luca (1,26-38). Per un giovane che vuole fare dell’ascolto del Signore il principio dinamico del proprio progetto di vita la figura di Maria è di una attualità davvero sorprendente. 3.3.1.5 Maria, la donna dell’ascolto, nostro modello di vita 1. Nel brano evangelico a sorprenderci è innanzitutto il fatto che l’angelo del Signore entri nella casa di Maria a Nazaret, in Galilea. Non si tratta qui di una semplice coordinata geografica. È molto di più. Dio si fa presente con la sua parola nel luogo della ferialità e dell’intimità, dentro il lavoro e le relazioni quotidiane, là dove una persona cresce e progetta il proprio domani. Altre volte il Signore aveva parlato sul monte Sinai o nel tempio di Gerusalemme: questa volta, invece, sceglie la semplicità e la discrezione di una casa per rivolgersi al cuore di una giovane. Altre volte il Signore aveva parlato a sacerdoti, a re e a profeti: questa volta sceglie una giovane donna. E questo avviene a Nazaret, nella “Galilea delle genti”, un luogo isolato sulle colline, in una terra spesso considerata pagana. Certamente questa pagina di Luca deve aver stupito più di un buon ebreo. Ricordiamo, ad esempio, come rispose un giorno Natanaele a Filippo che gli riferiva di aver incontrato «colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret. Natanaele esclamò: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”» (Giovanni 1,45s). Sono parole che esprimono scetticismo, se non addirittura disprezzo. 243 Da soli non riusciamo a trovare la parola che dica il perché, che indichi le vie di uscita, che apra a nuovi orizzonti. L’uomo da sé può solamente balbettare qualche risposta e qualche soluzione. È ancora il poeta a scrivere: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo». Non solo l’uomo non possiede le formule risolutive, ma addirittura, con amarezza e quasi con rassegnazione, Montale scrive: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ma noi abbiamo assoluto bisogno di sapere chi siamo e che cosa vogliamo, altrimenti saremmo destinati all’insoddisfazione, all’inquietudine, all’infelicità. Ogni giovane allora deve assumersi con coraggio il compito fondamentale di sapersi dire chi è e che cosa vuole: altrimenti non potrà mai trovare la serenità interiore, non riuscirà a costruire relazioni vere e durature, non potrà prospettare il proprio domani e quello del mondo che gli è affidato. Sarà un fallimento! 3.3.1.3 Un ascolto nella relazione con l’altro E’ per questo che l’uomo, il giovane cerca una parola decisiva nella relazione con l’altro. Nel Percorso pastorale per il prossimo triennio L’amore di Dio è in mezzo a noi ho scritto: «Ascoltare non è una strategia, ma una condizione umana e teologica fondamentale. Parlare e ascoltare non sono nell’uomo solo una capacità fra le altre: sono la facoltà che fa dell’uomo un uomo. Da solo l’uomo non esiste. Esiste solo nella relazione. E nel suo corpo c’è un organo che è sempre in esercizio, che funziona sempre: è l’orecchio» (n. 18). Cari giovani, nella relazione con l’altro, nell’ascolto sincero e assiduo, potete conoscere meglio voi stessi, capire i vostri progetti di vita e trovare le risposte alle questioni che vi interpellano. Certamente potreste obiettarmi, questa sera, che non è facile riconoscere le parole autentiche, quelle dette per amore; che non è semplice identificare chi ascoltare per non essere ingannati. Potreste dirmi che tante volte vi hanno illuso e siete stati delusi da idee, opinioni, da consigli di persone che non vi hanno condotto alla verità. San Paolo scrive al suo discepolo e collaboratore Timoteo: «Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2 Timoteo 4,3). Quanti “maestri secondo le proprie voglie” circondano la nostra società e riempiono di parole vuote – quando non insulse e stupide - i mezzi di informazione, le pagine dei giornali, le teste della gente! Quante favole si sono sostituite alla verità! Il prurito di udire qualcosa spesso è diventato morbosa curiosità, pettegolezzo, chiacchiera. Con la convinzione dell’apostolo Paolo, a voi giovani dico: non scoraggiatevi nella ricerca della verità, ma non fatevi illudere né ingannare! Esercitatevi, invece, in un ascolto sapiente e vero delle persone che vi vogliono bene e che 242 7.2.2 Momento giusto per l’autobiografia L’autobiografia è utile al duplice scopo di conoscersi e di farsi conoscere. Il prenovizio infatti “con apertura e coraggio affronta il proprio passato e non ha paura di parlare di sé e della propria famiglia. Impara a riflettere sulla propria condotta, sulle esperienze, sulle ragioni delle scelte e sul proprio modo di pensare. E’aiutato a scoprire le motivazioni inconsce e a distinguere tra i desideri e le vere motivazioni. Quest’approccio sincero e profondo di sé costituisce una prima base di discernimento”(FSDB 334). 7.2.3 Istruzioni per l’autobiografia Prepara una breve autobiografia. A partire dai tuoi ricordi più antichi procedendo cronologicamente, pur sapendo che i ricordi emergono gradualmente. Per questo è opportuno farlo su un quaderno ad anelli, in modo che se emerge qualcosa su eventi già narrati e paiono significativi si possono inserire come appendice. Sii attento agli influssi più significativi nella tua vita, i rapporti e gli eventi salienti nella tua vita fino ad oggi… la famiglia, il curricolo degli studi, i rapporti e le amicizie, le esperienze nel lavoro, le gioie e le ferite più profonde comprese le tue reazioni, ecc.” 7.2.4 Lettura dell’autobiografia E’ un fatto che un’autobiografia contiene molto di più di ciò che si vede per iscritto. Per questo si deve sapere già in partenza che nelle pieghe del testoè nascosto un piccolo tesoro da scoprire, per questo è opportuno lasciare uno spazio bianco al fianco di ogni pagina per porre note, approfondimenti, chiarimenti... che parranno utili. Sono importanti le cose scritte, ma lo sono anche quelle non scritte; suscita interrogativi il trovare alcuni temi trattati e altri passati sotto silenzio. Di enorme importanza per valutare la maturità emozionale, per esempio, è la descrizione delle emozioni, sia quelle presenti che quelle assenti, il modo di esprimere la gioia e di reagire alla sofferenza, reattività o blocchi. 7.2.5 Dialogo sull’autobiografia A partire dai molti dati forniti dal testo è importante anche il passaggio di chiarificazione vocale fatto di spiegazioni o conferme alle osservazioni; se vi sono dissonanze che richiedono chiarimento. Così si può arrivare ad una conoscenza più adeguata via per un aiuto di crescita. 103 Anche il dialogo a partire dal testo e dall’esperienza di redazione nel comporre lo scritto è importante: se per esempio è stato un esercizio difficile, un momento di autoscoperta, un mezzo per crescere nella conoscenza di sé, … E’ utile anche la riformulazione orale di qualche aspetto e la ripresa di alcuni temi in vista dei passi di cammino da svolgere. Si può ulteriormente esplorare ancora più in profondo, quello che è scritto trasformando la storia in preghiera e a parlare con Dio dell’esperienze raccontate e non raccontate, delle sue emozioni espresse e non espresse, delle sue relazioni. L’autobiografia è un momento di conoscenza di sé che ha bisogno di essere integrato nel resto del cammino, per un’ulteriore conoscenza di sé e per un progressivo farsi conoscere, per la ricerca delle esperienze da integrare nella propria vita e per il processo di discernimento. 3.3 “Il tempo della Parola”84 3.3.1 Introduzione85 3.3.1.1 In ascolto, insieme, di una parola che dà senso alla vita L’ascolto è una dimensione decisiva dell’esistenza. Da sempre l’uomo, e in modo speciale il giovane, coltiva dentro di sé tanti interrogativi, alcuni forse banali, altri invece formidabili, e sono quelli sul senso della vita e della storia, su di sé e sul mondo, sul futuro, sulla giustizia, sul dolore, sulla morte, e su molti altri quesiti che attendono una risposta. L’uomo è alla ricerca di una parola che dia risposta alle sue domande più grandi. Penso a quelle che avete nel cuore questa sera: su voi stessi e il vostro domani, sui vostri affetti e le vostre relazioni, sulle sfide che la società vi pone, sul modo di vivere oggi la fede dentro la complessità delle prove dell’esistenza, su quanto sta succedendo nel mondo. 3.3.1.2 Chi siamo e che cosa vogliamo? A volte l’uomo cerca queste risposte per conto proprio, in se stesso, nelle sue risorse e nelle sue capacità. Può certamente fare molta strada, ma, ad un certo punto, si troverà in un vicolo cieco: di fronte alle questioni decisive, da solo, non può raggiungere quella risposta che cerca. Sono straordinariamente lucide al riguardo le parole con cui il grande poeta Eugenio Montale apre una delle sue liriche: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe» (in Ossi di seppia). Proprio così, carissimi giovani: spesso l’animo dell’uomo ci appare “informe”, soprattutto nei momenti della crisi e del dubbio, del dolore e dell’errore; e noi, da soli, non possediamo la parola che possa “squadrare”, ossia definire, fare chiarezza e dare certezza. L’animo dell’uomo ci appare informe ogni volta che non riusciamo a comprendere le scelte di male che si compiono nel mondo con le ingiustizie, le disparità tra i popoli, le guerre e le violenze. 84 CENCINI A., Luce sul mio cammino. Parola di Dio e iter vocazionale = Animatori di pastorale…27, 2002, Paoline Ed. Mi. AAVV, XVII Seminario di formazione sulla direzione spirituale, L'accompagnamento vocazionale sotto la Parola di Dio, in Vocazioni 3, 2002, pp, 8-13; 4294. ABS, Parola di Dio e Spirito Salesiano, LDC, Torino, 1996, pp. 13-25; 159168; 321-332. ABS, Atti del III Convegno Mondiale, Bollettino, n. 10, pp. 141-181. 85 Tettamanzi D., Lampada ai miei passi è la tua parola, Il racconto dell’amore, Milano-Duomo, 22 settembre 2006. 104 241 soffre per noi, il suo cuore è aperto nei nostri confronti e possiamo trovarvi la salvezza. […]Quando facciamo l'adorazione eucaristica, questo sarebbe il luogo in cui potremmo imparare da Dio un amore che può soffrire e quindi anche salvare. L'adorazione non è dunque qualcosa di puramente privato, è invece l'esercizio di un amore diverso per il nostro prossimo. In questo cuore trafitto potremmo contenere tutti quanti ci stanno a cuore. E guardando il cuore trafitto potremmo aprire il nostro cuore affinché possa amare e salvare le persone che incontriamo quotidianamente. […] Li possiamo introdurre nell'amore di Gesù Cristo, nel cuore aperto che solo l'amore può far guarire e nel quale l'amore è più grande e più potente di ogni colpa umana. L'adorazione vuole trasformarci . Noi stessi siamo un ostenso rio, perché Gesù Cristo abita in noi. E dobbiamo portare questo ostensorio nel mondo. […] La preghiera più bella che possiamo dire a Dio nell'adorazione è la preghiera che tre cappellani di Lubecca hanno recitato poco prima di essere giustiziati nel Terzo Reich. «Signore, ecco le mie mani. Porgi loro ciò che vuoi. Portami via ciò che vuoi. Conducimi dove vuoi. In tutto si compia la tua volontà». 8. L’immagine di sé32 Con il termine « immagine di sé » ci si riferisce a come uno si vede, a che cosa dice e sente di sé, a come si percepisce in rapporto con se stesso, gli altri e l' ambiente. Per immagine di sé perciò intendiamo una « con figurazione, una sagomatura di sé, una strutturazione intellettivoaffettiva » della propria realtà, cosi come noi ci vediamo e sentiamo in relazione a noi stessi, agli altri, soprattutto alle persone importanti per noi. Ne risulta il nostro volto, la nostra fisionomia personale con le sue caratteristiche, una certa idea di noi, strutturatasi a livello conscio e inconscio a partire dall'inizio della vita, e poi attraverso le varie esperienze di sé. Dato psicologico dell'immagine di sé centrale per il divenire della persona, per la sua identità. Ogni persona tende ad agire come si vede. Di conseguenza il comportamento di ciascuno e fortemente condizionato da come di fatto si percepisce. L' immagine infatti e qualcosa che entra in azione automaticamente, secondo il meccanismo del ruolo. Ad esempio, chi si conosce pigro, non si meravigliera della propria pigrizia; chi non si vede fatto per la felicità non essere credervi quando questa si presenterà a lui. Arriverà a compiere atti che la faranno allontanare. Chi si sopravvaluta si lancia in imprese al di sopra delle proprie forze. Non ogni immagine e adatta a promuovere una adeguata identità di sé. E molto importante, per il divenire dell' identità di sé, individuare il tipo di immagine prevalente in se stessi ed elaborarne una di adeguata, pena una crescita ridotta, talora anche distorta. Riconducendo i vari tipi di immagine di sé ad alcuni, schematizzando un po', queste sono le principali forme di immagine con cui confrontarsi così da individuare la propria: -immagine di sé reale, sana e adeguata; -immagine di sé negativa; -immagine di sé montata; -immagine di sé ipervalorizzata. Ovviamente nella realtà concreta ci sono indefinite gradazioni intermedie. Conta individuare con verità e realismo la propria, riferendosi a questi tipi modello. 8.1 Le immagini di sè 8.1.1 Immagine sana e adeguata 240 32 SOVERNICO G., Progetto di vita. Alla ricerca della mia identità, ELLE DI CI Torino Leumann 1984, pp. 161-180. 105 Si tratta dell'immagine normale. Essa e quella di un essere positivo che ha dei contorni, cioè dei limiti. Anzitutto al centro sta la percezione della propria «positività congenita». I1 centro di sé stessi è percepito come positivo. Questa realtà positiva è fatta delle nostre tendenze buone, delle nostre qualità, dei nostri doni naturali, dei nostri talenti e doti, delle nostre aspirazioni profonde, dei nostri bisogni di. base... Questi vari aspetti positivi fanno di noi degli esseri validi: tuttavia questa realtà positiva e sentita come parziale. I limiti, che ci sono costituiti, ci rendono maldestri e ostacolano il nostro agire, ma non costituiscono l'essenza della persona. È questa la condizione umana. Questo ci dà la nostra personale fisionomia e il nostro carattere unico. Noi abbiamo il nostro modo personale di essere buoni, intelligenti, aperti agli altri, servizievoli, ecc. Da giorni — annota Giuliano di anni 29, educatore in una comunità mi sénto sollevato e con il A. MILLER, 17 dramma del bambino dotato, cit., pp. 27-3è. cuore contento, come non mi era mai capitato prima. E vero, un punto tiene e sta al centro di me: amato da Dio incondizionatamente, scelto da Dio per essere prete ed educatore proprio fin dai primordi della mia vita. Ciò fa parte di me, è me, è mia identità. Avverto da giorni risuonare questa frase del Vangelo dentro di me, un versetto che mi da gioia e luce: "Tu séi stato provato, Pietro... ma tu, una volta superata la prova, conferma i tuoi fratelli". Questa è la mia missione, entro la mia storia. Aiutare gli altri, una volta ristabilito dentro, a ritrovare sé stessi, a guarire e a crescere... Avverto che ciò viene da dentro di me e conferma tanti momenti della mia giovinezza. Si inserisce nella mia storia recente, nei passi fatti in avanti mettendomi "in verità" con me stesso, con chi mi accompagna e con coloro con cui vivo assieme. Sento come un fluire d'acqua dentro di me, con un timbro inconsueto. Avverto la presenza di Dio lungo tutta la mia vita, anche nei momenti di eclisse, di ricerca a tentoni. Si è fidato di me più di me stesso, incredibilmente. Mi chiama ad essere più vero, più umile, più rispettoso di me e degli altri, più a sérvizio del Vangelo e delle persone concrete. Si e fidato sénza forzare, sénza porre troppe condizioni. t vero. "Quando sono debole, e allora che sono forte". I miei limiti presénti e passati non sono contro di me, come una realtà contro cui lottare, da rifiutare. Sono parte di me da portare a bordo, superadoli da dentro”. 8.1.2 Immagine negative L'immagine è strutturata attorno al negativo e ai difetti. Ci sono persone che non vedono del proprio essere che gli aspetti negativi o quasi. Fra questi alcuni riconoscono anche i loro lati positivi, aggiungendo subito un grosso «ma... », come se non fossero realtà proprie. Vedono sopratutto ciò che manca loro oppure quello che hanno, ma che non vorrebbero avere. Il fenomeno dell'immagine negativa, a varie gradazioni, è molto esteso. 106 mostrano in essi Gesù Cristo come il loro mistero più profondo. In ogni uomo incontro Cristo: guardare l'ostia mi permette di scoprire Cristo negli uomini. In questo modo l'ostia fa sì che mi riconcili con i miei fratelli, le mie sorelle, mi dà nuova speranza per loro e risveglia dentro di me l'amore ' che nutro per loro. Guardare l'ostia mi fa anche vedere tutto il mondo in maniera diversa. […] L'adorazione eucaristica è incontro personale con Gesù Cristo, che è presente nell'ostia come colui che si offre per noi […] e si sacrifica per noi sulla croce , mi ama ed è morto per me. […] Nell'amore di Gesù, tangibile e visibile nel pane, possono guarire le nostre ferite poiché interpretiamo in modo diverso la nostra solitudine, le nostre paure e la nostra rabbia. Guardiamo colui che ci ama. Non dobbiamo far altro che guardare. […]. Il mio cuore trova la calma in Cristo. Sento che mi è concesso di stare semplicemente di fronte a lui senza dover fare niente. Posso semplicemente essere. Va bene così. Basta essere di fronte a lui, senza intenzione, come tra amici. […] Nell'incontro col cuore ferito posso anche trovare un modo diverso per trattare le mie ferite. Naturalmente preferirei non sentirle più. Me ne voglio liberare, voglio che non mi facciano più soffrire. Allora cerco di farle richiudere con preghiere o altre tecniche psicologiche, in modo che non lascino segni e le cicatrici scompaiano. Allo stesso tempo sento che questo non funziona perché nonostante tutto provo ancora dolore. Le mie parti sensibili vengono continuamente colpite e le ferite si riaprono. Il cuore di Gesù mi indica un'altra via. Ha poca importanza che le mie ferite si rimarginino: devono invece venir trasformate. La ferita può divenire la fonte della vita. Quando accetto la mia ferita, questa può diventare il luogo in cui Dio torna ad incontrarmi. Devo quindi eliminare la pressione che mi spinge a non voler più sentire le ferite. Devono poter far male, le critiche devono poter ferirmi, anche se ormai ho capito quali sono i meccanismi che regolano tutto quanto. Se mi rassegno ad essere vulnerabile e a soffrire, posso conoscere Dio proprio nei punti sensibili, come colui in cui mi imbatto, come colui che mi ricorda che lui solo può essere la mia salvezza. […] Incontro Gesù col cuore trafitto. Cristo si è fatto ferire per noi, ha lasciato distruggere il suo cuore, perché noi non ci lasciamo distruggere dalla nostra vita. Si è fatto trapassare per noi per essere accessibile a tutti noi. «L'apertura del cuore significa consegna di tutto ciò che è più intimo e persona-le affinché venga usato da tutti: tutti possono entra-re nello spazio così aperto e svuotato» (Hans Urs von Balthasar). […]Un detto antico dice: Cor pat et qui a pat iens. Il cuo re di Gesù è aperto a noi perché soffre, perché tollera il dolore. Può amare solo chi può essere ferito. Solo il medico ferito può guarire, come dicono i greci. Siccome Gesù 239 abbiamo finalmente trovato ciò di fronte al quale possiamo inginocchiarci. Infatti per tutta la vita l'uomo cerca colui di fronte al quale si possa inginocchiare e che unisca tutte le sue forze e soddisfi i suoi aneliti e bisogni. […] L'adorazione non avviene nella mente: al contrario, tutto il corpo vi partecipa. Il gesto originario dell'adorazione è la prostratio, nella quale l'uomo si getta ai piedi di Dio. Ma si può rivolgere una preghiera a Dio anche inchinandosi o sedendo di fronte a lui e tenendo le mani aperte. L'adorazione spinge comunque ad una espressione corporea. Tutta la forza dentro di noi deve venir unita. Il corpo offre un aiuto, permettendo allo spirito di trovare la calma e di raccogliere nel gesto tutto ciò che è presente dentro di noi per indirizzarlo a Dio. Adorazione significa fare riferimento a Dio: dentro di me non ci sono più stanze private, in cui io mi possa ritirare per pensare ai miei sogni a occhi aperti e nelle quali non faccio entrare nessuno, nemmeno Dio. Adorazione significa fare riferimento a Dio, essere completamente in relazione con Dio. Non dobbiamo avere alcuna paura di pensieri o sentimenti dentro di noi. Ciò che importa è essere in relazione con Dio ed esserne avvolti. Se ogni cosa viene inserita nell'incontro con Dio tutto prenderà vita dentro di noi e si trasformerà. Le stanze che chiudiamo a Dio sono chiuse anche a noi. Alcuni cristiani vivono tenendo molte stanze chiuse a chiave e serrate. La loro vita è ridotta, visto che si svolge solo in poche stanze del loro corpo. L'incontro con Dio nell'adorazione intende aprire tutte le stanze dentro di noi e fare entrare in ogni angolo lo sguardo amorevole di Dio che tutto ravviva. Adorazione si dice adoratio in latino e significa letteralmente «mandare un bacio a qualcuno». L'ado razione consisteva dunque nel portare la mano alla bocca e mandare un bacio a Dio o all'adorato im peratore. Questa origine mostra come adorare non significhi solo gettarsi a terra e dimenticare se stes si: adorazione è anche intimità. Il gesto del bacio, che di norma si mostra solo alla persona amata, viene usato anche nei confronti di Dio. Il profondo anelito di toccare con dolcezza la persona amata con un bacio viene rivolto a Dio. L'adorazione è quindi un incontro intimo con Dio: gli comunico i miei aneliti e i miei bisogni più profondi nella fiducia che li soddisferà. […] L'adorazione eucaristica ha diversi significati. Un - aspetto essenziale è il guardare. […] Questo guardare apre il mio sguardo all'intera realtà. L'ostia è come una finestra attraverso la quale posso vedere la realtà della mia vita sotto una nuova luce. L'ostia mi mostra la verità del mio cuore. Non ci sono più solo i pensieri arzigogolati e fragorosi, le sensazioni di paura e le preoccupazioni; c'è già Gesù Cristo che ha trasformato anche il mio cuore.[…] Non vedo più gli uomini attraverso gli occhiali delle mie proiezioni, li vedo invece attraverso gli occhiali dell 'ostia, che mi 238 Costituisce un forte «handicap» per la crescita di una autentica identità personale. Ne deriva infatti scarsa fiducia in se stessi, un senso o meno accentuato e manifesto di autonegatività. Talora ci sono dei fatti positivi che sembrano smentire tale immagine, ma non ci si crede. Se va bene, «è il caso» oppure «non sono tanto io». Se va male, «non poteva essere più o meno che così». Gli insuccessi infatti, i limiti, i difetti non meravigliano. Sono più o meno attesi. Se si fa luce sulle qualità e i successi, ciò viene mal tollerato. A volte ci sono persone che portano date responsabilitä, […] spesso si considerano più o meno insignificanti da coloro che le circondano. L'origine di tale immagine è varia. Sono molteplici i fattori che vi concorrono e solitamente vanno oltre la responsabilità dell'interessato. 8.1.3 Immagine montata È tipica di chi tende a sopravvalutare gli aspetti positivi di se stesso. La vita è prevalentemente organizzata attorno alla riuscita di sè. Ci sono infatti persone che sopravvalutano i loro aspetti positivi per difendersi dal negativo che si sottolinea loro. Interiormente queste persone non si percepiscono con «l'aureola»; riconoscono di avere ombre e luci. Però il modo con cui si difendono, quando le si attacca, fa dire agli altri che si sopravvalutano. Dietro a tutto ciò c'è una grande insicurezza dovuta ad un passato di sofferenze, più o meno cosciente, spesso di prima infanzia. [… per la testimonianza vedi pp. 166-167] In loro, di fronte agli insuccessi e alle umiliazioni, sono frequenti le reazioni di ripiegamento su di se in vario modo e a vari livelli, fisico, psicologico, morale e spirituale, forme di permalosità e risentimento più o meno giustificato, forme di gelosia più o meno mascherata. Solo l'eliminazione di questo passato guarirà da ciò che gli altri chiamano «aureola». Di fatto queste persone non hanno una immagine ipervalorizzata. Sono gli altri, l'ambiente che rischiano di appiccicare questa etichetta perché queste persone danno l'impressione di sopravvalutarsi. 8.1.4 Immagine ipervalorizzata Si tratta di persone con una immagine di sé montata e rinforzata. Hanno una grande stima di sé stesse e desiderano, quasi hanno bisogno, che anche gli altri le stimino ugualmente. La loro vita è organizzata attorno al successo e alla riuscita sociale. Sono persone che non vedono di sé che gli aspetti positivi, incapaci di accettare di avere qualcosa che non và. Non possono sbagliare veramente. In realtà non sanno chi sono. Sintomi: * È presente una rigidità con sé stessi e con gli altri con frequenti reazioni sproporzionate e ripetitive rispetto alle effettive cause. A monte sta una insicurezza di sé non cosciente. L'immagine si è venuta strutturando 107 attorno ai successi esteriori, non attorno alla realtà positiva di sé percepita interiormente. Di qui il bisogno di successo sociale da mantenere e allargare. Senza questi successi tutto crollerebbe. Il loro impegno sociale porta con sé una forte componente compensatoria. Se la persona è dotata e non conosce mai un insuccesso, questa immagine può durare tutta la vita. In caso di insuccesso c'è come un rimbalzo alla ricerca di un altro successo. Ma se l'insuccesso è troppo centrale, allora avviene crollo. * La relazione con gli altri non è armonica: o dominano o sono sottomessi e dipendono. Spesso c'è disprezzo dei deboli, di coloro che non riescono. C'è dipendenza molto forte da coloro i cui giudizi sono ritenuti «valorizzanti». C'è incapacità di rimettersi in questione davanti agli altri per mancanza di solidità interiore. La risposta a coloro che tentano di metterli in questione è fatta di ironia, disprezzo, sufficienza, giustificazioni, autosoddisfazione. A volte queste persone riconoscono di avere qualche elemento negativo. Anzitutto perché ce ne sono, ma soprattutto perché è «interessante» avere qualcosa da rimproverarsi. Sono persone solitamente sensibili alle buone maniere. * L'affettività è molto controllata. Essa è spesso vissuta come una debolezza che mette in dipendenza dall'essere amato. Ne risulta un supersviluppo della capacità di ragionare, fino al cavillo, o dell'agire. Ciò si manifesta solitamente con irrigidimenti e presa di distanza nei confronti degli altri. * Rapporto superficiale con se stessi e con gli altri. Le relazioni con se stessi e con gli altri sono poco profonde. Prevale la regola del «tutto o niente», come un rassicuramento di se. Si tratta di una immagine strutturata prevalentemente sui fatti o sugli altri o sulle persone significative o sui successi. […] 108 Questa mentalità però ignora del tutto la pienezza regale della preghiera che vuoi donare. Ignora appieno la profonda adorazione; ignora appieno l'anima della preghiera che non domanda nessun « perché » né « a che scopo », bensì sale perché è amore e fragranza e bellezza. E quanto più essa ama, tanto più è anche offerta, e la fragranza scaturisce da fuoco consumante. 3.2.3.4 Riconoscere la sua presenza. Lui è qui. Nell'adorazione mi inginocchio di fronte a Dio perché Dio è Dio. Non gli chiedo niente, con l'adorazione non voglio raggiungere niente, né bei senti-menti, né tranquillità né calma. Nell'adorazione non parlo dei miei problemi, non mi lodo né mi rimprovero: mi inginocchio semplicemente di fronte a Dio perché è il mio Signore e il mio Creatore. Quando ho realmente capito che cosa significhi essere creato da Dio ed essere tenuto in esistenza da lui in ogni momento, non posso fare altro che inginocchiarmi di fronte a lui che è il mio Creatore e adorarlo. Nell'adorazione riconosco di dipendere completamente da Dio e che tutte le fibre del mio essere hanno bisogno di lui: dentro di me non v'è nulla che io non abbia ricevuto da lui. E confesso che è il mio Signore, la meta del mio anelito. Non posso fare altro che inginocchiarmi di fronte a lui in ammirazione e pregarlo. Nell'adorazione non mi occupo più di me stesso e dei miei problemi. Tento invece di guardare solo verso il mio Dio. Dimentico me stesso perché Dio mi ha preso nella mia totalità, perché egli solo è importante per me. Il paradosso è che, dimenticando me stesso, divento presente a me stesso, divengo vero, io stesso. I problemi e gli uomini non mi interessano più perché Dio mi riempie completamente. Nell'adorazione è presente l'anelito di giungere infine a liberarmi di me stesso, di essere libero dagli interessi personali e dalla brama di vedere tutto sempre rif erito a me stesso, di voler sempre avere qualcosa per me. Dimenticando me stesso, divento pienamente libero e preso da Dio. […] Quando Dio mi è talmente vicino che conta soltanto l'incontro con lui, la vicinanza, spesso invadente, di quanti vogliono qualcosa da me perde spesso importanza, e lo stesso succede alle preoccupazioni e ai problemi che mi assillano. Quando la presenza di Dio riempie ogni cosa, dentro di me non c' è più posto per altre cose, nulla ha più potere su di me. Dimenticando me stesso, raggiungo la calma e si spegne il chiasso dei miei pensieri e dei miei sentimenti. Sono finalmente arrivato, dopo una lunga ricerca sono finalmente a casa. Si può essere a casa solo se ci si inginocchia di fronte al mistero. L'adorazione è l'esperienza dell'e ssere a casa. Quando ci ingi nocchiamo di fronte al mistero di Dio siamo veramente arrivati. La nostra anima si placa e sentiamo che il nostro anelito più profondo è stato realizza to: 237 è destinato alla custodia dell'Eucaristia ci richiama alla mente sia la presenza del Signore, che deriva dal sacrificio della Messa, sia i fratelli, che dobbiamo amare nella carità di Cristo. La Chiesa infatti nel dispensare i sacri misteri ad essa affidati da Cristo Signore, provvede anzitutto alla conservazione dell'Eucaristia per gli infermi e i morenti. Questo cibo celeste, riposto e custodito nelle chiese, è adorato dai fedeli. 3.2.3.3 L'incenso 83 « Io vidi venire un angelo, e portava un incensiere d'oro e si presentava all'altare. E gli fu dato molto incenso. E la fragranza dell'incenso saliva dalle mani dell'angelo attraverso le preghiere dei santi su su fino a Dio ». Così parla l'Apocalisse. Vi è tanta nobile bellezza in questo distribuire i granelli dal preciso contorno sul-la vampa, e in questo elevarsi del fumo odoroso dall'incensiere agitato. È come una melodia fatta di movimento dominato e di profumo. Senza alcuno scopo, pura come una canzone. Una bella prodigalità di cose preziose. Amore che dona, che elargisce tutto. Come un giorno, quando il Signore sedeva in Betania, e Maria gli recò nardo prezioso, e glielo versò sui santi piedi, e li asciugò coi suoi capelli e la fragranza riempiva l'intera casa. Uno spirito gretto mormorò: « A che scopo tanto dispendio? ». Ma il Figlio di Dio ammonì: « Lasciate fare, è pel giorno della mia sepoltura ». V'era qui un mistero della morte, dell'amore, della fragranza, dell'offerta. E lo stesso è pure nell'incenso: un mistero della bellezza che ignora ogni scopo, ma sale libera; dell'amore che arde, e si consuma e trapassa nella morte. Ed anche qui si presenta lo spirito arido che domanda: « A che scopo tutto questo? ». Un'offerta della fragranza, lo dice la stessa Scrittura: ecco cosa sono le preghiere dei santi. Simbolo della preghiera è l'incenso, e proprio di quella preghiera che non mira ad alcuno scopo; che nulla vuole e sale come il gloria dopo ogni salmo, che adora e vuoi ringraziare Dio, « perché è così grande e magnifico ». Certo in siffatto simbolo si può insinuare della vanità. Le nubi di profumo possono anche portare un tiepido sentimento del mistero, uno spasso religioso dei sensi. Se è così, ha piena ragione la coscienza cristiana di sollevar obbiezioni e di richiamare « allo spirito ed alla verità »; di raccomandare d'essere casti ed onesti. Ma c'è anche nella religione un filisteismo che proviene da meschinità di sentire, da aridità di cuore, come la mormorazione di Giuda Iscariota. Qui la preghiera si riduce ad utilità spirituale; ed in tal senso ha certo da essere misurata e borghesemente ragionevole. R. GUARDINI, I santi segni, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 68-69. 236 Per il cammino di interiorizzazione A quale di queste quattro immagini di sé mi sento più vicino? In base a quali tratti principali? Oggi quale immagine ho di me? Come mi vedo? Che cosa dico di me? Quali sono gli aspetti positivi e negativi che costituiscono la mia immagine, la mia fisionomia? Quali sono gli aspetti di me noti a me e sconosciuti agli altri, oppure noti a me e agli altri, che accetto con più difficoltà, o che rifiuto? Chi vorrei essere che non sono, nè realisticamente posso essere? Questi tuoi tratti principali da quali fattori ti sembrano causati? Se trovi presente in te come prevalente un'immagine negativa montata o ipervalorizzata, quali esperienze senti che potresti, dovresti fare per risanarla e camminare verso un'immagine reale, sana e adeguata? 83 109 8.1.5 Alcune condizioni per un’immagine reale * Vivere relazioni vivificanti in cui ci si senta amati e riconosciuti per ciò che si è * Lo sblocco di ciò che ostacola l’espansione della vita. Più la vita cresce, più si diventa sensibili a ciò che ostacola la vita. Più si vive nella luce, più si percepiscono le zone di tenebra. La fedeltà a se, alla vita e alla luce condurrà a sbloccare tutto ciò che ostacola l'avanzare della vita. Questi sblocchi possono attuarsi mediante la coscientizzazione personale di ciò che fa da freno a livello non tanto del sapere, ma del sentire, del vissuto. Spesso e necessario l'aiuto altrui. Un «altrui» che sa aiutare con un ascolto benevolo, pieno di comprensione, fiducioso e attivo. Si progredisce molto più in fretta nella conoscenza di sè e nella liberazione dai blocchi con l'aiuto di un altro. * Tempi di solitudine in comunione con la vita. * Cura continua nell’accettazione di sé. Anzitutto rendersi attenti volontariamente, perché ci si crede, al positivo in sè e negli altri. Si tratta di orientarsi, tramite la volontà, a sottolineare volutamente ciò che va, anche se minimo, ciò che è sorgente di gioia, di positività, di luce, di senso, di vita, anche se presente allo 0,1%. E ciò a partire dalla vita quotidiana. Conta che lo si percepisca come proprio e lo si coscientizzi, magari tramite l'«esame di coscienza positivo» […] fare questo esercizio per scritto almeno per un mese o due. E mentre si scopre il positivo, occorre accettare, nel limite del possibile, i propri limiti e gli aspetti negativi della propria persona, previamente a qualunque giudizio morale di bene o di male. […] Questo processo di autoaccettazione richiede di individuare e chiamare per nome, a livello soprattutto emotivo affettivo, i propri acquitrini, le proprie sabbie mobili, i divieti interni, le preclusioni e gli arroccamenti apparentemente immotivati, eppure inflessibili. * Attenti alla vita coscienti che il percorso chiede tempi medio lunghi con passi graduali * Farsi aiutare da qualcuno di cui si ha fiducia per la sua autorevolezza e competenza. Soprattutto in relazione all’immagine negativa. Richiamare con lui ciò che ha provocato questa immagine lasciando affiorare la propria sofferenza confidandogliela. Il passato doloroso, non chiarificato e assunto, non si può soffocare senza danni gravi. Riemerge in uno dei molteplici modi che la psicologia spesso evidenzia e che l'esperienza personale conferma. Sta alla radice di dati crolli, come pure di irrigidimenti difensivi e ripetitivi o di fughe nel sogno. Bisogna perciò non chiudersi nella fierezza della propria sofferenza come un riccio o una conchiglia. Vivere sulla difensiva e motto pia dispendioso e meno redditizio che vivere con liberta interiore ed esteriore. * Individuare il tipo della propria immagine e riconoscerlo per quello che è, in base alle reazioni abituali della vita. Occorre coraggio e vera 110 3.2.3 L’adorazione: Lui è fedelmente qui 3.2.3.1 Proskunesis82 Cosa fa una persona quando s'inorgoglisce? Si drizza, alza il capo, irrigidisce le spalle e l'intera figura. Tutto in essa dice: «Io sono più grande di te! Io sono da più di te!». Quando uno invece è di umile sentimento e si sente piccolo, china il capo, la sua persona si rattrappisce: egli «si abbassa». Tanto più profondamente, quanto più grande è colui che gli sta dinanzi; quanto meno egli sente di valere agli stessi propri occhi. Ma quando mai percepiamo noi più chiaramente la nostra pochezza di quando stiamo dinanzi a Dio? Al grande Iddio che era ieri come è oggi, tra secoli e millenni! Al grande Iddio che riempie questa stanza e l'intera città ed il vasto mondo e l'incommensurabile cielo stellato, dinanzi a cui tutto è come un granello di sabbia! Al Dio santo, puro, giusto, infinitamente sublime... Come è grande Lui... e come son piccolo io! Così piccolo che non posso neppure mettermi a confronto con Lui, che dinanzi a Lui sono un nulla! Non è vero — e vien con tutta evidenza da sé — che non si può stare da superbi dinanzi a Lui? Ci si «fa piccoli»; si vorrebbe impicciolire la propria persona, perché essa non si presenti così, con tanta presunzione: l'uomo s'inginocchia. E se al suo cuore questo non basta ancora, egli può inoltre prostrarsi. E la persona profondamente chinata dice: «Tu sei il Dio grande, mentre io sono un nulla!». Quando pieghi il ginocchio, non farlo né frettolosamente né ,sbadatamente. Dà all'atto tuo un'anima! Ma l'anima del tuo inginocchiarti sia che anche interiormente il cuore si pieghi dinanzi a Dio in profonda reverenza. Quando entri in chiesa o ne esci, oppur passi davanti all'altare, piega il tuo ginocchio profondamente, lentamente, o quando il mistero del pane che diviene Suo corpo; ché questo ha da significare: « Mio grande Iddio!... ». Ciò infatti è umiltà ed è verità ed ogni volta farà bene all'anima tua 3.2.3.2 Tabernacolo (in ebraico mishkhan) della tradizione giudaica, era un santuario trasportabile che era eretto nel deserto e che accompagnava gli israeliti nel loro vagare dopo l'esodo. I Leviti avevano il compito di occuparsene. All'interno del tabernacolo c’era il Santo dei Santi, che a sua volta conteneva l'arca dell'alleanza e le tavole della legge. Una tenda le separava dal resto della struttura. Il tabernacolo è il luogo della presenza di Dio nella comunità ed era costruito sul modello del santuario celeste. La sua disposizione simboleggiava la creazione, la struttura del cosmo e la storia futura del popolo d'Israele fino all'età messianica. Il tabernacolo ora nelle nostre chiese R. GUARDINI, I santi segni, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 30-31. 235 82 3.2.2 Possibile struttura della preghiera settimanale lunedì Ringraziamento Setaccio la mia settimana e ringrazio per 10 minuti martedì Implorazione dello Spirito Invoco lo Spirito Santo sulle persone che hanno un compito di decisione sulle situazioni più confuse sulle decisioni che devo prendere mercoledì Ascolto Passo momento per momento quello che ha voluto dirmi Dio durante i momenti della giornata, magari partendo dalla Parola di Dio del giorno umiltà per poter chiamare per nome le varie realtà presenti in noi, molto più che per continuare ad illudersi su di se e sugli altri. * L'esperienza di un'altra gerarchia di valori, in cui l'essere vince l'apparire e l'avere, spesso apre la strada al risanamento. […] Ogni vera identità di se si precisa e consolida nella misura in cui da vita ad una missione. Ogni persona ha un suo compito da svolgere, entro le piccole cose del vivere quotidiano. Vivere la propria missione attraverso le varie scelte alimenta e sostiene l'identità di se. Quest'impegno di se deve essere guidato dalla «regola d'oro»: io, con la mia responsabilità personale, qui, in questo ambiente, ora, in questo tempo, con queste persone concrete, in base al mio progetto di vita vivo, secondo le mie effettive possibilità oggi, in cammino verso la mia pienezza di vita, assieme a molti fratelli entro un popolo in cammino. giovedì Supplica Ripasso persone che mi danno fastidio, situazioni difficili che mi provocano negativamente o che sono causa di sofferenza per me o per altri. Chiedo di poter voler bene e concretamente scegliere una modalità di intervento d’amore. venerdì Penitenziale Rivedo la mia vita e chiedo perdono: vado davanti al Signore, con il desiderio di cambiare e se è il momento della riconciliazione tutto è concentrato sul sacramento sabato Conoscenza di sé ed affidamento a Maria Davanti alla Verità di Dio desidero fare verità nella mia vita, guardando con verità ai miei pensieri, desideri, decisioni e azioni non falsando in più o in meno le miei dinamiche e le mie proprie doti domenica Comunione con la Chiesa Passare in rassegna le situazioni della Chiesa, della mia comunità del mio gruppo della mia famiglia con le sue gioie e i suoi problemi Nel momento in cui non hai voglia è il tempo della volontà amante prendendo anche una posizione che più richiede al proprio corpo 234 111 9. L’accettazione di Sé33 Un uomo giunto alla coscienza di essere amato da Dio, di avere da lui la vita, di ricevere da lui tutto quello che ha, esclama: «Grazie, Signore! ». La prima risposta alla domanda: «Chi sono io? Chi sei Tu?», e che io sono uno che ha imparato a dire grazie. Specificando meglio, esprimerei cosi la prima parola: «Grazie, ti devo tutto». Qui è il punto in cui comincio a prendere veramente coscienza di me stesso: quando, guardando negli occhi il Signore, nella preghiera, arrivo a dire con sincerità: «Grazie, mio Dio. Io ti devo tutto. Tu sei colui che mi ha dato la vita, la parola, l'essere, la ragione, il movimento, i genitori, la casa, la salute, la forza, la debolezza. Io ti devo tutto».34 “fiume alla sua sorgente, come il raggio al sole”. Quindi no alla fretta, inquietudine, irritazione contro se stessi… ma imparare dal Signore”mite e umile di cuore”cioè”così come sono davanti a Dio sono davanti agli uomini” “Non so come sono fatto : sebbene mi senta miserabile, non me ne rattristo punto e, qualche volta ne sono contento pensando che sono davvero un buon soggetto per la misericordia di Dio (lettere, EP, 850) “accettarsi non è rinunziare o abdicare, ma piuttosto pendere coscienza delle nostre reali forze per sostenere con coraggio il combattimento spirituale”. “le sonnolenze, i languori e le pesantezze dei sensi non possono non causare qualche specie di tristezza sensuale; però finché la vostra volontà e il fondo del vostro spirito sono ben risoluti di appartenere interamente a Dio, non vi sono ragioni per temere, perché si tratta di imperfezioni naturali e piuttosto malattie che peccati o difetti spirituali. Tuttavia bisognerà esercitarsi ed eccitarsi al coraggio e all’attività dello spirito per quanto vi sarà possibile.” “L’umiltà non unita alla generosità è falsa e dannosa”. “Accettarsi è accettare Dio in noi e attaccarsi a lui con un legame più reale” (S. Francesco di Sales) R., L’accettazione di Sé, Morcelliana, Brescia, 1992. JACQUES P., La libertà interiore. La forza della fede della speranza e dell’amore, Ed San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pp. 28-40. 34 MARTINI C.M., Tu mi scruti…, oc, pp. 22. 112 3.2 Graduale acquisizione di un tempo di preghiera personale 3.2.1 Un poco di metodo Dedica un tempo ben preciso alla tua preghiera: all’'inizio, è utile almeno mezz'ora. Scegli bene il luogo della preghiera, è necessario che sia silenzioso e raccolto. Se puoi metti davanti a un crocifisso o un'immagine sacra, ed ancora megliodavanti all'Eucaristia. Mettiti in ginocchio: con le spalle erette, le brace rilassate; se impari a far pregare anche il corpo la tuapreghiera sarà più attenta. Incomincia col segno di croce fatto bene: toccando fronte consacrando al Padre i tuoi pensieri; toccando, il petto consacrando a Cristo il tuo cuore, la tua capacità di amare; toccando le spalle consacrando allo Spirito le tue azioni, la tua volontà. Dividi la preghiera in tre spazi esatti: più la organizzi più inizialmente la rendi facile. o Il primo spazio dedicalo allo Spirito Santo, è Lui il maestro della preghiera; concentrati sulla presenza dello Spirito Santo in te. Dice Paolo: "Siete tempio di Dio, e lo Spirito di Dio abita in voi” (1 Cor 3,16) Prova a dialogare con lui, prova a esprimergli un problema difficile che hai tra le mani. Invocalo con fede: "Vieni Spirito Crea tore !" o Il secondo spazio dedicalo a Gesù. È preghiera d’ascolto, prendi tra le mani il Vangelo di questa giornata o i brani di Parola di ti sono stati presentati nella riflessione e prova a leggerli con calma: è Gesù che ti parla personalmente. Attraverso questa Parola: "Si gnore, che cos a vuoi da me?" "Signore, che cosa disap provi in me?" o Il terzo spazio dedicalo al Padre. Ama! Sta' in silenzio davanti a Lui, sei immerso in Lui: "In Lui viviamo, muoviamo ed esistia mo" (Atti 17,28). Ama! Aiuta il tuo silenzio, se è necessario, dicendo "Pa dre mio, mio tutto!" Non terminare la preghiera senza qualche decisione concreta da attuare al più presto, perché l’amore è un fatto e la preghiera deve portarti all'azione Concludi con un pensiero a Maria SS., implora con un'Ave Maria la grazia di imparare a pregare ed amare con costanza. 33 GUARDINI 233 3. Vita di preghiera80 3.1 Vita nello Spirito: cos'è? 9.1 Accettazione35 81 Dono dello Spirito per la vita della Chiesa Non sono le opere ma il modo d’essere Riconoscere e confessare Dio presente nella storia e nell’uomo Ispirare la propria vita nella logica della carità Affermare nella storia il primato della persona Lo Spirito conferisce una prospettiva diversa alla visione solita della fede Lo Spirito porta felicità nella fede a cui ci si deve abbandonare La Spiritualità è: Coscienza di essere figli di Dio La nostra vita è un mistero di cui si deve scoprire il senso Provare a vivere come veri figli di Dio Felicità = libertà = uscita dal mondo = assomigliare a Cristo Invocare lo Spirito Santo per mezzo di Maria che da sempre ha creduto nella Sua potenza Lo Spirito è presente sempre nella storia attraverso l’uomo, ogni individuo agisce in virtù dello Spirito, ogni cristiano per la prima volta nel Battesimo che ha un valore totalizzante La vita consacrata: Dallo Spirito Santo, lo Spirito ti rende Sua proprietà esclusiva Per il Regno di Dio, per una missione particolare Nella sequela di Cristo 80 81 CEI, Principi e norme per la liturgia delle ore, Roma 1983. VECCHI J. E. Spiritualità Salesiana. Temi fondamentali, LDC Torino, 2001, pp. 9 – 21. RUPNIK M. I., Nel fuoco del roveto ardente. Iniziazione alla vita spirituale = Betel brevi saggi spirituali 2. Lipa, Roma, 1996, pp. 573. 232 Se qualcuno mi domandasse: Io vorrei avanzare nella vita morale; dove devo cominciare?, risponderei: Dove vuoi. Puoi cominciare da un difetto di cui ti sei reso consapevole nella vita professionale. Puoi iniziare dalle esigenze della vita sociale, della famiglia,dell'amicizia, là dove hai osservato una tua lacuna. Oppure hai capito il punto debole d'una tua passione, e puoi cercare di venirne a capo. In fondo ciò che importa è soltanto che tu sia leale e che in qualsiasi punto ti metta all'opera con decisione: allora una cosa tira l'altra. Perché la vita dell'uomo è un tutto; se egli incomincia decisamente da una parte, la sua coscienza si desta e la sua energia morale si rafforza anche verso le altre parti, allo stesso modo che un difetto in un punto dell'esistenza incide in ogni suo punto. Ma se colui volesse ulteriormente domandare: Che cosa costituisce la premessa di ogni proposito morale veramente efficace, per rettificare storture, fortificare fragilità, riequilibrare eccessi?, allora gli si dovrebbe rispondere, io credo: E’ l'accettazione di ciò che è; l'accettazione della realtà; della realtà tua, delle persone che ti stanno intorno, del tempo in cui tu vivi. Tutto ciò suona forse teorico, ma è non soltanto giusto, bensì degno della viva attenzione d'ogni spirito lealmente impegnato; giacché non è affatto ovvio che noi accettiamo anche intimamente con prontezza di cuore ciò che è. Ora si potrebbe un'altra volta obiettare e dire: Ma questo è un modo artificioso di pensare. Ciò che è, è sia che lo si “accetti”, o no. A prescindere pure dal fatto che un atteggiamento simile e comodo e rende passivi. Vogliamo allora anzitutto mettere in chiaro che qui non si tratta d'un passivo e debole subire tutto, ma si tratta di vedere la verità e di disporsi a suo riguardo, risoluti naturalmente alla fatica e, se necessario, alla lotta per essa. Tutto ciò è anzitutto veramente umano. Un animale è immediatamente identico a se stesso. Diciamo più esattamente: per un animale non esistono domande. E’ come è, inserito e risolto nel proprio ambiente. Di qui l'impressione di “naturalezza” che l’animale ci fa: esso è tutto quanto come deve essere in rapporto alla sua essenza e alle condizioni ambientali. 35 113 GUARDINI R., Virtù…, oc, pp. 33-44. Con l'uomo le cose non stanno così. Egli non si risolve in ciò che è e in ciò che esiste riferito a lui. Egli può porsi in distanza da se stesso e riflettere su se stesso; può giudicarsi; può desiderarsi al di là di ciò che è in direzione di ciò che vorrebbe o dovrebbe essere. Può perfino fantasticare di sé realtà o ideali impossibili. Nasce così una tensione fra l'essere e il desiderio, la quale può diventare un principio della crescita, purché l'individuo in questione abbia davanti a se un’immagine di se atta a essere assunta in ciò che egli realmente è. Ma da questa tensione può generarsi una frattura negativa; una fuga dalla propria realtà; una esistenza fantasma che sorvola sulle possibilità date, come pure sui pericoli incombenti Questo si voleva intendere quando si diceva che ogni serio ed efficace proposito morale doveva cominciare con l'accettazione dell'esistenza come essa è. 2. Il Credo, approfondimento dei contenuti della fede CCC 198-1065 Cerchiamo di capire il significato di tale accettazione con una più precisa consapevolezza dei contenuti di essa. Tali contenuti sono io anzitutto a costituirli. Giacché io non sono un uomo in genere, ma quest'uomo determinato. Ho questo carattere e nessun altro; questo temperamento fra tanti; queste energie, debolezze, possibilità, limiti. Ecco quanto io devo accettare ed ecco ciò su cui io mi devo porre come sulla base prima della mia vita. Tutto ciò, ripetiamo, non è affatto ovvio, esiste anche appunto – il che getta un'acuta luce sulla finitezza del nostro essere – la nausea di se stessi, la protesta contro se stessi. Dobbiamo un'altra volta pensare che l'uomo non è come l'animale tutto concluso in se stesso, ma può librarsi sopra di sé. Egli può farsi delle idee su come gli piacerebbe essere, e quanti ce ne sono che vivono come avvolti dentro aloni di sogno invece che nella coscienza della propria realtà. Conosciamo anche quell'attività strana per mezzo della quale l'uomo cerca di sgusciar via da ciò ch'egli è: il travestimento, la maschera, il gioco. Non parla forse da tutto ciò il desiderio, vano ma di continuo ritornante, d'essere altri da quello che realmente si è? Insorge così l'imperativo, rigoroso ma arduo da eseguire, di voler anche realmente essere quello che si è, convinti che là dietro sta non una sorda necessità di natura e non una maligna contingenza, ma una indicazione (Zuweisung) che viene da una eterna sapienza. Si vuol dire con questo che io devo accettare non solo le forze che possiedo, ma anche le debolezze;non solo le possibilità, ma anche i limiti. Giacché così stanno le cose con la nostra strana natura umana: che quanto ci porta e ci innalza anche ci opprime; che quanto ci garantisce anche ci minaccia. A ogni struttura d'essere appartiene il positivo, ma anche il negativo, e non è possibile evadere da tale situazione. 114 231 1. Il progetto di vita “Una delle forme concrete per esprimere la propria responsabilità nella formazione è avere il progetto personale di vita” (Ratio, n.216) Cfr CERERDA, il progetto di vita personale E’ una grande saggezza che noi conquistiamo imparando tutto ciò: che non si può evadere dai dati fondamentali dell'essere ma che dobbiamo accettare la situazione in tutto il suo complesso. Questo non significa che si deve prendere per buono tutto e tutto lasciare come sta, assolutamente no. Io posso e devo lavorare, plasmare e migliorare me stesso e il mio carattere, ma anzitutto dire sì a ciò che è, altrimenti tutto si falsifica. A chi ha il dono d'una intelligenza attiva e precisa, d'un occhio pratico, d'una mano decisa è interdetta una fantasia creatrice e la bellezza del sogno, che appartengono invece all'attitudine artistica. A questa invece sono assegnate, come contropartita dei suoi propri doni, le ore oscure del vuoto interiore e della desolazione, e una difficoltà di adeguamento al mondo reale e ai suoi calcoli. Chi ha sentimento profondo per sentire la felicità della vita deve affrontare anche la sua infelicità. Nessuno può pretendere di tenere per sé l'una e di buttar via l'altra cosa, ma deve, se vuole essere fedele alla realtà, dire di sì al quadro totale della propria esistenza. Chi ha un carattere freddo e perciò corazzato contro i dispiaceri non sa però nulla delle grandi estasi ed ebbrezze della vita. Ciò non significa, un'altra volta, che si debba dire buono quello che buono non è. Il brutto è brutto, il cattivo è cattivo, e l'odioso deve essere chiamato odioso. Ma ogni sforzo che voglia sviluppare il buono e vincere il cattivo si fonda anzitutto sulla presupposizione che si deve prima riconoscere ciò che è. Quanti sono quelli che si fabbricano un fantasma di se stessi e si ingannano passando sopra a cose che pure in essi esistono! Vanno in furia quando si richiama la loro attenzione verso un loro difetto e fanno grandi meraviglie quando qualcosa a loro non riesce. Il principio d'ogni proposito e conquista morale sta nel riconoscere ciò che è; anche gli errori e i difetti. Soltanto se io decido lealmente di portare il peso dei miei difetti, giungo alla serietà e solo in un secondo tempo può allora cominciare il lavoro per un superamento. Bisogna anche accettare la situazione esistenziale come ci è stata assegnata. Si possono certamente cambiare e migliorare molte cose e si può rendere questa situazione conforme ai nostri desideri; e tanto più quanto più risoluti sono questi desideri e più ferma la mano che li vuole realizzare. Ma in fondo a tutto rimane l'impostazione (Ansatz), quel primo gradino che si è fissato fin dai miei primi anni e che determina tutto il seguito dell'esistenza. Gli psicologi dicono che già con il terzo e quarto anno sono date le determinazioni fondamentali d'un bambino. Esse passano tutte nella vita successiva, unitamente agli influssi che le persone dell'ambiente, il gruppo sociale, la città o la campagna hanno esercitato su di lui. Anche l'epoca storica in cui vivo e penetrata in me di continuo vi penetra: gli avvenimenti, le situazioni,le possibilità e le limitazioni sue. Tutto questo io devo per prima cosa accettare se voglio accingermi a cambiarvi 230 115 Un passo più avanti e siamo all'accettazione del destino. Il «destino» non e il caso; implica una consequenzialità, definita anzitutto esteriormente da concatenazioni di eventi, ma anche interiormente dalla natura della persona in questione. Nella vita d'un uomo mediocremente dotato non si verificano né i trionfi, né le catastrofi che toccano all'uomo geniale. A un carattere amministrativo e organizzativo non succedono gli smarrimenti che colgono invece l'artista, allo stesso modo che costui non esperimenta nella vittoria e nella sconfitta ciò che vi esperimenta chi e nato per la conquista e l'esercizio del potere. La natura propria d'un uomo e, in tal modo, come un setaccio che lascia scorrere certe esperienze e ne ferma certe altre. Le disgrazie stesse che ci colpiscono – per esempio un fulmine che ci cade sulla casa – sono diverse se colui a cui la casa appartiene perde il proprio controllo e viene coinvolto nella rovina o se invece e capace di autodisciplina e di resistenza. Si può cosi in qualche modo dire che a ciascuno e stato assegnato per mezzo del suo carattere un abbozzo del suo destino. Non è una necessità fissa; vi contraddice il fatto della libertà, la quale di continuo partecipa, nel piccolo e nel grande, alla elaborazione d'una vicenda umana, ma è una direzione, un carattere radicale, spesso una verosimiglianza di un certo processo. Ma un'altra volta ciò che importa è che l'uomo accetti il suo destino, per poi tanto più decisamente impegnarsi a guidarlo e a plasmarlo. La vita dell'uomo moderno è dominata da una concezione che e il controgioco dell'angoscia sempre latente nei suoi nervi: dall'idea di potersi garantire contro i pericoli crescenti. E possibile realmente far molto in questo senso. E possibile, per fare un solo esempio, calcolare quanto sia grande in una certa professione la probabilità d'una vita lunga, e quanto grande in un'altra la probabilità di una disgrazia; e con tanta maggiore precisione in quanto possiamo disporre di macchine le quali eseguono il lavoro che prima non si poteva controllare in ogni suo punto. Tuttavia contro la stessa vita non ci si può assicurare, ma la si deve accettare con tutto ciò che essa implica nelle grandi e nelle piccole cose, nelle possibilità di disgrazia o di fortuna. Accettare il destino significa infondo accettare se stessi e cimentarsi con se stessi. L'idea ha trovato la sua forma paganascettica nel concetto dell'amor fati: l'amore, generato dal dispetto, verso il proprio destino; e la sua forma cristiana nell'affermazione della vita 116 Dimensione spirituale qualche cosa. Quanto ciò sia essenziale lo si percepisce dagli atteggiamenti di coloro che non lo fanno e che invece cercano di evadere dal proprio tempo: nel passato, come i romantici che trovano presente sempre spoglio di attrattive e bello solo ciò che è stato; oppure nel futuro, come gli utopisti che vivono solo in ciò che sarà e gli danno di continuo la caccia. E sempre l'accettazione del reale che fonda la lealtà dell'esistenza. 229 Strumenti Formazione settimanale (2 incontri max) Il quotidiano colloquio personale revisioni comunitarie lavoro sull’autobiografia stesura (memoria biblico-affettiva) sottolineatura delle relazioni familiari accompagnamento dello psicologo prefigurata dalla propria personale natura, nella fiducia che tutto si fonda su prescrizioni o assegnazioni divine. L'ordine logico dei nostri pensieri porta ancora oltre: non soltanto a difenderci dal dolore e dalla sventura, oppure, se non è possibile sviarli, ad affrontarli coraggiosamente, ma ad accettare la loro amarezza. Bisogna essere stati educati alla scuola di Cristo per essere capaci di ciò, poiché la nostra natura si comporta diversamente. Essa protesta contro il dolore, e contro questo non c'è nulla a tutta prima da obiettare, tanto più che esiste anche un consenso al dolore che nasce dalla debolezza, anzi esiste anche una ricerca morbosa di esso. Ma il puro e semplice rifiuto perde il significato che il dolore ha nella vita: giustamente capito e sostenuto, esso approfondisce la vita, la purifica, porta l'uomo in una superiore unità con se stesso in quanto egli si unisce alla volontà divina che sta dietro ogni accadimento. Anzi il dolore stesso può in tal modo farsi pin leggero. Se un uomo e alle prese con un amaro dolore – corporeo o spirituale – e gli riesce di eliminare la ribellione e di abbandonarsi entro di esso, allora tutto il peso si trasforma, ed egli esperisce una liberta profonda, la liberta nel dolore. Un'ultima cosa infine. L'auto-accettazione significa che io sono d'accordo di esistere, in senso puro e semplice. Questa affermazione suona strana a quelli a cui le cose vanno bene, perché allora si vive e si avanza nel proprio essere e agire e non si pensa altro. Ma vengono anche altre ore, le ore della sventura, dell'insuccesso, della noia; allora si apre una frattura fra me e me stesso. Io non mi sono trovato davanti alla possibilità della mia esistenza e non ho io deciso di volere essere, ma sono stato collocato nell'essere. Sono uscito dalla vita dei miei genitori, dalla vita dei miei antenati, dalle contingenze del tempo. L'evento della mia nascita mi ha detto: Ora tu sei. Vivi dunque te stesso! In certi momenti; uno può avere l'intima percezione di quale grazia sia poter esistere, poter respirare, sentire, fare. Ma può anche succedere il contrario, e ad esempio, la parola che definisce l'esistenza può allora suonare a qualcuno non come “esaudimento”, ma come “imposizione”. Quando le forze scemano, le cose ingrigiscono, i doveri opprimono; in tempi di lenta malattia e di lunga indigenza, in ore di scoraggiamento o di malinconia, può insorgere la protesta: io non sono stato interrogato. Non ho voluto essere. Perché devo? Allora si sente che dover essere potrebbe essere una pretesa impostaci, e che accettare l'esistenza può essere un atto da realizzare a grande profondità. Poiché essa potrebbe essere anche respinta: in una maniera stanca e ottusa quando l'uomo si trascina a vivere con l'alzata di spalle della rassegnazione; ma anche con atti disperati, giacche il numero di coloro che si tolgono la vita e spaventosamente grande e sembra aumentare. Il numero di coloro per i quali il dono dell'esistenza e diventato un peso che non sono disposti a 228 117 portare; o forse anche semplicemente non lo possono,perché nessuna fede e nessun amore insegna loro a capire l'arduo enigma. In tutto ciò non esiste via d'uscita con motivi unicamente umani. Questo andava detto gia all'inizio delle nostre considerazioni. Giacche quando noi riflettevamo che non siamo noi a darci l'esistenza, ma che la riceviamo, la prima domanda sarebbe dovuta essere: Da chi? E la risposta sarebbe stata: dai genitori, dalla situazione storica, dagli antenati. Ma in definitiva, e attraverso tutte le mediazioni intermedie, da Dio. Non potremo perciò mai realizzare l'accettazione – quella autentica – se non si viene in chiaro da che cosa dobbiamo accettarla, questa nostra realtà:dall'oscurità dei processi naturali, dall'insensatezza del caso, dalla malizia d'un demone, oppure dalla pura sapienza e dal puro amore di Dio. E vogliamo di continuo richiamare alla nostra coscienza che la rivelazione di Cristo, che fa da fondamento a ogni altro suo atto, fu di rivelarci gli atteggiamenti e i sentimenti di Dio a nostro riguardo. L'accettazione autentica e possibile unicamente in ordine a un'istanza di cui ci si possa fidare, ed essa è il Dio vivente. Quanto più ciò che dobbiamo accettare tocca da vicino la nostra vita, quanto più esattamente l'accettazione importa un superamento di noi stessi – un “lasciarsi calar entro” come dicevano i maestri spirituali del medioevo; un abbandonarsi nell'intimo di ciò che e – tanto più io ho bisogno di sapere di che genere sia l'onnipotente pensiero che si rivolge a me. C'è una domanda, senza dubbio sciocca, ma che ha bisogno d'essere espressa, poiché essa ci aiuta a penetrare meglio nel nostro rapporto con questo Dio troppo più grande di noi: Sa davvero Dio ciò che pretende da noi, Lui che non ha destino, dato che non c'è potenza che possa imporGli nulla? Le sue disposizioni non vengono forse sempre, se così si pub dire, «dall'alto», olimpicamente, dalla serena freddezza dell'essere assolutamente intoccabile? Qui la rivelazione ci parla d'un mistero, confortante quanto incomprensibile: che Dio in Cristo ha deposto tale intoccabilità. Con l'incarnazione Egli è entrato in quello spazio che forma per quelli che ci vivono un'unica catena di destino, cioè nella storia. Quando l'eterno Figlio e diventato uomo, lo è realmente diventato, senza difese né privilegi; e diventato vulnerabile da parte di cose e di parole; intessuto come noi nella fittissima trama delle vibrazioni e delle influenze che s'irradiavano dallo smarrito cuore umano. Anzi,la condizione era un'altra volta diversa ancora, giacché un uomo viene colto da tali irradiazioni tanto più duramente, quanto più il suo spirito e grande, profondo il suo cuore e viva la sua vita. Avere destino vuol dire appunto soffrire; quanto più uno e capace di dolore, tanto maggiore si fa nella sua esistenza l'elemento del destino. Quali catene di 118 17.4 Lettura e critica della situazione odierna 79 17.5 Attenzione alle problematiche giovanili - Attenzione quotidiana ai giornali condividendo nelle buona notti gli articoli, le riflessioni, le emergenze sulla realtà dei giovani. Attenzione alle realtà personali e di gruppo dei ragazzi con cui si opera, rileggendo le loro storie, le modalità espressive, le fatiche e le modalità nostre di intervento rispetto a questi dati. 79 VECCHI J.E., “Io per voi studio” (C 14). La preparazione adeguata dei confratelli e la qualità del nostro lavoro educativo, ACG 361, Ottobre-Dicembre 1997. 227 – povere capacità di relazione e intimità; goffaggine con i coetanei (specialmente, ma non solo, in persone molto introverse). La tendenza a usare Internet e le attività del sesso virtuale serve a evitare il disagio di tentare la socializzazione con i coetanei, "connettendosi" in modo più "sicuro"... ma si tratta di una connessione illusoria; – una storia di difficoltà sessuali irrisolte, compresa la mancata integrazione dell'identità sessuale, e/o di un trauma sessuale; – qualche forma di depressione (sensazioni durevoli di depressione, calo di energie, ansietà). L'esperienza soggettiva di sentimenti negativi e di abbassamento di energia può rendere difficile ad alcune persone la capacità di connettersi efficacemente con gli altri, e può portarli a cercare sollievo, stimoli, diversione dal loro umore negativo attraverso il sesso virtuale; – una vita spirituale impoverita. Molte persone che lottano con la dipendenza dal sesso virtuale stanno sperimentando in qualche misura una forma di distanza, di alienazione da Dio, a causa di una vita d'intimità con Dio poco curata, a volte derivante da capacità relazionali scarsamente sviluppate. Quanto detto non deve essere inteso come una demonizzazione di Internet. Piuttosto vuole aiutare a mantenere i piedi per terra, e favorire nelle persone un uso sano degli strumenti che la scienza moderna ha posto nelle nostre mani, senza ridurli ad essere un'occasione in più per costruirsi un mondo fantastico a parte, lontano dalla realtà. Chi cede a questo uso regressivo della rete, finisce per divenire sempre più restio a fare i conti con il mondo reale, a ritirarsi nella nicchia del mondo virtuale, dove può sentirsi libero di fare uso delle persone che lì incontra senza assumersi alcuna responsabilità di fronte a loro. Sarebbe utile parlare del problema nelle nostre comunità, che mai come oggi sentono farsi forte il vento dell'individualismo, favorito anche da un uso maldestro di strumenti della tecnologia. Una maggiore consapevolezza delle responsabilità relazionali insite nel valore della vita comunitaria e nell'azione pastorale, oltre che il valore della persona in quanto tale, chiede di essere realisti e non sottovalutare questo fenomeno. E. B. pensiero s'aprono allora! Quale culminazione sperimenta concetto! Il Figlio di Dio entra nella storia per espiare la nostra colpa e per portarci a una nuova grande possibilità. Ed Egli lo fa pronto ad accettare tutto quello che Gli sarebbe capitato, senza precauzioni, deviazioni, resistenze o astuzie! Gli uomini, i quali non hanno precisamente nessuna forza su Colui «a cui e stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», gli creano il più amaro dei destini; ma esso è la forma the la volontà del Padre ha assunto a suo riguardo. Egli stesso vuole questa volontà; eseguirla e il «cibo» della sua vita (Gv 4, 32). Così la pressione del destino diviene libertà. La libertà più alta e il dovere più grave si identificano. Si vedano le arcane parole pronunciate sulla via di Emmaus: 226 119 «Non doveva forse il Cristo patire tutto ciò e cosi entrare nella sua gloria? » (Lc 24, 26) Ora Dio non è “l’Essere assoluto” della pura filosofia, ma è Colui che è tale che la sua essenza più intima, cioè il suo amore, si esprime in questo fare di Cristo. E’ la sua signoria è quell'altissima libertà che è capace e che vuole realizzare tale fare. Soltanto da questo punto di vista e possibile comprendere e dominare l'esistenza. Non dal punto di vista di questa o quella filosofia della personalità e del suo rapporto con il mondo, ma della fede a ciò che Dio ha fatto, e in comunione con Lui. L'immagine che tutto riassume e la croce, come Egli disse: «Chi vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24). Ognuno «la sua»; quella che gli a assegnata. Allora il Maestro opera in lui il mistero della santa libertà. Per il cammino di interiorizzazione L’accettazione di sé può rischiare di essere o un esclusivo percorso individuale e vago o può trovare le sue tracce in alcuni semplici indicatori a cui prestare attenzione: La riconoscenza36 Verifico per un tempo prolungato (almeno un mese) nell’esame di coscienza serale per iscritto quali sono gli ambiti di costante lamentela o di irriconoscenza. Le dinamiche del confronto\scontro Quali sono le persone con cui metto in atto maggiormente un confronto\scontro che può diventare invidia o emulazione? Dopo aver fatto un elenco dettagliato colloco al loro fianco gli ambiti di invidia o emulazione? Verifico quale oggettiva lettura ho messo in atto e mi confronto su queste. Invidia – emulazione – riconoscenza – complementarietà: dalla mentalizzazione allo stile di vita. L’uso del tempo (che recupereremo successivamente) 36 106) CATERINA DA SIENA, Epistolario, Lettera a Neri di Landoccio (III, Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce. Carissimo figliuolo in Cristo dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a te nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedere spegnere in te ogni negligenza e ingratitudine. Però che negligenza non è senza ingratitudine. Perocché se l’anima fusse grata, e conoscente verso il suo Creatore, sarebbe sollecita, e non si lasserebbe fuggire il tempo fra le mani; ma con fame della virtù furerebbe il tempo. Voglio adunque, carissimo figliuolo, che col desiderio della virtù, o con gratitudine de’ benefici ricevuti, eserciti sempre il tempo, con umile e continua orazione. Altro non dico. Bagnati nel sangue di Cristo crocifisso, e permani nella santa e dolce dilezione di Dio. Gesù dolce, Gesù amore. 120 elaborare risposte, reazioni e sentimenti nel momento in cui si manifestano. E in una società già così individualistica e isolata non è salutare isolarsi sempre di più. Dato che molte persone che entrano in formazione devono ancora crescere a livello psicosessuale, un coinvolgimento con il sesso virtuale risulta fortemente controproducente, dal momento che priva delle condizioni necessarie per la crescita e l'integrazione. Il sesso virtuale isola le persone dal contatto sociale con i coetanei, elemento particolarmente problematico per individui che hanno problemi di personalità, ansietà, paure, limitate capacità di comunicazione sociale e di rapporto con il gruppo. A volte questo tipo di persone passano ore e ore davanti al computer anziché usare il loro tempo libero nello sforzo di relazionarsi in modo genuino, compromettendo così anche la testimonianza del valore della vita comunitaria. Il sesso virtuale rischia di depauperare sempre di più la sensibilità della persona per ciò che è sessualmente appropriato o problematico, e di compromettere la coscienza a proposito di ciò che riguarda la sessualità e la relazione. Ciò rende sempre meno capaci di rispondere adeguatamente alle proprie e altrui situazioni sessuali e relazionali, comprese quelle che avvengono in circostanze pastorali. Il sesso virtuale, in modo implicito ed esplicito, crea e sostiene il mercato della pornografia di ogni tipo, compresa quella infantile, con tutti i pericoli e lo sfruttamento che questo comporta. Va da sé che ciò costituisce una seria controtestimonianza dei valori evangelici e della giustizia sociale. I religiosi e i sacerdoti che fanno uso del sesso virtuale mettono le loro comunità e le loro diocesi in una posizione eticamente vulnerabile, dal momento che l'uso di siti pornografici può essere rintracciato dalle autorità competenti. Accanto al problema di questa dipendenza specifica, è bene ricordare che l'eccessivo uso del computer incide sulla salute fisica ed emotiva in generale, poiché contribuisce a una generale negligenza personale (riposo, attenzione, impegno nei propri compiti), e a dare un'attenzione insufficiente ad altre aree della propria vita: comunità, preghiera, riflessione, lettura spirituale, lavoro pastorale, relazioni interpersonali... Le persone a rischio Il lavoro clinico ha premesso di mettere a fuoco alcune caratteristiche di individui, religiosi e presbiteri, coinvolti in modo considerevole nella pratica del sesso virtuale. Gli psicologi precisano che l'inventario di caratteristiche da loro riportate non significa che ognuna di esse causi dipendenza: «vogliamo solo dire che persone con queste caratteristiche possono più di altre correre il rischio di rimanere coinvolte col sesso virtuale». Ecco le principali: 225 camera danno un senso di protezione, al punto che spesso alcuni passano ore e ore davanti allo schermo del computer. Ma quando si può parlare di dipendenza? «Il sesso virtuale diventa dipendenza quando un individuo lo usa per cambiare il suo umore, consapevolmente o inconsapevolmente». La dipendenza dal sesso virtuale non è molto diversa da altre forme di dipendenza: la persona si sente bene quando vive le sensazioni provocate da questa attività, e si sente depresso quando queste finiscono. Come il tossicodipendente, anche chi vive la dipendenza da sesso virtuale può cercare di smettere, ma senza grandi risultati: «per la persona dipendente dalla rete la realtà virtuale è divenuta la realtà». La dipendenza dal sesso virtuale inizia col guardare del materiale pornografico offerto gratuitamente e senza alcuna interazione con altre persone, e può progredire con l'iniziare a pagare per avere accesso ai siti pornografici con la creazione di un profilo dell'utente ed entrando in contatto con un'altra persona via e-mail. Un passo successivo potrebbe essere collegarsi con un'altra persona attraverso una comunicazione istantanea relativa a un'attività sessuale. Altro passo può essere di coinvolgersi poi nel fare uso di telefonate erotiche, finché si può giungere a incontrare realmente un altro partecipante per avere un rapporto sessuale. Questo comportamento finisce per interferire con il lavoro, la vita comunitaria, la preghiera, la relazione con se stessi e con Dio. E ciò causa sentimenti di disagio profondo, di colpa e vergogna che, a loro volta, possono divenire una motivazione per lasciarsi risucchiare ancora di più in questo vortice. Che cosa comporta? Negli ultimi anni il fenomeno è divenuto una realtà sempre crescente anche tra i consacrati. Formatori, direttori spirituali e superiori registrano questa realtà e non sanno come rispondervi. In base all'esperienza clinica gli esperti hanno identificato alcune tratti fondamentali di questo comportamento. Anzitutto l'attività legata al sesso virtuale alimenta un atteggiamento voyeuristico riguardo alla sessualità, che porta gli individui ad allontanarsi sempre di più dall'attitudine relazionale necessaria per una sana sessualità. Il sesso virtuale favorisce un'esperienza frammentata della sessualità, concentrata su determinate parti del corpo piuttosto che sull'interazione con la persona nella sua totalità. L'esperienza clinica ha registrato interessi e/o comportamenti ossessivi di tipo feticistico, che solo con un intenso lavoro terapeutico possono essere ricondotti a un'esperienza più integrata della propria sessualità. Il sesso virtuale isola sempre più la persona e la sua sessualità, poiché non comporta uno scambio diretto, un feedback oggettivo, l'opportunità di 224 Appendice - La riconoscenza37 Se l'idea espressa al principio di queste considerazioni a giusta, cioè che in ogni “virtù” – sotto un valore morale particolare di volta in volta quale dominante – tutto l'uomo si esprime, allora anche la storia dovrebbe avervi la sua incidenza, e dunque la storia d'ogni singolo come lo sviluppo culturale d'un popolo o di un paese. Non in tutti i tempi le stesse virtù determinano la posizione morale. Potremmo dire che esse sono come stelle che appaiono in certe epoche e che dominano il firmamento dei valori per poi a poco a poco retrocedere e lasciare lo spazio ad altre. Con questo esse non cessano di essere delle valide forme di valori, hanno ancora il loro influsso, dato che le epoche non sono mai divise le une dalle altre da un taglio netto. Solo che esse non stanno più alla ribalta della coscienza etica. Naturalmente possono in seguito, nel corso mutevole del tempo spirituale, riapparire ancora in primo piano. D'una di queste virtù che oggi, se vedo bene, sono in fase di declino vogliamo ora parlare, ossia della riconoscenza. Da quali criteri del giusto e del conveniente viene determinata la nostra vita moderna? Esiste in essa ciò che rende insomma possibile un ringraziamento, cioè un libero dare e ricevere come tratto caratteristico determinante per la vita sociale? Io credo di no. Naturalmente si dà e si riceve anche oggi, dovunque una persona voglia fare un piacere od offrire un aiuto a un'altra; ma tutto questo si e ritirato nella sfera privata, e perfino la si fa valere una sorta di organizzazione del dono, in rapporto con la nostra vita economica e society dei consumi, che distrugge la spontaneità. Pensiamo anche soltanto alla selvaggia mania dei doni nel tempo di Natale. No, ciò che definisce il sentimento generale non e la preghiera e il dono, ma una enunciazione di diritto e la sua solvenza, organizzata e controllata dall'autorità. E la risposta a tutto ciò non è il grazie, ma la ratifica che la cosa è in ordine. In questo c'è, francamente, anche molto di positivo: fatto cioè che le cose camminano in modo realistico secondo un ordine finalisticamente calcolato, e i valori personali non vengono costretti a inserirsi nel luogo a cui non appartengono. Vi influisce anche la crescente coscienza democratica della dignità personale di tutti gli uomini; il sentimento che quanto concerne il giusto ordine non può essere affidato alla necessità di pregare e a concessioni graziose, ma che le condizioni di necessità e miseria sociale dovrebbero essere superate in uno sforzo comune. Ma in questo modo si 37 121 GUARDINI R., Virtù…, oc, pp. 157-168 profila il pericolo che sparisca quanto c'è di vitale in ciò che si intende con le parole «pregare», «ringraziare», «dare» e «ricevere». Peggio ancora: c'è il pericolo che il modello meccanico si imponga come misura delle relazioni umane. Il complesso sociale e la sua vita appaiono come una struttura di funzioni in cui non si agisce sulla base di «prego» e di «grazie» – anzi forse neppure più sulla base di veri e propri diritti e doveri – ma secondo un funzionamento finalizzato. Nella misura in cui questa concezione si afferma, non c'è ovviamente più posto per la riconoscenza. Cerchiamo di porre a fuoco questa nostra virtù in lento declino. Domandiamoci quali siano i presupposti della sua possibilità. L'attenzione a questo fenomeno, apparentemente estraneo alla vita consacrata, può essere di grande utilità a tutti i consacrati e in particolare ai formatori. Inoltre la riconoscenza è possibile soltanto nello spazio della libertà. Io non ringrazio per il fatto che al mattino sorge il sole; detto scientificamente, per il fatto che la terra assume rispetto al sole la posizione che lo rende visibile a una sua porzione. Senza dubbio non possiamo svegliarci in un bel mattino con vivissime emozioni di gratitudine verso la bellezza e la magnificenza di un'aurora. Ma queste sono risposte della creatura umana a Colui che ha creato ogni cosa, o anche vibrazioni postume dal tempo in cui si adorava lo stesso sole come un nume. Del resto sono ormai note le formule astronomiche, e se io posseggo le informazioni occorrenti, so perché il sole deve «sorgere». Per questo io non ringrazio, allo stesso modo che non ringrazio la macchina quando ha ben funzionato. Anche in questo caso possono verificarsi trasposizioni di sentimenti. Se la mia automobile regge bene in una difficile situazione, io posso sentirla come una compagna che da buona prova di sé. Ma in realtà questa non è gratitudine. Se la macchina è costruita come si deve e come si deve viene adoperata, essa deve funzionare in modo corrispondente. Ma io non ringrazio pure quando esiste un diritto mio personale. Quando compero una certa merce ed essa mi viene consegnata, non ringrazio, saldo il conto: «ricevuto questo e questo» ... Se ho stipulato contratto sulla base del quale il Le coordinate del fenomeno Il fenomeno del sesso virtuale assume diverse forme: può consistere nello scaricare dalla rete immagini o storie di contenuto esplicitamente sessuale, impegnarsi in uno scambio di messaggi di posta elettronica esplicitamente sessuali prolungato nel tempo, guardare video di sesso esplicito offerti da siti pornografici, vedere o procurare immagini in diretta esplicitamente sessuali attraverso l'uso di una telecamera collegata al computer, conversare o condividere fantasie sessuali che possono culminare in forme masturbatorie o in un appuntamento per avere un incontro reale con la persona con cui si comunicava attraverso la rete. Caratteristica comune di queste attività – notano gli psicologi – è l'anonimato: i partecipanti non svelano la loro identità, ma si nascondono dietro nomi inventati, che non corrispondono a chi essi sono nella vita reale. Grazie a questo anonimato le persone spesso cambiano professione, età, interessi, ed esagerano gusti e avversioni sessuali. Il rischio di una progressiva alienazione dalla realtà è grande. Per molte persone questo uso della rete è divenuto un modo sicuro di esplorare le proprie fantasie sessuali nascoste, un nuovo modo di trattare i conflitti consci o inconsci nell'area della sessualità; ma finisce per creare «un mondo fantastico con le sue regole, norme, e consuetudini che è molto distante dalla realtà nella quale vivono. Le interazioni cibernetiche con altre persone sono limitate a un raggio ristretto, se paragonate con l'ampio raggio tipico degli incontri faccia-a-faccia, nei quali comunichiamo non solo con le parole, ma anche con l'intonazione vocale e i messaggi non verbali veicolati dallo sguardo, dal linguaggio del corpo, dagli abiti. Nell'ambito ristretto dell'interazione cibernetica c'è molto spazio per la proiezione, che alimenta la fantasia; c'è spesso un immediato contatto con un'altra persona, che può essere percepita come un'istantanea intimità». È un compito difficile gestire in modo adulto le proprie fantasie sessuali, sviluppare la capacità di parlare della sessualità in modo salutare, integrarla nella vita quotidiana. Nella rete è possibile oggi vivere il paradosso di avventurarsi ed esplorare un'area altamente relazionale come quella della sessualità, senza alcun bisogno di condividere realmente qualcosa con qualcuno. L'inganno è davvero enorme, e tanto più pericoloso perché utilizza la corsia preferenziale del mondo emotivo e istintuale. Questo tipo di utilizzo della rete, inoltre è circondato da segreti. «La maggior parte delle persone che lo praticano – annotano gli psicologi – non ne parlano con gli amici, in famiglia, con i membri della comunità, i direttori spirituali, o i superiori». L'anonimato, il silenzio e la solitudine della propria 122 223 Anzitutto una cosa: si può ringraziare soltanto una persona. Un «grazie» o un «prego» sono possibili soltanto fra un «io» e un «tu». Non si può ringraziare una legge, un potere, una assicurazione. Io lo posso fare per cortesia, quando per esempio mi viene consegnato l'importo pattuito, affinché tutto scorra nello stile d'un'educazione civica; ma non si può parlare d'un vero ringraziamento poiché questo è l'espressione d'un incontro personale in una necessità dell'esistenza. Invece due persone, di cui una a nella situazione di avere o di potere, e l'altra invece non ha o non può, sanno gli occhi negli occhi l'una di fronte all'altra. L'una prega e l'altra è pronta; l'una dona e l'altra ringrazia, e le due sono congiunte dalla dimensione umana. Allora è possibile il «grazie», e dimostra d'essere una forma fondamentale della comunione umana. Le mete coscienze o inconsce Le mete scelte o quelle fornite Il taglia\incolla comodità e velocità vs la fatica dell’elaborazione della propria interiorizzazione I blog (diario o confessioni virtuali) e le chat (relazione continua fra evidenza e nascondimento): per non guardarsi in volto? 13.3.1 Internet: i rischi della rete. Una nuova forma di dipendenza78 Pregi indiscutibili e rischi sempre maggiori nell'uso della rete. Si registrano nuove forme di dipendenza che vanno dal gioco d'azzardo allo shopping compulsivo, dal pettegolezzo delle chat-line alla ricerca di compagnia e di affetto, fino alla dipendenza dal sesso virtuale. Un fenomeno che interessa anche i consacrati. Da alcuni anni Internet – una rete globale di computer (World Wide Web), chiamata anche Web – è la nuova realtà della comunicazione. Attraverso la rete si può essere in collegamento con ogni parte del mondo: chiunque può leggere, ascoltare suoni, guardare immagini e video, entrare in contatto e scambiare messaggi con ogni persona collegata nella rete. L'accesso alla Web richiede poca spesa ed è quasi sempre disponibile. Il vantaggio di questo strumento, anche per religiosi e sacerdoti, è indubbio: si ha accesso immediato a un mondo di informazioni che possono favorire le conoscenze, gli studi, il ministero; con un semplice click si può comunicare immediatamente con altre comunità, con amici e familiari... Ma, come sempre, assieme ai pregi ci sono gli inconvenienti: gioco d'azzardo, shopping compulsivo, pettegolezzo sconsiderato e giochi di seduzione nelle chat-line, ricerca di compagnia e di affetto ad ogni costo, siti pornografici e sesso cibernetico (o virtuale)... Tutti fenomeni che sembrerebbero marginali, ma che alcuni psicologi – basandosi sull'esperienza clinica – considerano molto più diffusi di quanto si pensi. In questo articolo prendiamo in considerazione soprattutto il fenomeno del sesso virtuale, cioè quella ricerca di siti che offrono materiale pornografico, o di contatti attraverso la posta elettronica (e-mail) o le chat-line (un sistema di comunicazione in tempo reale che può simulare una chiacchierata). Una ricerca che col tempo rischia di diventare compulsiva, per cui può essere considerata una vera e propria forma di dipendenza. 78 222 Tratto da “Testimoni”, EDB, Numero 11, 2001, pag. 4. partner s'impegna in qualcosa, in seguito io non lo ringrazio ma dico: «Tutto a posto». Ciò che va oltre è cortesia. Una vera riconoscenza si dà soltanto nel campo della liberta. Quanto più il sentimento per i fenomeni umani si trasforma in quello di un generale funzionalismo – questo tipo di autorità regola il traffico, quell'altro i rapporti di lavoro; in quest'ora precisa secondo le determinazioni legali deve verificarsi questo, in quell'altra quell'altro – uno spazio sempre minore rimane per quel libero schiudersi del cuore che dice: Ti ringrazio. Dove cessa la libertà, sparisce la gratitudine. Al suo posto succede la conferma che si è verificato ciò che doveva verificarsi. Una terza condizione per la possibilità della riconoscenza è la seguente. Colui che dona deve farlo con rispetto verso colui che riceve, altrimenti il suo senso dell'onore resta ferito. Non lo può fare con l'indifferenza; neppure può rappresentare la parte d'uno che dono. Un pericolo per tutti quelli che lavorano al servizio del prossimo è quello di voler sentire la propria posizione di potere; giacché colui che ha bisogno è come tale più debole di colui che aiuta; e se egli ringrazia per l'aiuto, riconosce con ciò stesso la sua debolezza. Tutto ciò rende la riconoscenza penosa. Se chi aiuta fa sentire la propria superiorità, la riconoscenza muore; al suo posto subentrano umiliazione e rancore. Più di un aiutato ha provato la tentazione di scagliare il regalo in faccia al donatore? Dunque tre condizioni importanti. La gratitudine si dà solo dall'«io» al «tu». Non appena sparisce la coscienza della persona e viene innanzi l’apparato, essa muore. La riconoscenza si dà soltanto nello spazio della libertà. Non appena si profila un obbligo o si accampa una pretesa, essa si fa assurda. E la riconoscenza si dà soltanto nell'onore. Se non si rende percepibile nessuna stima reciproca, essa degenera in mortificazione. Chi aiuta farà bene a riflettere su ciò. Merita d’essere chiamato aiuto solo quell'aiuto che rende possibile la riconoscenza. Un autentico pregare e donare, un autentico ricevere e ringraziare è Bello. E’ umano nel più profondo dei significati. E’ sorretto dalla coscienza che nel bisogno si è insieme, e che solo casualmente oggi ha bisogno questi e non quegli; questi può e non quell'altro. Domani potrebbe essere viceversa. Le necessità umane però non sono l'unico incentivo di riconoscenza; essa può spuntare ovunque un animo ben disposto percepisce un'occasione di procurare una gioia, di creare una bellezza, di illuminare la vita. Allora chi è stato rallegrato dice: Tu l'hai fatto, grazie! Questo è bello. E se la realtà vera è che la struttura della nostra vita consente spazio sempre minore alla riconoscenza, noi vogliamo cercare quello spazio dove ancora 123 esiste – e crearlo dove lo si può – con quella energia che non può essere spenta perché l'energia radicale del cuore, ossia con l'amore. Vorremmo a questo punto richiamare l'attenzione su qualcosa che alla luce di quanto abbiamo ora detto sembrerebbe un paradosso – e forse anche lo – ma quanti paradossi contiene la vita che e irriducibile alle formule! Si danno momenti in cui si sente il bisogno di ringraziare qualcuno semplicemente per il fatto che egli è: non soltanto perché egli ha fatto questo o quello, ma perché esiste. Un non-senso propriamente, giacché egli non si è certo fatto da sé. Eppure tale bisogno istintivo si prova. Forse esso è rivolto inconsapevolmente a Dio, giacché Dio e Colui che ha voluto che quella persona esista. Ma forse c'è ancora dell'altro. Giacché «essere» è per l'appunto un verbo e allude a un agire. Cosicché quel sentimento e forse rivolto a una «prestazione» non ulteriormente comprensibile ai nostri pensieri. Questa gratitudine circa l'essere ha nei riguardi di Dio un altro, misterioso significato. Nel Gloria della Messa non si dice forse: «Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa»? Gli storici ci informano, a vero, che questo «rendere grazie» – in latino gratias agere – appartiene alla lingua dei grandi cerimoniali ed un'espressione di omaggio: «Rendiamo omaggio alla tua grande potenza». Può essere; tuttavia significa di più d'una pura espressione di omaggio. E’ anche giusto ricordare che Dio non potrebbe non essere e che quindi non avremmo motivo di ringraziarlo perché è. Sul monte Oreb, Egli ha appunto detto a Mosè, che gli chiedeva il nome, che Essere era il suo nome (Es 3, 14). Ciò che per ogni essere finito è aggiuntivo – e non solo teoricamente ma realmente – e per Dio essenza, e sarebbe del tutto insensato appellarLo con le parole: «Tu, esistente!». Tutto questo è vero, e tuttavia! Nella ineffabilità della gloria sussistente di Dio sembra ci sia qualcosa che si vorrebbe chiamare libertà dell'essere: come se, per così dire, Egli ci regalasse fatto che Egli è. Come se il suo essere stesso fosse una grazia che Egli ci concede. Come se il suo essere fosse una «prestazione» al di là di ogni concetto e per la quale l'uomo gli dicesse un «grazie», il quale dovrebbe rapire in estasi se potesse essere realmente vissuto. E il lettore non si scandalizzi di questi pensieri, i quali non vogliono in realtà far altro che alludere oltre ogni realtà concepibile. Dare e ringraziare, due cose che tolgono l'uomo dalle condizioni funzionali della macchina, come pure dai sistemi istintivi dell'animale, sono in realtà per l'appunto l'eco di qualcosa di divino. Giacché fatto che il mondo in genere sussista e abbracci tale inesauribile immensità, non si capisce affatto per se stesso, ma il mondo è perché è stato voluto; è azione e opera. 124 17.2 Educazione alla corretta informazione76 17.3 Strumenti o strumentalizzati: internet e cellulare “Il problema non sta nel fatto di adoperare strumenti, ma nella capacità di esprimerci adeguatamente attraverso essi. […] Il modello nuovo pone in evidenza che i media non sono solo “mezzi”; comportano una cultura, una filosofia della vita, un’etica che reinterpreta e rilegge i valori, una spiritualità che richiede la sintesi su aspetti nuovi della vita umana e cristiana”.77 Il cellulare Dal pubblico al privato sino al nascosto (e non solo i numeri!). Invasività nei tempi e nei luoghi. Dalla comunicazione all’informazione () Dalla voce al messaggio (e solo a mezze parole!) Dal messaggio allo squillo (presenza\assenza) La libertà di comunicare in ogni luogo La libertà di comunicare in ogni tempo Il “creduto” controllo I “legami” (mai sciolti) della ricarica Alcune considerazione sull’apparecchio: telefono, fotocamera, telecamera, internet-poit…, solo questione di comunicazione? Mezzi fisici e muti che invece emettono messaggi anche prima che comunichiamo. Povertà ed uso dei mezzi? Internet Tutto (l’elogio della banca dati) e tutti (l’elogio di MSN e Skype) gratis Navigare per una meta (utilitarismo) o per curiosità (…) 76 POPPER K. R., Cattiva maestra televisione, BORSETTI G. [ed.], Marsilio, Venezia 20056,, pp. 128. 77 VECCHI J.E., La comunicazione nella missione salesiana. «è straordinario! Fa sentire i sordi e fa parlare i muti», ACG 370, Gennaio-Marzo 2000. 221 nella sintonia con la Chiesa; e si esprime nel discernimento degli avvenimenti, nel vaglio di fronte a Dio delle esperienze spirituali, nella comprensione delle situazioni e nel servizio di orientamento e guida degli altri. “Io per voi studio”: ci fa pensare anche a un Don Bosco capace di cercare i tempi e i luoghi che favoriscono la solitudine attiva, il raccoglimento e la progettazione. Sono i suoi tempi di preghiera, gli esercizi spirituali annuali, certe pause che gli permettono una maggior concentrazione, ma anche il suo lavoro d’ufficio dal quale venne una abbondante corrispondenza, concezioni di nuovi progetti e una produzione di scritti, tutt’altro che trascurabile. […] D’altra parte, “lo stile di vita evangelico – dice l’Esortazione Apostolica Vita Consecrata – è una fonte importante per la proposta di un nuovo modello culturale. Quanti fondatori e fondatrici, cogliendo alcune esigenze del loro tempo, pur con tutti i limiti da essi stessi riconosciuti, hanno dato loro una risposta che è diventata proposta culturale innovativa… Il modo di pensare e di agire di chi segue Cristo più da vicino, infatti, dà origine ad una vera e propria cultura di riferimento” 75. Essere consapevoli e testimoniare il valore e il senso della presenza di Dio nella vita, in un contesto culturale che non si spinge oltre l’orizzonte temporale e privilegia la funzionalità e l’utilità immediata, implica una profonda comprensione della propria identità consacrata e del suo valore educativo, così come una rinnovata capacità di inserirsi nell’ambiente come profezia e lievito. Ma proprio per questo ci si deve rendere consapevoli, personalmente e comunitariamente, attraverso il discernimento, la creatività e la coerenza, come, quando e dove applicare alcuni criteri che portano verso una espressione efficace della scelta fatta: assumere dell’ambiente quello che è legittimo, immettere in esso il nuovo che viene da Cristo, dare o ridare significato a quello che è ancora ambiguo, contestare quello che congiura contro la persona. […] Chi vuol impegnarsi nella nuova evangelizzazione deve rendersi capace di un confronto aperto, intelligente e propositivo con i nuovi fenomeni, capire le tendenze culturali, tentare l’annuncio nel cuore della vita, interpretare i nuovi linguaggi e codici di significato. VC 80 220 75 Nel pensiero attuale si ritrova un concetto che è da una parte indispensabile e dall'altra è una disgrazia, cioè quello di natura, inteso il termine in senso moderno. Esso significa anzitutto il complesso di tutto ciò che è immediatamente esperibile; la totalità delle cose ordinata secondo leggi universalmente valide nel modo come la scienza la indaga. Ma poi il concetto si fa eccessivo, si contrappone alla fede tradizionale e intende il mondo come realtà autointelligibile in cui si vive, si ricerca e si lavora, ma non ci si dà più oltre pensiero riguardo al suo fondamento. «Natura» è allora ciò che è; ed è come è e non può essere diversamente. In tale concezione muoiono le cose più nobili, poiché queste vivono del fatto che non sono per se stesse comprensibili, in quanto derivano dalla libertà. Mondo non è «natura», ma «opera»; opera di Dio. Esso è perché Egli l'ha pensato, è perché Egli vuole, dal mistero della sua libertà d'amore, che esso sia. Così il mondo è il continuo dono di Dio a noi. Anche il fatto che io sono è un continuo dono fatto a me stesso. Il fatto che io sia, e sia ciò che sono, che possa respirare, sentire, lavorare, tutto ciò non è affatto comprensibile per se stesso, ma è qualcosa degno di adorante meraviglia. Sapere ciò è una componente della coscienza fondamentale dell'uomo. Riceversi di continuo dalla mano di Dio è dunque anche ringraziare per questo è una componente dell'atteggiamento essenziale dell'uomo: dell'uomo reale, che sta nella propria autentica essenza. Sarebbe del tutto possibile che io non ci fossi, e anche del tutto possibile che non ci fosse il mondo. Quanto all'essenziale non mancherebbe niente, se io o se il mondo sparissimo, poiché Dio «basta». Forse questo è l'atto fondamentale di ogni religiosità: sapere ed essere d'accordo e confessare: «Tu Dio sei. E sei abbastanza. Ma tu hai voluto che io sia e grazie per questo». Questa è una preghiera che rimette di continuo l'uomo nel giusto. Cerchiamo di farlo: per esempio al mattino quando si esce freschi dal sonno, quando in qualche modo ci si riceve un'altra volta dopo che il sonno ci ha come portati via da noi stessi: «Signore, e buono quello che tu hai voluto, che io dovessi esistere! Ti ringrazio di poter esistere! ». Allora si annebbiano le false ovvietà e naturalezze, crollano i meccanismi dell'orgoglio culturale. Fra Dio e me tutto si rifà vivo, e le cose si rettificano. In seguito, nel corso della giornata, esse vengono di nuovo sopraffatte dal vortice delle volontà e degli accadimenti; ma esse c'erano pure al mattino e nel mattino seguente ci saranno ancora a rimettere un'altra volta in ordine l'esistenza. 125 Ma questi pensieri possono forse fare un altro passo avanti. Come stanno queste cose con Dio stesso? Ringrazia anche Dio? Noi rispondiamo a tutta prima: Che domande sono queste? A Lui tutto appartiene! Ma se noi vogliamo sapere quali sono i sentimenti di Dio, non possiamo metterci a tavolino a riflettere come debba essere l'«Essere assoluto», ma dobbiamo interrogare Lui stesso, ed esiste veramente un «punto», dove il suo cuore si rivela: questo punto e Cristo. Cristo ha ringraziato? Quando Egli in Samaria stava seduto alla fontana e chiese alla donna di dargli da bere, ed essa attinse l'acqua e porse il secchio, certa mente disse «grazie»! Oppure quando Lazzaro, Maria e Marta premurosamente lo ospitavano nella loro casa di Bethania, Egli ha pure ringraziato, in grazia e potenza. E quando al convito di Simone il fariseo, la donna disprezzata di Magdala arrivò, versò l'unguento prezioso sui suoi piedi e con la perfetta d'una penitente glieli asciugò con i suoi capelli, e il fariseo che si credeva giusto la criticò insieme con Giuda l'ipocrita, Egli pronunciò a riguardo di lei parole imperiture (Lc 7, 40 ss.). In quale misterioso amalgama stanno nelle sue parole la consapevolezza circa il pentimento e la remissione delle colpe di lei e il profumo dell'unguento e la bellezza dei gesti! In Gesù la riconoscenza era insieme debolezza e potenza. Egli era bisognoso di tutto; giacché era diventato uno di noi che, con tutta la nostra aria di grandezza, siamo pure bisognosi dei doni dell'esistenza dal primo all'ultimo nostro respiro. Ma Egli ha dato la sua risposta mentre guardava negli occhi e stringeva al cuore colui che amava. Chi può mai allora misurare le ripercussioni in Dio stesso d'un simile contatto? Chi può sapere – ammesso che si possa così parlare – che cosa Dio sente quando noi nei suoi riguardi non soltanto eseguiamo «doveri», ma doniamo amore? Quando la nostra piccolezza cerca di farsi magnanima verso di Lui? Allora c'è in Dio qualcosa a cui potremmo alludere da lontano con il termine di riconoscenza. Per un attimo almeno; poi tutto affonda nel mistero. Ma un giorno Egli ci dimostrerà come il nostro dono è stato da Lui ricevuto, e questo pure entrerà a comporre la nostra beatitudine. 126 17. Comun-i care: “mi interesso”73 realtà 17.1 Rettitudine di coscienza e apertura alla 74 L’esperienza di Dio è stata sempre pensata anche come una saggezza che illumina la vita dei singoli e dell’umanità, non solo con l’esempio morale, ma anche con lo sguardo sul mondo, il pensiero e la parola seppur semplici. […] Pensiamo a don Bosco ed alla sua capacità di guardare la realtà, quella giovanile in primo luogo, ma anche le vicende della Chiesa e la situazione del Paese, senza smarrirsi né lasciarsi condizionare, attento a valutare l’insieme secondo chiavi di lettura educative e pastorali proprie della sua vocazione. Pensiamo alla sua intraprendenza nel cercare risposte adeguate ai problemi; lanciare messaggi comprensibili, usando tutti i mezzi a sua disposizione; impegnarsi a diffondere, imponendosi il lavoro di raccogliere, ordinare e redigere, la storia sacra, quella italiana, la verità cristiana e una forma di letteratura popolare. “Io per voi studio”: richiama lo sforzo paziente di elaborare un “sistema educativo originale”, con materiali di sempre, intuizioni proprie, contributi di contemporanei e sintesi originali. Fa pensare pure alla messa in atto di un “progetto di opere” rispondente ai tempi. Egli ne segue il funzionamento e traccia con intelligenza e concretezza indicazioni e norme, attento allo stile che vi voleva immettere e al raggiungimento dei fini. Si dimostra capace di condividere, di confrontarsi, di entrare in dialogo con persone dalle più diverse esperienze e competenze, con protagonisti del pensiero, della politica, della vita sociale. Anche la formulazione pensata di una esperienza di vita nello Spirito, con cammini spirituali per giovani e adulti, presentati a parole e messi per iscritto, ha comportato quella applicazione della mente espressa nel “io per voi studio”. Era un imparare dalla vita, un riflettere sull’esperienza educativa, un andar avanti aperto alla verifica, senza accontentarsi di ciò che si è sempre fatto o cadere nella ripetizione. Era il desiderio e il paziente acquisto della “sapienza” (“Sapientiam dedit illi...”), indicata nel primo sogno come caratteristica della sua vita, che si impara alla scuola del Buon Pastore e di Maria Maestra, nella disponibilità allo Spirito, 73 CONSIGLIERE GENERALE PER LA FORMAZIONE, CONSIGLIERE GENERALE PER LA COMUNICAZIONE SOCIALE, Orientamenti per la formazione dei salesiani in comunicazione sociale. Contenuti e metodologie per le varie fasi formative, Roma, 24 maggio 2006 74 GRÜN A., Lacerazioni. Il cammino verso l'unità personale,EMP 2003. 219 Per il cammino di interiorizzazione Per il cammino di interiorizzazione 1. Il peso della vita lo sentiamo tutti è può coniugarsi secondo i termini della fatica, della prova e del male. Prova a verificare alcune situazioni pesanti che hai vissuto: dove, quando e perché hai ceduto nel momento della fatica? Dove hai sperimentato la prova e come ti ci sei rapportato (come l’hai letta e come oggi la vedi)? Dove hai sperimentato il male e che idea te ne sei fatto? 2. Nell’esperienza di Gesù la prova è il luogo dove si concentra di più la potenza di Dio. Come il Vangelo ti ha sostenuto e illuminato a superare la prova? Hai sperimentato i frutti di questa pazienza? Di fronte al peso immancabile della vita, come ti poni da cristiano: lo fuggi, lo rimuovi, lo scarichi sulle spalle degli altri, ne cerchi pervicacemente una giustificazione, oppure ti abbandoni fiduciosamente a Dio, consapevole che, alla luce del Crocifisso, questo è il luogo privilegiato della grazia? 3. Dio ti forma attraverso le prove che sono il suo scalpello sulla tua pelle! Prova a guardare a queste come al luogo dove Dio ti chiama a seguirlo sulla croce, perché questa è la vita cristiana. Cosa ti dice oggi la fatica del vivere in chiave vocazionale? Sei cosciente di essere prediletto da Dio e quindi originato da un’intenzione d’amore, oppure sei in fondo anche tu un convinto costruttore di te stesso, un homo faber suae fortune (con tutto quanto abita la tua vita?) Sei riconoscente per quello che sei e per quello che hai o ci sono cose di cui continui a lamentarti “mormorando” come il popolo d’Israele nel deserto, o come la stupida moglie di Giobbe? 218 127 10. Affettività serena Romano Guardini parlando delle età della vita evidenzia come “il giovane porta dentro sé un'infanzia vissuta bene o male; l'adulto, lo slancio del giovane; l'uomo maturo, la ricchezza delle opere e dell'esperienza dell'uomo adulto; il vecchio, il patrimonio della vita intera”.38 La prima stagione nel cammino mai concluso di maturazione affettiva è quella che porta il giovane a scegliere Gesù Cristo: una scelta per amore. Amore giovane vuol dire passione, sentimento intenso, a volte travolgente, sempre sincero e sicuro di sé, anche se privo dell'esperienza di vita. È il primo amore, fresco e ricco di vitalità, anche un po' idealista, forse, al punto da sembrare ingenuo e poco affidabile. Ma è normale e desiderabile che vi sia questa carica d'amore e d'idealita. Per tre ragioni. a. Anzitutto perché tale carica sembra corrispondere ai due tratti caratteristici della sensibilità giovanile: lo slancio vitale e l'inesperienza, cui sono connessi ben precisi atteggiamenti, come la fiducia assoluta negli ideali, il sogno di cambiare il mondo, il ripudio dei compromessi a fronte del difetto di oggettiva (dimensione che oggi sembra un poco smorzata) b. la carica data dall’io ideale che supera quello reale con tutti i rischi che esso comporta. c. si avverte un'attrazione profonda verso qualcosa di vero-bello-buono, qualcosa che si percepisce come intrinsecamente amabile e che di fatto si ama intensamente, poiché vi si riconosce progressivamente la propria personale identità. Il legame fra chiamata e maturità affettiva è strettissimo perché - si percepisce la propria vocazione primariamente come chiamata ad amare prim'ancora che a servire - e inoltre come legata a una proposta d'amore del tutto gratuita e imprevista, e a una risposta d'amore, senz'altro più grata che eroica; proposta e risposta che chiedono il massimo delle capacità affettiva. Tutto è segnato da un amore appassionato per Cristo causa e meta di ogni donazione vocazionale. Non esiste mistica senza una corrispondente ascetica, non è credibile un'ascetica che non abbia radici mistiche, per non cadere in un volontarismo frustrante o in una lotta sterile contro se stessi ed il mondo. È la follia dell’amore che pone scelte di esclusività, di elezione di totalità. 128 38 GUARDINI R., L’età della vita, Vita e Pensiero, Milano 2004. pensiero o in una libera calma. O si potrebbe chiudere la radio per avere un po' di silenzio in camera. 0 rimanere una sera a casa invece che uscire. 0 sapersi dire di no qualche volta quanto al cibo, alla bevanda o al fumo, e così via. Una volta che ci si è fatti attenti a simili possibilità, troveremo di continuo occasioni di «esercitazione» alla libertà: sopportare un dolore invece che subito eliminarlo con un calmante;accettare intimamente una rinuncia che ci risulta buona per qualche motivo; andare incontro con tranquilla cordialità ad una persona antipatica. Tali gesti e altri simili non sono grandi cose. Parlando di ascesi non occorre parlare di rigorosi digiuni, di veglie notturne, di aspre penitenze, ma semplicemente di allenamento a una vita corretta. Della verità che la nostra esistenza si comporta diversamente da quella dell'animale. Che essa e vita umana dove gli impulsi interiori vengono collocati dallo spirito in una magnifica ma anche rischiosa libertà. E’ questo spirito che conferisce loro tutta la loro dinamica. Deve perciò anche esplicare una potenza ordinatrice, quella per cui la vita non viene distrutta ma avviata verso la sua pienezza. 217 I profeti del vitalismo dicono che la vita non si può mutilare; che bisogna spremere tutte le sue possibilità e goderne. Se poi si domanda che cosa sia propriamente il contenuto di questa vita, il suo senso, la sua norma, essi rispondono: essa stessa, la «vita» forte, sentita, ricca. Ma è vero tutto ciò? La vita è essa stessa il suo senso a sua misura? Cosi parlano non soltanto gli uomini della strada, ma interi sistemi filosofici. Ma non è forse rivelatore il fatto che oggi abbiamo loro esatto contrario, ossia una filosofia della delusione e della nausea? Il senso dell'atto vitale non consiste nel godimento della sua propria forza e soddisfazione, ma nella realizzazione di ciò che è stato affidato all'uomo. L'uomo vive realmente e pienamente quando conosce la responsabilità sua propria; quando compie l'opera che lo attende; quando serve alle creature umane che gli sono state affidate. Ma riconoscere il giusto e sceglierlo, scartare il falso – questo continuo passo oltre i propri desideri nel dovere – ecco l'ascesi. Guardiamo infine a ciò che decide assolutamente del senso della nostra esistenza, cioè al rapporto verso Colui che ci ha creati, sotto i cui occhi noi viviamo e davanti a cui, dopo qualche anno su questa terra, dovremo apparire. Allora vedremo facilmente che non potremo realizzare tale rapporto senza disciplina e superamento di noi stessi. L'uomo non è spinto a Dio di forza. Se egli non vi si orienta da sé, se non prega mattina e sera, se non dà importanza ai giorni del Signore, alle domeniche, se non ha mai a portata di mano un libro che gli richiami qualcosa della «altezza, lunghezza, larghezza e profondità» (Ef 3, 18) delle cose di Dio, la vita gli scorrerà di continuo via lontano dai sommessi avvertimenti che da quelle cose discendono. E quando dovrà essere con Dio si annoierà, apparendogli la sfera religiosa come vuota. Conferenze, giornali, radio gli diranno che per l'uomo moderno i valori e i rapporti religiosi non sussistono più e si sentirà non solo giustificato,ma immerso nella corrente dell'universale progresso. Perché Dio ci divenga familiare in modo da trovarci con Lui volentieri e con il sentimento d'una presenza viva, è un'altra volta necessario – come per ogni serio interesse – l'«esercizio». Anche questo dev'essere sempre di nuovo voluto e compiuto con superamento di sé: allora la sua presenza si dona a noi in grazia. Dobbiamo così imparare a vedere nell'ascesi un elemento d'ogni vita giustamente vissuta. Faremo bene a esercitarci nel modo in cui, per amore della misura, si frena un impulso; nel modo come si può lasciare perdere ciò che è meno importante, ma allettante, per quanto è più importante; nel modo come ci si prende noi stessi in mano per essere spiritualmente liberi. Per esempio ci si potrebbe proporre – il lettore non scambi questa precisione per pedanteria – durante una passeggiata in città di non lasciarci attrarre da persone o da reclami, ma di contenere lo spirito in un buon 216 L’ascetica, rappresenta la traduzione, su un piano spirituale, del concetto di lotta, quale situazione di sviluppo dell'essere umano. Lotta necessaria e inevitabile, fondamentalmente, per una ragione psicologica ben precisa: per desiderare il bene reale occorre scoprire e abbandonare il bene apparente. Nelle prime fasi formative è forte una duplice dimensione: * la dimensione “drammatica” dove si deve con fatica: ric ono scere le pro prie imm aturità, di sap er reg ger e la solitudin e, di sap ers i opporr e alla per ver sa log ica del pia cere che mor tifica (= da la mor te) ecc… * la dim ens ione “an alg esica” che vor reb be togliere ogni for ma di fatica , rende ndo ci così vul ner abili soprat tutto in cam po aff ettivo . È nec essari a allora una discesa agli inferi della propria passionalità, della propria tendenza narcisista, del proprio bisogno di possedere l'altro, delle proprie schiavitù ecc., provoca, insieme alla sorpresa, una sofferenza che e sempre salutare. Un giovane può considerarsi sufficientemente maturo da un punto di vista affettivo-sessuale se sta progressivamente acquisendo le seguenti caratteristiche personali. A. Conoscenza di se e del proprio cuore. Ossia deve conoscere sufficientemente la sua interiorità tanto da aver individuato il qual è la sua area di maggior debolezza tanto da poter legare questa immaturità al percorso di crescita generale. È segno di maturità la disponibilità a farsi aiutare. Imparare ad imparare. È l’arte della docilità. Opposto invece è una certa pretesa di «far da se» o il non tirar mai fuori il problema affettivo-sessuale o la ambizione di conoscersi (che nasconde una sottile paura). B. Libertà affettiva e relazioni oggettuali totali. Non basta il sapere, occorre controllare l’immaturità affettiva, al punto da esserne progressivamente libero, nel cuore e nei desideri, nella mente e nella fantasia, nelle scelte e nello stile di vita. Immaturo invece è chi non sa vivere adeguatamente la tensione legata alla rinuncia dell'istinto sessuale o la sente come un sacrificio troppo pesante, come una tensione che toglie la gioia di vivere, o chi non sa imporsi una disciplina della vita affettiva perché non sa coglierne l'aspetto profondamente liberante. * libero di scorgere il positivo presente nella propria esistenza e di godere dell'affetto gia ricevuto dagli altri (┴ ingrato che ha sempre da lagnarsi della propria vita e di quanto non ha ricevuto) * libero di guardare anche al negativo provando in Cristo a dare una senso che vada al di là della superficie (┴desidera solo o soprattutto ciò che gratifica i suoi bisogni) 129 * libero con una identità positiva che non necessita di costanti relazioni compensative (┴bisogno di sentirsi importante per qualcuno o d'appoggiarsi a qualcuno) * libero è chi ama la propria vocazione con lo stile ad essa relativo (┴che aderisce ma senza un particolare entusiasmo o senza cogliere la bellezza e il gusto della sua scelta di vita; o ancora chi dimostra di non saper amare secondo la sua vocazione, con uno stile specifico legato ad essa) * libero è soprattutto colui che ha ferme due certezze strategiche: - la certezza d'essere stato amato, da sempre e per sempre, - e la certezza di poter amare per sempre. Più queste certezze sono forti e stabili, più il soggetto è libero affettivamente e in grado di scegliere d'esser celibe per il regno. l'incontro del primo amore comincia in assoluto quello che è il compimento dell'amore. Che un vero matrimonio può sussistere soltanto con l'autodisciplina e il superamento. Allora esso diviene autentico e capace di generare la vita e di avviarla nel mondo. Qualcuno impianta un'impresa, incomincia un lavoro o qualunque altra cosa comporti la sua professione. Pensiamo al caso migliore: che costui cioè si ritrovi nella professione che gli si attaglia; che gli sia consentito di fare ciò per cui è nato e che perciò lo faccia volentieri. Costui dapprima trova gioia in quello che fa e vi impegna tutte le sue forze. Ci sarebbe forse già bisogno che uno gli dicesse di mantenersi nella misura del possibile e di non forzare. Dopo qualche tempo, infatti, la tensione crolla, e tanto più improvvisamente quanto più impetuoso era stato l'inizio, ma i compiti continuano. Che cosa sarà di essi se ciò che regge il tutto non è che il «vivere totalmente se stessi», il piacere del lavoro, il gusto del successo? Ne segue anzi tutto indifferenza, ma poi subito disgusto e alla fine tutto precipita. Nessuna opera fiorisce se non esiste a suo riguardo una responsabilità, sulla cui base l'uomo compie il suo lavoro nella fedeltà e nel superamento di sé. La vita dell'uomo ha molti strati. C'è quello più superficiale, quello più profondo, quello essenziale. Ciascuno strato ha i propri bisogni, i suoi valori, ciò che gli dà pienezza e lo ricolma. Evidentemente non è possibile avere tutto in una volta. Bisogna scegliere; lasciar perdere una cosa perché un'altra possa essere. Guardiamo un'altra volta nella vita di tutti i giorni. Chi va spesso al cinema perde il gusto al vero e grande spettacolo, non è più in grado di capirlo. Egli deve quindi domandarsi che cosa vuole, e scegliere: scartare le superficiali attrattive dei film per poter essere in grado di esperire ciò che vale di più forse diventarlo ancora, oppure rimanere come prima e persuadersi che è quella l'arte del suo tempo, che egli ha bisogno di distensione, che dopo tutto un giorno di fatica non può pretendere da sé l'impegno che il teatro esige, e via dicendo. Chi legge molta inutile cianfrusaglia perde la sensibilità per le letture autentiche. Egli deve dunque ben chiarirsi che cosa è più importante per lui. Chi è di continuo in mezzo alla gente e discorre e discute, perde la capacità di essere con se stesso e di tutto ciò che là solo può rivelarsi. Un'altra volta: aut-aut. Più di una vittoria su se stessi sarà necessaria per venire a capo del caos che ci disperde. Se l'uomo vuole ricavare dalla vita che dura così pochi, così veloci anni, le cose preziose che essa può dare, deve sapere che ciò è possibile solo se egli rinuncia a ciò che vale di meno per avere ciò che vale di più. 130 215 Gli istinti fisici che emergono dall'organizzazione psico-fisica dell'uomo si presentano alla coscienza con una tale forza elementare che quelli spirituali vengono facilmente dimenticati. Ma in realtà questi,visti nella totalità dell'uomo, sono ancor più decisivi. La costruzione di ciò che chiamiamo la personalità, la sua autoaffermazione nel mondo, il suo agire e il suo creare: tutto ciò i regge su istinti spirituali. Esiste, per esempio, un impulso verso un proprio valore e ascendente personale, verso il potere in ogni sua forma. Esiste un impulso verso la compagnia e la comunità; verso la libertà e la formazione personale. Esiste il desiderio del sapere e del creare artistico, e via dicendo. Tutti questi istinti hanno, come s'è detto, la loro importanza in quanto spinte su cui si regge l'autoaffermazione e l'autoespansione dell'uomo. Ma essi hanno anche la tendenza a spingersi oltre la misura, a detorcere la propria vita dal rapporto con quella altrui e ad agire così in modo da turbare o distruggere. Perciò si rende di continuo necessaria una disciplina i cui punti di vista sono definiti dall'etica e dalla saggezza, e questa disciplina si chiama ascetica. Ma lasciamo stare le tesi generali e guardiamo alla realtà. Pensiamo, per esempio, a un'amicizia. Due persone si sono conosciute e hanno trovato gioia l'una nell'altra. Hanno scoperto armonie reciproche nelle loro opinioni e nei loro gusti, si è sviluppata una simpatia e ciascuno dei due ormai ha fiducia nell'altro. Essi pensano che il loro legame sia sicuro e lo vivono senza ulteriormente preoccuparsi. Ora ci sono in loro due, com'è naturale, anche diversità e queste a poco a poco si fanno sentire. Nascono malintesi, contrarietà, tensioni. Nessuno dei due cerca i motivi di tutto ciò la dove realmente esistono, cioè nella propria autosicurezza e trascuratezza, e di lì a poco ciascuno sente che l'altro gli da ai nervi. La calma fiducia di prima sparisce, e piano piano tutto si disgrega. Se un'amicizia deve durare, occorre vigilare su di essa. Ci dev'essere qualcosa che s'incarica di custodirla. Ognuno dei due deve consentire all'altro lo spazio per essere quello che è; ognuno deve farsi consapevole dei propri difetti e guardare a quelli dell'altro on li occhi dell'amicizia. Volere questo e sostenerlo contro la suscettibilità, la pigrizia, l'angustia della propria natura, è un'altra volta ascesi. Perché tanti matrimoni diventano opachi e vuoti? Perché in ognuno dei coniugi domina la concezione fondamentale che ciò di cui si tratta nel matrimonio sia la «felicità», ossia che ciascuno dei due possa adempirsi unicamente nel «vivere pienamente se tesso». In realtà un vero matrimonio è uno stare insieme nell'esistenza, a reciproca prestazione di aiuto e fedeltà. Matrimonio significa che «l'uno porti il peso dell'altro», come dice Paolo (Gal 6, 2). Perciò la responsabilità dello spirito deve vigilare su di esso. Sempre di nuovo l'uno deve accettare l'altro quale egli è;deve rinunciare a ciò che non può essere. Deve lasciar perdere quei film arsi e bugiardi, che distruggono la realtà del matrimonio, e sapere che solo dopo 214 10.1 Corporeità e vocazione39 10.1.1 Il corpo40 Il corpo è stato, lungo i secoli, il luogo del sospetto e dell'ambiguità, con una varietà di letture che non è facile armonizzare in teoria e in pratica. "Quale" corpo è oggi al centro di tanto interesse? che cos'è il corpo? e per farne che? […] c'è il rischio di uno smembramento, di una parcellizzazione del corpo, con la conseguente perdita del suo senso globale? Vedi le immagini pubblicitarie di prodotti specifici per alcune parti del corpo, vedi anche i settori specialistici della medicina. E non c'è pure il pericolo che l'attenzione ossessiva al proprio corpo personale, individuale, sgretoli la relazione con gli altri? […] Il nostro corpo, infatti, è soggetto prima e più che un oggetto; è soggetto non semplicemente del tatto e della vista, ma di tutte le nostre azioni e passioni. Antecedentemente a ogni riflessione, la realtà del corpo si impone: quando nasce, subito si distingue dalla madre, è oggetto di cura e di amore, si imbatte in altri corpi, e alla fine riconosce se stesso. Chi sono io? La risposta che do corrisponde a come comprendo il mio corpo, primo luogo di conoscenza di me e degli altri. […] Mi viene la tentazione di dire: io sono il mio corpo. Ma poi sento che, di fatto, dico: io ho un corpo. E questa ricchezza crea confusione. Il corpo mi definisce, mi limita. È sempre al centro del mio orizzonte di azione e di pensiero; tuttavia percepisco che mi mette in contatto con ciò che è "oltre" […] 39 Cfr. MARTINI C.M., Sul Corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000. MANICARDI L., Il corpo: via di Dio verso l'uomo, Qiqajon Comunità di Bose, Magnano 2005. MARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo il mio cuore…» (Ger 3,15). Sessualità, affettività e vocazione all’amore: un itinerario formativo, un cammino spirituale, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, pp. 98-115. ZATTONI M.T.-GILLINI G.-MICHIELAN M.-RESCHIGLIAN M., Che male c’è? La sessualità nella vocazione all’Amore, Ed. Porziuncola, Assisi 2007, pp. 781. 40 MARTINI C.M., Sul Corpo…, oc, pp. 131 Mentre è vivo, io sono lì dove lui è, anche se il mio cuore sa di abitare anche altrove, di abitare là dove desidera e ama. Per questo il corpo è continuamente inquieto e in ricerca. Che cosa cerca? La sua identità? la sua verità? Un vero enigma! Il mio corpo mi colloca in uno spazio e in un tempo, mi separa dagli altri e mi unisce, si muove e si arresta, è attratto e respinto, accende e spegne il pensiero. Si verifica per il corpo una certa coincidentia oppositorum. Fa tutto, ma tutto non è; è uno solo e ha bisogno di tutti; c'è, prima non c'era e poi non ci sarà; conosce ciò che è bello e buono, e conosce anche ciò che è brutto e gli fa male . Implicitamente e come spontaneamente il corpo è concepito in opposizione allo spirito, e per certi versi è così. Più profondamente, lo spirito è il respiro, la vita del corpo: fa sì che esso viva e viva in un certo modo. È lo spirito che fa essere un corpo ciò che è, che lo segna e lo differenzia. Posso dire che il mio corpo e in particolare il mio volto sono la sedimentazione e la storia del mio spirito.[…] Non è affatto scontato un rapporto pacifico con il proprio corpo che, sovente, suscita simpatia e insieme diffidenza. Lo si esalta e lo si denigra, lo si considera come un valore assoluto e lo si legge come carcere dello spirito, dominio della necessità, fonte di dolore. Fin dagli inizi la nostra cultura occidentale legge il "corpo" in contrapposizione ad "anima". Il corpo è ciò che abbiamo in comune con tutte le altre realtà terrestri; l'anima è ciò che ci distingue come uomini. Questa è la parte vitale e incorruttibile, dotata di intelligenza e libertà; quello è la parte mortale e corruttibile, soggetta a passioni e necessità. Per Socrate la morte non è altro che la separazione dell'anima dal corpo; l'anima esisterebbe da sola e sarebbe anzi bene che fin da ora si tenesse il più lontano possibile dal corpo (Fedone 64a). Platone, dal canto suo, pensa che l'anima si trovi unita al corpo accidentalmente, pensa che il corpo, in greco soma, sia la tomba, in greco sema, dell'anima, la prigione da cui uscire. In attesa della liberazione definitiva l'anima deve sottometterlo e governarlo per compiere il suo cammino di ascesa. A questa posizione spiritualistica, di disprezzo del corpo, si contrappone quella materialistica. L'anima è spiegabile in modo meccanico, come moto del corpo: il corpo e i suoi moti sono santi (Epicuro, fr. 130.414). Tra le due posizioni estreme e semplificatorie, mai tramontate, ce ne sono altre più sfumate e articolate. Comunque queste concezioni, con le successive spiegazioni e variazioni, stanno alla base della nostra comprensione occidentale dell'uomo. Tutto ciò è un avviso – per sottolinearlo ancora una volta energicamente – del fatto che l'istinto nell'uomo significa qualcosa di diverso che nell'animale, e che è insensato per noi uomini cercare nell'animale, e cioè nella natura pura, il criterio di giudizio sulla nostra vita. Ora, «ascesi» vuol dire che l'uomo si risolve a vivere da uomo. Da qui discende per lui una necessità che non si dà per l'animale, la necessità di contenere l'istinto in un ordine liberamente voluto e di vincere l'inclinazione all'eccesso o alla deviazione. Non nel senso che gli istinti come tali siano cattivi. Essi appartengono all'essenza dell'uomo e agiscono a tutti i livelli e in tutte le forme della sua vita. Essi costituiscono la sua riserva di energia. Indebolirli vorrebbe dire indebolire la vita stessa; ora la vita è buona. C'è una profonda corrente spirituale nella storia della religione e dell'etica, la quale scaturisce dal principio che l'istinto in quanto tale, la vita sessuale,la realtà corporea, anzi la materia, tutto ciò sia semplicemente cattivo, sia addirittura il male per se stesso,mentre lo spirito in quanto tale sarebbe semplicemente il bene. Si tratta del dualismo, una dottrina in cui certamente agiscono nobili motivi. Ma nel suo complesso esso è un errore pericoloso; si capovolge infatti ogni volta nella capitolazione che si consegna all'istinto. Il vero motivo dell'autentica ascesi non sta in una simile espressione della vita istintuale, ma nella necessità di condurla nel suo ordine appropriato. Quest'ordine si definisce a seconda dei vari punti di vista: esigenze della salute, riguardi per gli altri, doveri della professione e del lavoro. Ciascun giorno pone sempre nuovi postulati a mantenersi nell'ordine, e questo è ascetica. La parola – dal greco àskesis - significa esercizio: esercizio di giusta condotta di vita. 132 213 E’ da considerare inoltre il fatto che esiste una scala di valori. Per accennarvi: ci sono valori nella vita quotidiana, come quelli che appartengono alla vita fisica; più in alto si trovano i valori della professione; più in alto ancora quelli delle relazioni personali e delle creazioni spiritualiculturali; infine quelli che si attuano nell'immediato rapporto con Dio. Noi realizziamo questi valori con le energie del nostro essere, le quali sono però limitate, e noi dobbiamo vedere chiaramente verso quali obiettivi le dobbiamo inalveare. Noi dobbiamo scegliere e attuare la scelta. Tutto ciò costa sacrificio e sforzo. Ecco l'ascesi. Ma, anche a rescindere da ciò, ognuno di noi sa dell'arrendevolezza dell'umana natura, sa pure quanto sia necessario imporsi superamenti volontari, non richiesti da finalità immediate. Essi sono necessari affinché la vita possa soddisfare facilmente ai postulati del dovere immediato e improvviso. Essi sono inoltre necessari come via nella libertà, la quale consiste appunto nell'essere padroni di se stessi, dei propri stimoli e dei propri stati d'animo. Più sciocco ancora è quanto oggi spesso si fa quando si vuole comprendere l'uomo dal punto di vista della macchina, ma lasciamo stare per ora tale questione. In ogni caso a insensato assumere o volgimento della vita dell'animale come norma per la vita umana. Che cosa introduce ed effettua dunque lo spirito nell'istinto dell'uomo? Nell'impulso al nutrimento, alla soddisfazione sessuale, all'attività, al riposo, alla comodità? Anzitutto qualcosa di sorprendente: lo intensifica. Nessun animale asseconda l'istinto nutritivo come l'uomo, che si è fatto del gusto uno scopo a sé e che n tal modo si rovina. In nessun animale l'istinto sessuale tocca gli eccessi e gli arbitri a cui arriva l'uomo, che si lascia istigare da esso fino alla distruzione della vita e dell'onore. Nessun animale ha il gusto di uccidere che ha l'uomo, la cui arte guerresca non ha riscontri nel regno animale. Tutti gli istinti lavorano nell'uomo diversamente che nell'animale. Lo spirito traspone gli impulsi vitali in una libertà del tutto particolare. Essi si fanno più forti, più profondi. Acquistano più vaste possibilità di domanda e di risposta, ma nello stesso tempo perdono la difesa che propria delle leggi organiche, alle quali essi nell'animale restano legati e cosi garantiti. Nell'uomo finiscono con il non avere regola e non l'essere insidiati nel loro stesso significato. Il concetto del «viversi» è un falso concetto. L'animale «si vive», deve viversi, ma con l'uomo. Lo spirito dona all'istinto un significato nuovo. Si esplica nell'istinto e suscita in esso profondità, carattere, bellezza. Lo ilua nel rapporto con il mondo dei valori, come pure nel rapporto con ciò che sostiene questi valori, la persona. Lo solleva in tat odo nella sfera della libertà. Nell'animale gli istinti sono «natura»; lo spirito elabora da essi ciò che noi chiamiamo «cultura» (Kultur), inteso il termine in quanto espressione di responsabilità e di superamento. Nell'animale l'istinto cerca l'ambiente adeguato la sua specie; ma con ciò stesso lo inserisce nelle condizioni e nelle delimitazioni dell'ambiente. Nell'uomo l'istinto porta verso 'incontro libero con la vastità e la ricchezza del mondo; ma con ciò stesso esso viene anche posto in crisi. Tutto ciò che va sotto il nome di eccesso, di affinamento squisito, di innaturalità d'ogni genere diviene possibile e allettante. Lo spirito crea un'altezza sopra l'istinto. In tal modo non lo distrugge, non si fa, come pensa la stolta formula, «avversario della vita». Tale diviene soltanto lo spirito corrotto che tradisce a propria essenza. Invece lo spirito si conquista la possibilità di regolare e di plasmare l'istinto e di condurlo verso un significato superiore. Verso la sua perfezione, anche e precisamente in quanto istinto, ma certo con il pericolo della contraffazione, dell'antinatura. 212 10.1.2 La prospettiva biblica41 La tradizione giudaico-biblica non conosce il dualismo greco di anima e corpo non disponendo neppure di un lessico appropriato per designarlo. La distinzione fra corpo, anima e spirito fu introdotta con il testo dei LXX, che deviò un poco dall’antropologia biblica, tracciando percorsi d’alterità in contrasto fra loro. Il testo masoretico conosce tre termini che verranno sinteticamente delineati: nefĕ s, bâś âr, leb. Il termine nefĕs, tradotto dai LXX con yuxh/ e dai latini con anima, indica l’indigenza dell’uomo ed i suoi bisogni. Per questo non è un componente dell’umanità ma ne è l’essenza. Con il passare del tempo, il termine metaforicamente assunse il significato di desiderio, aspirazione, brama e, successivamente, il valore di vita, simboleggiata nel sangue. Per questo il passaggio dal mondo semitico a quello greco latino è stato improprio, in quanto il primo termine non ha coincidenza con l’anima, ma con la vita dell’uomo nella sua vulnerabilità esistenziale. Bâś âr, invece, non significa corpo – sw=ma – come invece traducono i LXX, ma puttosto carne – sa/rc – intesa come simbolo di caducità ed impotenza dell’uomo rispetto all’unica potenza che è quella di Dio – ruah. Essa non rappresenta la negatività della carne rispetto alla positività dell’anima, come invece sembrerebbe ritrovabile nel mondo greco postplatonico. La carne nel contesto semantico semitico non è né positiva né negativa in sé, ma assume una connotazione valoriale differente a seconda della sua fedeltà o infedeltà all’alleanza con Dio. Allora bâś âr, come nefĕ s, indica l’impotenza e la caducità della vita quando rompe la sua alleanza con la potenza di Dio, non in quanto componente dell’umanità ma come debolezza totale dell’uomo quando si erge nella sua solitudine e finitudine contro Dio. Di carne è il cuore dell’uomo (il leb) che, differentemente dall’accezione che solitamente gli viene attribuita, non è il segno del sentimento ma della sinergia di ragione, volontà, sentimento. Sinergia di conoscenza ricercata, decisione per o contro Dio, amore che costruisce la gioia del vivente. Da quanto affermato è chiaro che da un punto di vista biblico non si sostiene nessun dualismo antropologico, ma solo un’assoluta e radicale distanza tra l’onnipotenza – ruah – di Dio e l’indigenza – nefĕ s, la caducità – bâś âr, l’insicuro muoversi – leb, dell’uomo. Chi lede il corpo dell’uomo 42 lede allora l’immagine di Dio, perché il corpo è carne vivificata dalla sua potenza creatrice. 43 41 LEONI E., La danza nella liturgia. Nella tradizione della Chiesa, Università Cattolica di Milano 1999-2000. 42 Cfr. Gn 4,10. 133 L’uomo non è carne, ma corpo, cioè carne vivificata dalla potenza di Dio, e perciò sottratta ad ogni forma di negatività e quindi di morte a condizione che ascoltando la chiamata divina acconsenta ad un rapporto d’alleanza col “Vivente”. 16. Fatica, sacrificio e ascesi 16.1 Ascesi 72 10.1.3 Il corpo nel cristianesimo44 Sappiamo che il cristianesimo si incontra, fin dagli inizi, con il mondo greco. Pur se ne assume alcuni aspetti, mantiene ferma la concezione positiva che la Bibbia ha del corpo, nonostante molte tendenze contrarie. […] In ogni caso, a una lettura pessimistica del corpo si contrapponeva sempre il dato rivelato, incontestabile: l'uomo è molto bello (cf Gn 1,31), il corpo viene da Dio, è a sua immagine e somiglianza, la Parola è diventata carne e la carne è il cardine della salvezza secondo l'espressione di Tertulliano «caro salutis cardo». Il Verbo si è fatto carne dandoci del corpo una visione totalmente nuova. Assumendo la nostra carne mortale, il Figlio di Dio ha voluto partecipare della nostra debolezza, della nostra fragilità. Una fragilità che non oscura più la bellezza del nostro corpo. Come infatti il corpo di Gesù è rivelazione della Gloria, visibilità dell'Invisibile, narrazione di Dio tra gli uomini, così anche il nostro corpo nella sua completezza di carne e di spirito è destinato a essere specchio della bellezza divina. Possiamo dire che, a motivo del mistero dell'Incarnazione che trova compimento nel mistero della Risurrezione, il cristianesimo ha al centro il corpo e la corporeità. Il corpo di Cristo, offerto per noi, è il cuore della vita e della riflessione cristiana. Per questo san Paolo dice che il nostro corpo diventa «culto logico (loghikòs, che concerne la ragione profonda della persona) e gradito a Dio» (cf Rm 12,1); non è più vissuto secondo schemi che lo svalutano, ma secondo la proposta di appartenere a Cristo come Cristo appartiene a noi. Naturalmente la carne rimane l'aspetto debole e mortale dell'uomo. È un dato di fatto che sottostà agli usi negativi del termine: confidare nella "carne", vivere secondo la "carne", significa chiudersi nei propri limiti e fare di essi il luogo di difesa e di aggressione. Viene in mente, per contrasto, la saggezza dei medievali: «Homo habet animam, sed est corpus», polvere, terra. 43 Cfr. 134 Gn 1,2. C.M., Il corpo, o.c. 44 MARTINI C'e stato un tempo in cui si parlava dell'ascesi e di cose simili in tono non solo di ripulsa ma di indignazione, come se il termine indicasse cose non solo pervertite ma antinaturali e offensive. L'opinione dominante era che l'«ascesi» nasceva da paura e ostilità contro la vita, da un deforme sentimento contro natura. In essa si sarebbe tradito l'odio con cui il cristianesimo odiava il mondo, l'animo velenoso del prete che denigra la vivente natura allo scopo di affermare la propria esistenza e via dicendo. Era il tempo della fioritura borghese-liberale. Ma da allora l'atteggiamento si è mutato. Chi voleva vedere ha visto ciò, che si occultava sotto il concetto di «servizio della vita» (Lebensdienst). Tuttavia il termine «ascesi» suscita ancora antipatie. Vale la pena chiederci che cosa precisamente significhi. Nella polemica contro l'ascesi molta dell'ostilità insorgeva dal desiderio d'un lasciapassare verso l’arbitrarietà dell'istinto. Ma insieme vi operava un falso concetto della vita; o più esattamente, del modo come essa si sviluppa e fruttifica. Come si svolge la vita della natura? Volentieri l'uomo viene confrontato con essa quando ci si vuole fare spazio per qualcosa che contraddice allo spirito di Cristo. Come va la «vita»? Come cresce e si espande un animale sano? Seguendo i propri istinti. Tutto cammina allora correttamente, poiché precisi istinti vigilano a che nulla sbagli strada. Quando l'animale è sazio smette di mangiare. Quando ha riposato abbastanza non se ne sta a giacere ozioso. Quando lo investe l'istinto riproduttivo, l'animale lo soddisfa; finito il tempo, tace l'istinto. II modo, il tipo, se cosi si può dire, secondo cui la vita della natura si effettua, è quello della spontanea auto esplicazione. Ciò che è dentro si esprime, si vive. Come stanno le cose con l'uomo? Nell'uomo esiste e opera qualcosa che non esiste nell'animale; è reale ed effettivo a tal punto che bisogna essere proprio ciechi per non vederlo: lo spirito. Lo spirito trasferisce tutto ciò, che è «natura» in una situazione nuova. Nello spazio dello spirito l'istinto ha, cioè, un significato diverso da quello che ha nella natura pura. Esso gioca e agisce in altro modo; ed è perciò sciocco voler comprendere la vita dell'uomo da quella dell'animale. 72 211 GUARDINI R., Virtù…, oc, pp. 97-108. 15. Uso del tempo Il valore e la valorizzazione del tempo, soprattutto di quello libero. Dalla visone della cultura radicale, a quella pragmatica a quella teologica e salesiana. Qoelet (Qo 3) e Paolo (Col 3,17) Per il cammino di interiorizzazione Come vivi il tuo tempo: buttandolo via? in autogestione? in obbedienza alle mediazioni di bisogno? lasciandotelo costruire e consumare dal bene che puoi fare? In un costante atteggiamento di riconoscenza per ciò che ricevi? 210 10.1.3 Il corpo in relazione […] Il corpo dell'uomo parla, parla e ascolta perché ogni altro corpo gli parla […] con il suo stesso modo di essere […]45 45 GILLINI G.-ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp.161-170. Non si può non comunicare, ogni comportamento è comunicazione e viceversa. […]il nostro corpo dice molto più di ciò che crediamo di far vedere all'altro, anche se non ne siamo consapevoli ed anche (non finiremo mai di stupirci) al di là delle nostre intenzioni. […] Il nostro corpo, però, parla. Ed è una fortuna, perché prima o poi ci costringe a fare unità con il nostro mondo interno, a conciliarci con noi stessi. Per dirla in termini banali: ciò che pensiamo dell'altro o puzza o profuma. Anche con le parole più delicate o più sfuggenti o più diplomatiche, il nostro corpo emana il cattivo odore del nostro disgusto, della nostra distanza, del nostro giudizio. Ma, al contrario, anche con parole scarne, o addirittura rozze, il nostro corpo emana il profumo dell' alleanza, della vicinanza, della condivisione se il nostro mondo interno è accogliente con l'altro. […] Il tuo corpo dice, dichiara, proclama il tuo modo di metterti in relazione con gli altri. […] Facciamo un secondo guadagno: "abitare il proprio corpo" sembra un intento pagano, proprio à la page se teniamo presente la massiccia dose di consigli e strumenti di ogni tipo per un corpo bello, in forma, in benessere. Ma "abitare il proprio corpo" è molto più che cercare l'aspetto fisico: è una forma pienamente umana di rispetto per sé e per gli altri. È conciliarsi con la propria storia, con la propria famiglia d' origine, con il "come si è fatti" («Bruna sono ma bella», dice la sposa del Cantico). Il corpo non è il luogo del "nonostante" (nonostante non sia bello, non sia piacevole, ecc.) ma il luogo che Dio mi ha dato per cominciare a cantare i suoi benefici: se non avessi questo corpo, non sarei io. […] «Dio non ha che te per amare te; se non hai nessuna cura per te Dio non può raggiungerti». […] Proprio nell’abitare il nostro corpo incontriamo l'altro. Il corpo-grumo di relazioni, infatti, è il vivente provvisorio risultato di miliardi di contatti, carezze, manipolazioni, coccole, ma anche di ferite, di assenze, di microtradimenti («non c' eri quando ti aspettavo...») […] abitare il proprio corpo significa assumere alcune linee di senso importanti a) Prendere contatto con le proprie emozioni e apprendere il "controllo degli impulsi" o 1' autocontrollo emotivo, […] è la capacità più importante che ci rende umani e ci restituisce alla nostra intelligenza emotiva (il re-inquadramento cognitivo indispensabile per superare le tensioni […]. b) Imparare a tranquillizzare se stessi, ed è arte: aver fiducia nel proprio termostato emozionale, sapere che è l’io i1 capitano del proprio corpo. c) Imparare a confortare se stessi, mettendo in atto meccanismi di riparazione (adesso posso meritarmi una buona musica, un cioccolatino ecc. ecc.). […] è modalità del tutto umane in cui è più probabile che noi ci mettiamo in una disposizione d'animo corretta, perché Egli ci dia la sua pace. d) Conoscere umilmente i propri desideri, le proprie gratificazioni sane (e distinguerle dalle proprie pretese!). 135 Nel mito greco, narrato da Platone, dell'uomo rotondo e perfetto spaccato in due da Giove, con la conseguenza che ciascuno cerca sempre l'altra sua metà, è presente la verità che sperimentiamo: il corpo come parola non detta, realtà non completa, che rimanda ad altro. Rimando che è molto di più di un semplice desiderio di completezza fisica perché riguarda tutto l'essere corporeo dell'uomo in relazione ad Altro da sé. La Bibbia, nel primo capitolo della Genesi, sottolinea che il corpo dell'uomo e della donna sono creati a immagine e somiglianza di Dio anche in quanto maschio e femmina: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza... Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1,26.27). Questa rivelazione è fondamentale per capire che cos'è il corpo e come diviene se stesso. C'è un secondo racconto biblico che spiega che cosa è il corpo: «Il Signore disse: Non è bene che l'uomo sia solo... Allora fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa...» (Gn 2,18.21-23). Qui Adamo dorme! Ritorna alla luce quando nasce, dalla ferita del suo cuore, Eva, la sua altra parte. Si risveglia con un grido di gioia e di meraviglia, e riconosce se stesso nell'alterità della donna. L'uomo esulta nel superamento della solitudine, nella scoperta dell'altro da sé. I due testi della Sacra Scrittura rispondono alla domanda cruciale sul corpo. Il mio corpo ha una parola precisa iscritta in sé: questa parola è l'altro, è richiamo dell'altro, il corpo diviene se stesso davanti all'altro, mettendosi in relazione. L'altro è però il mistero che sfugge a ogni analogia e riduzione di similitudine; se voglio possederlo non è più “altro”, e io resto solo, senza nessun altro. La diversità dei sessi fa sì che il maschio e la femmina siano incompiuti in sé e che ognuno dei due si definisca in rapporto all'altro. Non c'è posto per il bel Narciso che si specchia nell'acqua: nella propria immagine può solo annegare. Le implicazioni di questa rivelazione biblica sono tante. La parola iscritta nel corpo, cioè l'altro, dice l'Altro, parla di Dio, del Santo: «Siate santi, perché io sono Santo» (Lv 11l,44). Santo significa appunto «diverso, altro rispetto a ogni altro». Il corpo è per l'Altro, per il Signore (cf Cor 6,13). Il mio corpo è chiamato a vivere in un modo diverso, proprio di Dio, della sua bellezza, a essere riflesso della gloria di Dio, «tempio di Dio» (1 Cor 3,16). che viene da molto lontano, ma che è sempre lì e che probabilmente non se n'è mai andato da noi. È mistica perché molto più che accettata, può essere transvalorata, trasfigurata nella vita cristiana, diventando realmente redentiva per le persone che ci sono affidate o che incontriamo sul nostro cammino, come preti, religiosi, educatori, padri e madri. Credo che la solidarietà, intesa in questo senso, come condivisione profonda dell'esperienza dell'altro, come com-passione che sana, sia realmente un luogo di annuncio e condivisione del Vangelo. 136 209 quello stile di personalità che più adeguatamente è in grado di entrare in sintonia con la persona che incontro e che magari vive in una situazione di sofferenza, fisica o psichica. Pensiamo al ministero della consolazione per un prete o un religioso; ma pensiamo anche all'importanza che un genitore possa sintonizzarsi sugli stati affettivi di un figlio che vive in una situazione di soggettiva difficoltà. Io posso realmente fare compagnia all'altro nella sua sofferenza, se in qualche modo non la temo: è un luogo nel quale so di poter entrare, perché è uno spazio che so abitare. Certo, non è facile e nemmeno immediato saper entrare nella sofferenza di un altro. Ci possono essere modi di entrare nella sofferenza di un altro senza abitarla, perché il dolore dell'altro è percepito come qualcosa da cui ci si deve soprattutto difendere; ci possono essere, all'opposto, modi di entrare nella sofferenza di un altro, ma come riassorbendola nella propria vicenda biografica, così che alla fine non è più il dolore dell'altro che sento, ma il mio. E il rischio è che anche questa sia per me un'esperienza insostenibile oltre che possibilmente autocentrata e perciò sterile. Ad ogni buon conto non si può pensare ad un ingresso nella sofferenza dell'altro che non sia anche un po' autobiografico. La sofferenza dell'altro non può non agganciare anche il mio vissuto di sofferenza e perciò farlo risuonare. Si deve far diventare, però, questo spazio di risonanza come il luogo della sintonizzazione affettiva con l'altro, e non invece come lo spazio della memoria per me. Il primo esito, auspicabile, potrebbe essere trascritto così: «Soffro con te e ti faccio realmente compagnia nel tuo dolore, perché accetto di non difendermi dal dolore che tu sperimenti; ciò accade perché in qualche modo ho dovuto entrarci e restarci anch'io». Il secondo esito, meno auspicabile (ma sempre un pochino presente), potrebbe essere trascritto così: «Soffro vedendoti soffrire, perché il tuo dolore mi ricorda il mio». Può accadere che talora, pur con una reale disposizione del cuore, si entri nella sofferenza dell'altro, ma senza abitarla. A volte è necessario, difensivo: quando il dolore dell'altro è troppo grande se ne può essere travolti. Se assunto come atteggiamento abituale, però, rischia di rendere infeconda la consolazione: è il ricorso alla parola che spiritualizza, che razionalizza o, peggio, che rende quel dolore uno stereotipo. Il dolore dell'altro può assumere forme differenti: la perdita non riguarda soltanto le esperienze di morte, ma anche quelle di abbandono o fallimento affettivo, professionale o vocazionale; la stessa angoscia di avere perduto Dio. Ci collochiamo dunque in una prospettiva che vorrebbe andare al di là della semplice accettazione e che si colloca in quella di un «realismo mistico». La consapevolezza emozionale che proviene dall'ascolto di sé, è reale perché assume ciò che c'è, e lo riconosce come parte di un desiderio Nella Bibbia la coppia maschio e femmina, non è intesa, come per gli altri animali, semplice mezzo per la conservazione della specie. Essa, in quanto chiamata a diventare a immagine e somiglianza di Dio, esprime a livello corporeo e tangibile il volto di quel Dio che è Amore. Viene da dire che l'alterità sessuale costringe l'uomo a essere come Dio, a mettersi in relazione di simpatia, di sinergia, di comunione, di fecondità. Da qui la grande stima che il cristiano ha per il corpo e la sessualità, la cui dignità non deve mai essere falsata o svenduta. Da qui segue che la sessualità non può essere né "sregolata" né "irragionevole": ha un senso, una direzione, delle regole, dei limiti. Il corpo umano, che porta il sigillo di Dio, a Dio rimanda proprio a partire dall’amore reciproco dell'uomo e della donna: un amore non chiuso in se stesso, non sufficiente a se stesso, bensì aperto a Colui che vuole essere con l'uomo una cosa sola. Esisto se amato ed esisto se amo. Realmente amore è il divino che permette al nostro corpo di esistere. Dunque il sesso contiene una parola sublime di amore, che realizza la persona a immagine di Dio la cui santità è l'amore. Così, una sessualità che non riscopre la parola del corpo, riduce il corpo all'insensatezza, lo disonora, lo disprezza, lo vuota del suo significato. Il significato o non significato del corpo è dato dall'amore che si dona. Donandosi, promuove la libertà, non donandosi e cercando se stesso, la impedisce e la distrugge. La sessualità, dono di Dio, è un'energia a disposizione di ciascuno. Dipende da me come usarla. […] "Libertà" è un termine equivoco. Il corpo dell'uomo e della donna è connessione tra necessità e libertà. È oltre l'istinto. L'animale è regolato necessariamente dall'istinto e portato in una determinata direzione. Il corpo dell'uomo, invece, è abitato dalla libertà ragionevole della persona, è possibilità, è apertura. La libertà del cristiano è vivere il corpo con la capacità di servirsene per amare. Non è fare ciò che piace o soltanto ciò che devo, ma fare ciò che piace a Dio: mi piace piacere a chi mi ama e amo. Non è quindi la libertà del libertino schiavo di ogni impulso. Non è la libertà dello stoico che nega ogni impulso. È libertà di amare e di dominare il proprio corpo. È libertà che si esprime nel «dominio di sé» (cf GaI 5,22). Nell'ottica del cristiano, la bellezza e l'armonia della sessualità sono un'arte da apprendere, come la poesia, la pittura, la musica. Il sapersi relazionare permette ai nostri impulsi, di non uscire alla cieca e a caso, o con imperizia, ma di essere diretti con libertà, secondo l'ispirazione del Signore. È molto importante educare a vivere la sessualità quale espressione di amore e di comunione con Dio. 208 137 10.2 Identità e differenza sessuale 46 10.2.1 Il mistero della comunione inscritto nella dimensione biologica della sessualità umana47 Ciascuno, maschio o femmina, conosce se stesso attraverso una riflessione su di sé. Vi sono tuttavia aspetti importanti di me che solo l'altro conosce, che solo la donna può conoscere dell'uomo e viceversa. Nessuno quindi può pretendere di autodefinirsi, ma deve lasciarsi aiutare dalla percezione di sé che l'altro o l'altra ha. […] Complementarietà dice una diversità correlativa tra due che si integrano in una unità. La complementarietà fa gioire del bene che l'altro ha ed è, diventa principio di comunionalità nel dono, nell'accoglienza e nel servizio reciproco, impregna l'amore di umiltà, di rispetto, di fedeltà, di riverenza. L'uomo diventa ciò che ama, l'amato diventa il centro vitale di chi ama: «Amatus fit forma amantis». Dio stesso, amato, diventa la vita dell'uomo, come dice la Scrittura: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6,4), con tutta la tua vita, la tua intelligenza. La sessualità mette nel nostro corpo il segno di questo splendido disegno: sono partner di Dio, la mia identità è lui stesso. Nella Bibbia il rapporto maschio/femmina è figura del rapporto Dio/uomo. In questo senso, «il femminile diventa simbolo di tutto l'umano» (Mulieris dignitatem 25): essere sposa di Dio, simile a lui in quanto chiamata a rispondere all'amore con cui la ama. L'aspetto sponsale lo ritroviamo in tante pagine della Sacra Scrittura, in particolare nel Cantico dei Cantici, nel profeta Osea, nell'Apocalisse. L'uomo, maschio o femmina che sia, è fatto per amare Dio in modo assoluto, come suo unico partner in senso pieno. Dunque l'amore appassionato e fedele, che unisce l'uomo alla donna e fa dei due una sola carne - secondo il testo della Genesi 2,24 -, è riverbero dell'amore che ha spinto Dio a unirsi con l'uomo per essere con 46 CENCINI A., Nell’amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, EDB, Bologna 1995, pp. 87-112. GILLINI G.-ZATTONI M.T., Le strade del cuore. L’educazione affettiva e sessuale dell’adolescente e della sua famiglia, San Paolo, 1999, pp. 47-64. ARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo…, oc, pp. 155-174; 194-201. 47 MARTINI C.M., Il corpo…, oc, pp. 138 bravi preti o i bravi mariti, se costoro preti o mariti non sono. Snaturiamo l'essenza del ministero o del matrimonio, anche quando ci accontentiamo di avere manager del business religioso, o mariti che si fanno trovare a casa alle sette di sera e alla domenica portano i figli al lago. L'ascolto di sé ha a che fare con una vera e propria sfida. Se la profondità alla quale ho inteso riferirmi è, ad esempio, quella di una componente depressiva che «c'è», allora devo capire in che modo questa «c'entra» con la mia vocazione. E questo vale anche per le altre componenti profonde della personalità: il sentimento della debolezza, l'insicurezza, e altro ancora. Si badi bene: non sto affermando che «c'entra», nel senso che Dio mi chiama ad essere depresso, o debole, o insicuro. «C'entra» nel senso che anche queste componenti hanno un loro posto all'interno della mia esperienza cristiana, e a ciascuno di noi spetta il compito di individuare quale sia. Quei tratti, eventualmente anche dolorosi, appartengono alla mia biografia e pure a quel progetto ideale che costituisce la meta del mio cammino umano e cristiano. Come dire: se voglio arrivare là, ci devo arrivare «tutto». Anche con questi tratti profondi e non senza di loro, perché loro sono... io! Verso un «realismo mistico» Riconoscere il modo in cui quei tratti profondi «c'entrano» con la mia vocazione non corrisponde ad una semplice accettazione. Non che l'accettazione sia poca cosa, intendiamoci. Un'accettazione realmente emozionale, e non semplicemente cognitiva, intellettuale, non costituisce una consapevolezza di poco conto. Eppure si presenta ancora come qualcosa di possibilmente riduttivo, perché statico. Ritengo si possa osare di più, senza per questo giungere ad esaltare la sofferenza in se stessa, ma allo stesso tempo senza distanziarsi da un giusto realismo, nascondendo a se stessi la portata delle proprie vulnerabilità. Pur seguendo con cautela questo percorso, possiamo riconoscere che il potenziale associato ad un tratto depressivo71 è notevole. La consapevolezza emozionale («So e sento») e non soltanto intellettuale («So…», e basta) di quella componente depressiva comporta in me la capacità di scendere e risalire (regredire e progredire) trasversalmente lungo la vicenda del mio sviluppo. E questo mi consente di andare ad assumere 71 La cautela è d'obbligo perché il termine stesso depressione è impegnativo. Qui non ci riferiamo ad una depressione significativa al livello psicopatologico, giacché il discorso si rivelerebbe assai più complesso, ma al livello evolutivo. 207 della perdita, al fondo ci sta un desiderio che affiora: essere «colmati», essere sottratti ad un vuoto. E si tratta in qualche modo sempre di un vuoto di affetto, o di identità, o di sicurezza, o di altro ancora, mescolati o intrecciati gli uni con gli altri. Le strategie utilizzate per far fronte alle perdite sono molteplici e perfino contraddittorie, ma mai tutte uguali ai fini del proprio benessere. È importante che siano in armonia con il problema di partenza. Lo capiamo subito se al posto del bambino facciamo l’esempio di un adulto, padre di famiglia o prete, dirigente d'azienda o artigiano: se le sue strategie lo portano a comportamenti inappropriati o devianti, rovina se stesso e gli altri. Occorre allora fare il percorso a ritroso ed esplicitare la domanda di partenza, i desideri originari a cui non si è riusciti a dare una risposta adeguata se non quella problematica o addirittura patologica. Un intervento esclusivamente morale o legislativo per quanto corretto, opportuno e in taluni casi perfino necessario, rischia di colpire non solo il comportamento riprovevole, ma anche il desiderio legittimo che scaturiva da quella perdita da colmare. Talora accade che la persona coinvolta accolga o subisca l'intervento morale o legislativo. Non riuscendo, però, a cogliere il legame fra il vissuto problematico o deviante e il desiderio profondo che lo muoveva, può tendere a dissociare la propria esperienza: riconosce che ciò che vive è sbagliato, ma non riuscendo contemporaneamente a farne a meno, va verso la deriva di una doppia vita, con conseguenze che possono investire livelli diversi, non ultimo quello della patologia psichica. Rispettare i tracciati della vita per viverla bene L'esempio della perdita serve per cogliere meglio l'idea di fondo di questo scritto: i dinamismi interiori che regolano lo sviluppo sono in relazione con il suo esito maturo; perciò il loro ascolto ha come obiettivo l'armonia fra il proprio progetto di vita e il proprio cammino di uomo o di donna. Qualunque vocazione cristiana si rivolge all'intero della persona e proprio per questo ha a che fare in modo dinamico, cioè sempre in movimento e mai in modo concluso, con il tutto della personalità70. Se si limitasse a coinvolgere alcuni processi della personalità poco si differenzierebbe da una scelta professionale o dall'acquisizione di un insieme di atteggiamenti religiosi. La vocazione deve avere a che fare anche con le profondità della personalità e non soltanto con alcuni suoi strati, magari di superficie. Non è un mestiere, né un modo di fare. Non possiamo avere buoni preti o bravi sposi insegnando ad alcuni giovani come si fa a fare i 70 Cf S. Guarinelli, Intuizione vocazionale e costruzione della personalità, in «Tredimensioni», 1 (2004), pp. 26-41, in particolare pp. 36-40. 206 lui, in Gesù, una sola carne. E reciprocamente si può dire: «Chi si unisce al Signore, forma con lui un solo spirito» (1 Cor 6,17). […] Chi conosce il pensiero della Chiesa sulla sessualità sa bene che il suo intento è ultimamente educativo. […] L'etica cristiana sui vari problemi della sessualità è incentrata e articolata sulla "responsabilità". La regola classica della sessualità è molto semplice. La soddisfazione che viene dagli atti sessuali acquista vero significato umano quando è finalizzata all'unione amorosa di due persone legate da fedeltà reciproca definitiva e aperta alla fecondità. Tutto ciò che non rientra in questa regola non rientra nell'ordine. Confluisce qui una marea di azioni, gesti, pensieri, desideri che vanno nella direzione giusta oppure che deviano più o meno da tale regola . Altre azioni e pensieri sembrano addirittura aver dimenticato il fatto dell'incontro, e si avvitano su se stesse o usano dell'altro come puro strumento di ripiegamento su di sé. Sono queste le perversioni più dolenti. […] Non è detto però che ogni "disordine" sia un peccato nel senso teologico e religioso del termine. Per arrivare al peccato occorre la coscienza che un gesto libero ed evitabile turba in modo grave l'equilibrio interiore e relazionaIe della sessualità bene ordinata e con ciò il rapporto di sottomissione al disegno divino per la felicità umana. […] Occorre perciò un cammino di chiarezza e di vittoria su di sé, anche graduale. Il consiglio di una persona matura e il sacramento della riconciliazione saranno di grande aiuto. 10.2.2 Attrazione amicizia e amore: maturazione affettiva ed impegno spirituale Abbiamo già affrontato la tematica della motivazione nell’ambito delle scelte, ma dentro questa tematica della maturazione affettiva questa assume dei connotati particolari che sono anche indicatori di una maturazione in crescita. La prima tappa è costituita dalla motivazione fisiologica tendente alla riduzione di un bisogno o alla soddisfazione di un impulso risponde al principio del piacere. In seconda istanza si passa alla psico-fisiologica tendente al principio di realtà dove la soddisfazione del bisogno è per un dovere da compiere. 139 Il terzo è quello conoscitivo-spirituale che ci fa muovere senza che forse sia coscientizzata la motivazione ma è risposta a ciò che viene intravisto come un bene oggettivo, un valore. Non è più la ricrca di un bene per me, ma del bene in sé. I passaggi sono un percorso graduale e possono essere effettuati anche attraverso quella che viene delineata come “sublimazione” anche se dal punto di vista terminologico si pongono vari sospetti su questa metodologia. Essa non è rimozione di un bisogno ma è la dinamica che permette di dare al bisogno una risposta diversa differente che in quanto forza è funzionale alla maturazione giungendo all’autenticità del bisogno con il coraggio di non assolutizzarlo ma di contestualizzarlo dentro l’amore vero. Dentro il percorso di maturazione affettiva è importante considerare che l’affettività ha u grosso rischio: quello di riportare l’attenzione alla nostra stessa persona, rinnegando l’orientamento all’altrp quale sua originaria natura. Allora tutto viene valutato inbase a quanto la relazione, al situazione, l’altro suscita in noi. E se questo diviene il criterio ultimo l’io spadroneggerà nelle scelte conseguenti limitando l’oblatività e la logica del dono. Se la ripercussione emotiva ne sarà il criterio la conseguenza diverrà il ripiegamento su di sé, facendo dei sentimenti non la parte del mondo affettivo ma il suo tutto. L’altro non è mai la risposta ad un bisogno ma sempre un valore che si impone rispondendo, nella misura in cui vi si aderisce, ai nostri bisogni più veri, profondi, inespressi, ma alla condizione che l’altro rimanga sempre un valore, ossia un bene in sé. Il linguaggio della relazione può essere di tipo fisico, affettivo e spirituale. Linguaggio della sessualità risulta così essere differente a seconda della vocazione e della persona ma esprime sempre la totalità, ossia la verità. Linguaggio da apprendere e su cui vigilare. Anche questa cura è inserita dentro il percorso di maturazione che va dal bisogno al valore, dall’attrazione al dono di sé. L’attrazione è a,imentata dal desiderio di dirigersi verso… è il primo passo dell’amore ma è ricchezza che muove e limite che illude, perché si compiace di sé stessa per cui il sentimento è ciò che tiene vivo l’interesse per l’altro e quando questo viene meno c’è il rischio che decada anche l’attenzione all’altro. Questo è spesso lo stile di vita della nostra cultura. La bellezza è il punto di partenza che deve diventare integrale e intrinseca per giungere poi all’amore di concupiscenza dove il bisogno di complementarietà è determinante, su cui però non si deve fossilizzare per non utilizzare la persona, ma deve divenire amore di benevolenza che cerca il bene dell’altro e per l’altro dentro ogni situazione sino a giungere al dono si sé o amore sponsale. L’amicizia 140 proprio, riproducono in modi diversi eppure analoghi questo passaggio, necessario e drammatico allo stesso tempo. La presenza della perdita è una costante dello sviluppo umano. Si tratta di una perdita affettiva, di sicurezza, e il suo grado di drammaticità dipende oltre che dalla precocità dello stadio in cui avviene anche dal modo in cui questa è gestita, soprattutto da parte di coloro che si occupano di accudire la persona in sviluppo. Un transito troppo brusco potrà essere vissuto come vera e propria deprivazione; viceversa un passaggio attenuato e custodito ne attutirà la portata emozionale. Dunque la dinamica della perdita fa parte della biografia di tutti. Bisognerà poi vedere come ciascuno di noi la gestisce. Se rimane tale, come ferita aperta, la perdita può deteriorarsi, in emozione di vuoto, di sofferenza, di mancanza. Se viene colmata, ci si dovrà domandare come e con che cosa. Ad esempio: una perdita affettiva infantile può essere stata colmata con un investimento nella vita intellettuale. Il bambino di prima elementare, figlio unico, con entrambi i genitori che lavorano, «scopre» che il modo per agganciarsi all'orbita affettiva dei suoi genitori è quello di andare bene a scuola: quando prende un bel voto loro sono contenti e il bambino «sente» che i suoi si accorgono di lui. A quel punto, però, l'esperienza paventata del fallimento scolastico potrà assumere tonalità drammatiche. Al di sotto del timore (consapevole) di prendere un brutto voto si cela il timore (inconsapevole) di vedere confermato il proprio stato di solitudine. Il non riuscire a smascherare questo dinamismo potrà condurre il bambino, poi giovane e quindi adulto, a mettere in atto comportamenti sempre più sofisticati per prevenire la possibilità del fallimento intellettuale. Dunque si dedicherà, anima e corpo, alla vita intellettuale, fino a rinunciare ad ogni attività che potrebbe distoglierlo dal suo percorso. Consacrerà la propria vita alla cultura e vivrà da solo per non essere distratto nella propria ricerca. Tragico e ironico paradosso: per superare la propria solitudine sarà un uomo solo. Risorse disponibili e strategie In ogni caso, affinché una perdita affettiva sia colmata con il ricorso ad una risorsa alternativa qualunque occorrerà che quella risorsa sia disponibile: per investire nella vita intellettuale occorre disporre di sufficienti risorse intellettuali; per investire nel possesso di beni occorre disporre di risorse economiche; e via dicendo. Se la perdita affettiva fosse molto consistente e/o se mancassero le risorse alternative atte a colmarla (per quanto in modo illusorio) la perdita rimarrà tale e potrà affiorare, nella forma di una mancanza o di una sofferenza, come tratto pressoché permanente di quello stile di personalità: triste, sfiduciato, perennemente arrabbiato o portato a vedere sempre il lato negativo delle cose. Al di là della strategia messa in campo per mettere mano al problema 205 Anche in questo caso l'analogia del corpo fisico ci è di aiuto. È sempre lo stesso mio corpo ad interagire con il dolore dell'altro e con il mio. Eppure le due esperienze di sofferenza sono inevitabilmente diverse, a seconda che il dolore sia dell'altro anziché mio. Sono sempre gli stessi occhi che vedono me stesso e gli altri; ma vedono me stesso e gli altri in modo diverso. E se mediano male o nulla non potrò vedere né me stesso, né gli altri. Dunque vi sono esperienze in cui il funzionamento corporeo si diversifica; in altre mettiamo sullo stesso piano il rapporto con noi stessi, gli altri e il mondo in generale. Una cosa del tutto analoga accade anche per la personalità. La capacità introspettiva è una condizione necessaria per la conoscenza di sé. Però si tratta di una funzione che si diversifica: non posso essere introspettivo con le altre persone nel medesimo modo in cui lo sono con me stesso. Inoltre si tratta di una condizione non sufficiente. Infatti, come ho appena detto, la conoscenza di sé passa attraverso lo stile della personalità. Ad esempio, può accadere che il mio stile di personalità nel corso degli anni si sia premurato di mettere fuori dal mio campo visivo tutto ciò che contribuirebbe ad umiliarmi. Il processo può essersi talmente perfezionato che delle cose che mi umiliano, dei miei difetti, realmente nemmeno mi accorgo, mentre sono un mostro di bravura nel cogliere quegli degli altri. Dunque se voglio conoscermi veramente non posso non chiedere ad un'altra persona che cosa lei vede di me. Il suo sguardo, così come la mia capacità introspettiva, sono assolutamente necessari. Non l'uno senza l'altra, dunque. La conclusione di questo discorso è semplice, ma importantissima: la conoscenza di sé passa necessariamente attraverso la relazione con l'altro. Occorre che almeno un'altra persona possa dirmi qualcosa su di me. Per una ragione fondamentale: essa mi raggiunge attraverso una personalità che semplicemente non è la mia. L'ascolto del proprio «vuoto» Vorrei ora entrare, come esempio di ascolto di se stessi, in un ambito concreto che dobbiamo ascoltare e che appartiene a tutti noi perché elemento intrinseco allo sviluppo umano. Qualcuno lo ha chiamato così: la depressione inerente al sorgere della persona69. Svilupparsi, infatti, vuole anche dire transitare da spazi di sicurezza, dai quali siamo spinti ad uscire, verso spazi di insicurezza senza entrare nei quali non potremmo eseguire il compito essenziale dello sviluppo umano che è crescere. Il momento della nascita, l'adolescenza, perfino la scelta di mettere su una famiglia per conto Cf D. Lopez – L. Zorzi, Dalla depressione al sorgere della persona, Cortina, Milano 1990. 204 69 Una tappa non secondaria è quella dell’ amicizia scelta volontaria di ciò che prima era solo frutto della simpatia (stare bene insieme) o cameratismo (condivisione di alcuni impegni comuni). Essa è caratterizzata * Dalla reciprocità : risposta all’amico e dall’amico nella ricerca del bene vicendevole. Dando una particolare sicurezza nell’essere custoditi nella verità. * Dalla comunicazione che è un sapersi consegnare nella parola e nel silenzio che non conosce chiusure e gelosie. * Dalla verità, ossia dalla condivisione della stessa verità che si ha a cuore. 10.2.3 Elementi di riflessione su alcune problematiche connesse all'identità e al comportamento sessuale 10.2.3.1 Pornografia Il contesto culturale in cui siamo inseriti è definibile come pansessuale con una spinta erotica ormai spinta agli eccessi di una considerazione considerata “normale”. Il termine pornografia è composto da due parole: grafòs (scrivere e tutto ciò che ad esso è collegato nella comunicazione) e pornèia (prostituzione ossia la “vendita” del corpo). Oggi la pornografia ha subito delle enormi variazioni con la dinamica di fondo di un coinvolgimento sempre più globale dal punto di vista sensitivo e sempre più accessibili. Dietro al fenomeno è aperta una profonda voragine di solitudine che spesso genera un profondo isolamento partendo o giungendo ad una reificazione di se stessi e dell’altra persona. L’ulteriore conseguenza è un senso di colpa che normalmente negativo può in questo caso divenire un prezioso campanello d’allarme quale rivelativi di un disagio. 10.2.3.2 Masturbazione48 Definibile nella sfera più ampia dell’autoerotismo che implica una “concentrazione dell’energia erotico sessuale della persona su se stessa”. Già la definizione posta in rapporto al valore\significato della sessualità porta in 48 Cfr. ZATTONI M.T.-GILLINI G.-MICHIELAN M.-RESCHIGLIAN M., Che male c’è?..., oc, pp. 132-148. ARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo…, oc, pp. 141 se una valutazione del fenomeno, contrariamente ad una diffusa considerazione come “normale” e non una autentica forma di immaturità. Nella fase edipico puberale, nella quale è connessa alla scoperta della propria ed altrui corporeità e sessualità, è una fase destinata al superamento, mentre nella fase adulta è una fissazione sintomo di un disagio comportamento compensatorio di paure, debolezze, insoddisfazioni, solitudini e difficoltà che non si stanno affrontando. La pulsione istintuale che può sembrare impellente esigenza può avere altre risposte che non sia la soddisfazione immediata del bisogno stesso. La masturbazione molto spesso (nella maggioranza dei casi, probabilmente) dice un forte bisogno di autonomia o di aggressione, altre volte e sfogo narcisista o espressione di rancore o reazione a sensazioni d'inferiorità. Questa tematica spesso non è affrontata per una sorta di timore e vergogna mentre deve essere affrontata con coraggio, serenità, coerenza e speranza. * la masturbazione è esperienza di profonda solitudine intesa come reale isolamento e chiude all’amore * genera una incapacità al dono rendendo il piacere la dimensione primaria del bisogno e della “relazione oggettivante” * è sintomo di difficoltà più profonde che chiede un cammino di verità ed educativo che potremmo sintetizzare in 5 tappe a. l’educazione al bello È la cultura del bello nelle immagini, delle parole, delle esperienze, riconoscendo nella persona la sua bellezza ed armonia originaria. Questo necessita anche di una cura di se stessi, del nostro corpo che sia segno dell’amore che diamo alla persona come valore in sé e per gli altri. b. l’educazione al vero È passione crescente per la ricerca, per la “scrutatio”, per lo studio, per la lettura della nostra persona , per l’insegnamento della chiesa e del rapporto con gli altri. c. l’educazione al servizio Sono necessari per questo cammino gesti concreti ed autentici “tagli sul vivo” come percorso di gratuità con regolari momenti di verifica sulla qualità del servizio vissuto non per formalismo né per dovere ma spontaneamente generoso e disponibile, sul quotidiano impegno con i “prossimi” di casa, con uno stile di vita sobrio ed ordinato che non si abbandoni al comodo ed al superfluo “viziato”. d. l’educazione della volontà Imparando non solo a desiderare ma a volere con piccole scelte ma portate avanti con sacrificio esercitando la virtù della costanza nella fatica. virtù. Nel concreto, conoscersi sembra voler dire: «Guardati dentro e più sai guardarti dentro più avrai un occhio interiore». In tal modo accade come se identificassimo il mondo interno, ciò che c'è «dentro» di noi, con la persona; e come se da ciò potessimo rapportarci a noi stessi saltando la mediazione storica, quella della personalità, appunto. Le cose non stanno così. C'è una sorta di errore epistemologico fondamentale. Il mondo interno non è conoscibile se non attraverso la necessaria mediazione della personalità, giacché il mondo interno, esattamente come il mondo esterno, esiste nella storia. Quando guardo una cosa, la guardo nella mediazione di un corpo fisico e di un corpo psichico. Guardare una cosa è assai di più che vederla. Infatti una cosa guardata può suscitare attrazione, ribrezzo o indifferenza. E queste sono tutte operazioni psichiche e non meramente fisiche. Accade, però, che nella pratica non tiriamo le conclusioni di questo discorso. Nel concreto, quando cerchiamo di conoscere noi stessi sembra che implicitamente giungiamo a configurare una sorta di sguardo interiore che «salta» l'inevitabile mediazione della personalità. Come se io, affermando che per conoscermi devo «guardarmi dentro», uscissi dalla metafora e la utilizzassi in senso letterale: «Siccome il corpo è il contenitore della mente, ecco che se mi guardo dentro, il corpo non media un bel niente, dunque mi vedo realmente come sono». Buffo, vero? Sarebbe meglio dire che non vi è nulla di più ingenuo. Inevitabilmente io conosco me stesso attraverso me stesso e non senza me stesso. La personalità di ciascuno di noi ha un proprio stile, che rappresenta l'esito dei molti modi di interazione con la realtà che sono andati consolidandosi nel corso dello sviluppo. Quello stile agisce da mediatore rispetto alla realtà conosciuta, così che due persone non si relazionano mai con la stessa realtà nel medesimo modo. Anzi, è come se, dal loro punto di vista, si trovassero di fronte a realtà differenti. Quello stile di personalità è attivo anche quando mi relaziono con quella realtà singolarissima che sono... me stesso. Si badi: questo non vuol dire che io mi relazioni con me stesso nel medesimo modo in cui mi relaziono con gli altri. Io sono per me stesso una realtà diversa da tutte le altre. Non posso dire aprioristicamente che ne sarà della mia relazione con me stesso a partire dalla relazione che ho con le altre persone. Può accadere che io ami gli altri e odi me stesso o viceversa. Ciò che si mantiene è lo stile di personalità, non i modi di funzionamento. È sempre la stessa personalità ad interagire: se amo gli altri e odio me stesso, non è perché ho una doppia personalità. È sempre l'unica mia personalità, che ha diversi modi di funzionamento. 142 203 Conoscenza di sé e relazione con l'altro Una giovane religiosa in formazione aveva chiesto di poter fare una valutazione della personalità, cioè un percorso volto alla conoscenza di sé soprattutto dal punto di vista psicologico, spinta forse più dalla curiosità che da un reale desiderio di crescita. Comunque, anche la curiosità può essere una buona motivazione per partire. In ogni caso, una delle prime domande che faccio in sede di valutazione della personalità è più o meno questa: «Quali sono le ragioni che l'hanno condotta a chiedere di fare questa valutazione?». La risposta fu la seguente: «Mah, sinceramente mi è stato consigliato dal direttore spirituale: lui dice che anche questo può servire. Comunque io credo di conoscermi abbastanza bene: in questi anni ho molto riflettuto su di me». Nulla da obiettare. Il guaio è che quando una valutazione inizia così... insomma le cose non si mettono molto bene. Quando una persona ti dice che, in fondo, è lì perché gliel'hanno suggerito altri e che questioni proprie non ne ha... da che parte si entra? Chi invece si ritrova fra le mani un interrogativo, un problema, addirittura un sintomo, fosse anche secondario e assolutamente marginale, offre almeno una chiave d'accesso per entrare in quel sistema complesso che è la sua personalità. Ad ogni buon conto abbiamo le nostre domande di riserva. E così le ho fatto quella a cui in genere ricorro in questi casi: «Quali potrebbero essere gli spazi della sua personalità che ritiene di conoscere di meno?». Risposta: «Sinceramente non saprei». La risposta della nostra giovane religiosa basterebbe a smontare la concretezza di quegli anni in cui «ho molto riflettuto su di me». A meno che non fosse un espediente (più o meno consapevole) escogitato sul momento per supplicarmi di lasciarla in pace. Una persona che veramente si guarda dentro e conclude affermando che in lei non ci sono zone d'ombra (se non qualche innocuo neo; ma chi non ce l'ha?), o ha guardato male, o è già nella visione beatifica! Guardarsi dentro... senza mediazioni? La personalità rappresenta l'interfaccia psicologica fra la nozione filosofica di persona e il mondo (o la storia): la persona, infatti, è nella storia, ma allo stesso tempo è al di là della storia. Il bambino di sei mesi e l'adulto che da quel bambino si svilupperà, avranno poche somiglianze. Si potrà realizzare che si tratta della stessa persona, appunto; eppure, dal volume e dal peso corporeo fino al carattere, un bel po' di cose saranno cambiate. La personalità, dunque, si colloca in perfetta analogia con quell'altra interfaccia, fisica, fra la persona e il mondo (o la storia) che è la corporeità. In questo senso si può dire che la personalità è come il corpo psichico della persona. Questo significa che la personalità (il corpo psichico), esattamente come il corpo fisico, è attiva in ogni relazione che la persona ha con il mondo. Sorprendentemente, però, nella pratica non procediamo così e sorvoliamo sulla mediazione. Sorvolare sul corpo fisico sembra, anzi, il massimo della 202 Proprio la “resistenza” dentro questa dinamica aiuterà al volontà a rafforzarsi sino ad alcuni “no” coraggiosi. e. l’educazione alla fede Educarsi alla fede è porsi fiduciosamente nelle mani di un Altro\altro a cui dare obbedienza. La fiduciosa consegna apre alla forza trasformatrice della Pasqua del Signore e l’obbedienza matura al primato del valore più che a quella del sentimento. Dentro questa educazione la potenza dei sacramenti, della preghiera e della mediazione della guida spirituale diventano così importantissimi 10.2.3.3 Omosessualità 49 “Può esser così definita: un'attrazione costante e a senso unico, emotiva e sessuale, verso persone dello stesso sesso, con o senza rapporti fisici e comunque con scarsa capacità di controllo dell'attrazione medesima nel pensiero e/o nelle azioni. «La caratteristica della persona omosessuale è... un'organizzazione psico-sessuale specifica, i cui segni clinici frequenti sono i seguenti: attrattiva sessuale fin dall'infanzia per le persone dello stesso sesso; fantasie sessuali diurne e notturne a nettissima predominanza omosessuale; poca o nessuna attrattiva erotica per le persone dell'altro sesso; passaggi all'atto omosessuale che hanno procurato un vivo godimento genitale, anche se poi ne è seguito un senso di colpa; e infine, più spesso, una certa pregnanza dell'istanza materna»". Ovviamente l'elemento maggiormente indicativo è i1 fatto che vi sia stato un vero e proprio coinvolgimento omosessuale con un'altra persona, ma l'analisi deve prestare attenzione alla globalità del comportamento e della personalità. Altri segni possono essere di natura non esplicitamente sessuale, quali espressione d'una immaturità più generale (di cui l'omosessualità è una componente): per esempio, senso dell'autoidentità con notevoli residui di «fissazione» al corpo, esibizionismo, rigidità generale, narcisismo, sentimenti d'inferiorità a volte mascherati con reazioni di protesta, abitudine a cercare compensazioni consolatorie, atteggiamento infantile di autocompassione e impulso a vedere la propria vita in chiave di tragedia e sofferenza, selettività nei rapporti, sottile atteggiamento adescatore, tentativo di omologare l'altro a se, difficoltà ad accettare il diverso lasciando che sia tale, tendenza protezionistica verso l'amico, specie se più giovane ecc. In tali casi si può 49 Cfr. GILLINI G. – ZATTONI M., Il piercing dell’anima. Capire il dolore nascosto dell’adolescente, Ancora, Milnao 2005, pp. 67-82. ARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo, oc, , pp.. 143 parlare di personalità omosessuale. Naturalmente questi segni non sono tutti necessariamente presenti in tutte le persone omosessuali.” 50 Le cause non sono ben chiare ma dal punto di vista degli studi si sono notate alcuni dati ricorrenti quali: - nella maggioranza dei casi il figlio omosessuale aveva una relazione troppo intima con la madre la quale lo “preferiva” al marito, - la relazione tra padre e figlio era caratterizzata da un atteggiamento di aggressione e competitività quando questi non era distaccato o ostile indifferente o disattento. È importante allora un cammino di separazione dalla relazione infantile con la madre e stabilire una rinnovata con il padre orientando il suo enorme desiderio dell'affetto. Dentro questa immaturità la relazione omosessuale è un inconscio «uso» dell'altra per completare se stesso, o per ottenere, per esempio, sicurezza, protezione, comprensione, autostima, conforto..., tendendo in qualche maniera a omologare l’altro a se. Negando la vocazione al dono e ricadendo su se stessi... non aprendosi all’alterità alla distanza, all'uscita dall'identico facendo ricadere su un immobilismo umano e spirituale. Sono state a partire da questo delineate tre tipologie di omosessualità - vera o aperta (overt homosexuality) il motivo fondamentale e primario di attrazione per una persona dello stesso sesso e la gratificazione sessuale, e secondari sono i motivi della dipendenza affettiva e del potere (o dominio sull'altro). In tal caso il desiderio sessuale è impersonale, ogni persona dello stesso sesso, e relativamente attraente, può divenire oggetto del desiderio. - Nella falsa omosessualità la situazione s'inverte: al centro c'e il bisogno di gratificare la dipendenza affettiva e/o il potere su di un altro, solo dopo il legame assume anche una colorazione eroticosessuale. - L'omosessualità immaginaria o temuta, per i motivi pia diversi. O perché il soggetto sta attraversando un periodo di particolare insicurezza circa la propria identità che può render incerta anche la propria tipificazione sessuale; o a causa d'un residuo di una fase adolescenziale non ancora del tutto superata e che il giovane, però, debitamente aiutato, mostra di poter superare, sia pur lentamente; o altre volte è solo vera e propria paura infondata di essere omosessuali, magari perché si hanno fantasie o pensieri un pò 50 CENCINI A., Nell’amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, EDB, Bologna 1995, pp. 87-112. 144 un signore che l'ha costretto a rallentare perché attraversava lento lento e fuori dalle strisce pedonali ha suggerito la probabile professione della madre...; che ha parcheggiato in divieto di sosta perché «Tanto, chi se ne frega!». «Certo, – potrebbe obiettare il nostro giovane amico – ma nessuno ha sentito o visto nulla!». Meglio così; ma non è questo il punto. Non si tratta di una questione di galateo sociale; né quella morale, con l'eventuale richiamo ad una condotta di vita più coerente anche nel privato, è la prospettiva che immediatamente ci interessa. L'ascolto di te interessa... te. Non interessa che gli altri ti ascoltino. Ma che tu ti ascolti. E tu, certamente ti sei ascoltato! Non vorrei inserire una questione teologica tanto per nobilitare l'ordine delle argomentazioni. Eppure una riflessione del genere, a mio parere, si impone proprio da un punto di vista teologico. Perché la teologia cristiana pone il concreto, lo storico, all'interno del piano del senso. È la logica dell'evento di Gesù a mostrarci che uno schema che scinde troppo trascendenza e immanenza è inadeguato a dire la verità del mondo e della persona umana. In altre parole: se esiste una vocazione, che si dispiega in un progetto, questo c'entra con la concretezza storica della persona. E non si può dire che la storia sia un semplice spazio di mediazione, inevitabile ma quasi «spurio» per una vocazione: qualcosa che nel declinarla concretamente, finisce allo stesso tempo per contaminare ciò che in realtà si trova da un'altra parte. Insomma: se questo giovane ha voglia di fare la guerra (anche se non lo sa), questa guerra in qualche modo «c'entra» con la sua vocazione. E la sua vocazione non può consistere soltanto nel tentativo di concretizzare il mondo dei desideri «alti» (o giudicati tali), come se quegli altri non ci fossero. L'ascolto non si esaurisce nella lettura introspettiva dei fatti Anche questo terzo aspetto probabilmente è molto scontato. Ancora una volta, però, mi pare molto scontato nella teoria e, soprattutto, quando parliamo degli altri e non di noi. Nella pratica difficilmente lo applichiamo a noi stessi. Ho appena detto dell'importanza dei fatti, di ciò che accade concretamente. Però, non è detto che i fatti semplicemente perché ci sono siano conosciuti e dunque letti. Nella pratica circola una falsa persuasione: che la conoscenza di se stessi in qualche misura coincide con la propria (presunta) capacità di introspezione. Le cose non stanno del tutto così. Vediamo un altro semplice esempio. 201 applichiamo alla nostra testa le leggi dell'algebra binaria: se una cosa c'è, non ci può essere anche quella contraria. E chi l'ha detto? Senza chiamare in causa la teoria delle relazioni oggettuali, che forse meglio di tutte le teorie psicologiche di taglio psicoanalitico ha riflettuto sulla scissione della personalità, basterebbe leggere san Paolo che, tutto sommato, dice la stessa cosa: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto»68. L'ascolto di sé, dunque, deve essere capace di svelare il rischio della idealità. Perché è rischio? Perché si porta via una parte di noi, che potrebbe essere perfino buona. Non è buona, o può diventare non buona, quando non sono più io a decidere di lei; e ciò la lascia in balia di ciò che non sono più io necessariamente a gestire. L'ascolto è a partire dai fatti Questo secondo aspetto è la conseguenza delle riflessioni appena fatte. Mi sembra che l'espressione «ascolto di sé» evochi, nel sentire diffuso, l'immagine di colui che si mette lì, forse un po' assorto, e «si guarda dentro»; e, magari, proprio in quella circostanza si pone le domande fondamentali della vita: «Chi sono?»; «Da dove vengo?»; «Dove vado?». Non voglio certo ridicolizzare la questione del senso della nostra vita, che è tutt'altro che secondaria. Ad ogni buon conto l'ascolto di sé è un'altra cosa. Riprendiamo il caso del nostro giovane interessato a diventare prete. Proviamo ad immaginare l'ascolto di sé secondo la prospettiva che forse ci viene più spontanea. E cioè: quel giovane, finito l'incontro in seminario, se ne torna a casa e quella sera, a letto, si mette a pensare alla sua vita, a ciò che vorrebbe fare, al suo desiderio di vivere per la causa della pace, all'eventualità di donarsi agli altri come prete... Se ne sta lì, con lo sguardo al soffitto... e pensa..., pensa... Giusto. Può essere importante fare questo, sia chiaro. Ma l'ascolto di sé non può partire dalle sole riflessioni, giacché queste, appunto, rilanciano soprattutto ciò che appartiene ai progetti. In termini di realtà complessiva questo non può bastare. L'ascolto di sé dovrà opportunamente tenere conto anche dei fatti. Il giovane ricorderà sì il suo desiderio di pace e la bellezza di essere finalmente riuscito a confidarlo a qualcuno, esplicitandolo, oggettivandolo e perciò rendendolo più concreto, più provocante per se stesso e per la sua vita. Il giovane, però, dovrà anche ricordare che andando in auto in seminario, ed essendo in forte ritardo, ha sciorinato fra sé e sé tutto il suo repertorio linguistico da bassifondi; che a 68 200 Rm 7,15. insistenti in tal senso; o perché non si è secondo quel modello di conquistatore Oggi gli studiosi ulteriormente delineano soluzione delle fatiche di maturità affettivo-sessuale in relazione a tre condizioni fondamentali: A. La prima condizione è che la persona sia cosciente della radice del suo problema, della sua vera motivazione, o – per lo meno sia disponibile a cogliere la reale funzione psicodinamica, a volte inconscia, di quella debolezza nella sua personalità o il posto strategico che essa occupa nella mappa dell'io (la plasticità e l'onninvadenza), in forza delle quali a volte il vero problema sessuale viene «nascosto» e non emerge, mentre altre volte è esso stesso a «nascondere» un problema nato in altre aree della personalità. molto frequentemente la radice delle debolezze sessuali non e di natura sessuale. B. La seconda condizione è che il giovane senta la sua debolezza affettivo-sessuale come un corpo estrane o e non come qualcosa con cui s'identifica e l'allo nta na, lo «aliena» da se stesso e da quello che vorreb be essere. Con tra ria men te vie ne con dan nat a a par ole ma di fatto diventata parte della sua vita e quasi un elemen to di sostegno, giustific and ola rid ime n sionando il peso moral e, rid ucendo il senso di colpa e il disagio. C. Infine, terza condizione, è la libertà di controllare queste debolezze: sia perché ci cade sem pre men o, sia per chè quest' ultime distur ban o sem pre men o la s u a v ita e gl i c o n s e nt o n o di sv o lg e r e i s u oi d o v er i n or m a li. È un sap er pre ndere sem pre più le distan ze da questi con diz ion ame nti nel cuore e nella men te, nella vol ontà e nei desideri, nelle scelte e nelle azi oni, per ess ern e sem pre men o dipend ent i. 10.2.4 Sessualità e senso del peccato: la gioia di riconoscersi bisognosi d'amore per amore alla verità La conoscenza di sé soprattutto nell’ambito della propria affettività è percorso veritativo che conduce al riconoscimento della propria peccaminosità intrinseca, riconoscendo sia la dimensione soggettiva che oggettiva. A. Dal punto di vista soggettivo: questo richiede la capacità di ascolto e analisi di sé stesso alla luce della Parola. Questo consente di imparare con onesta e sincerità tutto ciò che nei pensieri, nelle azioni e nelle parole provoca tensione, squilibrio, disagio, vergogna e tutto ciò che ci porta in un clima di falsità quali segnali di una lontananza da Dio e da noi stessi. Ma questo non è sufficiente perché potrebbe condurre ad un relativismo soggettivistico dove noi siamo misura a noi stessi. 145 B. Il confronto con l’oggettività ci fa comprendere che il male non coincide con ciò che emotivamente ci ferisce ma per il legame intrinseco con la verità. È questo un dono da chiedere, da implorare per sé e per gli altri. Il senso del peccato allora non sarà immediatamente un legame con il giudizio ma diverrà un grido che si leva dentro di noi eco dell’originaria chiamata di Dio alla verità ed all’amore. Un cammino che purifica la nostra esistenza affettiva è dato dalla padronanza di sé mediante la temperanza cioè la custodia dei desideri e la scelta dell’essenziale. I desideri allora sono vincolati ai valori ed in particolare a quello dell’amore crocifisso, 10.2.5 La castità dono di Dio: valore pedagogico e spirituale di sè51 Come scriveva Karol Wojtyla, poi papa Giovanni Paolo II, nel suo libro Amore e responsabilità, la castità «atteggiamento trasparente nei confronti della persona di sesso diverso». Oggi invece si afferma facilmente che l'uomo deve accettare e soddisfare tutte le sue pulsioni psicofisiche e psicosomatiche; si dice che il dominio della sessualità porterebbe a un'eccessiva tensione e, di conseguenza, a forme di nevrosi. Invece la castità è ordine, equilibrio, dominio, armonia. Molti affermano: «Il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio io. Sono responsabile dei miei atti esterni che danneggiano gli altri, ma non devo rispondere a nessuno del mio corpo». Ma così si contraddice tutto il detto sul corpo “in relazione”.[…] Di fatto la castità […] lungi dall'essere disprezzo del corpo, permette di incanalarne le energie, distogliendole da ripiegamenti egoistici, verso un servizio sempre più grande e reciproco. È vero che la radice del sostantivo "castità" ricorda l'austerità, il tenere a freno; essa ci insegna in positivo la disciplina del cuore, degli occhi, del linguaggio, di tutti i sensi. Ma tutto ciò dà scioltezza, libertà, armonia e pace. […] È un'autentica signoria su di sé e insieme riconoscimento della signoria di Gesù sul nostro corpo e sulla nostra vita. San Paolo ha in proposito quella parola che mi ha mosso a stendere questi appunti, una parola che è come un fuoco: ”il corpo non è per la fornicazione”(1cor 6,13) La castità ci fa vivere nel nostro corpo la libertà dello Spirito il cui frutto è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, moderazione, autocontrollo, cortesia, mitezza, longanimità (cf Gal 5,22). Anche qui si avvera il detto: c'è più gioia nel sacrificio. MARTINI C.M., Il corpo, oc, …pp. Cfr. ARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo…, oc, pp. 51 146 piano non sia autentico. Il «pacifismo» interiore ed esteriore del nostro giovane amico era certamente qualcosa a cui lui credeva veramente. Di più: quando dicevo che alcuni segni di ciò che sarebbe poi emerso nella conversazione del pomeriggio, erano già visibili in quella del mattino, mi riferivo precisamente al suo desiderio perfino «eccessivo» di una pace interiore. Chissà, forse già in quella affermazione il nostro giovane stava svelando ciò che nel profondo lo inquietava, seppure inconsapevolmente: la presenza di una notevolissima tensione aggressiva (voracità nell'assumere il cibo; film e letture violente) che cercava di respingere imponendo a se stesso di fare «pace» dentro di sé. L'ascolto di sé, per essere realmente tale, però, non poteva sostare soltanto su quel piano ideale o progettuale. In ogni caso «ideale» o «progettuale» non significano «non reale» o «soltanto ideale». Significano che l'ascolto di sé era parziale, escludendo ciò che di sé sembrava non rientrare nel proprio «progetto di sé». L'ascolto integrale di sé avrebbe dovuto condurre quel giovane a dire «Voglio la pace; ma voglio anche la "guerra". Che mi piaccia o no, so che questo è un mio "desiderio"». Tuttavia una siffatta consapevolezza non può non recare con sé una spontanea obiezione: «Ma come posso desiderare ciò che non amo, e che anzi respingo? Posso ancora chiamarlo desiderio?». Ciò che si agita dentro di noi È qui che alla chiarezza teorica non corrisponde altrettanta linearità logica nella pratica. Talora possiamo rischiare perfino di perderci nella disamina critica dei termini: affetto, bisogno, motivazione, desiderio... Non che una simile ricerca della puntualizzazione terminologica sia priva di senso. Assolutamente no. Il rischio, però, è che così facendo ci si distanzi troppo dall'esperienza. Infatti nell'esperienza di ciò che «muove» semplicemente la nostra volontà, di ciò che ci attrae e ci respinge, non facciamo queste distinzioni, ma ci limitiamo a subire o a dialogare con delle mozioni, cioè semplicemente con qualcosa da cui ci sentiamo «mossi». E non è detto che ci possa sempre aiutare, sapere che una cosa sentita è un bisogno piuttosto che un desiderio, una motivazione anziché un affetto. Di fatto, e al di là delle interpretazioni o delle puntualizzazioni, ma per aderenza alla concretezza della sua vita, il nostro giovane avrebbe dovuto dire proprio così: «Desidero questo (la pace), ma anche questo (la "guerra")». Spesso fatichiamo ad attuare questo riconoscimento complessivo, in primo luogo perché ci sembra che ciò che merita di essere identificato come desiderabile debba essere per forza di cose buono. Se non è buono non può essere desiderabile. Sarà anche vero o almeno legittimo pensare così; però, di fatto, quella roba «c'è». E quella roba, qualunque «cosa» sia, e da qualunque parte venga, «c'è». In secondo luogo, perché talora 199 Mi chiese un incontro un giovane che desiderava iniziare un itinerario di approfondimento vocazionale. Era interessato alla prospettiva di diventare prete e chiedeva di poter fare una semplice chiacchierata; non molto di più. Come a dire: cominciamo a conoscerci e poi si vedrà. Ci accordammo per mezzogiorno. Poi lui si sarebbe fermato a pranzo da noi. Quindi sarebbe ripartito. Arrivò con mezz'ora di ritardo. E siccome il pranzo comunitario era alle 13, gli proposi di fare una prima breve chiacchierata. Avremmo poi ripreso per un altro po' nel primo pomeriggio. Si presentò. Era molto grasso. Aveva un grande tau di legno al collo, la barba un po' trascurata, di chi non si capisce bene se voglia lasciarsela crescere oppure si sia solo dimenticato di farla. Vestiva in modo semplice. La svolta in senso vocazionale della sua vita era stata una marcia della pace, ad Assisi. E il tema della pace, della concordia, e quindi del Signore Gesù che dona la pace, e poi ancora il prete come vero ministro della pace... insomma, tutto era costruito in modo consistente su questo tema. Mentre parlava sorrideva molto. Niente da dire. Anzi. Una bella figura di giovane, con valori alti, profondi. Con lui, allora, provai a mettermi in ascolto dei suoi desideri. Anzi: provammo insieme a metterci in ascolto dei suoi desideri. «Che cosa desideri nel profondo?»: la risposta, a quel punto prevedibile, fu: «La pace!». La pace universale, ma anche la pace interiore, e poi ancora la pace in famiglia... e via dicendo. Vero. Tutto vero. Tutta farina del suo sacco. Niente finzioni e un desiderio genuino di pace. Dopo questa prima parte andammo a pranzo. Dio ci aiuti! Dire che questo giovane e simpatico pachiderma «mangiava» non rende assolutamente l'immagine che mi si stampò quando inevitabilmente (ero di fronte a lui) fui costretto a vedere come mangiava e quanto mangiava. Visto il peso, il quanto era perfino scontato. Il come, invece, assomigliava a quello del T Rex in Jurassic Park. Insomma: una voracità «primordiale» e una velocità al cui confronto la mia (che pure non sono lento) era roba da dilettanti. Il fatto di osservarlo mangiare così non mi portò propriamente a nessuna conclusione sul «che cosa» poteva dinamicamente muoversi all'interno della sua personalità. Piuttosto mi suggerì di approfondire alcuni aspetti che, nella chiacchierata del mattino, non avevo toccato per niente. Nel pomeriggio, anziché lasciarlo andare troppo a ruota libera (perché a quel punto, e con la pancia piena, chissà quante altre cose sulla pace avrei scoperto!) provai a incalzarlo con qualche domandina, pescando un po' di qua un po' di là. Qui mi limito a riportarne una che avrebbe svelato in modo paradigmatico ciò che appariva diffusamente in molti altri spazi della sua personalità e che già nella mattinata, a ben guardare, dava qualche segno di sé. Gli domandai come occupava il suo tempo libero. Siccome gli interessavano i film e i libri, gli chiesi che cosa guardava e che cosa leggeva. Come film probabilmente la cosa meno violenta e angosciante che aveva visto era L'esorcista. Quindi: Arancia meccanica, l'«Opera Omnia» di Dario Argento, e poi tutta quella roba tipo Zombie I, Zombie II, Zombie III, Non aprite quella porta I, Non entrate in quella casa II, Statevene a casa vostra III, e via dicendo... I titoli dei libri ve li risparmio, ma siamo sempre lì. Ecco dunque ciò che vorrei mettere in evidenza. Nell'ascolto di noi stessi talora ci fermiamo a considerare ciò che appartiene ad un piano di idealità, ad una sorta di progetto. Non è detto che il contenuto di questo 198 Nelle diverse situazioni di vita Naturalmente la castità riveste significato e sfumature diverse a seconda della situazione di vita. C'è un modo di vivere la castità che è proprio del matrimonio; un altro di chi è in stato di vedovanza; c'è un modo di vivere la castità proprio di chi, per circostanze indipendenti dalla sua volontà, è celibe; e ce n'è un altro di chi ha la vocazione di verginità consacrata per il Regno. C'è in particolare il modo di vivere la castità nel tempo dell'adolescenza e della giovinezza. Qui si pongono le basi ideali per lo sviluppo della persona e si forma quella coerenza e dominio di sé che si rifletterà in modo benefico su tutte le fasi e le esperienze successive. Educarsi alla castità Nel campo della disciplina della sessualità non basta affidarsi al ragionamento sul lecito e l'illecito; in tal caso la ragione appare come una diga che facilmente si rompe. È necessaria un'intuizione spirituale che ci aiuti a cogliere le esigenze derivanti dal fatto che il nostro corpo è del Signore. Con la riflessione razionale non si va oltre gli elementi fondanti, non si entra nella profondità della persona che continuerà a vivere forme di complicità, di doppiezza, di compromesso. L'intuizione spirituale ci addita la via della castità, del superamento continuo di sé, della sottomissione alla straordinaria grandezza dell'amore. Ma tutto ciò richiede umiltà, preghiera, coraggio, perseveranza. E un lungo cammino di liberazione. Castità come povertà La castità è educazione e allenamento a superare ogni mentalità di tipo possessivo e padronale nei confronti del proprio e dell'altrui corpo. È una forma di "povertà" evangelica perché si estende pure al cibo e alle cose voluttuarie che contraddistinguono la nostra società consumistica, e comporta anche un uso moderato e intelligente della televisione. Castità è purezza di cuore La purezza di cuore è una beatitudine evangelica, «I puri di cuore vedranno Dio» (Mt 5, 8), ed è un atteggiamento più ampio della castità. Tuttavia la include e ci consente di scoprire la causa remota di non pochi offuscamenti che si registrano nel campo della fede. Quando infatti la volontà si lascia infiacchire e i rapporti amicali non sono casti, il cuore non è puro e ci si sente cristiani banali, non si prega, si avverte il bisogno di continue eccitazioni. In tale terreno crescono le tentazioni d’incredulità.[…] 147 Il discorso della castità cristiana è scomodo e in qualche modo paradossale rispetto agli attuali modelli del vivere. Crea spinte e aperture che sono in ordine al modello evangelico di amore e di libertà. […] Educare a donarsi Il passaggio dall'adolescenza all'età adulta non ha luogo quando uno diviene maturo intellettualmente bensì quando ha imparato a sviluppare un amore altruistico e disinteressato, gratuito. Un giovane e una ragazza diventano un uomo e una donna quando sono capaci di dimenticarsi per il bene dell'altro e degli altri. Prima di ciò sono psicologicamente ancora adolescenti o addirittura bambini. Ma tale passaggio non avviene automaticamente o a caso; è la conseguenza di un'educazione ad amare, di cui la capacità di dominare le proprie pulsioni sessuali, i propri desideri, è momento fondamentale. Imparare ad amare non significa iniziarsi alle tecniche dell'atto sessuale, e nemmeno alla ricerca del godimento separato dalla comunione interpersonale e dalla sua apertura al dono della vita. I giovani e la castità L'impegno a vivere la castità nell'età giovanile crea condizioni ottimali per una trasparenza interiore che permette di ascoltare, al di là di ogni ottusità e pesantezza, la parola di Dio e i suggerimenti dello Spirito. Per questo è quasi impossibile che nasca una vocazione evangelica là dove non si è vissuto un sincero sforzo di castità. Il giovane casto diviene obbediente a ogni più pura ispirazione e capace di dire di sì al Signore superando la propria fragilità e inerzia. La castità non reprime i desideri, non li ridicolizza e non li nega. Piuttosto li orienta dall'interno e insieme sostiene il tentativo del giovane di aprirsi a un modo diverso, più profondo, di guardare e di decifrare la realtà. libertà dell'uomo, da un abuso di questa libertà, dalla sua ribellione, e si rinnova continuamente nella ribellione dell'uomo. Ora questa fedeltà di Dio è un concetto fondamentale della Rivelazione. La Sacra Scrittura ci racconta come Dio, per preparare la salvezza, elegga un popolo; come stabilisca con esso un patto che si fonda totalmente sulla sua fedeltà eterna, e come da essa – la quale si «comprova»di continuo contro l'infedeltà dell'uomo – nasca la storia dell'Antico Testamento. E come infine la fedeltà di Dio compia l'inconcepibile, l'atto di prendere su di Sé la responsabilità per colpa dell'uomo, di entrare con 1'Incarnazione nella storia e di subire in essa il destino. La vita di Gesù è tutta un'unica fedeltà. Ne è espressione il modo come Egli persevera nella Palestina angusta e ostile, perché si sa mandato come partner dell'alleanza del Sinai, pur sapendo che il vasto mondo pagano l'avrebbe accolto con prontezza. Persevera fino ala morte, e quale morte!La fedeltà viene nel mondo da Dio. Noi possiamo essere fedeli perché Egli lo è e perché Egli ci ha destinati, noi sue immagini, a essa. 14.3 Senso del concreto, 14.4 Ordine67 Conoscere se stessi per ciò che si è: un esercizio di maturità che spesso nasconde equivoci che ce lo fanno immaginare come in realtà questo esercizio non può essere. Ne raccolgo tre: cogliere solo il bello di noi; ancorare i propri progetti alle grandi questioni; guardarsi dentro da soli. Successivamente, in positivo, proverò ad entrare in un ambito concreto dell'ascolto di sé (il tema della perdita) avente valore esemplificativo, ma con un rilievo che mi pare vada al di là di quello che potrebbe essere lo spazio circoscritto di un esempio. Il rischio della idealità Se avessi letto o ascoltato da un altro qualche tempo fa le considerazioni che ora io stesso scrivo in questo paragrafo, probabilmente avrei sentenziato che sono ovvie e perfino banali. Nel lavoro concreto, sia in ambito psicologico, sia più ampiamente in campo formativo, mi sono accorto che se è vero che nella teoria le cose sembrano molto chiare e molto ovvie, sembra che non lo siano altrettanto nella pratica. Vediamo meglio con un semplice esempio. 148 67 GUARINELLI S., L'ascolto di sé: equivoci e obiettivi in “Tredimensioni” 2 (2005), pp. 261-275. 197 In questo modo la fede acquista un significato nuovo: è quell'azione in cui l'uomo supera il tempo della lontananza e del silenzio di Dio. Quando Egli fa sentire la sua prossimità, quando la sua parola è una cosa viva, non è difficile essere certi della sua realtà; allora è gioia credere. Ma quando Egli si nasconde, non si sente, la parola santa non parla, allora è difficile. Ma allora è il tempo per la vera fede. La fedeltà e ciò che sopravvive al tempo. Ha in sé qualcosa dell'eternità. Ma, dacché si parla di eternità, ci si può domandare come stanno le cose in Dio. La «fedeltà» ha un senso per Lui? La domanda ci rinvia a cose profonde; le vogliamo accuratamente raccogliere nel nostro cuore. Quando Dio ha creato il mondo l'ha fatto davvero grande. Le conoscenze scientifiche degli ultimi decenni ci hanno reso consapevoli in maniera sconvolgente della grandezza del mondo. Grandezza nel grande, ma anche grandezza nel piccolo, se cosi si può dire. Il pensiero si perde in ciò che qui si dischiude. II mondo è più grande del nostro pensiero; ma di fronte a Dio e piccolo, poiché Egli è assoluto. II vocabolo «è» non può essere adoperato per Dio con lo stesso significato che per il mondo. Non si può dire: Dio e il mondo «sono». Egli è semplicemente, auto-sufficiente e autopotente; i1 mondo è per Lui, davanti Lui, ordinato a Lui. Quando però Egli l'ha creato, non l'ha fatto come per gioco, ma in modo divina-mente serio. Egli ha collocato il suo onore nel mondo. Gli ha dato – lo si può davvero dire – la sua fedeltà, quando Egli disse che era «buono». Lo si dice sei volte nel racconto della Genesi, e alla fine, per la settima volta: «Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono» (Gn 1, 31). In tal modo Egli si è legato al mondo. Abbiamo già parlato di quel mito indiano secondo cui il Dio Shiva ha plasmato il mondo in un impeto di gioia creatrice, ma poi ne ha avuto fastidio, lo ha ridotto in frantumi e ne ha creato un altro, e dopo questo ancora un altro e così via. Questo sarebbe l'aspetto di un Dio che non avesse nessuna fedeltà verso la propria opera. Egli non verrebbe mai a capo, con la sua pretesa, della finitezza del mondo; dopo un po' di tempo esso sarebbe ormai troppo poco per lui e lo butterebbe via. Sarebbe terribile trovarsi nelle mani di Dio simile! Ma non è così Colui che si e rivelato a noi, Egli tiene ferma la sua opera. Tiene il mondo nell'essere. Ogni momento esso consiste e sussiste in virtù della sua fedeltà. Questa era, se così si può dire, quella «prova» della fedeltà di Dio verso il mondo che sta nella finitezza delle cose create, la quale non sarà mai eliminata. Ad essa si aggiunge un'altra «prova», che non vi sarebbe mai dovuta essere. Essa non derivò dalla natura delle cose, ma dalla storia; dalla 196 11. Emozioni e loro lettura 52 Nessuno può vivere senza sane gratificazioni, cioè, senza piccole gioie, senza emozioni positive, senza soddisfazioni gratuite. Se uno non se le permette, finirà con il prendersele come rapina, azzerando una parte dell'io […]. E soprattutto non soddisfacente. Una gratificazione insana è destinata a ripetersi, poiché comporta un'emozione non godibile, non piena, come una sorta di assaggio che promette ma non da, oppure da in maniera talmente miserevole e deludente che solo per rabbia uno tende a ripeterla, aggiungendovi il veleno del risarcimento folle; nel male, infatti, siamo così complessi da arrivare alla volontà proterva del risarcimento per ciò che non poteva offrirci quanto prometteva: sazietà e pace. Ma come si apprende la gratificazione sana? Diciamo subito che essa ha radici di umiltà: né me la posso "rapinare" da solo, né posso essere così disincarnato (disumano) da farne a meno. Quando è sana, la gratificazione è un vero ponte verso l'altro di cui ho bisogno e che ha bisogno di me; sta nella verità del legame, cui siamo consegnati. È come se Dio avesse inventato il legame perché non credessimo di essere mostruosamente ed orgogliosamente autosufficienti. Un sorriso, un saluto, una parola di approvazione, uno sguardo buono ci dicono chi siamo gli uni per gli altri. […] [un ciao luminoso, con il sapore di una punta di desiderio. «Finalmente ti vedo!», disse il vecchio frate — il più anziano della comunità al giovane frate di ritorno da una missione. «Quel saluto e quel sorriso hanno dissipato le nebbie che coltivavo insieme alle mie paure di non essere accettato, di non essere importante per loro»] La vera gratificazione che equivale al «tu esisti» me la danno gratuitamente gli altri. Prima condizione In primo luogo, ad un patto: e cioè che io abbia appreso che tra gli umani l'unico modo di ricevere carezze è quello di darle. E qui ci sarebbe molto da dire, meglio, da meditare: quanto la nostra cultura massificata ci ha disabilitati ad offrire carezze (un saluto gioioso, un grazie, un sorriso, un'approvazione) soprattutto tra maschi; sembra che una "pacca sulle spalle" sia quanto si possano permettere gli uomini [...] 52 325. 149 GILLINI G. – ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp. 319- E ancora: quanto la nostra cultura ci abbia abilitati a prendere (rapinare), al punto che arriviamo a dare alfine di ricevere. E quindi ci condanniamo a non ricevere mai; poiché quel dare è già calcolo-attesapretesa e quindi perde i caratteri del dare. Contempliamo per un attimo quel dare speciale che è il saluto di Maria alla parente Elisabetta (Lc l,39ss). […] Maria: «Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta». Un semplice e scontato convenevole? Tutt'altro […] Ma da dove viene questo shalom. […] In questo «shalom» Maria porta tutta se stessa: la sua voglia d'incontro, lo stupore per ciò che Dio compie nell'altra. E noi, invece, non abbiamo corroso i nostri saluti che sono così scontati da non dice nulla di nuovo all'altro? Ci dimentichiamo di quanto siano importanti i saluti, un ciao luminoso, con il sapore di una punta di desiderio. «Finalmente ti vedo!», disse il vecchio frate - il più anziano della comunità al giovane frate di ritorno da una missione. «Quel saluto e quel sorriso hanno dissipato le nebbie che coltivavo insieme alle mie paure di non essere accettato, di non essere importante per loro», commentò il frate. Perché non possiamo dire che nel saluto del vecchio frate è passato lo Spirito? […] mutamenti, svantaggi e pericoli. Non in forza di un potere di resistenza dovuto al temperamento. Questo ci può essere, e fortunato colui che lo possiede. Ma la fedeltà e di più e cioè fermezza che emerge dal fatto che l'uomo ha assunto qualcosa nella propria responsabilità e se ne fa garante. Essa vince le mutevolezze, i danni e le minacce della vita con la forza della coscienza. In un uomo simile si può aver fiducia. Si sente che in lui c'è un punto che sta al di là della paura e della debolezza e che di lì il suo atteggiamento di continuo si rinnova. Seconda condizione In secondo luogo, la vera gratificazione mi è data gratuitamente dagli altri a patto che abbia imparato a distinguere tra pulsione e desiderio. "Pulsione" è un movimento istintivo, immediato (ad esempio il sintomo della fame) che esige immediata soddisfazione: e non può essere mai una buona guida dell'io; anzi quando la pulsione pretende di guidare l'io, lo scaraventa nel baratro del non senso. […] La pulsione non ammette dilazioni ed è tutt'altro che umanizzante. […] Ma questo è un apprendimento. […] La pulsione può diventare il mattone con cui è fatto il "desiderio" quando ha imparato ad aspettare e ad adattarsi ad un tu. Un desiderio non ha la protervia del bisogno o del diritto al soddisfacimento, ma si fa umile poiché sa che la sua soddisfazione proviene da un tu. Modulare le proprie emozioni, controllare gli impulsi, monitorare i propri bisogni, accorgersi delle emozioni dell'altro, provare empatia: sono tutte sfaccettature del desiderio che pronuncia in punta di piedi l'umile "posso?" per non diventare invasore o prevaricatore. L'Unico che potrebbe prevaricarci pronuncia da sempre il «se vuoi»: Egli è il Desiderio che si china fino a ciascuno di noi; e, del resto, ha chiesto proprio alla vergine il «se vuoi» che lo rende pienamente umano e nel contempo uno che - qui - ha scelto di non pareggiare mai i conti. Per rendere presente il margine del desiderio che sempre ci supera. Ma se la verginità non ha radici nel controllo emotivo, nell'integrità emozionale, nella capacità di automonitoraggio dei propri impulsi, allora rischia di essere una fonte disseccata e vuota. Tutto questo porta all'arte di Non possiamo inoltre dimenticare un'altra specie di fedeltà: quella verso Dio. Che cosa interviene quando un uomo si decide per la fede con matura risoluzione? Anzitutto vi influisce tutto ciò che egli ha appreso e assimilato dai genitori, dall'atmosfera della sua casa, dagli insegnamenti, dalla vita della Chiesa e via dicendo. Ha avuto magari egli stesso delle esperienze religiose. Egli ha, poniamo, esperito in tempi di sincera preghiera qualcosa come una sacra e serena realtà che lo reggeva dentro. Oppure ha sperimentato in determinate occasioni ciò che si chiama. provvidenza. Le risposte della religione cristiana alle domande dell'esistenza lo hanno convinto; ha notato che, seguendo le sue indicazioni, egli diveniva migliore, più sicuro e più ricco interiormente, e altre cose del genere. Fondandosi su ciò, egli si è deciso e ha dato a Dio la sua fede. Questa prima religiosità è bella, generosa e colma della coscienza d'un profondo significato. Ma con il tempo questi sentimenti possono pure alterarsi, o anche scomparire del tutto. Svanisce ad esempio la sensazione della vicinanza di Dio, e come un vuoto religioso si innalza tutto intorno al credente. Oppure egli deve constatare tutto quel molto di umano che aderisce al mondo religioso. Oppure intervengono fatti che egli non è in grado di porre in accordo con l'idea di provvidenza. Oppure le idee del suo tempo si allontanano dalla fede, cosicché questa risulta come qualcosa di sorpassato. Allora la fede perde gli appoggi che aveva nel sentimento, nelle persone del suo ambiente, nell'ordine degli avvenimenti,e gli insegnamenti della Rivelazione, cosi stupendamente illuminanti a tutta prima, impallidiscono. Allora lo può assalire il dubbio di essersi ingannato, d'essere caduto in balìa di qualche falso idealismo. Gli potrà sembrare in simili frangenti di essere stato davvero uno stolto a credere. E questo il tempo per la fedeltà. Essa dice: io resto fermo. Quando mi decisi per la fede, ciò che allora incise in me non fu una inclinazione sentimentale o l'attrattiva d'una bella teoria, ma fu un'azione del mio centro, della persona e della sua serietà. La parola «credere», «fede» (Glauben) significa «votare» (geloben), significa votare fedeltà. Dio conta su questo mio «voto»; perciò gli resto fedele. 150 195 forza della sua propria essenziale missione; rassicurarlo sempre daccapo e mettersi a sua disposizione. C'è da considerare inoltre un'altra cosa. Quando due persone si uniscono, ognuno arriva con un determinato carattere. Ora «vivere» significa appunto che si cresce e che perciò si cambia. Certe proprietà emergono quando si è bambini, altre quando si e maturi, altre ancora soltanto negli anni tardi. Può cosi succedere che un giorno uno dei due, sconvolto, dica all'altro: Non ti conosco più! Tu non eri cosi quando mi sono innamorato di te! Può succedere che chi parla in questo modo si senta come abbandonato e ingannato, come se l'altra persona si fosse contraffatta, mentre in realtà non era stata che un'evoluzione vivente quella che aveva portato in luce in lei i suoi aspetti nuovi. E’ questo, un'altra volta, il tempo della fedeltà, della vittoria sul cambiamento e della perseveranza. Ma ciò non rigidamente e costrittivamente, bensì in modo che l'uno accetti sempre di nuovo l'altro e vi si adegui. Tutto ciò può essere difficile, in certe circastanze difficilissimo; il sentimento deluso può insorgere. Ma nella misura che una simile fedeltà viene praticata essa aumenta in profondità e crea ciò che è realmente un matrimonio. Andiamo avanti: Fedeltà significa rimanere fermi in una responsabilità a dispetto delle perdite e dei pericoli. Un tale, per esempio, ha riassunto determinate obbligazioni. Egli ha ben riflettuto sull'affare, l'ha riconosciuto giusto, e l'altro conta ormai su di lui. Ma ora le circostanze si sono mutate e si profilano svantaggi. Fedeltà significa stare alla parola, prendere su di se il danno che nel caso inverso si sarebbe addossato l'altro. Oppure un tale è afferrato da un'idea, ha riconosciuto un'azione come necessaria e vi si e impegnato. Ma ecco subito, come è naturale, difficoltà in vista. Fedeltà significa tener fermo e lottare. Si può trattare di rischi attinenti alla professione. Un medico sente che il suo lavoro logora le sue forze, forse mina la sua vita. Un assistente sociale ha un servizio duro, forse più duro ancora in quanto altri si danno buon tempo. La fedeltà dice: non mollare. tranquillizzare e confortare se stessi, arte di vivere, richiesta a tutti: se non si vuole cadere in una morbosa dipendenza che fa dell'altro il biberon e la stampella terapeutica. Chi possiede intelligenza emotiva, cioè non l'intelligenza astratta che lascia l'io in balia delle pulsioni-emozioni magari non riconosciute, ha un proprio termostato emozionale, in grado di riconoscere le proprie sane gratificazioni e di attivarle al momento opportuno, senza falsi eroismi o superomismi. Ognuno deve imparare a riconoscere ciò che lo gratifica, che lo rende in qualche modo diverso e che di solito pesca le radici nella propria infanzia; «mangiare pop corn davanti alla TV» ci diceva una suora, tutta presa dai suoi impegni missionari. Staccare la spina ogni tanto, concedersi una piccola gioia, cambiare magari ambiente per breve tempo: tutti trucchi del nostro termostato emozionale che non consegna la nostra intelligenza e la nostra libertà al primo impulso che passa. Ma, di nuovo, questo apprendimento non avviene nel vuoto: ha bisogno di un'assemblea fraterna che diventi motrice di una fraternità che approva, conferma, sostiene e nella quale ciascuno generi l'altro nella capacità del desiderio e non lo lasci nascondersi dietro i buchi neri della sua storia. Per quanto grandi siano stati. È sempre possibile, infatti, aiutarsi reciprocamente ad apprendere gratificazioni sane (o quanto meno a mettersi reciprocamente sulla buona strada di un apprendimento, che poi ciascuno continua in camera sua). E che cos'è precisamente ciò che si chiama «convinzione»? Anzitutto conoscenza: si è capito che questo e così e così lo si stabilisce, lo si rende appunto stabile; non si ha neppure bisogno di appoggiare ulteriormente la cosa, di metterla d'accordo con le opinioni correnti, di vedere se reca vantaggi, o altro. Ma, dovunque ci siano uomini in gioco, non bastano mai semplici motivi intellettuali, la presa di posizione dev'essere sostenuta da una obbligazione cui ci si vincoli. La forza con cui si tiene fermo ciò che si è affermato, attraverso tempi e situazioni varie in cui i «motivi» appaiono pallidi o insicuri, è la fedeltà. La fedeltà supera i 194 151 12. Vincoli e relazioni familiari53 riconoscenza nelle In parte già trattata in relazione alle motivazioni qui la vorremmo osservare nell’ambito delle dinamiche famigliari.54 Un minimo di consapevolezza sulla qualità delle relazioni coi propri genitori (presenti, assenti etc) è importante per fare un discernimento un po' più libero. Le dinamiche poste dentro il legame coniugale genera insicurezze e il loro opposto che non si possono solo risolvere volontaristicamente. Spesso in modo incosciente quanti cordoni ombelicali sono ancora da tagliare per incapacità o per comodità anche dopo l’appartenenza alla nuova famiglia. Laddove il rapporto col padre o la madre è lacunoso ne viene a risentire il legame col Signore anche smascherandone le giustificazioni inconsistenti per questo la ri-conoscenza è la via per una autentica relazione con Dio ed i fratelli. “A casa di qualcuno si arriva sempre con la valigia – talora perfino con delle potenti ipoteche – non si arriva mai come "nati stamani", senza bagaglio. Allora vale la pena di rendersi conto del contenuto della valigia, perché essa potrebbe contenere "attrezzature" tanto potenti da precondizionare il nostro rapportarci agli altri In ogni caso, trattare il proprio esser figlio come corredo spendibile e credibile è la condizione per, integrarsi nel flusso della vita, dei rapporti con gli altri. […] Le posizioni della persona verso la propria famiglia di origine possono essere, più o meno consapevolmente di misconoscimento che può diventare rifiuto o di idealizzazione . Nel misconoscimento qualcuno pensa di “essersi fatto da solo” con l’atteggiamento di chi ha paura di dovere un grazie a qualcuno che sia altro da se e da cui penso di dover dipendere. “Accettare la famiglia dove mi sono "trovato" a nascere e che non ho fatto niente per aver avuto (anche se poi, almeno agli inizi, ho certamente determinato la storia di questa famiglia!), accettare dunque di esser stato plasmato mi immetterebbe in una "dipendenza" che temo, perché a senso unico. Questo sarebbe un riconoscermi veramente debìtore: dovrei accettare che si possono contrarre idem, pp. 173-188. Per un approfondimento: ZATTONI M.T., A pranzo da mamma. La coppia e le famiglie di origine. Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005. 152 53 54 psicologica. In essa i processi psicologici hanno luogo lentamente, ma hanno per compenso una interiore profondità. I sentimenti sono forti. Essi non divampano improvvisi e intensi per poi subito estinguersi, ma persistono e creano stati d'animo duraturi. Le decisioni hanno bisogno di tempo per attuarsi, ma poi perseverano come indirizzo interiore e incidono rassicuranti sull'agire concreto. Quando un uomo con una simile indole nativa dona la propria simpatia a un altro o si decide per la sua causa, sarà un legame fermo che sopravvivrà a molteplici mutamenti. Simili qualità sono belle, anche se hanno i loro lati d'ombra: il pericolo della rigidezza, della ristrettezza d'idee e dell'ingiustizia. Ma sono, come si disse, una questione di attitudine naturale, che non ci si può dare da se stessi e che non si può eticamente pretendere da altri. Altre nature sono diversamente configurate, ma anch'esse sono obbligate alla fedeltà. Questa non può reggersi in esse a una particolare struttura psicologica, ma deve fondarsi su una base che è in tutti supponibile. E’ la persona umana, la sua intuizione del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto, dell'onore e dell'ignominia; la libertà della sua decisione e la fermezza con cui essa vi persiste a causa dell'altro e della sua fiducia, per l'ideale propostosi, e rialza e riconferma la propria decisione, ogni volta che minaccia di crollare. Quale è il significato di questa virtù? La si può descrivere come una forza che vince il tempo, cioè il mutare e il perire, ma non come la durezza della pietra in rigidità fissa, bensì una forma vitale, che cresce e crea. Cerchiamo di renderci viva davanti agli occhi la sua immagine. Un uomo e una donna si sono incontrati, hanno cominciato ad amarsi e si risolvono al matrimonio. Ciò che all'inizio porta il loro rapporto è il desiderio vitale reciproco l'uno per l'altra; sono sentimenti di simpatia, accordi del loro sentire la natura e l'uomo, identiche preferenze e inclinazioni e via dicendo. Questi sentimenti sembrano a tutta prima garantire una durata per tutta la vita. Ma essi si attenuano presto; emergono differenze inevitabili in persone differenti, ed ecco giunto il tempo per la vera fedeltà che consiste nel fatto the ognuno dei due sia consapevole che l'altro ha fiducia in lui. Egli si abbandona a me. Noi ci siamo legati con un vincolo che incide sulla nostra vita. Ciò che lo regge dev'essere ciò che c'è di meglio in noi, il centro della nostra umanità, la persona e la sua capacità di garanzia. E ora cominciano i superamenti: esistere in ordine all'altro e riserbarsi a lui; ma non per possederlo e dominarlo, ma per conservare la vita fondata sul vincolo e per renderla feconda. Sapersi responsabile per l'altro; non prescrivergli come debba comportarsi, ma consentirgli la libertà di essere ciò che è dal suo centro personale; aiutarlo a diventare ciò che deve diventare in 193 ecclesiastiche e per lui fu fondata una cattedra di arte sacra al Politecnico di Torino, l'unica in tutto il Regno! E questo fu il frutto della formazione, procuratasi da se stesso, con lo studio e con la iniziativa personale. In S. Giovanni Evangelista di Torino si ammira l'altare di Don Bosco, se non erro detto un gioiello d'arte e un grande ed artistico lampadario di puro stile, pure da lui ideato disegnato; n.d.r. ed. 1949). Adesso una gloria: « Quando avverrà che un salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte che la nostra Congregazione ha riportato un grande trionfo e sopra di essa discenderanno copiose le benedizioni del cielo » (M.B. XII, 381383). 14.2 Fedeltà e protagonismo negli incarichi comunitari 14.2.1 La fedeltà66 Se le pagine che seguono devono trattare della fedeltà, si affaccia immediatamente, quanto all'oggetto della nostra considerazione, la necessità di chiarire alla coscienza il suono che il termine oggi ha. Noi lo usiamo oggi, appunto, con ritrosia. Come vari altri termini concernenti valori morali, anche questo non ha più oggi un suono del tutto genuino; è troppo grande, troppo patetico e, di fronte alla realtà confusa della nostra vita, troppo semplice. Varie cause hanno contribuito a creare questo stato d'animo: enfasi poetica, retorica ufficiale, insincerità di politici e di giornalisti. Inoltre il fatto che durante anni terribili ci è stata chiesta un'assolutezza di adesione, una disponibilità a ogni genere di sacrifici che nessuna causa terrena può pretendere, e il fatto che simultaneamente si eseguivano, da parte di quegli stessi uomini che ce lo domandavano, tradimenti tali da fare inorridire. E tuttavia resta sempre vero che la nostra vita si fonda sulla fedeltà. Facciamo allora bene a riflettere attentamente su ciò che intende questa nostra logora parola. Vogliamo anzitutto porre in chiaro che due sono le specie di comportamento a cui essa viene applicata. La prima è una attitudine debiti non voluti, per la sola ragione di esser nati; e ciò non si accorda con il mio efficientismo! Oppure, e questo è ancor più difficile, dovrei accettare che in mezzo alla zavorra degli "errori" familiari verso di me ci sia qualcosa di prezioso che mi è stato tramandato, che in mezzo al fossile multistrato senza valore ci sia un filo aureo. Come ogni metallo prezioso, però, occorre che sia passato attraverso il crogiolo dei vari punti di fusione per essere apprezzato. È troppa fatica! Perché non ne posso fare a meno?».55 Un’altra modalità di porsi da parte di chi si è fatto da solo è di chi pone un verdetto inappellabile: «Dalla mia famiglia di origine io non ho portato via niente perché non era possibile portare via niente!» e per cui è facile ad ogni verdetto, liquidando ciò che non va o esaltando chi ha il coraggio di buttare tutto alle spalle con il mito “di ricominciare da capo”, senza annunciare che Dio ama proprio lì. L’idealizzazione invece, quale opposto al misconoscimento, fa del passato all’età dell’oro funzionale al mio presente. Idealizzazione magari di un solo genitore sempre perfetto magari in opposizione con l’altro. Dentro questa struttura sarà facile perpetuare l’atteggiamento partigiano diventando atteggiamento potente. Vi sono anche persone che hanno idealizzato la propria coppia parentale: è la forma forse più sottile di idealizzazione. Essi si reputano figli/e fortunati e grati di una coppia degna di abitare nel... paradiso terrestre che ha i caratteri del “sempre” e del “mai”. Questa “è forse una persona con il metro in tasca, animato da buona volontà e comprensione per "i malati", gli sfortunati, gli infelici, sollecito anche, ma con il perpetuo sospetto che le cose che vede non devono essere così, che c'è sicuramente da qualche parte un colpevole, se le cose non vanno lisce... perché la sua esperienza familiare l'ha reso un "piccolo psicologo", esperto su come le cose dovrebbero andare! La sua mente può essere ingombra di miti e leggende. Chissà mai perché incontra persone che prima o poi gli dicono «tu non capisci» e che non entrano nei suoi schemi in bianco e nero.[…] "Ri-conoscenza" 55 66 192 GUARDINI R., Virtù…, oc. pp. 79-88 177. 153 GILLINI G. - ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp. 176- I cristiani hanno una linea di direzione importantissima: la ziz- zania è sempre mescolata al buon grano (Mt 13,25-30). Anche se questo crea da sempre problemi ai "puristi": «Ma allora non do- vremmo estirpare la zizzania che cresce insieme al buon grano? Non avremmo diritto al solo buon grano, non dovremmo darci da fare per separare, discernere, giudicare? Cerchiamo di capire bene perché cresce, e così la eviteremo!». Il realismo e la fede matteana ci additano una logica superiore, non semplicistica come quella "psicologia fondata sui luoghi comuni". Ci indicano lo sforzo concreto di discernere il filone aureo per conoscere la nostra famiglia d'origine e le nostre figure pater- ne. Ri-conoscenza è anzitutto un conoscere di nuovo […] Ri-conoscere è una "fatica" (gioiosa!) che occorre volere e scegliere; per riuscire a trovare il punto di fusione dei materiali grezzi quali i risentimenti, i conti sospesi, le delusioni, le ostilità, i rancori, i "dolori non trattati" e per tener, al tempo stesso, ostinatamente fermo il filo aureo della trasmissione del bonum ricevuto. […] La famiglia d'origine è l'ordine-organizzazione entro cui siamo nati, che ci ha in qualche modo "creati" e che noi abbiamo imparato ad usare come nostra, addirittura portandola a nostra misura, con lessici familiari, con modalità tipiche di gestire lo spazio e il tempo (per cui qualcuno sa sempre che giorno è, e non confonde la sinistra con la destra; qualche altro non sa più a quali artifici ricorrere per ricordarsi dov'è la destra o non ritiene neces- sario distinguere il lunedì dal martedì). Il corpo familiare d'origine è carico degli infiniti significati che hanno per noi dato colore al mondo", ma che mantiene sempre, al di là di tutte le nostre analisi, un suo quid di incognito, di non quantificabile, di sempre-ancora- di-nuovo esplorabile. ”56 56 154 idem, pp. 182-184. trovarsene del lavoro. Guai a coloro che dicono: io faccio la mia scuola e basta. Tu non sei salesiano, sei un poltrone. Senza misurare il lavoro, dice il Papa Pio XI (M.B. XIX, 157). Guardate Don Bosco. È una personalità unica nella storia. Il lavoro se lo cercava lui in tutti i campi. Ed era un genio di attività e di organizzazione nell'attività salesiana. Don Bosco faceva notare il bene che può fare un chierico facendo un giro per i corridoi e per i luoghi nascosti. Tra tutti si fa tutto. Aiutare gli altri, lavorare d'accordo. Don Bosco va per una strada, vede un carrettiere che spinge inutilmente il suo carretto e senza fare tante distinzioni e senza temere di ribassarsi, l'aiuta a spingere insieme. « Coscienza collettiva », che bisogna lavorare e lavoro che bisogna. Cosi si fa in molte case. Quando si lavora, dei peccati non se ne fanno, ed il diavolo se ne scappa. Coscienza interna, che ci porta a far bene il nostro lavoro; correggere il compito, e non lasciar scappare i maccheroni. Studiarsi le prediche... Il salesiano vero non misura il lavoro ». Che Bella parola ha detto Pio XI! Per carità, non ascoltate mai i sonniferi, che ci sono in ogni casa. « Non si stanchi troppo, mangi di più lavori di meno, ecc. ». Ma piantatela 1ì, che bisogna lavorare. Non lavorare per far carriera, ma per piacere a Dio. II salesiano bisogna che si renda atto al lavoro, perché noi formiamo un'azienda cooperativa. La nostra rendita si vende nel cielo ed il guadagno si divide fra noi. Con amore »: lavorare con amore e il segreto della nostra riuscita pedagogica e professionale, e la gloria del passato artigianato italiano (osservate i musei...), far bene il proprio mestiere. Coraggio e ardimento »: e una qualità che non dobbiamo dimenticare. Cosi si sono formati i vecchi salesiani; la scuola non insegna tutto eh') che bisogna sapere. Se non sai, aggiustati, cerca, ardisci. Ti danno una scuola. Ma io non so... Ardisci, fai quel che puoi, studia. Non fate caso ai disfattisti: ma la salute? Iddio aiuta. Saper far più di un mestiere: la preziosità di un coadiutore e che non sa fare una sola cosa. Nelle nostre case siamo fortunati, quando abbiamo dei coadiutori che sanno fare di tutto, e che se non sanno, si danno al lavoro per imparare. Un direttore disse a Don Rua: « C'e Guaschino (un coadiutore) che lavora da mane a sera e non ha tempo di prendere fiato. Ha bisogno di aiuto. Faccia il favore di mandare un altro ». E Don Rua: « Lavora molto? Tenete conto per la biografia ». Per il sacerdote è dovere di coscienza la scienza: ma già nella vita moderna non basta più quel poco di teologia, ma bisogna formarsi della cultura. Nessuno al mondo conosce la cultura di Don Bosco come me; in un libro in cui non c'e nessuna citazione — « La Storia d'Italia » — ne ho scoperte moltissime provenienti da 80 libri diversi. C'e il Muratori, i Bollandisti, ecc. Questa cultura Don Bosco se l'e raggranellata poco a poco. I primi coadiutori di Don Bosco, nei momenti liberi, avevano sempre un libro in mano; perfezionarsi nel proprio mestiere... Ci sono state delle rivelazioni, nessuno si sarebbe aspettata tanta scienza da quel salesiano. (Don Caviglia divento storico di erudizione; professore d'arte sacra, tanto che meravigliò le autorità 191 forze e il numero degli individui: ma niuno si sgomenta, e pare che la fatica sia un secondo nutrimento » (XIV, 218). In quella relazione Don Bosco con piena coscienza e fedeltà storica, fa il più bell’elogio della Congregazione salesiana. Orestano, che è uno di quelli che meglio dissero di Don Bosco, perché non fa della retorica, ma pensa e studia, afferma che «necessità educative e sociali intuite nello spirito dei tempi, gli fecero scoprire lo spirito di educare con il lavoro e per il lavoro; questa è la vera originalità di Don Bosco ». Don Bosco fin agli ultimi istanti ripete sempre: « L'ardore del lavoro ». A quelli che, vicino alla morte, gli andavano a baciar la mano in silenzio, come Settimio Severo, l'infaticabile imperatore di Leptis Magna, ripeteva: « Laboremus! » (Lavoriamo!). Noi siamo veri proletari della Chiesa, i lavoratori nel senso nobile della parola: « Chi non sa lavorare non è salesiano » (XIX, 157). Parole citate dal Papa Pio XI il 3 giugno1929. Nel 1933 diceva ancora: « Non appare bene nelle file salesiane chi non è un lavoratore: il lavoro è il distintivo, la tessera di questo provvidenziale esercito » (XIX, 235). E già nel 1922 ci aveva concessa la « Porziuncola salesiana », l'indulgenza del lavoro (La guadagniamo? detto questo tra parentesi). Ecco lo scandalo di un santo, di un santo, possiamo dire, « americano »: dice molte più volte lavoriamo che non preghiamo (Si fa presto a dire: preghiamo quando c'è la tavola pronta, ma è piu difficile prepararsela). Don Bosco raccomanda il lavoro; ma suppone la nostra spiritualità del lavoro, che il lavoro è preghiera! Non faccio una conferenza di accademia, quindi bisogna che noi vediamo il lato spirituale del lavoro. Il lavoro salesiano è lavoro di anima, la nostra anima, è la spiritualità che noi ci mettiamo nel lavoro. Ecco la seconda definizione che vi do: « Il salesiano esce dal mondo per associarsi religiosamente ad una collettività organizzata sotto una guida per un lavoro profittevole alla società cristiana ed alla gloria di Dio ». Insomma noi siamo santi dalle maniche rimboccate: questo è il tipo del salesiano. Se io dovessi dipingere Don Bosco tra noi salesiani, li farei tutti con le maniche tirate su. Non bisogna più dire nelle lettere mortuarie: « Nonostante il molto lavoro si faceva santo». Come? Non capiscono niente costoro? Mediante il tuo lavoro ti fai santo, non « nonostante » il lavoro... Quando sentite leggere in refettorio, date un pugno sulla tavola e se si rompe il bicchiere, sarà in onore di Don Bosco, il quale non ha fatto libri di ascetica, ma ha raccomandato il lavoro. Non libri dotti, non collezioni magnifiche; noi nel mondo siamo considerati come lavoratori gente che produce, non succhioni della società. Il lavoro di colui che vuol essere buon lavoratore di Don Bosco ha qualità proprie: « Alacrità, voglia di lavorare ». Il vero salesiano non cerca riposo, sempre dice: datemi qualche lavoro. La vera vacanza consiste nel cambiare lavoro, Il vero salesiano ha bisogno di lavorare. Voi non lo vedete mai fermo.. Noi dobbiamo essere come i bambini che non sanno mai stare fermi. Spontaneità. È il « vado io », il contrario del « non tocca a me ». Non farsi dire le cose, ma anche 190 12.1 Svincolo e onnipotenza 57 Sabi na, 19 anni , prim o anno univ ersit ario, non sa fare una piccola scelta in proprio. Ascoltiamola* Sono arrivata all'università con il massimo dei voti di maturità, ho passato brillantemente gli esami di selezione, ora sono qui a Roma nel collegio universitario: anche se sono la primogenita di quattro fratelli, i miei mi finanziano tranquillamente. Riconosco di essere sempre stata privilegiata (o viziata) su tutto e che non ho mai affrontato vere difficoltà: qualche nota a scuola, specie nelle medie; qualche predicozzo per farmi rigare diritto. Normale amministrazione. Poi al liceo ci ho dato dentro con tutta me stessa: mi sono perfino "innamorata" del mio prof. di filosofia e quasi quasi sognavo la sua stessa laurea. Papà, però, dirigente d'azienda, uno che sa come va la vita, mi ha fatto ragionare: con la filosofia non si mangia, anche se non avrebbe trovato scandaloso se proprio mi volevo iscrivere. La cultura è sempre cultura, dice. Mamma lo sostiene; nelle grandi scelte sono sempre d'accordo. Nelle piccole abitudini, invece, sono molto diversi... e lo sanno. Ma dì solito – non se lo rinfacciano. Hanno scelto di abitare a Velletri, nella grande cintura romana, per essere comodi alla capitale e nel medesimo tempo fare vita di provincia, dove si può conoscersi e "lavorare sul territorio", come si esprimono. Sono ambedue nel consiglio pastorale, il parroco li stima molto, anche se – di fatto – è più mia madre che "lavora" come catechista, animatrice, responsabile di un gruppo famiglia. Ma nelle grandi occasioni siamo tutti assieme all'ombra del campanile: per sostenere un'iniziativa, magari fare una mascherata o un bel pran-zo insieme, in cui vengono fuori tutte le doti organizzative di mia madre. Nel saper stare al posto giusto nel momento giusto non la batte nessuno. Anche papà l'apprezza molo, glielo dice sia in pubblico, sia in privato. Siamo una bella famiglia. Anche nel permettermi il collegio universitario si sono rivelati in gamba: potevo andare su e giù, come tutti; ma papà ricorda come «gli anni più belli della sua vita» quelli del collegio univer-sitario ed io ero entusiasta di fare vita universitaria, di fare nuove amicizie ecc. Ed ora eccomi qui: sono passati sei mesi e sto già per dare gli esami del primo semestre; intanto mi sono fatta amici, ma in particolare una, vicina di camera, un anno più avanti di me, brillante, estroversa, sicura di sé. Io invece, me ne accorgo sempre più,sono più bambocciona, ingenua e anche capricciosa, se vogliamo. Eppure Erica, la 57 155 GILLINI G. – ZATTONI M., Il piercing dell’anima…, oc, pp. 143-152. mia vicina di camera, mi apprezza e mi vuole bene. Sono fortunata ad aver trovato un'amica come lei. Ma è successo qualcosa che rischia di minare i nostri rapporta: ed è la sua proposta di iscrivermi al corso di volontaria della Croce Rossa; lei – giusto l'anno scorso – ha fatto il semestre teorico, poi ha fatto l'esamino ed ora fa la pratica. Le piace moltissimo. Anche a me piacerebbe. All'inizio, mi è sembrato che non ci fossero problemi di sorta: una bella esperienza, che mi avrebbe allargato gli orizzonti. Ma quando l'ho detto in famiglia, è iniziato il gelo. Io credevo che mi dicessero come al solito: «Apprezziamo le tue scelte, sei libera!». E invece, prima mamma e poi papà, hanno cominciato ad avanzare quelle che loro chiamano "le loro riserve": sono troppo giovane, mi metto allo sbaraglio, vengo a contatto con cose terribili, come accogliere uno in overdose dal marciapiede, posso venire in contatto con ubriaconi, violenti,prostitute ecc. Non sono pronta. Loro sarebbero troppo in ansia a sapermi in giro con l'autoambulanza, specie papà; il quale ha anche aggiunto che ha saputo che la vaccinazione contro l'epatite. C, obbligatoria per i volontari della Croce Rossa, non è a ben guardare priva di rischi... Oh, con loro ho fatto il muso duro: ho detto che eco pronta, che non ero più una bamboccia, che non mi facevano paura i rischi, anzi! E poi: che non faccio niente di male, che era una bella cosa spendersi per gli altri, che loro mi avevano insegnato ad accettare i rischi, che loro dovevano essere orgogliosi di una figlia come me, che non dovevano avere paura. Non sapevo di poter combattere così, di essere capace di tirar fuori tante ragioni... alla fine il papà ha detto: «Fa' come vuoi. Noi ti abbiamo avvisato». Ma io piango. La mia amica Erica non mi capisce, non vede che bisogno ci sia di piangere. Neanche io lo vedo, ma le lacrime in questo periodo mi vengono da sole. Non rinunciare: si tratta di te! – mi dice Erica. Non posso – rispondo, inondata di lacrime. Ma se, in fondo, ti hanno dato il permesso! Non posso – ripeto – il mio papà non si merita che lo tratti così. Così come?! – sbalordisce lei. In fondo, non mi costa rinunciare; non voglio mandarli in ansia; in fin dei conti, lui ha vissuto sempre per noi, ha fatto tutti i sacrifici, anche la notte, con noi piccoli; sul lavoro – lo so io – ha dei problemi anche se lui non li fa pesare... Vuoi che sia io a dargliene uno in più?! Allora di' che questa cosa della Croce Rossa non t'interessa e amici come prima – incalza lei. — No che mi interessa, eccome! Mi ero già immaginata crocerossina... entusiasta... sarebbe finalmente una cosa che mi entusiasma davvero... E allora non rinunciarci! — Non posso. E di nuovo le lacrime si impadroniscono di me. Ecco finalmente una famiglia "normale", anzi una bella famiglia che ha valori, che è unita e si dà da fare per gli altri; la famiglia che ogni adolescente vorrebbe avere: in cui ci sono diversità, ma non scontri; unità, ma non omologazione; in cui i genitori stanno bene insieme, condividono le scelte di fondo, eppure si permettono di essere diversi nelle piccole cose, di avere strategie in proprio, di non essere confusivamente uguali. La 156 14. Senso di responsabilità64 Il quotidiano come misura della vita Le piccole cose come via per la conquista delle grandi Esercizio del lavoro di differenti tipologie: Dalle pulizie della casa al lavoro nascosto per i ragazzi L'animazione del cortile La fantasia e lavoro per i grandi eventi La disponibilità a lasciarsi destrutturate dagli eventi e dai destinatari 14.1 Dovere quotidiano 14.1.1 Il lavoro65 “Sint lumbi vestri praecincti et lucernae ardentes in manibus vestris”. (Siate pronti, con la cintura ai fianchi le lucerne accese nelle vostre mani. Lc 12,35). “Qui laborat orat ” (Chi lavora prega). “Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la società salesiana” (Sogno di Don Bosco). I sogni sono molti ma dicono tutti lo stesso parlando del lavoro salesiano. Il lavoro non è stato messo nel nostro stemma che fu creato per metterlo nella Basilica del Sacro Cuore a Roma. Non è il motto, ma è lo stesso stemma, l'eredita di Don Bosco. Gli venne insegnato nel sogno del 1876: “ Questa è la condizione per la conservazione e propagazione della Congregazione: farai stampare un manuale che lo spieghi (Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la Congregazione salesiana). Finché i tuoi figli le osserveranno, avranno seguaci in occidente, in oriente, al sud ed al nord (M.B. XII, 446). Lascio stare quello che disse Pio IX: « Preferisco una casa dove si lavora molto, che una casa in cui si prega solo, perché vi può regnare l'ozio » (X, 799; IX, 566). Ciò che scrisse Don Bosco nel 1879 nella relazione della Società salesiana, che fece a Roma, ci allarga il cuore: e son sicuro che se Don Bosco dovesse scrivere adesso, non cambierebbe una sillaba. « Il lavoro supera le 64 CENCINI A., Per un salto di qualità nella pastorale vocazionale alle soglie del terzo millennio, in "Vocazioni", 1, 2000, pp. 75-86. VECCHI J. E, Spiritualità Salesiana. Temi fondamentali, LDC Torino, 2001, pp. 100 – 103. VIGANÒ E., Un progetto evangelico di vita attiva, LDC – Torino, 1982, pp. 100-117. 65 CAVIGLIA A., Conferenze sullo Spirito Salesiano, CMS – IIDB Torino 1985, pp, . 189 b) e) lungo ad "esercitare da stampella"! Accettare se stessi significa accettare i propri limiti, le proprie idiosincrasie, accettare di esporsi all'altro, di non mettersi maschere. Non costruisco nessuna fraternità se non accetto che l'altro mi veda come sono. Una seconda condizione è la capacità di scambiarsi carezze, il che è come dire «nutrire l'altro ed essere nutriti» (abbiamo già usato il termine carezza come termine tecnico di E. Berne). È il principio della cura, in senso heideggeriano, se vogliamo. Una fraternità non è un dato esterno che c'è o non c'è, ma essa accade nella cu ra, è costituita nel mio prendermi cura del legame, nel coltivarlo con tutte le fatiche, le attenzioni e le sorprese che ciò comporta (e questo mi fa uscire dalla logica del «Non toccherà sempre a me?», «Perché devo cedere io?»). La cura del legame è una grande testimonianza di maturità spirituale! La terza condizione si configura in quei tratti alternativi alla cultura competitiva che non può immaginare una fraternità che non produca scorie e rifiuti, per cui l'unico modo di mantenere viva la fraternità è che tutta la comunità se ne faccia carico. Ciò comporta allora che ciascuno apra il proprio cuore 1) a tollerare apporti provvisoriamente diseguali 2) a tollerare apporti imperfetti 3) e a vivere le due fasi precedenti nella gratitudine. primogenita porta alta la bandiera familiare: a pieni voti è già con un piede nell'Università; le hanno permesso un legittimo distacco, e cioè la residenza nel collegio universitario, anche se non sarebbe stato strettamente necessario per la frequenza. Lei sa bene che questo è un privilegio, e perfino che ciò rappresenta il suo modo di sentire le ragioni di papà: «Per me è stato il più bel periodo della mia vita». Eppure basta un piccolo intoppo per farla precipitare nelle lacrime; Sabina non ce la fa a fare quella piccola e benefica scelta in proprio di iscriversi al corso di volontaria della Croce rossa e si rifugia in un vissuto depressivo, agli occhi di tutti – specie della sua amica – esagerato. Ma allora? Com'è che c'è qualcosa che non va? Com'è che da un bel giardino di rose ad un certo punto salta fuori la gramigna? Una sonda: non sta scritto da nessuna parte che, quando le cose vanno bene in famiglia, il figlio/a non debba affrontare sofferenze e intoppi. Anzi, è saggio "lasciarlo soffrire" con rispetto. Non è saggio evitargli tutte le sofferenze, anche se fosse possibile! Dobbiamo coraggiosamente porci al di là di ogni determinismo, del tipo: quando le cose non vanno in famiglia per forza il figlio/a sta male, vive nel disagio; ma quando, viceversa, in famiglia va tutto bene, non si vedono le ragioni perché il figlio/a sia inceppato e insofferente (a meno di non dare la colpa, al solito, alle cattive compagnie, alla società ecc.: cose che, nel caso di Sabina, filano emblematicamente tranquille). Insomma, togliamoci dalla testa il facile determinismo delle colpe dei genitori: vogliamo forse togliere al figlio/a in crescita il suo fazzoletto di libertà? Questo cercare sempre comunque le colpe non è – in fondo – un'operazione comoda che ci rassicura sull'ingenua aspettativa da paradiso terrestre prima de. peccato originale: se non ci sono colpe, tutto deve andare bene? I bravi genitori A dire il vero, un modo di colpevolizzare i genitori qui ci sarebbe: «Come sono ansiosi, come sono esagerati, come le mettono i bastoni tra le ruote, poverina! ». Anzi, qualcuno potrebbe insinuare: «Eccoli i bravi cristiani che predicano bene e razzolano male. Quando si tratta della loro figlia, tutte le loro belle idee "umanitarie" sono azzerate. Se tocca alla loro diciannovenne scontrarsi con la dura realtà, loro glielo vogliono impedire! Soprattutto questo padre non vuole forse preservarla troppo dalla realtà? Non vuole forse lasciarle fare solo quello che vuole lui per stare meno in ansia e per stare più tranquillo?». In altre parole: i "bravi" genitori non devono tirare indietro i figli, non devono contraddirli, non devono esprimere il loro parere. Altrimenti guastano l'incantesimo di un'intesa così solidale e poi, poverina, mettono la figlia nella situazione di disobbedire oppure di rinunciare alle sue legittime aspettative. Sabina infatti piange, non sa cosa scegliere: questi genitori le hanno messo i bastoni tra le ruote. Un simile ragionamento fa molte pieghe: i "bravi" genitori non sono perfetti; i 188 157 "bravi" genitori sbagliano, specie quando un figlio/a primogenito/a li mette di fronte ad opinioni o scelte che loro non avevano previsto; i "bravi" genitori hanno il loro parere che non è necessariamente uguale a quello del figlio; i "bravi" genitori sono franchi, non credono di dover star zitti per paura di "perdere" il figlio/a. Nel nostro caso, possono essere d'accordo sui suoi valori di fondo, ma non sulla sua realizzazione pratica e contestuale. La nostra sonda: genitori che stanno zitti, che ritirano il loro parere alla vista del dolore del figlio, non sono genitori che rispettano il figlio; essi devono essere franchi - a maggior ragione se le scelte del figlio sono oggettivamente sbagliate! - poiché non è in loro potere cancellare le sofferenze del figlio; genitori franchi, che dicono quello che pensano, sono genitori molto più rispettosi, perché sanno che la sofferenza del figlio non lo sommergerà. Lo svincolo C'è un altro indicatore che ci fa propendere per la legittimità dell'esprimere il proprio parere di genitori: l'assenza di ricatto. Il padre di Sabina le esprime le sue perplessità e le sue paure, poi la lascia libera. Non la "lega" con ricatti del tipo: «Non so da dove ti venga fuori quest'idea, ma... sei proprio mia figlia?» Peggio: «Se farai questa scelta ti sottraggo qualcosa (per esempio, non ti finanzio il collegio)». E allora? Perché mai Sabina, in vista di una scelta oggettivamente generosa e lodevole, non dice: «Caro papi, ho capito le tue ragioni, però io trovo giuste le mie e quindi (magari con qualche mediazione del tipo: per ora farò soltanto la parte teorica) faccio ugualmente la mia scelta»? Perché Sabina precipita nelle lacrime confusive e non sa più se seguire se stessa o il papi? Perché non le basta l'appoggio disincantato e disinteressato dell'amica? Abbiamo qui a che fare con un passaggio importante dello svincolo familiare. Il bambino, legittimamente, sente come vitale la protezione dei genitori e - se in famiglia non ci sono drammi particolari - vuole meritarsela, facendo in tutto e per tutto quello che vogliono i genitori. Vuole stare sulle loro orme, ha bisogno di stare al sicuro dietro di loro, è come se dicesse: «Vedete che mi merito la vostra protezione, vedete come sono bravo?». Egli cioè, a buon diritto, confonde protezione con approvazione: se sono contenti di me, allora mi proteggono, allora restano genitori. Ma il punto è che non può sempre durare così: egli - durante l'adolescenza - è chiamato ad uscire dalla zona d'ombra dei genitori, magari solo a tratti; se resta sempre protetto, al sicuro, a fare il "bravo bambino" (il bambino che si paga genitori onnipotenti e buoni!), allora non diventerà mai adulto. Man mano che cresce deve fare scelte in proprio, non necessariamente contro i genitori, ma appunto in proprio: deve cioè uscire dalla zona d'ombra genitoriale, con il rischio di non essere approvato', che non vuoi 158 d) Conoscere umilmente i propri desideri, le proprie gratificazioni sane (e distinguerle dalle proprie pretese!). La condizione di astinenza affettiva è disumana: di chi crede di non aver bisogno degli altri e quindi si espone a vari gradi di dissociazione.. […] Anche il consacrato/a ha bisogno di dare e ricevere gesti affettivi, semplici, leali, spendibili alla luce del sole […] Jacques Lacan afferma che ciò che l'uomo (nel senso di essere umano) desidera più di ogni altra cosa è che l'altro lo desideri. Se, dentro la storia in cui vivo, nessuno mi dice con un sorriso: «Ti vedo», «Ci sei», «Avevo proprio voglia di sentirti!»; se nessuno fa mai un gesto per venirmi vicino, se quan do ho un pensiero, un dubbio, un dolore non ho mai nessuno a cui ,dirlo (ma non dirlo solo per parlare, dirlo sentendo che l'altro/a lo sente, lo percepisce e mi risponde con il suo corpo: «OK, messaggio ricevuto»), allora la condizione in cui vivo è disumana. Posso essere ascoltato come autorità, citato per la competenza, rispettato per i titoli accademici, ma prima o poi sentirò l'estremo dolore di non essere importante per qualcuno. E se mi chiudo nella mia camera dicendomi: «Dio solo mi basta» sto mentendomi, perché quel Dio solo mi ha posto in mezzo a fratelli e sorelle che hanno il compito non eludibile di raggiungermi (vedi la tradizione delle sette opere di misericordia!). Ma qui è possibile l'estremo inganno: che io (come la moglie della lettera che abbiamo letto all'inizio del paragrafo) mi limiti ad attendere che gli altri si accorgano di me, che gli altri mi raggiun gano, non accorgendomi che, man mano che la mia attesa si rivela vana, il mio corpo rivela tensione, delusione e risentimento. In forza del desiderio tramutato in pretesa, mi sono dimenticato la "regola aurea", stupefacente regola che può essere detta anche in termini tecnici: «Tra gli umani, l'unico modo di ricevere carezze è quello di darne», [quanto la nostra cultura massificata ci ha disabilitati ad offrire carezze (un saluto gioioso, un grazie, un sorriso, un'approvazione)… E ancora: quanto la nostra cultura ci abbia abilitati a prendere (rapinare), al punto che arriviamo a dare alfine di ricevere. E quindi ci condanniamo a non ricevere mai; poiché quel dare è già calcolo-attesa-pretesa e quindi perde i caratteri del dare.] 13.5.5 La fraternità Ma perché i membri della fraternità siano in grado di viverala occorrono alcune condizioni. a) L'accettazione di se stessi come persona, con le proprie luci e le proprie ombre. Se nelle relazioni fraterne vado a caccia di prove di quanto sono accettato, di quanto sono approvato, di quanto sono amato, trasformo la fraternità in stampella terapeutica. Mi inganno e inganno gli altri. Nessuno regge a 187 - dice molto più di ciò che crediamo di far vedere all'altro, anche se non ne siamo consapevoli ed anche (non finiremo mai di stupirci) al di là delle nostre intenzioni. […]Il nostro corpo, però, parla. Ed è una fortuna, perché prima o poi ci costringe a fare unità con il nostro mondo interno, a conciliarci con noi stessi. Per dirla in termini banali: ciò che pensiamo dell'altro o puzza o profuma. Anche con le parole più delicate o più sfuggenti o più diplomatiche, il nostro corpo emana il cattivo odore del nostro disgusto, della nostra distanza, del nostro giudizio. Ma, al contrario, anche con parole scarne, o addirittura rozze, il nostro corpo emana il profumo dell'alleanza, della vicinanza, della condivisione se il nostro mondo interno è accogliente con l'altro. […]«La lampada del corpo è il tuo occhio?». Il tuo modo di vedere illumina o precipita nelle tenebre il tuo corpo. E cioè (quanto al guadagno che abbiamo annunciato) il tuo corpo dice, dichiara, proclama il tuo modo di metterti in relazione con gli altri. Abitare il proprio corpo: è mol to più che cercare l'aspetto fisico: è una forma pienamente umana di rispetto per sé e per gli altri. È conciliarsi con la propria storia, con la propria famiglia d'origine, con il "come si è fatti" («Bruna sono ma bella», dice la sposa del Cantico). Il corpo non è il luogo del "nonostante" (nonostante non sia bello, non sia piacevole, ecc.) ma il luogo che Dio mi ha dato per cominciare a cantare i suoi benefici: se non avessi questo corpo, non sarei io. «Dio non ha che te per amare te, se non hai nessuna cura per te Dio non può raggiungerti». Proprio nell’abitare il nostro corpo noi incontriamo l'altro. Il corpo grumo di relazioni, infatti, è il vivente provvisorio risultato di miliardi di contatti, carezze, manipolazioni, coccole, ma anche di ferite, di assenze, di microtradimenti. Il mio corpo è la palese dichiarazione che sono stato amato. Allora, abitatare il proprio corpo significa ascoltarlo nei suoi messaggi profondi fra cui : a) Prendere contatto con le proprie emozioni e apprendere il "controllo degli impulsi" o l'autocontrollo emotivo, che non è attività per uomini o donne in odore di castrazione, ma è la capacità più importante che ci rende umani e ci restituisce alla nostra intelligenza emotiva b) Imparare a tranquillizzare se stessi, ed è un'arte: aver fiducia nel proprio termostato emozionale? sapere che è l'io il capitano del proprio corpo. e) Imparare a confortare se stessi, mettendo in atto meccanismi di riparazione (adesso posso meritarmi una buona musica, un cioccolatino ecc. ecc.). 186 dire non essere protetto (amato). L'adolescente dovrebbe fare esperienza che i genitori possono ritirare la loro approvazione, ma non la loro protezione; che cioè essi rimangono tali, generanti, anche in presenza di scelte altre del figlio/a; perfino di scelte sbagliate. È ciò che accade nel modello inconfondibile di Padre della parabola lucana del padre buono: il figlio prodigo se ne va; il Padre non lo approva, ma non gli ritira la sua protezione, non rinuncia ad essergli padre. Tant'è vero che, quando egli si sente indegno di essere figlio e vorrebbe essere semplicemente servo, Egli lo re-istituisce figlio, gli ridona la sua protezione (l'anello e il vestito: Le 15,22) per la sola ragione che non gliela aveva mai ritirata. Lo svincolo del figlio non può non comprendere il dolore dell'allontanamento: auguriamo ad ogni figlio/a di fare almeno una briciola di esperienza del Padre che non viene mai meno al suo essere padre (e madre), qualunque cosa faccia il figlio. Un atteggiamento onnipotente Sabina invece, persegue un compito impossibile: fare ciò clie lei vuole e contemporaneamente ottenere l'approvazione paterna. È cioè drogata di onnipotenza: non vuole mollare il suo essere "bravo bambino" e nel contempo pesta i piedi per essere se stessa. Non vuole perdere nulla e per questo annega nelle lacrime: forse vorrebbe "far pena" ai genitori e, in qualche modo, obbligarli a darle la loro approvazione, cui lei ritiene di avere diritto. Anche se è una dolcissima "bamboccia", come lei si autodefini-sce, è una bambina arrogante. È la prima volta che si scontra seriamente con un parere diverso dei genitori. Lo ripetiamo, a mo' di sonda: certe lacrime, per quanto manifestino dolore, non devono commuovere i genitori; genitori tirati ad approvare una scelta anche controvoglia sono genitori che non hanno fiducia nel figlio/a e quindi "capitolano", facendo capitolare anche lui/lei. Questo, lo ripetiamo, non ha niente a che fare con i ricatti affettivi o le minacce. Oltre che arrogante, cioè desiderosa di far fare ai genitori quello che vuole lei e nei modi in cui vuole lei, Sabina è anche confusa: si racconta che il papà non si merita un dispiacere, che lei non dovrebbe deluderlo, che un simile padre ha tanti crediti presso di lei; riesce persino a pensare di essere generosa, se rinuncia; salvo poi essere piena di lacrime che, come nebbia, nascondono la sua rabbia per non essere riuscita a far... quadrare il cerchio. Ma in questa auto-narrazione Sabina rassicura soprattutto se stessa: non vuol rinunciare a fare la bambina di papà; vorrebbe piuttosto che papà non avesse le idee che ha. Se i genitori stanno fermi, non ritirano la loro disapprovazione, Sabina passerà il guado e ne trarrà una grande lezione: lei, come tutti, non può avere contemporaneamente capra e cavoli. È così chiamata a un passo ulteriore: accedere all'approvazione della propria coscienza. Non c'è altra strada per diventare adulti, anche se costa fatica. E lacrime. Ma lacrime di un'altra marca, che vincono la nebbia confusiva e fanno intravedere il sole della propria vocazione. 159 (talora più di due) lo sanno soltanto loro. A mano a mano che la nicchia si chiude all'esterno, ciascuno funziona da partner sessualizzato dell'altro: tant'è vero che, più o meno consapevolmente, ciascuno tratta l'altro da tale; vuole per sé l'esclusiva dei pensieri, delle emozioni, dei vissuti; non accetta nessuna distanza; diviene sempre più intrusivo e fagocitante; prova perfino fenomeni emotivi: gli batte il cuore se sente la sua voce, lo pensa ossessivamente, non può ammettere di non essere il centro dei pensieri dell'altro. […] Probabilmente i due hanno fatto fuori tutti i legami di lealtà. Per loro è scontato che soltanto loro due sono reciprocamente leali: ciò che li ha spinti l'uno verso l'altro è forse la disperazione di non trovare, al di fuori, legami di lealtà soddisfacenti. È come se ciascuno di loro dicesse: ciò che mi viene negato (fiducia, riconoscimento, gratitudine, soddisfazione totale) me lo prendo con la forza o surrettiziamente; mi proteggo fagocitando l'altro, sfruttand olo, privatizzandolo: è assai probabile, infatti, che — almeno agli inizi - l'altro non sia veramente un pari, ma uno gerarchicamente inferiore, o per lo meno un debole. Anche qualora la diade non diventi manifesta ed i due si ritengano invisibili, il danno alla lealtà del gruppo è enorme: queste sacche rappresentano dei buchi neri che fagocitano energie e credibilità del gruppo. d) Anche il membro che si sente "prigioniero del gruppo"", del tutto involontariamente fagocita energie pappare depresso, demotivato, incapace di speranza, ma è probabile che sia un membro sensibile e fragile che si carica della depressione del gruppo, è come se portasse i fardelli di tutto il sistema che non sa più darsi vie di uscita, creatività, futuro. Ciò che si voleva qui affermare con queste tipologie è che i conflitti o gli sbilanciamenti di lealtà interferiscono con il benessere e la crescita di tutti i membri del gruppo. Nessuno può ritrova rsi nel mondo della sua stanzetta facendo finta che gli altri non ci siano, poiché - anche solo per il fatto che "si riti ra" - egli se li è già portati in camera, nessuno escluso. La comunità funziona da campo base che offre le risorse per le scalate anche individuali; ma non si può non contribuire a che il campo base sia tale, a beneficio di tutti. Le nostre sonde Non sta scritto da nessuna parte che, quando le cose vanno bene in famiglia, il figlio/a non debba affrontare sofferenze e intoppi. Anzi, è saggio "lasciarlo soffrire" con rispetto. Non è saggio evitargli tutte le sofferenze, anche se fosse possibile! Genitori che stanno zitti, che ritirano il loro parere alla vista del dolore del figlio non sono genitori che rispettano il figlio; essi devono essere franchi – a maggior ragione se le scelte del figlio sono oggettivamente sbagliate! – poiché non è in loro potere cancellare le sofferenze del figlio; genitori franchi, che dicono quello che pensano, sono genitori molto più rispettosi, perché sanno che la sofferenza del figlio non lo sommergerà. Certe lacrime, per quanto manifestino dolore, non devono commuovere i genitori. Genitori tirati ad approvare una scelta anche controvoglia sono genitori che non hanno fiducia nel figlio/a e quindi "capitolano", facendo capitolare anche lui/lei. Questo, lo ripetiamo, non ha niente a che fare con i ricatti affettivi o le minacce. Sprazzi di dialogo* A) B) - 160 Ma non c'è una via di mezzo? In che senso? L'hai detto tu che c'è prima la teoria, poi l'esamino, poi le vaccinazioni e poi l'inizio della pratica... Vorresti dire che intanto potrei fare la parte teorica? Appunto, non ci sarebbe niente di male. No che non ci sarebbe niente di male. Lo dice anche il mio papi che le nozioni teoriche mi farebbero bene... Imparare non fa mai male. E se dopo la teoria, se dopo l'esamino sono ancora più entusiasta di adesso? Questo sarà un problema tuo e non di tuo padre. La teoria mi piace molto; poi sono tra gente simpatica, alla mano; mi hanno detto perfino che non tutti passano alla pratica, non tutti se la sentono, ma che le nozioni di pronto soccorso restano sempre valide. E tu non te la senti di passare alla pratica? Altroché se me la sento. Ma come la metti con il tuo papi? Molte cose sono cambiate nel frattempo, l'ho aggiornato di tutte le cose che imparavo e lui era attentissimo... E allora ti ha dato l'OK? 13.5.4 Il corpo del profeta - La comunicazione non verbale - 185 Non si può non comunicare, ma ogni comportamento è comunicazione e viceversa. Soprattutto il nostro corpo, magari a volte indirettamente, parla. E cosa dice il nostro corpo? Il nostro corpo La diversità costringe ogni giorno alla fatica di tener fede all’unità come a qualcosa di più grande delle mie idee e dei miei programmi, e veicola una correzione fraterna che ancora prima di essere un rimprov ero, è una benefica potatura. Ma nessuno fa volentieri la fatica di essere potato, preferisce ar roccarsi; anche se, con uno sguardo più ampio, quella che prima vista sembra una "potatura" potrebbe considerarsi u chiamata: una chiamata a uscire dal proprio Egitto. Per scoprire poi che la chiamata è avvenuta precisamente grazie ai miti di quel fratello, che a prima vista sembravano una impo sizione. - 13.5.3 La comunità campo base – le figure in comunità - - 184 - Tra beniamini, santi martiri, nicchie e depressi: Visitiamo ora brevemente, non avendo certo la pretesa di esplorare tutte le possibili ricadute di una non equità degli scambi nella comunità, alcune figure: il beniamino, quello che si accolla tutto, il partner sessualizzato, il prigioniero depresso. a) Il beniamino è colui che da allegria e leggerezza al sistema; non è il più dotato o il più ammirato, ma è il più "riposante": è bravo e buono e non chiede nulla. È come se jl suo ruòlo "fosse quello di dare spensieratezza e riso al gruppo; con lui si ride, si fa la battuta. Ma nelle cose serie la sua parola appare meno seria di quella degli altri. […] b) Quello che si accolla tutto è il tappabuchi; è talmente "leale" che si offre al sistema come uno da sfruttare. Se nessuno si farà avanti per un compito, lui ci sarà. A poco a poco ci troverà così gusto che, prima ancora che qualcuno indichi un compito, lui l'avrà già fatto. E naturalmente è sempre preoccupato per tutto, è sempre più sorpreso che ci sia "chi se la prende così calma", chi non sa mettersi dal punto di vista dell'iniziativa da portare avanti, della causa cui dedicarsi... La sua lealtà al sistema è totale, al punto che egli non vi si distingue più. Diviene indispensabile come l'aria che si respira e, allo stesso tempo, prova vivente che nessun altro è così affidabile. Si identifica così bene con la causa, che le critiche o le approvazioni che vengono fatte ad essa, vengono fatte a lui, in persona. Non ha il minimo sospetto che uno come lui sia difficile da reggere, che il trovare il posto sempre occupato disincentivi gli altri a prendersi le loro scomodità, nonostante che egli denunci il suo essere lasciato solo. Non lo sospetta al punto che egli diventa una lamentazione vivente. c) Talora in comunità si creano delle diadi fustonalmente connesse: è molto di più della simpatia, del feeling, della facilità di comunicazione, della sintonia di vissuti e di valori. È una vera e propria nicchia che sfida la tenuta della lealtà del gruppo. Che cosa passa "tra quei due" - 161 Non è questo, non mi ha dato l'OK. Anzi rimane sempre perplesso sui rischi. E allora cosa è cambiato? Sto capendo che lui ha diritto di avere le sue opinioni ed io le mie. Hai capito una cosa importantissima: non è necessario che tu tiri tuo padre a pensare come te. E nemmeno che lui tiri me a pensare come lui. Possiamo volerci bene lo stesso. Non pensi più di deluderlo, di recargli un dispiacere che non si merita ecc. Prima ero una bambina onnipotente e pretendevo che tutti la pensassero come me. Forse per stare più tranquilla io. Adesso devo assumermi le responsabilità di quello che penso, me lo dice anche Erica. Ma questo principio vale sempre e comunque? Anche quando pensi in modo sbagliato? Veramente no. Ma in questo caso non c'è niente di male a fare la volontaria della Croce Rossa. Sono pienamente d'accordo. Non dovrai mai rinunciare, però, a porti dei limiti. Adesso ragioni anche tu come mia madre? Lo so bene che prima vengono gli esami! 58 12.2 Del non lasciare andare Alessandra, 28 anni, una laurea, un lavoro, un fidanzato, ma non si decide a sposarsi. Ascoltiamola* Avrei tutto: una laurea in architettura appena raggiunta, un padre ed una madre che mi vogliono bene e stanno bene tra loro; abbiamo una bella casa e non ci mancano i soldi; adesso ho anche il moroso definitivo, un ingegnere serio, posato, di cinque anni più anziano di me, con un bel lavoro. Vive da solo a Milano dove lavora; sta facendo carriera, ha amici e molte conoscenze. Mi ha chiesto di sposarlo. Qui tutto è precipitato: gli avrei detto di sì, ma non posso. Gli ho chiesto di pazientare, che non sono ancora pronta, lui ha pazientato per un anno e poi è tornato alla carica. Ha detto che, se non mi decido, lui è anche disposto a lasciarmi, perché vuole una famiglia. I miei sanno che facciamo sesso e che, almeno quando vado per il fine settimana nel suo appartamento, mi trovo come a casa mia. Però, quando hanno scoperto che c'è in vista il matrimonio, mi hanno detto che è troppo presto, che non sono matura, che fretta c'è; che loro mi danno tutta la libertà possibile, non mi controllano in niente e io, in cambio, non devo fare colpi di testa. Ho 28 anni, da qualunque parte guardi la situazione non vedo impedimenti: dovrei lasciare il mio lavoro sì, ma qui a Genova il lavoro non ha prospettive; sto facendo pratica e mi danno quattro soldi, e non è un lavoro che mi soddisfa. Lui dice che a Milano avrei altre possibilità e che mi aiuterebbe a trovare lavoro, con tutte le conoscenze che ha. Sto malissimo, non so decidermi. Da una parte mi sembra che tutto quello che mi dice Franco sia normale, dall'altra mi sembra tutto campato per aria. Perché? Sto ripassando mentalmente i. cinque anni della nostra storia: all'inizio entusiasta, toccavo il cielo con un dito; devo dire che mi sono decisa a fare la rincorsa per finire gli esami proprio grazie al lui. A me piace la montagna, faccio roccia, sono sportiva; lui è piuttosto pigro, sedentario. Ma ha imparato ad amare la montagna; «abbiamo il nido», come dice lui, sulle Alpi svizzere, un gioiellino di appartamento di cui i suoi amici gli danno le chiavi; mi accompagna nelle escursioni e, quando sono troppo impegnative per lui, mi aspetta alla base. Dice che adesso per lui la montagna è diventata parte della sua vita, anche se l'iniziativa la lascia - - - lasciar passare tutto, perdonare". «Per amor di pace gli dirò sempre di sì e passerò sopra a tutte le cose che non capisce...». Così l’altro si trova perdonato per ciò che pensa e fa, ma anche per ciò che non hai mai detto o fatto. Le differenze: È del tutto ingenuo dire che non vi sono differenze, soprattutto quando vi sono generazioni unite insieme. Ma questo deve far scattare da una parte la riconoscenza è gratitudine per la generazione anziana. È riconoscere i propri debiti […]; più all'anziano viene detto grazie, più egli diviene solidale con le nuove generazioni. Il primo rispetto al differenziale generazionale è appunto il riconoscimento delle difficoltà oggettive, della peculiarità delle situa zioni. Più la generazione anziana è ringraziata e riconosciuta per come è stata, meno esibisce bollette e desiderio di risarcimento. E questo nella misura in cui le giovani generazioni sanno di entrare in un sistema di "debiti " e non si lasciano schiacciare dal mito unidimensionale che sia possibile cominciare il mondo da capo, azzerare il passato e fare tutto ex novo. Quanto più è negato il computo intergenerazionale, tanto più ci si espone alla minaccia dell'isolamento. La virtù del ricevere : la generazione anziana non deve avere soltanto gratitudine e riconoscimento, bensì deve essere in grado di ricevere e quindi di apprendere. […] Vi sono persone che coltivano in tutta la loro vita il valore del dare (dare esempi, consigli, guida, sostegno, conforto, sacrifici, fare del bene, mettersi a disposizione, esser disponibili) e non coltivano il prezioso concime del ricevere. Sono come un terreno cui è chiesto sempre e solo di produrre, senza soste e senza concimi adeguati: prima o poi diventa arido. Nessuno si può esimere dalla virtù del ricevere. […] Q uanto più i giovani sono disponibili a pagare il loro debito di lealtà verso la generazione più anziana, più quest'ultima è disponibile a ricevere; più la generazione anziana è disponibile a ricevere, più i giovani sono disposti a dare il riconoscimento all'equilibrio dei debiti. È ovvio che aspettare che cominci l'altro è l'unica maniera per assicurarsi stagnazione relazionale. In sostanza, ed a parole è facile, serve promuovere gesti di comprensione e di compassione reciproca tra le generazioni. Ogni pio desiderio che ciò non debba esser necessario, che basterebbe avere più fede o pregare di più, è destinato a lasciare strascichi di depressione e sfiducia. […] Dare e ricevere sono due facce della stessa medaglia. 58 162 GILLINI G. – ZATTONI M.T., Il piercing dell’anima…, oc, pp. 153-163. 183 - - è..., e ci impediamo di godere del mistero che la vita ci regala. […] Il giudizio universale, che affiora nelle parole di chi usa il sempre, e il mai… sfugge anche alla vita, fatta di eventi alterni e di segno discorde. È importante cercare "il caso unico" l'esempio dissonante che rompe il sempre del giudizio universale e apre alla speranza. Su quanto abbiamo detto la comprensione con la testa è semplice, ma quella comprensione con il cuore i tempi hanno la durata della vita. L’altra dinamica della "psicologia fondata sui luoghi comuni" è quella che usa la struttura lineare causa/effetto “ è così perchè…” dove la spiegazione del comportamento viene ricondotta a qualche causa interna al soggetto, dove il comportamento di un soggetto viene visto come causato dal comportamento di un altro individuo». Questo […] conduce a spiegazioni semplicistiche, dal fiato corto. Esso non ci permette di andare al di là delle cose, di dare aria, di scoprire una trama più vasta nella realtà relazionale del sistema umano che vogliamo capire. La linearità, anzi, finisce spesso nella ricerca del colpevole , […] come se, trovato il colpevole, il problema fosse risolto. Un altro elemento connesso connotato l’aut aut: «O vinco, o perdo», «O è bianco o è nero», «O sto sopra o sto sotto»; tali espressio ni guidano le competizioni in cui siamo immersi verso un sottosopra che procura malessere a tutti. La sua dinamica opposta è quella dell’et et che promuove il passaggio a vedere/pensare "la realtà di primo ordine" con lo sguardo di Gesù, e cioè riesca ad intuire, pur nel dolore, quei «nuovi cieli e una nuova terra» che già pulsa sotto la crosta dei fatti che” parlano da soli” 13.5.2 Dire grazie - Superare le stagnazioni relazionali - 182 Vi sono due modi per tentare di superare il conflitto, quello del noblesse oblige e quello della clemenza (talora detta impropriamente perdono). Il comportamento del noblesse oblige è il comportamento distaccato di chi non scende mai "ai piani inferiori"; vive nelle sue stanze alte e - anche quando avrebbe una voglia matta di partecipare ai "pettegolezzi che si svolgono nelle cucine" - mantiene la sua distanza "nobile": “non vi mostrerò mai i miei bisogni, poiché la mia condizione m'impone di essere sempre all'altezza […] è l'atteggiamento difensivo dettato dalla paura, più o meno riconosciuta. Paura di non esser amati e accettati per quello che si è. […] Anche l'atteggiamento della clemenza a buon mercato, anzi non richiesta, mantiene la disparità di reciprocità: vi sono persone disposte a scusare tutto, capire tutto, sempre a me. Non ama la vita alla grande, al mare gli va bene anche un campeggio; io sono abituata ad alberghi di un certo tono, dove sono sempre andata fin da piccola con mamma e papà. Sto malissimo, ripeto; sento che lui ha ragione, ma io non posso lasciare mamma e papà. Sarebbero troppo infelici. Mamma qualche volta mi trova a piangere e allora mi dice: «Ma non vedi che hai la vita ancora davanti? Divertiti, esci con i tuoi amici come hai sempre fatto...». Mi parla come se non avessi il moroso. Ho sempre avuto il sospetto che Franco a loro non piaccia, ma ieri ne ho avuto la certezza. Non sono abituata a spiarli quando parlano tra loro (succede raramente, a dire il vero), ma ieri sera loro non mi hanno sentita entrare ed io sono stata sorpresa da una parola detta in modo alterato da papà "quello là" e allora mi sono messa ad origliare: - Cosa vuoi che le possa offrire! – diceva papà con una stizza che di solito, nella sua pacatezza, non sa dove stia di casa. - E poi è lontano – rincarava la mamma. - Sì, Milano è troppo lontano. Nostra figlia a Milano e noi qui come due allocchi. - E se ci trasferiamo anche noi là? - Neanche morto, io voglio godermi i miei anni in pace, non nel caos di Milano. - E se loro si trasferissero qui? - Non fare sogni ad occhi aperti: per lui Milano è la carriera. - Già, noi ci mette in secondo piano. - Tua figlia ci mette in secondo piano! Questo è il grave. Del resto lui si è visto da quale famiglia viene. - Sì, sono poveri operai che si sono levati il sangue per farlo studiare, hanno laureato lui, il primogenito, ma non ci sono riusciti con gli altri due... - Quando li abbiamo invitati qui... sembravano morti di fa- me; hanno fatto le meraviglie per la nostra casa, ci hanno chiesto questo e quello... - Indelicati, ecco. - E nostra figlia dovrebbe mettersi con quella gente... I suoi di lui resterebbero a casa loro, in provincia; ma si sa come vanno queste cose... - E se dopo non sarà felice? - Ecco perché sta così male, anche lei sospetta che lui non sia all'altezza... Uno che si piega ad andare in tenda... Avevo ascoltato anche troppo: sono rimasta di sasso. Ecco quanto sono preoccupati per me. Ecco quanto sono attaccati a me. Sto peggio di prima, non so decidere. E se i miei avessero ragione? Come faccio ad essere sicura che poi funzioni? E se mando tutto a monte? Non mi mancano certo i ragazzi... 163 Chi trova il coraggio di dirglielo che non se ne fa niente? Mi vedo i suoi occhi tristissimi, delusi. Mi direbbe: «Come vuoi tu». Non direbbe una parola contro i miei genitori, anche se io non vado certo a riferirgli il dialogo che ho rapinato; lui percepisce che non è gradito, quando viene a casa mia, ma non mi rinfaccia niente, lo so. Sarebbe disposto a prendermi come sono. Ma perché sto così male? Come i genitori tirano indietro Nell'analisi di questa storia ci troveremo a dire, apparentemente, l'esatto contrario di ciò che abbiamo affermato nella storia precedente. È necessario, perciò, che veniamo allo scoperto con la questione di fondo che vogliamo sostenere qui, nella storia precedente ed in ogni rapporto in cui si tratti di svincolo dalla famiglia d'origine. Lo svincolo – detto in termini biblici: il lasciare il padre e la madre – è necessario per diventare adulti. Nella storia precedente lo svincolo consisteva nel non voler sempre e comunque te l'approvazione dei genitori, qui consiste nella capacità di deluderli, senza venir meno né alla stima di loro né alla stima di sé. Ma prima di addentrarci in questa nuova acquisizione, occorre che guardiamo in faccia un fenomeno sempre più massiccio nella nostra cultura ed in particolare nella cultura mediterranea della "famiglia lunga del giovane adulto": e cioè la difficoltà da parte dei genitori a "lasciar andare" il figlio/a. Come abbiamo visto, il figlio deve pagare in proprio i costi del suo distacco, sofferenza compresa, né è legittimo colpevolizzare i genitori che "resistono" allo svincolo, che non buttano il pulcino fuori dal nido, che provano il lutto per la sua "partenza" o, meglio, per le sue molte partenze. Ma tutto questo non ha niente a che fare con il voler trattenere il figlio/a a tutti i costi: anche a costo della "sanità" del figlio/a tanto amato. Se vogliamo mettere il dito sulle colpe dei genitori, facciamolo in modo circostanziato e corretto, cioè mostrando, nel caso specifico, quali remore, bastoni fra le ruote, freni a mano mettono simili genitori al figlio/a che se ne vuole andare: magari non del tutto consapevolmente. Facciamoci aiutare dagli errori dei genitori di Alessandra; è come se essi dicessero: il tuo mondo siamo noi, il tuo orizzonte siamo noi, quello che va bene a noi, quello che fa contenti noi, va bene anche a te e fa contenta anche te (anzi, se tu non ti mostrassi contenta, saresti un'ingrata, dopo tutto quello che abbiamo fatto per te!). Se tu esci da quest'equazione, ci perdi. Più ancora: noi non lo reggeremmo, poiché tu sei la ragione della nostra vita. Noi senza di te saremmo "due poveri allocchi"! Con un'aggravante: Alessandra è figlia unica e spaventosamente sola. Detto in questi termini, sembra un'esagerazione: certamente i primi a non sentirsi rispecchiati nelle suddette parole sarebbero loro, i genitori. Ma mettiamo a fuoco i segnali che essi mandano alla figlia ventottenne: ti lasciamo liberar puoi entrare ed uscire quando vuoi, siamo discreti e ti 164 - - 181 permettiamoci un bisticcio di parole - anche per il solo fatto di farsi i fatti suoi, per il solo fatto di esporre la minima parte del sé a contatto con gli altri, egli influenza il gruppo con cui vive e ne è influenzato. […] Una persona non può essere indifferente, non può chiudersi nell'illusione «io non nuoccio agli altri e gli altri non nuocciono a me...» perfino quando è materialmente assente. Fuori dai nostri sistemi di congelamento, la vita è variegata, complessa, non si lascia determinare nei nostri comodi schemi causa-effetto. La vita delle persone non solo non si riduce alla loro foto formato tessera: quello è così e non può essere che così, ma — se vogliamo vedere - la vita ci mostra la persona tutta intera, non solo con le parti che espone ma anche con quelle che vorrebbe celare, con i fili intricati che la legano agli altri e da cui è legata. Tutto ciò rischia di essere scomodo, molto scomodo. Uscire dal formato tessera è qualcosa che ridà spessore, movimento (anche se inquietante), dinamismo e voglia di cambiamento, meglio ancora: possibilità di cambiamento. La strada del formato tessera è sempre a senso unico («è così perché») […] Il piccolo psicologo: è quell’atteggiamento per cui si utilizzat la “pscicologia dei luoghi comuni” dove le idee pregresse con cui le persone della nostra cultura, in generale, si avvicinano (magari per dare aiuto e sostegno) alle altre persone con cui sono in relazione, e questo second o dei “ MODELLI ”, applica bili a priori […] essi sono convinti che quell'individuo sia fatto così, indipendentemente dalla relazione in cui è immerso e che coinvolge anche loro stessi. E ciò comporta che chi parla sia un "osservatore esterno", si metta cioè al di fuori della relazione, come se dicesse: «io osservo soltanto dall'ester no». Il che equivale ad affermare in maniera del tutto ingenua: «Io non c'entro!» e nello stesso tempo a "reificare la relazione" attribuendo le caratteristiche (spiacevoli, quasi sempre) della relazione (di noi due) all'altro. […] E si finisce anche con il formulare giudizi sul soggetto che hanno tutto il sapore del... giudizio universale: “è fatto così e così, e non ci posso fare niente”, interpretando e stenografando un numero limitato di comportamenti (e non tutti i comportamenti del soggetto: quelli che lui non ha messo in atto in mia presenza, quelli che metterà in atto domani...) togliendoli dalla relazione con me, e che quindi possono essere diversi da quelli messi in atto verso altri. Questo irrigidisce la relazione e non ammette più lo scorrere della vita, non produce ben-essere perché evita persino che si possa intraprendere una nuova strada per risolvere il problema. “Tanto è inutile!” […] Abbiamo già giudicato che il nostro … purtroppo è..., che nostro… diverse. L'accordo primario, da cui nasce la vita, proviene dalla diversità più radicale, l'essere uomo e l'essere donna. Ogni diversità, se accettata come una possibile riserva di significati, è un bene per la comunità. Omologarsi, privilegiare lo stesso stampino, essere religiosi solo in un certo modo è un impoverimento che paghiamo tutti molto caro. Certo che, se l'altro è diverso, non funziona come me. E questo è il rovescio della medaglia più difficile da accettare. * Una seconda condizione è la dose necessaria di autostima conseguentemente il saper offrire all’altro la stessa stima. Se non permangono nella cooperazione ambedue i poli, si ricade pesantemente nel sistema competitivo dove il sovrano è uno solo: o io, e allora l'altro è mio suddito, o l'altro e allora io sono un suo suddito. […] L'accordo è infatti il frutto dei gaudenti, di coloro che sanno gustare quello che hanno, dei Beati. Prima condizione: venire a sapere (ha a che fare con il mistero?) che le differenze (e ci sono, anche nella coppia più innamorata o nella parrocchia che funziona meglio!) non sono incidenti, ma vocazione. Gli idealisti (ed i talebani) tra noi vorreb bero abolire le differenze, ma dimenticano che è da queste che è iniziato il mondo. E dunque la differenza, anche la più dolorosa, contiene in sé un germe di vocazione una chiamata, cioè, a uscir fuori dal proprio (monotono) Egitto... Se la differenza è vocazione, non solo non tenteremo di abolirla, ma la guarderemo con rispetto. Seconda condizione: l'abbandono delle aspet tative di potere sull'altro, rinunciando ad una intesa integra e perfetta che (come abbiamo già detto) assomiglia più ad un tentativo di omologazione dell'altro. La terza condizione è la tenace e coraggiosa ricerca dei propri tentativi di sottrarsi al confronto (quelli dell'altro li sappiamo a memoria!). E questa è la condizione più difficile perché in effetti ciascuno si autoconvince che se fosse per lui... è l'altro che rifiuta di mettersi in discussione! 13.5. Le relazioni caso, incontro e affetto63 13.5.1 “Sistemi di congelamento” la basata sui luoghi comuni” - Esserci e non esserci entrambi cambiano la situazione: Anche se ciascuno stesse chiuso nella sua stanza egli esisterebbe per, non potrebbe dire «io non c'entro, io sono uno che si fa i fatti suoi» perché 63 180 “psicologia idem, pp. 151-158. diamo tutto, anche benessere economico ed esistenza ovattata; sappiamo che hai rapporti sessuali con «quello là», sappiamo anche che deve essere una cosa seria, se dura da cinque anni; noi non ti abbiamo messo i bastoni fra le ruote, anzi; abbiamo anche conosciuto lui, lo abbiamo accolto, così come abbiamo accolto i suoi. Non che siamo stati contenti, però non te lo abbiamo fatto pesare, perché noi siamo "democratici": in fondo sono scelte tue. Certo abbiamo guardato questo lui (laureato, vero; con un buon lavoro; serio e modesto, vero: fin troppo) con qualche distanza, pensando che tu meritavi di più, che tu sei abituata a ben altro, con l'agiatezza che ti abbiamo sempre procurato; e del resto il papà ha lavorato tutta la vita per questo. Come vedi, non ti abbiamo detto niente, se non qualche accenno tra le righe, ma sempre con molta discrezione. Adesso lui \ vorrebbe sposarti: ma non sei pronta, che fretta c'è, hai tutto. Forse, tra le righe, il discorso potrebbe essere più pesante: perché prenderti la responsabilità di una famiglia, quando ti puoi godere la vita, e poi con la maternità rischierai la carriera: che cosa ti abbiamo laureato a fare?! Tutto questo è una lunga catena di ricatti effettivi: nati certamente non in occasione del ventilato matrimonio della figlia, ma da ben più lontano. E la figlia si trova invischiata in queste catene7ribr-ST15ériéTai credere; anche se non avesse colto il discorso tra i suoi (tra le righe: finalmente uniti e complici in ciò che pensano dell'aspirante genero!), i reali pensieri dei suoi li conoscerebbe, o meglio, li percepirebbe dal di dentro: del resto si è messa ad origliare perché già sospettava ciò che ha "rapinato". Una focalizzazione genitoriale eccessiva Ci permettiamo una breve digressione: capita oggi più che mai di sentire lamentele dei genitori perché «il figlio/a non se ne va». E per giunta il figlio/a appare scontento, nervoso, anche se apparentemente ha raggiunto le sue mete: titolo di studio, lavoro anche se precario, rapporto affettivo stabile. Ed ecco la nostra sonda: molte volte la sofferenza (anche se può tradursi all'esterno in sicumera ed egocentrismo) di non sapere "andare" è favorita da un genitore o da entrambi, anche se a parole dicono il contrario., Abbassamento dei conflitti, zona franca, nessuna richiesta di contribuire al ménage familiare, "servilismo" nel fargli/le trovare tutto pronto, libertà di movimento assoluta del figlio, nemmeno concessa reciprocamente ai padroni di casa: sono tutte strategie per trattenerlo, anche se a parole si vorrebbe farlo/a uscire dal nido. Perché? Torniamo ai nostri "istruttivi" genitori di Alessandra: temono di non trovare altra ragione per vivere; il loro orizzonte vitale è stato troppo "occupato" dai figli e lo spettro di una "disoccupazione" dai figli fa paura. 165 Se poi il figlio/a – come nel caso di Alessandra – va lontano (da Genova a Milano!), allora il riciclarsi in compiti a portata di mano diventa difficile: pensarsi come importanti per la nuova famiglia, perfino indispensabili come nonni, porterebbe a un non-distacco effettivo; il che – nel caso di Alessandra – sarebbe fortunatamente impossibile. La paura di rimanere "soli" (in due!) è sempre più frequente, oggi, da parte delle coppie anziane: ma non è che il frutto di lunghi silenzi e di "compiti centrai ti solo sui figli". Alessandra è a un bivio È ora, però, che ci occupiamo di Alessandra, che denuncia tutta la sua incapacità a decidere. Quando dice «sto malissimo», possiamo crederle. La solidità del suo ragazzo, le libertà che si prendono, lo star bene assieme in montagna, le prospettive future, tutto passa in secondo ordine. Niente scalfisce questo dolore non provocato, ma semplicemente evocato dalla prospettiva – che appare impossibile – del matrimonio. Alessandra appare sempre più demotivata, depressa, magari dimagrita e stanca: e così offre involontariamente una "scorciatoia" (vedi capitolo Sette) ai genitori, che possono interpretare questa sua infelicità come la prova che lui non è il ragazzo giusto e che lei non è pronta. E, probabilmente, più la vedono soffrire, più rincarano la dose del loro iperprotezionismo. Fatto è che Alessandra si trova di fronte ad una duplice impossibilità: non è possibile tradire i genitori e non è possibile lasciare Franco. Ci auguriamo che Franco persista nella sua fierezza: il suo desiderio di farsi una famiglia; e con lei. Ma che sia disposto perfino a lasciarla, se non ci sono sbocchi. Se Franco "cedesse" (sto con te senza prospettive), non contribuirrebbe di certo alla maturità della donna che ama. Alessandra è a un bivio che non può evitare: se non sceglie, se sceglie di non scegliere, va incontro al fallimento. Non c'è fallimento più grande di non uscire alla vita: se non sceglie, ogni altra riuscita è solo "una pezza". E Alessandra lo sa benissimo. Avverte un pericolo di morte, per così dire; come il feto che non può rimanere oltre nel grembo materno, eppure non sa cosa troverà là fuori, staccato e solo. Ma per scegliere deve passare per un crogiolo dolorosissimo: accettare di deludere i genitori, di non essere come loro speravano che fosse, di non essere all'altezza delle loro aspettative. Non basta soltanto non mettere in atto strategie per volere la loro approvazione a tutti i costi: serve il distacco. Ed ecco una preziosa sonda: c'è un momento in cui l'adolescente sceglie di essere sé, di distinguersi, di seguire le tracce della propria coscienza; ma lungo questa strada gli può capitare di non essere come i genitori si aspettavano; di sicuro questo lo fa soffrire, anche se magari, all'esterno, esibisce sicurezza, sfrontatezza e persino sfida. Se arrivano 13.3 Legami di simpatia (in comunità e coi ragazzi) 62 13.4 Lavorare insieme I bimbetti delle scuole elementari, dopo poco tempo di modulo con tre maestre, sono diventati abili a dividerle: «Maestra, tu sì che spieghi bene, la Rosa invece... Con te sì che lavoriamo, con la Mariella no!» e via di questo passo. Se le maestre ci cascano, la loro azione educativa è frantumata e dispersa. Ma se una dice: «Quello che fa la mia collega è ben fatto; se fa così, avrà le sue buone ragioni», se – in altre parole – le maestre imparano ad essere solidali tra loro ed a parlare in noi, allora il loro potenziale educativo diventa enorme. Hanno immesso nella loro vita relazionale la convinzione che le qualità dell'una non fanno ombra all'altra, anzi. Mettere insieme i loro pani e i loro pesci-significa- Moltiplicarli. Ma per fare questo occorre una decisione del cuore. Decidersi per la modalità cooperativa di gestire i conflitti non può essere semplicemente più razionale, più giusto, più efficiente, anche se è razionale, giusto ed efficiente. È una decisione del cuore perché sorpassa tutte le evidenze, anzi – sui tempi brevi – mette a rischio. Mette a rischio tutto. La logica cooperativa La logica che vogliamo introdurre è più ampia di quella che si attesta sull'aut/aut del tertium non datur. La logica cooperativa di ce: «E perché no?». Oppure, di fronte agli ormai e al "non ci resta che piangere" introduce rispettosamente un «E se?». E se l'altro non ce l'avesse per definizione con me? E se Dio, che ha avuto il buon gusto di chiamarlo a sedere alla stessa mensa con me, non si fosse sbagliato? E se lui, così indifferente o centrato su di sé, fosse interessato alla causa come me? E se non fosse ciò che a prima vi sta si vede di lui? Se decidessi di sbarazzarmi, almeno provvisoria mente, del formato tessera in cui l'ho incasellato? E se Dio avesse visto in lui ciò che io ancora non riesco a vedere? […] Le condizioni per l’accordo Naturalmente occorrono delle condizioni umane perché si dia un accordo. Ne accenniamo almeno due. * La prima consiste nell'accogliere le differenze come una minaccia né come una colpa, bensì come una risorsa. La cultura massificata ci vuole sempre più convincere che solo il simile si intende con il simile e ci avvia ad una tragica frammentazione. L'accordo, invece, è possibile tra persone 62 166 179 idem, pp.189-234; 315-325. La strada che porta alla soluzione passa per un cambiamento del cuore che fa dire a ciascun membro del sistema, indipendente mente da quello che fanno e dicono gli altri, indipendentemente dai tempi degli altri: nella nostra relazione c'è qualcosa che non va, ma, poiché la relazione è un prodotto di tutti e io ci metto la mia parte, io comincio a chiedermi cosa posso fare io per cambia re (me, s'intende!). Eventualmente io sono disponibile a farmi aiutare. La strada della raccolta differenziata impegna tutta la comunità e comincia già nel luogo dove i rifiuti vengono prodotti […] Per fare questo sono necessarie alcune condizioni importanti: a) Tollerare apporti provvisoriamente diseguali. È questo un tratto assolutamente inconciliabile con la nostra cultura competitiva, che si interroga sempre su chi ha di più/chi ha di meno. Nella fraternità esistono tempi diseguali: un modo autentico di portare la croce nella fraternità può essere quello di tollerare che l'altro faccia di meno, che sia per ora debole, per ora sia "in perdita".. Questo non mi giustifica a ritirare il mio impegno, a misurare, ad incensare l'idolo del «unicuique suum». La logica del calcolo è messa radicalmente in discussione! Anche a me sarà permessa una sosta, un dare di meno... […] Si possono accogliere apporti provvisoriamente anche diseguali, e anche il nostro stesso apporto come carente. E nel momento in cui mi lascio lavare i piedi, non posso immaginare di lavarli a mia volta. Oggi qualcuno li lava a me. b) Tollerare apporti imperfetti. Chi "raccoglie i rifiuti" non è il più bravo, il più santo, quello che ha ragione, ma è semplicemente chi fa un servizio alla comunità, sapendo (e non solo per ammissione teorica) che a sua volta produrrà rifiuti. E in ciò rientra anche la disponibilità a farci aiutare non come vogliamo noi, ma come l'altro può e sa: è esperienza comune che quando un membro della comunità dà il suo apporto non lo dà come e quando gli altri vorrebbero… c) Vivere tutte queste fasi nella gratitudine. […] - Per poterti lavare i piedi io devo riconoscere con stupore e con riconoscenza che sei arrivato fin qui: i tuoi piedi, che si sono la sciati incrostare dalla polvere della strada, mi dicono che hai faticato per arrivare fin qui, per essere qui con me ora, proprio ora. - Per potermi lasciare lavare i piedi devo riconoscere, con stupore e con riconoscenza, che tu mi aspettavi così come arrivo, dopo la fatica del cammino, senza alzare nessuna barriera. 178 segnali che il figlio/a li delude, è bene che i genitori li accolgano come segnali benedetti, pur permettendosi di soffrirne. L'alternativa nessun genitore se la augura: un figlio/a "malato", ripiegato su di sé, depresso... un figlio che fallisce. Quante volte, nel nostro lavoro, ci siamo detti, di fronte ad uno di questi fallimenti: ma quanto costano, questi genitori! La regressione sul "sicuro", la non-uscita, via.patologica. Di pochi. Le tante Alessandre che abbiamo conosciuto sono per noi motivo di speranza: a poco a poco il figlio che soffre il suo "voler andare" impara ad ascoltare la parte migliore di sé; impara che, se lui/lei sceglie, non solo fa piacere a se stesso, ma fa un dono anche ai suoi genitori che, un giorno, nelle mille svolte della vita, nonostante la delusione ricevuta e accolta, potranno dire: «Proprio te volevo!». E non il figlio/a immaginato e sognato. Ancora un'annotazione. Il distacco o, meglio, la fatica del distacco, non può essere addebitata al partner. «Ti sposo per andare via di casa», non solo non è una buona mossa, ma si rivelerà un boomerang; può capitare che il partner cui si è dato il compito di rapirci dalla nostra famiglia, si riveli, una volta esaurito il compito, un peso. La fatica va fatta in proprio; anche perché – come diciamo in Benessere in famiglia – al matrimonio si arriva ciascuno con la propria benedetta valigia. Le nostre sonde Molte volte la sofferenza (anche se può tradursi all'esterno in sicumera ed egocentrismo) di non sapere "andare" è favorita da un genitore o da entrambi, anche se a parole dicono il contrario. C'è un momento in cui l'adolescente sceglie di essere sé, di distinguersi, di seguire le tracce della propria coscienza; ma lungo questa strada gli può capitare di non essere come i genitori si aspettavano; di sicuro questo lo fa soffrire, anche se magari, all'esterno, esibisce sicurezza, sfrontatezza e persino sfida. Se arrivano segnali che il figlio/a li delude, è bene che i genitori li accolgano come segnali benedetti, pur permettendosi di soffrirne. 167 Sprazzi di dialogo* A) - Quale sarebbe la condizione per sposarti serenamente, Alessandra? Una sola: che i miei siano d'accordo. Hai chiesto esplicitamente il loro parere, oltre quello che hai trafugato origliando? No, tanto lo so già. E invece potresti farli uscire allo scoperto. E dopo? Dopo, quando mi hanno detto tutte le ragioni per- ché io non mi sposi, che faccio? Intanto tu hai permesso loro di dirle a te, non solo di insi- nuarle o di fartele capire; hai permesso loro di dirle a te adulta. Ma io sono adulta? Questa è la domanda vera. L'anagrafe, la laurea, il lavoro, tutto dice che sei adulta. Ma lo vuoi essere? Non lo so. Come sarebbe, se tu lo fossi? Li provocherei a parlarmi, a dirmi le loro ragioni e io direi le mie. Ma io ho paura. Paura di che cosa? Di deluderli, io sono tutta la loro vita, me lo hanno sempre detto; anzi adesso mi rimproverano che, da allegra e spensierata che ero, sono diventata musona. Ma loro hanno proprio bisogno di te? Certo che sì! Cioè no, gli adulti capaci di vivere sulle loro gambe dovrebbero essere loro... È ora che siate in tre adulti, e che proviate a staccarvi... Loro mi dicono che mi hanno lasciato tutta la libertà... che vogliono il mio bene... mio padre ha perfino fatto un appartamentino nella villa, di cui solo io ho la chiave... È così che ti "lasciano andare"? Sì e no.Se proprio volessi sposarmi, loro si rassegnerebbero. Tu reggeresti la loro rassegnazione? B) 168 Io vorrei che loro fossero contenti di me. Hai chiarito il vero punto nodale: è necessario che i tuoi genitori siano contenti di te, cioè ti approvino sempre, in tutte le tue scelte? Ho sempre pensato che dovesse essere così, per essere loro gradita, per farli contenti, insomma, per non farli soffrire. O per non fare soffrire te stessa? È vero, forse non voglio affrontare questa sofferenza, la sofferenza di deluderli. prodotti li elimini! Chi dice così è infatti convinto che "lui non c'entra" ed è pronto a sfidare a duello chi afferma il contrario. […] I tentativi si soluzione Uno dei tentativi di «smaltimento dei rifiuti psicologici» che, in varia misura e in vario mo do, tutti provano a fare è la negazione del problema […]Ma se questo tipo di reazione al disagio può essere accettabile nel breve periodo, alla lunga è fallimentare. L'inceneritore , come metafora, sta per la pretesa di risolvere radicalmente il malessere del "convivere" con la lotta e "una volta per tutte". È un tentativo di giudizio definitivo, la distruzione del peccato insieme al peccatore. È il trionfo del moralismo senza appello: «così non deve essere!». Questo mette in luce, è a volte ammantata di intenti quanto mai nobili ed apprezzabili: l' amore della verità, l'intenzione di aiutare l'altro «finalmente a rendersi conto che...»; l'altro con altrettanta buona intenzione risponderà: «Beh, do il mio assenso per amore di pace!». E ciascuno resta così attaccato ad un solo aspetto della realtà, e sembra quasi non ammettere che la realtà è più complessa dei suoi stupidi aut aut. […] Come ogni modalità unilaterale ha però anche aspetti positivi che non dobbiamo negare: è frutto di passione e coraggio; solo se diviene «la» soluzione rischia di non accedere ad una soluzione più matura. È la soluzione “tecnica ” e tanto meglio se esterna (psicologico, prete, autorità ecc…) quando di dice “se... sono convinti che ormai... se... è convinto che ormai... «noi non possiamo farci niente... », tutti sono preda di una sorta di profezia che anticipa, senza nessuno sbocco possibile, un giudizio universale. Questi non hanno il cuore pronto a potersi aspettare che, attraverso tutto il reale, positivo e negativo, Dio ci parli, non possono disporsi a leggerne il messaggio di speranza, non sono disponibili. E nemmeno l'esperto dall'esterno può far qualcosa se non c'è una previa apertura del cuore in cui fare breccia. In sintesi, ogni comportamento che mina la relazione tra confratelli e consorelle è un problema di tutti, di più: è un'opportunità per tutti. A volte si potrebbe addirittura pensare che a Dio per smuovere una comunità non restasse che mandare loro quel confratello o quella consorella problematici; la soluzione allora di chi pensa: "nella relazione che l'altro/gli altri mi offrono c'è qualcosa che non va (perché lui/loro producono rifiuti tossici) e quindi propongo che un tecnico aiuti (l' altro/gli altri) a cambiare", è una non-risposta, una non-soluzione. Compito di tutti 177 Se Gesù fosse appartenuto al suddetto partito, nessuno di noi avrebbe una sola chance, nessuno di noi potrebbe essere libero dal passato, tutti vi rimarremmo inchiodati senza speranza di futuro (che è poi esattamente l'effetto del giudizio universale prima del tempo![...] Egli chiedendoci di amare come Lui ci ha amati ci ha abilitati a deporre il peso del passato e a cercare un altra trama di lettura, se lo vogliamo. Non dare potere al passato (anche di un giorno, di un ora) è opera profondamente. creativa. «Anche con il cappello!» - «Devi prendermi anche con il cappello». Un quarto gioco competitivo può essere «devi prendermi anche con il cappello». Sulla base del "tu mi devi" (tu genitore, tu superiore, tu gruppo, tu comunità) il giocatore esibisce comportamenti che potremmo chiamare di dolorosa sfida. "Vediamo se mi prendi come sono". Vediamo se mi accetti. Vediamo se mi ami. Io mi permetto di... [...] Sta a te accettarmi; magari ti mostro che potrei anche cambiare, se tu farai il primo passo. Altri menti, che padre sei, che comunità sei, che carità cristiana hai?[...] Chi gioca questo doloroso gioco è uno che ci rimette in immagine sociale, gli altri diranno: è un tipo difficile; è uno da prendere con le pinze; non si sa mai dove vuole arrivare; e cercheranno di renderlo innocuo, magari con favori e promozioni. Egli riduce gli altri a pubblico e, qualche volta, ad esecutori dei suoi voleri. È vero, è alla ricerca disperata di approvazione, ma si avvia ad un gioco senza fine: più ne riceve, più ne ha bisogno. Perché egli, nel suo intimo, sa che l'ha estorta, è un'approvazione inquinata. Egli, per sentirsi accettato, pone le condizioni su come lo debbono accetta re: con il cappello appunto e cioè con qualcosa sempre sopra le righe, qualcosa di esclusivo, qualcosa dí eccezionale. Ma poiché egli pone le regole, non potrà mai sapere se l'accettazione che riceve è genuina o no. E tutti si trovano nel campo dell'indecidibile: lui, perché non sa se gli sorridono, sì ma tra i denti, e gli altri perché non sanno se è lui o il suo cappello che si rassegnano ad accettare. È un braccio di ferro in cui tutti, ripetiamo sui tempi lunghi, escono perdenti. - - C) - - I postumi del conflitto nel giro di poche altre battute allargano il conflitto in modo da giustificare la propria diagnosi da «piccolo psicologo»: «Ormai... ho capito che lui, che io...»; la situazione di disagio è vista cioè come conseguenza della mancanza di amore da parte dell’altro. Danno così per acquisito il divario tra le attese di prima del matrimonio con il presente di sei anni dopo, che conferma, ai loro occhi, l’ipotesi della fine di un amore in cui avevano investito molto. […] Il "piccolo psicologo" ha pronta la soluzione: chi li ha 176 169 È arrivato il momento! Di scegliere tra me e loro? No di certo: in questi termini sarebbe una scelta tra egoismo e altruismo. E allora, in quale senso? L'hai visto tu stessa: puoi scegliere la parte migliore di te, i tuoi desideri, i tuoi sogni sul futuro. La tua coscienza ti dice che sono buoni, che fanno parte della vita, che non sono colpevoli. Puoi scegliere questo. E loro? Sui tempi brevi possono essere in disaccordo, spaventati per la solitudine che procura la tua assenza, ma la parte migliore di loro "sa" che tu hai diritto di scegliere. Devi permettere loro di essere un pochino in lutto, se te ne vai. Poi si accorgeranno che hai fatto la scelta giusta. Ho capito che non posso scegliere definitivamente adesso, cioè non sono pronta per scegliere di sposarmi o stare con i miei. È un'idea saggia. Allora cosa farai? Ho chiesto al mio moroso un break, con tutti i rischi che questo comporta. Un break per fare cosa? Per verificarmi; ho veramente bisogno di staccarmi dai miei; ma ho anche bisogno di capire se i dubbi dei miei su di lui non siano anche i miei. Ho bisogno di capire se veramente lo vo- glio, così com'è. Quindi hai deciso di aspettare e di avere pazienza. Pazienza? Sì, pazienza con te stessa! Oh, bello! Ma non aspetterò molto: ora mi è chiaro che comunque mi dovrò staccare dei miei. Non vuoi addebitare questa fatica sul conto del tuo rapporto con Franco... Sì, è una fatica tutta mia. Adesso lo so. 12.3 In sintesi, distacco e famiglia d’origine Il distacco dalla famiglia d'origine Per tutti si parte dalla famiglia in cui si nasce e nella crescita di ogni persona è contemplato il distacco dalla famiglia d'origine verso una propria famiglia. Gli elementi fondamentali di tale passaggio si possono a nostro avviso condensare in tre momenti. 1. Il momento della considerazione infantile dei genitori come onnipotenti, buoni, narcisisticamente concentrati sul mio bene di figlio, cui è legata tutta una serie di pratiche per ingraziarmeli (ad esempio potremmo leggere in questo modo l'obbedienza). Questo atteggiamento infantile è estremamente funzionale al piccolo dell'uomo perché produce l'imprinting fondamentale che gli permette di adattarsi all'ambiente in cui vive (una sorta di addomesticamento a cui il piccolo è portato). Se però questo modo di relazionarsi ai genitori non matura, questa sorta di genitori-ombrello possono diventare non solo l'oggetto su cui proiettare i miei bisogni di protezione, ma anche irraggiungibili ideali dell'io, metro di paragone per svalutare le persone che la vita mi fa incontrare ecc. […] 2. Il momento della considerazione adolescenziale dei genitori come l'opposto di ciò che io voglio diventare. Anche questo è un atteggiamento estremamente funzionale alla crescita dell'adolescente, soprattutto se la società vuol progredire e sottrarsi all'eterno ritorno, se vuol ospitare qualche sogno divergente. Se una tal sorta di reazione oppositiva si mantiene però ancora nell'adulto, produce atteggiamenti ai limiti dell'assurdo perché basati su di essa e non sulla realtà; ad esempio, questa persona potrebbe leggere sentimenti di oppressione di ribellione anche in persone impegnate in tutt' altro tipo di coinvolgimento. istruito dalle sue vicende familiari a misurare, a ri conoscere nelle cose ricevute un quantum di affetto, con dosi chenecessariamente devono essere tutte uguali. [...] * Una seconda premessa indiscussa è il mito della par conditio: come se fosse possibile una pari opportunità di partenza nelle relazioni umane. Ci risulta che il Pastore si prende cura della pecora debole e di quella forte, di quella grassa e di quella malata e non si carica al momento sulle spalle quella forte e quella grassa, per la smania democratica di comunicare loro che sono tutte uguali nel suo cuore di padre. Fino a che chiederemo alla relazione fraterna ciò che essa non ci può dare, e cioè sicurezza di essere amati e approvazione incondizionata, ci autocondanneremo sempre a con dune lotte per stabilire i posti. [...] Ci possono essere dei privilegi espressi, non usati per sé, ma per gli altri (ricordiamo Mosè che ha il privilegio di parlare con Dio, ma lo usa al fine di perorare la causa della sua gente). Chi usa in tal modo le proprie chance riconosce che siamo canali gli uni per gli altri, altrimenti l'acqua della vita trova ostruzioni o provoca inondazioni. «Se mi ami fai quello che desidero» Il secondo gioco nelle relazioni in comunità parte dalla considerazione: «Se mi ami fai quello che desidero» [...] Su questa strada i contorcimenti mentali possibilità sono infiniti.[...] Le situazioni di seduzione, cioè i tentativi di piacere all'autorità,sono all'ordine del giorno [...] o la preoccupazione che assolutamente l'altro pensi bene di me,Normalmente chi fa tali richieste si appella ad un bene superiore[...] Fatto è che molto spesso qualcuno si fa lo scherzo di identifica re ciò che è il bene con il proprio desiderio o il proprio bisogno: il che è una bella mossa per vincere. Ma, come dicevamo, è una mossa che fa perdere di vista il bene primario della relazione: prima o poi se ne esce invischiati, soffocati, braccati e perdenti. Anche quando si riesce a imporre il gioco 3. Il terzo e fondamentale elemento del passaggio alla maturità consiste nell'abbandonare le statue di sale dei genitori e nel ri-conoscere, nel senso di conoscer di nuovo e con occhio adulto, le proprie figure parentali (e la propria famiglia d'origine), come figure che vivono di vita propria e che non si identificano con quella loro parte che "io ho visto" nella fase infantile o nella fase adolescenziale come "il mio" papà o "la mia" mamma. In altri termini, per me adulto, i miei genitori saranno due persone dello stesso popolo di Dio a cui anch'io appartengo, e quindi miei fratelli, con una loro vita di «Ormai!». Un terzo gioco si identifica con una mossa che chiama in causal'irreversibilità del passato: è il gioca "dell'ormai".[...] la sostengolon coloche che definiamo quelli del partito della torta tagliata. Essi paiono persino appellarsi alla ragione, all'evidenza del fatto che, se la torta è tagliata, non è più intera.[...] «Ormai non si può più tornare indietro, tra noi non può più essere come prima». [...]È stupefacente come qui una ferita possa tramutarsi in credito sempre aperto e, per l'altro, in debito inassolvibile. Chi è all'interno di una simile relazione dice all'altro: ormai l'hai fatto, non avresti dovuto. Proprio tu. Non posso farci niente se non posso più essere verso di te come prima.[...] 170 175 subisco soltanto e poiché sono buono, per amor di pace sopporto. Anzi, lascio che l'altro si infanghi da solo. Che ci posso fare?... e sono così buono che lo sopporto anche».Ma questo è un modo quasi perfetto per vincere la competizione. Il santo martire è un raffinatissimo esperto in competizione: combatte così bene che spunta le armi dell'altro ad una ad una lasciandolo nella più completa esasperazione, opponendogli un muro di gomma, un ossequiente: parla pure che io non ti ascolto. E quando l'altro si sente costretto ad aumentare il tiro per arrivare fino a lui, quando l'altro si mette perfino ad urlare, dal suo piedistallo di purità rituale può perfino rispondere: «Ma perché ti scaldi tanto?»; e lascia che l'altro perda le staffe definitivamente, non facendo niente per proteggerlo. In fondo è un bel vincitore. [...] Chi nel duello interpreta il ruolo della vittima innocente avrà molti fans. Tutta una serie di persone pie saranno pronte a parteggiare per lui/lei dicendo che «la colpa dell'altro è evidente» e sostenendo che «la vittima si sta santificando».[...] Mostrarsi passivi, sottrarsi allo scontro aperto sono modi raffinatissimi per duellare, per vincere in qualità di "vittima". L'assensoè l'arte del braccio di ferro del sottomettersi e soccombere o dell'avere la meglio. provvisoriamente però. nessuno duella per perdere. Ciascuno in attesa della prossima volta.[...] Tutto è bianco o nero o sfruttati o sfruttatori o oppressi o oppressori o vincenti o perdenti. [...] Quando si è presa la via della competizione la stereotipia ha allargato dismisura il conflitto e ci impedisce di essere liberi.La competizione procede a tappe non vi è mai la definitività sino a piccole tregue che chiamiamo assenso per cui c'è un "ma va l'ha" legato all'attesa di un riconoscimento, di gratificazione. Chi accetta ritiene di avere dei crediti e chi è provvisoriamente vincitore, ben lungi dal riconoscerglieli si sente a sua volta creditore. L'assenso è solo tattico non pone nessun cambiamento. lascia i rapporti di fondo come stanno, nonostante le buone intenzioni. caso mai uno si aspetta che cambi l'altro. Stabilire i posti I controllanti stanno bene attenti che essi siano equamente distribuiti. Perché io di meno? È il sospetto che pervade il controllante che non può fare a meno di misurare. [...] In questa competizione due sono le premesse indiscusse. * La prima potrebbe esprimersi così: «Se ho di meno (meno possibilità di azione, meno privilegi, meno libertà ecc.), sono meno apprezzato,meno valutato, meno accettato; in ultima analisi, meno amato». E questo è terribile. Generalmente chi è ossessionato dall'avere dimeno, è uno che arriva già in comunità con un imprinting di vec chia data, è già 174 coppia che né io bambino né io adolescente ho conosciuto, anche se, in qualità di figlio, ero a volte convinto del contrario.”59 59 239. 171 GILLINI G. - ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp. 238- 13. Capacità relazionale: vita fraterna ed apostolica60 passo 13.1 Protagonismo nella relazione – primo 13.2 Gestione del conflitto61 Il conflitto è un ospite non invitato che si siede alla nostra mensa. Non dobbiamo stupircene. Esso è di casa e conosce bene la parte debole di ognuno: è di quella che si nutre, con accanimento o in modo soft a seconda dei casi. Fatto è che nessuno può eliminare i conflitti in un sistema: e cioè là dove non si è in un hotel con le sue camere numerate dentro le quali l'altro ignora fisicamente chi ci abita, là dove ci si riconosce almeno teoricamente un compito comune, là dove è non finisce di stupirci ciascuno riconosce nell'altro la chiamata, la vocazione, l'essere per, il conflitto non può non essere presente. Nessuno è autorizzato ad immaginare che «ci si capisce senza parlare, quando ci si vuol bene».[…] Nessuno è autorizzato ad aspettarsi magicamente che l'altro veda le stesse cose che vede lui e che, vedendole, ne tragga le stesse conseguenze e che, perciò, se si comporta diversamente da come dovrebbe, è solo per indifferenza, per malanimo, per noncuranza o cattivo carattere: queste attese non sono che formulazioni sempre cangianti del mito dell'amore ro-mantico che conduce spontaneamente all'intesa dei cuori. Il che non ha a che fare, ci sembra, con l'unanimità giovannea, che non s'instaura per consonanza emotiva o per simbiosi: chiunque sia arrivato vicino a simile unanimità, sa sulla propria pelle quanto pocospontanea essa sia, quanto poco immediata e naturale […] Nessuno è autorizzato a far sparire i conflitti, anzi. Il cardinal Martini con la lucidità anche psicologica con cui ha esplorato il cuore della comunità ecclesiale, affermava che proprio là dove è maggiormente vissuta la prossimità a Gesù, alle mete ultime, proprio là c'è un maggior bisogno di conciliazione. Definiamolo in modo approssimativo come voler due cose diverse o la stessa cosa, ma in modi diversi; come voler stabilire delle priorità non condivise; come un non co gliere e un non permettere che gli altri la pensino diversamente, come — vivaddio — esser diversi, 60 CENCINI A., “…come rugiada dell’Ermon…”. La vita fraterna comunione di santi e peccatori, Ed Paoline, Milano 1998. 61 GILLINI G. – ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp. 117147. 172 inevitabilmente diversi. In questa ottica, negare il conflitto è l'atteggiamento più deleterio […] Tenere in piedi rituali e costruzioni interrative che hanno perso il loro significato è un modo per negare i conflitti: come se tutto e sempre dovesse andar bene come "prima, come se certi segnali di accordo per la loro pura sopravvivenza formale, rassicurassero che non c'è niente che non va. Chi nega il conflitto — e normalmente lo fa in modi non del tutto consapevoli — lo fa per trattenere larve di potere, simulacri di non cambiamento, per tenere a bada le proprie paure espansive: se qualcosa non va, allora non va più bene niente. Il che cosa decide il significato del conflitto (il significato interattivo, e cioè se crisi salutare o blocco dei rapporti) è la modalità di gestirlo. La modalità competitiva Vi è una modalità che tutti giudichiamo spontanea, ovvia: quella competitiva. Già, sperimentiamo ancora una volta che ciò che ci viene spontaneo è "ciò che viene indotto dalla nostra cultura", dalla visione del mondo che tutti più o meno respiriamo, che abbiamo chiamato "psicologia fondata sui luoghi comuni". Siamo infatti fino al collo nello schema dell'aut aut, dell'alternativa che non ammette la terza via. Se appena appena ci affacciamo al vocabolario di un gruppo, ci troviamo inondati di verbi quali: esser preferiti/esser messi da parte, esser forti/esser deboli, aver la meglio/aver la peggio, star sopra/star sotto, vincere/perdere, ecc. I controllanti, quelli cioè che devono sempre controllare a che punto uno sta nella gerarchia, quelli che sanno sempre quale sarebbe il posto giusto, quelli che hanno una contabilità sofisticata che svela le mosse dell'altro [...] Il provocatore passivo Nessuna meraviglia, chi abita tra le mura di una comunità o tra le mura virtuali del presbiterio è figlio del suo tempo. Gli viene spontaneo correre, come insegnava tempo fa quel suggestivo, e così comprensibile, spot pubblicitario: «Quando ti svegli la mattina, non importa se sei leone o gazzella, coni» e cioè: la vita è una lotta continua. C'è chi vince e c'è chi perde. Chi è lodato e approvato e chi vien messo da parte. [...] Il provocatore passivo è colui che attende e dice fra sè «ride bene chi ride ultimo» rinforza la saggezza popolare. Basta aspettare. [...] «Vedete tutti come sono stato sfortunato a capitare in questa comunità con un superiore così o con dei confratelli così... Naturalmente, io 173