A cura del Centro di PG e consulta per la Formaziuone
ISPETTORIA LOMBARDO EMILIANA
344
2
Bozza realizzata in data 7 ottobre ’07
BMV del Rosario
“vestizione dei primi salesiani”
343
6.2.2 Il quotidiano........................................................... 299
6.2.3 L’educazione .......................................................... 299
6.2.4 I sacramenti............................................................ 300
6.2.5 I sacramenti............................................................ 301
6.2.6 Le missioni .............................................................304
6.2.7 Da mihi animas caetera tolle .................................305
6.3 LA CONGREGAZIONE SALESIANA OGGI ........................... 307
6.3.1 Figure significative della vocazione religiosa
salesiana ....................................................................................... 307
Strumenti ......................................................................... 307
Strumenti ......................................................................... 313
1. CARITAS CHRISTI URGET NOS: GIOVANI PER I
GIOVANI......................................................................... 314
1. CARITAS CHRISTI URGET NOS: GIOVANI PER I
GIOVANI......................................................................... 315
Strumenti ......................................................................... 316
3.0 Premessa ...................................................................317
3.1 Elementi caratteristici del Sistema preventivo .......... 318
3.2 Ragione, religione e amorevolezza ........................... 320
3.4 L’ «Amorevolezza» cuore del metodo educativo....... 328
Alcuni criteri per la compilazione...................................334
Alcuni criteri per la compilazione...................................335
342
3
Consentitemi, venerati Confratelli, di parlare anche della formazione nei
Seminari maggiori. Al riguardo, il Concilio Vaticano II, nel suo decreto
Optatam totius, ha stabilito norme importanti che, purtroppo, non sono
ancora state pienamente attuate. Ci vale in particolare per l’istituzione del
cosiddetto corso introduttivo prima dell’inizio degli studi veri e propri.
Questo non dovrebbe soltanto trasmettere una solida conoscenza delle
lingue classiche, che occorre espressamente esigere per lo studio della
filosofia e della teologia, ma anche la familiarità con il catechismo, con la
pratica religiosa, liturgica e sacramentale della Chiesa. Dinanzi al crescente
numero di persone interessate e di candidati che non provengono pi da una
formazione cattolica tradizionale, un tale anno introduttivo urgentemente
necessario. Inoltre, durante questo anno lo studente può raggiungere una
chiarezza maggiore sulla sua vocazione al sacerdozio. D’altro canto, le
persone responsabili della formazione sacerdotale hanno la possibilità di
farsi un’idea del candidato, della sua maturità umana e della sua vita di fede.
I cosiddetti giochi delle parti con una dinamica di gruppo, i gruppi di
autocoscienza ed altri esperimenti psicologici sono invece meno adatti allo
scopo e possono creare piuttosto confusione ed incertezza.
Benedetto XVI, ai Vescovi tedeschi in visita “ad limina”, 1.XII.06.
4
17.1 RETTITUDINE DI COSCIENZA E APERTURA ALLA REALTÀ
.......................................................................................................... 219
17.2 EDUCAZIONE ALLA CORRETTA INFORMAZIONE ........... 221
17.3 STRUMENTI O STRUMENTALIZZATI: INTERNET E
CELLULARE ........................................................................................ 221
13.3.1 Internet: i rischi della rete. .................................. 222
Una nuova forma di dipendenza ..................................... 222
17.4 LETTURA E CRITICA DELLA SITUAZIONE ODIERNA ........ 227
17.5 ATTENZIONE ALLE PROBLEMATICHE GIOVANILI .......... 227
Strumenti ......................................................................... 228
3. VITA DI PREGHIERA .................................................... 232
3.1 VITA NELLO SPIRITO: COS'È? .......................................... 232
3.2 G RADUALE ACQUISIZIONE DI UN TEMPO DI PREGHIERA
PERSONALE ........................................................................................ 233
3.2.1 Un poco di metodo ................................................. 233
3.2.2 Possibile struttura della preghiera settimanale ..... 234
3.2.3 L’adorazione: Lui è fedelmente qui ....................... 235
3.3 “IL TEMPO DELLA PAROLA” ........................................... 241
3.3.1 Introduzione ........................................................... 241
3.3.2 LA P AROLA.................................................................. 247
3.3.3 LE VIE… .................................................................... 249
3.3.4 LA DEFINIZIONE DI LECTIO DIVINA ............................. 252
3.3.5 LE TAPPE DELLA LECTIO DIVINA ................................. 253
4.1 INTRODUZIONE ALL’EUCARISTIA................................... 262
4.2.1 Liturgia della Parola ............................................. 263
4.2.2 Liturgia Eucaristica ............................................... 265
4.3 INTRODUZIONE ALLA RIC ONCILIAZIONE ....................... 269
4.3.1 Confessio Laudis: il grazie e la lode...................... 270
4.3.2 Confessio Vitae: l’accusa ...................................... 270
4.3.3 Confessio Fidei: dal credo all’impegno................. 272
5.1 Introduzione secondo le dimensioni umana, cristiana e
consacrata..................................................................................... 273
5.2. OBBEDIENZA ................................................................ 274
5.2.1 L’OBBEDIENZA SALESIANA .......................................... 274
5.3. P OVERTÀ ....................................................................... 279
5.3.1 La povertà salesiana ............................................. 279
5.4. CASTITÀ ........................................................................ 286
5.4.1 La castità salesiana ............................................... 286
6.1 D. B. – B IOGRAFIA E RITRATTO SPIRITUALE .................. 295
6.2. LA S PIRITUALITÀ G IOVANILE S ALESIANA .................... 295
6.2.1 Le origini ............................................................... 295
341
11. EMOZIONI E LORO LETTURA.................................149
Il Prenoviziato
12. VINCOLI E RICONOSCENZA NELLE RELAZIONI
FAMILIARI .................................................................... 152
12.1 SVINCOLO E ONNIPOTENZA ......................................... 155
12.2 D EL NON LASCIARE ANDARE ........................................ 162
12.3 IN SINTESI, DISTACCO E FAMIGLIA D’ORIGINE .............. 170
13. CAPACITÀ RELAZIONALE: VITA FRATERNA ED
APOSTOLICA ................................................................ 171
13. CAPACITÀ RELAZIONALE: VITA FRATERNA ED
APOSTOLICA ................................................................ 172
13.1 P ROTAGONISMO NELLA RELAZIONE – PRIMO PASSO .....172
13.2 G ESTIONE DEL CONFLITTO .......................................... 172
13.3 LEGAMI DI SIMPATIA (IN COMUNITÀ E COI RAGAZZI) .... 179
13.4 LAVORARE INSIEME ...................................................... 179
13.5. LE RELAZIONI CASO , INCONTRO E AFFETTO ................ 180
13.5.1 “Sistemi di congelamento” la “psicologia basata
sui luoghi comuni”........................................................................ 180
13.5.2 Dire grazie - Superare le stagnazioni relazionali 182
13.5.3 La comunità campo base – le figure in comunità.184
13.5.4 Il corpo del profeta - La comun icazione non
verbale .......................................................................................... 185
13.5.5 La fraternità......................................................... 187
14. SENSO DI RESPONSABILITÀ.................................... 189
14.1 D OVERE QUOTIDIANO.................................................. 189
14.1.1 Il lavoro................................................................ 189
14.2 F EDELTÀ E PROTAGONISMO NEGLI INCARICHI
COMUNITARI ...................................................................................... 192
14.2.1 La fedeltà .............................................................192
14.3 SENSO DEL CONCRETO , ................................................ 197
14.4 ORDINE ........................................................................ 197
P ER IL CAMMINO DI INTERIORIZZAZIONE ............................ 210
Compiti del PreN
1.Il PreN è un tempo per approfondire la già avvenuta opzione vocazionale
alla vita salesiana.
Ciò significa:
porsi in una dinamica di verità nel farsi conosce, nella
totalità di ciò che ho vissuto e ciò che vivo: come desideri,
atteggiamenti, scelte.
Introducendo e presentando la famiglia d’origine
Manifestando con sempre maggior chiarezza le
motivazioni e i sentimenti che spingono a scegliere la vita
salesiana
2. Il PreN è un tempo di formazione soprattutto umana, compito non facile
oggi, data la fragilità psicologica che investe l’intera società.
Ciò vuol dire:
conoscenza e gestione del proprio mondo interiore
formandosi ad una serena e matura affettività
attraverso un uso responsabile della libertà
con una crescente capacità di prendere decisioni
3. Il PreN è anche tempo di formazione cristiana, il che vuol dire:
un buon radicamento della fede
un’iniziazione alla preghiera,
alla liturgia,
alla devozione mariana…
Il PreN richiede...
-
16. FATICA, SACRIFICIO E ASCESI ..............................211
16.1 ASCESI ......................................................................... 211
Per il cammino di interiorizzazione ................................ 218
17. COMUN-I CARE: “MI INTERESSO”......................... 219
340
5
che coloro che iniziano questo cammino abbiano già fatto un
discernimento riguardo alla loro vocazione salesiana. un’esperienza
comunitaria
l’assunzione del percorso formativo e il tempo per eseguirlo
Linee per un cammino di formativo
6.2 MI HAI FATTO COME UN PRODIGIO SAL 139 (138)............. 85
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 94
APPENDICE: LA TRAPPOLA… ................................................ 95
7.1. STORIA, MEMORIA E RILETTURA: TRACCIA ....................... 99
7.2. L’AUTOBIOGRAFIA......................................................... 102
7.2.1 Conoscenza della persona ..................................... 102
7.2.2 Momento giusto per l’autobiografia ...................... 103
7.2.3 Istruzioni per l’autobiografia ................................ 103
7.2.4 Lettura dell’autobiografia ..................................... 103
7.2.5 Dialogo sull’autobiografia .................................... 103
RFS 331.
Il pre-noviziato viene impostato in modo tale che il candidato raggiunga i
seguenti obiettivi specifici:
– maturare come uomo e come cristiano;
– conoscere la propria vocazione e approfondire l’opzione vocazionale
mediante l’accompagnamento dei formatori;
– fare esperienza comunitaria e riflettere seriamente sulla vita salesiana;
– verificare l’idoneità necessaria ad iniziare il noviziato;
– decidere in modo cosciente e libero da pressioni esterne e interne;
– assumere un chiaro atteggiamento formativo.
8. L’IMMAGINE DI SÉ ....................................................... 105
8.1 LE IMMAGINI DI SÈ ......................................................... 105
8.1.1 Immagine sana e adeguata .................................... 105
8.1.2 Immagine negative ................................................. 106
8.1.3 Immagine montata ................................................. 107
8.1.4 Immagine ipervalorizzata ...................................... 107
Per il cammino di interiorizzazione ................................ 109
8.1.5 Alcune condizioni per un’immagine reale ............. 110
La Comunità proposta può divenire luogo per un ulteriore
passaggio vocazionale espresso nella tappa del PreN .
Fatto il discernimento basilare e ritrovati i requisiti fondamentali:
di un primato di Dio, espresso in un cammino di preghiera e di vita
sacramentale al di là degli istituzionali momenti comunitari
di una umiltà che si traduce in disponibilità costante
al servizio di coloro che hanno bisogno, soprattutto nei tempi
“liberi” dove più emerge l'esercizio maturo della libertà
L’animatore vocazionale, in accordo con i confratelli con cui ha più
confronto formativo, può proporre il passaggio al PreN, facendo emergere
dal giovane il desiderio di percorrere questa nuova tappa formativa che
inizia con una domanda formale da presentare all’Ispettore.
Questo tempo non ha espressioni diverse rispetto alla CP, se non
nella coscienza di vivere quanto chiesto nella logica di un confronto più
stretto con la vita salesiana, espresso nella specificazione dell’itinerario
formativo settimanale.
Al termine dell'anno scolastico intorno alla festa di Maria
Ausiliatrice normalmente viene formulata la domanda per l’ammissione al
noviziato.
 La metodologia formativa è incentrata sul "vieni e vedi" e quindi
dallo "stare con". Una dinamica di crescita non per itinerari teorici,
ma per convivenza, che ha nel formatore il punto di riferimento.
Esso è chiamato ad una attenzione a lungo raggio sulla crescita
umana, cristiana e di vita religiosa. Ogni intervento dovrebbe
toccare i tre ambiti che sono intrecciati e correlati in forma
strettissima. Alcune linee di lavoro insieme fanno emergere
difficoltà, indelicatezze, ombrosità che nel dialogo personale poi
dovrebbe essere chiarite. Il confronto e lo sguardo della comunità
6
9. L’ACCETTAZIONE DI SÉ............................................. 112
9.1 Accettazione.............................................................. 113
Per il cammino di interiorizzazione ................................ 120
APPENDICE - LA RICONOSCENZA......................................... 121
P ER IL CAMMINO DI INTERIORIZZAZIONE............................ 127
10.1 CORPOREITÀ E VOCAZIONE .......................................... 131
10.1.1 Il corpo................................................................. 131
10.1.2 La prospettiva biblica .......................................... 133
10.1.3 Il corpo nel cristianesimo .................................... 134
10.1.3 Il corpo in relazione............................................. 135
10.2 IDENTITÀ E DIFFERENZA SESSUALE .............................. 138
10.2.1 Il mistero della comunione inscritto nella
dimensione biologica della sessualità umana ............................... 138
10.2.2 Attrazione amicizia e amore: maturazione affettiva
ed impegno spirituale.................................................................... 139
10.2.3 Elementi di riflessione su alcune problematiche
connesse all'identità e al comportamento sessuale....................... 141
10.2.4 Sessualità e senso del peccato: la gioia di
riconoscersi bisognosi d'amore per amore alla verità.................. 145
10.2.5 La castità dono di Dio: valore pedagogico e
spirituale di sè............................................................................... 146
339
Indice

C OMPITI DEL PRE N ................................................................. 5
I L P REN RICHIEDE ... ............................................................... 5
0.1. CONCETTO DI FORMAZIONE.............................................. 8
Per il cammino di interiorizzazione .................................... 9
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 11
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 13
0.2. ACCOMPAGNAMENTO...................................................... 14
0.3. D ISCERNIMENTO .............................................................15

1. CONOSCERSI E FARSI CONOSCERE ......................... 18
1. CONOSCERSI E FARSI CONOSCERE ......................... 19
1.1. CONOSCERSI .................................................................... 19
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 25
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 26
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 28
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 42
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 44
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 45
2.2 IL SILENZIO ...................................................................... 47
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 53
3.1 LE MOTIVAZIONI ..............................................................54
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 60
3.2 I DESIDERI .......................................................................61
3.1.1 L’uomo e Dio desiderano ......................................... 61
3.1.2 Definizione di desiderio ........................................... 62
3.1.3 Oggi crisi di desiderio.............................................. 63
3.1.4 Educazione – formazione ai desideri ....................... 64
Per il cammino di interiorizzazione .................................. 67


4. MATURITÀ PSICOLOGICA E SANTITÀ CRISTIANA
.............................................................................................68
4.1. CRITERI DI MATURITÀ ...................................................... 68
4.2 AUTOCONTROLLO ............................................................ 69
4.3 AUTONOMIA .................................................................... 70
4.4 ALTRUISMO .....................................................................70
4.5 AUTENTICITÀ...................................................................70
4.5.1 Veradicità.................................................................71
6.1 LA PARABOLA DEI TALENTI: MATTEO 25,14-30................. 81
338
7
salesiana sono un grande contributo per la chiarificazione di dubbi
e incertezze del formatore.
É difficile
delineare
una metodologia
comune
di
accompagnamento visto che sempre di più emergono personalità
molto differenti. Ogni occasione può essere opportuna per dare
linee di percorso. Il vivere insieme permette di aiutare il giovane a
dare un giudizio sull'esperienza che sta vivendo, sulle sue modalità
di affrontarla, sulle reazione che emergono di fronte agli eventi
ecc…
La prima forma di accompagnamento è lo sguardo attento sulla
persona, unita alla metodologia della parolina all'orecchio, o meglio
alla parola breve ma sul quotidiano. C'è diffidenza nei confronti di
colloqui regolari e prolungati. Essi possono esserci nella misura in
cui emergono particolari difficoltà che devono essere chiarite.
Un'ulteriore opportunità è fornita dopo gli incontri mensili del
GRiGiò o dopo le serate formative in CP. Lì la risonanza fra
progetto carismatico e vita personale hanno un interessante
confronto, ma anche un luogo rischioso di verifica se non associate
ad una coerenza che si dimostra nel quotidiano in una disponibilità
costante, in una docilità concreta, in una crescente gioia che
coinvolga tutti gli ambiti.
I prenovizi partecipano per quanto è loro possibile alla vita della
comunità salesiana pur rispettando i tempi dei loro impegni di
studio o di lavoro.
Il contatto con le famiglie avviene a partire da quando un giovane
entra in comunità proposta e maggiormente s'intensifica con
l'inizio del PreN. Le relazioni sono di accoglienza in comunità e di
visita dell'incaricato della comunità dentro le famiglie. L'unico
incontro ufficiale avviene una volta all'anno nella festa delle
famiglie dei salesiani a cui si invitano pure le famiglie dei prenovizi
e dei giovani che risiedono in CP. Ma come si può ben intuire, se il
cammino formativo è personalizzato per ciascun giovane lo è
maggiormente per le loro famiglie.
0. Introduzione
0.1. Concetto di formazione
A. Cos’è la formazione?
Scuola - libri - letture – esami - ricerca…
= NFORMAZIONE
Quando si richiede un cambio nell’essere: “più attento agli altri, più
pronto a perdonare, più innamorato di Cristo, più disponibile alla
Chiesa…Più paziente. Più generoso…Più ..... Dentro” allora si parla
di
= TRASFORMAZIONE
B. Di che tipo di trasformazione si sta parlando?
Non semplicemente a livello esterno: comportamenti, costumi,
rapporti... Ma a livello profondo della persona: affetti, motivazioni,
convinzioni, timori, desideri...
L’Educazione non è questione di corazza.
“Educazione è cosa di cuore”
= parte da un cuore, da una profondità di vita
= per trasformare un altro cuore
«Le chiamate divine a vita più perfetta certamente sono grazie speciali e molto grandi, che
Dio non fa a tutti»
«Le vocazioni si conservano solo con la preghiera.
Chi lascia la preghiera, certamente lascerà la vocazione.
Ci vuole preghiera e molta preghiera»
«La base delle vocazioni è la frequenza ai Santi Sacramenti»
«Il più gran dono che Dio possa fare ad una famiglia,
è quello di una vocazione al sacerdozio.
Quando un figlio abbandona i genitori per obbedire alla vocazione,
Gesù Cristo prende il suo posto nella famiglia»
(D ON BOSCO )
2.
Presentazione
sintetica
del
noviziato e linee per la preparazione
immediata
Cfr FSDB 357-372
Inizio ufficiale dell’esperienza salesiana:
Scoprire la vocazione divina
Sperimentare concretamente uno stile di vita
Verificare la netta intenzione
Verificare l’idoneità
4 dimensioni del cammino
conoscenza e accettazione di se
crescente ottimismo e disponibilità
gestione del tempo
configurazione a Cristo
- l’educatore
- il ragazzo
Se è così - il principio fondamentale della formazione è:
solo la persona può formare se stessa!
La formazione è sempre disponibilità formativa.
La formazione “è sempre un’autoformazione”.
“Infatti nessuno può sostituire la persona nella sua libertà e responsabilità!”
(PDV 69).
È un passare dal rapporto docenti\discenti fondato sul dovete…
(assistere i ragazzi, essere fedeli alle pratiche di pietà,
preparare bene la scuola, essere puntuali...)
a quello formativo dove c’è un coinvolgimento del profondo che
tocca sentimenti, timore, progetti, traguardi, ecc… in una condivisione che è
passaggio “di vita”.
8
337
Per il cammino di interiorizzazione
1. Prototipo di domanda al noviziato
Parola di Dio scelta
città, 24 maggio anno
Solennità di Maria Ausiliatrice
Il nostro approccio alla formazione è quello di ricevere\ accumulare
istruzioni o è quello d’essere protagonisti della formazione, e cioè imparare
a determinare da sé i traguardi fissando tragitti e poi verificare i progressi?
A…………, direttore della Comunità Salesiana di ………….
Carissimo Signor Direttore,
dopo alcuni anni di accostamento al carisma salesiano
attraverso […. esperienze varie …]. Soprattutto in questo ultimo
periodo ho potuto ancora di più sperimentare lo stile salesiano
mediante [l’esperienza della vita comunitaria … condivisione del
lavoro apostolico … comunità proposta … gruppo ricerca …].
È importante qui porre gli elementi sopra indicati dal punto 2 al punto 6.
Per questo io, [nome e cognome], in piena libertà, dopo aver
avuto il parere positivo del mio confessore e della mia guida
spirituale, domando di poter iniziare il noviziato salesiano per
dedicare la mia vita a Dio e ai giovani attraverso la consacrazione
religiosa nella congregazione salesiana.
La motivazione fondamentale che mi spinge a tale
scelta è innanzitutto il Signore che mi chiama a donare la vita per il
Regno dei Cieli. L’ideale di essere «segno e portatore dell’amore di
Dio ai giovani», specialmente ai più poveri, ha trovato una lieta
accoglienza nel mio cuore. In questi anni di discernimento tale ideale
è potuto diventare realtà. Di questo ringrazio Dio, da cui mi sento
personalmente chiamato a seguirlo sempre più da vicino.
Non mancano certamente anche alcune difficoltà: […la mia
superbia personale che a volte mi porta ad essere autosufficiente, a non voler
dipendere da nessuno; il mio legame ancora troppo stretto con il “mondo” e le sue
finalità; la mia poca fiducia e speranza nella potenza di Dio e dei suoi mezzi che
non mi permette di abbandonarmi con serenità alla sua volontà...]
Il sentimento che però più prevale in me in questo
momento resta la fede in Dio, unico punto di riferimento sul quale,
ne sono certo, la casa della mia vita resta costruita sulla roccia.
Maria, Madre e Maestra della mia vocazione, e don
Bosco, padre, maestro e amico dei giovani mi guidino e mi
proteggano sempre.
Con stima e riconoscenza
(Firma)
336
9
Il lavoro nel profondo della persona avviene quando la persona:
- entra in se stessa
- e confronta i suoi sentimenti, le sue motivazioni con...
E’ il viaggio più difficile soprattutto in una cultura come quella
odierna che lo impedisce. Eppure la ricchezza della persona sta proprio a
questo livello
C. Come si fa questo lavoro nel profondo della persona?
Preghiera
Riflessione
Condivisione
Confessione
Direzione spirituale
Colloquio
Progetto personale
Diario...
Tutti questi mezzi portano la persona dentro di sé
D. Qual è il traguardo di tutto questo lavoro di
trasformazione?
Assomigliare sempre di più a Gesù Cristo,
profondamente uomo (massimamente maturo)
vero Dio!
(… molti educatori cristiani credono che assomigliare a Cristo sia
solo un atto religioso dimenticando che la conformazione a Lui è il
massimo dei cammini di umanizzazione)
Configurarsi sempre di più a Gesù Cristo!
Alcuni criteri per la compilazione
1.
2.
3.
Una Parola sintesi di una chiamata che prima di ogni cosa.
Una comunità. Va indirizzata al direttore della comunità
Una persona singolare. Nome e cognome del richiedente e
luogo/data di presentazione
4. Una storia in relazione. Breve cenno al cammino svolto (soprattutto gli
ultimi anni: scuola, oratorio, gruppo ricerca, esperienze di vita
salesiana…) e al discernimento operato
5. Una percezione fondata. È la motivazione fondamentale per chiedere di
entrare in Noviziato: «mi sembra di essere chiamato dal Signore alla
vita salesiana»
6. Un’intenzione precisa. L’oggetto della domanda deve essere espresso in
forma chiara: «chiedo di essere ammesso al noviziato salesiano»
7. La retta intenzione. La libertà nel porre quest’atto: negativamente,
l’assenza di costrizioni; positivamente: la disponibilità a mettere nelle
mani del Signore la propria esistenza per l’annuncio e la crescita del
Regno di Dio secondo lo stile di don Bosco
8. Un cammino condiviso. Cenno del parere positivo del proprio
confessore, del direttore spirituale e di coloro che mi hanno seguito nel
cammino
9. Una fiducia tenace. Affidamento al Signore, a don Bosco, a Maria
Ausiliatrice del proprio cammino futuro.
10. Un coinvolgimento personale e totalizzante nel segno della sua
scrittura a mano.
La nostra identità comprende 3 elementi, e ciascuno di loro porta a
Gesù Cristo:
 consacrato (= far propria la forma di vita
praticata da Gesù e proposta ai discepoli)
 presbitero/coadiutore (= essere segno di Cristo
pastore/figlio obbediente del Padre)
 salesiano (= imitare i tratti di Cristo a cui Don
Bosco era molto sensibile: Cost 11)
10
335
Verso il Noviziato
Per il cammino di interiorizzazione
334
Siamo vivamente consapevoli che il traguardo fondamentale della
formazione (= della vita) non è: “farsi salesiano”, né “diventare prete”… ma
il configurarsi sempre di più a Gesù Cristo?
11
E. Dove entra Dio in quest’opera di trasformazione?
Dio ha la chiave del cuore umano; dunque, solo Dio può toccare
l’uomo nel suo profondo. Dio è colui che forma
- invisibilmente, attraverso il suo Spirito che abita nei nostri cuori e
ci guida, ispira….
- visibilmente, attraverso le mediazioni umane (la Chiesa, la
Congregazione, la comunità e le persone significative che ci sono posto
accanto con responsabilità precise o per dono gratuito in questo cammino.
Per questo in quanto chiamato ad essere educatori è maggiormente
valido il principio che: “si dona solo ciò che si è formato nel proprio
cuore… ciò che si VIVE, non ciò che si è imparato…”
12
-
nel rispetto della sua autonomia
nella sua profondità di spirito
BOSCO G., Il Sistema preventivo ed altri scritti, Centro Salesiano S.
Domenico Savio Editore, Arese, 1999.
DELLA TORRE F., Lettera a Thomas Hall, Centro Salesiano S.
Domenico Savio Editore, Arese, 1999.
333
F. L’amorevolezza è affetto CASTO e PURO : spogliato di ogni forma
captativa, di attaccamento particolare, attaccamento morboso,
dipendente. Castità è essenzialmente lo sbilanciamento radicali
dell’IO su TU
“Chi si lascia rubare il cuore da una creatura e che per
far la corte a questa, trascuri tutti gli altri giovanetti”
G. Amorevolezza è affetto che si offre come modello di
comportamento. Il “modello” è essenzialmente una persona
vicina e amante. Questa identificazione risulta un processo in
diminuzione con il crescere dalla maturità sino ad un pacifico e
graduale distacco. 4 sono le fasi della crescita:
 la dipendenza assoluta: accettazione di lasciarsi guidare
assolutamente anche quando potrebbe già librarsi da
sé, o a causa dell’educatore che continua ad esercitare
il suo potere, o perché l’interessato non osa distaccarsi
per timore di far soffrire, o perché entrambi vivono
un rapporto di dipendenza.
 la dipendenza da apprendimento (nella linea del fare,
del sapere, del saper-essere): qui risulta ancora una
volta centrale il lavoro dell’educatore che deve via via
fornire non tanto il contenuto ma il metodo di lavoro
per potersi continuamente sviluppare da sé.
 la contrapposizione: è il momento in cui si deve
giungere allo spostamento del baricentro verso
l’interessato perché le scelte vengano da Lui e non da
latri. In qyuesta fase vi può essere: la presa di distanza
senza urti oppure con rotture più o meno evidenti
 l’autonomia: momento vertice di maturità nel quale il
giovane vive un rapporto equilibrato di vicinanza e
libertà, assumendo e valutando, ricevendo ma
scegliendo da sé,
Per il cammino di interiorizzazione
Essendo i primi responsabili della propria formazione:
Ci siamo messi all’ascolto dello Spirito? Quali sono i segni di
questa disponibilità?
Manteniamo un dialogo ed una interazione costante con le
mediazioni? Quali sentimenti, atteggiamenti, scelte ho messo in atto nei loro
confronti?
3.4.2 La maturità effettiva dell’educatore, condizione
essenziale per accompagnare.
La relazione educativo è un rapporto molto esplicito ma
altrettanto “subdolo”, giocato sul detto, sul fatto, ma anche sul non
detto e sul non fatto, sulle comunicazione esplicite ma pure su quelle
inconsce. Per questo è essenziale primariamente la MATURITÀ
DELL’EDUCATORE, espressa nella sua:
- capacità di donazione
- attenzione all’altro
- comunicazione profonda
332
13
0.2. Accompagnamento
L’obiettivo della personalizzazione è che la persona cresca e impari
a crescere nella propria identità personale fino a diventare una persona
matura in Gesù Cristo.
Il modo più efficace di effettuare questa personalizzazione è
l’ACCOMPAGNAMENTO perché introduce la persona alla conoscenza di
sé, alla percezione della realtà e dei valori per sé stessa, aiutandola ad
accettarsi e a possedersi, in un graduale distanziarsi da sé in ciò che la
allontana da Dio e dai valori vocazionali per un orientamento costante alla
volontà del Signore nelle circostanze concrete vedendo la vita in questa
prospettiva, organizzando progressivamente l’esistenza secondo il progetto
vocazionale.
L’accompagnamento è necessario, data la fragilità culturale odierna
per una mancata o carente formazione dell’identità personale
Abbiamo bisogno di essere educati a:
la conoscenza di sé
la gestione del proprio mondo interiore
la capacità di scegliere e fare decisioni
ad amore
la vita come dono e compito
la scoperta della propria vocazione
Le due forme dell’accompagnamento
Accompagnamento comunitario:
Tutto ciò che contribuisce alla crescita dei singoli membri
e di tutta la comunità: l’ambiente, il clima, i rapporti interpersonali,
l’orientamento da parte dei responsabili….
Accompagnamento personale:
Tutto ciò che aiuta ognuno ad assumere e interiorizzare la
sua identità vocazionale: il colloquio, la direzione spirituale, la confessione,
gli “scrutini”….
L’ACCOMPAGNAMENTO mira ad aiutare il candidato a
crescere nella statura di Gesù Cristo.
In questo cammino, egli ha bisogno di scoprire la propria
vocazione, mediante una più chiara comprensione di se stesso e del disegno
di Dio.
Questo compito si chiama DISCERNIMENTO.
14
mortificazione…”
D. L’amorevolezza è affetto CONCRETO e SOVRANNATURALE:
amore che non si ferma di fronte a nulla, non si accontenta di
parole ma si compromette, passa ai fatti…cercando la loro
“salvezza” che è felicità totale e totalizzante.
“… La mia affezione è fondata sul desiderio che ho di
salvare le vostre anime, che furono tutte redente dal
sangue prezioso di Gesù Cristo, e voi mi amate perché
cerco di condurvi per la strada della salvezza eterna”
E. L’amorevolezza è affetto INCONDIZIONATO: nonostante le
mancanze che può aver compiuto o compiere. Questo crea la
persona perché aumenta il sentimento d’essere degno d’essere
amato e rispettato come realtà unica e irripetibile con un valore
insuperabile.
- Se la persona ha un’immagine negativa di sé risulta
incerto, indeciso, lacunoso e carente. Se ha
un’immagine “aeureolata” fondata sull’ambizione e
sulla negazione dell’errore e delle proprie povertà
risulterà in cammino verso l’isolamento. Mentre il
cammino del realismo nasce da un contesto di fiducia,
riconoscente della propria dignità e del proprio limite
che non riduce il suo sentirsi capace, importante, caro
pur in crescita. Tale immagine è frutto di autodelimitazione o di una “valutazione” esterna. Per
questo si comprende il valore dell’incondizionato
amore.
- tale amore senza condizioni crea persone felici, mentre
le condizioni (norme soffocanti) creano
sin dai
primordi persone interiormente bloccate. Questo non
significa l’assenza di normatività e di tracciati di
percorso ben definiti, tutt’altro. Questo implica invece
che l’educatore faccia operazioni di “ MAIEUTICA” e
non di “investitura”. Operazione che richiede una
grande libertà , capace di far sprigionare dall’interno, le
energie di vita.
- Anche l’intervento duro e perentorio è necessario ma
non deve mai bruciare il rispetto della persona, deve
tener conto della visione e della capacità di valutazione
della situazione da parte dell’educando, deve saper
tener aperta la porta del dialogo
“ Regolatevi in modo da lasciar la speranza al
colpevole che possa essere perdonato”
331
-
lasciando sempre la speranza di perdono
e togliendo ogni possibile idea di “vendetta” di
“passione”
3.4.1 Caratteri dell’amorevolezza salesiana
A. L’amorevolezza è FAMIGLIARE: significa “stare con”, porsi al
loro livello, partire dalle cose che piacciono a loro, dar loro
confidenza.
“Io vedevo parecchi buoni preti, che lavoravano nel
sacro ministero, ma non poteva con loro contrarre
alcuna familiarità… Più volte piangendo diceva tra me
e anche con altri: - Se io fossi prete, vorrei fare
diversamente; vorrei avvicinarmi ai fanciulli, vorrei dir
loro buone parole…”
“ Vidi che ben pochi preti e chierici si mescolavano tra
i giovani e ancor più pochi prendevano parte ai loro
divertimenti… Negli antichi tempi dell’oratorio lei
non stava sempre in mezzo ai giovani e specialmente
in tempo di ricreazione?… Ora i superiori sono
considerati come superiori e non più come padri,
fratelli e amici; quindi sono temuti e poco amati.”
B. L’amorevolezza è CORDIALITÀ o PROFONDITÀ D’ AFFETTO
“Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate
giovani perché io vi ami assai; vi posso accertare che
troverete libri propostivi da persone di gran lunga più
virtuose e più dotte di me, ma difficilmente potrete
trovare chi più di me vi ami in Gesù Cristo e che più
desideri la vostra felicità”
“Sono pochi giorni che vivo separato da voi, o figlioli,
e mi sembra siano già trascorsi più mesi. Voi siete
veramente la mia delizia e la mia consolazione, e mi
mancano l’una e l’altra di queste due cose quando
sono da voi lontano”
C. L’amorevolezza è affetto DIMOSTRATO ed ESPRESSO: “parlare
con il loro linguaggio, con termini a loro chiari”
“… Ci manca il meglio… che i giovani non solo siano
amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati…
Che essendo amati in quelle cose che loro piacciono,
col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino
a vedere l’amore in quelle cose che naturalmente loro
piacciono poco; quali sono la disciplina, lo studio, la
330
0.3. Discernimento1
Chi fa il discernimento?
Ciascuno è il primo protagonista. Si lascia guidare, si mette in
discussione e in atteggiamento di apertura allo Spirito e alle diverse
mediazioni formative.
La Congregazione da parte sua cerca di conoscere e di vagliare
l’autenticità della chiamata di chi chiede un’appartenenza profonda ad esso.
-
Dio
Salvezza.
Alcuni elementi di sintesi
Travaglio giovane:
insieme di energie interiori
numerosi e svariati messaggi\ proposte contestuali
orizzonti attuali
fede in Cristo:
sorgente di senso,
speranza sul futuro,
dono divino
dinamica trasformatrice del quotidiano

forza della libertà individuale (norma non interiorizzata,
ignorata o relativizzata)

coscienza orientamento oggi debole

conseguenti atteggiamenti ambigui "di moda"

rischio di sovrapposizione di criteri e riferimenti

piuttosto che elaborazione di un codice unitario di vita
Coscienza: luogo dell'incontro personale\profondo fra uomo e
Coscienza +\- distorta  visione di Dio, Parola,
Mentalità di fede: orientamento nel quotidiano al Vangelo
Passi da compiere: discernimento: riconoscere Dio ed il suo agire,
il bene dal male, il peccato e le sue strutture. Per giungere ad esercitare
autonomia e responsabilità.
Cfr il percorso del GriGio, I livello: “Il discernimento”, pp. 48-61.
CG XXIII, nn. 181- 191.
CENCINI A., I sentimenti del Figlio. Il cammino formativo nella vita consacrata =
Psicologia e formazione 19, EDB, Bologna 1998, pp. 169-177.
ARLEDLER G., Il discernimento spirituale. Teoria e orientamenti = Animatori di
pastorale giovanile e vocazionale 16, EP, Milano, pp. 10-31.
RUPNIK M. Il discernimento. Prima parte: verso il gusto di Dio = Betel 11, Lipa,
Roma 2001, pp. 25-34.
15
1
Il confronto con il vangelo.
 Formazione critica nei cfr dei modelli culturali sino a piccoli gesti
di obbiezione sulla base dell’unica Parola
 Educarsi al senso del mistero luogo dove Dio opera ma pure dove
l’iniquità trova dimora. Debolezza intrinseca e progressivamente
radicata chiede d’essere illuminata e sorretta costantemente dalla
grazia.
 La norma allora apre a questo confronto illuminante e sorreggente,
questo cammino non facile.
Il discernimento. Il profondo non è immediato.
Attenzione costante a Dio, certezza esperienziale che Dio parla, si comunica, e
che la mia attenzione a Lui è la conversione radicale. È vivere una relazione aperta,
coscienti che ciò che conta è fissare lo sguardo su Lui e che non posso chiudere il percorso
senza la certezza che lui si esprima mi cambi. Preghiera e ascesi costante, rinunciando al
proprio volere. Pensiero, azione come se non dipendesse totalmente da me. È necessaria
una radicale umiltà.
- Dio parla attraverso i sentimenti ed i pensieri dell’uomo stesso.
- Ma vi sono alcuni pensieri attraverso i quali Dio non
parla\deviano\illudere\confonderci, provenienti da noi, dal mondo dal
diavolo.
- Non basta verificare che questi siano buoni, ma che siano per me
buoni, per la mia vita. Perché lo spirito è personalizzatore della salvezza.
I sentimenti differentemente dai pensieri rivelano più facilmente la
concretezza della persona, la sua memoria.
Lo Spirito Santo ha la sua voce più eloquente nell’amore, luogo
della verità dell’uomo stesso. Ciò che è mosso dallo spirito allora porta a
pienezza.
 Mt 15,19
 Mc, 13,33
 Discernimento a 4 livelli:
o distinguere dentro di me
o il distinguere della Parola
o il distinguere delle motivazioni
 La coscienza socializzata = fare le cose per il
giudizio degli altri
 il razionalismo = il dovere per il dovere o il
perfezionismo
 l'esigenza del cuore = coscienza profonda
o Il distinguere in relazione: la direzione spirituale
 Gv 8,32 ss
16
L’educatore è un individuo consacrato al bene dei
suoi allievi, perciò deve essere pronto ad offrontare
ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine,
che è civile, morale, scientifica educazione dei suoi
allievi (dal Sistema Preventivo)
Lasciare ai giovani ampia libertà di parlare di cose che loro maggiormente
aggradano. Il punto sta di scoprire in essi i germi delle loro buone disposizioni e procurare
di svilupparli. E poiché ognuno fa con piacere soltanto quello che sa di poter fare, io mi
regolo con questo principio ed i miei allievi lavorano tutti non solo con attività, ma con
amore.112
4 La carità è paziente,
è benigna la carità;
non è invidiosa la carità,
non si vanta,
non si gonfia,
5 non manca di rispetto,
non cerca il suo interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
6non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della
verità.
7 Tutto copre,
tutto crede, ù
tutto spera,
tutto sopporta.
13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la
speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!
(1Cor 13)
 L’amorevolezza suscita allora: grande DISPONIBILITÀ nel dono
affettuoso e gratuito di sé ai giovani, un amore sacrificato e
manifesto
 Che crea FAMIGLIARITÀ (opposta a formalismo, collegialismo,
ufficialità, burocrazia e diplomazia e cosmesi nella relazione:
“chissà cosa dirà la gente”)
 in un grande clima di RISPETTO (coscienti della loro creaturalità,
personalità ed unicità) e questo anche quando si deve intervenire
con i castighi quali:
- ultima risorsa
- che debbono essere fatti nel momento opportuno
112 MB
329
17,85-86
Avete ragione! Avete ragione! O religione o bastone; voglio raccontarlo a
Londra 111
3.4 L’ «Amorevolezza» cuore del metodo educativo
L’educazione è cosa di cuore (MB 16,439-447)
Asse centrale perché tocca l’elemento più profondo della
personalità dell’uomo: quello affettivo e luogo della maturazione
armonica.
Tenerezza, dolcezza, amabilità luoghi ed espressioni
dell’equilibrio di una persona espressi nel rapporto interpersonale in
sintonia con le esigenze del proprio essere profondo e del
contemporaneo rispetto dell’altro.
La maturità affettiva si realizza solo:
- a partire dalla coscienza della propria ricchezza
interiore autoscoperta o rivelata da altri,
- e dalla vittoria delle forze di tenerezza – amore su
quelle dell’istintività e del possesso
- attraverso la via del sentirsi amati
- al momento opportuno (per non protrarre relazioni di
dipendenza o di elemosina d’affetto)
Questa maturità si realizza attraverso
 un’evoluzione che non ha conosciuto esperienze gravi di
sbarramento (non amore; traumi, abbandoni, divisioni…)
 o un cammino di guarigione sviluppantesi attraverso
l’eliminazione delle tossine negative attrverso un’AMICIZIA
autenticamente profonda, liberante le energie d’amore. Questo
cammino racchiude in se una dose di pericolosità che richiede
una maturità culturale, affettivo e spirituale dell’educatore non
indifferente. Amicizia che non si deve mai chiudere ma resta
disponibili ad ogni persona da amare
Gesù si rivolge a coloro che hanno creduto e che vogliono
rimanere fedeli alla sua parola.
Mai sentirsi a posto, bisogna sempre ricercare la Verità, la
conoscenza della Verità, per essere poi liberi
L’unica schiavitù della libertà cristiana è il dono, il rapporto di
coppia non basato sul possesso, ma sul dono
Meno ho, più mi sento libero.
4 tipi di libertà:
- libertà dalle cose
- libertà dal tempo
- libertà dalle idee
- libertà degli affetti
Più sei vero, più sei libero, più doni
L’educazione è il risvegliare nelle coscienze la verità che è dentro le coscienze, in
modo che esse diventino capaci di ragionare da sé, di giudicare da sé, di farsi libere in un
mondo in cui la libertà è un rischio, una conquista e mai un dato di fatto o un dono
radicale.2
- Nessuna ingenuità sul fatto che se non si scopre la verità di sé
non si sarà mai liberi
- dobbiamo accettare di non sapere e di non conoscerci a fondo
- dobbiamo fare la fatica ed entrare nella scoperta del nostro io
attuale
- identificando ciò che è nostro malgrado ci impedisce di fare una
offerta libera
- per evitare che il cammino sia inconsistente
- il cammino formativo = sapere dove lavorarsi
Ho bisogno che ci mettiamo d’accordo – dice don
Bosco ai suoi ragazzi in una buona notte – fra me e
voi devono regnare vera amicizia e confidenza (MB
7,504)
Dove l’amore è FIDUCIA: ottimismo verso l’altro che è
riconosciuto portatore di Dio soprattutto di Dio
Dove l’amore è FRANCHEZZA: ricerca della verità che può a
volte anche ferire ma per irrobustire. Severità, decisione e franchezza
nella carità sono vie non escluse dall’amorevolezza.
111 (MB
328
7,557)
2
17
BALDUCCI E., L’insegnamento di don Milani, Roma 1995, p. 100.
per la santità loro.
Lui instancabile strumento di salvezza perché Lui per primo
si sentiva un salvato.
La santità proposta come ideale educativo, affascinante e realizzabile
Meta accessibile a tutti
Nella vita ordinaria di ogni giorno
Allegria, studio, purezza, obbedienza, amore di Dio e
del prossimo (Cfr … con Domenico Savio)
Attraverso l’esercizio delle virtù: della fede amorosa e della
carità operosa, senza comprimere l’umano ma innalzandolo nella
professionalità del proprio stato, in un clima di sobrietà religiosa.
- Incoraggiare,
- porgere comodità di frequenza ,
- rilevando la bellezza, la grandezza, la santità del
cammino religioso,
- senza mai obbligare
- ma agendo in modo che i giovani sia spontaneamente
invogliati ai sacramenti
- accostandosi con piacere, volentieri e con frutto
Cammino di fede che tocca e coinvolge tutta la vita perché
don Bosco stesso ne era completamente coinvolto. Per questo solo
un educatore cristiano può con efficacia riprodurre il sistema
educativo
Due signori inglesi, uno dei quali era ministro della regina Vittoria,
…vennero condotti da don Bosco nella sala dove facevano studio circa cinquecento
giovanetti. Si meravigliarono non poco vedendo tanta moltitudine di fanciulli in perfetto
silenzio, con un solo assistente soèpra la cattedra … Come mai possibile, domandò il
Ministro, di ottenre tanto silenzio e tanta disciplina? Ditemelo; e voi, e aggiunse al suo
compagno che era il suo segretario, scrivete quanto dità questo sacerdote. «Signori , rispose
don Bosco, il mezzo che si usa tra noi non si può usare fra voi»
Perché
Perché sono arcani solamente svelati ai cattolici
Quali?
La frequente confessione e comunione e la messa quotidiana ben ascoltata
Avete proprio ragione. Noi manchiamo di questi potenti mezzi di educazione,
non supplire con altri mezzi?
Se non si usano di questi elementi di religione, bisogna ricorrere alle minacce ed
al bastone
18
327
Egli comunicò ciò che egli stesso era: con la sua tensione
costante, unificatrice, infaticabile, entusiasta e quasi ossessiva: la
salvezza dei giovani:
“desiderio di vedervi felici nel tempo e nell’eternità”
G,. Lombardo, laicista, nel 1920 nella rivista “La Rinascenza
Scolastica” affermava:
Don Bosco: era un grande, che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della
Chiesa … seppe creare un imponente movimento di educazione ridandole il contatto con le
masse…Per noi, che siamo fuori dalla Chiesa e di ogni Chiesa, egli è pure un eroe …D.
Bosco? Il segreto è lì: un’idea! La nostra scuola: molte idee. Molte idee può averle anche
un’imbecille, prete o non prete, maestro o non maestro. Un’idea è difficile. Un’idea vuol
dire un’anima…
3.3.1 Da mihi animas coetera tolle
Non angelismo, né sovrannaturalismo, egli era un uomo
del suo tempo ma sapeva armonizzare bene
Pane, lavoro, Paradiso
Sanità, Scienza, Santità
Dove l’idea generatrice implica l’esclusione del resto ,
meglio la gerarchizzazione, la strumentalizzazione del resto in favore
della salvezza che si opera nella Chiesa, nella famiglia, nella
comunione dei credenti, attorno ad un Padre, il papa.
Di fronte a masse scristianizzate imponente e preoccupante
perché accompagnata da disumanizzazione don Bosco reagì
mostrando come la proposta di “un Valore assoluto” proposto dalla
religione divenisse il fatto essenziale del suo cammino d’elevazione
dell’umano non solo verso mete, ma verso la somma meta.
Contro la superficialità dilagante che chiama o meglio
identifica in Dio mille surrogati il cammino di don Bosco è un
cammino che fa tornare costantemente alla vera profondità
dell’Essere, chiedendo le motivazioni di una ricerca.
Ecco l’inserimento della pedagogia
 dei sacramenti, (Sicuro che solo Dio ha in mano le chiavi del
cuore) soprattutto Eucaristia e Riconciliazione, luoghi della
trasformazione interiore e d’aiuto profondo
 della preghiera (luogo dell’incontro profondo, il più profondo
quello con la Verità, Dio)
 dell’osservanza religiosa (dell’impegno radicale dove tutto
l’uomo è coinvolto)
 della catechesi (ambito della conoscenza delle proprie domande
profondi e delle risposte di Dio)
 mariana (mostrando la tenerezza, la forza e la sicurezza che solo
una madre può dare)
326
1. Conoscersi e farsi conoscere3
Gnosce te ipsum: conosci te stesso. È questo uno dei precetti
morali universalmente noti scolpiti nel tempio di Apollo presso Delfi, città
situata sulla parte inferiore delle pendici meridionali del Parnaso, a circa 600
metri di altezza sul golfo di Corinto.
Sin dall’inizio è determinate partire con il piede giusto e focalizzare
il fatto che il segreto di questo cammino consiste nel mai separare le due
domande fondamentali: “chi sono io? Chi sei Tu?”. La società odierna
insegna che una persona vive nella misura in cui una persona ha una idea di
sé. Se però questa idea viene distrutta, nascono le frustrazioni. Ecco perché
le due domande sono inscindibili.
1.1. Conoscersi4
Gn ót hi se au tó n, "conosci te stesso". Secondo gli studiosi della storia della
filosofia, questa antica iscrizione di un tempio greco non intendeva suggerire a chi la
leggeva la necessità della conoscenza psicologica del "sé", del profondo. Indicava piuttosto
l'importanza per la persona di riconoscersi come uomo, nella propria pochezza creaturale,
non come un dio.
In seguito, con il passare del tempo, l'espressione è venuta a indicare un ideale di
conoscenza per- sonale, e ci fa comprendere che il conoscersi è un impegno lungo e difficile.
Alla luce dell'esperienza, che ho accumulato in tanti anni, della conoscenza che
altri hanno avuto o hanno di sé, vorrei proporre, a modo di spunti per la vostra riflessione,
sette brevi tesi, al fine di aiutarvi a focalizzare meglio questo ideale che è certamente parte
del momento particolare che state vivendo.
1. La conoscenza di sé è imperfetta e parziale
Pr im a te si : la conoscenza di sé è sempre imperfetta e parziale. Ne ho avuto
ulteriore conferma leggendo qualche tempo fa un quotidiano che si pubblica nella Svizzera
italiana. Due pagine del giornale erano dedicate a un'intervista da me rilasciata sulla
Lettera pastorale Il lembo de l ma ntello, del 1991. Scriveva l'articolista, a modo di
3 Cfr. GOLEMAN D., Intelligenza emotiva. Che cos’è. Perché può renderci felici,
BUR Saggi, Milano 200210 .
MARTINI C.M., Tu mi scruti e mi conosci, Ed. Ancora, Milano 19907.
MARTINI C.M., Conoscersi, decidersi, giocarsi. Gli incontri dell’ora undicesima,
Ed. CVX, Roma 1993.
AAVV, Conoscersi in Dio. La fede orizzonte della conoscenza di sé, Glossa, Milano
2007.
4 MARTINI C.M., Conoscersi… oc, pp. 17-24.
19
commento: «Forse è stata una sorpresa anche per lui l'evoluzione avvenuta in padre Carlo
Maria Martini, una volta diventato Arcivescovo di Milano e Cardinale della Chiesa.
L'esperienza pastorale di una città come Milano e di una Diocesi come quella ambrosiana, ha profondamente segnato quest'uomo schivo, timido, dall'imponenza un po'
aristocratica, immerso fino allora nei suoi studi di critica testuale. Il servizio alle Chiese
sorelle d'Europa e del mondo gli ha poi dato un'esperienza universale dei grandi problemi
del nostro tempo e l'ha trasformato profondamente nell'animo. Lo studio-so rigoroso e
riservato ha sentito diventare sempre più impellente il bisogno di parlare».
Queste parole mi hanno spinto a chiedermi: mi conoscevo secondo tale
descrizione? Probabilmente, anche in età avanzata ci si può accorgere di essere valutati
diversamente da come ci si pensava.
La conoscenza di sé è dunque parziale, tende a crescere, non è mai finita. Il
quadrato dell'auto-coscienza distingue gli aspetti che io conosco di me e quelli che altri
conoscono di me; e ancora, distingue ciò che io non conosco di me e ciò che gli altri non
conoscono di me. Ci sono colorazioni e sfumature diverse, perché io posso conoscere dei lati
della mia personalità che chi mi vive accanto non conosce affatto. Oltre ad essere parziale,
la conoscenza di sé è in divenire; se è vero che l'uomo raggiunge l'integrazione tra i valori
religiosi e i valori umani tra i trenta-quarant'anni, allora è difficile raggiungere una piena
conoscenza di sé prima di quella età; le mie carte non sono scoperte del tutto, c'è ancora
qualcosa che deve emergere. E tuttavia è estremamente importante lo sforzo di
autoconoscenza quando ci attendono delle decisioni gravi, definitive.
2. Conoscersi richiede la collaborazione di altri
Seconda tesi: per conoscermi ho bisogno della collaborazione di chi conosce
alcuni aspetti di me che io non conosco. Devo quindi evitare che altri, per svariati motivi,
abbiano paura di rivelarmi quello che di me vedono e comprendono. Questa collaborazione
richiede fiducia, rapporto di trasparenza, soprattutto se la conoscenza di me è finalizzata
a una mèta esterna, non a un'analisi caratteriale.
3. La conoscenza di sé passa attraverso qualche sorpresa
Terza tesi: nel cammino verso l'autoconoscenza si incontrano delle sorprese,
talora amare, che possono portarci a concludere, per esempio: non credevo di essere così
debole, così sensibile, così suscettibile, così incapace di trattenere l'ira. Ricordo una persona
che pensava di essere attratta dal servizio ai poveri e che l'aveva svolto per tanto tempo;
una volta mi confidò: "Non avrei mai immaginato che si potessero detestare tanto i poveri,
non immaginavo di giungere a vivere momenti di profondo rifiuto!". Spesso la sorpresa è
costituita dal nostro comportamento durante una prova fisica, una malattia per esempio:
eravamo convinti di saper vivere la sofferenza e invece scopriamo che non riusciamo ad
accettarla.
Anche nel campo degli affetti possiamo sorprenderci: teoricamente conoscevamo
il rischio di una certa dipendenza affettiva, ma non pensavamo proprio che un giorno ci
saremmo trovati dentro.
20
– la solidità d’essere , che è caratterizzata da:
presa di coscienza del proprio essere profondo, del positivo, del
meglio si sé, delle ricchezze e qualità, di cui ciascuno è dotato
- dalla fiducia data a questa profondità
- dall’adesione stabile a questo che diviene libertà creativa
- dalla serenità sostanziale anche nei momenti duri
Questa prima solidità non è completa se non è
accompagnata dalla solidità affettiva e solidità spirituale.
- La solidità affettiva si esprime nella:
- attenzione sempre più accogliente degli altri
- della capacità di comunicare con gli altri in modo profondo
- rispettando l’autonomia
- esprimendo l’affetto adeguandosi all’ambiente ed alle persone.
- la solidità spirituale è proporzionata alla
coscientizzazione del bisogno di Dio il che
implica:
- un primordiale riconoscimento della sete d’Assoluto qualsiasi
nome gli si voglia dare
- percependo gradualmente questi come un “al di là” che si
supera inglobandoci
- divenendo docili a tale presenza che fa compiere un cammino di
crescita verso un orizzonte che si allarga mentre si procede
-
Il sistema preventivo si inserisce in questo cammino di
maturazione a servizio di tutte e tre le aree tratteggiate, servizio totale
e creativo, sintetizzato nel motto “onesti cittadini e buoni cristiani”
dove si educa evangelizzando e si evangelizza educando.
3.3 La «Religione» nella prassi di don Bosco
Don bosco nella sua unità interiore di uomo pienamente
della terra è stato ugualmente uomo di Dio: “profondamente uomo e
profondamente santo”. Vivendo in un momento storico
oggettivamente difficili non si è fermato alla lagnanza sul suo tempo
ma si è lanciato nell’opera di “elevazione” senza sosta.
Don bosco ha maturato atteggiamenti di ricerca, d’incontro
e di dialogo, capace di comprensione profonda dei giovani
Tanto da cogliere SEMPRE il bene esistente in ciascuno di
loro al di la della scorza rigida e increspata
È in questa profondità che egli si è inserito, rispondendo al
loro anelito profondo d’Assoluto con una franca proposta cristiana
integrale, proporzionata alla loro età.
325
–
–
–
–
Maturi culturalmente in modo dinamico e critico,
in fedeltà ai valori della tradizione e dell’apertura alle
esigenze della storia;
Cresca in libertà e senso di responsabilità
specialmente nel momento delle decisioni che
richiedono rettitudine e coerenza;
Sia in grado di rapportarsi creativamente nei
confronti di progetti vocazionali che possono
richiedergli un’utilizzazione del suo potenziale umano,
affettivo, spirituale, culturale a favore di giovani più
poveri e abbandonati;
Maturi un progetto di vita che unifichi il suo
bisogno di agire, d’amare, di relazionarsi attorno ad
alcuni valori prioritari assunti responsabilmente nel
contesto sociale, affettivo e religioso in cui vive.
3.2.2 « Rendere ragionevoli anche i castighi »
Ne1 sistema preventivo egli riconosce possibile il castigo
alle seguenti condizioni:
– Non punite mai se non dopo aver esauriti tutti gli altri
mezzi;
– Procurate di scegliere nelle correzioni il momento
favorevole;
– Togliete ogni idea che possa far credere che si operi
per passione;
– Regolatevi in modo da lasciar la speranza a1 colpevole
che possa essere perdonato.
La pedagogia moderna si allinea con queste posizioni
insistendo che quanto più c’è stima e amore, tanto più la semplice
disapprovazione, la diminuzione di fiducia, di familiarità e d’amicizia
e un castigo temuto e perciò efficace. E molto importante che il
castigo sia compreso e accettato dal ragazzo; ciò e possibile quando
1’educatore fa capire che castigando, soffre e gli dispiace. Questo
modo di fare non umilia e non deprime. Il castigo e utile mezzo
educativo, a certe condizioni, per aiutare una persona a correggersi.
Occorre che sia ritardato il più possibile, che sia ragionevole e che si
parli al cuore della persona senza collera, senza freddezza e durezza.
Soprattutto occorre che l'interessato stesso ne ometta la
ragionevolezza.
Ragione è maturare personalità libere, responsabili nelle
scelte…disponibili al dono di sé, orientate a vivere dentro un
progetto di vita nel quale impegnare le proprie doti.
Questo porta come conseguenza
324
4. Ci si conosce più per riflesso che per autocontemplazione
Quart a tesi: come conosco meglio il mio corpo, in tutte le sue parti, guardandomi
in uno specchio che mi riflette, così mi conosco spiritualmente meglio agendo e poi riflettendo
su quanto ho fatto, piuttosto che contemplandomi e soppesandomi a fondo. La conoscenza
di sé è successiva alla presa di coscienza della tensione conoscitiva, operativa, affettiva,
volitiva, decisionale. È il giocarmi, decidendomi e agendo, che mi permette di riflettere poi
su di me.
5. Conoscenza e feed-back
Quinta tesi: il feed-back, la risonanza che ricevo da altri (può benissimo essere
una critica) su ciò che ho detto o su ciò che ho fatto, è uno strumento molto utile per
conoscermi. Dobbiamo dunque valorizzare come feed-back anche le critiche, senza
accanirci e rifiutarle, anche se sono ingiuste. Il valorizzarle ci aiuta, tra l'altro, a smontare
l'irritazione provocata dai giudizi su di noi, che riteniamo sbagliati. L'autoconoscenza
infatti ha bisogno, per crescere, di una riflessione serena e oggettiva sulle risonanze negative, e non solo positive, che suscitiamo negli altri; come ha bisogno dell'umile
accettazione del-le sorprese amare.
6. Il rischio di uno sviluppo morboso della conoscenza di sé
Sesta tesi: chi, come noi, ha una vita intellettuale, rischia lo sviluppo morboso e
canceroso della conoscenza di sé, il rischio cioè che si verifichi una sproporzione tra la
tensione verso l'essere e la riflessione su ciò che in realtà sono e su come opero. Qualcuno
considera caratteristico dei giovani preti questo pericolo di eccesso di soggettività.
Probabilmente è vero, perché l'atmosfera nella quale viviamo spinge a porsi istintivamente
al centro, a considerarsi con sempre maggiore attenzione. Tuttavia dobbiamo vigilare sul
fatto che, se non c'è una proporzione equilibrata tra conoscenza e azione diretta da una
parte e autocoscienza dal-l'altra, uno dei due elementi è fatalmente destinato a prevalere.
7. I nostri errori
Alla luce delle sei tesi, è facile elencare una se-rie di errori in cui cadiamo: sono
errori per difetto o per eccesso.
a) Errori per difetto di soggettività: non riflette-re mai su di sé, non esaminarsi
mai, non impara-re dagli errori che commettiamo, negare sempre le critiche; rovesciare la
colpa di ogni situazione sugli altri o sull'ambiente, sulle strutture, sulla società; redigere
analisi straordinarie sulla struttura senza minimamente coinvolgersi; non ascolta-re quello
che gli altri hanno da dire su di noi.
Si tratta di errori "per difetto", in quanto chi li compie rifiuta
l'autoconoscenza: per ignoranza o per difetto di coscienza. Molte persone che non hanno
studiato, che non hanno vocabolario, che sono oppresse dalla fatica e dal lavoro, sono incapaci di autocritica e finiscono così per vivere di ripicche, di gelosie, di maldicenze.
Può però succedere anche a noi di chiuderci dentro noi stessi, di difenderci, di
non accettare di conoscerci, dando sempre ad altri la colpa di tutto ciò che non va.
21
Nel passaggio tra errori per difetto ed errori per eccesso, possiamo collocare il
caso di chi è in preda a immagini ossessive di sé, anche negative; oppure a immagini di
autocompiacimento che non sono frutto di conoscenza, pur se appaiono quasi un eccesso di
soggettività; penso inoltre a forme di narcisismo negativo (quali depressioni, continuo
disgusto di sé, morboso deprezzamento di sé che poi crea paura e senso di inadeguatezza).
b) Errori per eccesso di soggettività: carico di soggettività che turba la semplicità
e la linearità dell'azione, della conoscenza e dell'amore - è nell'azione, nella conoscenza e
nell'amore che la persona si esprime.
L'autocoscienza è indubbiamente necessaria, dal momento che conoscenza e
amore sono liberi ed è dunque impossibile non conoscere di conosce-re, non conoscere di
amare. Quando però è presente un eccesso di soggettività, riflettiamo troppo
minuziosamente su noi stessi (in linguaggio ascetico si parla di scrupolo), svigorendo la
forza dell'azione e restando sempre indecisi, titubanti sul futuro, ingarbugliati sul passato
immediato e anche sull'oggi.
Un altro errore per eccesso è quello di cavilla-re su di sé in continuazione,
costruendo teorie senza fine. Un altro ancora è quello di dipendere eccessivamente da ciò
che sentiamo di noi stessi, un sentire magari elaborato attraverso esami e analisi che
pesano e gravano. Tutti errori o difetti che derivano dal non riconoscimento pratico e dalla
non osservanza delle sei regole sopra esposte.
Quali di questi difetti sono più comuni in noi? Forse nei preti giovani (o
comunque nei giovani) prevale la soggettività per eccesso. Naturalmente, dipende dai
temperamenti; tuttavia credo che la società, la cultura contemporanea, il possesso di
strumenti mentali, porta facilmente all'eccesso di autoanalisi. Non voglio affatto
squalificare l'autoconoscenza, che è invece fondamentale (non a caso l'ascetica ha sempre
insistito su di essa); semplicemente desidero sottolineare che dobbiamo guardarla con
qualche attenzione.
8. "Signore, tu sai che io ti amo"
Concludo con la settima tesi e la esprimo riprendendo la risposta di Pietro a
Gesù risorto: "Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo". Penso sia l'ultima parola sulla
conoscenza di sé. In un momento di grave decisione, Simon Pietro è interrogato da Gesù
sulla coscienza che ha del suo amore, del suo volergli bene "più di costoro". Pietro non nega
questa conoscenza di sé, però preferisce appellarsi al Signore: "Certo, Signore, tu sai che ti
voglio bene. Tu sai tutto, tu sai che ti amo" (cf Gv 21,15-17). Al culmine della conoscenza
di sé c'è il fidarsi della conoscenza che il Signore ha di me, un fidarsi espresso in un atto di
amore, di abbandono, che evidenzia l'aspetto trascendentale della seconda tesi: la conoscenza
di sé richiede - soprattutto davanti alle grandi scelte della vita - la collaborazione di altri.
22
per aiutare gli educatori a trasformare le relazioni con i
giovani in modo che risultino promuoventi e capaci di
interpretare fino in fondo, nel caso concreto, i bisogni
più profondi della persona cosi come sono vissuti.
Essi possono essere i seguenti:
– Bisogno d’essere se stessi: il giovane sente in se il
bisogno di rispondere ad un movimento di
fedeltà a se, di dono di se, d’affermazione, di
stima e di riconoscimento della sua identità;
– Bisogno di «essere di più»: il giovane quando va in un
ambiente e accosta una persona, vorrebbe
prendere le vitamine necessarie per crescere in
modo compiuto; deve essere accolto e
appagato in questa direzione;
– Bisogno di proteggersi: per mettersi al riparo,
difendere la propria vita e 1’essere, 1’unita
personale ha bisogno di certezze profonde, di
ragioni essenziali di vita per resistere di fronte
a tutto ciò che tende a distruggerla o
impoverirla o massificarla o spezzarla;
– Bisogno di rifarsi: spesso, in momenti particolari, il
giovane desidera rientrare in se per riposarsi,
tornare in un ambiente per rivitalizzarsi,
ricercare persone armoniche e luminose per
riprendere vita e forza accanto a loro.
La soddisfazione di questi profondi bisogni contribuisce a
svegliare le sonnecchianti ricchezze d’essere e liberare le energie di
vita che sono in lui perché la sua umanità risulti sana ed
equilibrata.»,.Non si tratta, nel clima dello stile preventivo, di
inventare metodi, mezzi, sistemi « ragionevoli »; e necessario « essere
ragionevoli » e più ancora « vivere in modo ragionevole ».Tutto
nell’educatore deve essere « ragionevole » nel senso che egli ha già
1’esperienza della « vita profonda » e la disposizione a cogliere nei
giovani, per una speciale predilezione nei loro confronti, le loro
ricchezze d’essere, il loro positivo e il meglio di se, a rilevarlo,
sostenerlo, amarlo affinché anche la loro « vita profonda » si
amplifichi e si unifichi senza restringersi, si dilati senza mutilazioni o
devastazioni.
« Essere ragionevoli » con i giovani vuol dire occuparsi
perché la loro persona:
323
-
adesione concreta e pratica,
fiducia comprensiva e piena di buon senso,
comunicazione profonda e rispettosa,
ottimismo cordiale e sereno.
Ciò richiede una radicale conversione negli atteggiamenti che
fanno da supporto alle relazione interpersonali. L’educatore deve
potersi riprendere in mano, rivedere il « fondo del suo essere » e assicurarsi
che sia caratterizzato da una qualità di presenza, da una qualità di
amore, da una qualità di essere.
In altre parole si richiede:
– Autenticità: fedeltà a se stesso, a ciò che sente, prova, vive, come
conseguenza della lucidità e del1’accettazione di se;
capacità di esprimere ciò che sente e vive, di vedere la
propria esperienza senza mascherarne la più piccola
parte;
– Amore: comprensione (= gusto per l’interiorità» del giovane
per sentire come lui sente, facendo fare al cuore più
che alla logica il primo passo per giungere al livello dei
suoi sentimenti),
accettazione (= attitudine a non giudicare anche se
non si condividono le soluzioni, poiché solo cosi la
persona si sente libera di agire come crede),
affetto (= simpatia che mette a contatto il cuore con il
cuore, 1’essere con 1’essere, il mistero con il mistero in
un continuo stupore per 1’altro),
benevolenza (= desiderio che 1’altro viva il suo essere
in pienezza e lucidità a modo suo), rispetto
dell’autonomia (= desiderio che 1’altro eserciti la sua
libertà interiore);
– Solidità PRESA DI COSCIENZA, gioiosa e permanente, delle
proprie RICCHEZZE d’essere, del positivo su cui
poggiare la propria esistenza specie nei «colpi duri »
della vita. Tale presa di coscienza non è possibile senza
1’abitudine a vivere a casa propria né si realizza al di
fuori di PROFONDE E CORRETTE RELAZIONI
INTERPERSONALI. L’amicizia è la via più rapida per
giungervi, se percorsa con impegno, rettitudine,
pazienza e continuità.In questo modo e assicurato
l’ASCOLTO attento, comprensivo, fatto di
benevolenza verso il giovane che si confida e che
chiede aiuto, che si vuole dire fino in fondo,
abbordando a volte le zone più inesplorate del suo
vissuto anche più lontano e nascosto. È molto da fare
Secondo John Luft e Hari Ingham ciascuno di noi è rappresentabile
con quattro aree:
L'area aperta è costitui ta da quegli aspetti di noi che cor
sciamo e che, senza reticenze, siamo disposti ad aprire ali' tro: dati
anagrafici o professionali o personali che possono e cupare tutto Io
spazio del quadrante ma anche, in certe siti zioni, ridursi drasticamente:
non faccio fatica ad immagine un contest o in cui non vorrei dire
nemmeno come mi chiame dove abito.
L'area nascosta , nata dall'incontro tra "noto a me" e "ignoto
agli altri" contiene ciò che noi conosciamo di noi stessi e che fa ciamo di
tutto per non fare conoscere agli altri. Ciascuno di noi ha il diritto di avere
e mantenere un nucleo tutto suo, che lo protegga dalle invasioni altrui; se
così non fosse saremmo a rischio di compromissioni psichiche.
D'altra parte però questa parte di noi «è popolata da ansie, paure,
fantasie strane, desideri repressi od impossibili... e spesso viaggia
intrecci ata a sensi di colpa. Noi crediam o di provare i esclusiva questi
sentimenti, quelle emozioni... Per questo quando scopriamo di non essere
i soli, quando avvertiamo di condividere con altri queste situazioni, ci
sentiamo come liberati»102. E queste considerazioni potrebbero già da sole
costituire un buon motivo per potenziare l'assemblea fraterna!
L'area inconscia è quella a cui si dedica elettivamente la psicoterapia, ma è riconosciuto che gli apprendimenti ottenuti dalle altre aree
ci avvicinano sempre di più al nostro preconscio, a quella zona cioè che
fa da cerniera tra la zona conscia e quella sconosciuta.
È però l'area cieca , nata dall'incrocio tra «noto agli altri» e
«ignoto a me» a sembrarci estremamente stimolante: gli altri, quando ci
osservano, si rendono conto che noi non siamo solo ciò che affermiamo o
crediamo di essere. La scoperta che gli altri conoscono qualcosa di noi meglio
di quanto noi stessi la conosciamo non solo mette in crisi una prassi acquisita
dalla "psicologia fondata sui luoghi comuni", ma è un colpo veramente
duro al nostro narcisismo. […] L'apprendiment o che ci può venire dalla
parte cieca è proprio questo: accettare ogni feedback negativo con la
322
23
noto agli altri
I.
Aperta
II.
Nascosta
-----------------
-----------------
IV.
Cieca
III.
Inconscia
-----------------
-----------------
Ignoto agli altri
convinzione che tratti di un servizio che ci viene reso, nella certezza che una
conoscenza di sé sempre più ampia ed approfondita porta sicuramente col
tempo, maggior fiducia e maggior libertà. E, di conseguenza superare
quella sensazione sgradevole di frustrazione, quel sen di smarrimento non
di rado accompagnato da desiderio di rivai verso chi tanto ha osato,
rendendosi responsabile di un simile a franto, vincere la propria inibizione
ad impostare un rapporto leale ed autentico e riuscire ad offrire a nostra
volta riscontri e rimani agli altri, anche se negativi. 5
La conoscenza di sé non è un dato acquisito una volta per tutte. È
un processo in divenire frutto di una pluralità di contributi sintetizzabili
 nella capacità equilibrata di introspezione
 nel dono del rapporto con gli altri, più o meno sereno
 nel porsi di fronte al nostro Creatore, unico che ci cosce in
pienezza perché ci ha plasmati sulla misura del Figlio prediletto
Ecco perché la metodologia che è opportuno mettere in atto
percorre vie diverse
 quella dell’attenzione a se stessi attraverso alcuni imput strutturati
(enneagramma, test e colloquio con lo pscicologo, ecc..) per
abilitarci gradualmente alla coscientizzazione di ciò che siamo,
delineando un profilo di sé che faccia da base per il continuo
percorso di crescita.
GILLINI G. – ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione. Proposta di lavoro per
l’autoformazione di gruppi di presbiteri, di consacrate e di consacrati, Queriniana,
2003, pp. 296-298.
24
5
concretezza e aderenza alla realtà giovane, flessibilità nel programma,
uso della razionalità in funzione preventiva e motivante.
b) La religione
D. Bosco », aveva una coscienza educativo-pastorale
religiosamente finalizzata alla salvezza «totale» del giovane. In questo
contesto Dio e il « primo servito » e 1’idea cristiana esplicita supera
ogni neutralismo e qualunquismo ideologico. L’interesse religioso tra
i giovane oggi e solo apparentemente sopito.
Oggi educare religiosamente vuol dire forse « motivare a
fondo » per rendere plausibile 1’opzione cristiana e per radicarla nel
progetto di vita.
c) L’amorevolezza
Nello stile di D. Bosco si può tradurre con i seguenti termini:
umanità, cordialità, accoglienza, dolcezza aperta e limpida affettività.
« Vedo, conosco: ma cio non basta; ci manca il meglio: e cioe che i giovani non
solo siano amati, ma che essi ricono- scano di essere amati. Che essendo amati in quelle
cose che piacciono loro, col partecipare alle 1oro in- clinazioni imparino a vedere 1’amore
iri qiieIIe cose che naturalmente loro piacciono poco come lo studio, la disciplina, la
mortificazione... e queste cose imparino a fare con slancio c amore » (Lettera da Roma del
10 maggio 1884).
L’amorevolezza dunque implica il buon rapporto
pedagogico, il vero « essere con » per prevenire e formare, lo stare
insieme per co11aborare, aiutare, promuovere la crescita e anche
difendere da eventuali pericoli, l’aiutare incondizionatamente
nonostante le mancanze con un affetto puro e limpido non turbato
da egoismi sensuali o da attaccamenti particolari.
Implica la democratizzazione dei rapporti,
con la partecipazione responsabilizzata dei ragazzi
ed una grande capacità di ascolto e di disponibilità.
Prevenire significa porre le condizioni per esprimersi,
creare, fare, correndo anche qualche rischio calcolato. Amorevolezza
vuol dire fiducia trasparente da parte dell’educatore nella capacità di
stare a fianco del giovane per fare di lui un collaboratore, un
animatore responsabile, un futuro esperto in educazione
3.2.1 La fiducia nella «ragione» come guida alla «vita
profonda» .
Nello stile educativo di D. Bosco si intende per «ragione»:
- presenza continua e ragionevole,
- dialogo aperto e disponibile,
321
Accoglienza e volontà di comprensione sono gli ingredienti
della prima confidenza che apre il cuore
-
Per il cammino di interiorizzazione
Amate ciò che amano i giovani; state sempre in mezzo a loro
Accoglienza è anche saper scusare, attendendo con pazienza.
Un amore positivo che punta in alto
In ciascuno avvi un punto accessibile al bene
Chi sono io?
(prova a tracciare un identikit e confrontati con chi ti sta accanto,
integrando con semplicità quanto non hai evidenziato)
Quali sono i miei tratti salienti?
Quali sono le mie maggiori fatiche?
Pur sapendo che il male ed il bene sono presenti a volte
insieme per questo puntava sul sacramento della riconciliazione per
evidenziare la vittoria in ogni situazione del Cristo sul male e sul
peccato.
- Esserci (stare sempre con; con buona cera) – Ascoltare – Dare
buon esempio – Dimostrare amore – Dare il Paradiso
3.1.3 L’ambiente educativo della “famiglia”
Impegno per il dovere e gioia dello stare insieme
Vivere di carità
«Chi vuol essere amato deve far vedere che ama. Chi sa poi di essere
amato, ama; e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani»
«l’educatore deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per
conseguire la civile, scientifica, morale educazione dei suoi allievi»
confidenza
presenza continua
ragionevolezza: buon senso, concretezza, aderenza alla
situazione dei giovani
fra dovere e libertà gioiosa
solo la “fiducia originale” fra genitori e figli ha il potere di
strutturare la personalità globale nella direzione della vita e di
promuovere la crescita nella direzione dell’essere
3.2 Ragione, religione e amorevolezza
«Due sono i sistemi in ogni tempo usati nella educazione della gioventù:
preventivo e repressivo… Diverso e, direi opposto, e il sistema preventivo. Esso consiste nel
far conoscere le prescrizioni e i regolamenti c poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano
sempre sopra di loro 1’occhio vigile del direttore o degli assistenti, che come padri amorosi
parlino, servano di guida, diano consigli e amorevolmente correggano. Questo sistema si
appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra 1’amorevolezza; percio esclude ogni
castigo violento e cerca di tenere lontano gli stessi castighi leggeri. La pratica di questo
sistema e tutta appoggiata sulle parole di S. Paolo: «La carità è paziente e benigna»
a) La ragione
Nella pedagogia
320
«boschiva»
significa:
buon
senso,
25
 Quello della relazione con gli altri di sintonia o anche di scontro,
nella quale cogliere al di là dell’oggettiva fatica, l’altro come
fondamentale via per la rivelazione di ciò che sono al di là di
paludamenti di cui ci siamo rivestiti per difesa o fuga.
-
Per il cammino di interiorizzazione
Chi sono le persone con cui più facilmente mi relaziono? Cosa
fanno emergere di me? Quali tratti con loro potenzio e quali
accantono?
Chi sono le persone con cui faccio più fatica a stare? In quali
situazioni emerge particolarmente la tensione? Quali sono i tratti di
me che avrei voluto non emergessero e quali la situazione di
contrasto mette in evidenza da arricchire, riconoscendola così come
occasione positiva?
26
leale attorno agli interessi del tempo libero sino a quelli profondi
ed interiori: amicizia.
Strumenti: Parolina
all’orecchio,
foglietti, attenzione
personalizzata, con un’attenzione a tutte le componenti del
giovane: fisica (gioco), religioso-morale, intellettuale ed affettiva
Con una concezione ottimistica e realistica delle capacità umane:
dal meno al più, senza alcuna oppressione delle energie
fantasiose del singolo, orientando il tutto verso il bene, il vero, il
bello, attraverso pietà, studio, l’allegria.
3.1.2 La presenza fraterna dell’educatore “assistente”
Dal tener lontano al indicare la via giusta: prevenzione e
direzione, attraverso una PRESENZA: viva, attiva, costruttiva di un
amico, in piena corresponsabilità
Con le seguenti caratteristiche:
- L’amore educativo implica:
benevolenza
=
stima
e
valorizzazione dell’altro come persona
Promozione = riconoscimento dell’altro come nella
sua effettiva alterità e nelle sue esigenze profonde
Reciprocità = amicizia e sostegno nelle scelte
importanti
- Il tatto pedagogico: «si prendono più mosche con un piatto di
miele che con un barile d’aceto» (S. Francesco di Sales)
- L’autorità come autorevolezza: “parliamo principalmente al
cuore della gioventù, e la nostra parola è Parola di Dio” (MB
5,225)
“si dia agio agli allievi di esprimere liberamente i loro
pensieri; ma si stia attenti a retificare” (Reg.)
la religiosità: assistenza non è sorveglianza ma fraterna e
paterna presenza vigile ed amorevole, non esercizio
di potere ma comprensione, pazienza, vitalizzazione
e consolidamento dei germi di vita già presenti
è stare con
- Un amore che fa il primo passo
Per carità, non aspettate che i giovani vengano a voi.
Andate voi da loro, fate voi il primo passo. E per
essere accolti, discendete dalla vostra altezza.
Mettetevi al loro livello, dalla loro parte
- Un amore che sa farsi vicino
Avvicinare i giovani senza giudicarli, né scandalizzarsi dei
loro limiti ed errori
319
invitava i suoi educatori a farsi un quaderno intitolato
L’Esperienza registrando inconvenienti, disordini , sbagli
ecc…riprendendo poi ogni tanto queste note) (MB 12,69)
 Una grande risonanza per:
- Modernità (con attenzione alle dimensioni umane – S. Alfonso)
- Ottimismo (gioia – S. Filippo)
- Limpida ispirazione cristiana
- Forte organizzazione (S. Carlo Borromeo)
- con un temperamento «aperto alla vita»
- per la «riscoperta» dell’amore educativo come risposta al radicale
bisogno dell’uomo di “amare ed essere amato”, sintetizzata nella
frase che a don Rua, suo successore, sussurrò prima di spirare:
«fatti amare» (MB 18,537)
3.1 Elementi caratteristici del Sistema preventivo
3.1.1 L’educazione “individualizzata”
- Ciascun giovane è al centro con la sua personalità, in un
processo formativo fatto d’inviti, proposte, possibilità, scelte e
decisioni
Lasciamo ai giovani piena libertà di parlare di cose che
maggiormente loro aggradono. Il punto sta di scoprire in essi i gerrmi
delle loro buone disposizioni e procurano di svilupparli. E poiché
ognuno fa con piacere soltanto quello che sa di poter fare, io mi regolo
con questo principio e i miei giovani lavorano tutti non solo con attività,
ma con amore.110
Don Bosco conosceva per nome i suoi 600-700 ragazzi
domenicali, a ciascuno per l’Immacolata e per Maria Ausiliatrice
faceva arrivare un biglietto personalizzato e ciascuno diceva di essere
il “preferito” da don Bosco. Perché egli guardava ad ogni giovane
come un essere unico, redento da Cristo, con una vocazione
particolare. E questo senza eccezioni di sorta.
- attenzione anche all’ambiente, al clima generale il che implica la
costruzione di piccoli tasselli che tocchino e si rivolgano alla
coscienza e attendono l’adesione personale e libera
- una sintonia ambientale che parte dalla comunione condivisione
dell’équipe formativa
- l’opera educativa è incompleta e poco efficace se non sfocia nel
rapporto: personale, spontaneo ed aperto alla confidenza fra
educatore e educando partendo da una collaborazione sincera e
“Io sono anzitutto parte di un gruppo familiare e sociale ben individuato.
Ciascuno di noi è qui perché è figlio dei suoi genitori, parte di una società, di un gruppo
religioso, culturale e umano. Come tale è oggetto dell'amore di Dio che lo chiama nella sua
storia. «Tu Signore sei colui che mi ha amato, mi ha cercato in questa famiglia, in
relazione con questi genitori, fratelli, sorelle, parenti, amici: persone che condividono
l'immediata esperienza della mia esistenza. Tu mi hai voluto e mi ami nelle mie relazioni
di scuola, di cultura, di società».
Nell'insieme di queste relazioni c'è tuttavia una parola personale e irripetibile:
«A te, dico!». E a nessun altro. Per capire chi siamo noi ci viene chiesto di renderci conto
della singolarità della nostra storia. La nostra vicenda personale è così unica che Dio l'ha
voluta per se stessa e non l'ha messa in dipendenza da nessun'altra. Questa è la dignità
assoluta della mia persona: il fatto che Dio mi vuole per me stesso. Ha dunque a cuore la
singolarità della mia vita e del mio cammino, anche se a me appare poco interessante,
povero, modesto. Dio ha in mente e ha in mano la mia storia come storia singolarissima,
che non vuole cambiare con nessun'altra. Non vuole barattarci con nessuno perché il
nostro valore è definitivo e irrevocabile. Dio si è compromesso per la mia storia personale.
A questa verità forse noi pensiamo poco, non diamo importanza a noi stessi, mentre sta
proprio qui la fonte della nostra dignità personale. La radice, l'origine del nostro essere con
gli altri, del fare comunità, dell'avere creatività, sta in questa parola: «A te dico!». E
importante riuscire a cogliere nella preghiera, magari per un solo istante, la bellezza di:
«A te dico!». «Signore, davvero a me?». «Sì, proprio a te!». «Davvero, Signore, tu che sei
così grande, infinito, tu che hai creato l'universo, che vivi da sempre e per sempre, mi dici
questa parola?». «Sì, a te e per te!». Non dovremmo mai finire di stupirci di questa
verità!”. 6
Quella del porsi alla presenza di Dio, nella Sua parola e nel Suo
mistero d’amore. In questa linea la lectio divina quotidiana è il luogo
privilegiato della conoscenza di me. Lì emergono guardando a Gesù il Figlio
perfetto ciò che sono io, il cammino da compiere, le possibilità da
sviluppare in un confronto che non è assolutamente svilente perché il Suo
giudizio non è mai umiliante.
“Guardando Gesù negli occhi, ha sperimentato che cosa vuoi dire essere amato
davvero da Dio, ha sentito che cosa significa essere capito, essere preso sul serio, ha capito che
cosa vuoi dire che la vita ha valore nelle mani di Dio.
Vorrei che ciascuno di voi si esercitasse in questo colloquio: «Signore, tu mi capisci,
tu sei colui che prende sul serio la mia vita. Qualche volta io rischio di giocare con la mia vita.
Tu però mi guardi perché mi hai fatto, mi hai creato, mi dai la vita. Tu mi vedi in un
modo che mi fa sentire preso sul serio e capito a fondo»”.7
6
110
318
MB 17,85-86
7
27
C.M.MARTINI, Tu mi scruti e mi conosci, Ancora, Milano 1990 7, pp. 24 -25.
C.M.MARTINI, Tu mi scruti…, oc, pp. 23.
Per il cammino di interiorizzazione
Al termine di un mese di lectio divina prova a fare sintesi di quanto è
emerso come contributo per la conoscenza di te figlio nel Figlio,
come coscientizzazione di ciò che sei, come percorso su cui sei stato
invitato a crescere e sulla conoscenza di Gesù quale modello della
tua persona
3. Nozioni sul sistema preventivo
-
3.0 Premessa
La cultura radicale: senza passato, senza futuro: un rizzoma
autonomo ed autogestito
Quale possibilità oggi di parlare d’educazione?
Tre soggetti: giovani, società, educatori: lontananza dai modelli
tradizionali, perdita di stabilità e progettualità, perdita della
fiducia nel loro compito e nei loro punti fermi
Quale rapporto fra la cultura attuale ed un sistema educativo di
fine ottocento?
 Gli inizi in una non relazione…
Quante volte – scrive don Bosco – avrei voluto
parlare, chiedere loro consiglio o scioglimento di
dubbi e ciò non poteva; anzi accadendo che qualche
superiore passasse in mezzo ai seminaristi senza
sapere la ragione, ognuino fuggiva precipitoso a destra
e a sinistra come una bestia nera. Ciò accendeva
sempre più il mio cuore di essere presto prete per
trattarmi in mezzo ai giovanetti, per assiterli ed
appagarli ad ogni occorrenza.
 Una rivelazione: non con le percosse
All’età di nove anni ho fatto un sogno. Sarebbe rimasto
profondamente impresso nella mia mente per tutta la vita. Mi
pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si
divertiva una grande quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri
giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie,
mi slanciai in mezzo a loro. Cercai di farli tacere usando pugni
e parole. In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito
nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La
sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Egli mi
chiamò per nome e mi ordinò di mettermi a capo di quei
ragazzi. Aggiunse: - Dovrai farteli amici con bontà e carità,
non picchiandoli. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa
cattiva, e che l’amicizia con il Signore è un bene prezioso.
 Un’esperienza di prima: san Francesco di Sales (1600) la
dolcezza e la coscienza che tutti sono chiamati alla santità
 Un’esperienza sul campo: l’oratorio (apprezzava ogni intervento
culturalmente profondo in ambito pedagogico ma il suo
percorso formativo si delineò nell’esperienza, per questo
28
317
ma anche aspirazioni infinite. Abbisogna di beni materiali, ma soprattutto di
senso e di valori spirituali. Secondo l'espressione di Agostino: "È fatta per
Dio, assetata di lui". In altre parole, si può dire che nell'esistenza della
persona diamo il primato alla dimensione religiosa. E lo stesso
nell'educazione e promozione non per proselitismo, ma perché siamo
convinti che essa costituisce la sorgente più profonda della sua crescita e
felicità. Ne curiamo la profondità, il corretto sviluppo ed espressione. In un
tempo di secolarismo e di religiosità sbandate, questo orientamento non è
Dobbiamo gradualmente guardare a noi e a tutte le altre persone come al
mistero di Dio che si manifesta. Allora ciò che siamo con anche i nostri
problemi, le difficoltà, le antipatie… tutto insomma ci rivela la presenza di
Dio nella nostra vita. Ecco cosa significa sapere chi sono io. Io sono un
miracolo di Dio, in cui egli si rivela nella storia.
109
Nel cammino della conoscenza di sé stessi il Cardinal Martini individua
tre tentazioni che possono insidiare il percorso:
 il blocco dell’espressività attraverso un vocabolario ridotto, una
incapacità a sostenere il confronto a tracciare argomentazioni. Per
questo una delle vie di coscienza di sé è la capacità di sostenere la
fatica culturale, che apre orizzonti nuovi, che sostiene la capacità di
comunicazione con il maggior numero di persone, che fa scendere
nel profondo non solo di sé ma dell’umanità che ci precede.
 L’indisciplina dei sentimenti e delle emozioni, lasciando ad essi briglia
sciolte creando così inattesi blocchi e tensioni che si esprimono
con malumori, stanchezze, pigrizie, alti e bassi d’entusiasmo. Non
è facile acquistare una consapevolezza di questi ma è indispensabile
soprattutto per chi è chiamato per vocazione alla relazione
educativa. Una delle esigenze che i padri spirituali dell'Oriente
insegnavano al discepolo che voleva incominciare la vita monastica o
il discepolato cristiano era questa: «Metti ordine nei tuoi pensieri, nelle
tue fantasie, nei tuoi sentimenti! In caso contrario, essi ti
sconvolgono, ti lacerano, ti buttano in direzioni opposte: e tu
rimani, senza accorgertene, privo di forzai». Come fare per mettere
ordine nei nostri sentimenti, affetti, emozioni, pensieri? Non sono
necessariamente realtà cattive ma emergono per lo più in modo
disordinato. Bisogna imparare ad esaminarsi. E vi indico quattro
facoltà su cui esaminarvi. Dapprima la fantasia. Potete domandarvi:
dove vanno i miei pensieri quando vagano in libertà? Poi le simpatìe
o antipatìe. Queste ultime sorgono spesso all'improvviso per una
offesa ricevuta, forse, o per uno sgarbo. Se non mi esamino bene,
l'antipatia tende a cronicizzarsi. L'affettività può nascere talora
inaspettatamente, senza che ce ne accorgiamo. È importante
rendersene conto per ridimensionarla. I malumori. Perché sono di
cattivo umore? Magari perché sta piovendo. Se capisco che è per
questo, mi ridimensiono e dico a me stesso: «Pazienza, è solo un po'
di cattivo umore». Do una ragione a ciò che sto vivendo. Tutto il
passaggio dall'adolescenza alla maturità si gioca su questa capacità
progressiva di esaminare, dominare, mettere ordine nella fantasia,
nelle simpatie e nelle antipatie, nell'affettività, negli entusiasmi eccessi-
senza significato né di facile realizzazione.”
È un'assunzione di responsabilità contro ogni forma di
deresponsabilizzazione. In quel "dammi" è racchiusa la volontà di custodia
dell'altro, di cura, dentro cui matura ogni scelta vocazionale. Ai primi
collaboratori, don Bosco non propose un itinerario formativo sui banchi ma
"un esercizio concreto di carità verso il prossimo", a volte con compiti che
potevano sembrare superiori alla loro età e formazione. Lui li ha
responsabilizzati ponendosi accanto.
"Prendi" invece rimanda ad una consegna, ad un'offerta. La
dimensione vocazionale della vita è il passaggio da una concezione
autogestionale della propria esistenza alla consegna a Dio di tutto se stesso
perché ne faccia secondo la sua volontà il capolavoro che da sempre ha
pensato per ciascuno. Se non coltiviamo in noi e nei nostri giovani questa
dinamica della consegna, secondo gradualità e attraverso le mediazioni che
fanno esercitare la virtù dell'obbedienza, non vi potrà essere alcun salto di
qualità nell'adesione vocazionale.
Vi è infine un elemento importante sintetizzato in quel "togli tutto
il resto". Ascesi salesiana che rimanda alla temperanza, inscindibile dal
lavoro. Una vita piena di "cose" difficilmente potrà: innalzare una preghiera,
scaturita dal confronto con la Parola, che muove verso chi è nel bisogno,
riconosciuto da occhi vigili che sanno scrutare non solo la superficie ma
l'anima delle situazioni e delle persone.
2. Predilezione per i giovani
Strumenti
Esperienze pastorali progettate, guidate, verificate
109 J. E. VECCHI, Indicazioni per un cammino di spiritualità salesiana, ACG
354, settembre 1995.
316
29
vi, nella freddezza. Cominciamo a conoscerei meglio, a capire che il
dialogo su di noi e il dialogo con Gesù viene bloccato tutte le volte
che ci lasciamo dominare dalle facoltà che ho indicato. Ovviamente
non dobbiamo eliminarle perché noi avremo sempre sentimenti,
sensazioni, ecc. Sono proprio la ricchezza dell'uomo: però la
persona matura ordinariamente vive le sue emozioni e i suoi
sentimenti nella verità delle cose, dei rapporti, delle persone, delle
responsabilità .8
 La terza insidia, più difficile da cogliere, è l'autolesionismo. Vi sono
situazioni in cui anche noi diventiamo un po' autolesionisti. Ci
colpevolizziamo senza motivo, ci diamo la zappa, sui piedi, ci
scoraggiamo quasi gustando lo scoraggiamento. Non potendo
essere perfetti o i primi assoluti, ci prendiamo gusto a essere gli
ultimi e a non valere niente. È tutto un gioco dell'orgoglio. Se una
persona casualmente non ci guarda sorridendo, non ci saluta
subito, pensiamo che ce l'ha con noi; se ci viene fatto un
rimprovero non del tutto giusto, ci sentiamo maltrattati
ingiustamente e ci irritiamo. Siamo al livello più profondo in cui
giocano tutte le forme di tentazione che cercano di deprimerci, di
appesantirci, di tarparci le ali. Se nella seconda insidia risaltava il
ritmo selvaggio delle emozioni, qui c'è maggiormente il segno del
maligno. È il maligno che ci suggerisce: «Non ce la fai, cederai, non
puoi resistere alle tentazioni». A volte addirittura cadiamo nel male
quasi per darci ragione della irritazione o della rabbia che
proviamo. Ci lasciamo insomma veramente ingannare e
blocchiamo tutto il nostro dialogo che dovrebbe sempre avvenire
nella gioia, nella serenità, nella pace, nel dominio di noi stessi. 9
Il card. Martini ne parla in chiave di tentazione diabolica ma il
passo precedente è una tentazione antropologica dovuta in parte alla fatica
non assunta a prendersi la responsabilità del crescere, dalla paura a porsi in
confronto con gli altri senza giustificazioni che chiudono o a fughe che
allontanano, o infine dal non voler sviluppare quanto si è anche se non al
massimo o meglio anche se non come noi vorremmo che fosse.
Come uscire da queste tentazioni
- Primariamente attraverso un dialogo onesto chiamando per nome
reazioni, sentimenti, scelte. Questo imparare a dirsi entrando in
dialogo fa emergere molto di più di quanto pensiamo di scoprire
8
9
30
C.M.MARTINI, Tu mi scruti, oc , pp. 35-36.
idem, pp. 36-37.
1. Caritas Christi urget nos: giovani per i
giovani107
Don Bosco e il coinvolgimento dei suoi giovani
La fondazione della congregazione
La passione apostolica
Da mihi anima caetera tolle.
Il motto è tratto dalla parola di Dio che viene riletta con gli occhi
di don Bosco, dando forza all'interpretazione del quotidiano in chiave
teologica, portando al dono totale di se per coloro a cui il Signore ci invia. È
quel processo che definiamo Lectio Divina
È essenzialmente una preghiera e Domenico Savio la comprende
come tale. Non vi può essere alcuna comprensione della volontà di Dio
senza una relazione orante con il Signore. Questo differenzia ogni
apostolato, ogni gesto di carità cristiana dal generico volontariato o
filantropia. Ogni dono caritativo è risposta ad un appello divino che
chiamando invia.
Ma una preghiera che arde di passione per il bene dei fratelli. Che
non chiude in un intimismo escludente, ma apre gli occhi sulle necessità dei
fratelli soprattutto dei più poveri e di coloro che stanno al nostro fianco.
Don Bosco tornando dalla "Generala", da "porta Palazzo", dall'angolo "della
forca", dalle vie della città, fa sintesi fra ciò che lo ha interpellato nella
povertà dei giovani e la sua vocazione. Troppo spesso noi ed i nostri giovani
non ci accorgiamo più del grido di tanti giovani "sfatti" da nuove ed antiche
povertà. Questo sguardo approfondito sulla realtà diviene chiamata
vocazionale. L'esercizio dello sguardo deve portare ad un appello alla vita
perché divenga responsabilità concreta che risponde: "eccomi manda me!",
contro ogni bestemmia salesiana a cui don Bosco costantemente invitava a
108
prenderne le distanze.
“È una attenzione a tutta la persona ma con un primato alla
spiritualità come radice e fonte di ogni vera umanità matura. "Anima" indica
la dimensione spirituale dell'uomo, centro della sua libertà e radice della sua
dignità, spazio privilegiato della sua apertura a Dio, dove si fa sentire e offre
lo Spirito. […] La persona non vive di solo pane; ha, sì, bisogni immediati,
107
VECCHI J. E, Spiritualità …, oc, pp 53-63; 107-151.
CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 9-26.
DON BOSCO, Lettera da Roma.
108 Cfr, BRAIDO P., Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, LAS,
Roma, 2003, pp. 347ss.
315
Dimensione Educativo pastorale
314
-
-
31
con il “fai da te” e soprattutto facendoci illuminare dall’esperienza
e dalla distanza di chi ci accompagna
Secondo facendo un quadro completo di noi uscendo dal circuito
normalmente ansiogeno del momento. È necessario imparare a
prendere le distanze anche da noi stessi, dai nostri difetti, dalle
nostre fatiche, dalle difficoltà. Occorre oggettivarsi chiedendosi
“cosa mi sta succedendo?...” magari mettendo per iscritto,
considerando la situazione puntualmente. Solo così distingueremo
la difficoltà da noi riconoscendo che questa è la situazione in cui
sono ora ma questa non mi esaurisce, non è il tutto di me. E
proveremo un attimo di respiro chiedendogli “Signore cosa mi
vuoi dire in questa situazione? Tu che hai un disegno su di me e mi
ami quale passo vuoi farmi compiere?”
Questo ultimo tratto introduce il terzo gradino che è una autentica
confession fidei: Signore non solo mi conosci perché mi hai creato ma
mi fido di te proprio perché sono così e mi sono così scoperto. So
che Tu sei salvatore”. Questo apre all’umile fiducia di chi sa
accogliere anche il proprio limite, senza attendersi magici cambi
che trasformano tutto e subito, come il luogo dove Dio ci mostra
ciò che siamo e il Suo amore che non è condizionato al nostro
restituirgli una perfezione che è solo Sua.
2. Il profondo
Per incontrare Dio, bisogna ritirare le nostre forze dentro di noi e concentrarci,
sottrarci, per cosi dire, all'esterno. Concentrazione infatti vuol dire avere un centro, unico:
se riusciamo a metterci cosi davanti al Signore, da noi si sprigiona una capacita
incredibile.
Ci pare persino di essere diversi, con una lucidità e una chiarezza mai
sperimentate, e comprendiamo meglio la domanda: «Chi sono io ?».10
2.1. Il raccoglimento
Una parola familiare alla lingua etico-religiosa del passato ma che
nell'etica moderna si pronuncia di rado è quella di “raccoglimento”, di
“uomo raccolto”. Tuttavia il suo contenuto oggi si riavvicina a noi, e sono
soprattutto gli psicologi e gli educatori che cominciano a vedere la sua
importanza. I pensieri di questa meditazione hanno perciò già un loro
appiglio. Per meglio capire ciò che vi s'intende vogliamo chiarirci prima in
che modo la nostra esistenza si struttura. Essa si tende fra due poli affini a
quelli di cui si parlerà nel capitolo seguente sul silenzio e sulla parola. II
primo polo è l'interiorità dell'uomo, il suo intimo centro. Dire che cos'è
questo “centro” non è facile, ma chiunque pronuncia da se spontaneamente
il termine sa che cosa intende: il punto di riferimento in direzione
dell'interiorità; ciò che fa si che le sue energie, le sue qualità, i suoi
sentimenti e le sue azioni compongano non un affastellamento confuso, ma
un'unità.
Questo è uno dei due poli; l'altro è tutto il complesso delle cose
fuori di lui, degli eventi, delle situazioni, delle relazioni; gli altri uomini, la
loro vita, la loro attività, la storia. In breve, il mondo, fin dove la forza del
suo vedere e la capacità del suo esperire vitalmente riesce ad arrivare. Fra
questi due poli, il centro dentro di me e il mondo intorno a me, oscilla la mia
vita. Di continuo io esco verso le cose, osservo, afferro, posseggo, plasmo,
ordino. Poi ritorno nella mia intimità, e là mi domando: Che cos'e questo?
Perché questa cosa e così? A quale altro essa appare simile, e in che modo si
distingue da altre cose? In che cosa consiste la sua essenza? Precisamente in
questo, nella conoscenza, giunge a compimento ciò che ho esperito fuori di
me. Quando voglio fare qualcosa, io non mi metto senz'altro all'opera, ma
rifletto: Che cosa mi serve a tale scopo? Che cosa esige la situazione? Mi
10
32
idem, pp. 77ss.
La paura. — Nel sogno dell'1-XII-1884, quando Don Bosco vide
la riunione dei diavoli per distrugger la Congregazione salesiana non fu
approvata l'insidia né con l'intemperanza né con le ricchezze, ma con la
trovata sottile di un diavoletto che disse: “Persuadiamoli che l'essere dotto è
quello che deve formare la loro gloria principale” (M.B. XVII 387). Studiare
per far figura! Quando si vuole essere tutti dotti, addio oratorio festivo,
addio scuole basse, istruire giovani poveri; non più le ore passate in
confessionale; ma solo la predicazione rara, sfoggio della loro superbia.
“Evangelizare pauperibus” (Evangelizzare i poveri) e non le signore e signorine
della cattolica, ma coloro che puzzano di cipolle. Ebbene quel diavoletto
ebbe il plauso generale.
Don Bosco tremava pensando che un giorno potrebbe darsi che i
salesiani facciano consistere il bene della Congregazione nella scienza. Lo
dico a voi che frequentate l'Università, affinché a suo tempo e luogo
possiate discendere.
Disillusione. — Nel 1885 a Marsiglia Don Bosco diceva ad un suo
amico e benefattore che aveva fatto tutto il suo possibile per formare le
scuole cristiane e che moriva non abbastanza compreso. Don Bosco vide
che i suoi vicini non lo capivano: “Quanto ha fatto Don Bosco pei riformar
la scuola su basi schiettamente cristiane! Ora vecchio cadente( me ne muoio
col dolore di non essere stato abbastanza compreso” (M.B. XVII, 442). E
non diceva questo ad un salesiano, ma ad un laico.
Noi abbiamo imparato da Don Bosco che dobbiamo studiare di
tutto per fare del bene alle anime, per una scienza pratica. Dobbiam esser
pronti all'apostolato cristiano, abbracciando tutto ciò che si può abbracciare
nella scienza e a cui la Chiesa con le parole dell'Epistola ai Filippesi ci anima.
Strumenti
Letture
Tempi di formazione
Colloquio personale
313
Flavio. Di Patristica in seminario non c'era un corso speciale; egli però fece
studi speciali su S. Agostino e su S. Gerolamo. La Agiografia la imparò sul
Croiset, e sui Bollandisti, di cui da giovane prete lesse un volume al mese, e
cosi tutti i 45 volumi. L'Apologetica sul Bergier, il miglior apologista d'allora
(alcuni passi sono riportati nella Storia d'Italia). Per la storia ecclesiastica ch'e
il suo tema preferito, lesse il Fleury che è antiromano e per reazione concepì
un maggior attacca mento a Roma. Solo per la Storia ecclesiastica gli ho
scoperte 80 fonti diverse. Cosi pure per la Storia d'Italia, la quale e un libro
popolare...: eppure quell'uomo ha maneggiato 80 volumi! Il Muratori lo
percorse tutto.
Tutti si stupiscono al sapere questo e mi domandano: Come ha
fatto a scoprire tante cose?...Don Bosco conobbe il latino, il greco, l'ebraico;
sapeva Orazio e Virgilio a memoria; conobbe tutti i classici d'Italia in piccoli
volumi della collezione Silvestrini di Milano, che prendeva in affitto per
pochi soldi. Sapeva a memoria Dante, Petrarca e Tasso. Conosceva la
geografia e ne fece un appoggio per la storia. In questo fu innovatore.
Sentiva potentemente la necessità della cultura umana. Ciò che e
più sbalorditivo in Don Bosco si è che la massima parte della sua scienza
frutto è del suo lavoro personale. La facilità con cui parlava con ogni ceto di
persone veniva dalla sua enorme cultura. Don Bosco faceva sempre ed in
ogni ramo bella figura.
Adesso veniamo a noi. Con quale spirito dobbiamo studiare? Don
Bosco dovette studiare da sé per le circostanze dell'epoca e per la sua
passione del sapere, per poter poi agire. Questo si concilia con la santità.
Non dovete lasciare queste cose alla storia, ma dovete farle vostre, dovete
imparare da Don Bosco la passione del sapere, l'indirizzo del sapere
salesiano. Vorrei che sapeste quante notti ho passato in bianco fino a 35
anni, dimodochê con la mia industria personale ho potuto dare scuola d'arte
all'Università. E non mi aveva insegnato nessuno. Cosi deve essere il
salesiano. Ogni salesiano di razza deve moltiplicare le sue cognizioni per
moltiplicare il bene che può fare. L'arte mi ha servito per portare la parola di
Dio anche nell'Accademia delle Belle Arti. Bisogna come Don Bosco
occupare il tempo, e come lui ingegnarsi da sé. Non bisogna confidarsi nel
manualismo, perché questo è l'etisia della cultura, ma dobbiamo consultare
le fonti. Bisogna che studiamo da noi, che siamo autodidatti. Bisogna che
con S. Tommaso (II. II, 166-167) abbiamo la virtù della « studiositas »,
soprattutto lo spirito dello studio che è quello che ci interessa.
Con quale spirito ed intenzione si deve studiare? Prima di tutto con
lo spirito della scienza; questa e la pietà vogliono essere unite; e poi cor lo
spirito utilitario. Ma soprattutto “ut perfectus sit homo Dei” (Affinché l'uomo di
Dio sia perfetto), non dilettantismo.
Permettete che richiami il pensiero di Don Bosco per una sua
paura e per una sua disillusione.
decido e solo allora io trovo «al di fuori» la direzione e l'ordine per ciò che
devo fare.
Finito il mio lavoro, ritorno di nuovo a me stesso e mi esamino: E
andato tutto per ordine? Mi sono comportato come si deve con la tale e tal
altra persona? Ho fatto il mio dovere?
312
33
Ma così dicendo abbiamo semplificato. L'”uscita” e il “rientro”, e
di nuovo l'”uscita” e il “rientro” non si verificano una o due volte soltanto,
ma innumerevoli volte; è un gioco ininterrotto di atti di cui è tutta fitta la
nostra vita quotidiana.
In tal modo le due sfere stanno in vicendevole rapporto. Ciò che si
verifica di fuori viene guidato e giudicato da dentro; la realtà intima viene
evocata, svegliata, alimentata da fuori. Se ci si domanda qual l'uomo che a
questo riguardo risulta autentico, la risposta è: “Quello nella cui vita i due
poli si esplicano effettivamente in un giusto rapporto; quello che nè si perde
fuori, nè si consuma dentro; quello nella cui vita le due sfere si determinano
e si completano in equilibrio a vicenda. Ma nella media della vita umana è
diverso. Là le realtà della vita esterna hanno un peso soverchiante. La
ricchezza delle loro forme, le impressioni incisive delle loro proprietà, i
compiti che esse ci pongono, i loro valori ai quali si accendono i desideri, la
loro pericolosità che genera paura: tutto ciò è cosi forte da avere il
sopravvento al punto da esteriorizzare tutta la nostra vita. Nasce cosi l'uomo
dissipato nelle cose esterne, il cui mondo interiore è debole e diviene sempre
più debole.
Ora tutto ciò si è verificato, tutto sommato, gia in passato. Gli
spiriti preoccupati della formazione profonda dell'uomo, hanno sempre
elevato i loro moniti. Ma oggi la situazione si è fatta più pericolosa, perché
gli stimoli che assalgono l'uomo sono diventati assai più potenti e molteplici,
e lo diventano sempre più. Oggi l'uomo è di continuo in faccende; e non
entro ordinamenti in cui sia inserito, ma spesso in un caos di cui egli non ha
più il controllo. Anche la “pubblicizzazione” dell'esistenza si è intensificata
in un modo preoccupante: con sempre maggiore rapidità e completezza ciò
che avviene viene comunicato, e con tale immediatezza che si può essere
tentati di dire che la notizia appartiene all'evento; che questo è gia a priori
destinato a svolgersi davanti ai microfoni e alle macchine da presa. La
pubblicità penetra con sempre minori riguardi nella vita personale, così che
la sfera privata va rapidamente scomparendo. I contenitori delle operazioni
vitali dell'uomo sono diventati come vetro, e là gente si muove la dentro
come frotte di pesci in un acquario che si può osservare da ogni lato in tutto
ciò che vi si fa.
È addirittura un simbolo il fatto che la casa moderna vada
eliminando sempre più la parete. L'uomo che è dentro vive nello stesso
tempo fuori e crede così di diventare libero. In realtà il suo mondo interiore
si offusca. E come se tutto questo non bastasse, il mondo esterno viene
espressamente introdotto in quello interno. Tutti conosciamo le case in cui
non c'è mai silenzio, perché la radio vi strilla di continuo o il televisore le
invade con le sensazioni del mondo nelle ore in cui l'uomo dovrebbe stare
con se stesso.
Di più ancora: essere religiosi vuol dire stare in colloquio con Dio.
Dunque anzitutto parlarGli. Ma a che cosa in realtà si parla quando ci si
rivolge a Dio? Per lo più come a una nebbia, oppure semplicemente come
davanti a sè senza la consapevolezza d'un «Tu». Quando io parlo con una
persona umana, cerco con i miei occhi i suoi, prendo contatto con
l'espressione della sua faccia, in modo da avvertire che la mia parola arriva al
poi ad un ramo particolare. Il Papa avrebbe voluto che nei seminari non si
desse solo la scolastica, ma anche lo studio scientifico, la cultura del
professionista. Questa è l'idea del Papa. La scolastica non serve per andare
in treno. E così Pio XI ha voluto elevare agli onori gli altari l'enciclopedico
del secolo XIII, Alberto Magno. Nelle mie lezioni di arte ho dimostrato che
nel secolo XIII e XIV l'arte fu in corrispondenza con l'enciclopedia del
tempo; ed abbiamo i pregevolissimi I bassorilievi delle cattedrali di Francia.
E Dante nella Comedia riporta tutto lo scibile del suo tempo; neppure
possiamo dimenticare Giotto.
Don Bosco è umile e sorridente, ma quando lo guardate bene è un
colosso. Quando scrutando i suoi scritti in una sola opera trovate 8o libri di
bibliografia e libri grossi, c'è da strabiliare. La Chiesa ha attribuito a lui
l'esortazione di San Paolo: “De cetero, fratres, quaecumque sunt vera, quaecumque
pudica, quaecumque iusta, quaecumque sancta, quaecumque amabilia, quaecumque bonae
famae, si qua virtus, si qua laus disciplinae, haec cogitate” (In conclusione, fratelli,
tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è
virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Fil 4,8).
La Chiesa nella sua liturgia consacra la universalità di Don Bosco.
Secondo Don Bosco il salesiano deve sapere ogni ramo. 1l nostro lavoro
specifico di educatori fa si che lo studio abbia per noi uno scopo prati ed
utilitario. Nessuno di noi dovrebbe studiare nulla che non serva per qualche
scopo. Don Bosco lo vuole, lo raccomanda ai suoi chierici: per salvare
anime più che si può. Noi dobbiamo studiare per essere attrezzati ad ogni
sorta di bene.
E Don Bosco come ha fatto? Se dobbiamo autoeducarci al tipo di
Don Bosco, prendiamolo come esempio. In questo egli ci ha dato l'esempio
pia luminoso. Potrei portarvi cinque passi di. Pio XI per mostravi come il
Papa ha capito la scienza di Don Bosco. Se c'e una simpatia umana in Pio
XI per Don Bosco è per questo: per lo studio. Il Papa, topo di biblioteca,
capì che Don Bosco aveva buona stoffa di bibliotecario. Una gran parte
della cultura di Don Bosco è addirittura sconosciuta. Bisogna esaminare la
Storia ecclesiastica, la Storia sacra, la Vita; dei Papi, la Storia d’Italia. Don
Bosco fu il precursore di quella cultura generale e in qualche ramo
specializzata, di cui non tutti i sacerdoti hanno capito la necessita. 15 giorni
fa, discutendo amabilmente con uno, e trattandosi di vedere come ordinare
nei nostri studentati la Storia sacra e la Bibbia, dissi: leggete il tale volume
della vita di Don Bosco vedrete come egli pensava; non c'era bisogno di
decidere: Don Bosco ci aveva gia pensato.
Vi dico anche tutti gli studi che ha fatto Don Bosco. La teologia
dogmatica la dovette studiare con testi di seminario dove dal 1720 per legge
del principe Amedeo II s'imponeva lo studio di S. Tommaso. II Piemonte
era Tomista. La Scrittura la studiò da sé: lesse il Calmet. La Storia sacra l'ha
imparata sulla Bibbia, e lesse da sé le Antiquitates Iudaicae di Giuseppe
34
311
Si va affermando così un tipo d'uomo che non ha più un centro
vivo in sè.
I fatti della vita lo percorrono di continuo e lo sospingono sempre
più fuori. Egli si sente soffocare a starsene in camera sua; ha bisogno
sempre di uscire. Non riesce a farcela a stare solo; deve esserci sempre gente
a casa sua. Passare la sera tranquillo a leggere un libro gli sembrerebbe uno
spreco, perché lui deve sempre «intraprendere qualcosa». L'esortazione a
riflettere, faccia a faccia con se stesso, sulla propria vita – sugli incontri, le
azioni, le responsabilità, gli atteggiamenti interiori – lo mette a disagio; non
saprebbe neppure in che modo realizzare una simile riflessione, poiché,
dopo appena un istante di concentrazione, si sentirebbe sfuggire a se stesso.
A meno che le cose non stiano ancora peggio: che cioè egli non voglia più
nemmeno vedere se stesso.
La vita d'un uomo simile si esplica tutta in reazioni orientate verso
il mondo esterno. Egli non sta fermo in nessun luogo, ma viene proiettato
in ogni direzione da mille influssi. Egli non si possiede più, ma gli “capita”
d'essere da qualche parte. Non ha più convinzioni, bensì opinioni che gli
vengono sussurrate dai giornali e dalla radio. Non agisce più per intima
iniziativa, ma a seconda che lo sollecitino gli urti che gli arrivano da fuori.
Tutto ciò ha un suo particolare significato nella vita religiosa. In
che cosa sta il nucleo di ogni religiosità? Nella coscienza della realtà di Dio;
nell'essere consapevoli che Egli «è», ed è vivo in questo luogo, che agisce,
domina, guida.
Tale coscienza poi si approfondisce e si fa consapevolezza che Dio
soltanto è, in senso proprio e originario, reale per se stesso, e che ogni realtà
finita è reale soltanto «per mezzo di Lui» e «dinanzi a Lui»; che Egli soltanto
agisce in forma sovrana e creatrice, e che noi possiamo agire soltanto in Lui.
Religiosità significa condurre la propria vita sotto i suoi occhi.
Noi ci domandiamo e proponiamo questo quesito:
Quali sono le direzioni di Don Bosco in materia di studio?
Che cosa ha fatto Don Bosco nella materia di studio?
Come regolarci noi?
E’ un tema fatto proprio per studenti salesiani.. Don Bosco amò e
coltivò gli studi e lo studio. Bisogna distinguere perché corre differenza tra
studio e studi. Amò lo studio, vuol dire che ebbe piacere di studiare; amò gli
studi, invece, significa l'amore per questo o per quell' altro studio.
Egli volle che lo amassero anche i suoi chierici. Se vi è cosa cara
che Don Bosco ha raccomandato accanto alla formazione spirituale, è
l'amore allo studio. Nel 1849-1850, ricevettè e stipò nelle stanze
dell'Oratorio un buon numero di chierici del seminario che in quell' anno di
rivoluzione era stato chiuso, e li educò come fossero suoi. E li incoraggiava
agli studi. Ascanio Savio (vol.. III, 614616) dice che Don Bosco
raccomandava di mettersi in grado con una Santa vita e una buona scienza
teologica di salvare le anime più che si può). Ed è lo stesso pensiero di Pio
XI.
E non solo pensava alla scienza sacra, ma anche alle altre discipline.
Don Bosco voleva che i suoi salesiani per potere essere educatori più
completi ed i sacerdoti più buoni sapessero di tutto. Fu Don Bosco il primo
che mandò i suoi preti all' Università dello stato, benché i suoi coetanei, che
non capivano i tempi, lo criticassero (vol. VI,. 346). Il primo che lo imitò fu
Mons. Moreno, Vescovo di Ivrea, di modo che i suoi preti coi rispettivi titoli
poterono fare scuola ed avere in mano la gioventù. Purtroppo per molto
tempo fu l'unico imitatore di Don Bosco in questo campo.
Pio XI a questo proposito, tanto in quel discorso quanto nella sua
Enciclica. “Ad catholici sacerdotii”, ha una intimazione minacciosa. “Quia tu
scientiam repulisti, repellam to ne sacerdotio fungaris mihi” (Poiché tu rifiuti la
conoscenza, rifiuterò te come mio sacerdote. Os 4,6). Il Papa faceva tale
intimazione ai suoi chierici perché sapessero il valore dello studio per il
sacerdote. Vedete la intensità di pensiero di Don Bosco e di Pio XI, che
corrisponde a quello di S. Gregorio. A quelli della Crocetta il 6-VI-1929 il
Papa fece un discorso intorno allo studio della teologia e all'indirizzo dello
studio salesiano: “Niente teologia senza ascetica, e niente ascetica senza
teologia” (M.B. XIX, 161). Non devi darti ad una pietà cosi vaporosa che
non abbia fondamento nella teologia. Che cosa si deve studiare dal prete e
dal salesiano? Rispondono tutti e due, il Papa e Don Bosco: “Le scienze
sacre e la cultura umana”. Parole del Papa nella Enciclica “Ad catholici
sacerdotii”: insiste che prete sia rivestito di quel patrimonio di dottrina che è
comune ai dotti del suo tempo. Insiste che i chierici non si contentino di
quel lavoro forse bastava in altri tempi. Il Papa non vuole che il sacerdote
faccia la figura di un ignorante. II sacerdote deve avere un insieme di cultura
generale (quella del liceo può essere sufficiente) che gli permetta di dedicarsi
volto che mi sta dinanzi. E attraverso il volto a ciò che vi si esprime: allo
spirito che pensa; al cuore che sente; alla persona che là esiste. Leggendo nel
suo volto, io afferro le ripercussioni che vi si esprimono: afferro lui stesso.
Sul colloquio con Dio c'è nei Salmi quest'espressione: «Cercare il volto di
Dio», parlare a Dio in faccia. Ma quando avviene questo? Essere religiosi
significa: “cercare il volto di Dio”, vivere in rapporto al suo volto. Ciò si
fonda nel significato della creazione, secondo le parole di Agostino:
310
35
1.
2.
3.
“Per Te, o Dio, Tu ci hai fatti” (Confessioni 1, 1).
Ma tutto questo io posso, se a casa mia resto con me, padrone di
me stesso; se il mio spazio interno e aperto e se il mio interlocutore mi è
chiaro, chiaro per lo meno nel senso che io intendo davvero lui.
Nell'esteriorità in cui per lo più mi trovo, nella agitazione che mi sconvolge,
Dio viene per così dire cancellato. Le molte immagini delle cose, le molte
facce degli uomini fanno sì che il volto di Dio – questa realtà misteriosa nota
a chi ha rapporto con Lui – non possa farsi chiaro, ne possa pensarsi.
Fino a qui si ha però solo uno sporgersi, un proiettarsi dell'uomo,
non ancora un dialogo. Per il dialogo occorre anche la voce seconda, la voce
di Dio. Anzi – ciò dicendo noi rimettiamo finalmente l'idea in ordine –
questa voce è la prima. Giacche noi possiamo parlare a Dio solo quando
Egli prima ci fa parlare; possiamo rivolgere a Lui la parola solo se Egli la
sveglia in noi.
Ora come parla Dio in noi? E in che modo Egli ci da dà intendere
la sua parola e ci fa rispondere con la nostra? II parlare di Dio e il nostro
ascoltare e rispondere lo chiamiamo coscienza» (Gewissen). Con essa, si
presenta una situazione particolare, che suscita meraviglia. Di continuo noi
siamo colpiti dall'appello che «il bene» rivolge a noi, che rivolge a noi «il
giusto», ciò che è degno d'essere e che dev'essere. Questo bene è immenso e
insieme è semplicissimo. Di continuo c'è qualcosa che ci sollecita: «Fammi,
realizzami, introducimi nel mondo, affinché si formi il regno del bene!».
A ciò risponde una voce dal mio centro, la coscienza. Supponiamo
che essa risponda cosi: «Sì, lo voglio; ma in che modo lo devo fare?».
Consegue allora, diciamo così un silenzio, poiché il bene è infinito nel
contenuto quanto semplice nella forma, a tal punto che non può essere
semplicemente «fatto».
Ma allora si costituisce «la situazione»; si è già forse costituita e
aspetta. Con la situazione le cose così si configurano. Ininterrottamente il
flusso del tempo scorre accanto a me. Ma di continuo pure le cose, le
relazioni, gli accadimenti prendono figura: questa stanza, questa persona,
questo colloquio, questo dolore. E io di fronte.
In tale particolare figura il bene si qualifica per quello che ora e qui
si esige da me. Esso si volge a me, mi guarda, mi chiama: «Fa' questo, ora,
qui!» e la «coscienza» e la capacità di percepire l'appello, di comprenderlo e
di decidersi: «Si, lo voglio!».
Tutto quest'insieme può essere colto in forma puramente etica.
Allora significa la consapevolezza di stare sempre sotto l'obbligo morale e la
capacità di riconoscere via via il senso concreto di quest'obbligo dalle varie
situazioni. Ma il nucleo di tutto quest'insieme è costituito dal rapporto
religioso. Poiché “bene” è in fondo Dio, la sua santità; e l'esigenza di attuare
il bene nel mondo è la sua voce. Ma da me Egli domanda che io realizzi nel
mondo il regno del bene, il suo regno, là dove sto, di ora in ora, a partire
dalla situazione che via via di continuo nasce intorno a me per mezzo di Lui,
del suo agire e del suo potere, a opera della sua Provvidenza. La sensibilità
per questo continuo appello del bene; la capacità d'intendere l'ora come la
precisazione del suo comando e d'intendere i presupposti dati per la sua
attuazione; afferrarla, da una parte nella prontezza di una vera obbedienza e
dall'altra nella fiducia di poterla interpretare e di potersi decidere: tutto ciò è
possibile unicamente sulla base di un atteggiamento interiore fatto di
attenzione, di prontezza, di presenza in certo modo già attuata innanzi a
Dio, e questo è il “raccoglimento” Solo un uomo raccolto intende l'«ora»; se
essa ha un significato grande – massimo fu quello che il Nuovo Testamento
esprime con le parole:
“il tempo è compiuto” (Mc 1, 15);
oppure un senso più semplice, in modo che una decisione
importante cada come si conviene; oppure in senso normalissimo, il che
però vuol dire che ogni ora della vita ha la sua incidenza in vista del regno di
Dio. Tutto ciò è possibile unicamente in un atteggiamento interiore che
appunto si chiama raccoglimento.
Ma il nostro pensiero va avanti ancora. Tutta l'esistenza dell'uomo
si attua nel rapporto “io-tu” fra Dio e lui.
Le cose sono create dal comando di Dio: «Egli comandò ed esse
erano là», dice delle stelle il Salmo 146. E sussistono in forza di questo
comando che le tiene nella loro essenza e realtà. Ma per l'uomo non è così.
Il racconto della creazione esprime la maniera tutta speciale con cui l'uomo
fu creato con la mirabile immagine che raffigura Dio che si piega sul blocco
di terra plasmato in corpo umano e gli inspira l'elemento della vita. Si vuol
dire così che l'uomo sta nel rapporto creativo non come specie, ma come
singolo; e come singolo è da Dio inteso. Dio lo plasma inserito nel rapporto
“io-tu” verso di Lui stesso. In tal modo la vita dell'uomo si attua in un
O. Introduzione
0.1 Lo studio 106
« Ut perfectus sit homo Dei, ad omne opus bonum instructus ».
(Affinché l'uomo di Dio sia attrezzato ad ogni
sorta di bene).
« Attende tibi et doctrinae » (Curati di te stesso e della
dottrina).
L'opera a cui attendono i chierici studenti dev'essere secondo il
pensiero del Papa. Pio XI parlando ai suoi seminaristi a questo riguardo
diceva: « Questa opera è duplicata: a) Preparazione di intelligenza,b) e
preparazione della volontà. Due cose inscindibili e indispensabili sotto pena
di nullità di preparazione e di azione » (Oss. Rom., 17VI1933).
Don Rua nella circolare dell'8-X-1893 cita il detto di S. Francesco
di Sales che la scienza sacra e l'ottavo sacramento della gerarchia
ecclesiastica.
Pio XI insisteva sulla necessità essenziale e sulla reciproca
interferenza dei due fattori: scienza e pietà. “Lo studio senza pietà e una
vana e pericolosa, per quanto lodevole attività” . Si sente che il Papa vuole
parlare di scienza, ma non vuole far scappare la pietà. La virtù sacerdotale ha
bisogno della scienza perché sia virtù cosciente, che sa che cosa deve essere;
perché la pietà senza lo studio ben presto si riduce a poca cosa insufficiente
a tutto: pietà e studio devono formare una figura sola. S. Gregorio Magno
nei “Morali”, libro 1 pag. 32, dice: “Nulla est scientia si utilitatem pietàtis
non habeat, et valde inutilis est pietàs siscientiae discretione careat” (Non è
scienza quella che non si avvantaggia colla pietà, e perfettamente inutile e la
pietà se manca del discernimento della scienza).
Allora il Papa in quel discorso, dando ai suoi seminaristi una
medaglia di Don Bosco, commentava le sue parole coll'esempio del nostro
Santo. Lo presentava come modello di preparazione, di vita e d'attività
sacerdotale. Qui dopo solenni sentenze, profonde, che si possono citare
intorno alla sua vita interiore, viene a rilevare la vita intellettuale di Don
Bosco. “Sfuggi purtroppo a molti quella che fu la preparazione di studio di
quest' uomo, e sono moltissimi coloro i quali non hanno l'idea di quello che
Don Bosco diede allo studio: continuò per molto tempo a studiare
intensamente”. Portò le parole del Papa per dare autorità a ciò che dirò.
Potrei riferire mezza Enciclica « Ad catholici sacerdotii ».
106
36
309
CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 107-112.
Dimensione Intellettuale
308
continuo dialogo. Attraverso tutto ciò che gli accade, come pure attraverso
ogni ulteriore moto della sua vita, Dio gli parla.
L'atteggiamento religioso può essere addirittura definito nel senso
che l'uomo impara a condurre un simile dialogo. Nel senso che l'uomo
immette in questo dialogo tutto ciò che gli avviene e che fa; che lo intende e
lo realizza ordinandolo a Dio.
Ma come potrebbe essere possibile questo se l'uomo vive in
distrazione continua? Di continuo fuori di sé, stirato in ogni direzione dalle
impressioni che lo colpiscono? Egli può realizzare questa sua esistenza nel
dialogo senza dubbio solo se il centro in lui è vivo; se egli è attento, in
ascolto, e in un ascolto pronto all'azione, ossia “obbediente”. Realmente
l'uomo attua la forma fondamentale della sua esistenza soltanto a misura del
suo raccoglimento.
Quanto è stato detto circa il rapporto “io-tu” con Dio vale in
forma attenuata anche circa i rapporti con altri uomini.
Da qualche tempo si va affermando che la nostra vita poggia sulla
costante realizzazione del rapporto “io-tu” verso l'altro uomo. Ci si rende
conto che il grande pericolo di questa nostra epoca delle masse e delle
macchine, consiste nella codificazione dell’uomo. Ci rende attenti che l’atto
con cui si conosce un uomo si svolge in una maniera diversa da quella con
cui si conosce una cosa. Davanti ad una cosa io dico: “questa qua”; davanti
ad un uomo: “Tu là”. Così si rivela il significato di ciò che si chiama
“persona”: d’un essere situato nella sua libertà. Allon stesso modo che nel
rapporto “io-Tu” affiora il giusto comportamento nei riguardi dell’altro
uomo: il rispetto la fedeltà l’amore.
Ma questo è possibile soltanto in un certo raccoglimento. Il
dissipato si comporta con gli uomini come fossero cose. Egli le enumera; le
cataloga mediante slogans; le usa in vista di scopi e ne abusa. Solo quando si
costituisce quella vigilanza interiore tutta speciale, quella attenzione mirata
che chiamiamo raccoglimento, risulta possibile l'incontro con l'uomo in
quanto uomo. Ma il pericolo dell'evasione dai veri incontri umani, e perciò
la necessità di vedere in essi un compito del nostro tempo, crescono nella
misura in cui aumenta il numero degli abitanti della terra e nella misura in
cui, in connessione con ciò, la nostra vita viene in proporzione sempre
maggiore regolata dalle macchine, le quali trattano ciò che esse toccano
come cose.
Ma dobbiamo andare ancora oltre. Perfino l'opera dell'uomo –
diciamo con più cautela: l'opera umana di superiore livello – può essere
compresa unicamente nel raccoglimento. Come è possibile afferrare
un'opera d'arte nella sua essenza particolare se non in modo che si verifichi a
suo riguardo qualcosa che rifletta il rapporto “io-tu”? Come si distingue la
37
maniera con cui un vero intenditore penetra nell'intuizione dell'esperienza
artistica da quella con cui un mercante la degrada a valore commerciale?
Evidentemente sulla base di una dedizione verso l'opera, un rispetto che
solo nel raccoglimento si rende possibile.
Naturalmente ciò costa fatica. Basta osservare qualche volta come
la gente si comporta in una mostra d'arte o in una Sala di concerto. I più
non entrano nel rapporto genuino con l'opera, ma solo in un rapporto che la
“reifica”; lo si vede dal modo come essi molto in fretta assumono un
atteggiamento critico, confrontano e disistimano, il che penò vuol dire che
prendono l'opera d'arte come un oggetto.
Anche qui occorre dunque raccogliersi, e lo si vede dalla faccia di
chi guarda o di chi ode se è o non è disposto e capace di tanto. Anzi si
dovrebbe poter fare ancora un passo avanti e dire che anche la natura la
incontra correttamente soltanto colui che le va incontro da una sua intimità
in qualche modo raccolta. In che cosa infatti si distingue lo sguardo di un
uomo che afferra in un albero il mistero della vita vegetale legata al suo
luogo – un mistero che congiunge la profondità della terra, la vastità dello
spazio e l'altezza del cielo – dallo sguardo del tecnico forestale che osserva
l'albero in vista del taglio, o da quello del commerciante di legnami che ne
calcola il valore economico?
Il discorso si potrebbe radicalmente ripetere a proposito di
qualsiasi realtà naturale. E il pericolo massimo del nostro tempo, con il suo
turismo di massa e con le sue vacanze convertite in affare, consiste appunto
nella rarefazione progressiva di questo atteggiamento.
quanto uomo chiunque è in cammino verso la
maturità piena che vi è solo in Cristo Gesù.
Dialogo che sa utilizzare ogni mezzo, anche il meno
“clericale” per diffondere l’amore alla vita, la
chiamata di Dio per ogni uomo, il dono di una santità
condivisa ecc…
Oggi come per don Bosco è necessario coniugare
Dialogo con fermezza o certezza della verità.
Penso a Don Bosco, ed al suo epistolare. Il 90% della sua
corrispondenza è economica. Una economia di comunione come
diremmo oggi, un’economia di Dono, che lo portò a non avere
rispetto umano d’innanzi ad alcuno.
6.3 La congregazione salesiana oggi
6.3.1 Figure significative della vocazione religiosa
salesiana
Artemide Zatti – Coadiutore
Don Giuseppe Quadrio – Sacerdote formatore
Don Vincenzo Cimatti Missionario
Strumenti
Incontri formativi
Colloquio personale
Letture
Partecipazione alla preghiera comunitaria
Rileviamo un'altra volta il concetto esposto all’inizio di questa
riflessione. La virtù del raccoglimento significa che ci si è resi chiaro conto,
grazie all'indole, all'educazione e all'esperienza, che la vita oscilla fra
l'intimità della persona e l'esteriorità del mondo, fra il centro profondo e il
grande tutto. E che si è in qualche modo superata la dissipazione e si è vinta
l'esteriorizzazione di cui s'è detto, e si è in grado di far sì che il centro sia
libero e operante.
Tale compito ha indotto in ogni tempo uomini a fondare speciali e
rigorose regole di vita: quelle dell'anacoreta e del cenobita. Entrambi i
concetti intendono nell'etimologia la stessa cosa: cioè l'uomo risoluto a
trovare la realtà più vera e autentica; a tal punto risoluto da volere solo essa.
Perciò egli si sottrae a tutto il resto e si volge del tutto verso il «regno
interiore»: o come anacoreta, che vuol dire uno che anche esteriormente
vive in solitudine; oppure come cenobita, che vive insieme con gli altri,
tuttavia in una comunità la cui regola è fatta in modo da garantire il più
possibile una solitudine. Egli ritrae la sua attenzione, le sue inclinazioni, le
sue energie dal vasto mondo e le concentra nella propria intimità. Rivolge la
38
307
“Io per voi studio per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono
disposo anche a dare la vita”
“Sarei disposto a strisciare la lingua da Valdocco a Superga pur di
evitare un solo peccato mortale”
Questa è la sua passione per le anime, che sono dono di Dio e tutta
la sua vita
Coetera tolle: se le anime, dono di Dio riempiono tutta la sua vita,
sino a consumarla, allora Lui deve essere vuoto di tutto per lasciarsi riempire
da queste.
Toglimi tutto il resto…è il grido poi divenuto
Lavoro e temperanza salveranno la congregazione le agiatezze la
faranno morire
È lo slogan della sua poverà senza misura. Povertà radicale per sé
per essere dono totale per i suoi ragazzi di qualsiasi longitudine o altitudine.
Ansia che va a cercarli, che li accoglie nel punto dove sono che ama le cose
che loro amano perché essi amino quello che è bene per loro e che
l’educatore dona loro.
Le Figli di Maria Ausiliatrice, Monumento vivente a Maria, vivono
gli stessi tratti della spiritualità ma con la peculiarità del volto femminile. Mi
permetto solo di ricordare, le parole di Don Bosco nell’incontro con il
primo gruppo di ragazze, che a Mornese donarono la loro vita ponendola
nelle mani di d. Bosco:
“Procurate di vivere abitualemte alla presenza di Dio. Siate dolci, pazienti
amabili. Vegliate sulle ragazze, tenetele occupate, crescetele ad una vita semplice di
amicizia col Signore, schietta e spontanea”.105
1. Don Bosco fu uomo del suo tempo, incarnato nella sua storia. A
volte dei grandi santi della chiesa si è guardato ai Santi spirituali,
rimanendo affascinati da questi, mettendo in secondo piano i
santi in maniche di camicia. Don Bosco fu così prete “Laico” al
punto da poter da assumere la vera laicità portandola a Dio.
Dialogò con tutti ma con il coraggio di essere prete
sull’altare, in cortile, nei laboratorio, nelle case dei
principi e dei Signori.
Dialogò con la coscienza di dover anche difendere la
verità qundo veniva uccisa questa nella coscienza
delle persone, soprattutto quella dei suoi giovani.
Ecco dove si inserisce la vastissima opera di scrittore,
di giornalista, di difensore e diffusore dell’amore alla
chiesa ed al papato.
Dialogo che partiva dalla coscienza che egli era
sempre educatore, di chiunque incontrasse perché in
105
306
MB 10,592
sua attenzione sempre più intensamente su Dio che vive dentro di lui e si
abitua a stare dinanzi al suo volto e a udire la sua parola.
Questo noi non lo possiamo perché viviamo nel mondo e vi
abbiamo i nostri compiti; siamo vincolati agli altri in forme molteplici e ci
sappiamo a essi obbligati. Ma dobbiamo diventare familiari anche con il
nostro intimo, se non vogliamo appartenere alla folla dei “dissipati”. Tutto
ciò non si ottiene senza sforzo, senza serio e prolungato esercizio; senza
ascesi. Il termine – ne abbiamo gia parlato – indica in origine nient'altro che
“l'esercizio”. Ora esercizio significa svegliare un'energia che dorme;
sviluppare un organo atrofizzato; abolire una abitudine cattiva e formarne
una giusta, e via dicendo.
Per esempio, decido di non uscire anche se mi alletta, e rimango a
casa e cerco di rientrare in me per mezzo di un lavoro tranquillo, di un libro,
o anche per mezzo di una onesta riflessione su me stesso. E questo senza
artificiosità e senza commedia, ma seriamente e pulitamente. Se a casa mia
non c'è tranquillità, o se non ho una stanza tutta mia, allora entro in una
chiesa, mi siedo e sto solo con me stesso. Oppure: non permetto alla mia
radio di distruggermi la pace con il suo chiasso e fracasso, ma la chiudo.
Resisto all'impulso di accendere la televisione e di restare poi per delle ore in
sua balìa ma leggo qualcosa di ragionevole.
Stessa cosa con le riviste illustrate, questi coacervi di sensazione, di
indiscrezioni e di spudoratezza: mi vieto di lasciarmi possedere da esse
neppure per un quarto d'ora. Se vado per la strada tutte le eccitazioni del
mondo moderno mi bombardano, il traffico, chiasso, le persone, la
pubblicità, le vetrine.
Da ogni parte mi si chiama, mi si tira, mi si porta via da me. Un
bell'esercizio resistervi; non lasciarsi trascinare qua e là; restar calmi e con se
stessi – e via dicendo.
L'uomo – quello d'oggi più di tutti – vuole sempre andare, parlare,
sentire, fare tutto insieme con gli altri. Vuole sempre vedere qualcosa, che
accada qualcosa. Vuole tutto ciò fino alla mania, e se non ce l'ha, di viene
inquieto e corre a cercarselo. Chi ha capito quale prezioso bene sia il
raccoglimento, deve farsi superiore a tutto ciò; diciamo con più modestia,
deve sempre più cercare di farsene superiore. È realmente una mania; ed è
difficile vincere le manie, perché lo stimolo allora e penetrato nei nervi. Ci
vuol tempo prima che scompaia, è però possibile ridurlo ai limiti.
Ma nello stesso tempo si deve realizzare anche il lato positivo: il
rafforzarsi del mondo interiore, rientrare in possesso di se stessi,
l'indipendenza nascente da dentro. II lettore voglia non vedere in questo
nostro discorso una predica moralistica, ma voglia intenderlo
realisticamente, come un discorso di esperienza; come un segnavia per una
39
vita che vale la pena di vivere. Poiché la dissipazione, il continuo vivere
fuori, rende vuoti. Quando si cerca di rappresentarsi l'esito estremo d'un
simile disgregato modo di vivere, si può arrivare a pensare che la fine sarà
una noia disperata, interrotta da esplosioni di disperata impazienza. Dunque
bisogna ribellarsi all'esteriorizzazione per amore della vita, affinché essa
mantenga un suo significato.
Questo sarà possibile solo se mi sottopongo spesso a esame: Come
è passata questa giornata? Mi sono realmente controllato? O mi sono
lasciato soltanto incalzare dalle cose? La mia vita è forse tale da rendermi
incapace di rientrare in me stesso? E come è possibile cambiare? E domande
che siano serie; non con la sleale rassegnazione di chi si arrende perché in
fondo non vuole che le cose cambino.
E poi e soprattutto: cercare il volto di Dio. Realizzare quella che è
la verità fondamentale della mia esistenza: Dio è l'eternamente esistente, il
solo vivente assoluto. Egli è qui. Egli è «Colui che io invece sono grazie a
Lui; sono qui davanti a Lui; sono semplicemente perché Egli lo vuole.
Questo “Egli ed io… io davanti a lui… io grazie a Lui”; questo stare in
ascolto della sua parola; questo cercare e dire: “Tu, o Dio”- questo rende
viva e salda la mia interiorità.
Una simile interiorità è il contrappeso da opporre alla massa delle
cose, alla moltitudine delle persone e all'agitazione degli eventi esterni; da
opporre alla pubblicità, alla moda e alla reclame. Essa è anche – dopo mezzo
secolo di tristi esperienze noi dobbiamo sottolinearlo – l'unico contrappeso
reale da opporre alla potenza dello Stato. Dello Stato moderno,
razionalizzato, tecnicizzato, il quale è sempre in procinto di diventare uno
Stato di massa e come tale totalitario, il quale per dominare l'uomo non
potrà che cercare di strappargli il suo «io», la sua interiorità.
La Rivelazione ci dice che l'uomo è immagine di Dio. Ne segue che
Dio è il modello originario dell'uomo, e quindi partendo dall'uomo ci si apre
una via del tutto logica verso Dio. Possiamo allora di conseguenza dire che
Egli è, nella più perfetta delle forme, raccolto: del tutto unito; del tutto
intimo a Se stesso; che del tutto compenetra Se stesso con la sua vita, con il
suo sentimento, con la sua conoscenza.
Nella storia della metafisica occidentale c'è un tentativo di
approssimazione all'essenza dello spirito che dice: un essere e tanto più
elevato di rango quanto esso è ricco e, nel contempo, semplice. Lo spirito è
semplice in senso decisivo, non potendo essere ridotto in parti; ma esso si
articola con i suoi atti diversi e successivi nella successione del tempo; con
le sue relazioni al corpo di cui è l'anima e alle cose a cui si volge.
40
Sì che lo vedo – rispose don Bosco
Ebbene ti ricordi del Sogno che hai fatto a 9 anni?…
Poi fatti venire i giovani con don Bosco, aggiunse
Guarda ora da questa parte, spingi il tuo sguardo e spingetelo pure voi, e vedete
cosa sta scritto…ebbene cosa vedi?
Vedo montagne, poi mari, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari
Leggo – dice un ragazzo - : Valparaiso
Io leggo – diceva un altro - : Santiago
Io, esclamava un terzo, li leggo tutti e due.
Ebbene – continua la pastorella – parti ora da quel punto e avrai una norma
di quanto i Salesiani dovranno fare in avvenire. Volgiti ora da quest’altra parte, tira una
linea visuale e guarda.
Vedo montagne, colline, mari.
E i giovani aguzzarono lo sguardo ed esclamarono in coro:
Leggiamo Pechino
Allora don Bosco vide una grande città, attraversata da un largo fiume, sul
quale erano gettati alcuni grandi ponti.
Bene – disse la Pastorella – Ora tira una sola linea da una estremità all’altra,
da Santiago a Pechino, fanne un centro nel mezzo dell’Africa e avri un’idea esatta di
quanto debbono fare i salesiani.
Ma come fare tutto questo? – esclamò Don Bosco – Le distanze sono immense,
i luoghi difficili e i salesiani pochi.
Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli, e dei figli loro.
Ma si tenga fermo nell’osservanza della Regola e nello Spirito della Congregazione.
Ma dove prendere tanta gente?
Vieni qui e guarda. Vedi là cinquanta Missionari in pronto? Più in là ne vedi
altri e altri ancora? Tira una linea da Santiago al centro dell’Africa. Che casa vedi?
Leggo dieci centri di stazione
Ebbene, questi centri che vedi formeranno case di studio e noviziato e darnno
moltitudini di Missionari, al fine di provvedere queste contrade. E ora volgiti da
quest’altra parte. Qui vedi dieci altri centri dal mezzo dell’Africa fino a Pechino. E
anche questi centri somministreranno Missionari a tutte queste altre contrade. Là c’è
Hong Kong, là Calcutta più in là Madagascar… 104
6.2.7 Da mihi animas caetera tolle
Il cuore della spiritualità di don Bosco è sintetizzato nel cartello
posto da Lui steso fuori dal suo ufficio
Dammi le anime: è essenzialmente una preghiera, Lui è il
destinatario, le anime sono sue, non sono proprietà di nessuno. Io le prendo
su di me, io le guiderò a nome Tuo, io vivrò passionalmente per loro.
104 MB
305
XVIII, 71
-
-
No, no, ripigliò il Santo, voglio dire che la Madonna è proprio
qui, in questa casa ed è contenta di voi e che se continuato con
lo spirito di ora, che è quello desiderato dalla Madonna …
Il buon Padre s’inteneriva più di prima e don Bonetti a
prendere un’altra volta la parola: - Sì, così, così. Don Bosco
vuol dirvi che , se sarete sempre buone, la Madonna sarà
contenta di voi.
Ma no, ma no, si sforzava di spiegare don Bosco, cercando di
dominare la propria commozione. Voglio dire che la Madonna
è veramente qui, qui in mezzo a voi. La Madonna passeggia
in questa casa e la copre con il suo manto. 103
Lo spirito supremo, Dio, è del tutto semplice. Egli possiede la
pienezza della vita nella pura semplicità dell'essere. Egli è del tutto raccolto,
a Sé identico, e perciò del tutto padrone di Sè e beato.
a.
6.2.6 Le missioni
La missionarietà è come il vertice di quella carità pastorale di cui
abbiamo parlato all’inizio, che caratterizzò San Paolo, Francesco di Sales,
Filippo Neri, Teresina di Gesù, e che don Bosco portò nel cuore sino a
sognare di divenire Lui stesso missionario fra le genti perché “nessuno si
perda di coloro che il Padre gli ha affidato” e ancora secondo il Vangelo di
Giovanni “vi sono altre pecore che non sono di quest’ovile, anch’esse io
devo condurre, perché diventino un solo gregge sotto un solo pastore”.
Questo fu il sogno di don Bosco.
Sogno e sogni che caratterizzarono la sua vita. Penso al sogno della
Patagonia ed al sogno della Cina.
La nostra opera di Evangelizzazione ha i caratteri della pedagogia
salesiana, che con paziente inculturazione fonda con la crescita umana la
comunità dei credenti in Cristo.
Nella notte dal 9 – al 10 aprile 1886, sognò di trovarsi sopra un poggio, dalla
cui vetta scorgeva una selva, ma coltivata e percorsa da vie e da sentieri. Di là volse
intorno lo sguardo e lo spinse in fondo all’orizzonte; ma prima dell’occhio, fu colpito il suo
orecchio dallo schimazzo di una turba innumerevole di ragazzi. Per quanto facesse per
scorgere donde venisse quel rumore, non vedeva nulla. Finalmente vide un’immensa
quantità di giovani che, correndo intorno a Lui, gli andavano dicendo:
Ti abbiamo aspettato, Ti abbiamo aspettato tanto, ma finalmente ci sei; sei tra
noi e non ci sfuggirai!
Don Bosco non capiva e pensava che cosa volessero da Lui qui ragazzi; ma
mentre stava contemplandoli come attonito, vide un’immenso gregge di agnelli guidati da
una Pecorella, la quale, separati i giovani, e le pecore, e messi gli uni da una parte e le
altre dall’altra, si fermò accanto a don Bosco e gli disse:
Vedi quanto ti stà innanzi?
103 MB
304
XVII, 557
41
Comportamenti: dobbiamo fare attenzione alla
condotta, all’immediatamente visibile e percepibile, alle
ripetizioni, alle abitudini, percependo dove vi è il
divario fra ideale e reale.
Per il cammino di interiorizzazione
tale?
Quali sono i tuoi gusti?
Cosa ti fa godere e cosa ti fa soffrire?
Come reagisci di fronte agli insuccessi o successi?
Quali sono state fino ad ora le tue crisi, o quelle che hai reputato
Quali rapporti sono i rapporti positivi e perché? E quali fastidiosi o
insignificanti?
Registra le reazioni istintive… magari nella dinamica dello scherzo,
gli automatismi e le concessioni.
Dove vi è incoerenza fra valore proclamato e vissuto li dobbiamo scrutare con
diligenza perché luogo rivelativi…
felice
la sua sollecitudine per i bisognosi,
che fa il primo passo nei confronti della cugina Elisabetta,
per la sua fedeltà nell’ora della prova
per la sua gioia nel mattino di risurrezione.
Maria è segno di ogni confidenza che si realizza in una meta
È l’aiuto per chi intraprende una navigazione, come quella
della vita, non sempre, tranquilla
Don Bosco sperimento questo aiuto e questa presenza:
Tutto ha fatto Lei
Sintetico è l’episodio del colera e la protezione di Maria:
“Una sera, udendo come tutti parlavano del male, che faceva strage in
Torino e qui d’attorno a noi, ci esortò a sperare nella Madonna, in questa
maniera: “Se voi, o miei cari, mi promettete di non commettere volontariamente
alcun peccato, credo di potervi assicurare, che nessuno di voi sarà colpito dal
colera” [...] Il colera, infatti, colpì con violenza anche sua madre. Avvisato, lasciò
tutto e corse a casa. La trovò gravissima. Tornò in fretta in Oratorio, e supplicò
Don Bosco che venisse a confessarla e benedirla. Abitava davanti alla chiesa
della Consolata. Don Bosco, passando davanti alla colonna dell’Immacolata
posta sulla piazza, l’additò a Batista e gli disse: “Essa guarirà senz’altro tua
mamma se le prometti di consacrare la tua vita, quando sarai prete, a farla
conoscere e farla amare”. Francesia accettò il patto. Salirono nella stanza
dell’ammalata. Don Bosco la confessò e la confortò. Poi venne il medico, e come
unica cura cavò sangue cinque o sei volte dalle vene di quella povera donna.
“Nonostante la cura”, la mamma di Batistan guarì e visse ancora per 21 anni.
Tra i 44 volontari dell’Oratorio, nessuno fu toccato dal colera. Un risultato ai
limiti del prodigioso.”
Ulteriormente la coscienza della Sua presenza costante:
A Nizza Monferrato la sera del 23 Agosto1885, don Bosco ormai
cadente e senza un filo di voce, con il suo segretario incontra le suore del Capitolo
generale e entrando nel parlatorio: disse:
-
-
42
303
Oh dunque voi volete che io vi dica qualcosa. Se potessi
parlare, quante cose vi vorrei dire! Ma sono vecchio, vecchio
cadente, come vedete; stento persino a parlare. Voglio dirvi solo
che la Madonna vi vuole molto, molto bene. E sapete, essa si
trova qui in mezzo a voi!
Allora don Bonetti, vedendolo commosso, lo interruppe e prese
a dire, unicamente per distrarlo: - Sì, così, così. Don Bosco
vuol dire che la Madonna è vostra Madre e che essa vi guarda
e vi protegge.
sua infanzia è stata segnata da sua madre, donna umile e forte che
indicava il cielo. Questa ha affidato il suo Giovannino alla Mamma
del cielo, invitandolo ad invocarla tre volte al giorno facendo
memoria del mistero dell’incarnazione con la preghiera dell’Angelus.
Sin da quel sogno dei nove anni don Bosco incontra Maria
come aiuto, lui stesso la ricorda così, quando obbietta all’uomo dalle
vesti bianche che lui è un povero ragazzo e che non sa come guidare
quei monelli:
-
Io ti darò la maestra. Sotto la sua guida si diventa sapienti,
ma senza di lei anche chi è sapiente diventa un povero
ignorante.- Ma chi siete voi?
Io sono il figlio di colei che tua madre ti insegnò a salutare tre
volte al giorno.
La mamma mi dice sempre di non stare con quelli che non
conosco, senza il suo permesso. Perciò ditemi il vostro nome.
Il mio nome domandalo a mia madre.
In quel momento ho visto vicino a lui una donna maestosa,
vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in
ogni punto ci fosse una stella luminosissima. Vedendomi
sempre più confuso, mi fece cenno di andarle vicino, mi prese
con bontà per mano e mi disse:
Guarda.
Guardai, e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi.
Al loro posto c’era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi
e parecchi altri animali. La donna maestosa mi disse:
- Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Cresci umile, forte
e robusto, e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu
lo dovrai fare per i miei figli.
Guardai ancora, ed ecco che al posto di animali feroci
comparvero altrettanti agnelli mansueti, che saltellavano,
correvano, belavano, facevano festa attorno a quell’uomo e a
quella signora.
A quel punto, nel sogno, mi misi a piangere. Dissi a quella
signora che non capivo tutte quelle cose. Allora mi pose una
mano sul capo e mi disse:
- A suo tempo, tutto comprenderai.
Maria aiuta Giovanni nel suo cammino di educatore, come
guida ma anche come modello.
Così per ciascun giovane Maria è il modello di ogni uomo e
donna di ogni discepolo e discepola riuscita in pienezza. Essa è
modello per la sua
fede forte,
302
b.
atteggiamenti: predisposizioni ad agire, frutto di
sedimentazione e memorizzazioni passate che
incidono incoscientemente su criteri di giudizio, di
scelta, simpatie o antipatie, nervosismi ecc…
la coscienza ha una sua storia o preistoria, prodotto di un laborioso e
misterioso processo che ha avuto luogo dentro di noi a volte anche a nostra insaputa chi cui
avvertiamo solo il risultato o le conseguenze. Essi toccano le aree strategiche dell’agire.
c.
sentimenti: ciò che si prova dentro in alcune
circostanze… (affronto, emarginazione….in rapporto
con l’esterno… luogo rivelatore dell’io).
d.
motivazioni: ciò che spinge realmente ad agire.
Fattore dinamico direzionale che attiva l’agire,
43
Per il cammino di interiorizzazione
Quali sono i miei desideri?
Quali sono le cose per cui sono disposto a fare fatica?
Quali sono le cose che mi lasciano freddo?
Quali sono le cose che nella nostra società mi provocano
maggiormente?
compiere, forza di Dio per percorrere le Sue vie,
luogo in cui l’ottimismo si rinnova perché incentrato
più sulla misericordia che sulla paura del castigo,
dona la gioia del perdono del Padre, ricostruisce e
rinsalda la comunione, purifica le intenzioni, rinnova
energie di cammino ecc…
In chiave pedagogica allora Eucaristia e riconciliazione sono
inscindibili, una pedagogia non umana ma divina che trova nel sono
delle due colonne, un tracciato di crescita sicura in un contesto che
don Bosco non aveva paura di definire un contesto di lotta:
Figuratevi di essere con me sulla spiaggia del mare, o meglio sopra uno
scoglio isolato, e di non vedere attorno a voi altro che mare. In tutta quella vasta
superficie di acqua si vede una moltitudine innumerevole di navi ordinate a
battaglia…, armate di cannoni e cariche di fucili, di armi di ogni genere, di
materiale incendiario ed anche di libri. Esse si avanzano contro una nave molto
più grande e alta di tutte, tentando di urtarla…il vento è contrario e il mare
agitato sembra favorire i nemici. In mezzo all’immensa distesa del mare si
elevano dalle onde due robuste colonne, poco distanti l’una dall’altra. Sopra di
una vi è la statua della Vergine Immacolata,, ai suoi piedi pende una largo
cartello con questa iscrizione: “Auxilium Christianorum”; sull’altra, sta
un’Ostia…e sotto un altro cartello con le parole “Salus Credentium”. Il
comandante supremo della grande nave, che è il Romano Pontefice, vedendo il
furore dei nemici e il mal partito nel quale si trovano i suoi fedeli, convoca intorno
a sé i piloti delle navi secondarie…il papa sta al timone e tutti i suoi sforzi sono
diretti a portare la nave in mezzo alle due colonne.
Il combattimento si fa sempre più accanito; ma inutili riescono gli
sforzi della flotta nemica: la grande nave procede sicura e franca nel suo cammino.
Avviene talvolta che, percossa da formidabili colpi, riporta nei suoi fianchi larga
e profonda fessura, ma subito spira un soffio dalle due colonne e le falle si
rinchiudono e le ferite si otturano…
Il papa, superando ogni ostacolo, guida la nave in mezzo alle due
colonne, quindi con una catenella che pende dalla prora, le lega a un’ancora della
colonna su cui vi è l’Ostia ed un’altra a quella su cui è collocata la Vergine
Immacolata. Allora succede un gran rivolgimento: tutte le navi nemiche fuggono,
si disperdono, si urtano, si fracassano a vicenda. 102
6.2.5 I sacramenti
Nel cammino educativo compiuto da don Bosco con i suoi
ragazzi don Bosco fa esperienza della maternità potente di Maria. La
44
102 MB
301
VII,169
affinchè il male non domini la loro fragilità. Questa presenza ci apre alla
conoscenza vitale del mondo giovanile e alla solidarietà con tutti gli aspetti
autentici del suo dinamismo.
e.
Per il cammino di interiorizzazione
Quanto la mia fede orienta e cambia il mio agire?
Dove ho sperimentato questa incidenza che trasforma?
Quali sono invece gli ambiti che vanno parallelamente per al
6.2.4 I sacramenti
In questa prospettiva pedagogica i sacramenti dell’Eucaristia e della
riconciliazione sono “riletti” in chiave pedagogica non tanto per i
“degni” e per i “perfetti” ma per l’homo viator, come sostegno del e
nel cammino di crescita.
da qui l’insistenza di don Bosco per la comunione
frequente contro il costume anche fra i seminaristi
dell’Eucaristia solo in momenti particolari. La sua
esperienza da seminarista ne è una prova:
La vita religiosa era molto accurata. Ogni mattina la Messa era
accompagnata dalla meditazione e dal rosario. A mensa stavamo in silenzio: si
ascoltava la lettura della “storia Ecclesiastica” del Bercastel. Confessione ogni
quindici giorni. Chi voleva, poteva accostarsi alla confessione ogni Sabato.
La Santa Comunione si poteva ricevere solo alla Domenica e alle altre
feste. Se qualcuno voleva nutrirsi dell’Eucarestia durante la settimana, doveva
compiere una disubbidienza. Mentre gli altri scendevano per la colazione, entrava
furtivamente nella chiesa di San Filippo. Ricevuta la Comunione, poteva
raggiungere gli altri mentre entravano a scuola o nella stanza di studio. Questa
manovra era proibita dal regolamento. Ma i superiori, che vedevano benissimo ciò
che capitava, non dicevano niente. Tacitamente approvavano.
Usando questo strano sistema, ho potuto fare la comunione moltissime
volte. E posso dire che essa fu il più efficace nutrimento della mia vocazione.
vangelo?
Questo particolare della vita seminaristica, che considero negativo, è
stato ora cancellato dall’arcivescovo Gastaldi. I chierici, se si sentono preparati,
possono ricevere l’Eucaristia tutti i giorni. (MO, 75)
-
-
300
opzioni di fondo: radice, tesoro e cuore
Eucaristia che non è solo partecipazione alla
celebrazione ma è visita alla presenza reale di Gesù
che ci ricorda un camminare con noi (Lc 24), un
rinnovo costante delle motivazioni del nostro agire,
un diffondere nella giornata il dono della sua
amicizia.
In questa linea si colloca la celebrazione del
Sacramento della riconciliazione, sacramento
pedagogico per eccellenza: luogo della verità,
incontro con il modello esclusivo, sintesi dei doni
attesi dall’uomo, rinnovo per un cammino ancora da
45
Non si tratta di vivere una costante auto analisi ma assumere
gradualmente una attenzione a se stessi…coscientizzando per che cosa o per
chi sto agendo
E questo lo si compie con una apertura sempre più ampia e
vagliata agli apporti che possono venire da dentro, da un formatore, da una
comunità , dal mondo, distanziandosi da ogni risentimento ma anzi
riconoscendo in tutto ciò che gli assomiglia il luogo dove porre passi di
crescita.
Queste sono frutti di INCONSISTENZE che creano:
spaccature (nervosismo, tensione nei rapporti, perdita interesse,
difficoltà di realizzazione…)
squilibrio di uso delle energie vitali attribuendo ad alcune cose
troppa o troppo poca attenzione… (essere benvoluto…)
proiettando una luce diversa sulle relazioni con Dio e gli altri
divenendo perdita di libertà…
essendo inconscia e solo visibile nelle conseguenze ( senso di
fallimento e impotenza che invade tutto)
automatismo non scelto che mette in atto primariamente difesa,
negazione, proiezione e razzionalizzazione
dura morire il passo grande è riconoscere la responsabilità
individuale
Per SUPERARLA è necessario allora:
che non significa cancellarla ma ristabilire unità interna
convertendo dinamismo centrifugo in centripeto: Dall’IO  a DIO
attraverso:
- atteggiamento di responsabilità
sulle proprie inconsistenze:
coraggio di ammetterle con precisione e confronto quotidiano
(negarle è subirle, scaricarle su altri è lanciare un boomerang,
giustificarle o razionalizzarle o peggio nasconderla è suicidarsi a
lungo termine)
- rinuncia intelligente: sapere dire dei piccoli no significa staccare
dipendenza da inconsistenze
- Approdo alla libertà: dai no al distacco graduale dall’affetto nei
confronti dei bisogni amando ciò che è chiamato ad essere.
- Far girare la vita attorno al centro: ecco il credente, questo uifica
anche nelle cadute che non sono viste se non nella prospettiva
della gradualità del cammino. No impeccabilità ma lavoro umile e
lento di presa di coscienza e possesso di sé.
46
6.2.2 Il quotidiano
Da quanto detto è conseguente che la Spiritualità salesiana è
essenzialmente una spiritualità del quotidiano quale:
una spiritualità semplice – secondo lo stile teresiano –
santa giovane
una spiritualità non degli intervalli ma continua:
cogliendo l’origine, il fine e la presenza di Dio in ogni
azione, sentendo la necessità di pregare Dio senza
sosta, in un dialogo semplice e cordiale con Cristo
vivo e compiendo tutto per amore.
Una spiritualità che non esclude nulla di buono ma
eleva ogni realtà. Don Viganò amava parlare
giustamente di liturgia della vita invocando per ogni
componente della Famiglia salesiana la “grazia
dell’unità”, quale dono in cui tutto in Dio è
armonizzato, senza schizzofrenie, senza divisioni nè
lacerazioni alcune. È la dimensione contemp-attiva
della vita salesiana. Ecco la centralità del cortile, del
laboratorio, della scuola nella nostra spiritualità.
Di don Bosco si diceva “viveva come se vedesse
l’invisibile”
6.2.3 L’educazione
Il sistema Preventivo di don Bosco è racchiuso nella triade di:
ragione – religione – amorevolezza.
Cost. 38. [Per compiere il nostro servizio educativo e pastorale, Don
Bosco ci ha tramandato il Sistema Preventivo.] “Questo sistema si appoggia tutto
sopra la ragione, la religione e sopra l’amorevolezza”: fa appello non alle
costrizioni, ma alle risorse dell’intelligenza, del cuore e del desiderio di Dio, che
ogni uomo porta nel profondo di se stesso. Associa in un’unica esperienza di vita
educatori e giovani in un clima di famiglia, di fiducia e di dialogo. Imitando la
pazienza di Dio, incontriamo i giovani al punto in cui si trova la loro libertà. Li
accompagniamo perchè maturino solide convinzioni e siano progressivamente
responsabili nel deliacto processo di crescita della loro umanità nella fede.
Cost. 39. La pratica del Sistema Preventivo esige da noi un
atteggiamento di fondo: la simpatia e la volontà di contatto con i giovani. “Qui
con voi mi trovo bene, è proprio la mia vita stare con voi”. Stiamo fraternamente
in mezzo ai giovani con una presenza attiva e amichevole che favorisce ogni loro
iniziativa per crescere nel bene e li incoraggia a liberarsi da ogni schiavitù,
299
Cercai di farli tacere usando pugni e parole. In quel momento apparve un uomo
maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La
sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Egli mi chiamò per nome
e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi.Aggiunse:- Dovrai farteli amici
con bontà e carità, non picchiandoli. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa
cattiva, e che l’amicizia con il Signore è un bene prezioso. Confuso e spaventato
risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante, che non ero capace a parlare di
religione a quei monelli.In quel momento i ragazzi cessarono le risse, gli
schiamazzi e le bestemmie, e si raccolsero tutti intorno a colui che parlava.
C. Una santità per tutti, da proporre a tutti, feriale, senza
eccezionalità:
“noi facciamo consistere la santità nelle stare molto allegri”
tanto che a Domenico Savio proibisce ogni tipo di penitenza ed ogni
eccezionalità di percorso spirituale
Filippo Neri è il secondo ispiratore dell’opera e dello Spirito del
santo dei giovani. Due dimensioni sono emergenti:
- L’oratorio: come
Casa che accoglie,
parrocchia che evangelizza
scuola che avvia alla vita
e cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria
- La Gioia: è il secondo input preso da s. Filippo che innesca una
catena di modalità di accostarsi alla vita che sono:
- la fiducia costante nella provvidenza, per la quale
regna il “non temere” di Gesù o il “Nulla ti
Turbi” di S. Teresa la grande
- l’ottimismo nella lettura degli eventi e della vita
- la positività nel guardare e nell’accostarsi ad ogni
giovane nel quale avvi sempre un punto
accessibile
al
bene
perché
ispirandosi
all’umanesimo di S. Francesco e di s. Filippo , don
Bosco credette alla risorse umane e sovrannaturali
dell’uomo, pur non ignorandone le debolezze
- lo stile di libertà e di famigliarità che apre alla
confidenza
- il clima di festa quale via ed anticipazione del
Paradiso. Don Bosco visse nella letizia
diffondendo gioia ed educando ad essa
298
2.2 Il silenzio 11
La vita dell’uomo si svolge fra il silenzio e la parola; fra il tacere e il
parlare. Sono poli affini a quelli considerati nella meditazione del
raccoglimento.
Si vuol dire che la parola è “spirituale”; ma questo non è esatto;
essa è umana. In essa quella unità di materia e spirito che si chiama “uomo”
raggiunge il suo massimo affinamento.
Nel suono formato dal fiato fatto vibrare nella gola e nel petto, chi
parla esprime ciò che egli interiormente intende.
Prima egli ha il proprio pensiero dentro di sé, lo pensa, lo sente.
Ma è nascosto. Poi egli lo traduce in un quid composto di suoni e rumori, è
così si rivela a chi ascolta. Costui capisce ciò che intende chi parla, può
rispondere, e si sviluppa in tal modo il dialogo. Tutto ciò e meraviglioso, è
un grande mistero. Chi arrivasse a capirlo, avrebbe capito l’uomo.
E non lasciamoci frastornare da banali teorie naturalistiche, le quali
vorrebbero derivare la parola dai suoni espressivi dell’animale. I suoni
animali possono esprimere quanto vogliono la paura o il dolore o la
seduzione o altro: con tutto questo essi non sono ancora parole.
La parola nasce solo quando la struttura sonora comunica un
significato che è stato prima pensato, una verità. Di questo però soltanto
l’uomo è capace, perché soltanto in lui c’è lo spirito personale. Quando un
animale che vive con l’uomo sembra che faccia la stessa cosa, è un’illusione.
Quello che l’animale ci fa sentire non è una comunicazione, ma un’
”espressione”, anche se a volte assai complessa. L’atto di inserire nelle
vibrazioni di un suono, una verità della vita, della scienza o della religione, lo
può soltanto l’uomo.
La parola è una delle forme fondamentali della vita umana; l’altra
forma è il silenzio, ed è un mistero altrettanto grande. Silenzio non vuol dire
soltanto che non si dice una parola o non si estrinseca un suono questo
soltanto non è silenzio; anche l’animale è capace di tanto, e più ancora lo è
un sasso. Silenzio è invece quello che si verifica quando l’uomo, dopo aver
parlato ritorna in se stesso e tace. Oppure quando egli, potendo parlare,
rimane zitto. Tacere può soltanto chi può parlare. Nel fatto che colui che
parlando sarebbe “uscito fuori”, resta nel proprio riserbo interiore, in ciò
consiste il silenzio: un silenzio che sa, che sente, che vibra di vita in se
stesso.
11 GUARDINI R., Virtù. Temi e prospettive della vita morale. Morcelliana,
Brescia 20014, pp. 181-208.
47
Le due cose ne fanno una sola. Parlare significativamente può
soltanto colui che può tacere, altrimenti sono chiacchiere; tacere
significativamente può soltanto colui che può anche parlare, altrimenti è un
muto. In tutti e due questi misteri vive l’uomo; la loro unità esprime la sua
esistenza.
Ora, essere padroni del proprio silenzio è una virtù; su di essa
vogliamo riflettere.
Chi non sa tacere, fa della sua vita ciò che farebbe chi volesse
espirare e non inspirare. Solo a pensarci ci viene l’angoscia. L’umanità di chi
non tace mai, si dissolve. Parlando, ripetiamolo, l’intimo dell’uomo viene
fuori. Ciò che io sento, penso, progetto, lo so anzitutto solo io; non appena
lo traduco nella parola, si fa manifesto, si colloca nello spazio tra me che
parlo e chi mi ascolta. In tal modo io dono, a chi ascolta, di partecipare a ciò
che posseggo intimamente. Più di un conflitto si risolve nel semplice fatto
che la parola lo porta fuori, all’aperto. Ma esistono esperienze di genere
contrario. Quando uno ha compiuto un’azione generosa o delicata, sa
benissimo che se la dicesse si guasterebbe. E allora egli la copre con il
silenzio e là essa resta con lui. E se un giorno in un’ora oscura egli dovesse
dubitare del senso della vita, allora quell’azione riaffiora in lui a giustificargli
l’esistenza.
Parlando, realizziamo la comunione tra noi. Quando due persone
scambiano le loro idee circa una questione, le parole vanno e vengono tra i
due: domanda e risposta, affermazione e obiezione, si avanza in chiarezza, si
scende in profondità, finchè arriva il momento in cui entrambi sanno: la
cosa sta così! Allora essi hanno comunione nella verità: un meraviglioso
modo di essere insieme.
Ma ci sono anche ore in cui la comunione non si vuole; in cui la
verità contemplata interiormente non ha bisogno dell’altro. Per esempio una
persona entra in una chiesa, ossia in un edificio in cui la presenza di Dio si
rende sensibile e vi si siede. Sente le colonne che ascendono tutte intorno, lo
spazio che lo cinge, vede le opere sacre, e in Lui si fa silenzio. Ciò di cuiegli
ha allora interiore esperienza non appartiene alle parole. Chi cercasse allora
di dire parole ne avrebbe detrimento.
Parlando, l’uomo entra nella storia. Ecco, per esempio, una
situazione in cui qualcosa deve essere deciso e l’uomo si domanda: Deve
avvenire questo oppure quello? Se poi egli si decide e lo dice: Io la penso
così e così, si ha allora storia. Giacché la parola ha peso, l’’uomo deve
garantire per essa. La parola è una potenza; il nesso di causa ed effetto entra
in atto, ed egli stesso ne viene afferrato.
Ma se egli non vuole entrare nella storia, allora tace e si ritira nel
suo riserbo.
48
Il “da mihi animas” sia una invocazione rivolta a Dio; la passione
pastorale si fonda infatti su una solida vita spirituale, che fa riferimento a
Dio Padre di tutti, a Gesù Buon Pastore, allo Spirito Animatore. Il servizio
pastorale è espressione di un amore “più grande”; il ministero si fonda sulla
sequela; l’apostolo Pietro può pascere gli agnelli del gregge di Cristo, perchè
ama il Signore Gesù più degli altri.
Il frutto carismatico della passione pastorale è la presenza tra i
giovani e tra la gente; lasciamo tutto ciò che ci allontana dai giovani! La
nostra presenza sia cordiale, aperta, accogliente, amorevole; essa sia costante
e continua; la presenza tra i giovani sia animatrice e propositiva; sia vigile e
preveniente. Questa è l’”assistenza salesiana”, che è un vivere insieme, un
comunicare, un proporre la fede”.100
In questo ancora una volta don Bosco ci è maestro:
Combal, professore all’università di Montpellier e vera celebrità medita, fu
chiamato al letto dell’infermo don Bosco, quando questi era in viaggio a Marsiglia. Il
dottore esaminò con attenzione don Bosco. Per più di un’ora lo interrogò, stette alquanto
a pensare e non diceva nulla.
Ebbene? Interrogò don Bosco
Lei, rispose il medico, ha consumato la vita con troppo lavoro. È un’abito
logoro, perché sempre indossato i giorni festivi, e i giorni feriali. Per conservare tuttavia
quest’abito ancora un po di tempo, l’unico mezzo sarebbe di riporlo in guardaroba.
Voglio dire che per lei la medicina principale sarebbe l’assoluto riposo.
Ed è l’unico rimedio, al quale non posso assogettarmi, rispose sorridendo il
101
servo di Dio .
B. La bontà di Francesco di Sales divenne per don Bosco
Amorevollezza per i suoi ragazzi, amorevolezza
che può essere racchiusa in alcune parole chiavi:
Apertura e cordialità,
capacità di fare il primo passo,
rispetto e pazienza ad oltranza.
Affetto di padre, fratello ed amico
Capaci di corrispondenza d’amicizia
Il sogno dei 9 anni traccia un percorso d’apostolato:
Mi pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si
divertiva una grande quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non
pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro.
100
CEREDA F., Lettera ai confratelli dell’Ispettoria ILE,
Maggio ’99.
101 MB
297
XVII, 57
finalmente raccogliere i giovani più abbandonati e più in pericolo di
incamminarsi per una cattiva strada. Potrò dar loro la possibilità di diventare
amici del Signore.”
Guardando alla vita di Don Bosco, dei suoi esordi,
comprendiamo la scelta di S. Francesco come s. Protettore e modello
Tre mi sembrano essere le linee guida
A. il suo essere pastore zelante, instancabile
B. il suo essere dottore della carità, che fece dell’umanità
accogliente e buona la via privilegiata dell’evangelizzazione
C. il suo annuncio di una santità per tutti. Nella sua “Filotea” egli
traccia le linee guida per una santità semplice,
quotidiana,
laicale e
non esclusiva – escludente, nè eccezionale
I tre caratteri che abbiamo enunciato di Francesco di Sales
solcarono la vita di don Bosco al punto da divenire linee
imprescindibili di percorso
A. La carità pastorale di S. Francesco che poi fu di don Bosco
nasce da quel “Caritas Christi urge nos” di Paolina memoria, che
non lascia tranquillo il cuore del pastore quando sa che ancora
un’ultima pecorella a cui tiene profondamente è fuori dall’ovile
sicuro della felicità eterna. È una carità che si spinge sino alla
temerarietà, che è carità senza misura, perché il Cristo non ha
avuto misura nell’amore verso noi. Don Bosco non si risparmiò
in nulla, sino all’ultimo. Don bosco andò al di la dei parametri
del “clericale” per un’attenzione all’umanità totale perché totale
era il suo coinvolgimento.
“L’anima, ossia la vivacità e la vitalità di ogni nostra opera, è data
dalla passione pastorale, cioè dallo slancio e dalla gioia di comunicare il
vangelo ai giovani, soprattutto ai più poveri, e di farli incontrare con il
Signore Gesù. Il cuore unificante della vita di Don Bosco è stato il “da mihi
animas”; il centro di una vita frammentata, come è la nostra, è dato dalla
salvezza della gioventù; l’identità delle nostre comunità, impegnate in
molteplici e disparate iniziative, è chiaramente manifestata dal desiderio “di
vedere i giovani felici nel tempo e nell’eternità”.
La passione pastorale è il terreno fecondo da cui si sviluppa il
senso pastorale, ossia la capacità di leggere le situazioni, di intuire possibilità
inedite per causa del vangelo, di osare fino alla temerarietà. […]
296
Il discorso potrebbe continuare. Tutto ciò che ha d'importante la
vita umana oscilla fra questi due poli della vita. Per lo più i poli non sono
due ma uno solo, e questo allora non e veramente «polo», che ha bisogno
del proprio polo opposto per essere elemento vivo; per lo più il parlare a
semplicemente sovverchiante, perché l'uomo non pub tacere, anzi non vuole
affatto tacere, dato che, tacendo veramente, entra in se stesso e questo gli a
intollerabile. Rientrando vede tutto ciò che in lui c'è di misero, di
sprovveduto, di corrotto e fugge via da se nelle parole.
Solo nel silenzio si attua la conoscenza autentica. Conoscenza non
e semplicemente notizia. Anche questa e senza dubbio buona e
indispensabile. Si sa per esempio che una persona è malata e soffre. Ci si
preoccupa, si cercano rimedi, o si chiama il medico, e tutto è in ordine.
Invece chi mira alla conoscenza si domanda: Che cosa è mai questo, il
dolore? Che cosa segue a causa del dolore in un'esistenza, quando il dolore
viene interiormente accettato, vissuto, oppure respinto? E, nel caso di
quest'uomo che soffre, come incide il dolore nella sua vita? Sono domande
che non trovano risposta finche se ne parla. O forse una risposta estrinseca;
non di certo una intrinseca che comprende e coglie l'essenza. A chi parla
sfugge precisamente ciò di cui importa: l'intimo termine di confronto; lo
sguardo sull'esistenza che ha davanti; l'intuizione che colga il modo come
questa singola irripetibile esistenza si svolge. Per tutto ciò io devo
concentrarmi; devo far silenzio, pormi interiormente dinanzi a ciò che
intendo, penetrarlo identificandomi con il suo sentimento. Allora, nei buoni
momenti, mi si fa chiaro: in quest'uomo sofferente avviene cosi e cosi.
Questo solo e conoscenza, alba di verità. Chi non sa tacere, non la
sperimenta mai.
E ciò che vale della conoscenza vale anche del rapporto umano.
Esso consiste in buona parte nel dare agli altri qualcosa di se stessi: una
simpatia, un aiuto, una compagnia, lino alle forme di comunione completa.
Ma pub uno dar via qualcosa di se stesso, se non possiede affatto se stesso?
Chi non fa che parlare, non si possiede realmente, giacché scivola via di
continuo da se stesso, e ciò che egli dona agli altri non sono che
vacue parole.
E finalmente: solo nel silenzio io pervengo davanti a Dio. Ciò è a
tal punto vero che si è potuto fondare sul silenzio intere esistenze e farne
una regola di vita. Esistono ordini religiosi di tal genere: impresa audace che,
quando sia saggiamente impostata, conduce molto avanti nel silenzioso
regno di Dio, ma che può farsi anche pericolosa dove manchi la generosità e
la saggezza. Ma lasciamo stare questa condizione, e restiamo con la nostra
vita d'ogni giorno.
49
Il principio d'ogni vita religiosa consiste nel farsi consapevoli che
Dio è non si tratta semplicemente d'un sentimento o d'un'idea pensata, ma
di realtà. Dio e più reale di me; la realtà autentica, in se stessa fondata,
eterna. Ogni seria vita religiosa conduce all'esperienza che Dio è e che io
sono soltanto davanti a Lui e in forza di Lui. Ma Dio non e soltanto reale,
bensì è «Qualcuno», Lui stesso. In queste meditazioni si a già parlato del
modo come la Scrittura esprime tutto ciò. Essa parla del suo volto:
«Mostraci, o Signore, il tuo volto, e saremo salvi», dice il Salmo.
Questa esperienza ci e familiare? Sappiamo qualche cosa del volto
di Dio? Sappiamo il significato delle parole della Scrittura: «Dio si volge a
me ... Egli mi guarda ... Egli mi pensa ...»? Solo allora potremo dire con
significato e a giusto titolo: «Tu, o Dio ...».
Abbiamo mai pensato quanto sia meraviglioso fatto che io possa
dire a Dio: «Tu»? Il fatto che Egli sia per me addirittura il vero «Tu»?
Essenziale a tal punto che a un orante si poterono rivolgere queste parole:
«Dio e l'anima tua, e null'altro al mondo». Alla domanda dell'orante:
«Signore, e gli altri?», la risposta fu: «Vale per tutti Dio e l'anima tua e
null'altro». A questa realtà intima – «Dio e io» – non si perviene parlando,
ma soltanto tacendo. Quando ci si raccoglie, lo spazio interiore si apre e la
divina Presenza può annunciarsi.
Tale silenzio bisogna impararlo; nessuna virtù arriva a noi al volo.
Occorrono a questo scopo disposizioni: l'uomo che guarda dentro, non
quello che non guarda quasi se non fuori. Ma questa sola disposizione non è
sufficiente. Essa può rendere bensì l'uomo riflessivo, attento ai processi del
proprio animo, serio, forse perfino malinconico. Ma tutto ciò è oscillante,
esposto agli stati d'animo, alle esperienze vissute nel momento, e può a ogni
istante essere contraddetto e sconvolto da fuori. Dobbiamo perciò darci da
fare. Dobbiamo difenderci contro l'ininterrotto fiume di chiacchiere che
percorre il mondo, difenderci come uno che ha il petto oppresso e cerca di
assicurarsi il respiro. Altrimenti qualcosa inaridisce in noi. Ma il chiasso
esteriore è soltanto una metà, e forse neppure quella più difficile da
superare. L'altra metà è il chiasso interiore: il caos dei pensieri, il groviglio
del desideri, le inquietudini e le angosce dello spirito, il peso delle
depressioni, il muro delle ottusità, e tutte le altre cose che si ammucchiano
nel nostro mondo intimo come detriti sopra una sorgente occlusa.
Dobbiamo prendere tutto ciò sul serio. Elemento d'un giusto
comportamento di vita è anche l'esercizio per imparare a tacere. Esso
comincia con il tenere concretamente la bocca chiusa tutte le volte che
l'esige la fiducia altrui, il dovere professionale, il tatto, rispetto della vita del
prossimo.
50
6. Lo Spirito Salesiano
6.1 D. B. – Biografia e ritratto spirituale98
BOSCO G. (San), Memorie, Trascrizione in lingua corrente di
Teresio Bosco, LDC, Torino Lumann, 200511
BOSCO T., Don Bosco. Una biografia nuova, LDC, Torino 1978.
BROCARDO P., Don Bosco profondamente…, oc.
6.2. La Spiritualità Giovanile Salesiana99
6.2.1 Le origini
“Questo era il luogo che la Provvidenza ci assegnava per la prima chiesa
dell’oratorio. Per raggiungerlo si doveva passare per la porta dell’ospedale, percorrendo il
piccolo viale che separava l’edificio dal Cottolengo e salire per la scala interna fino al terzo
piano. Chiamammo l’Oratorio “di San Francesco di Sales” per due ragioni:
- La Marchesa Barolo aveva l’intenzione di fondare una
Congragazione di preti sotto la protezione di questo santo, e
aveva fatto dipingere l’immagine di San Francesco di Sales
all’entrata del locale che adattammo ad Oratorio.
- Il nostro ministero esigeva grande calma e dolcezza. Ci
eravamo perciò messi sotto la protezione di San Francesco di
Sales perchè ci ottenesse da Dio la sua straordinaria
mansuetudine e il suo successo nell’apostolato.
C’era anche un’altra ragione. Gli errori contro la religione e
specialmente il protestantesimo cominciavano ad insinuarsi pericolosamente
nei nostri paesi, specialmente nella città di Torino. Ci mettevamo sotto la
protezione di San Francesco di Sales perchè ci aiutasse ad imitarlo nella
difesa della fede.
8 dicembre 1844. E’ la festa di Maria Immacolata, fa molto freddo
e sta nevicando in maniera impressionante. Con il permesso dell’arcivescovo
benediciamo la sospirata cappella. Celebro la Santa Messa, e molti ragazzi
fanno la loro confessione e comunione. Durante la Messa, piango di
consolazione perchè l’Oratorio mi sembra ormai una cosa fatta. Potrò
98 Sono armonizzazioni con gli orientamenti del dicastero della
Formazione pubblicati il 24 luglio 2005
99
VECCHI J. E, Spiritualità…, oc, pp 22-36.
CAVIGLIA A., Conferenze…, oc,, pp, 9-26.
DON BOSCO, Vita del giovanetto Domenico Savio, Besucco Francesco,
Magone Michele.
295
Dovere dell'esempio
Dovrei trattare del nostro contegno in mezzo ai giovani, ma è
tardi.. Ricordate solo cosa dice Don Bosco: “ Uno sguardo, un sorriso, una
parola imprudente possono essere malinterpretate dai giovani i quali furono
giä vittima delle umane passioni”. Noi figli di Don Bosco nel nostro modo
di vivere, nel contegno esterno, nel parlare, sorridere, guardare, camminare
dobbiamo avere quel non so che di indefinibile che si chiama riserbo;
insomma avere un contegno che impone ai giovani la pedagogia della castità.
Noi educhiamo i ragazzi soprattutto con il nostro esempio.
E Don Bosco che ce lo ricorda nella Circolare del 5-II-74: “ La
moralità degli allievi dipende da chi li ammaestra, da chi li dirige. Se pertanto
vogliamo promuovere la morale e la virtù tra loro, dobbiamo possederla noi
e farla risplendere nelle nostre opere, discorsi, in tutta la nostra vita”. Ed
ancora nella stessa Circolare termina con queste parole che devono formare
il ricordo dei nostri Esercizi: “ Il salesiano deve accoppiare alla povertà del
vivere una esemplare osservanza delle Costituzioni è lo splendore della sua
purezza”.
E tutta un programma di vita: Se avremo la purezza nel cuore, la
comunicheremo ai nostri giovani, come Don Bosco istillò a tutti la sua virtù
angelica.
Un chek up su come la si vive, sull'educazione degli occhi e del cuore e della
mente, sull'uso dei mezzi di comunicazione.
"Beati i puri di cuore perché vedranno Dio". L'impurità porta a non vedere
Dio dove c'è e a crederlo dove non è.
294
L'esercizio porta inoltre a tacere talvolta anche quando si potrebbe
parlare, soprattutto quando ciò potrebbe fare effetto: starsene zitti proprio
allora è un ottimo esercizio per acquisire dominio sulla smania di parlare. E’
un bello sforzo quello di chi si fa in genere superiore a un vivere tutto fatto
di chiacchiere. Quante cose superflue noi diciamo in un giorno, quante cose
sciocche! Dobbiamo imparare a capire che il silenzio è bello; che non è un
vuoto, ma vita genuina e colma. Di più ancora, bisogna imparare il silenzio
interiore; i calmi indugi sulle domande importanti, sui compiti gravi della
vita, sui problemi riguardanti una persona che ci deve stare a cuore. Allora
noi faremo una singolare esperienza: che il nostro mondo interiore è vasto;
che in esso si può andare sempre più a fondo. Agostino ci ha detto a questo
riguardo cose profonde nelle sue Confessioni (per esempio, 10, 8 ss.).
Ma noi siamo finora rimasti con il nostro discorso sul piano
naturale; nella sfera della vita psicologica. Ora, all'uomo che si e affidato al
mistero della grazia e della rigenerazione si garantisce ben di più. II
messaggio dell'apostolo Paolo è dominato dalla convinzione che nell'uomo
credente si sveglia una vita nuova e santa. Cristo, il Signore della risurrezione
e della trasfigurazione, la risveglia in lui. Nasce allora un'interiorità, una
profondità, che sta al di la della pura natura. Allo stesso modo che, al di là
della naturale profondità psicologica, verso l'interno, la zona, dove Dio si
eleva e dove il «Gloria a Dio nell'alto dei cieli» Lo cerca, esiste al di sopra dei
pensieri e dei sentimenti naturalmente più elevati. Questa interiorità ce l'ha
donata il Battesimo, e ora l'esercizio cristiano deve cercare di farla emergere
dal mondo dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti.
Noi vogliamo darci pena del silenzio per imparare a essere uomini.
Il simbolo ammonitore esiste già nel nostro mondo: la “macchina per
parlare”, il fonografo-registratore. Anche se interessante come risultato della
scienza e come prodotto della tecnica, essa tradisce anche – insieme con le
“macchine per pensare” e d'altro genere, i computers – la volontà segreta di
togliere all'uomo la sua dignità. Ma non appena egli realmente impara a
tacere e a parlare come si deve, l'uomo diviene inimitabile, poiché allora si
rivela in lui l'immagine di Dio.
Tentiamo ancora una volta di aprire lo sguardo, dalla prospettiva
della vita umana che è un'immagine di Dio, in direzione dell'Archetipo. Gli
atti del parlare e del tacere hanno per avventura forse un senso anche per
Lui? C'è qualcosa in Lui per cui essi potrebbero essere un'analogia?
E’ realmente così, come ce ne accertano due affermazioni della
Rivelazione.
La prima si trova nel messaggio che risuona in tutta la Scrittura:
che Dio solo e Dio, e non c'e dio accanto a Lui; che egli solo e il Signore, il
Libero che non dipende da nulla; l'Infinito e l'infinitamente Vivente, che ha
ed e tutto.
51
Davanti a questa realtà sublime, trascendente ogni possibilità del
pensare e sentire umano, falliscono tutte le immagini costituite da linee
mosse o da voci risonanti. Senza dubbio i Salmi parlano di teofanie che al
mistico per cui avvengono si manifestano con tempeste, con lampi e con
tuoni e che suscitano nell'uomo l'eco di una «Onnipotenza» trascendente
ogni creata potenza. Ma Dio ha rivelato una volta per sempre la verità
decisiva a questo riguardo quando Egli chiamò il più tempestoso dei profeti,
il grande Elia, dopo le sovrumane tensioni della sua lotta contro Achab e
Gezabele, verso il sacro monte Oreb e manifestò all'uomo ardente chi Egli
era. Gli ordinò:
“Esci e fermati dinanzi al Signore sulla montagna: ecco che il
Signore sta passando. Un vento impetuoso e forte da fondere le montagne e
spezzare le pietre andava davanti al Signore; ma il Signore non era nel vento.
E dopo il vento ecco un terremoto; ma il Signore non era nel terremoto. E
dopo il terremoto ecco il fuoco; ma il Signore non era nel fuoco. E dopo il
fuoco ecco una voce, un sussurro sottile”, e là era Dio (1 Re 19, 11-12).
Non nelle immagini delle grandi potenze schiaccianti, ma in quella
di un vento lieve Egli si rivela al suo profeta.
E cosi noi possiamo bene andare avanti a dire: l'immagine
significante la vita di Dio è quella della pace infinita d'un silenzio che tutto
abbraccia.
Il Nuovo Testamento ci delinea in proposito una seconda
immagine e precisamente al principio del Vangelo di Giovanni:
«In principio era il Verbo, la Parola e la Parola era presso Dio, anzi
la Parola era Dio» (1, 1).
Alla fine del Prologo l'idea viene ripresa e portata in una misteriosa
profondità:
“Dio nessuno l'ha mai veduto, il Figlio Unigenito che è nel seno
del Padre, Egli ce ne ha parlato» (1, 18).
Un'altra volta brilla qualcosa del mistero di Dio. Vi si dice che
nell'unicità di Dio, intollerante d'ogni confronto, c'e una comunione; che
nella sua schietta, assoluta semplicità c'è un faccia a faccia; che nella sua
altezza c'è un dare e un prendere. Immagine di ciò è l'uscita della parola dal
silenzio: un'immagine che poi si determina ulteriormente in quella della
nascita del Figlio dal Padre. «Parola» è «Figlio», «discorso» è «nascita». Due
immagini dell'incomprensibile entrambe.
La prima immagine, quella del silenzio e della tacita semplicità, e la
seconda, quella della nascita parlante e della comunione nell'amore,
circoscrivono il mistero della Vita di Dio e della sua Santa sovranità.
Quale mistero è, però, anche l'uomo in cui secondo la divina
Volontà si riverbera la divina gloria originaria! E quale compito è per noi
quello di custodirla in inviolata purezza!
52
invece sono atti contrari e fatti per abitudine, ci vuol maggior severità,
eccetto che siano cadute di pura fragilità. Se si tratta di mancanze fatte con
altri, allora è difficilissimo che uno cambi; la caduta si verifica anche quando
l'individuo sia consacrato al Signore”.
In totale egli deve mostrarsi rigoroso per l'ammissione al noviziato
e rigorosissimo per l'ammissione ai voti.
Degenerazione
Guardate che fenomeno: il degenerato non si corregge. La
sensibilità, la fragilità si spiega e si corregge con la volontà, col tempo, con
l'aiuto di Dio, ma il degenerato che cerca il suo simile non si corregge;
vestitelo come volete, ungetelo anche con l'olio di peperone. Di questi
individui ne troverete ovunque; e il peggior pericolo della vita chiusa di
collegio, di seminario, di quartiere, di prigione, di bastimento; e questa sorte
di peccati è quasi incorreggibile nonostante tutti i pietismi, le lacrime, i
misticismi e scuotimenti che si fanno nelle preghiere; anzi è proprio
caratteristica dei pietisti, dei mistici, dei bigotti l'aver tendenza a questo
genere di cose. Questo è non solo storia dolorosa, ma scienza psicologica.
293
male. Don Bosco insisteva che i salesiani devono essere tutti in cortile; che
non pensino a divertire se stessi, ma giochino con i ragazzi, abbiano gli
occhi di qua e di la: vigilare tutto. Nel 1868 diceva che “ immenso il bene
che può fare un chierico, salendo una scala, guardando un luogo nascosto,
facendo una scappata di sorpresa durante la ricreazione”.
Osservanza dell'orario di sera; non fare conversazioni.
Puntualità nel balzare dal letto... “ Sono stato mezz'ora di più a
letto e non mi e accaduto niente”. “ Dì pure che il Signore ha operato un
grande miracolo per tenerti salvo”.
Mortificazione: “ Hoc genus daemoniorum non eicitur nisi per
orationem et ieiunium” (Questo genere di demoni non può essere scacciato
se non con la preghiera e il digiuno), e Don Bosco batte sulla tendenza dei
chierici a fare merenduole, bicchierate, ribotte, ecc.
Addormentarsi subito, pregando.
Sveltezza nel fare le proprie cose quando si e agli adagiamenti per
le necessità corporali. Non trascurare le pratiche di pietà. E conclude: “ La
castita e la purezza sono virtù cosi belle che senza di esse un chierico, un
Sacerdote è nulla. Se le possiede e tutto”.
Per il cammino di interiorizzazione
L’essenziale è invisibile agli occhi. Profondità di vita è la capacità di
andare al di là della superficie delle cose che appaiono e ciò non è
spontaneo, ma richiede capacità di concentrazione, d’essenzialità, di
spogliazione di sé, eliminando tutto quanto non aiuta a giungere al cuore
della vita. Dove, quando e perché ti scopri superficiale nel rapportarti al
quotidiano preferendo “riempirti” di cose pur di non liberare le profondità
del cuore?
Incontaminati
Nella relazione fatta al Papa nel 1879 Don Bosco potè dire: “
Finora posso attestare che non si e avverato il caso che un salesiano,
dimenticando se stesso, abbia dato ragione di scandalo”. E dopo?...
Veramente gia due anni prima, 18-II-1877, ai direttori riuniti aveva detto
una sentenza molto grave e poi aveva aggiunto: “Mi vengono dicendo: ma
non faccia lavorare tanto i suoi preti!”.
Ed egli risponde: “ Il prete o muore per il lavoro, o muore per il
vizio” Guardate in che stato doveva essere il suo sentimento in quella sera.
Vegliare bene
Don Bosco intravedeva che col moltiplicarsi della Congregazione
potevano nascere degli inconvenienti, perciò insiste sull'accettazione e dopo
quell' anno, in capitolo ancor più insistette. Inculca sette norme per
l'accettazione al Noviziato, per l'ammissione ai voti e agli ordini. Non le
enumero tutte, ma ne ha parecchie che sono singolari.
Norme per ammettere alla prima prova. “ Chi ha precedenti di
moralità dubbia o una catena di miserie, non sia ammesso alla prima prova,
eccetto fossero cose isolate. I giovani che fanno pasticci al loro paese, fino
all'ultimo non si ammettano, perché questi si freneranno al noviziato, e poi
riprenderanno”.
Fissando la norma per l'ammissione ai voti: “ Se si tratta di
pensieri, letture, parole, fatali inclinazioni, si può sospendere il giudizio; se
292
53
3. Le motivazioni
profondi
e i desideri
3.1 Le motivazioni12
L'uomo, invece, è talmente padrone delle sue azioni umane e ragionevoli che le
compie tutte per qualche fine e le può indirizzare ad uno o più fini specifici, a
propria scelta […]
Ora, qualche volta aggiungiamo un fine di perfezione minore di quello che avrebbe la
nostra azione, qualche altra volta aggiungiamo un fine di uguale o simile perfezione e
qualche altra volta ancora un fine più eminente e più elevato. Infatti, oltre all'aiuto del
bisognoso, cui tende in modo particolare l'elemosina, non possiamo anche mirare
1. A conquistare la sua amicizia?
2. Ad edificare il prossimo?
3. A piacere a Dio?
Che sono tre fini diversi, di cui il primo è inferiore, il secondo quasi non è migliore e il
terzo molto più elevato del fine ordinario dell'elemosina: sicché, come vedi, possiamo dare
diverse perfezioni alle nostre azioni, secondo la varietà dei motivi, dei fini e delle intenzioni
che abbiamo quando le facciamo. … bisogna fare molta attenzione nel mettere ordine tra i
vari motivi…se uno li mettesse in disordine, anteponendo il più piccolo al migliore, senza
dubbio commetterebbe un errore riprovevole…molti motivi, li deve disporre secondo le loro
qualità; altrimenti commette peccato, perché il disordine è peccato, come il peccato è un
disordine.…Bisogna assegnare a ciascun fine il ruolo che gli compete e, di conseguenza, il
più alto è quello di piacere a Dio. 13
CENCINI A. -MANENTI A., Psicologia e formazione, EDB, Bologna
pp. 281-290.
13 S. FRANCESCO di SALES, Trattato dell’amore di Dio o Timoteo, ED
Paoline, Milano 20013, LIBRO XI, Cap. XIII.
54
12
200312,
più soltanto chierico e i chierici. Tra chierici giovani e persone anziane. Non
c'è da stupirsi che delle volte accade: siamo 15 mila e quindi 15 mila uomini.
Può avvenire che tu chierico ti trovi nella tua strada persona gia di età, di
elevata condizione, che perda la testa attorno a te e tu incominci a perderla
con farti la spartita profondamente tale da far scappare la vocazione.
Cominci a fare il beccuccio, il ricciolo tira basin; ricordatevi il proverbio:
“Omô porsei semper son bei” (uomini sporcaccioni sempre sono belli).
Guarda mio caro prete giovane, puoi trovare degli inciampi in chi ti vuol
bene come non si deve voler bene tra gli uomini, tra maschi su questa terra.
Quando ho visto certe conciature, io ho detto: “ Vedo che lei farà
il farmacista...”. Vidi curarsi di più, avvisai ancora; continuarono, e non
parlai perché era troppo tardi.
Fuga dai giovani
Prevedo subito la obiezione: ma se dobbiamo stare in mezzo ai
giovani? Rispondo: stare in mezzo ai giovani, si; ma non da solo a solo, non
con uno più che con un altro, non a porte chiuse.
Don Bosco a questo proposito esce in una sentenza angosciosa: “
La rovina di certe Congregazioni dedite all'educazione della gioventù deve
attribuirsi a ciò: a non aver fuggito giovani. Ci sono delle esagerazioni dei
cattivi ed anche delle calunnie, ma senza sospetto fondatissimo, e in molti
casi successi non avrebbero osato i nemici ad insinuare esagerazioni e
calunnie ed aggiungeva illustrando questa idea: “ Io sono venuto sino all'età
(1865) senza conoscere questo pericolo, ma dopo di allora ho dovuto vedere
e purtroppo convincermi che questo pericolo gravissimo c'è, e non solo c'è,
ma c'è instante e tale da metterci bene in guardia”.
Doveva essere successo qualche scandalo rumoroso e tale da buttar
in aria una istituzione e degli accreditati religiosi; da questo Don Bosco
capisce il pericolo, lo dice instante e tale da metterci bene in guardia.
Don Barberis ha registrato anche la conclusione: “ Non mai baci,
carezze, mani sulla faccia », tanto più adesso che sono vestiti... come nel
paradiso terrestre. Non amicizie particolari coi giovani, specialmente se
avvenenti, perché si fa parlar male e si finisce peggio; non scrivere lettere
troppo sdolcinate, non occhi troppo espressivi, non regalucci particolari
pericolosissimi, non condurre anche per motivo buono i ragazzi in camera e
parlare in confidenza a porte chiuse.
Altri documenti
Sono precetti che Don Bosco ripeté sempre. Nel 1876 parla ai
chierici dell'Oratorio sulla castità e sul conservare la vocazione raccomanda
per loro:
Esatta osservanza dei propri doveri secondo le Regole;
Puntualità nel trovarsi in ricreazione ed avere gli occhi ai musoni
che stanno nei cantucci, perché ozio in ricreazione e la sorgente di ogni
291
Negli Esercizi del 1868 a Trofarello fa una predica esclusivamente
sulla mortificazione ed ha per tema: Il corpo che si corrompe aggrava
l'anima, e parla della mortificazione degli occhi e del gusto. L'anno dopo
tiene una conferenza per la conservazione della castità e svolge quel:
“Subtrahe ligna foco si vis extinguere flammam” (Togli la legna dal fuoco
se vuoi spegnere la fiamma). Ancora negli Esercizi di Trofarello del 1869
trattando dei tre voti delineava i mezzi positivi e negativi per conservarsi
casti. Questa conferenza fu riassunta male, ma l'anno dopo per fortuna, la
ripetè tale quale negli Esercizi di Lanzo a cui era presente Don Barberis che
prese nota diligentemente di tutto e così sappiamo cosa intendeva Don
Bosco quando parlava della difesa della virtù.
Negli Esercizi di Lanzo nel 1870 discorrendo disse questa sentenza
che non va dimenticata: “La gioventù è un'arma pericolosissima del
demonio contro le persone consacrate al Signore”. E’ il pericolo
professionale per noi che »n questa materia. Finalmente negli Esercizi di
Lanzo del 1875 spiegava i mezzi negativi: “ Accipe fugam si vis parare
victoriarm” (Fuggi se vuoi preparare la vittoria). Ed enumera le 5 fughe che
si trovano nello Scavini (I, 1 cap. 2: “ Dei peccati in specie”).
Le cinque fughe
Fuga dalle persone dell'altro sesso.
Trattenersi poco con esse, non usare familiarità, facezie. Un
ecclesiastico non deve faceziare con loro; non essere orsi, ma neppure
permettersi scherzi: col fuoco non si scherza! Uscendo di casa frenare la
libertà degli occhi, non guardare per istrada... se le rondini hanno il becco…
Gia anni prima parlando ai giovani Don Bosco il 5-VII-1867 aveva avvertito
che non bisognava trattenersi tanto in parlatorio, ma fare in modo che le
persone di altro sesso andassero via al più presto, anche se parenti. Ai
chierici disse: “ Ecco che un chierico a casa trova la cognata, la sorella, la
cugina, e il demonio che sa fare la logica e sa fare le astrazioni toglie la
parola: cognata, sorella, cugina, e lascia solo la parola: donna; toglie la parola:
religiosa e lascia zitella, signorina... E che cosa succede?”.
Fuga dalle conversazioni secolaresche, e andare in mezzo alla gente del
secolo. Adesso c'è la cattolica, cioè i secolari che vengono da noi per essere
formati, quindi il problema cambia aspetto, ma rimane.
Fuga dalle visite
Se vengono a trovarvi, sbrigatevi, dice Don Bosco, e siate prudenti
e vigilanti, perché le visite in parlatorio sono uno dei maggiori pericoli; non
è raro il caso che il parlatorio è diventato anticamera del Municipio.
Fuga dalle amicizie
Tra noi e i giovani, tra confratelli; fuggire le amicizie troppo intime
e tenere. Non mai grossolanità, familiarità, mettere le mani addosso. Non è
raro che possa avvenire tra laici e i chierici, tra chierici e laici, tra chi non è
290
Il termine motivazione copre una serie di altre parole del linguaggio
comune: intenzione, desiderio, fine, interesse, movente, scelta, preferenza...
Tutti termini indicanti che il comportamento segue una direzione che gli è
stata impressa prima che si manifestasse. La motivazione è ciò che è capace
di «muovere» il soggetto. Indica l’insieme dei motivi e delle attese che
spingono ad agire (questa può essere anche sono interiore come la fantasia
o l’elaborazione intellettuale). È la risposta alla domanda del «perché questa
azione?», nel duplice senso di «che cosa la origina?» e «a cosa tende?». La
motivazione ha infatti due aspetti: uno attivante (prontezza all'azione) e uno
direzionale (dirige verso una particolare direzione).
Motivazione a un termine cumulativo: ogni comportamento
significativo è originato da una pluralità di motivi più o meno consci e
centrali. Dato che il processo della decisione inizia sempre con una
valutazione intuitiva, ci sono dei motivi emotivi. Tuttavia perché l'azione sia
matura, occorre un motivo razionale che nasca dalla valutazione riflessiva.
L'atto di scelta è messo in moto da un giudizio intuitivo ma esige una
decisione deliberata. Il criterio del «mi piace» non è sufficiente a fondare
un'azione libera e non da garanzie sulla perseveranza di tale azione. Tutti i
motivi — dato che provengono da una valutazione — devono essere
almeno in parte consci; tuttavia poiché la valutazione può anche essere il
prodotto di fattori di cui la persona non è consapevole al momento, ci
possono anche essere dei motivi inconsci. Sono le memorie affettive che
riaffiorano. Se voglio fare un viaggio devo conoscere le ragioni per farlo, e
forse al momento non so che uno dei motivi reconditi è evadere
dall'ambiente. Non esiste distinzione netta fra motivi consci e inconsci: è più
esatto dire che le motivazioni hanno la duplice componente conscia e
inconscia […].
I motivi possono essere attuali o abituali. I motivi attuali
derivano da una valutazione fatta qui e ora (intenzione attuale), mentre i
motivi abituali (o disposizioni motivazionali) derivano da una valutazione
fatta nel passato, ma che rimane tuttora efficace: non è mai stata ritirata e
continua ad influire anche se dimenticata (intenzione abituale) […]
Ogni azione contiene dunque una gerarchia di motivi: alcuni più
importanti e altri più periferici. Il motivo centrale dominante quello che
prevale, cioè coordina a finalizza tutte le energie implicate nell'azione e da ad
esse un significato e una direzionalità. Il motivo dominante è la risultante del
rapporto dinamico tra tutte le componenti della personalità.
Secondo Kelman esistono tre diversi modi di essere motivati:
compiacenza,
identificazione,
internalizzazione.
Li
descriviamo
separatamente, ma nelle situazioni di vita reale si presentano in forma mista:
l'importante sarà vedere quale prevale . [? elemento di verifica !]
55
A. Compiacenza
Secondo questo processo la persona adotta un atteggiamento al
fine di ottenere una ricompensa o evitare una punizione dal gruppo di
appartenenza o da un'altra persona, senza convinzione circa il contenuto del
comportamento stesso.
I premi-punizioni non sono necessariamente di carattere fisico ma,
più spesso, psicologico: ritiro dell'affetto, non considerazione, indurre
sentimenti di colpa. «Se fai cosi, mi fai morire di crepacuore» è uno dei
condizionamenti più potenti.
Non vi è dunque un reale consenso. Il soggetto non
necessariamente crede nei contenuti e nel valore di quell'atteggiamento,
semplicemente spera di ottenere un vantaggio e vi si adatta più o meno
passivo e senza coinvolgersi: dice e fa la cosa attesa in una particolare
situazione indipendentemente da quella che può essere la sua opinione
personale.
L'atteggiamento appreso non è creduto, ma serve per produrre un
effetto sociale; rimane quindi estraneo alla persona stessa [esterno] e dura
finchè essa ha bisogno di quell'effetto [temporaneo alla persona stessa], o non ha
ancora ottenuto vantaggio o non sa cautelarsi diversamente dal pericolo
della punizione […]
La compiacenza corrisponde alla funzione utilitaria degli
atteggiamenti, essendovi in gioco ricompensa o punizioni; ma può essere in
relazione anche con la funzione difensiva dell'io se il premio e di natura
psicologico-morale (ad esempio conformarsi per non sentire i sensi di colpa
legati ad un rimprovero). Dal punto di vista strutturale, la persona
compiacente e un inconsistente. Chi è tirato in una direzione dai valori e
spinto nella direzione opposta dai propri bisogni, vive uno stato di
contraddizione per cui necessita di un sostegno esterno al fine di mantenere
il suo atteggiamento; se il sostegno viene meno, probabilmente crollerebbe
anche l'atteggiamento.
B. Identificazione
Secondo questo processo la persona adotta un comportamento
perché le serve per stabilire o mantenere una relazione gratificante con
un'altra persona o gruppo; tale relazione è gratificante nel senso che aiuta la
persona a conservare un'immagine positiva di sé. La relazione può essere
stabilita nella realtà o nella fantasia. Ad esempio, il ragazzo che diventa
medico perché il padre lo (o lo era); […] o il giovane che assume i valori del
suo gruppo di appartenenza, a volte fino ad imitare la voce
e il frasario
del leader.
Esistono tre orme di identificazione:
—
Classica: l'individuo assume totalmente o parzialmente
l'identità del modello: vuole essere come lui; fa, crede, dice ciò che l'altro fa,
56
Questa è la vera grandezza di Don Bosco, la sua concezione di
moralità, della pedagogia del costume: noi lavoriamo in mezzo ai giovani per
impedire il peccato. Teniamolo bene a mente: sopra e prima, in ordine di
idee e di tempo, della “pedagogia della castità” anzi come mezzo supremo di
questa pedagogia, Don Bosco mette “la castità della pedagogia”, ossia la
castità dell'individuo che educa, sia nel linguaggio, sia nei modi, sia nella
persona. Inutile parlare di gigli all'altare se tu sei un carciofo. “ Nemo dat
quod non habet” (Nessuno dà ciò che non ha). Ecco una delle grandezze di
Don Bosco!
Tutto quel mondo lubrico di produzioni sulla purezza che è uscito
in questi ultimi 30 anni, anche dei cattolici, pretende di insegnare ai giovani
come devono stare a posto: ma non osservano la regola nostra, hanno un
linguaggio tale, che se uno non sa, impara quella volta: si dimenticano della “
castità della pedagogia”. Questi sono tutti libri sbagliati, e in tutti questi
libri... non tutte le verità si possono dire!
Per essere salesiani più vicini a Don Bosco, per essere imboscati
completamente, teniamolo ben presente!
Conservarsi difendersi
Veniamo agli elementi specifici della materia. A un totale traviato,
dice Don Bosco nel 1876: “ Guardi, lasciamo a parte la teologia, la morale,
la mistica, l'ascetica; tutto si riduce a questo: conservarsi puri e santi al
cospetto di Dio”. Sono precisamente le parole del S. Cafasso e di Don
Bosco sulle orme del Maestro; insegna sempre come si fa per conservarsi
casti. Conservarsi e conservare la castità e sempre la sua parola, che viene
completata dal concetto della difesa: conservarsi e difendersi. E’ classico nel
capitolo di Magone in cui mette in fila i sette carabinieri che si pongono ai
piedi della Madonna per difendere e conservare castità. Non è altro che una
idea popolare dei sette mezzi per conservarsi casti.
Troverete dei santi che hanno scritto su questa materia molti
pensieri; i più portano in alto teologicamente e misticamente parlando
dell'amore di Dio: chi ama Dio, non ama le creature, si distacca da esse; ora
tutta la purezza e amor di Dio, è non andare dietro alle creature; chi ama
Dio non ama se stesso, non ama, non segue le proprie tendenze.
Don Bosco ha molto più pratica; realista, positivo, egli sapeva che
pur parlando dell'amor di Dio si poteva rimanere come prima, quindi si
limitò ad indicare i mezzi negativi a preferenza dei positivi, per difendersi,
per conservarsi. Tutti gli altri ragionamenti li conosceva, eppure ai suoi
giovani, ai chierici, ai preti ragionava cosi!
I suoi mezzi
289
Don Bosco sapeva la teologia un po' meglio, e se noi vediamo che
egli insiste molto su questo punto è perché è il punto centrale della vita
dell'adolescente e per la condizione tutta speciale della vita educativa a cui
deve formare i suoi figli, poiché essi non sono per fare il prete ma per
lavorare per la gioventù. Dato questo, deve formarli secondo la sua idea
centrale, e quindi insiste maggiormente su tale argomento e noi lo rileviamo
dal testo delle Regole: “ Chi non ha fondata speranza...”, ed altrove: “ Chi
non ha fondata speranza di potersi moralmente salvare da questi peccati è
meglio che non si faccia né prete né chierico”. E Don Bosco nel trattare
questa materia non fa questioni teologiche ne questioni di coscienza. I
teologi discutono fin dove si può giungere senza peccato grave...; povero
Cuore di Gesù: appendiamo tanti quadri e poi misuriamo col millimetro fin
dove possiamo arrivare senza ammazzarti!
La grandezza di Don Bosco
Vediamo come Don Bosco considerava l'individuo e l'ambiente.
Per lui il chierico è ancora adolescente, anzi dice che questo stato dura sino
ai 30 anni; ora per il fattore oggettivo del salesiano che vive tra i giovani, e
può avere delle impressioni individuali, soggettive, e ha delle responsabilità
particolari, Don Bosco da delle norme speciali sul modo di trattare i giovani,
di preservarli dal male ossia di educarli al costume.
Ecco ciò che non posso sviluppare nelle conferenze di pedagogia
salesiana, perché mi manca ordinariamente un ambiente che capisca.
crede e dice. Vuole essere simile a lui o addirittura essere lui.
—
Reciproca di ruolo: le due parti si identificano a vicenda
per cui uno tende ad agire secondo le aspettative dell'altro e viceversa.
Ognuno dei due gioca il ruolo che gratifica l'altro: io sono come tu mi vuoi e
viceversa.
—
Con un gruppo. Per conservare o migliorare l'immagine di
se la persona modellacomportamento secondo le aspettative e direttive del
gruppo, le quali a loro volta possono essere state formulate in vista di una
risposta da ottenere. Anche qui, il motivo dell'aggregazione a l'autodefinizione: come membro di un certo gruppo mi sento uno che vale, il
protagonista, il depositario della verità, una persona che conta... Le qualita
del gruppo (reali o immaginarie) passano al mio io rinforzando la mia
identitä.
Queste tre forme ci dicono quindi che grazie all'identificazione, la
persona si comporta come l'altro, secondo le aspettative dell'altro o come il
gruppo vuole.
L'identificazione è di qualità superiore rispetto alla compiacenza.
Qui c'e anche un'accettazione privata-interiore, oltre che pubblica-esteriore
dell'atteggiamento adottato: ci si crede veramente in ci6 che si a imparato. In
secondo luogo, la manifestazione di quell'atteggiamento non è condizionata
dall'osservabilità da parte dell'agente influenzante: infatti quell'atteggiamento
è la risultante di una relazione identificatoria con un gruppo o una persona
vista come attraente e non come detentrice di premi e punizioni.
Ma la differenza più grande e che il processo dell'identificazione
uno stadio necessario nell'acquisizione dei valori. Per apprendere opinioni
bastano i mezzi didattici (libri e conferenze); per apprendere valori
occorrono dei modelli di riferimento. Il valore come il messaggio che per
essere trasmissibile necessita di una relazione; a da questa che nasce
l’apprendimento. […]
Questo processo rimane tuttavia insufficiente e può anche
assumere un carattere difensivo: è solo una fase nel cammino di
maturazione. L'identificazione a insufficiente poiché l'atteggiamento che
essa origina a attivato solo nel contesto della relazione auto-definitoria; gli
atteggiamenti appresi, anche se creduti, vengono espressi quando l'individuo
agisce nel contesto della relazione su cui si basa la identificazione. […] Le
motivazioni non sono ancora diventate convinzioni, non sono integrate nel
sistema dei valori dell’individuo, ma tendono a rimanere isolate e incapsulate
entro certe condizioni.
In secondo luogo, l'atteggiamento — anche se creduto —rimane
condizionato nella sua perseveranza dalla esistenza della relazione stessa e
dipendente dal supporto sociale: dura finche dura la relazione; se questa
finisce o non è più auto-definitoria, la persona rischia di abbandonare ciò
che la relazione le aveva fatto apprendere. E il caso dei giovani in cui
288
57
Terminologia
Don Bosco rifugge totalmente dal rimescolare questa materia,
rifugge persino dall'usare i termini usuali, per lui non esistono termini
specifici, ma solo i comuni, virtù, modestia, innocenza e virtù per eccellenza;
così dice Don Bosco: “Chi può capire capisce, e chi non sa, non capisce e
tanto meglio”. Così per il contrario usa i termini: peccato, caduta, disgrazia,
disonestà, parole tutte che non turbano e fanno capire coloro che hanno
bisogno.
Aspetto pratico
Invece di fare questioni di teologia e di coscienza, Don Bosco ne fa
sempre una questione di grazia di Dio: avere la grazia di Dio e non
offendere Dio, non cadere in peccato. Mentre invece non fa questioni
teoriche di pedagogia di costume, di educazione del costume. Il sistema di
Don Bosco su questo punto è tutto qui: impedire il peccato; ecco la vera
pedagogia del costume! Per questo Don Bosco è definito: “ Padre degli
adolescenti”, e ricordiamolo sempre: centro dell'adolescenza è quello che si
chiama pubertà.
impegno politico, ecclesiale, sociale... dura finche non si sposano o non
hanno trovato una professione: a questo punto la relazione con il gruppo
può anche continuare ma l'immagine positiva di sé è ora legata ad altre fonti.
L'assunzione del comportamento a strumentale alla relazione e la sussistenza
di esso dipenderà dalla sussistenza della relazione.
L'identificazione può anche essere di natura difensiva dell'io:
permette di mantenere la stima di se altrimenti non sostenibile; un appoggio
passivo sul proprio simile per evitare angosce e responsaabilità […].
Quest'eventualità si realizza soprattutto in persone con una percezione di se
negativa, insicure e indecise, bisognose di essere valutate positivamente dagli
altri e di riuscire altrettanto bene in tutto quello che fanno. […]
L'identificazione a quindi un processo di apprendimento ambivalente, e costituisce uno stadio intermedio nella maturazione dei motivi, ma
mai la meta. […] L'identificazione fine a se stessa impedisce la crescita.
Ciò che fa scattare l'identificazione è la scoperta nell'altro
dell'appello ad essere se stesso.
[…] L'identificazione è fonte di crescita nella misura in cui fa
apprendere atteggiamenti aumentano i valori. È bloccante quando gratifica
quella parte dell'io contraddittoria ai valori. […] Per esempio… il bisogno di
conoscenza fa crescere se serve per approfondire le conoscenze, è un
ostacolo se messo al servizio dell'aggressività (= dimostrare i torti altrui) o
dell'esibizionismo (= fare sfoggio della propria cultura e riuscire vincente)
[…]
Alla base dello stile di vita possiamo dunque avere due grandi classi
di motivazioni: una auto-centrata e una etero-centrata. Da notare che grazie
ai meccanismi di difesa una può coprire l'altra: ciò che appare neutrale o
etero-centrato può in realtà essere dissonante ed auto-centrato. […]
Ciò che in concreto complica le cose è il fatto che l'identificazione
che non internalizzante è sperimentata emotivamente come più gratificante
dell'altra [???], di qui la conclusione indebita che proprio per questo sia
fattore di crescita: «dal momento che stiamo bene insieme, non capisco
perchè tutto questo non sia anche buono», «siccome piace, quindi è anche
utile». Spesso si confonde fra esperienza emotivamente stimolante ed
esperienza internalizzante, eguagliando indebitamente «mi piace» con il «mi
giova». […]
L'identificazione internalizzante, al contrario, nascerà all'interno di
relazioni non soffocanti, che lasciano un margine di libertà o addirittura la
promuovono e non funzionano da riempitivo della solitudine; per questo
può costituire un prezioso stimolo per la crescita.
C. Internalizzazione
Secondo questo processo la persona accetta un'influenza sociale
facendo suoi valori e atteggiamenti suggeriti, perché ne vede la validità
58
lavoro per impedire il peccato deve essere ridotto quasi ad impedire questo
genere di peccati. Benché Don Bosco non sia un manoveggente o un
esagerato, tuttavia in questo consiste la quintessenza del suo valore storico
ed educativo.
E’ giusto scientificamente e moralmente pensare così. Infatti la
Chiesa definisce Don Bosco: “Padre degli adolescenti, dedicato
all'educazione della gioventù” Ora da più di 40 anni la scienza si è volta a
studiare per l'adolescenza il tremendo problema psicofisiologico, naturale,
spirituale della pubertà, vale a dire come si svolge, quali effetti produce nei
caratteri e nei temperamenti, nell'abitudine, nella volontà, nella psiche del
giovane questo fenomeno di rinascita dell'organismo umano. Potrei citarvi
più di duemila autori, di studiosi di questo problema, tra cui i cattolici sono
molto pochi.
Il classico libro del Mendousse: “ L'anima dell'adolescente “ riduce
tutta la questione della moralità nell'adolescenza a questo problema della
pubertà, del fatto e del fattore psicofisiologico.
Don Bosco lo aveva capito 50 anni prima: per lavorare tra gli
adolescenti bisogna tener presente lo stato in cui si trovano: la pubertà. E
siccome la rinascita fisica porta con sè alcuni fatti, ecco che Don Bosco
dirige tutto il suo studio e lavoro a preservare l'anima dei giovanetti dal
peccato, e per peccato non ritiene altro che questo. Non è esagerazione,
perché dopo 50 anni la scienza viene a dargli ragione. Neh, che Don Bosco
se si studia incomincia a diventare grande?!
Anche nell'ambiente della vita religiosa salesiana ed educativa cioè
uno dei tre perni su cui si aggira tutto il sistema spirituale. E’ una delle tre
idiosincrasie naturali di Don Bosco: ozio, intemperanza, immodestia, a cui
per esperienza ne aggiunge una quarta: la mormorazione; proprio come
dicono i Proverbi: “Tre cose non tollero ed una non posso sopportare...”
(Pr 30,21-23).
Interpretazione errata
Per l'immodestia Don Bosco ebbe fin da fanciullo, come ho gia
detto, una ripugnanza naturale, tanto è vero che noi salesianetti suoi divoti
seguaci abbiamo inteso inesattamente e frainteso la sua tradizione; da noi
quasi non si considera peccato se non quello, e non solo nei giovanetti dove
c'è tanto da discutere sulla responsabilità e gravità, ma anche per noi stessi.
Quando si è superata quella faccenda, non si bada più ad altro, non si ha
sensibilità morale per la giustizia, l’onestà, la sincerità, la carità, la
responsabilità per noi queste sono tutte cosette qualunque. No, abbiamo
frainteso una tradizione e quindi guastato il senso morale; siamo freddi in
certa materia, ma amorali in tutto in resto.
Condizione essenziale
287
96
5.4. Castità
5.4.1 La castità salesiana 97
Conserv arci casti e puri al cospetto di Dio (S.G. Cafasso).
“Conservarci casti e puri al cospetto di Dio” sono le parole
costantemente usate dal Santo Cafasso in questa materia, ed ereditate da
Don Bosco, che sempre si valse di questa espressione per indicare la
direzione dello spirito su questo tema. Tema delicatissimo per la nostra vita
interna ed individuale; come per la vita esterna per i nostri rapporti con il
prossimo ed in particolare con ciò che deve essere la materia del nostro
lavoro, il materiale educativo nei rapporti con la gioventù. Tema
delicatissimo ed arduo e non sempre definibile nei riguardi dell'individuo e
della coscienza. Lascio a parte tutta la delicatissima questione dell'ordinando
di fronte a questa materia e ciò che è disposto per i chierici nelle
disposizioni della Santa Sede e delle Curie.
Chiaroveggenza di Don Bosco
Ho detto tema arduo e non sempre definibile, perché nella
coscienza umana c'è una parte inconoscibile anche all'individuo stesso.
Alcuni poi parlano dell'uomo senza considerare che ha i piedi in terra; altri
invece lo trattano come non avesse la testa in cielo.
Interessante sarebbe lo studio della psicofisiologia scientifica, ma
noi dobbiamo attenerci all'aspetto salesiano della materia, perché, guardiamo
bene, questo e il tema primordiale della salesianità. Don Bosco ha lavorato
per tener indietro la gioventù in ciò che riguarda questa materia. Questo e il
punto centrale della pedagogia pratica di Don Bosco, che ridotta nella
formula più semplice consiste nel preservare dal peccato l'anima dei
giovanetti e coltivare in essi la grazia di Dio (ecco i Sacramenti). Per i
giovanetti Don Bosco non teme quasi altro che peccato brutto. Il nostro
96
VIGANÒ E., Un progetto…, oc, pp. 176-197.
CENCINI A., Il fascino sempre nuovo della verginità. Dal silenzio
«impuro» al coraggio giovane = animatori di pastorale...10, 1997, Paoline
Edit.Libri-Milano.
AAVV, Affettività, sessualità e vocazioni: quale cammino di maturazione
nella direzione spirituale. In "Vocazioni" 3, 2003; AAVV, Come annunciare la
vocazione alll'amore verginale nella pastorale vocazionale,. In "Vocazioni" 1, 2001.
pp 926; 52-70.
ACG, 366, 1-3.
97
286
CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 46-55.
intrinseca e li scopre coerenti con il proprio sistema di valori. Internalizzare
significa Introdurre quaIcosa all’interno del proprio essere, farlo proprio,
riconoscervi l'identità personale.
Il motivo dell'adesione è il contenuto stesso dell'atteggiamento e
non le pressioni sociali di compiacenza o le relazioni gratificanti con qualche
fonte influente. La proposta dell'altro è accettata non perché è l'altro che la
fa, ma perché è valida in se e l'altro è credibile. Ciò che è stato internalizzato
— proprio perché sorretto da una valutazione interiore — diventa socialmente indipendente e parte del sistema di valori dell'individuo: una vera e
propria convinzione. […]
Per la perseveranza dell'atteggiamento non c'è bisogno del rinforzo
sociale: la gratificazione a già nel vivere la convinzione stessa alla quale si è
fedeli anche quando nessuno l'applaude o quando si dovrà pagare cara
questa fedeltà. […]
L’internalizzazione da un tono specifico alla vita ed in particolare:
- stile realista (senza esaltarsi o abbattersi, scorgendo negli altri dei
nemici o oggetti al suo servizio, o attendendosi gratificazione a
tutti i bisogni con pretesa ma disposto a dare. In questa linea darà
per scontato che dovrà pagare di persona ed in perdita. La sua
visione sarà a totalizzante senza escludere aspetti indesiderati o
fermandosi sul parziale che acceca. Se questo avvenisse la reazione
conseguente sarebbe multipla a partire da alienazione dalla realtà
personale (non si riconosce più) e sociale (non si ritrova più nel
gruppo), i pensionamenti precoci e la ricerca del «nido su misura»,
oppure la rabbia con aspettative sognate.
- capacita di sopportare la tensione (sopportando fatiche e disagi)
ed anche la relativa rinuncia ai valori contrari (il problema non è la
rinuncia ma la ragione per la quale si accetta la rinuncia; la rinuncia
non crea frustrazione quando è motivata dall'io ideale: l'uomo si
riconosce nel valore scelto, soprattutto ne avverte l'attrattiva che gli
da la duplice forza di tendere al valore e di controllare i bisogni ad
esso opposti). Al centro vi è un valore e non un bisogno e la
tensione di aver rinunciato ad un bisogno dissonante non invade
tutta la persona. L’alternativa non scompare e rimane attraente ma
è posta in secondo piano.
- esercizio efficace delle attività (Noi siamo portati dentro le
attiività a vivere una pluralità di ruoli diversi a volte frammentati o
conflittuali. Il rischio è quello della dispersione o della
cristallizzazione. Chi ha internalizzato ha saputo armonizzare i
diversi ruoli, dando l’importanza che meritano orinandoli e
vivendoli come mezzi. I valori sono i fini mentre i ruoli sono i
mezzi se non si vuole che l’attività sia fine a se stessa ed il ruolo
diventa l’assoluto e rinunciarvi porta alla crisi di identità)
59
Per il cammino di interiorizzazione
Esempio di verifica delle motivazioni sul tema della gratuità dell’agire
1. “Per nulla”. Quando fai qualcosa: quali sono le motivazioni che ti
spingono? Lo fai sperando di guadagnarci qualcosa? oppure c’è
qualcosa d’altro che ti muove? Sei capace di fare verità dopo aver
agito, magari riconoscendo e ammettendo le tue contraddizioni, le
tue falsità, il tuo cercare di stare con un piede in due scarpe?
2. Chi sta al centro della tua vita cristiana, delle tue scelte e delle tue
motivazioni? Il Vangelo o il tuo punto di vista? La gratuità è estranea
ad ogni interesse personale ed è il concentrato della Charitas sine
modo di Gesù: misuri le tue motivazioni (prima durante e dopo) il
tuo agire sul modo di pensare, parlare ed agire di Gesù? Lo scarto
che ci trovi, come pensi di colmarlo?
3. La gratuità è sinonimo di totalità. Quali sono gli spazi, le cose, gli
affetti, le realtà che non sei disposto a consegnare e concedere? Che
cosa ti tiene legato a ciò che, a bene pensare, non ti appartiene
perché dono? E perché fai così fatica a disfartene? Ricorda che la
vera risposta vocazionale è un atto di libertà.
60
Nel resto andiamo avanti come insegnano i nostri superiori, come
possiamo, ricordandoci sempre che quando si viaggia in terza classe si arriva
sempre prima che non quelli di seconda e di prima, perché i carrozzoni sono
piu vicini alla locomotiva, poiché Gesù ha detto: “Beati paperes spiritu”
(Beati i poveri in spirito).
285
solo una casa ma tutta la Congregazione: sono schiaffi agli altri e invito a
fare altrettanto e purtroppo questi cattivi esempi vengono soprattutto dai
preti. Attenzione!
Le eccezioni
Dobbiamo togliere da noi ogni particolarità: vi sono di quelli che
non vogliono assoggettarsi ad essere come gli altri. Sono generalmente dei
bifolchi arricchiti, dei paesani che vogliono far i signori, i pescecani: è gente
che vive di egoismo: quaerunt quae sua sunt (cercano il proprio interesse).
Ce n'è almeno uno per casa. Io domando se sia lecito che vi siano dei
salesiani poveri e dei poveri salesiani. Alcuni non vogliono essere poveri e
cosi abbiamo dei salesiani di prima, di seconda e di terza classe. No, tutti di
terza e non avvenga che dopo un mese dalla messa esploda l'uomo latente,
l'uomo vero che non si adatta alla vita comune, ricercato negli abiti e nel
vestiario, nel mobilio e nella camera, ed ha bisogno di farsi servire; in una
parola vuol passare in seconda classe. Come è brutto! Non lo dico più.
Non tenere danari
A pag. 13-14 dei suoi ricordi confidenziali Don Bosco parla del
tenere danaro presso di sé: “L'osservanza di questo articolo terrà lontano da
noi la peste più fatale per la Congregazione”. Qui ci sono dei testimoni: Don
Olivazzo che ha vissuto ai miei tempi ed allora non si faceva questione se
era lecito o no andare alla Comunione con più che mezza Lira in tasca. Noi
fummo creati nel periodo della mezza lira. A quel chierico che richiedeva se
poteva tener qualche lira, Don Bosco rispose tche non sapeva come si
potesse andare alla Comunione con una disubbidienza simile. Don Ubaldi
che riceveva 40.000 Lire all'anno non teneva in tasca neppure i soldi per il
tram; anche egli era stato fabbricato ai tempi dei 10 soldi. Adesso purtroppo
entrano di più i danari e coi danari la mondanità, la ricerca del piacere;
l'egoismo, la gelosia, si ricerca la roba da mangiare e da bere, nasce la
disuguaglianza, entra la venalità: questi ottiene tutti i servizi che vuole perché
paga; entra... l'uscita di casa; l'andare a divertirsi, speriamo... solo a bere la
birra. Don Bosco l'ha detto ben chiaro: e la rovina della Congregazione.
Conclusione
II nostro stemma “Lavoro e Temperanza” include la povertà, perché
povero necessariamente lavora ed è temperante. Ecco quindi che nel nostro
segno di croce abbiamo messo: lavoro, temperanza; povertà, bontà,
sacramenti e Maria. Il nostro principio deve essere quello della semplicità,
della antimondanità; tutto ciò che è ricercato, lussuoso, particolare, deve
essere escluso.
284
3.2 I desideri 14
“Non possiamo sapere se amiamo il Signore sopra ogni cosa…, ma possiamo sapere se
desiderano amarlo. Non appena abbiamo formulato il desiderio di amore, subito
incominciamo ad avere un po’ d’amore: e man mano che questo desiderio va crescendo,
anche va aumentando l’amore. Chi ardentemente desidera d’amare, ben presto amerà
ardentemente” 15
Dinanzi a te sta ogni mio desiderio. Non dinanzi agli uomini, che non possono vedere il
cuore, ma dinanzi a te sta ogni mio desiderio. Sia dinanzi a lui il tuo desiderio; ed il
Padre, che vede nel segreto, lo esaudirà. Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il
desiderio, continua è la preghiera. Perché non invano ha detto l'Apostolo: Pregando senza
interruzione. Forse noi senza interruzione pieghiamo in ginocchio, prostriamo il corpo, o
leviamo le mani, per adempiere all'ordine: Pregate senza interruzione? Se intendiamo il
pregare in tal modo, credo che non lo possiamo fare senza interruzione. Ma c'è un'altra
preghiera interiore che non conosce interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu
faccia, se desideri quel sabato, non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere la
preghiera, non cessar mai di desiderare. Il tuo desiderio continuo sarà la tua continua voce.
Tacerai se cesserai di amare. 16
3.1.1 L’uomo e Dio desiderano
Agostino definisce l’uomo un animale desiderante, come emerge da
tutti i testi biblici.
L’uomo è tensione costante verso qualcosa che è sempre oltre che
soltanto Dio può colmare meglio: l’unico desiderio è vedere Dio (Sal 42,2;
63,2-3; 119,20; 123,2; 130,6; Is 26,8; Ap 22,20; Es 33,13.18). Desiderio a cui
risponde ma sempre in modo incompleto aprendo a nuova attesa. È lui che
lo ha posto dentro il suo cuore. Quindi è un desiderio profondo, radicale
universale e inestirpabile, inappagabile ed inappagato.
Desiderio che può deviare e divenire seduzioni deformi e perverso
di quell’unico originario.
Questo desiderio ha la medesima dinamica di manifestazione:
attrazione che seduce
14 Cfr. CENCINI A., Il mondo dei desideri. Orientamenti per la guida spirituale,
Ed. Paoline, Milano 1998.
CENCINI A. …… Vocazioni 2007…
15 S. FRANCESCO di SALES, Trattato…, oc, LIBRO XI, Cap. XII,2.
16 AGOSTINO d’IPPONA, Esposizione sui salmi, La cittadella, Assisi.
61
morte.
illusione di felicità
azione conseguente di possesso o conquista
manifestazione del suo potere che toglie libertà e conduce alla
Questo implica un continua conversione per riportare a galla
l’unico a cui si anela.
Dio pure desidera, e Gesù ne è il vertice con il suo ardente,
angoscioso e pervasivo volere la gloria del Padre e mostrare agli uomini
l’amore con cui sono amati.
In ogni uomo vi è una traccia del desiderio divino ossia di ciò che
Dio desidera per l’uomo e di ciò che è il vertice e la pienezza, l’infinito di
ogni cosa, ossia Dio stesso.
3.1.2 Definizione di desiderio
-
Dal punto di vista filosofico, il desiderio fa riferimento alla
mancanza dell’oggetto (negativo) e che è appetitoso
(positivo)
- Dal punto di vista pedagogico, è la tensione psichica con cui
si aspira ai beni (fisiologici-autoconservazione o
autorealizzaione-autotrascendimento) che ancora non si
posseggono
- Dal punto di vista psicologico confluenza di viversi
atteggiamenti interiori che generano modi d’essere e di
agire
Non è allora un cieco impulso o una voglia matta, un essere eccitati
da ciò che è piacevole ma una tendenza significativa verso qualcosa che è
apprezzato in sé e pure in relazione con la propria persona, una aspirazione
con tutte le forze verso qualcosa che vale in se e che si pone al centro della
vita e del futuro
Esso è costituito da due elementi: verità e libertà, perché percepito
come qualcosa come significativo, che ha sapore, che dà senso dentro il
quale la mia identità è posta in relazione nei confronti dei quali si pongono
dei passi conseguenti.
Due componenti lo delineano: l’appagamento e il suo opposto. Il
desiderio nasce da un vuoto da un limite e conduce verso l’opposto nel
quale però non trova compimento, perché cresce quando si realizza,
creando un nuovo appagamento “da un lato è già appagante e ppagato nella
suia tensione continua e creativa, dall’altro è insaziabile perché segno della
dimensione trascendente dell’uomo”. È questa la natura contraddittoria del
desiderio.
62
Il mondo ci riceverà sempre con piacere finale ci cureremo della
salvezza della gioventù piu povera e piu pericolante. Questa è la vera
agiatezza che nessuno verrà mai a rapirci”. E’il uo testamento! Possiamo
dimenticarlo?
Saper star senza
Grande è la parola detta da Don Bosco nel 1858: “La povertà
bisogna averla nel cuore per praticarla, bisogna tenerla davanti per
comprenderne tutto il segreto della pratica”.
In pratica abbiamo bisogno di molte cose per l'esercizio della
perfezione propria del nostro Istituto; non apparteniamo all'Ordine
mendicante e quindi abbiamo edifizi e attrezzatura differenti. Ciò che e
necessario od utile per l'esercizio della nostra perfezione rientra nel riguardo
della povertà; anzi Don Bosco lo estende anche nel riguardo dell'età, del
lavoro, della malattia; e questo è gia compreso nell'Epistola 2a di S. Pietro: “
Maxime qui laborat in verbo Domini...”(Specialmente colui che fatica nella
parola del Signore...), ma in qualunque posizione noi ci troviamo, per noi
rimane sempre il principio che è il segreto della nostra vita: “L'amore alla
semplicità, al tenore di vita povera: saper star senza”. Basterebbe questa
frase per farci capire in pieno lo spirito della nostra povertà.
che hai;
Vari aspetti della povertà.
Ci sono sei qualità di povertà: tre buone, tre non buone:
La povertà inculcata da N.S.G.C.;
La povertà di consiglio: Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello
La povertà di professione: non è altro che quella di consiglio
praticata nello stato religioso.
Ci sono poi tre aspetti non buoni, antireligiosi, rovinosi:
La povertà forzata di chi non è mai contento, piagnucola, si
lamenta sempre, non ne ha mai abbastanza; vogliono essere poveri a patto
che non manchi loro mai nulla.
La povertà smentita con la immortificazione, colla mondanità, colla
ricerca delle delicatezze, l'abbondanza dei cibi. Povertà, ma con una casa ben
distinta e di lusso, tutto nuovo e della migliore qualità.
La povertà schernita, la beffa della povertà; la povertà di coloro che
vivono nella Congregazione ed applicano quello che dice S. Paolo
Unusquisque habet sum » (Ad ognuno il proprio), ossia han soldi in tasca;
prendono quello che da la Congregazione e poi si arrotondano la vita con
tutti i conforti; hanno il denaro, lo spendono e poi lo dicono ancora in
faccia: “Questo melo pago io; questo alla Congregazione non costa niente
perché me lo hanno regalato”. Bastano pochi di costoro per rovinare non
283
Don Bosco sempre inculca di lavorare come, fanno ipoveri,
lavorare per renderci degni della Provvidenza, usare bene della carità che il
mondo viene facendoci. Questa è per lui un'idea costante, e nel 1885 inculca
la povertà con questa sentenza: “Ricordiamoci che da questa osservanza
dipende in massima parte il benessere della Congregazione e dell'anima
nostra. La Divina Provvidenza ci ha finora aiutati e speriamo che seguiti
ancora ad assisterci per intercessione di Maria SS. che fu sempre nostra
buona Madre; ma noi dobbiamo avere ogni diligenza per fare buon uso ed
economia di tutto quello che non è strettamente necessario”.
La suppellettile
Soprattutto aveva Don Bosco un timore speciale: che alcuno
potesse dire: “Questa suppellettile, non ha segno di povertà; questa mensa,
questa abitazione non è da povero”. Nell'ultimo suo testamento del 1886
scrive: “Chi porge motivo ragionevole di fare questi discorsi cagiona un
disastro alla Congregazione. Sia sempre la nostra gloria la povertà. Guai a
noi se coloro che ci fanno la carità potranno dire che noi teniamo una vita
piu agiata della loro!”. Eppure alcune volte avrebbero ragione se entrassero
nella camera di qualche confratello.
Don Rua fu l'incarnazione della povertà salesiana, perché
presentava Don Bosco alla lettera. Nella sua circolare del 1885 conforme a
quella del 1886 insiste anch'egli sulla mobilia e abitazione che non sono
conformi allo spirito di povertà. Morto Don Bosco, un prete preso dalla
giovinezza, si mise a fare il signorino, la sua camera diventò un piccolo
salotto. Don Rua avvisato,va a trovarlo, guarda, riguarda, poi tentennando il
capo: “Non è mica da povero, è roba da ricchi, la tua camera non è da
povero”. Dopo alcuni giorni vede un carretto che trasporta un pianoforte:
“Dove lo portate?”.
“Nella camera del tale “.
“Per adesso portatelo la,servirà nelle feste grandi quando si dovrà
cantare la romanza”.
E cambia casa all'individuo. Passato un certo tempo va a fare visita
a quella casa, e appena giunto:
“Conducimi nella tua stanza, voglio vederla...Già, già, anche
trasportarti non basta; guarda, questa roba non è da povero: metti via questo
tavolino...” ed a forza di “no” e di “metti via” gli ha spogliato la stanza.
Alla base vi è l’esperienza del limite unita alla percezione che
intravedere un obiettivo che risponde a quella mancanza e per questo sentito
come vero per la propria vita. Si rinforza nella tensione verso questa meta
resistenzo alla frustrazione di non poterlo perseguire immediatamente.
Il desiderio non si compie quando l’oggetto è posseduto ma
quando colui che desidera decide di tendere verso l’oggetto, concentrando
l’energia nella tensione. {?}
Vi è un legame stretto fra desiderio e decisione. Solo questi mette
in atto l’intero dinamismo psichico.
Nella tensione vi è già l’appagamento che apre a nuova ricerca,
nuova tensione, nuova libertà.
La condizione iniziale per desiderare è la capacità di dare senso alle
cose scoprendone la verità intima sapendo rinunciare a ciò che blocca ad un
livello più basso rispetto al desiderio di partenza.
È necessaria pazienza e costanza nell’attesa per giungere al
compimento trasformando questo tempo in momento di purificazione e
crescita del desiderio stesso, domandandosi cosa sia al centro della sua
attesa. Se il desiderio si affievolisse sarebbe il segno della sua falsità.
Desiderare a aprirsi al nuovo che non si conosce ed al futuro che
viene in qualche modo anticipato attivando la volontà, smuovendo energie,
dando forze per superare le fatiche e il coraggio per attendere la
realizzazione.
È il desiderio che muove l’intero apparto psichico e non la volontà.
Colui che desidera è intelligente e curioso
Intuitivo e cerca il senso vero delle cose
Scruta e discerne le cose
Ammira e contempla la realtà
Non si ferma alle difficoltà e godono di ogni vibrazione
3.1.3 Oggi crisi di desiderio
Desideriamo poco e spesso tutti allo stesso modo
Corto raggio – immediato e di gruppo
o Questo a causa di un vuoto educativo ed esistenziale che
è frutto di un permissivismo esasperato, un
soddisfacimento immediato per cui è difficile
primariamente delineare i propri sogni.
o La conseguenza è la sovrabbondanza di beni più che
desideri, per cui non vi è più il “diritto d soffrire”
implicito in ogni crescita. Facciamo di tutto per
proteggere, anticipare desideri, risparmiare delusioni,
togliendo però pure la grande esperienza della conquista.
o Il desiderio si nutre di bellezza quando oggi vi è uno
scadimento del gusto estetico divenuto ambiguo, con
II testimonio di Don Bosco
Nel suo testamento l'ultima raccomandazione è: “Amate la
povertà se volete far fiorire la Congregazione” (M.B. XVIII, 271). Nella
stessa pagina ha ancora un'altra sentenza: “Quando incominceranno tra noi
le comodità e le agiatezze la Congregazione avrà finito il suo tempo.
282
63
o
debolezza di criteri e che non danno motivazioni forti per
le scelte individuali. Per cui le scelte se vengono fatte
sono su provocazione per funzionalità o utilità, facendo
calcoli per interesse. Allora il desiderio è povero e debole
come fosse una cosa inutile o di lusso.
Una ulteriore dinamica oggi emergente è quella della
paura che assume diversi volti: quella del futuro, di ciò
che sta all’intorno, della società, dei rapporti.
Questo smorza il desiderio e pone nella logica
opposta che è quella della prevenzione.
Desiderio
Creativo
Frutto dell’attrazione
Il sogg. si lascia conquistare
L’ogg. è bello e affascinante
Prevenzione
Reattivo
Frutto della paura
il sogg. si cautela
l’ogg. è brutto
E in questo siamo circondati da una miriade di informazioni
preventive che smorzano
o In questo contesto tutto appare dovuto e deve essere
nella categoria della perfezione, rispondendo a principi di
soddisfazione immediata e totale da una parte e da noia
per una clonazione assistita dall’altra. Solo chi vive nella
gratitudine ha uno sguardo carico di desiderio
diversamente al prevenzione qui si manifesta come
risarcimento per un esistenza che non corrisponde di cui i
genitori divengono l’emblema di una colpevolezza da
indicare.
3.1.4 Educazione – formazione ai desideri
Spesso non siamo consapevoli di ciò che desideriamo, e se
effettivamente lo desideriamo al di là della formulazione intellettuale o
volontaristica perché in effetti il cuore è abitato da latri desideri. Non basta
esprimere ciò che si sente dentro, accontentandosi di essere sinceri perché
questo spesse volte non coincide con ciò che è vero.
La sincerità è immediata e soggettiva, registrando ciò che uno
prova e facendo emergere ciò che uno vorrebbe possedere. La verità del
desiderio è un'altra cosa: è ciò che attiva il cuore, la mente, la volontà e
spesso non è subito evidente, ma funziona come motivazione nascosta che
spinge ad agire in una ben precisa direzione.
Sincerità non è allora sinonimo di verità.
spirito di povertà, mentre quelli che lo mantennero fiorirono
meravigliosamente, per es. i Cappuccini. Chi è povero pensa a Dio, quasi
costretto dalla necessità, Non e bella cosa essere obbligati a pensare a Dio?
La raccomandazione di Pio IX
La sera del 19-II-1863, giorno in cui le Congregazioni Romane
approvarono la nostra Congregazione, Don Bosco si trovò a colloquio con
Pio IX. Tra le altre cose il Papa disse: “Badate di non accogliere nella vostra
Congregazione né ricchi né nobili e tenetevi sempre alla gioventù povera e
abbandonata, alle classi diseredate”.
Agiatezze
In una conversazione del 14-VIII-1876, già ricordata, Don Bosco
ricorda tre cose che gettano giù lo spirito della Congregazione: l'ozio, la
ricercatezza e l'abbondanza dei cibi, l'egoismo e lo spirito di riforma o
mormorazione, ed aggiunge: “Ma io vedo già entrare tra di noi una agiatezza
che spaventa”. Forse alcuno aveva messo un tappeto sul tavolino e due
sedie invece di una, uno straccio alla finestra della soffitta, un paio di scarpe
nuove un mese prima di gettar via le vecchie... E l'anno prima aveva detto:
“In casa già si tende all'agiatezza e per poco che si trascuri verrà subito
qualche grave inconveniente o qualche caso deplorevole”. Santa
esagerazione! Eppure tutti i santi fondatori sono stati così.
Nell'inverno del 1880 va a S. Benigno, tiene una conferenza al
personale della casa e proibisce di fare i pastrani ai chierici: “Costa troppo, il
chierico deve darsi da se il calore”. Con quel freddo, senza riscaldamento e
senza pastrano, eppure si stava bene! Quella volta alcuni gli dissero:
“Mettiamo qualche cosa alle finestre”
“Questo è fare il signore”.
“Ma un po' di decoro... !”.
“Il decoro dei salesiani è la povertà”, ha risposto secco e quando
rispondeva secco era secco realmente, perché aveva una voce squillante e
parlava a denti stretti.
Carità e povertà
Don Bosco in questa materia è quasi feroce, eppure nel suo ultimo
ha due pagine meravigliose sul modo di trattare gli indisposti, gli ammalati,
chi ha gia lavorato molto. Raccomanda di essere larghi con loro, purché non
si faccia la seconda tavola. Invece nel 1885 quando scrive la circolare, ha
espressioni come questa: “Una veste, un tozzo di pane devono bastare per
un religioso”.
La povertà e la Provvidenza
64
281
per evitare il peccato, che non sempre è grave, ma per accendere in noi un
desiderio di essere poveri nello stretto senso canonico della parola, secondo
lo spirito della nostra Congregazione. Questa povertà si esplica non solo nel
non possedere e nel non amministrare, ma soprattutto nella volontà di
essere povero ossia voler vivere e diportarsi da povero. Povero
personalmente, accettando, cercando ciò che è effetto di povertà e non
amandola in astratto, ma in concreto.
Don Bosco a pag. 16 dei ricordi confidenziali ai direttori: “Amiamo
la povertà ed i compagni della povertà, perché ciò che ci fa più danno sono
gli astratti”. Tutti amano la gioventù, ma quando hanno 50 pulci tra i piedi li
manderebbero... a chi li ama di più. Il Vangelo non ha insegnato ad amare
l'umiltà, ma il prossimo, il singolo, individuo, particolare.
Così ci ha voluti Don Bosco. Poveri personalmente, accettando e
ricercando chi che e effetto della povertà, amando il tenore della vita povera,
semplificando tutto quello che ci deve servire. Così deve essere povero chi
vuole vivere salesianamente la sua salesianità, ossia come
è vissuto Don Bosco.
L’idea classica di Don Bosco
La povertà in se stessa non ha valore intrinseco; il Signore la
inculca solo in quanto porta con sé un distacco dalla ricchezza. La povertà
ha dunque solo valore per il suo contenuto spirituale della mortificazione,
del distacco. Tutta l'ascetica di Don Bosco sulle tracce di quella Alfonsiana è
ascetica del distacco. Per Don Bosco la povertà è una perfezione spirituale.
Egli ha cominciato dal niente, ha continuato tutta la vita nella povertà, è
vissuto in maniera esemplare ed eroica nella sua povertà personale. Mamma
Margherita (proprio da lei aveva attinto la sua perfezione) prima di morire
gli faceva ancora delle raccomandazioni su questo punto: “Guarda di
mostrare semplicità e povertà nell'opera tua... nelle cose che farai cerca la
gloria di Dio, ma bada che attorno a te vi sono di quelli che vogliono la
povertà solo per gli altri e non. per se stessi”.
Averla nel cuore
C'è una massima di Don Bosco del 1858 the da sola vale un
discorso: “La povertà bisogna averla nel cuore per praticarla”. Magnifico è il
libro che ha scritto quest'anno il sig. Don Ricarldone, ma nonostante tutto
quello che dice e proibisce non otterrà nulla, se non l'avremo nel cuore. Nel
1859 Don Bosco dice ad alcuni confratelli: “Essere pochi e poveri non è un
impedimento: anzi grande impresa è la povertà: essa è la nostra fortuna, una
benedizione di Dio e noi dobbiamo pregare il Signore a volerci mantenere
sempre nella povertà volontaria”. Dopo queste parole, ricorda come molti
ordini religiosi decaddero, perché non seppero conservare il primitivo
280
Spesso nel cuore abitano desideri autentici che però non sono
facilmente individuabili o non si riescono a far emergere perdendo così la
verità della persona.
Il percorso da compiere in sè e con la propria guida è a volte una
vera discesa agli inferi esponendosi a scoprire i propri “mostri” che non si
pensava di trovare dentro sé altre volte sarà un trovare la perla preziosa,
passando quindi dall’apparenza alla realtà attraverso due movimenti: quello
dello scavare e quello dello scalare.
o Scavare i desideri è identificare la storia di un desiderio
cogliendone l’origine nell’esperienza individuale
È andare in profondità al di là del visibile:
passando dai comportamenti agli atteggiamenti (gli stili di
vita, le predisposizioni ad agire, i modi ormai appresi)
dal detto ai sentimenti (dagli espressi ai più nascosti)
per giungere alle motivazioni, ossia i veri perché che
spiegano azioni e progetti.
Se questo percorso in profondità è compiuto dentro la costanza di una
relazione orante con il Signore emerge chiaramente la verità di noi stessi di
fronte alla verità di Dio. Lui pone luce dentro la nostra realtà. Lui con la
Sua Parola, la Sua croce e l’Eucaristia divengono setaccio che fanno
emergere desideri, tendenze, paure. È preghiera di discernimento. Gesù
chiede al cieco «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io
riabbia la vista!». Mar 10,51 Domanda apparentemente inutile, tanto è evidente
la situazione ma egli vuole che il cieco interroghi se stesso e prenda
coscienza del desiderio passando da un bisogno fisico a quello di salvezza.
o Scalare i desideri è scrutare la posizione possibile, il suo
futuro
Dove può portare questo desiderio?
Che cosa c’è al di là della immediata
soddisfazione?
Come potrebbe essere realizzato in
pienezza?
Quele è il suo vero punto di arrivo?
Scalare significa scoprire e impedire tutti quei tentativi
meschini e riduttivi di dare risposte che di fatto restano in superficie del
problema, invece di giungere al bene.
Cogliere dentro il singolo vero desiderio il respiro di
divinità è l’unica via per dare senso ed unità a tutte le fatiche, perché ogni
esperienza autenticamente umana mette in relazione con il Tu che desidera
la “vita abbondante”
Andare oltre se stessi, oltre il proprio pensiero e sentire per
accogliere il “magis”.
65
Nessun desiderio è troppo piccolo per essere fuori da questa
prospettiva.
A volte i desideri sembrano in opposizione ma nella ricerca di
godimento e distensione umana anche la più povera è posta la ricerca di quel
qualcosa di più a cui anela ogni cuore. Scalare significa alzare lo sguardo
imparare a puntare al massimo, a non accontentarsi di gratificazioni parziali
o illusorie, a non adeguarsi all’opinione della maggioranza, fermandosi all’io
attuale.
Anche questo nella realtà della preghiera è lasciarsi modellare dai
Suoi desideri anche se questo significa farsi torcere, ossia volgere il desiderio
verso l’obiettivo finale facendo saltare la misura umana delle nostre
aspirazioni spalancando gli spazi illimitati del desiderare divino.
Questo può suscitare paura
e voglia di azzerare tutto,
accontentandosi di molto meno e dando retta a più miti consigli.
Ma proprio il clima di preghiera ci pone nella certezza che Lui
trasformerà e purificherà, perché l’amore è sempre trasformante, coscienti
dall’altro canto che questo chiede un lungo apprendimento e non è per nulla
spontaneo ma attraverso la guida e l’ascolto dei silenzi di Dio.
chi non è abulico e incosciente. È meritoria quando uno deve operare su un
binario che va in un punto morto o peggio ancora. Sacrificio quando
bisogna stare con uno che comanda senza esserne degno, o in modo
indegno o con passione personale contro di te; e sacrificio quando chi
comanda non ha di buono che la veste che ha indosso, ma anche e
soprattutto in questi cosi tu devi vedere Dio. Troverai persone che sono
incapaci, superiori sbagliati ce ne sono, troverai alcuni che Leopardi dice: «
Discepoli di tale di cui mi sarà vergogna essere maestro”. Gente che ha
raggiunto il posto con mezzi subdoli..., potrai trovare le persone più sante
messe su da un intrigante che l'ha con te, e non ne imbrocchi una. L'aveva
gia previsto S. Benedetto al capo settimo delle Regole parlando dell'umiltà:
«Il quarto grado dell'umiltà, egli dice, e il sapersi dirigere in questa
posizione”. E ce ne sono di questi. Un salesiano illustre che portava il cilicio
(Don Fascie) è stato 5 anni con un superiore di questo genere.
Concludendo
La materia dell'obbedienza per noi figli di Don Bosco non è
questione casuistica e di canoni, è umiltà nei sentimenti, sacrificio interno
della volontà, di giudizio e qualche volta anche sacrificio esterno e carità
verso il superiore. Con questo spirito che ha fatto trionfare la
Congregazione nel mondo, ricordiamolo bene: i raggi della nostra aureola, i
4 principi che cirendono gloriosi davanti alla Chiesa e alla storia sono:
Lavoro, Temperanza, Povertà e Disciplina.
Scheletro che sorregge il salesiano, è l’unico carisma che in realtà
don Bosco ha richiesto, la logica dell’obbedienza non è quella del servilismo
L’obbedienza è gioiosa, schietta e ideologica, è rinunciare
all’indipendenza e cercare la libertà (servire regnare est), diventi utile quando
accetti di essere inutile
5.3. Povertà94
5.3.1 La povertà salesiana
95
“Beati pauperes spiritu...” (Beati i poveri in spirito... Mt5,3).
Lo spirito di povertà è quello che ci assicura il cielo. Il tema che ci
proponiamo è quello della nostra povertà, della povertà salesiana. A noi non
interessa la catechesi del voto o la infrazione del voto in senso teologico, ma
ci interessa la volontà di praticarla; dobbiamo ridestarne lo spirito non solo
94
VIGANÒ E., Un progetto…, oc, pp. 158-175.
ACG 367, 1 – 4.
95
66
279
CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 40-45.
quindi il principio fondamentale della vita salesiana: l« Lavorare tutti con
disciplina di famiglia nell'unione per la maggior gloria di Dio e per poter
ottenere il fine collettivo che è la salvezza delle anime. Questo è il concetto
di Don Bosco diffuso in tutti i suoi scritti e ricordate il grido d'angoscia: «
Ma ora i superiori vogliono essere superiori e non sono più padri, fratelli,
amici; sono temuti e non amati ». E lo scatto che ha: « Ma perché si vuole
sostituire la freddezza di un regolamento al principio della carità? ».
Per il cammino di interiorizzazione
Cosa c’è dietro questo desiderio?
Che cosa dice della mia vita?
È davvero ciò che mi sta a cuore o copre qualcosa di ben più
profondo di cui non sono consapevole?
Imboschiamoci
Studiamo Don Bosco, altrimenti andiamo canonizzandoci e
dimentichiamo il principio fondamentale della Congregazione che è la
bontà. Questo dev'essere il principio direttivo del sistema preventivo anche
nei superiori. Si pubblichino dei libri di lettura spirituale apposta per noi
dettati per il nostro spirito, come si era prescritto nel Capitoto Generale di
35 anni fa, altrimenti andiamo leggendo altri libri e perdiamo il nostro
spirito. II nostro testo è Don Bosco e non altri... e non la vogliono capire.
La questione di principio
Don Bosco ci si presenta come per l'osservanza e la austerità
piuttosto severo, rigido, direi intransigente. Infatti nel 1885 ai direttori dice
cose molto forti: « Finora l'obbedienza da noi fu più personale che religiosa.
Evitiamo questo inconveniente e non obbediamo perché il tale comanda,
ma obbediamo per motivo superiore, perché chi comanda è Dio, comandi
poi per mezzo di chi, vuole ». Nel 1886 il 3-X me presente, in quel famoso
giorno in cui saltò su contro la mormorazione, contro lo spirito di critica,
proprio in quella circostanza, pronunciò questa sentenza: «un sacrilegio fare
il voto di obbedienza e poi regolarsi come fanno taluni che obbediscono
solo quando loro piace ». Ed in altra circostanza: « Recedendo dai nostri voti
facciamo un furto al Signore, perchè ritogliamo ciò che abbiamo messo nelle
sue mani ».Una volta Don Bosco mandò un ordine ad un tale che era
stimato e chiamato santo e che ci teneva a tale appellativo e questi non si
piegò. Ne mandò un secondo ed ottenne il medesimo risultato. Manchè per
la terza volta lo stesso ordine mediante una persona e l'individuo non si
piegò. Allora Don Bosco: « Il tale fa il santo ma non obbedisce nemmeno a
Don Bosco... Consultate tutto il Martirologio e vedrete che San Testone non
c'e ancora ».
Catena... d'oro
La vita sotto obbedienza la conosco da 54 anni e vi posso dire
tanto biograficamente come storicamente per altri che è vita di sacrificio, ma
l'atto più meritorio di tutta la vita perché comprende il sacrificio della nostra
personalità; e sacrificio della nostra volontà e quindi e più duro di tutti per
278
67
4. Maturità psicologica e santità
cristiana
4.1. Criteri di maturità
Nelle scienze umane oggi sembra essere abbandonato il concetto di
maturità sostituito al massimo con quello di maturazione nelle diverse fasi,
perché la prima fa riferimento ad una concettualizzazione della persona in
chiave di staticità ed ad uno sguardo giuridico valutativo mentre si predilige
la dimensione pedagogica.
Si parla allora di una pluralità di nascita con nuove sintesi e nuove
scelte:
 fase di sopravvalutazione
 l’esperienza del limite
 coscientizzazione della fatica al cambiamento
 disorientamento della riqualificazione del senso
delle cose
 sino alla consegna totale di se stessi con la
serenità di lasciar spazio agli altri
- uomo come essere capace di relazioni gratuito e libere
 capacità di affidarsi
 capacità di condividere
 capacità di prendersi cura
- uomo che ha interiorizzato i valori e non solo li ha indossati (cfr.
2.1 C)
- uomo che ha preso coscientemente e serenamente la responsabilità
del suo cammino di crescita (cfr. 0.1)
Anche nell'obbedienza bisogna fare delle distinzioni: c'e la
questione del principio e quella della forma.
II principio incrollabile è questo: •necessità e dovere di obbedire.
La forma invece consiste nello speciale concetto dell'obbedienza nel regime
salesiano, ossia nel modo di attuare il principio. Vediamo quindi questa
forma. L'idea di Don Bosco su questo punto è quella di un'obbedienza, di
una disciplina di famiglia. Nella celeberrima lettera del 10.V.1884 colpisce
superiori che vogliono essere considerati come superiori e non più come
padri ed amici: sono temuti e non amati. Ma perché sostituire la freddezza
rigida di un regolamento al principio della carità, dell'obbedienza amorosa ed
amorevole? Amorosa nel principio, amorevole nella forma? Il regime di
comunità interessa solo quando si sente di essere in famiglia; solo in simile
ambiente tutti sono interessati per il bene comune. Tutti obbediscono al
capo e padre, ma il padre deve essere padre ed amico. Per gli altri interessi
comuni deve tenerci uniti un fine, un motivo superiore e non quello di
guadagnare i soldi, ma il bene, la conquista delle anime, la salvezza della
gioventù, che abbiamo in casa. Quindi non solo disciplina
che scansa
la sanzione canonica, ma cooperazione volonterosa di tutti per il lavoro: per
questo abbiamo come stemma: Lavoro e Temperanza; per questo Don
Bosco volle che ogni casa fosse una famiglia sotto un padre comune, e
benché i papà non siano tutti uguali, pure si vuole sempre loro bene. Insisto
su questa idea, perché se entrerà nelle case, i superiori non ne avranno
dispiacere e la Congregazione andrà avanti meglio.
Padre e non capo ufficio.
Don Bosco volle obbedienza in vista dell'unione, quindi obbedire
ad uno per essere uniti. Ai direttori riuniti 3.11.1876 dice: « Se un prete solo
ha fatto tante cose con niente, che cosa non faranno 330 persone riunite e
forti? » (Allora i salesiani erano 330). Unione sì; ma unione di figli e di
fratelli col padre e non unione di impiegati che si uniscono al capo ufficio;
quindi il padre sia padre e non il cavaliere, commendatore che comanda a
tutti gli impiegati. Se il padre considera i dipendenti come gli impiegati,
allora anche i sudditi lo considerano come capo e non come padre di
famiglia. Nei ricordi confidenziali ai direttori per ben 16 pagine Don Bosco
insegna ai direttori come si fa a fare il padre.
Il colpo d'ala
Nella Circolare inedita nella fine di aprile 1885 in cui ci convince
che tutto va fatto per la gloria di Dio, aggiunge: «Dobbiamo obbedire non
perché è comandato, ma per una ragione superiore, per la gloria di Dio». Sul
medesimo concetto insiste nelle norme ai direttori del 1884 manoscritte.
Unione nell'obbedienza per la gloria di Dio è un motto di Don Bosco. Ecco
68
277
Vi sono dei concetti di obbedienza che annullano la spiritualità.
Prendete il cap. VI, 1, 3 delle Regole di S. Ignazio: «Perinde ac cadaver,ac
baculus » (Come un cadavere e un bastone). Questa è obbedienza rigida,
fredda, che annulla la personalità, non è fatta per noi: noi siamo salesiani e
facciamo i voti secondo le Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales
e non secondo le Regole e le Costituzioni della Compagnia di Gesù. Questo
principio riportato e magnificato da tutti i libri d'ascetica non è il nostro.
Noi non dobbiamo essere delle marionette senz'anima. C'è pure una teoria
paralizzante, disfattista, conventualista che serpeggia e s'inculca senza
saperlo e conduce a gravi conseguenze. Stiamo attenti noi abbiamo un altro
spirito che si riassume nel motto salesiano “Vado io”. Non so quanti giorni
di indulgenza abbia, ma certo un maggior bisogno per la Congregazione che
è cresciuta tutta con «vado io» così in forza di sacrifici: solo così si spiegano
le missioni perché S. Madre Chiesa arriva poi solo dopo a organizzare, a
reggimentare ciò che è frutto dei sacrifici di coloro che hanno detto: «vado
io»
L'eresia e la bestemmia salesiana
C'è però anche il contrario della medaglia che è una eresia salesiana
espressa nella forma: «la regola e basta». C’è n'è uno per casa di questi
batticolpo e posapiano: c'è del lavoro enorme da fare ed essi si scusano
sempre: « Nessuno me l’ha detto ». Io li prenderei a...! Simile all'eresia, anzi
peggiore ancora è la bestemmia salesiana: «non tocca a me». Brucia la casa: «
Non tocca a me »; un rubinetto perde acqua: « Non tocca a me »... e andate
avanti di questo passo. Povera Congregazione, starebbe fresca se avesse un
certo numero di questa gente. Per delineare bene il nostro spirito possiamo
definirci cosi: « Una Congregazione in cui tutte le azioni, attività, iniziative
personali sono inquadrate in una organizzazione disciplinata dall'obbedienza
». E quindi il nostro concetto affatto differente da quello degli altri Ordini.
L'esempio
Permettetemi una parentesi: bisogna che noi abbiamo consapevole
del nostro stato di preti. Il prete è sempre prete. I coadiutori, i chierici
guardano a lui, e quindi in grazia della pretura siamo tenuti a dare buon
esempio; alcune volte costa un po' caro, ma pure tocca a noi dirigere la
macchina, perché siamo noi la ruota principale del meccanismo che
chiamerò. Lanzo, Cuorgnè, Chieri... Per gli altri le disubbidienze sono
scappatelle da collegiali, per noi invece sono consapevoli, premeditate;
questo intacca la compattezza della disciplina comune: dobbiamo ricordarci
che abbiamo obbligo sacrosanto di mostrarci agli altri più solleciti
nell'obbedire: è un obbligo inerente alla nostra condizione.
4.2 Autocontrollo 17
Autocontrollo significa gestire se stessi nella dinamica dell’Unum,
Verum, Bonum, Pulcrum cioè del trascendente, della verità di noi stessi.
Autocontrollo in termini di discernimento
San Francesco di Sales ribadisce varie volte che l’uomo ha una
distinzione intrinseca una parte superiore ed una inferiore, nell’una vi sono
gli istinti nell’altra abita la verità di noi stessi, luogo dell’appello di Dio, e
della vera umanità.
È in questa sfera che nasce la purificazione
dal controllo sociale, che ci pone in balia delle opinioni,
apprezzamenti… degli altri
da quello formale\giuridico che ci mantiene nella logica
del solo dovere con correlato senso di colpa
per giungere gradualmente
al controllo valoriale che trova in ciò che è stato
interiorizzato il punto di confronto
al “controllo” teologico cosciente d’essere alla Sua presenza
quale
custodia forte che ha posto un cherubino a difesa
del giardino (Gn 3,24) e di te (Sal 91)
presenza preveniente che mantiene su ciascuno uno
sguardo amante
verità giudicante senza confusione sul bene e sul
male
per cui alcuni atteggiamenti non li attuerò
al “controllo” cristologico per cui la prova di verifica
continua è data dalla crescita nella somiglianza a Lui.
Autocontrollo allora in questa chiave è cammino di
identificazione a Cristo, ai suoi pensieri, al suo modo di
parlare, al suo modo di agire…
17 La tematica della rinuncia vista nell’internalizzazione delle motivazioni.
CHAUCHARD P., Il dominio di se stesso. Psicofisiologia della volontà = I prismi 2,
Edizioni Paoline, 1992 9 Cinisello Balsamo (Mi).
La nostra obbedienza
276
69
4.3 Autonomia18
4.4 Altruismo
4.5 Autenticità
“Chi si conosce davvero, si rende conto di quello che può fare e di
quello che non può fare. L'autenticità e una virtù fondamentale: è il coraggio
di essere se stessi nel bene, nei talenti che si hanno e anche nei limiti che
ciascuno di noi ha. Tuttavia e molto difficile essere autentici in una società
competitiva come la nostra, nella quale alcuni hanno successo, riescono ad
acquistare potere su altri: potere culturale, morale, non soltanto economico.
La tentazione è sempre di non essere noi stessi bensì di imitare
negli atteggiamenti esterni chi ha successo. Nasce cosi il divismo: si imita il
cantante alla moda, il calciatore, l'uomo politico, ecc.
Ci può essere, è vero, un aspetto giusto nell'ispirarsi a un modello.
Molto spesso però ci sta sotto una sottile menzogna: sapendo di non valere
molto, cerco di immedesimarmi, almeno con la fantasia, in quel dato attore
o cantante o politico o calciatore o pugile. Mi leggo in quella persona,
fantasticamente, e rinuncio alla semplice verità e forza della mia vita.
Noi talora cadiamo in questa piccola trappola addirittura anche a
riguardo dei Santi. C'e un modo di guardare ai Santi che non e educativo per
la nostra crescita ma illusorio. Vorremmo essere ciò che non siamo e la
fantasia ci fa credere di essere diversi dalla nostra verità, ci fa scambiare
l'entusiasmo che sentiamo […] C'e in me una aspirazione che devo tradurre
con realismo nelle mie capacita concrete.[…]
C'e dunque in noi o attivamente (per quanto ci riguarda) o
passivamente (per quanto riguarda gli altri) una sorta di abitudine a ingrandire la realtà, a fare di noi un personaggio o a fare di altri un
personaggio, uscendo dalla verità del Vangelo e dalla semplicità dei rapporti.
Dobbiamo continuamente imparare a godere delle doti che abbiamo senza
insuperbirci, e a non rattristarci di quelle che non abbiamo e che altri hanno.
[…]
Chi sono io? Non corro forse it rischio di irritarmi, di
preoccuparmi quando mi sembra di essere lasciato da parte o di inorgoglirmi
e irrigidirmi quando sono messo al centro della situazione?
Maria ne è l’emblema
18 In parte già trattata in relazione alle motivazioni nella dinamica
dell’identificazione Cfr. CENCINI A.-MANENTI A., Psicologia e formazione,
EDB, Bologna 200312, pp. 286-293.
70
apostolico di Don Bosco ha potuto deporre che tanto prima quanto dopo
la sua morte, mai si erano avverate scissure fra le case, mai ribellioni, mai
tentativi di riforma. E questa deposizione è del 1908, ossia di vent'anni
dopo la morte di Don Bosco, ossia dopo il decennio nero profetato nel
sogno del 1871.E dite se non siamo quel che siamo. Vedete che sono
salesiano a150%?
Un solo peccato all'anno.
Una vera disubbidienza canonica, cioè che al superiore rivestito
dalla potestà del can. 501 si risponda « no », su 12.800 salesiani, non credo
che ne capiti uno all'anno in tutta la Congregazione. Degli autonomi ve ne
sono dappertutto, anche tra quelli che hanno i galloni sulle braccia. Momenti
cattivi, momenti di nervi ce ne sono, ne abbiamo provato un po' tutti. Vi
sono anche sbagli dei superiori, e non è ribellione dire che ci sono dei
superiori sbagliati: sono 1200 persone che hanno potestà dominativa in
Congregazione, tante case altrettanti direttori, sarebbe divino se non se ne
sbagliasse uno...Anche S. Romana Chiesa sbaglia qualche volta sbaglia
scegliere i suoi vescovi, e poi deve ritirarli e sopportarli. Ora nella quasi
totalità siamo disciplinatissimi: lasciate che i superiori gridino, che facciano
prediche dotte e vi scaraventino addosso tutto S. Tommaso e ascetica,
lasciateli dire, devono farlo. La pratica però è questa, che siamo della gran
brava gente.
Pericolo della legalità
Vengo alla pratica della nostra vita. Tutti sanno il canone 501 della
potestà dominativa e delle persone in cui risiede. Tutti gli altri invece,
prefetto, catechista, consigliere, comandano solo rappresentativamente, ma
non hanno poteste. dominativa. Gli stessi superiori del Capitolo, eccetto il
Rettor Maggiore, comandano solo collegialmente. (Don Bosco nel1’1869 ha
spiegato tutto questo ai chierici aspiranti e novizi e quindi credo di poterlo
dire ai teologi). Ragionando a forza dei canoni sembra che si debba obbedire
solo quando entra la forza del voto ed allora anche facendo il
testone, il ribelle, il capriccioso “come voglio io”, si continua a fare
la Comunione tutti i giorni perché non si cade in peccato mortale e così si
ha lo spettacolo di testoni permanenti che fanno imperturbabili la loro
Comunione quotidiana. Don Bosco non aveva questa idea. Se qualcuno
faceva cosi lo chiamava a parte e: «Come vai alla Comunione con questa
condotta? ». Ed aveva ragione perché il Signore lascia entrare tutti, ma poi
guarda se hanno la veste nuziale. Se fossimo andati a punta di canoni o di
Costituzioni, la Congregazione sarebbe ancora in Via Cottolengo 32, non
sarebbe una città nei limiti di Torino, ma sarebbe ancora alla casa Pinardi.
Vado io
275
5.2. Obbedienza92
5.2.1 L’obbedienza salesiana93
Prima di parlare di obbedienza vi suggerisco di leggere le Regole di
S. Benedetto; vi troverete la vera vita e la vera personalità spirituale.
Conviene che leggiate non solo perché un buon salesiano deve sapere parole
per ogni ramo e poi spenderle bene, ma soprattutto perché l'ultimo
benedettino e Don Bosco, e S. Benedetto il primo Don Bosco. E prima
ancora di imboscarvi in obbedienza, ossia di dirvi come Don Bosco ci vuole,
premetto tre consolazioni:
1. In fatto di morale è raro che la mancanza di obbedienza giunga alla
gravità del peccato mortale; per questo ci vuole o una disobbedienza in
forma canonica o di categorica infrazione al voto. Tutte le nostre
scappatelle sono scappatelle da collegiale, tutte birichinate anche se
abbiamo i capelli bianchi .
2. S. Anselmo dice chiaramente che non c'è da disperare di un religioso
finché non infrange i voti; egli poi ragionando la mentalità benedettina:
per cui l’unico voto è quello dell'obbedienza che lega al convento; quindi
basta non scappare...
3. In via di fatto consoliamoci: tra tutte le Congregazioni attive che brillano
nella Chiesa per la loro disciplina, la Congregazione salesiana sta alla pari
dei Gesuiti, cioè in primo piano. (Mettiamo Gesuiti, perché bisogna dir
cosi). L'esperienza che ho della vita mi fa nutrire questi sentimenti: non
c'è nessun'altra Congregazione che abbia tanta pazienza, disciplina
soggezione, tanto spirito di obbedienza, quanto la Congregazione
salesiana. Noi siamo addirittura miracolati perché gli altri Ordini hanno
un'obbedienza da cui non si scappa, perché hanno insegnato ogni passo
ed il superiore non può comandare più di quello che è nel libro. Chi entra
deve praticare la Regola, un binario ed uno solo. Noi invece dipendiamo
sempre dal superiore locale, cambiare direttore vuol dire cambiare tutto
quanto. Eppure noi ci stiamo e sopportiamo."Don Rua nel processo
92
VIGANÒ E., Un progetto evangelico di vita attiva , LDC – Torino,
1982, pp. 134-157.
CNV, Chiamati a libertà: obbedienza e vocazioni, Ed. Rogate – Roma,
1998
ACG 375, 1 – 4.
MANZI F. – GILLINI G. – ZATTONI M.T., Diventare obbedienti
come Gesù. Perché proporre ai ragazzi l’obbedienza cristiana, In dialogo, Milano 1999.
93
274
CAVIGLIA A., Conferenze…, oc, pp, 55-60.
Il fatto straordinario che le succede è un evento nuovo che pensa
di non meritare: «Ma che cos'e? Come mai a me? Perche? Che c'entro io?».
[…]
Noi cogliamo qui l'atteggiamento radicale di una vocazione che
nasce dalla semplicità: «Signore, so di non poter pretendere niente. Sono
contento che tu mi ami così come sono e se tu mi chiami, Signore, io sono
pronto».
La domanda: «Chi hai scelto, Signore?», trova la risposta coerente:
«Hai scelto uno che sembrava molto meno capace di altri e che però aveva
la semplicità di cuore, la prontezza a servirti senza pretesa».
Qualche volta, paragonandoci a tanti migliori di noi e ai quali non
sembra sia stata donata la vocazione che è proposta a noi, dobbiamo
chiedere con molta umiltà al Signore “perché ci ha scelti?”.
Ci ha scelto non perché siamo particolarmente bravi o brillanti ma
perché ci ama.
«Signore, desidero ringraziarti e chiederti la grazia di affidarmi a te,
di non tirarmi indietro. Fa', o Signore, che io non i sottragga ma mi ponga
con semplicità nelle tue mani».”19
4.5.1 Veradicità20
Una virtù che ai nostri tempi ha subito gravi perdite è la veracità.
Intendiamo con questa parola l'amore per la verità, la volontà che la verità debba
essere conosciuta e accettata. Essa significa anzitutto che chi parla dica ciò che è, e
come lo vede e lo intende. Dunque che esprima anche con la parola quanto egli reca
nel suo intimo. Può essere difficile in certe circostanze, può provocare fa- stidi, danni
e pericolo; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di
incondizionato, che possiede altezza. Di essa non si dice: Tu la puoi dire quando ti
piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità;
non la devi né ridurre, né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche
quando la situazione ti vorrebbe indurre a tacere, o quando puoi sottrarti con
disinvoltura a una domanda. Anche a prescindere da ciò, tutto il nostro essere si
fonda nella verità. Avremo ancora occasione di parlarne. I rapporti degli uomini tra
loro, le strutture della società, l'ordine dello Stato, tutto ciò che si chiama costume
morale, ed egualmente l'opera dell'uomo nelle sue molteplici forme: tutto si fonda
sull'istanza che la verità sia un valore. Veracità significa dunque che l'uomo possegga
questo involontario sentimento: che la verità dev'essere detta, assolutamente.
Naturalmente, si noti bene, nel presupposto che l'altro abbia un diritto d'essere
19
20
71
MARTINI C. M., Tu mi scruti…, oc, pp. 51-57.
GUARDINI R., Virtù…, oc, pp. 21-32.
informato in proposito. In caso contrario, sarà una questione di esperienza e di
prudenza l'intuire la corretta forma d'un eventuale silenzio.
Sarà bene inoltre avvertire che per la veracità della vita quotidiana non è
indifferente l'interna sicurezza rispetto alle diverse situazioni esistenziali, oppure
possesso più o meno grande di una lingua o d'una facilità di parola. E’ una questione
di formazione morale, di cui l'educazione deve preoccuparsi. Certe bugie nascono da
timidezza e da imbarazzo, ed egualmente da un dominio insufficiente della lingua.
Problemi del tutto particolari al riguardo nascono da situazioni a noi note
della storia e della nostra epoca: quando, per esempio, un regime tirannico opprime
la vita e non consente forme di convinzione personale. Allora l'uomo si trova in
condizioni di costante necessaria autodifesa. Coloro che usano violenza non hanno
nessun diritto di pretendere la verità e sanno pure che non possono aspettarsi la
verità da nessuno. In situazioni di violenza oppressiva la lingua perde il proprio
significato. Essa diviene, sulla bocca degli oppressi, uno strumento di legittima
difesa, fuorché nel caso in cui la situazione arrivi al punto da esigere una
testimonianza, in cui chi parla arrischia i propri beni e la propria vita. Intuire e
giudicare tutto ciò è un problema di coscienza. E chi vive in sicurezza e libertà farà
bene a domandarsi, prima di giudicare, se egli abbia realmente diritto di giudicare. In
ogni caso veracità significa dire la verità; e non solo una volta, ma di continuo; in
modo che ne emerga un atteggiamento costante. Essa crea nell'uomo, nel suo essere
e nel suo agire, un che di chiaro e di fermo.
Significa non soltanto dire la verità, ma anche farla; giacché si può mentire
anche per mezzo di azioni, di atteggiamenti e di gesti, quando tutto ciò sembra
manifestare qualcosa che non è.
Ma veracità e di più ancora. Abbiamo gia detto che non esistono virtù
separate. Certamente è già capitato a tutti noi di notare che la natura non conosce il
suono “puro” e libero, ma che ogni suono contiene sempre sovrasuoni e sottosuoni,
che è dunque un accordo; che egualmente non compare mai in natura il colore puro,
ma solo mischiato con altri colori. Così non esiste neppure la “pura” veracità; essa
sarebbe dura e si muterebbe in ingiustizia da sé. Ciò che esiste è la veracità vivente,
dove interferiscono gli altri elementi del bene.
Esistono persone veraci per natura. Sono troppo pulite per poter mentire;
troppo unitarie con se stes- se, o si potrà talvolta dire: troppo orgogliose per questo.
Ciò è a tutta prima magnifico; ma una persona di tal fatta facilmente si troverà nel
pericolo di dire cose in momenti ai quali non appartengono; di ferire o di
danneggiare altri. Una verità detta in un momento sbagliato o in un modo errato può
perfino sconvolgere qualcuno fino al punto che egli potrà a stento ritrovare poi la
propria esatta posizione morale. Questa non sarebbe una veracità vivente ma
unilaterale; nociva, anzi disastrosa.
Senza dubbio esistono momenti in cui non è lecito guardare né a destra
né a sinistra, ma bisogna uscire con la franca verità. Di regola però vale il fatto che
noi esistiamo nel contesto dell'esistenza, e in questo contesto si dà, oltre il postulato
della verità, anche quello del riguardo per la persona altrui.
Perciò la manifestazione della verità dev'essere regolata anche dal tatto e
dalla bontà, se vuole avere tutto il suo valore umano.
72
5. Introduzione ai consigli evangelici
5.1 Introduzione secondo le dimensioni umana,
cristiana e consacrata91
Dim. Umana
Vita cristiana
Vita consacrata
La cura delle relazioni
L'altro e la solidarietà
Affettività equilibrata
Flessibilità e accettazione
Il primato dell'essere
Il dono cristiano
Il regno di Dio
I puri di cuore
Ob. alla volontà di Dio
Essenzialità e condivisione
La v. frat. in comunità
La missione (GxG)
Il voto di castità
Il voto di obbedienza
Il voto di povertà
La “perfezione” della vita cristiana data dai consacrati: essere segno
evidente del primato di Dio e del suo Regno.
Dio esiste
Il suo amore può colmare una vita
Persona di Gesù, innamorarsi di Dio
Geremia: “Tu mi hai sedotto, mi hai circuito”
Dio è come la cancrena, Dio è come l’edera, due persone che
stanno insieme non possono avere paura di farsi vedere, testimoniano il loro
amore, testimoniano agli esterni e a se stessi
Maria è l’emblema della consacrazione
Bisogna dare tutto al Signore, macinare la Parola di Dio, con
coraggio di un confronto
Giovanni 12, 1-8: Marta serviva, Lazzaro era un commensale,
Maria “donna del profumo”, tutta la casa si riempì del profumo
dell’unguento, costato 30 monete d’argento si poteva rivendere per 300
denari.
O si spreca (passione) o si ruba (avere paura)
Cfr. Quaderni del GrGio, la scelta, incontro I, IV, VII.
RUPNIK M. Dall'esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa, Lipa,
Roma 20023, pp. 5-71.
SPIDLIK T., L'«uomo di Dio». Alle radici della vita religiosa, Lipa, Roma, 2003,
pp. 13-36. 53-68.
ACG 382, 4;
ACG 365, 1 – 3.
273
91



mi mette a disagio sentirmi avvolto dalla sensualità, da desideri che non
vorrei, da fantasie che
mi disturbano...
…
4.3.3 Confessio Fidei: dal credo all’impegno
A questo punto comincia la confessione di fede, la richiesta di
essere liberati, purificati da ciò che non vogliamo essere, di essere
cambiati: "Crea in me, o Dio, un cuore nuovo, donami la gioia della tua
salvezza, non privarmi del tuo santo spirito, perché non è la grandezza
del mio pentimento, bensì il tuo amore che trasforma la mia vita! ". t la
preghiera che ci immette pacificamente nella misericordia di Cristo,
quella misericordia che scende su di noi nel sacramento della penitenza.
Il primo frutto dell’incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che
deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni
anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la
parola di Gesù.
La seconda sottolineatura del cammino di Zaccheo è che lui stesso
propone a Gesù la « penitenza » che vuol fare e Gesù l'approva. Zaccheo
propone ciò che e più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di
possedere come è lui.
Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova.
Per lui il frutto di «penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel
riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera,
non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano). P- la sua personale,
storica, precisa penitenza. Gesù l'approva e gli dice: « Oggi la salvezza e
entrata in questa casa». … Invece di chiedere a me stesso, a me sacerd6te:
«che cosa devo dare come penitenza?», posso chiedere a questa persona, a
questa sorella, a questo fratello che è venuto da me: «quale penitenza credi
che ti sarebbe utile? quale opera di giustizia, di pietà, di misericordia
corrisponde in questo mome
La verità si dice non entro uno spazio vuoto, ma in direzione dell'altro;
perciò chi la dice deve anche sentire che cosa essa, nell'altro, provoca. Paolo ha detto
una parola la cui energia significativa è intraducibile: i destinatari della lettera, ossia i
cristiani di Efeso devono aletheùein en agape. Il termine principale della proposizione,
alétheia, verità, è diventato verbo: «veritare», cioe «dire, fare, essere la verità». Ma
«nell'amore» (Ef 1, 15). Affinché la verità sia viva, vi si deve aggiungere l'amore.
Viceversa esistono anche persone nelle quali il sentimento per l'altro è
assai fortemente sviluppato. Esse avvertono immediatamente la sua situazione
intima; sentono il suo essere e il suo stato d'animo; percepiscono i suoi bisogni,
timori, tormenti, e si trovano perciò nel pericolo di cedere all'influsso della sfera
vi- tale altrui. Allora esse non solo hanno riguardo, ma si adattano; indeboliscono la
verità o la sottolineano troppo forte; manifestano identità di opinione dove in realtà
non ne esiste. Anzi quest'influsso può già a priori determinare i loro pensieri a tal
punto che va perduta non soltanto l'indipendenza esteriore della loro parola e del
loro comportamento, ma anche l'interiore autonomia del giudizio.
Anche in questo caso l'aspetto vivente della verità è in crisi, giacché a essa
appartiene la libertà dello spirito di vedere ciò che è; la decisione responsabile che
sostiene il suo giudizio anche contro la simpatia e la disponibilità all'aiuto; l'energia
della persona, la quale sa che la dignità personale sta o cade con la fedeltà alla verità.
Abbiamo cosi gia due elementi costitutivi dell'amore alla verità se questa
ancora vuole davvero essere una virtù: il riguardo a colui che ascolta e il coraggio di
parlare nelle contingenze difficili.
Ma occorrono altri elementi ancora: per esempio, esperienza della vita e
comprensione per la vita come è. Chi vede la vita con eccessiva semplicità crede di
esprimere la verità, quando invece le reca violenza. Ad esempio, gli viene da dire di
un altro: «Costui è un vile!». In realtà la persona in questione semplicemente non
possiede la dirittura di colui che è sicuro di se stesso; la sua coscienza è angosciata e
ha paura di agire. Quel giudizio pareva colpire nel segno; ma colui che lo pronunciò
difettava di esperienza della vita, altrimenti egli avrebbe avvertito nell'altro i segni del
blocco psicologico. Oppure il giudizio decide che l'altro a uno sfacciato, mente
invece a un timido che cer- ca di infrangere le proprie costrizioni interiori. Si
potrebbe dire dell'altro ancora. Si capirebbe sempre di più che una forza vivente di
verità coinvolge tutto l'uomo. Un mio amico notò un giorno durante una
conversazione:
«La veracità è la più sottile delle virtù. Ma c'e gente che la manovra come
un bastone».
Tutti i rapporti degli uomini tra loro, tutta la vita della comunità umana si
fondano sul rispetto della verità. L'uomo è un essere misterioso. Una persona sta
dinanzi a me: io vedo la sua figura, sento la sua voce, posso anche afferrare la sua
mano; ma ciò che vive in lui mi è ignoto. E quanto più questa sua vita intima è
essenziale, tanto più essa giace in profondità. Si verifica così il fatto inquietante che i
rapporti vicendevoli fra uomini – ossia la maggior parte della realtà della vita – si
272
73
fondano in una relazione che va dall'ignoto all'ignoto. Quale sarà il ponte?
L'espressione del volto e dei gesti, l'atteggiamento, l'azione, ma soprattutto la parola.
Per mezzo della parola l'uomo comunica con l'uomo e quanto più questa parola è
degna di fiducia, tanto più è sicuro e fecondo il rapporto. Le relazioni umane hanno
inoltre gradi di profondità e di importanza molto diversi. La graduatoria conduce
attraverso forme di fortuito cameratismo e di semplice utilitarismo fino alla vita del
cuore, alle cose dello spirito, alle questioni della responsabilità, al rapporto da
persona a persona. La strada avanza sempre più in profondità verso le zone del tutto
singolari dell'intimità personale; verso la sfera della libertà dove non è possibile il
calcolo. In tal modo la verità della parola diviene sempre più importante. Ciò vale
per ogni forma di rapporto, vale soprattutto per quelle forme su cui si fonda la vita
autentica: amicizia, comunione di lavoro, amore, matrimonio, famiglia. Le forme
comunitarie, che devono durare, crescere e farsi feconde, devono crescere sempre
più quanto alla verità dell'uno verso l'altro, altrimenti si disintegrano. Ogni menzogna
distrugge la comunione fra gli uomini.
Ma il mistero va più oltre ancora. Consiste non soltanto nel fatto che ogni
rapporto si muove dal segreto dell'uno verso il segreto dell'altro, ma ognuno di noi
ha relazione anche con se stesso. In tal modo l'uomo si articola, per così dire, in due
esseri e si affaccia anche davanti al proprio essere. Io mi osservo, mi esamino e mi
giudico; e decido a mio riguardo. Poi questa duplicità si risolve di nuovo nell'unità
dell'io, e reca risultato di quel raffronto. Nel divenire della vita interiore questo
accade di continuo; e la forma del suo adempiersi.
Ma che cosa avviene se io stesso non sono vero di fronte a me? Se io
inganno me stesso? Invento a me stesso le cose? E noi non facciamo questo di
continuo? L'uomo che ha «sempre ragione» non ha forse realmente torto nel più
pericoloso dei modi? E l'uomo per il quale gli altri sono sempre colpevoli, non è
forse quello che di continuo sorvola sopra la propria colpevolezza? E colui che
impone sempre la propria volontà, non vive forse nel fatale inganno su quanto egli
sia insensato, presuntuoso, chiuso di cuore, prepotente, e quanto sia disastroso il suo
modo di fare? Se dunque io voglio comunicare correttamente con me stesso – e
partendo da me stesso con gli altri – non posso sorvolare sulla mia realtà, non posso
fantasticare, bensì devo essere vero verso me stesso. Ma quanto è difficile tutto ciò; e
quante cose avremmo da lamentare a nostro riguardo, se ci esaminassimo con lealtà!
La verità dona all'uomo solidità e fermezza. Egli ne ha bisogno, perché la
vita non è soltanto un'amica, ma anche una nemica. Dappertutto interessi s'urtano gli
uni contro gli altri, di continuo insorgono suscettibilità, invidie, gelosie, odii. La
semplice diversità del carattere e dei punti di vista crea grovigli. Anzi, già semplice
fatto che per me esiste «l'altro», per il quale io a mia volta sono «l'altro», è radice di
conflitti. In che modo li posso risolvere? Difendendomi, certamente; la vita è sotto
molti aspetti lotta, in questa lotta mentire e ingannare potrebbe sembrare utile
talvolta. Ma ciò che nel complesso dona sicurezza, è la verità, la lealtà, la fiducia.
Esse creano ciò che dura: stima e confidenza.
Tutto ciò vale anche di fronte a quella grande potenza che compenetra
tutta la vita, e che si chiama «Stato». Non è per nulla un caso che tutte quelle volte
che lo «Stato», i cui fondamenti dovrebbero essere diritto e la libertà, si perverte in
74
DIO
MI HA DATO TUTTO: ... Soprattutto MI HA DATO SUO FIGLIO
GESÙ, CHE "HA DATO LA SUA VITA PER ME".
IO

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


INVECE
vivo come se Dio non ci fosse
non lo ringrazio mai
la sua Parola non mi interessa
lo offendo con le parole
non sento il bisogno di incontrarlo spesso (S. Messa ...) almeno come
sento il bisogno di stare con i miei amici
…
DIO
MI HA DATO UNA FAMIGLIA, GLI EDUCATORI, GLI
AMICI E TANTE ALTRE PERSONE
IO
INVECE

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





vivo senza ascoltarli
non li aiuto mai
li "uso" soltanto quando mi fanno comodo
disprezzo chi non è come me
offendo le persone,
le prendo in giro
non faccio nulla per aiutare chi è debole, povero...
penso solo a me
…
DIO
MI HA DATO ... ME, Spirito (anima, intelligenza, volontà) e
Corpo ...
PER DIVENTARE UN UOMO (UNA DONNA) GRANDE ...
PERFETTO ... UN "DIO"!
IO
INVECE

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
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


271
vivo e faccio tante cose, ma non ho un progetto
non ho voglia di "diventare grande"
non curo la crescita della mia intelligenza
lascio il mio carattere in balia di una volontà debole
non mi preoccupo di sviluppare quelle virtù (qualità) umane che mi
rendono una persona
gradevole, educata, gentile...
trascuro - metto a rischio - la mia salute
faccio del mio corpo un idolo
ho vissuto alcune esperienze sbagliate con la mia compagnia
mi lascio andare facilmente, anziché allenarmi nel dominio di me stesso
4.3.1 Confessio Laudis: il grazie e la lode
Confessio laudis (ringrazio, lodo, esprimo la mia gioia).
"Confesso" (= racconto; testimonio ...) la bontà del Signore nella mia vita, ringraziandolo
per alcune cose belle che ho vissuto, per esempio:
Signore, ti ringrazio
• perché in questo tempo mi hai aiutato a ...
• perché si è compiuta la tal cosa ...
• perché ho potuto avvicinare quella persona ...
• perché mi sento più tranquillo ...
• perché ho superato un momento difficile ...
• perché ho pregato meglio ...
• perché ...
Bastano poche cose, che però ricordo volentieri, perché ancora adesso, quando ci penso, mi
fanno contento.
Mettendo al primo posto la lode di Dio, l'affermazione della sua
bontà e tenerezza, le meraviglie da lui compiute nella vostra vita, significa
porre primariamente l’opera della sua Bontà.
4.3.2 Confessio Vitae: l’accusa
cadute).
Confessio vitae (racconto a Dio la mia vita nelle sue fragilità e
Dalla lode per le Sue meraviglie il cuore si apre, riafferma il
tempo passato e presente, facendoci confessare quello che siamo,
dicendo a Dio i sentimenti di fondo - nervosismi, inquietudini,
amarezze, disgusti, inimicizie - che ci pesano e che sono la radice di tante
mancanze.
Di fronte alla bontà del Signore che ho appena "confessato", mi accorgo che
io non sono stato sempre capace di rispondere con la mia vita. Il cristiano
"scopre" le sue colpe specchiandosi in Gesù e nella sua Parola, e sente
l'onesto bisogno di domandargli perdono. Lo faccio lasciandomi guidare da
questa semplice traccia. Sono soprattutto atteggiamenti/stili/abitudini da cui
nascono gesti, azioni, comportamenti concreti. Più che un elenco di peccati,
dico a Dio che cosa adesso mi mette a disagio, cosa vorrei che non fosse
stato. Scelgo le cose più vere per me e le dico con semplicità.
Il dialogo, il perdono del Sacramento della Riconciliazione sta in mezzo a
queste due realtà e aiuta l'uomo a crescere verso quella maturità che gli permette di
presentarsi con fiducia al giudizio di Dio.
C’è quindi una grande serietà in questo dialogo penitenziale: in esso si rivela la
bontà di Dio che, mediante la Chiesa, restituisce gradualmente l'uomo alla coscienza della
sua dignità e lo prepara a un giudizio divino che svelerà il miracolo di amore che Dio ha
fatto in ciascuno di noi, poveri peccatori. (Miserere, pp. 72-74)
270
regime tirannico, si afferma anche in egual misura la menzogna. Di più ancora: la
verità si svalorizza; cessa di essere norma e al suo posto subentra il successo. Perché?
Perché lo spirito dell'uomo per mezzo della verità si riconferma di continuo nel
diritto che gli è essenziale; la persona si accerta nella sua dignità e libertà. Quando
essa può dire: «E’ cosi», e questa proposizione ha peso ufficiale, perché la verità è in
onore, allora tutto ciò è una difesa anche contro la volontà di potenza che è all'opera
in ogni realtà statale. Ma se a questa riesce di svalorizzare la verità, allora il singolo è
abbandonato a ogni sopraffazione. La più orribile espressione della violenza è
quando viene infranta nell'uomo la coscienza della verità, cosi che egli non e più in
grado di dire: «Questo è e questo non è». Coloro che lo causano – nella prassi
politica, nella prassi giudiziaria e in qualsiasi modo – dovrebbero avere la chiara
visione di quello che fanno: essi defraudano l'uomo della sua umanità. Quella visione
li dovrebbe sconvolgere.
La verità è pure ciò per cui l'uomo sta saldo in se stesso e diventa un
carattere. Il carattere si fonda sul fatto che nell'uomo in questione si è convertita in
natura quella fermezza che si esprime nelle formule: ciò che è, è; ciò che è giusto
deve verificarsi; io rispondo di quanto mi è stato affidato. Nella misura che questo si
verifica, l'uomo acquisisce stabilità in se stesso. Ma non è la più ovvia delle cose?
Non sussiste forse in se stesso ognuno di noi per il fatto appunto che egli è se
stesso? Nella stessa maniera che ogni animale è se stesso, la rondine rondine e la
volpe volpe?
Qui noi non possiamo pensare in modo approssimato, giacché molto
dipende dalla precisione in tali questioni. Perché l'animale fa subito l'impressione
dell'autoidentità? Perché esso è «natura»; un essere vivente senza spirito personale.
L'elemento «spirituale» in esso – ordine, esistere e comportarsi significativo – è
spirito del Creatore e non suo proprio. Nell'uomo invece c'e auto-spirito, c'è la
persona pensante e libera. In conseguenza di questo egli è, d'un intero mondo,
superiore all'animale. Ma proprio per questo gli manca la naturale autoidentità
dell'animale. Egli è minacciato da parte del suo stesso spirito, quale può di continuo
oltrepassare il suo proprio essere e disporre di se stesso, ma proprio per questo
anche rimettere in questione se stesso, falsificarsi. Se a tutto ciò aggiungiamo quanto
la fede ci dice a riguardo dello sconvolgimento ereditario derivato dal peccato
originale e dai successivi peccati, allora noi vediamo che l'uomo è un essere
fondamentalmente minacciato e che deve di continuo fare i conti con le cattive
possibilità della sua anima. Visto da questo angolo, egli non è semplicemente se
stesso, il proprio esatto io, ma è come in via per diventarlo, è alla ricerca di sé e
quando egli agisce come si deve, lo «diviene».
E’ dunque molto importante domandarci da che cosa, al di la di ogni
tensione e perturbazione, nell'interiorità più profonda dell'esistenza, si possa
elaborare la vera identità. Ma allora la vera risposta – prima d'ogni altra risposta
possibile – dice che ciò avverrà grazie alla volontà di verità. In ogni vero pensiero e
parola e azione, si conferma, impercettibilmente ma efficacemente, l'intimo centro
dell'uomo, il vero io. Quanto compromettente è allora l'illusione dell'uomo che si
inganna circa il proprio genuino essere, e il modo come essa si verifica di continuo
nei discorsi, negli scritti e nella prassi educativa! A tal punto che talvolta si può
avvertire con spavento: quell'uomo di cui parlano la scienza, la letteratura, la politica,
i giornali, i film, non è affatto l'uomo! E’ un'illusione, oppure un'affermazione in
vista di qualche scopo, o un'arma, o semplicemente completa mancanza di idee!
75
Le nostre considerazioni sono andate lontano. Nella prima meditazione
abbiamo detto che ogni vir- tù è tutto l'uomo; ciò è stato un'altra volta riconfermato.
Di più ogni virtù va, oltre l'uomo, fino a Dio. Riflettiamo un momento su quanto
segue. Quando dico che due più due fa quattro, io so che è senz'altro quattro e
soltanto quattro e sempre quattro. So che così è esatto e anche un solo istante in cui
ciò non sarebbe più esatto non verrà mai, anche nel caso in cui si verificassero certe,
ma dunque sempre univoche, condizioni di più alta matematica. Che cosa fonda
questa sicurezza che non potrà mai essere diversa? Che cosa fa sì, al di là di questi
semplicissimi rapporti significativi, che ogni genuina conoscenza nell'istante del suo
accendersi ci dia la certezza del così è e non altrimenti? Naturalmente se non sono
abbastanza attento, se il mio pensiero non è abbastanza preciso, io posso sbagliare.
Questo può succedere e succede anche ogni giorno. Ma quando io ho veramente
capito, allora so che è cosi. Che cosa crea questa strana sicurezza spirituale, fondata
come sopra l'inafferrabile? Non può essere che qualcosa che viene da Dio. Qualcosa,
che non ha origine nell'uomo stesso, penetra nell'agire e nell'esperire umano. E’ una
potenza; e non la potenza violenta d'una realtà costrittiva, ma la potenza d'un
significato che mi appella e che testimonia di se; una si- gnificante potenza, che
suscita nell'uomo quella fermezza a cui diamo il nome di «convinzione». Su questa
esperienza fondamentale Platone ha fondato tutta la sua filosofia. Egli ha chiamato
questa potenza «luce»; la luce più alta, anzi la vera luce che s'irradia dal vero sole.
Questo sole è Dio, che egli – l'abbiamo gia detto – definisce con il nome di agathon, il
«Bene». Poi Agostino ha introdotto quest'idea, con riferimento a Giovanni, nel
pensiero cristiano, un'idea che vi è diventata feconda. Che cos'è in ultima analisi e in
senso proprio la verità? E’ il modo con cui Dio è «Dio» e sa di sé; sa di sé e nel suo
sapere porta se stesso. La verità è l'indistruttibile, inattaccabile fermezza con cui Dio,
conoscendo, fonda tutto in se stesso. Essa esce da Lui nel mondo e gli dona stabilità.
Penetra la realtà esistente e le dona essenza. S'irradia nello spirito dell'uomo e gli
dona quella chiarezza che si chiama conoscenza. In ultima istanza vale il fatto che
l'ordine dell'uomo alla verità è ordine a Dio. Chi mente si ribella a Dio e tradisce la
radice significativa dell'essere. Nel mondo la verità è debole. Basta una piccolezza per
oscurarla. Il più stupido degli uomini può ferirla. Ma arriva sempre l'ora in cui le cose
cambiano. Allora Dio fa si che la verità acquisisca tanta potenza quanto essa è vera, e
questo sarà il Giudizio.
Il «Giudizio» significa che la possibilità di mentire ha una fine, perché la
verità penetra onnipotente ogni spirito; perché s'irradia per ogni parola; perché
riempie dominatrice tutto lo spazio. Allora le bugie si manifestano per quello che
Sono, anche quando esse fossero così bene intenzionate, così intelligenti, così
brillanti; svelate come un'illusione, come un niente.
Facciamo circolare questi pensieri nella nostra testa, anzi tutta la nostra
sensibilità, attraverso il nostro cuore. Forse così un giorno sentiremo veramente che
cos'e la verità: l'irremovibile che c'e in essa, la luce silenziosa, l'altezza. Allora noi
vorremo legarci a lei con quanto c'è in noi di più interiore e di più fedele. Vorremo
assumere responsabilità a suo riguardo e darci pena per essa. Tutto ciò andrà
incontro a contrasti, a crisi, non per nulla siamo uomini. Ma nella nostra vita deve
esserci questo punto fisso, che la verità è il fondamento di ogni cosa: del rapporto
dell'uomo con l’uomo, dell'uomo con se stesso; del singolo verso la comunità, e
soprattutto verso Dio, anzi di Dio verso di noi.
76
4.3 Introduzione alla riconciliazione89
La croce 90
Noi cristiani non siamo scandalizzati dal crimine, perché sappiamo
che l’uomo, il quale, è capace di un enorme eroismo, è capace altresì di
compiere il male più grande. Il segno della nostra fede e il segno della nostra
vittoria è la croce, dove lo stesso Amore con la maiuscola è stato
ingiustamente sacrificato e reso vittima innocente. Nella croce di
Cristo, Dio ha abbracciato tutto il male del mondo, di ciascuno di noi,
facendo di questo abbraccio - per quanto paradossale possa sembrare
- la roccia più salda sulla quale costruire la speranza di un mondo
umano. Cristo, il Figlio di Dio, ha fatto di questo abbraccio la
rivelazione suprema e ineffabile di Dio come misericordia infinita,
come puro amore che dona se stesso, che pone se stesso,
letteralmente, “al posto dei peccatori”, affinché essi possano ritrovare
la via della verità e della pace.
Cristo nella sua croce rivela così, rivelando Dio come amore
vittorioso sull’odio e sul peccato, il valore della vita e della persona
umana; testimonia che ogni vita umana, creata a immagine di Dio, è
sempre portatrice, per il fatto stesso di essere umana, di una dignità
unica, sacra, conferitale da questo Amore, e della quale nessuno può
disporre se non per legittima difesa, o per scongiurare il danno della
perdita di altre vite innocenti. Questo ha come conseguenza che la storia,
nonostante tutte le innumerevoli miserie di cui è piena, non è abbandonata a
se stessa, ma che nella propria carne racchiude il seme dello Spirito di Dio,
che Cristo ha consegnato agli uomini con il dono di se stesso. Perciò la
croce di Cristo è un segno glorioso di vittoria, perché è il segno che la
misericordia di Dio non si allontanerà mai dagli uomini, nè si lascerà
sconfiggere dai nostri mali. La croce di Cristo rende ragionevole e non
semplicemente volontaristica e arbitraria la speranza umana di un senso
positivo nella storia, di un trionfo finale del bene e dell’amore.”
89 Gasparino A., Il sacramento del perdono gioia e festa di Dio e dell'uomo – LDC,
Torino 1998.
Rupnik M. I., L'esame di coscienza. Per vivere da redenti = Lipa, Roma, 2002.
SPIDLIK T., L'arte di purificare il cuore, Lipa, Roma, 2000,=
PAGANI S., Cerco il tuo volto. Introduzione alla vita spirituale. Centro
Ambrosiano, Milano 2003, pp. 30-63; 100-106.
PAGANI S., L'accompagnamento spirituale dei giovani. Verso una regola di vita,
San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1997, pp. 112-122.
CCC 1422-1470;
ACG 369
90
269
MARTINEZ J, Omelia alla celebrazione per le vittime dell’attentato, 12.III.2004.
La tavola 88
L'altare è la tavola, la pietra del sacrificio, quel sacrificio che costituisce - per
l'umanità caduta - il solo mezzo di prendere contatto con Dio. L'altare è il luogo di
questo contatto: attraverso l'altare Dio viene verso di noi e noi andiamo a Lui. Esso è
l'oggetto più santo del tempio, perché lo si riverisce, lo si bacia e lo si incensa. È un centro
di raggruppamento, il centro dell'assemblea cristiana; e a questo raggruppamento esteriore
corrisponde un raggruppamento interiore delle anime e dell'anima
“Forze molteplici vi sono nell'uomo: conoscendole, egli può abbracciare
tutt'intorno le cose, stelle e montagne, mari e fiumi, piante ed animali e tutta l'umanità
ch'è vicino a lui, e così arricchire il suo mondo interiore. Egli le può amare, le può odiare e
respingere; può porsi contro di esse oppure tendervi ed attirarle a sé. Può agire sul mondo
circostante e modificarlo secondo il proprio volere. Un vario ondeggiare di gioia e di brama,
di afflizione e d'amore, di calma e di eccitazione accompagna il ritmo del cuore.
La sua forza più nobile è però questa: il riconoscere che v'è qualcosa di più alto
sopra di lui; il venerare codesto qualcosa di più alto ed inserirvisi. L'uomo può conoscere
al di sopra di sé Dio, Lo può adorare e può offrire se stesso « affinché Dio sia glorificato».
Questa è l'offerta: che la sublimità di Dio risplenda nello spirito; che l'uomo
adori questa sublimità; non si attardi egoisticamente nei propri possessi, bensì li trascenda, impegni se stesso affinché l'eccelso Iddio venga glorificato.
La forza più profonda dell'anima è la sua capacità di offerta. È nell'intimo
dell'uomo che hanno sede la calma e la limpidezza donde sale l'offerta a Dio.
Appunto di questo nucleo più intimo, calmo e forte, proprio dell'uomo, l'altare
di pietra è il segno visibile. Esso sta nella parte più santa della chiesa, elevato da gradini
sul resto dello spazio, che pure è distinto esteriormente dalle altre opere dell'uomo,
distaccato come il santuario dell'anima. Saldamente eretto sullo zoccolo sicuro, come il
volere verace dell'uomo che non ignora Dio ed è deciso a impegnarsi per Lui. E sullo
zoccolo la « mensa », un luogo ben preparato su cui è presentata l'offerta. Nessuna
angolosità, superficie tutta libera. Nessuna penombra né azione nell'oscurità, bensì aperta
a tutti gli sguardi. Così, come l'offerta ha da aver luogo nel cuore. Tutta dispiegata
dinanzi allo sguardo di Dio, senza riserve né secondi fini.
Ma l'uno è in intima relazione coll'altro: l'altare esteriore con quello interiore.
Quello è il cuore della chiesa; questo la realtà più profonda di un petto umano che palpiti,
del tempio interiore, del quale l'esterno colle sue pareti e volte è espressione e similitudine.”
88
268
GUARDINI R., I santi…, oc, pp. 81-83.
5. L’enneagramma e i test psicoattitudinali: una provocazione per la
conoscenza di sé
Provocazioni e tentativi di rilettura cristiana della propria
personalità.
In quanto provocazione per verificare la nostra conoscenza di sé e
coscientizzarne gli elementi, usiamo l’enneagramma come strumento di
introspezione e di comprensione si sé e degli altri.
E’ chiaro che ogni strumento, come la stessa libertà umana, può
.essere usato per il bene o per il male per cui c’è chi se ne serve per
autoaccettarsi e chi per biasimarsi, chi per diventare più compassionevole
verso gli altri e chi per giudicarli ad etichettarli.
Il termine "enneagramma" è di origine greca ed è composto da due
parti: "ennea" che significa nove, e "gramma" che significa punti.
L’enneagramma è caratterizzato dal simbolo di una circonferenza
con nove punti di riferimento.
Esso è uno strumento aperto al trascendente come orizzonte della
piena realizzazione umana, non avanza pretese teologiche, ma è finalizzato
alla crescita umana e spirituale.
La divulgazione dell’enneagramma al vasto pubblico è avvenuta
inizialmente ad opera dei Gesuiti, che gli hanno dato per così dire un
"battesimo cristiano" facendo tesoro delle sue intuizioni nel corso di ritiri
spirituali e incontri di formazione.
Chi fa uso di questo strumento si avvale della mediazione delle
nove tipologie per comprendere meglio se stesso, essere più comprensivo
nei confronti del prossimo prendendo maggiore consapevolezza delle
proprie tendenze e degli ostacoli che interferiscono nel rapporto.
Ovviamente, l’enneagramma non presume di ridurre l’uomo a una
teoria o a una tipologia, ma offre utili chiavi di lettura per capire o
riconciliarsi con la propria personalità, dalle sue debolezze alle sue
potenzialità. Resta chiara che ogni persona risulta plasmata da una varietà di
fattori storici, ambientali, familiari, culturali ed esistenziali che fanno sì che
ognuno sia un mistero più ricco e complesso della propria tipologia.
L’enneagramma contempla il processo di crescita in un orizzonte
umano e spirituale. Da una parte, l’uomo per raggiungere la pienezza deve
conoscersi e riscoprire la propria essenza e autenticità; dall’altra, é chiamato
a proiettarsi verso il trascendente e l’incontro con Dio.
Nel processo dell’autoconoscenza l’enneagramma non si ferma
solo alla fase diagnostica puntualizzando tendenze tipiche o ricorrenti delle
77
nove tipologie, ma prospetta itinerari concreti di crescita e di conversione
che comporta il sacrificio della propria egocentricità che si identifica con la
legge della rinuncia proposta da Gesù: "Chi cercherà di salvare la propria
vita la perderà; chi invece l’avrà perduta la salverà" (Lc17,33).
L’enneagramma è solo una mappa che non serve se non si è
disposti a compiere il viaggio.
Punti di una antropologia di riferimento
1. La ricerca dell’unità
Un primo terreno di convergenza si basa sulla concezione
antropologica dell'uomo visto come essere in relazione con Dio, con gli altri,
con se stesso, con la natura.
L’uomo manifesta la nostalgia di unità e la consapevolezza che la
crescita umana e spirituale della persona dipendano dal raggiungimento di
un'unità smarrita. L’obiettivo è promuovere una visione integrale della
persona, che trova nel comandamento dell'amore (Lc10,27) la sua sintesi più
profonda.
del vino in sostanza del corpo e del sangue di Cristo. La Chiesa cattolica
insegna che ogni eucaristia, in quanto memoriale dell'evento sacrificale di
Cristo, è attualmente sacrificio: la Chiesa lo prende come dono del Signore e
ne fa il suo sacrificio. Per questo i fedeli sono invitati ad offrire se stessi a
Dio in ubbidienza e devozione: perché come ancora san Paolo scrive:
"chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e
del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e
beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore,
mangia e beve la propria condanna".
4.2.5 L’altare
Termine derivante da Altus, probabilmente da Alere = nutrire,
indicando la mensa destinata a ricevere gli olocausti offerti in dono e quasi
in cibo alle divinità mentre in senso metaforico Alere = far crescere,
sollevare indicando il posto elevato ove si facevano le offerte di incenso o di
animali in forma cruenta.
 Luogo Pietra angolare che è Cristo. "Stringendovi a Lui, pietra
viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio,
anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di
un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici
spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo" (1Pt 2,4-5).
 dei sacrifici: Presso gli Ebrei l'altare (mizbeah, ciò su cui si
sacrifica) era in origine connesso con una apparizione di Dio
(Mosè elevò un a. ai piedi del Sinai: Esodo 24, 4) e su di esso si
uccideva l'animale offerto alla divinità
 Tomba (cfr. reliquie dei martiri, partecipi del sacrificio di Cristo):
se l'altare è il Cristo e il Corpo di Cristo, allora dobbiamo
comprendere quest'ultima espressione in tutta la sua ampiezza: essa
designa anche il Corpo mistico. Tale è la significazione delle
reliquie che sono inserite obbligatoriamente in ogni pietra d'altare.
 Banchetto della Pasqua: L'altare è la mensa dell'ultima cena, il
Calvario della Passione.
 Mensa del Paradiso: l'altare dei nostri templi non è altro che il
simbolo terrestre di questo archetipo celeste. Ap, 19, 9: Allora l'angelo
mi disse: «Scrivi: Beati gli invitati al banchetto delle nozze
dell'Agnello!». Poi aggiunse: «Queste sono parole veraci di Dio». Lu,
12, 37: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora
svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a
tavola e passerà a servirli.
2.La consapevolezza della divisione interiore dell'uomo
Un secondo ambito riguarda l'esperienza di una ferita originale che
l'antropologia cristiana definisce "peccato", inteso come la frattura
dell'uomo nelle sue relazioni. È il tentativo umano di creare Dio a propria
immagine, invece di essere immagine di Dio.
L'uomo chiamato ad essere collaboratore di Dio abusa della sua
libertà, sperimentando la divisione, il disordine e la morte che porta a
trasformare in idolo il proprio falso io.
L'uomo diventa così prigioniero del proprio io, delle proprie false
personalità che ne condizionano la libertà.
3.La necessità di liberazione
Dinanzi a queste situazioni di divisione e schiavitù, si avverte
l'esigenza di un superamento trascendentale. Nell'esperienza di peccato
l'uomo è consapevole di non potersi salvare con le sole sue forze, ma di
aver bisogno dell'aiuto di Dio che opera, in modi molteplici e misteriosi,
attraverso gesti di perdono, accoglienza e liberazione.
Dio offre la grazia per guidare l'uomo verso la realizzazione del suo
progetto, nella specificità della sua condizione storica e delle sue
caratteristiche personali.
La liberazione avviene attraverso l'apertura dell'uomo alla
misericordia di Dio che, in Cristo, lo libera dal peccato e, attraverso la
grazia, lo apre alla vita nuova, ma necessita anche della risposta libera e
consapevole dell’uomo che diviene sforzo personale per superare
condizionamenti, che necessitano di una onesta conoscenza di sè.
78
267
il memoriale della risurrezione dai morti del Cristo Crocifisso,
l'offerta dei doni consacrati a Dio Padre,
l'invocazione dello Spirito sui comunicandi,
le intercessioni in favore della Chiesa, del papa e del vescovo della
comunità locale, il ricordo di tutti i defunti e la richiesta di "aver parte alla
vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e madre di Dio, con gli
apostoli e tutti i santi".
la dossologia, "per Cristo, con Cristo ed in Cristo", a "Dio Padre onnipotente,
nell'unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli", cui
l'assemblea si unisce con l' Amen, conclusivo.
4.2.3 I Riti di Comunione
I riti di comunione hanno inizio con la recita o il canto della
preghiera del Signore, il Padre nostro.
Lo scambio di un segno di pace è l’emblema della comunione ed
impegno per ciò di cui ci si ciberà
L’avvicinarsi all'altare, ove ricevono sulla lingua o sul palmo della
mano,87 il Corpo di Cristo, cibandosene. In circostanze particolari anche i
fedeli possono bere anche al calice, presentato con la formula "il Sangue di
Cristo", ma sussistono difficoltà pratiche, che ne riducono la pratica, spesso
limitandola a Messe celebrate in piccole comunità di preghiera. La
comunione al sangue di Cristo può però avvenire anche per intinzione:
l'ostia è immersa dal ministro della comunione nel calice del vino eucaristico
e ricevuta dal fedele solo in bocca. Altre modalità per ricevere il Sangue di
Cristo sono con la cannuccia o con il cucchiaino, ammessi solo in casi
particolari con l'autorizzazione del Vescovo diocesano.
4.La discesa: itinerario di conversione
La salvezza e/o la crescita comportano il cammino della discesa e
dell'umiltà, nel distacco dall'uomo vecchio per rivestire l'uomo nuovo.
Nell'antropologia cristiana, l'itinerario della conversione è stato
consacrato da Cristo nel Mistero Pasquale ed è fatto proprio dal cristiano
nelle promesse battesimali. La vita del credente esige rinuncia e distacco:
(Lc.9:23-24; Gv.12,24).
La croce comporta l'accettazione dei limiti imposti dalla natura, la
rinuncia al proprio egoismo e alle proprie sicurezze, l'apertura al prossimo
nella sua diversità. Il linguaggio della croce è il linguaggio della discesa, della
negazione di sé per ritrovarsi.
Nell’enneagramma la scoperta iniziale della propria tipologia
provoca smarrimento, vergogna, sentimenti di autorecriminazione o di
autogiustificazione. C'è chi accetta solo la parte positiva e rifiuta quella
negativa. Riconoscere i propri giochi e le proprie maschere richiede umiltà e
saggezza perché è solo accettando la propria oscurità, che si diventa liberi di
amare la propria verità.
5.Il compito perenne di onorare la persona
Generalmente, è partendo dalla capacità di accettazione di sé che si
creano le necessarie premesse per un atteggiamento di accoglienza, perdono
e tolleranza verso il prossimo.
4.2.4 Banchetto e sacrificio
"Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice
voi annunziate la morte del Signore finché egli venga". È necessario
soffermarsi in modo particolare sulla comprensione dell'eucaristia come
memoriale (anamnesi): questo termine nel contesto biblico - quindi con il
termine ebraico "zikkaron" - indica azioni rituali riferite ad un evento
(salvifico) passato in grado di attualizzarlo, rendendolo presente ai celebranti
nelle sue stesse dimensioni salvifiche, e proiettandolo anche verso il futuro.
Strettamente legata alla persistenza dell'opera salvifica del sacrificio
del Signore sulla croce è la presenza reale del Signore nelle specie
eucaristiche, che si compie per transustanziazione della sostanza del pane e
87
266
“Quando ti avvicini a ricevere il Corpo del Signore, non avvicinarti con le palme delle
mani distese né con le dita separate, ma facendo della tua mano sinistra come un trono
per la destra dove sederà il Re. Con la cavità della mano ricevi il Corpo di Cristo e
rispondi «Amen»” (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche, Sec. IV)
79
6. Mercante di talenti
Vi è oggi una fatica oggettiva nei giovani a percepire se stessi con
realismo ed obiettività. Questa debole conoscenza di sé e una fragile identità
personale rendono faticoso anche la progettazione del proprio futuro.
Ulteriormente la complessità della ricerca scientifica e l’estremo
procedimento analitico del conoscere da una parte fanno sapere di più ma
dall’altro creano maggiori dubbi. Così la facilità di rapporto con tanti beni di
consumo rende il rapporto con la realtà scontato che pare non dover essere
conquistata e quindi viene disattesa che di conseguenza non pare venga più
assunta con responsabilità
L’uso esasperato dell’immagine porta a costruire ogni cosa su
questa unità di misura ossia sul metro del giudizio degli altri e del loro
riconosciemento. Narciso domina la cui immagine nega se necessario i
sentimenti per ottenere il potere ed il controllo sugli altri mentre quando la
realtà diviene disorientante la via è quella della fuga.21
Questa assunzione della realtà deve essere un processo graduale,
costante e a partire dalle piccole cose.
21 Cfr. PAGANI S., L'accompagnamento spirituale dei giovani. Verso una regola di
vita, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1997, pp. 55-65.
80
calcio all’oratorio, della offerta per la nuova canonica, non trovano eco
all’ambone, ma presso un leggio ordinario che non sia copia dell’ambone.
Dignità dell’Ambone. Poiché il luogo proprio della proclamazione
della Parola si diversifica architettonicamente dal resto, deve essere
concepito come uno spazio sopraelevato, stabile, decoroso, sobriamente
ornato. Questo luogo non può essere sostituito, salvo il depauperamento sia
della stima che della venerazione della Parola, da un leggio movibile e
traballante.
Sarebbe auspicabile che ogni ambone proclamasse, col suo solo
splendore, che esso è il luogo da dove Dio continua a parlare al suo popolo.
4.2.2 Liturgia Eucaristica
Gesù "prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo
diede ai discepoli dicendo: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo». Poi
prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene
tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in
remissione dei peccati»". (Mt 26,26-28).
4.2.1 La presentazione dei doni (offertorio)
Lo stesso posizionamento sull'altare del pane e del vino è un gesto
simbolico]: esprime il dono e la partecipazione dell'assemblea dei fedeli nella
presentazione del pane–cibo quotidiano, e del vino-bevanda della festa. Il
sacerdote a nome del popolo benedice Dio per questi alimenti fondamentali:
"Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo…
Proprio per la loro provenienza, questi alimenti significano il
radicamento del culto cristiano nella natura (per l'origine) e nella storia (per
il lavoro umano).
Tutte le preghiere eucaristiche in uso configurano una unica azione
eucaristica-sacrificale, espressa in parole e gesti dal sacerdote; l'assemblea è
invitata ad unirsi all'azione del celebrante, in quanto egli dice: "Rendiamo
grazie al Signore nostro Dio"; "È cosa buona e giusta" ed attende che essa ratifichi
la propria preghiera con l' Amen.
4.2.2 La preghiera eucaristica
Essenzialmente, la preghiera eucaristica è così costituita:
il prefazio di rendimento di grazie, che si eleva a Dio Padre per
l'azione salvifica compiuta dal Figlio, trova conclusione nel canto del
"Santo";
l' epiclesi si ha l'invocazione dello Spirito Santo, affinché il pane e il
vino "diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, nostro Signore";
il racconto della Cena, nel quale sono ripetute le parole che Gesù
disse ai suoi discepoli riuniti la sera "prima di morire per noi sulla croce";
265
Più propriamente si può dire che le Sacre Scritture sono prima di
tutto Parola di Dio, poi libro (Bibbia): il libro è indispensabile per
conservarla, ma è al servizio di un Dio che deve essere ascoltato
direttamente.
“Ascolta Israele…”: questo versetto del capitolo 6 del
Deuteronomio è divenuto la preghiera quotidiana di ogni ebreo e Gesù lo
ricorderà allo scriba che gli si presenta per chiedere quale è il primo
comandamento.
Per questo è contraddittorio vedere un’assemblea puntare gli occhi
su un foglio quando il lettore arriva all’ambone.
adesso.
Una parola attualizzata
La Scrittura è Uno che mi parla; è Parola che interpella me, qui,
Un Ascolto che trasforma “l’oggi”, perché è una Parola viva.
Pregare è soprattutto ascoltare, un ascolto che permette una
risposta alle mie domande sull’oggi: su come impostare le mie giornate,
come agire in una determinata situazione.
È il criterio di discernimento per le mie scelte. È un porre la nostra
vita al setaccio di questa Parola. Da ciò nasce spontaneamente un esame
della vita (questa è anche la giusta via di preparazione al sacramento della
riconciliazione): questa Parola che cosa dice alla mia storia, che cosa chiede
di cambiare? Che novità introduce? Per me… come la mia vita, la mia
azione,…
6.1 La parabola dei talenti: Matteo 25,14-30
Il contesto
Il capitolo XXV di Matteo, di cui fa parte il brano dei talenti
affidati, è dentro la grande sezione dei “discorsi sulla fine” che si apre con il
cap XXIV, tutto il clima è quello escatologico della venuta del regno. Ecco il
vero protagonista. Regno che determina e muove la vita come esistenza
carica di responsabilità.
La parabola in considerazione invece si inserisce fra quella delle
vergini sagge e stolte, di cui sembrerebbe una continuazione con il tema del
“vegliare”, e quella sul giudizio finale, di cui anticipa il manifestarsi col tema
della “retribuzione”.
È parabola della parusia che racconta dell’avvento del Figlio
dell’uomo e del periodo intermedio che la comunità deve utilizzare nel
modo migliore, con responsabilità sul dono ricevuto.
Il testo
La parabola è infiorata di termini tecnici bancari.
I dialoghi sono costruiti su perfetti parallelismi (parole degli schiavi
– ripresa del padrone – imperativo finale)
I cambi dei tempi del verbi sono simbolici (19; 29) per indicare le
tre dinamiche del testo (passato; presente; sintesi proverbiale)
4.2.2 L’Ambone
Il luogo da cui si proclama la Parola fu detto "ambone", pare,
perché ci si sale (anabaino) e quindi luogo elevato
L’importanza della Sacra Scrittura affermata dal Vaticano II si
allarga inevitabilmente al luogo da dove essa è proclamata. A tale proposito,
nell’introduzione all’ordinamento delle Letture della Messa, si chiede che il
luogo della Parola risponda alla dignità della Parola di Dio e richiami il
rapporto con l’altare. Deve essere evidente che nella Messa viene preparata
la mensa della Parola di Dio e del Corpo di Cristo. Infatti l’ambone ha
uguale dignità e importanza dell’altare, l’uno richiama l’altro in quanto il
Verbo annunciato dall’ambone si fa ‘carne’ sull’altare. E’ questa la realtà che
permette alla Chiesa di parlare di "due mense" della Parola e dell’Eucaristia.
Ambone come luogo della Parola, non delle parole. Solo le letture
bibliche hanno luogo all’ambone unitamente al Salmo responsoriale e al
preconio pasquale. Si possono proferire dall’ambone l’omelia e la preghiera
dei fedeli, data la strettissima relazione di queste parti con tutta la Liturgia
della Parola. Il commentatore, il cantore o l’animatore del canto e
tantomeno l’annunciatore della prossima festa parrocchiale, della partita di
Mt 25,14
264
81
Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò
i suoi servi [schiavi] e consegnò loro i suoi beni.
I beni lasciati dal signore, sono somme principesche. Sapendo che
un denaro era lo stipendio per una giornata di lavoro e che un talento
corrispondeva a trentamila denari, i conti sono subito fatti (83 anni di
lavoro!).
Il padrone affida il suo patrimonio senza assegnare loro un incarico
particolare, lascia ad essi di decidere il modo di comportarsi.
I suoi beni – non nostra proprietà. Percepire che quanto possediamo è proprietà
Sua è una rivoluzione prospettica. Custodi e non proprietari. Gestori e non
creatori…
A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a
ciascuno secondo la sua capacità, e partì.
Il padrone conosce i suoi schiavi e ne sa valutare le capacità. Al padrone
interessa anche mettere alla prova la sua gente.
15
È molto interessante il fatto che la distribuzione dei doni in forma differente è
effettuata secondo due elementi:
Lui il Signore, è per Sua natura colui che sa che cosa è il bene di ciò che ha
creato
Il dono è secondo la possibilità di gestione, di custodia di ciascuno. Lui che ci
conosce sino in fondo sa la nostra potenzialità di deposito.
Posto questo Lui non sta addosso (cfr meditazione precedente sulla Madre di
Zebedeo). Parte, ha affidato a noi la responsabilità del dono, e si fida.
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito [essendo
andato il] a impiegarli [trafficò con essi] e ne guadagnò altri cinque. 17
Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18
Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca
nel terreno [scavò la terra] e vi nascose il denaro del suo padrone.
Non appena il padrone è partito, il primo si mette subito al lavoro.
Mentre il terzo seppellisce. Il seppellire era quello che si faceva nei tempi di
guerra, quando il denaro era esposto al pericolo di cadere in mano al
nemico. Sceglie la strada che gli pare sicura. Secondo il diritto rabbinico, chi
sotterra un depositum in caso di furto non era tenuto al risarcimento.
16
Viene ribadito che i doni non sono di colui che ora li possiede
Si evidenzia il contrasto fra l’impiego immediato dei primi al di là della
quantità di partenza e di arrivo e l’uso innaturale del bene da parte del terzo
(quando mai il denaro lo si sotterra, neanche fosse un seme… solo il burattino
Pinocchio può cadere nel tranello del gatto e volpe di turno!). L’insipienza è
proprio la gestione contro natura del bene ricevuto in custodia.
19
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò [viene], e volle
regolare [regola] i conti con loro.
Il Signore tornerà. Non è l’immediata prospettiva retributiva dell’antico
testamento (peccato – castigo). Ma è rimando al tempo eterno dell’incontro con
Lui che pone il giudizio (krineo). Davanti a Lui, e solo davanti a Lui emerge
il ben-uso dei beni ed l’innaturale utilizzo. Questione di tempo. La lunga
gittata dice prospettiva di raccolto, “dai loro frutti li riconoscerete”.
L’immediato potrebbe appagare in sicurezza (il soldo nascosto al sicuro fa
porre sonni tranquilli, meno i talenti trafficati con i rischi relativi al mercato)
ma a lungo termine risulta sterile, infecondo, in perdita (i soldi neppure posti in
banca non danno nemmeno gli interessi, anzi perdono gradualmente il potere di
acquisto)
4.2.1 Liturgia della Parola
“La lettura del Vangelo costituisce il culmine della stessa Liturgia della
Parola; all’ascolto del Vangelo l’assemblea viene preparata dalle altre letture,
proclamate nel loro ordine tradizionale, prima cioè quelle dell’Antico
Testamento e poi quelle del Nuovo”. (OLM 13)
Cristo è “presente nella Sua Parola: è Lui che parla quando nella Chiesa si
legge la Sacra Scrittura” (Cost. Liturgica nr.7).
Una parola efficace
Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.
Is 55,10
Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi
ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al
seminatore e pane da mangiare,
11 così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me
senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver
compiuto ciò per cui l'ho mandata.
Gen, 1, 3:
Una parola proclamata
E’ una grande e bella responsabilità dunque essere lettori!!
Ed è pure un compito esigente: si tratta ne più ne meno di prestare
la propria voce al Signore.
Una lettura fatta bene inizia dal tempo precedente a quando viene
fatta: deve cioè essere preparata.
Una lettura che allora è scandita, non biascicata, calma e calda,
senza frette e paure.
Il modo infine del lettore di lasciare il suo posto per portarsi
all’ambone fa già parte dell’atto di leggere.
Deve essere un gesto sobrio e corretto. Si avvia con calma, senza
partire prima dell’Amen della colletta o durante l’ultimo ritornello del Salmo
Responsoriale.
Prende posto all’ambone in posizione eretta, magari posandovi le
mani, pur senza appoggiarsi. Prima della lettura guarda l’assemblea per
stabilire la comunicazione, e durante la lettura della Parola di Dio la sua
funzione è d’unire in un'unica comunicazione la Parola e l’assemblea unendo
voce e sguardo.
Tutto questo si impara!!
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò [portò] altri
cinque, dicendo: Signore [padrone], mi hai consegnato cinque talenti;
ecco, ne ho guadagnati altri cinque. 21 Bene, servo buono e fedele, gli
Una parola ascoltata
Una delle maggiori preoccupazioni del Concilio Vaticano II fu
quella di offrire ai fedeli un più largo e diretto accesso alla Parola di Dio. Il
segno più evidente è l’uso della lingua corrente nella Liturgia.
82
263
20
4. Vita sacramentale e devozione
mariana
4.1 Introduzione all’Eucaristia86
Liturgia è un termine che deriva dalla parola greca λ
ε
ι
τ
ου
ργ
ί
α
, che
può essere translitterata come leitourghía, e significa "lavoro comunitario,
della gente, un'opera, un ufficio pubblic.". In quanto tale, il termine non ha
esclusivamente ambiti di applicazione religiosi, sebbene questi ne siano
indubbiamente i più noti. In ambito religioso indica le forme pubbliche della
preghiera.
Le comunità cristiane primitive praticavano già alcune azioni
cultuali e quindi si può dire che svolgevano delle liturgie. Si pensi al rito
battesimale, a cui si accompagnavano formule di "professione di fede" e formule
tipiche di preghiera. Anche il radunarsi domenicale delle comunità per
celebrare la frazione del pane, ossia l'eucarestia, compresa come il farsi
presente, in maniera reale, del Signore risorto era un azione cultuale. I modi
e le forme dei riti del culto cristiano primitivo si rifanno e si collegano alla
tradizione giudaica, ma ciò non sminuisce la novità e l'originalità
neotestamentaria del culto. Tale concezione appare tutta incentrata sugli
eventi salvifici operati da Cristo nella sua Pasqua di morte e risurrezione: la
liturgia è la modali° cultuale del farsi presente di quegli eventi e offre la
possibilità di tornare ad accedervi.
La liturgia appare altresì relativa alla concreta esistenza del
cristiano, la cui vita dovrebbe essere per intero un atto di culto. Col passare
dei secoli si sono sviluppate le forme, i testi, i tempi, i luoghi della Liturgia.
L'anno liturgico è organizzato attorno al nucleo centrale della domenica e
della Pasqua. Le grandi aree ecclesiastiche danno man mano vita a complessi
programmi rituali con libri, gestualità, testi, canti e musiche appropriate. Si
ha lo sviluppo di diversi tipi di luoghi per il culto con il connesso apparato
di sculture, pitture, arredi, paramenti, creati per decorare e arricchire detti
luoghi. Questa ricchezza di forme porta però con sè dei limiti che si
materializzano nel fatto che la Liturgia cessa progressivamente di essere
compresa come azione comune del popolo cristiano sotto la guida di un
ministro e diviene sempre più una celebrazione riservata agli specialisti del
culto, attività di pertinenza del solo clero. Sarà il concilio Vaticano II a
riproporre una comprensione teologica e linguistica della liturgia e ad
avviare una riforma intesa a restituire alla comunità la possibilità di
partecipare attivamente alla liturgia.
86
262
CCC 1322-1405; ACG 371
disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco [su poche cose], ti darò
autorità [ti costituirò] su molto; prendi parte alla [entra nella] gioia
del tuo padrone.
22 Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore,
mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. 23
Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel
poco [su poche cose], ti darò autorità [ti costituirò] su molto; prendi
parte alla [entra nella] gioia del tuo padrone.
Entrare nella gioia, fa trasparire il riferimento al banchetto della gioia
messianica che si celebrerà nel regno di Dio. Abbondanza e felicità
sono le dinamiche che abitano la realtà del banchetto.
Vi sono degli elementi comuni negli incontri del Signore con i primi due servi:
la riconsegna di un bene non loro
una consegna moltiplicata, che ha portato frutto
i complimenti del Padrone che ridona moltiplicata nuova responsabilità
la presa di coscienza che il dono che avevamo tra le mani non era gran che, in
proporzione a ciò che verrà poi affidato, ma che quel poco è determinante per la
verifica della nostra bontà (= corrispondenza alla natura del bene affidatoci) e
della nostra fedeltà (= corrispondenza alla natura del compito affidatoci)
la gioia goduta è quella di Dio
24
Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse:
Signore [padrone], so [conosco te] che sei un uomo duro, che mieti
dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 per paura
andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui [hai] il tuo.
È durissima la reazione del servo “sotterratore”: la sua è una visione
drammaticamente negativa del suo padrone, un immagine negativa e terribile di
colui che gli ha affidato i suoi beni. Contrasto evidente: donatore – terrificante.
Uomo duro – non c’è il benefattore gratuito, non c’è il misericordioso e
nemmeno la paternità infinitamente amorosa
Mieti dove ha seminato (di nuovo questo errore di prospettiva scambia ancora il
donatore per un contadino!!!)
Ma soprattutto non c’è figliolanza ma sudditanza paurosa
Qui si rivela la radice di tutte le scelte erronee precedenti, un’immagine di
Signore tuttaltro che divino-cristiana.
26
Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo [pigro], sapevi
che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso [?]; 27
avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando
[venendo io], avrei ritirato [recuperato] il mio con l'interesse. 28
Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché
83
a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà
tolto anche quello che ha. 30 E il servo fannullone [l’inutile] gettatelo
fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
Altrettanto dura è la risposta del Signore
la definizione del servo
l’autorivelazione di un Signore “miracoloso” conosciuto ma non amato.
l’accusa ancora più dura di quella di minimalista (banchieri) ma nichilista
(sotterratore).
la perdita di ciò che gli era stato affidato
la consegna a chi possiede già perché ha scoperto la natura e la vocazione del
ricevuto e del donante
l’abbandono del malvagio al non senso delle tenebre dove vi è disperazione.
Amerai come la pupulla dei tuoi occhi chiunque ti dirà la Parola del
Signore (Lettera Barnaba)
3.3.5.7 Actio
Ora và e fà lo stesso (Lc 10,37)
È un “fare” la Parola. Una parola che modella la mia vita e si
modella (visualizza) nella mia vita
Il ricordare la Parola durante la giornata serve non come esercizio
intellettuale, mnemonico ma per riorientare l’azione, un rimettersi alla
presenza di Lui e “fare tutto con perfezione” per LUI. Lo scriversi la frase
biblica al mattino e porla in luoghi visibili (agenda, scrivania, luogo visibile)
durante la giornata è coltivare la pianta della Parola che cresce nel nostro
giardino. Così la Parola diventa preghiera continua e orientamento
dell’azione.
I frutti della parola allora saranno:
 l’uscita dal caos, dalla frenesia del fare per il fare.
 la capacità di discernimento, prendendo in ogni momento una
decisione secondo il Vangelo.
 La conversione continua come orientamento a Cristo, per non
essere spettatori della Parola.
 La missionarietà: una parola felice per la mia vita incontenibile.
È chiaro che non si può uscire dalla lectio senza un itinerario di vita.
Allora è utile progettare a largo raggio sino a giungere al giorno. In questa
ottica la tradizione ha posto momenti forti nell’anno “spirituale”, che
scandendo la meditazione della parola toccano la vita nel cammino di
costante conversione. Per questo una possibile progettazione potrebbe
essere
Una parola che realizza un progetto
 Esercizi Spirituali
Rivedo e progetto la mia vita a partire da ciò che la Parola mi ha
suggerito ed ha illuminato sulle mie fragilità
 Ritiro mensile
Concretizzo per il mese che si apre il proposito degli esercizi, dopo
aver verificato il cammino fatto.
 Sacramento della riconciliazione
Il sacramento inizia la sua preparazione a partire dalla Parola
ascoltata che getta luce sui 15 gg che hanno preceduto; verifica l’attuazione
del mio progetto e orienta il cammino successivo
 Lectio quotidiana
La Parola di Dio quotidiana concretizza per l’oggi la chiamata di
Dio alla sua sequela ed alla conversione
84
261
ma è pure lo spazio in cui il cielo si dona alla terra e vi è comunicazione fra
Dio e l’uomo. Luogo dove Dio abita la terra, la storia e si relaziona con
l’uomo. Vivere contemplando allora è il modo di vivere di chi vive il
trascendente come accessibile, vicino (pur rimanendo nascosto, velato) dove
Dio abita la mia storia, santificandola. Il
corpo della
massima
contemplazione è stato certamente il corpo di Gesù di Nazareth, nel quale il
divino e l’umano si sono fatti uno: il massimo della contemplazione è
l’unione fra ciò che viviamo e il progetto di Dio rivelato dalla Parola, colui
che “celebra la liturgia della vita” senza alcuna schizofrenia.
Per questo ogni realtà che incontro diviene manifestazione della
stessa Parola. Il contemplativo riesce quasi per connaturalità a percepire le
presenze infinitesimali, piccolissime, di Parola di Dio che ci sono in ogni
realtà del cosmo e della storia. Il contemplativo non è un tagliato fuori ma
colui che con gli occhi del cuore (diventati così acuti) legge ogni realtà con i
filtri di Dio, anche dove gli altri vedono solo nero. Da qui nasce l’ottimismo,
il portatore della “bella notizia di vittoria”, colui che rincuora, colui che apre
gli occhi, colui che non si perde mai di coraggio, perché sa per certo che
anche negli eventi più drammatici, Dio ha in mano le sorti della storia.
Un guardare a tutto attraverso la lente di “Cristo crocifisso” il che
implica occhi che vedono, salvezza, riconciliazione, offerta, dono, ecc…in
una prospettiva di risurrezione. La radice della contemplazione è la nascita
dell’uomo nuovo, unico missionario in cui la parola si è incarnata non solo
nella sua visione ma nella sua vita.
3.3.5.6 Collatio
Tutti i monaci si riuniscono e, rimanendo ciscuno al proprio posto
dopo la recita della Scrittura, uno inizia la conversazione (Girolamo)
So infatti che il più delle volte ho compreso in presenza dei fratelli
molte cose della parola sacra, che da solo non potrei afferrare…Accade così,
per dono di Dio, che mentre si comprende di più ci si insuperbisce di meno:
siete voi che mi fate imparare ciò che insegno. (Gregorio Magno)
La parola va vissuta ma insieme. È questa la nostra natura. Questa
è la natura della Chiesa, la parola cresce comunicandola. Ecco un modo
profondo per aiutarci autenticamente: comunicandoci intuizioni, esperienze,
opere che la Parola sta compiendo nella nostra vita. Il comunicarci la Parola
è essenzialmente un aiuto a realizzarla. Non si tratta di esibizione nè dispute
culturali, ma di dono vicendevole, parola annunciata dal Gesù che c’è nel
fratello. Protagonista non è l’individuo ma Gesù. È partecipare agli altri
qualcosa di mio. È accogliere dagli altri il dono che Dio ha fatto a loro.
Faccio attenzione perciò ad uscire dal genericismo; sono io che ho sentito
affondare la spada della Parola nel mio cuore, sulla mia relatà, non su un
anonimo di altri tempi o un prototipo anonimo:
260
6.2 Mi hai fatto come un prodigio Sal 139 (138)
Il salmo è una delle più penetranti riflessioni sul significato e sulla
presenza di Dio in tutta la letteratura religiosa. Locus classico della
onnipotenza – scienza e onnipresenza di Dio.
Dio si proietta in ogni direzione, al di sopra e al di sotto innanzi e
indietro.

L’arco della vita: vv. 1-6: sedersi e alzarsi sono due
estremi che racchiudono l’estremo arco della vita umana
(2re 19,27). Un arco che esemplificato, nella sua totalità
controllata da Dio, racchiude una serie di altri poli o
componenti fondamentali. Il pensare, camminare,
riposare,la via della vita, la parola, le dimensioni spaziali

L’arco del tempo e dello spazio: (vv. 7-12) Le 4
dimensioni universali: altezza, profondità, oriente ed
occidente. Le 2 alternanze cicliche temporali: notte e
giorno

L’arco della vita nascosta (vv. 13-18): dal grembo materno
al grembo accogliente della terra. Tra due grembi.
L’uomo nella sua folle fuga non riesce a sfuggire dalla Sua
presenza, non riesce a sfuggire all’inseguimento d’amore.
Il salmo “esprime lo stupore dell’uomo che scopre che in tutte le
sue vie egli è coinvolto in relazioni che restano nascoste all’occhio naturale.
Egli non appartiene interamente a se stesso né vive esclusivamente la sua
vita per se stesso perché dappertutto scopre invisibili legami che lo
vincolano alla realtà di Dio” (Weiser)
Genere letterario
Testo di chiara natura sapienziale pur delineando l’onniscienza,
onnipresenza ecc… di Dio non in chiave filosofico-teologica ma in chiave
relazionale fra un “io” piccolo e scrutato ed un “tu” incommensurabile e
scrutatore.
Temi chiave
Scrutare (sal 44,22; Ger 17,10; Gb 13,9;28,27)
esaminare – provare (Ger 9,6; 11,20; 12,3; 17,10; 20,12; cf. 6,7; Gb
7,18; 23,10)
immagine della tessitura (Gb 10,11)
Struttura
Meditazione sapienziale
85
1-6: la conoscenza divina
Preghiera:
1-3 tu conosci
4-6 tu conosci
7-12: lo spazio e i tempi
7-10 lo spazio
11-12 il tempo
13-18: la creazione e conoscenza
dell’uomo
13-15 la creazione
16-18 la conoscenza divina
19-24: il giudizio divino
19-22 contro empi
23-24 sull’orante
1.23. Scrutare
1.2.23. Conoscere
3.24. Tutte le mie vie
2.23. I miei pensieri-progetti
Itinerario sul mistero di Dio, insondabile se non nei contorni, pur
essendo operante ed efficace.
La presenza di Dio è un š
am, “là” (v. 8.10) ma è anche un “oltre”, è
avvolgente e penetrante, è un «com-prendere» in totalità e pienezza. Anzi, la
sua «conoscenza» è creatrice (vv. 13-18) e può trasformarsi in «guida» (vv.
10.24).
Dio è «là» (vv. 8.10) ma è anche «con» (`immak, v. 18) e può
persino condurre verso la «via eterna» (v. 24), cioè nell'area della sua
trascendenza. «Le qualifiche di Dio seguono un movimento oscillatorio
dall'astratto al concreto:
saggezza spirito presenza (vv. 5-7)
mano destra (v. 10) opera (v. 14) libro (v. 16) occhi (v. 16) pensieri (v. 17).
A cui corrisponde da parte dell'uomo:
Dio
invisibile
e
inafferrabile rivela il suo
pensiero attraverso la sua
essere seduto/in piedi (v. 2) camminare/riposarsi (v. 3)
opera
spalle fronte (v. 5) ossa (v. 15) giorni (v. 16) cuore (v. 23) pensieri
(v. 23) via di menzogna/via della vita (v. 24).
Al contrario, l'uomo,
fatto di carne e di sangue,
vale per i progetti che
concepisce
nel
suo
cuore».
86
Nasce da una parte l’invocazione di perdono, dall’altra il desiderio
di iniziare un cammino di conversione. È il riconoscimento della nostra
povertà che si confronta con la sua costante fedeltà.
Oratio di domanda
La presa di coscienza delle nostre lontananze non ci fa sfociare
nello scoraggiamento “tanto… non cambio”. Sino ad ora abbiamo chiesto
cose, non lo Spirito (Lc 11,9-10). Dio non solo attende che chiediamo aiuto
ma attende che gli chiediamo di donarci se stesso nel suo Spirito, il resto
verrà di conseguenza. Chiedere il dono dello Spirito è chiedere la somma di
ogni dono desiderabile: è docilità, è creazione, è vita nuova è… La parola è
pro-vocante interpella e ci forza dall’interno. Per cui di fronte alle nostre
inadempienze essa ci smobilita.
Restare nella lectio smuove, perché a confronto con la Parola
anche i momenti più bui possono essere riletti in chiave di salvezza.
Oratio di Ringraziamento
Quando ci si accorge che Lui “Ha vinto il mondo” allora nasce
sempre il ringraziamento: l’Eucaristia. Ci accorgiamo che la nostra vita è
diretta da chi con amore educativo ci ha accompagnatio con fedeltà,
prevenendo, assistendo, risanado, trasformando così alla sua luce le
esperienze di caduta in valichi di maturazione.
Oratio di lode
È la gioia incontenibile dei piccoli, è il gusto che nasce dalla
gratuità, dalla spontaneità, dalla creatività del dono. Esperienza a volte
inenarrabile.
Momenti diversi, distinti e confluenti ma anche momenti che si
intrecciano senza una chiara distinzione, come lo Spirito suggerisce, ma
sempre ed unicamente dialogo con Lui, in una relazione fra persone: non in
cerca di emozioni. Preghiera che tende a dilatarsi che non si chiude perché
toccando la vita tocca persone, situazioni, mondo. Dialogo profondo che è
personale ed ecclesiale. Risposta alle sue richieste, alle sue pro-vocazioni, il
nostro “eccomi”. Trasformare in preghiera la Sua Parola è parlare a Lui con
il suo linguaggio.
3.3.5.6 Contemplatio
Spesso si è identificata la contemplazione con una sorta di ideale
elevazione che riservasse l’eletto per un giardino chiuso, con la conseguente
chiusura all’esterno. Esperienza per pochi.
Contemplare deriva dalla composizione di due elementi cum-templo
con-tempio. Dove il tempio è si lo spazio delimitato, separato dal mondo
259
vegli o dorma cresce ugualmente. L’essenziale è che egli abbia seminato in
un terreno disposto a lasciarsi arare, fecondare, rigirare. È la visione
sacramentale della Parola, certi che essa da frutti di per sé perché è il Signore
che agisce dentro di noi. Qui la Parola permea mentre la si riprende (in
questo contesto è nata la tradizione della prelettura).
La memoria ha qui una buona funzione. Allora questa Parola viene
ripetuta con una certa frequenza, come una goccia che scava il cuore, come
una mucca che rumina il suo cibo, per gustarne tutta la fragranza scoprendo
che quella Parola su Dio è un suo atteggiamento da sempre o quella Parola
sull’uomo è dell’uomo di ogni tempo: è anche per me. La Parola svela così
tutto il suo saporoso contenuto.
Confronto
I Padri chiamavano questa fase quella sella syn-krisis con-giudizio,
discernimento. Krinein è il verbo che indica il lavoro del setacciare il grano.
Per questo la fase della meditazione è un porre la nostra vita al setaccio di
questa Parola. E nel momento che qualcosa impedisce alla luce di permeare
il tutto, lì inizia la scrematura, che sconvolge le nostre false sicurezze per
compiere nuovamente la creazione.
Ne nasce spontaneamente un esame della vita (questa è pure la
giusta via di preparazione al sacramento della riconciliazione): questa Parola
che cosa dice alla mia storia, che cosa chiede di cambiare? Che novità
introduce? Per me…Come la mia vita, la mia azione,…. (e qui si possono
passare in rassegna le giornate trascorse o i possibili avvenimenti della
giornata che si apre) il mio apostolato diventano Parola di Dio? Sono
trasformate da essa? Occorre una buona dose di sincerità, una fatica perché
cambia.
3.3.5.5 Oratio
È il momento della presa di coscienza del grido ineffabile che è
presente dentro di noi ma non trovava sino ad ora i termini giusti per
esprimersi
Oratio di riparazione
La parola di Dio “è una spada a doppio taglio che penetra sino nel
profondo”.
Così se abbiamo camminato secondo lo Spirito, la Parola non può
non averci ferito come: Isaia (Is 6,5ss), come gli ascoltatori di Pietro il
giorno di Pentecoste (At 2,37) che non possono fare a meno di confessarsi
bisognosi di misericordia.
Commenta Monloubou: «Quali che siano gli atti del fedele e quale
che sia la sua vita, che sia in piedi, seduto o cammini, che. compia l'una o
l'altra delle innumerevoli azioni di cui questi tre atteggiamenti privilegiati
sono simbolo, che affronti l'esistenza combattendo, che tenti 'di sormontare
i conflitti o invece s'applichi a unire i contrari o che tenti d'incontrare la
calda intimità di cui ha un desiderio profondo, Dio lo «conosce». Paragrafo
stupendo che dice così tante cose in così poche parole: e che con grande
arte mette il simbolismo al servizio della tesi». […]
«Nella maggior parte il Sal 139 è costruito su un'opposizione molto
netta: cominciando con il rifiuto e la fuga il salmista arriva al cammino in
comune, alla marcia in direzione di colui da cui all'inizio aveva voluto
allontanarsi. Infatti i primi.12 versetti illustrano con maggiore o minore
chiarezza il tema della fuga. L'uomo è in cammino e il suo movimento tende
ad allontanarsi da qualcuno: Jahweh, che è l'unico qui a indossare le note
simboliche dell'uomo in piedi. Il salmista è in marcia ma per fuggire da Dio.
Verso quale direzione? Non se ne dice nulla. Solo la fuga lo occupa ma essa
è impossibile ... Lo scopo del poema è quello di mostrare che non è
possibile all'uomo impegnarsi in un cammino che lo allontani realmente da
Dio. In un contrasto che colpisce, l'ultimo versetto evoca l'eroe del salmo in
marcia sulla via dove Dio lo conduce. Questo cammino va verso una meta
discretamente suggerita da un nome di tempo, 1'«eternità», ma la meta non è
altro che Dio. Così chi voleva che la sua vita fosse una fuga da Dio arriva ad
accettare di camminare con lui, con Dio come guida e verso lui come meta
... La vita del fedele non è che un cammino compiuto alla sua presenza e che
lo conduce a lui» 22
La mano di Dio si posa sul fedele (v. 5) e abbraccia tutto lo spazio
(v. 10) eppure resta sempre al di fuori di esso. In pratica il poema sottolinea
due aspetti complementari. Lo spazio è pieno di Dio, lo spazio nasconde nel
suo interno il segreto dell'azione di Dio e anche il segreto del male, che a lui
si oppone (vv. 19-22), in un impasto misterioso.
La stessa impostazione regge anche l'uso del simbolo temporaleesistenziale.
Il testo è colmo di polarismi che esprimono semiticamente
l'intero, le coppie antitetiche notte-giorno e oscurità-luce sono gli antipodi
del tempo; come la «via», il cammino è una nota metafora per rappresentare
l'intero percorso della vita. Ora su questa totalità del tempo, che avvolge
l’uomo e gli si attacca alla pelle, si stendono lo sguardo e l'azione divina. Dio
non solo conosce l'esistere dell'uomo ma ne è intrinsecamente partecipe col
suo efficace atto creativo, col suo intessere la realtà fisica e interiore
dell'uomo, col suo inseguire l'uomo nella sua storia. Eppure egli trascende il
22
258
87
Monloubou L:, L’immaginaire des Psamistes,Paris, 1980.
tempo, può avviarci su una «via eterna» (v. 24) ove egli vive in un'intatta
perfezione ed eternità.
vv 1-6: L’onniscienza divina
Verbo della conoscenza jd’ indica una penetrazione totale del
conoscente nell’oggetto della sua conoscenza. E questo raggiunge la sua
radicalità quando il soggetto è Dio, colui che sa perché tutto ha creato
(1Sam 2,3; Sal 7,10; 14,2; 17,3-4; 26,2; 44,22; Ger 12,3; Gb 28,23; Na 1,7;
Gn 18,19; Es 33,12; 2Sam 7,20; Am 3,2; Os 5,3; 13,5; Gb 11,11; 1Re 8,39;
Sir 17,19; 23,19).
Oltre la superficie delle cose, nel segreto più recondito dell’essere.
Il signore può perforare tutte le cortine protettive dell’orgoglio e
dell’autodifesa umana. Giobbe di fronte a questo reagisce sentendosi
perseguitato (7,12-20; 10,20; 14,16; 23,10-12).
Il salmista qui vuole invece tracciare questo sguardo come una
partecipazione affettiva e paterna che ha come scopo la salvezza e la
liberazione dell’uomo (Sal 94,11; 144,3; Os 6,6; Ger 1,6; 12,3; Gv 10,14;
2Tm 2,19). È una conoscenza efficace che crea disagio nel peccatore ma che
nel giusto, pur creando imbarazzo e rispetto, deve diventare fonte di
abbandono e di speranza. Questa totalità è espressa nei bipolarismi: sedersi
– alzarsi; camminare – sostare; dietro – davanti; pensiero – via – parola;
lontano – sopra di me; elevato – meraviglioso. Estremismi nei quali è
racchiuso tutto il mediano.
“da ogni parte ero investito da te, Signore” (Agostino, confessioni, VIII,
1,1)
vv 7-12: L’onnipresenza divina
la dimensione spaziale caratterizza immediatamente questa seconda
strofa.
Nei versetti 7-10, i quali sono rinchiusi tra due antropomorfismi:
quello del “respiro-volto” e quello della “mano – destra”. Ciò che vivifica e
ciò che identifica da una parte e ciò che è potente ed efficace dall’altra. Da
una parte ciò per cui l’uomo è dall’altra ciò per cui l’uomo cammina nel bene
perché è guidato. Ma entrambi i simbolismi dicono spazialità: l’uno
totalizzante in quanto in delimitabile dall’altra perché nelle categorie dei
limiti in cui è compreso il tutto: sinistra e destra – nord e sud.
Nei versetti 8-10 vi sono tracciati i due assi: quello verticale: cieli –
sheol (per indicare la discesa è utilizzato il verbo del distendersi per il sonno
quasi ad indicare una concezione particolare del regno della morte. Anche
qui pare un modo particolare di vedere questa onnipresenza per cui lo
sgheol non è il regno dell’abbandono di Dio.) e quello orizzontale: est –
ovest.
88
È il secondo gradino della nostra ascesa, dove la Parola di Dio
diviene Parola di Vita. La lettura e la comprensione non rimangono
un’operazione di accumulo di nozioni, ma devono toccare la vita,
sconvolgerla per ricostruirla secondo Dio.
Se la lectio è un’operazione che può essere anche comunitaria la
meditatio è squisitamente personale: riprende il messaggio della lectio e inizia a
personalizzarlo.
Leggere attentamente, trascrivere e imparare a memoria sono tre
modalità semplici di far sedimentare la Parola in noi. Allora la frase su cui lo
Spirito ha soffermato la nostra attenzione, diviene unica espressione
illuminante che ripetuta continuamente diviene un tutt’uno con me, che
scritta su un quaderno delle meditazioni, può tracciare percorsi di vita,
perché lo scrivere fissa indelebilmente ciò che a volte la memoria scolorisce,
e così questa Parola diviene il luogo della verifica oltre che della
progettazione.
Tre momenti risultano salienti nella seconda fase:
Raccolta
“Martellando” il ferro rovente produce scintille di luce, la voce
proclamata fra le montagne fa eco sonoro pur con sfumature diverse, “la
Parola – dicono i Padri – si spiega con la Parola”. Così la Parola chiave si
illumina con un ricordo, ci rende presente un altro passo, un’altra Parola,
sino a quando la memoria non si ferma. Parliamo a questo punto di eco
biblica. In quale altro brano ho già trovato situazioni analoghe, parole simili
ecc… le note e i rimandi solitamente apposti nelle bibbie sono di grande
aiuto.
Quella Parola può essere anche letta e compresa alla luce della
Chiesa che è l’incarnazione di questa Parola nella sua storia di santità
ricordando soprattutto episodi della vita di santi che l’anno vissuta e come lo
hanno fatto. Per noi particolarmente illuminate è la vita di don Bosco, di
Madre Mazzarello e dei santi della famiglia salesiana. Ecco l’eco salesiana.
È chiaro che per fare questo bisogna avere una grande familiarità
con la Parola di Dio che va letta “gratuitamente” senza nemmeno
«l’interesse» della preghiera e la conoscenza della santità della Chiesa.
Ognuno di noi si accosta con il suo bagaglio e secondo la sua necessità;
come nell’esodo il popolo raccoglieva la manna secondo il suo bisogno ed il
raccoglierne di più produce solo marciume. Senza alcuna frustrazione nè
scoraggiamenti.
Ruminatio
È il momento dell’elaborazione del raccolto fatto. I Padri della
Chiesa avevano un’estrema fiducia nella Parola la quale sia che il contadino
257
Un brano è comprensibile solo a partire dal suo contesto più
ampio per poi scendere via via al particolare che è la singola azione, il
singolo personaggio, la singola Parola.
All’uomo del nostro tempo il linguaggio della bibbia non è
immediatamente comprensibile. La redazione dei testi biblici risente di un
contesto culturale e storico ormai lontano.
Per questo la lettura ha bisogno di una introduzione, di studio, che
può essere fornita minimamente attraverso la lettura delle note o delle
introduzioni ai libri sacri. Già i padri della Chiesa percepivano la ricchezza
del testo ma anche la sua complessità per questo elaborarono una dottrina
circa il “senso” delle scritture per giungere al contenuto essenziale
L’analisi grammaticale pone attenzione alla Parola, il suo valore
semantico, al suo valore grammaticale evidenziano il cuore dell'espressione.
Il procedimento è possibile nei due versi: dalla Parola al suo
contesto o dal brano alla Parola, certi come i grandi monaci medioevali che
ogni Parola è sacra come l’Eucaristia in cui ogni frammento contiene il
tutto.
Soprattutto se è un testo evangelico, la mia attenzione deve lasciarsi
afferrare dalla Persona di Gesù. Atteggiamenti, parole esclamazioni, sguardi,
cenni: non c’è nella che, se colto con attenta lettura, non sia rivelazione per
me della sua personalità umana e divina, unica al mondo e presente qui e ora
, come risorto accanto a me e rivelante il Mio volto di uomo “che deve
crescere alla statura dell’uomo perfetto”.
In questa fase possono essere utili alcuni commentari, che però
hanno anche il rischio di catturare tutta l’attenzione trasformando il primo
momento della lectio divina, nell’unico momento.
Il Card. Martini consiglia di leggere con la penna, sottolineando
verbi, evidenziando i soggetti principali, evidenziando in un cerchio ciò che
mi colpisce di più o ciò che è il fulcro del testo.
Una lettura fatta con il cuore orientata alla comunione, che non è
separata dal sentimento, per non essere “ciceroniani”.
Dopo aver letto e riletto il testo, averlo compreso nel suo contesto
e nella sua struttura è importante fermarsi su una frase, su una espressione,
su una Parola che colpisce il cuore.
Il primo momento si conclude con la ripetizione continua, quasi un
“martellamento” della Parola chiave per fissarla nel nostro cuore di pietra.
In chiave salesiana, il valore dell’eco biblica è associabile a quanto
don Bosco invitava a vivere attraverso la mediazione delle giaculatorie.
3.3.5.4 Meditatio
Maria conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
256
Infine il poeta passa all’aspetto temporale ritmato dal flusso luce –
tenebra (simbolo molte volte utilizzato nel testo biblico per rimandare allo
sheol, qui penetrato e vinto senza alcuna difficoltà)
vv 13-18: La creazione dell’uomo
13-16a è un grido di stupore e di adorazione davanti al creatore di
un simile capolavoro (sal 8). Questo capolavoro intessuto finemente e con
precisione sin nel profondo.
Le viscere, i reni sono il simbolo delle realtà più intime e nascoste,
sede della vita sensitiva ed affettiva secondo il mondo biblico. Dio modella
questo con precisione tanto che si afferma: “tu mi hai intessuto nel seno di
mia madre” dove quel verbo è difficilmente traducibile, meglio sarebbe Dio
mi tesse e mi pro-tesse. Creazione e provvidenza sono coinvolte sin dal grembo
materno della madre (Gb 1,10.21; 10,11; Sal 5,12; 140,8) Questo capolavoro
il più alto della creazione, curato nei minimi dettagli.
Il v. 15 ha un particolare dove si dice che l’uomo è rqm indicante
un tessuto broccato con rilievi e una gamma multicolore di sfumature. (Cfr
la descrizioni dei ricami della tenda del convegno: Es 26,36; 27,16; 28,39;
35,35; 36,37; 38,18.23; 39,29).
Come lo sheol, cuore della terra, oscuro è penetrato da Dio, così il
ventre di una madre è penetrato dallo sguardo e dall’opera di Dio che edifica
il suo capolavoro nei minimi dettagli.
16-18b delinea la conoscenza mirabile da parte di Dio di questa
creatura descritta. In questa parte è forte il simbolismo del libro, nel quale
Dio registra in anticipo tutta la nostra vita nelle sue dimensioni più nascoste,
segno \simbolo della sua viscerale premura per ciascuno che nel nuovo
testamento Gesù sintetizzerà con l’immagine dei capelli contati dal Padre.
L’uomo si sente allora avvolto da una passione amorosa che fa di Lui
l’essere più esaltato (cfr Sal 8) sin dalle sue più remote origini
vv 19-24: Il giudizio di Dio
tre sono i personaggio che nel movimento finale si delineano
Dio, punta del triangolo della relazione al quale convergono sia
l’orante che l’empio
Il secondo personaggio è l’empio, ampiamente tratteggiato nei suoi
lineamenti essenziali con una serie vivace di definizioni. Il termine è un
singolare collettivo, opposto al giusto. Massa perversa che rifiuta Dio,
coloro che sono idolatri. Essi parlano di e contro Dio considerandolo come
gli altri idoli che si possono manipolare a proprio desiderio. Negano così il
Dio creatore e glorioso, presente nella vita di tutti i giorni.
89
Il terzo personaggio è l’orante: è colui che si tiene lontano dai
peccatori, che riduce i nemici £a vanità”, la cui causa coincide con la causa
di Dio.
Eco salesiana
Margherita, essendo essa donna di gran fede, in cima a tutti i suoi
pensieri, come pure sulle sue labbra, v'era sempre Iddio. D'ingegno sveglio e
di facile parola, sapeva in ogni occasione servirsi del Nome di Dio per
padroneggiare il cuore dei suoi fanciulli. Dio ti vede: era il gran motto, col
quale rammentava ad essi come fossero sempre sotto gli occhi di quel gran
Dio, che un giorno li avrebbe giudicati. Se loro permetteva di andare a
sollazzarsi nei prati vicini, li congedava dicendo: Ricordatevi che Dio vi vede. Se
talora li scorgeva pensierosi e temeva covassero nell'animo qualche piccolo
rancore, loro susurrava all'improvviso all'orecchio: Ricordatevi che Dio vi vede e
vede anche i vostri più reconditi pensieri. Se, interrogando qualcuno di essi, cadeva
in sospetto che potesse scusarsi con qualche bugia, prima di averne la
risposta ripeteva: Ricordati che Dio ti vede. Senza saperlo ripeteva ai figli le
parole dette da Dio ad Abramo: Cammina alla mia presenza e sii perfetto. E
il ricordo che Tobia dava al suo figlio: Tutti i giorni della tua vita abbi Dio
nella mente (MB I,p. 44)
Erano prossime le vacanze. La sera del 21 agosto, salito sul pulpitino
e aspettato un poco per dar tempo agli artigiani di prender posto presso gli
studenti, dopo un esordio atto a conciliare col silenzio l'attenzione, svolse
mirabilmente il pensiero della presenza di Dio, presentandolo quale mezzo
efficace per passare le vacanze senza cadere in peccato.
Ora fate un po' di silenzio, che voglio dirvi qualche cosa. […]
S'avvicina il tempo delle vacanze, tanto per gli studenti come per gli
artigiani, gli uni per riposarsi la testa, gli altri per riposarsi le spalle e le
braccia. Io dovrei dare agli uni ed agli altri qualche consiglio adattato per
passarle bene, ma vi sono dei consigli generali che possono valer per tutti. Il
consiglio adunque che io son solito a dare è questo: quando siete in vacanza,
mettetevi pure in libertà, fate pure disordini, ma cercate di ritirarvi in un
posto in cui il Signore non vi veda: chiudetevi in una stanza remota della
casa, andate a basso in cantina, salite anche sul campanile, o nascondetevi
nel folto di una foresta, purchè non sia presente il Signore. Credo però che
non vi sarà nessuno così gonzo. Ah! voi conoscete subito essere impossibile
sottrarvi agli occhi di Colui che vede contemporaneamente ogni cosa in
ciclo e in terra. Questo pensiero ci deve accompagnare in ogni tempo in
ogni luogo, in ogni azione. E come osereste commettere un atto che possa
offendere il Signore, se Egli ha la potenza di farvi all'istante restar secca la
mano mentre vi accingete a commetterla, o farvi intorpidire la lingua mentre
pronunciate quella cattiva parola? Dunque quando vi troverete a casa fra i
90
3.3.5.3 Lectio
È lo studio attento delle Scritture fatto con uno spirito tutto teso a
comprendere (GUIDO II)
a. Il testo
Innanzitutto è essenziale la scelta di un testo.
La Parola ci è donata dalla Chiesa nella forma delle letture
liturgiche o attraverso l’accostamento ad un libro biblico visto nella sua
globalità. Per questo la lectio può essere fatta sotto la forma di lectio continua
assumendo un testo dal suo inizio al suo termine o attraverso le parti donate
dalla liturgia, scegliendo per la nostra meditazione o le prime letture o i testi
evangelici della liturgia del giorno (ad esempio negli anni pari la prima
lettura, negli anni dispari i testi dell’Evangelo).
La Parola necessita di un testo che analogicamente come il pane è
la materia in cui incontare il Cristo. Per questo nelle nostre liturgie
incensiamo il testo, così la nostra cura deve permanere anche nella custodia
dei testi individuali.
Le modalità di lettura
Si tratta di leggere il testo e non una volta sola. Leggere con
attenzione è porre il fuoco sulla grammatica, sulla sintassi, sui personaggi,
sui verbi, sui sentimenti.
Lectio che a volte non si esaurisce nella lettura del testo biblico,
spesso difficile, ma può essere supportata da commentari esegetici o
spirituali che hanno già sbriciolato il testo per i lettori.
La lettura va concentrata sul testo, fatta con lentezza, calma “con
gli occhi fissi su di Lui” (Lc 4,20) come quel giorno a Nazareth, occhi che
devono essere semplici, puri, docili, umili occhi del corpo e del cuore, che
hanno un’unica preoccupazione.
Una lettura fatta con la testa godendo i frutti che la scienza offre.
Le capacità umane non sono mortificate, in questa prima fase è necessario lo
studio razionale, studio degli aspetti storici (situazione umana
trattata),letterari (linguaggio, stile, generi letterari, autori, epoche, formazione
dei testi), teologici (il messaggio di Dio e il suo volto che si rivela) del testo,
contemplando il progetto di Dio, la storia di salvezza che in tutti i libri e
nella loro unità è tratteggiata.
La fedeltà nel perseguire questo significato letterale della Parola di
Dio è uno delle costanti necessarie all’autentica lectio per non cadere nella
manipolazione fantasiosa, soggettivistica, a servizio dei nostri sentimenti.
255
accosta alla lectio divina è bene che non si arrivi ad essa fagocitati da mille
altre cose, con la testa piena di …
Nella tradizione salesiana l’intuizione di don Bosco: “la
buona notte”. È l’ultimo pensiero positivo che segna il mio riposo cosicchè
possa liberare la nostra mente dagli affollamenti della giornata e preparare
con la pace della notte l’impostazione della giornata successiva. In questo
potrebbe essere utile inserire al termine della nostra giornata, proprio prima
di spegnere la luce la prelettura  della Parola che al mattino accosterò con la
lectio divina. L’alfa e l’omega delle mie giornate, il primo e l’ultimo pensiero.
Il silenzio sacro don Bosco lo viveva in questa logica, di
preparazione al momento di comunione con il Signore con cui iniziava la
giornata.
Se Lui è un “Dio Geloso” lo è perché sa che noi siamo fragili e
non possiamo porre tutto insieme e a volte se lo facciamo rischiamo di non
scegliere sempre il meglio, ecco perché fare delle scelte di qualità.
3.3.5.2 Preparazione immediata: INVOCATIO
Necessita innanzitutto un clima di calma e di silenzio in cui tutto di
noi dica un atteggiamento d’ascolto
Il nostro corpo non è indifferente all’incontro con la Parola. Così
in ogni nostro incontro il nostro corpo assume un atteggiamento diverso a
seconda dell’importanza che diamo ad esso.
Il nostro respiro è il segno più evidente dello Spirito che opera
dentro di noi: che grida con gemiti inesprimibili
L’invocazione allo Spirito è allora il via di questo dialogo amoroso:
Lui ha illuminato lo Scrittore, Lui vivifica e rende efficace la Parola.
Mi metto, umile, sulla sua lunghezza d’onda, chiedendogli che
consumi in me qualsiasi resistenza anche inconscia.
Dammi un cuore in ascolto – dice Salomone nel TM - (1Re 3,9):
un cuore come una pellicola, che si lascia impressionare dalla luce in un
istante e per sempre
Il che implica un grande atteggiamento di umiltà, la Parola non si
deposita in un terreno plastificato. Un terreno autosufficiente, un terreno
peccaminoso. La Parola non sopporta il peccato.
L’invocazione può essere molto semplice, un grido, che si ritma
con il respiro:
inspirazione
espirazione
Vieni
Spirito santo
Spirito plasmami
Rinnovami …
254
vostri amici e compagni, se qualcheduno vi consiglierà di tenervi lontani
dalla Chiesa, o d'andare in qualche luogo pericoloso, o di fare qualche altra
azione cattiva, rispondete come fece già una volta Giuseppe, quando in
Egitto volevano fargli commettere un peccato: E come posso io offendere
alla sua presenza il mio Signore? E noi Cristiani dobbiamo dire ancora dì
più: e come possiamo noi offendere alla sua presenza il nostro Dio, Dio
onnipotente che ci ha creati, Dio misericordioso che ci ha redenti, Dio
infinitamente buono che ci ricolma ad ogni istante di suoi benefizi, Dio
giusto che potrebbe con un solo atto della sua volontà toglierci questa
nostra misera esistenza? (XIII, p. 427-429)
Nei cortili e in tutte le stanze della casa disponeva che li interni e gli
esterni avessero sott'occhio il Crocifisso e l'immagine di Maria, perchè si
avvezzassero a vivere alla presenza del Signore. E il pensiero della divina
presenza era così vivo nella sua mente che trasparivagli nella fisionomia; ed
io osservandolo mi sentiva eccitato ad esclamare: Conversatio nostra in coelis est.
Dovunque fosse, anche a mensa, o solo nella propria camera, era sempre
composto ne' suoi atti; i suoi sguardi teneva raccolti e il capo piuttosto
chino, come di chi sta innanzi ad un gran personaggio, o meglio, al SS.
Sacramento dell'altare. (III, p. 588)
Gli alunni vivevano alla presenza di Dio, e su tutte le mura leggevasi
scritto a grossi caratteri: DIO TI VEDE. Con tale importantissimo ricordo
D. Bosco sapeva loro ispirare un grande raccoglimento durante le preghiere,
di cui rilevava l'efficacia dimostrandole un colloquio faccia a faccia con Dio
stesso. Quindi anche le brevi orazioni, che precedevano e seguivano tutte le
occupazioni di studio e di lavoro, e il pranzo e la cena, si recitavano con
molta divozione. (IV, p. 683)
Ed ora, Beatissimo Padre, soggiunse D. Bosco, abbia la bontà di
suggerirmi una massima che io possa ripetere a' miei giovani, come ricordo
uscito dalle labbra del Vicario di Gesù Cristo.
La presenza di Dio! rispose il Papa: dite ai vostri giovani in mio nome che si
regolino sempre con questo pensiero!... (V, p. 908)
D. Bosco nei suoi passi era guidato dal Signore, perchè uomo di
preghiera continua, quantunque non avesse nessuna di quelle esteriorità e
pratiche che generalmente si vedono negli altri Santi. Era la sua
quell'orazione attiva, la quale consiste nello stare continuamente alla
presenza di Dio, col fine, non solo di servirlo, ma godendo e rallegrandosi
tra le proprie occupazioni, nel vedere attuarsi in ciò che si sta facendo la
volontà del Signore. (VI, p. 530)
Ha scritto S. Francesco di Sales: “ Vi è una certa maniera di pregare,
91
molto facile, molto utile, che si fa coll'assuefare l'anima nostra alla presenza
di Dio, ma in maniera che questa produca in noi una unione intima, nuda,
semplice e perfetta. Oh che preziosa orazione è questa! ” (VI, p. 531)
Una Parola che viene dalla Chiesa e torna ad essa nel servizio ai fratelli e
nella lode liturgica vero alveo di annuncio, vero ambiente per la sua
proclamazione.
Nel frattempo era incominciata la novena che precedeva la festa
dell'Immacolata Concezione di Maria Vergine SS.; e D. Bosco, mentre
esortava i suoi alunni a celebrarla con molta pietà, scriveva i fioretti da
praticarsi in que' giorni. Ogni sera ne veniva proposto e spiegato uno, ora da
lui stesso, ora, essendo egli impedito, da D. Rua Michele.
Al nono punto si legge “Il massimo e più potente custode della purità
è il pensiero della presenza di Dio.” (VII, p. 331)
La lectio: un ascolto orante di Lui
La lectio divina è una forma di preghiera, la forma più classica, un ascolto
amoroso (Lc 10,40), un’incontro: “ci si incontra perché ci si vuole bene;
se non c’è amore, l’incontrarsi non significa niente. La bellezza di un
incontro è dato dall’importanza che una persona assume per l’altro: più
per me conta quella persona, più incontrarla è una gioia”
ma pregare è soprattutto ascoltare, è porre al centro l’altro perché il
parlare rende protagonisti, l’ascoltare pone la focalizzazione su un altro.
Un Ascolto che trasforma «l’Oggi», perché è una Parola viva. E qui è
importante il concetto di Ispirazione. Lo Spirito non ha operato solo
illuminando lo scrittore ma continua ad operare nella mia lettura. Dio
parla ora. La Scrittura è Uno che mi parla. Parola che interpella me, qui,
adesso. Nella Chiesa Armena prima del Vangelo vi è un dialogo fra il
diacono e l’assemblea:
D:
State attenti
Ass:
è Dio che parla
una ascolto è sempre compromettente
un ascolto che risponde alle mie domande sull’oggi. Su come impostare
le mie giornate, come agire in quella situazione, è il criterio di
discernimento per le mie scelte. Percependo una speciale provvidenza
nella Parola donatami dalla Chiesa ogni giorno. Non scelta da me
stesso, ma donatami
un ascolto che deve essere costante per rendermi famigliare l’idioma.
Tutti i giorni bisogna mettersi in ascolto per non essere degli estranei,
dei turisti della Parola. Come gente che ha fretta di vedere molte cose
ma non abita. (venite e vedete… e quel giorno si fermarono con lui).
Non è necessario allora leggere molto. Basta talora un versetto per
riempire tutta la giornata e qualche volta più di una giornata
Allora: applica tutto te stesso, mettiti in gioco con tutte le tue facoltà:
intelligenza, sentimento, fantasia…
Proseguendo a tener fedelmente, nell'umiltà più profonda, il pensiero
rivolto a Dio, arriva a comprendere sempre più nettamente la propria nullità,
e la sublime maestà di Dio e la bellezza ineffabile del premio che ci tien
preparato, e sente sempre il bisogno di stare ognor prostrato innanzi a Lui
ad implorare la sua infinita misericordia.
Invece, chi pieno di sè, trascura la vita interiore, non pensando che
alla vita terrena, nè d'altro preoccupandosi, muore presto alla grazia, e cade e
ricade tra le zanne del mostro infernale, che è sempre in giro, come leone
ruggente, per rapire le anime a Dio.
Mentre anche nelle prove più gravi chi vive unito abitualmente con
Dio, resta nella sua grazia, perchè Dio lo difende a spada tratta, e gode del
suo aiuto quaggiù, e si assicura il gran premio del paradiso.
L'umiltà, quindi, è la strada del paradiso. Dov'è umiltà, dice S.
Agostino, ivi è grandezza, perchè l'umile è unito con Dio. E l'umiltà non
consiste nell'apparir meschini nel vestire, nel fare, nel parlare; ma nello star
prostrati, con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutta l'anima, alla
presenza di Dio, consci della nostra nullità, implorando di continuo la sua
misericordia. (X, p.77)
La cronaca poc'anzi citata serba anche il ricordo di una visita fatta
allora da Don Bosco alle Suore di Alassio. Interrogatele se avessero molto
lavoro e udito che sì: Ebbene, guardate, disse, quando io vado nelle case e
sento che c'è molto da lavorare, vivo tranquillo. Dove c'è lavoro, non c'è il
demonio. Ne andò a vedere tre che erano ammalate. Dopo voltosi alle altre
che tutte ve l'avevano accompagnato, domandò: Di quale virtù volete che vi
parli? Esse che avevano sempre tanto da fare e non sapevano come praticare
quella regola che diceva di « stare continuamente alla presenza di Dio »,
unanimi risposero: Ci parli dello stare sempre alla presenza di Dio. Ed egli:
Sarebbe veramente bello che le Figlie di Maria Ausiliatrice stessero
perpetuamente alla presenza di Dio!... Ma possiamo fare così: rinnovare
l'intenzione di far tutto alla maggior gloria di Dio ogni volta che si cambia
92
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3.3.5 Le tappe della Lectio divina
3.3.5.1 Preparazione lontana: claustrum
Il nostro è un “Dio Geloso”, non ammette concorrenti, rivali. Non
possiamo porre Lui accanto alle mille altre cose. Così soprattutto se ci si
253
Possiamo quindi concludere che la Scrittura non è tanto un insieme
di libri di dottrina, ma di coinvolgimento, di dialogo; un insieme di libri che
racchiudono la verità e ci illuminano sul mistero di Dio e sul mistero
dell'uomo immerso nel mistero dell'amore, della tenerezza e della
misericordia del Signore.”
(Tratto da MARTINI C.M., Cinque vie di avvicinamento alla bibbia,
Lezione del Cardinale Arcivescovo agli studenti della Scuola Militare
Teulié - Milano, 14.11.2001)
3.3.4 La definizione di lectio divina
Lectio
Lettura
Lettura
Divina
Ciò che noi abbiamo visto, ciò che le nostre
mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita.
contemplativa:
lettura che prega lettura che è preghiera.
Una lettura nella fede, inspirito di preghiera,
credendo alla presenza attuale di Dio che mi
parla, con la presenza di tutto me stesso in
spirito di totale abbandono
occupazione. Sopra il quale argomento ragionò un poco e infine conchiuse:
Come vedete, non è poi tanto difficile farsi l'abito della continua unione con
Dio. (XIII, p. 117)
Dall’Epistolario di CATERINA DA SIENA
Lettera 102
A frate Raimondo da Capua dell’ordine de’ predicatori
Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi
nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi sposo vero della Verità e
seguitatore e amatore d’essa Verità. Ma non veggo il modo che potiamo
gustare e abitare con questa Verità se noi non conosciamo noi medesimi.
Perocché nel cognoscimento di noi, in verità cognosciamo, noi non essere, ma
troviamo l’essere nostro da Dio, vedendo che egli ci ha creati alla immagine e
similitudine sua.
La lettera della mistica Caterina ci mette tuttavia in guardia: nella
ricerca della nostra identità, se pensiamo di muoverci solo con le nostre
forze non approderemo a nulla.
LETTURA DELLA PAROLA che deve portarci alla preghiera ed
alla contemplazione, ponendole delle domande per la nostra vita di conversione.
Lettura della Scrittura che è il Signore Gesù, parole d’amore dello
Sposo (Cristo) alla sua Sposa (la Chiesa). Un rapporto amante di passione.
Un Signore che parla attraverso, dentro queste parole. Il che
implica una grande attenzione al testo ed una grande umiltà per non porci al
di sopra di esso ma con lo stesso atteggiamento dei Padri della Chiesa i quali
ritenevano che ogni minima espressione della sacra Scrittura possedesse un
mistero, un messaggio di Dio per l’uomo d’oggi.
Dire lettura qui implica ascolto in un contesto di silenzio, di
svuotamento.
Attribuire al testo un valore DIVINO chiede immediatamente un
atteggiamento di fede. Parola non di uomini ma Parola ispirata dallo Spirito,
Parola in cui lo Spirito è presente (cfr. due mense DV 21); Spirito che spira
dalle scritture, parla attraverso di esse ed è presente realmente in esse. Per
questo non può essere posto accanto, sullo stesso piano di altre letture, esige
centralità.
Lettura divina ECCLESIALE. Perché la Parola è data dalla
comunità. Per cui non ci può essere lettura divina senza essere in comunione.
252
93
Per il cammino di interiorizzazione
1. Alla luce delle esperienze fin qui fatte, cerca di delineare
quelle che sono le tue potenzialità fisiche, intellettuali, morali, quali
sono le tue competenze sociali e quali sono i limiti emersi dal confronto con
le persone che hai incontrato.
2. Sei consapevole del fatto che queste potenzialità, queste
competenze, gli stessi limiti sono innanzitutto un dono\grazia di Dio, segni
concreti e percepibili del Suo amore per te? Cosa fai per far maturare in te
questa consapevolezza ed evitare così le derive dell’autoreferenzialità, del
narcisismo, della paralisi egoistica?
3. Se queste potenzialità e questi limiti sono doni, che cosa ti dice
attraverso di essi il loro Donatore? (Cerca di definire bene l’appello che
attraverso le tue potenzialità naturali il Donatore ti lancia; il rischio è che,
nell’incoscienza vocazionale, esse degenerino!)
stesso che mi parla e mi interpella, e allora tante parole bibliche risuonano
per me. Penso per esempio alla parola del vangelo di Giovanni: "Non si
turbi il vostro cuore"; alla parola di Gesù a Pietro: "Non temere, sarai
pescatore di uomini"; a un'altra parola di Gesù a Pietro: "Getta al largo la tua
rete". Le sento dette a me da una Persona viva che mi parla e pensa a me, da
Gesù stesso, da Dio che mi interpella; la Bibbia allora mi colpisce nel
profondo e diventa un libro sul quale costruisco i miei atteggiamenti, un
libro che mi conferma nel cammino che sto facendo oppure mi fa
comprendere dove sto sbagliando.
Un brano della lettera agli Ebrei, nel Nuovo Testamento, descrive
la parola di Dio come "viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio
taglio", che "penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito e
scruta i sentimenti e i pensieri del cuore".
Quando una pagina della Scrittura, dei Salmi, del Vangelo è letta
così, è certamente occasione di profondo mutamento interiore, di
cambiamento di vita.
 Un ultimo sentiero -ma ce ne sarebbero altri- è quello del dialogo.
La Bibbia è sorgente di dialogo interiore; cristianamente, è sorgente
di preghiera. E' l'avvio di un dialogo perché, sentendomi interpellato, io
rispondo e la mia risposta è preghiera. Una preghiera che può essere
suscitata dalla Bibbia stessa, per esempio dai Salmi, da queste 150 poesie che
sgorgano dal profondo del cuore, nelle quali e con le quali io parlo a Dio
con parole che Dio mi mette sulla bocca. Oppure un dialogo libero,
spontaneo, che parte da una pagina del Vangelo.
La via del dialogo mi fa capire davvero che la Bibbia è parola di
Dio, è Dio che mi parla e io gli rispondo, entro in preghiera, mi apro a una
dimensione più alta di tutte le dimensioni visibili, partecipo a un mistero più
profondo dell'essere, e mi sento quindi chiamato, commosso, coinvolto
nell'intimo della coscienza.
Il sentiero della preghiera non nega, ma riassume, eleva e supera i
sentieri precedenti.
Ricordo che quando, come Vescovo, spiegavo ai giovani la Bibbia
nella Scuola della Parola che tenevo in Duomo -adesso la tengono i miei
preti in molte chiese della diocesi-, il momento più commovente non era
quello in cui pregavamo insieme o io spiegavo le pagine della Scrittura, ma il
momento in cui cominciava il silenzio, un silenzio impressionante,
prolungato, nel quale ciascuno si avviava al dialogo con Dio, veniva invitato
a parlare con Gesù che ci parla nei testi sacri. In quel momento, infatti, la
Bibbia acquista la sua valenza, e comprendiamo che, oltre a rivelarci noi
stessi, ci rivela il mistero di Dio, dell'esistenza umana, i mistero della
trascendenza e della morte.
94
251
perché, nel groviglio di tali emozioni e tensioni, sono coinvolti valori etici,
umani e anche forti disvalori. Di qui la domanda: chi sono io? come posso
orientarmi in questo guazzabuglio del cuore umano (come lo chiamava il
Manzoni), in questa complicazione di sentimenti, di ripugnanze, di
attrazioni, di speranze? E' la domanda che si pongono tanti giovani che mi
scrivono: chi sono io? con quali sentimenti devo identificarmi? che cosa
voglio veramente?
Leggendo la Bibbia, frequentandola un po' familiarmente e con
fiducia, ho avuto la grande sorpresa di trovarmi descritto. E' la scoperta che
tante pagine della Scrittura sono lo specchio di me, mi aiutano a chiarirmi, a
mettere in ordine sentimenti, pensieri, emozioni, a distinguere le emozioni
passeggere da quelle durature, le emozioni costruttive da quelle distruttive.
Perché la Bibbia è un capolavoro di umanità, descrive quasi in ogni
sua pagina situazioni umane cosi concrete, cosi vicine a noi, puntuali, da
meravigliarci ogni volta. Io mi vedo descritto, per esempio, nelle grandi
figure dell'Antico Testamento: Abramo, Giacobbe, Giuseppe l'ebreo,
Davide; vedo descritto il mio cuore, i miei ideali, le mie paure, debolezze,
speranze. Quindi la Bibbia diventa un cammino per la conoscenza di sé.
Vi sono poi pagine evangeliche in cui riceviamo davvero una luce
per capire chi siamo. Alcuni brani mi hanno aiutato a definirmi, a
collocarmi, a scoprire che cosa volevo. […]
Ci riconosciamo in altri e diciamo: sono io, si parla di me.
Questo è il sentiero dell'introspezione, del sentirmi interpretato
dalle pagine della Scrittura, un libro pieno di umanità, di esperienze, un libro
vero, concreto, non artefatto, nel quale imparo a leggermi.
Da un certo momento della mia vita è stato un sentiero
estremamente importante per prendere in mano la Scrittura. E ancora oggi,
quando spiego la Bibbia alla gente, in particolare ai ragazzi e ai giovani,
cerco di capire che cosa dice di me quel testo, che cosa mi fa comprendere
di quanto sto vivendo, come mi aiuta a distinguere fra vero e falso nella mia
vita, fra spontaneo e artefatto, fra autentico e artificioso.
 Emerge allora un’altra via che aggiunge qualcosa alla terza: non
solo mi sento interpretato dalla Scrittura, ma interpellato, chiamato.
A questo punto diventa chiaro nella coscienza di chi legge la
Bibbia, che essa non è semplicemente parola di uomini, racconto di
esperienze di umanità del passato ancora oggi valide, ma è parola di Dio.
Non soltanto la Bibbia parla di me (la via dell'introspezione), bensì
parla a me. Qualcuno mi parla attraverso le sue pagine.
Quando scocca questa scintilla, la Bibbia è vista come un libro
sempre più amico e familiare, mi parla confortandomi, incoraggiandomi,
rimproverandomi, chiamandomi, consolandomi interiormente. E' Dio
250
Appendice: la trappola… 23
Seguendo il cammino di Davide in 2Sam 11 il Card Martini
descrive alcune tappe della caduta nella trappola tesa contro di noi dopo
aver riconosciuto i tanti doni, dell’essere stato scelto e di aver gradualmente
iniziato a corrispondere e di essere uomo che si pone in relazione con Lui
nella preghiera.
È la trappola che può gradualmente vincolarci
* “Ormai ho già fatto molto…” volendo riposare sugli allori,
lasciandosi prendere dalla vanità, pensando di avere ormai delle maturità che
lo salvano… certo di essere in grado di dominare sentimenti e realtà. “tanto
per me non è neiente” e comincia il disordine dei sentimenti che lo divora,
lo rode e lo fa giungere la secondo gradino della discesa
* Egli sa che non dovrebbe fare ciò che desidera ma pensa che
nessuno se ne accorgerà e che tutto si concluderà lì.
* il terzo gradino è sentirsi furbi e malgrado tutto ce la farò e a
cavarmela anche questa volta. . cedere a poco a poco iniziando dalla
curiosità e così è arrivato al limite. Quante volte abbiamo detto “No! Io non
mi comporterò mai così” nasce poi la disperazione, il tarlo della rabbia
primariamente contro se stessi e poi la ricerca di una uscita dall’imbroglio
iniziale.
* si entra poi in uno stato di finzione così vergognoso che neppure
ce se ne accorge più.
“Davide è l'immagine dell'uomo che, pur avendo le migliori intenzioni, le pin
nobili premesse, la più accurata educazione, è e rimane fragile e debole. Se avesse detto
subito: «Ho sbagliato, sono stato imprudente, devo tirarmi indietro», sarebbe riuscito a
spezzare questa spirale di morte. Ma di volta in volta riteneva di farcela, di saper mettere
le cose a posto con la furbizia e cosi è arrivato al colmo della degradazione.
Capire chi è l'uomo, chi sono io significa capire l'invocazione: “Signore, se non
mi tieni la mano sul capo, io sono povero, fragile, debole, peccatore”. Quando comincio a
non essere convinto di questa verità, a presumere di me, a non riconoscere le colpe leggere, a
giocare con i miei sentimenti, rischio di essere intrappolato e di cadere da un'insidia in
un'altra, trovandomi alla fine dove non avrei voluto. Leggendo alcuni versetti del vangelo
di Marco, possiamo pregare: «Signore, tu hai parlato del cuore dell'uomo e hai detto:
“Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive:
23
95
MARTINI C.M., Tu mi scruti…, oc, pp. 65-69.
fornicazione, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia,
calunnia, stoltezza, superbia. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e
contaminano l'uomo” (cf. Mc 7,21-23). Signore, fammi capire che anche nel mio cuore ci
sono le radici di queste cose. Se veramente voglio conoscere chi sono io, devo comprendere la
grandezza e la forza della mia chiamata e insieme quel pozzo di oscurità e di fragilità che
è dentro di me. Fino a quando non lo riconosco, non ho una personalità veramente libera.
Mi illudo su di me e non acquisto la serietà e verità dell'agire di chi si riconosce debole e si
rivolge continuamente a Te come Salvatore». Davide in trappola è l'immagine di tanti
uomini d'oggi, e di ciascuno di noi, tutte le volte che, dimenticando questa verità su noi
stessi, ci mettiamo in uno stato di incoscienza o di euforia, trascurando di rivolgerci a
Gesù come Salvatore. «Ho peccato contro di te» (2 Sam 12). […] A questo punto del
racconto profeta che con una parabola gli mostra la sua situazione in forma indiretta, l'ira
di Davide si scatena […] Davide, pur esagerando, mostra di avere un profondo senso di
giustizia. Benchè abbia vissuto un'esperienza fortemente negativa, conserva ancora il senso
della verità. Tuttavia non è capace di applicarlo alla sua situazione: critica gli altri, li
accusa, li giudica e però la trappola in cui e caduto gli impedisce di vedere il proprio
peccato. […]
Che cosa vuole da noi il nostro nemico?
Vuole con- fonderci. Anche senza giungere a degli eccessi (Davide rappresenta
un caso patologico), ogni volta che cediamo a qualche tentazione, il nemico fa in modo che
a questa ne aggiunga un'altra. La confusione allora si accresce: stanchi di noi, sfiduciati,
spauriti, diciamo a noi stessi che non siamo capaci di farcela, che non ci riusciremo mai.
Una negligenza, un'arrabbiatura, un insuccesso, un peccato anche, diventano il punto di
partenza per la trappola che il nemico ci prepara. La verità del nostro essere, invece, si
riattiva tutte le volte che diciamo: «Ho peccato, ho sbagliato», tutte le volte che
riconosciamo di essere stati vittima di qualche pigrizia, di un momento di fragilità. «0
Signore, insegnaci a lottare giorno per giorno, a combattere per la nostra verità e la nostra
autenticità.
Insegnaci, attraverso il dono meraviglioso del Sacramento della Penitenza, a
dire la verità su noi stessi e a trovare la gioia di questa verità». Il Sacramento della
Penitenza è uno dei mezzi fondamentali per ricostruire la verità della persona allora
quando noi giungiamo a dirci, a esprimerci, a ritrovare l'equilibrio, a invocare su di noi la
forza del perdono del Signore. «Fa', o Signore, che non trascuriamo dono della Penitenza
che Tu hai messo nelle nostre mani. E fa' che sappiamo cogliere anche quelle realtà
piccole, apparentemente di poco valore, le quali però sono inizio di turbamento e di
insicurezza della nostra vita». Ciò che in noi produce turbamento, stanchezza, noia,
malinconia, ha delle radici che vanno chiarite e messe alla luce: il Signore è luce, il Signore
è gioia, il Signore vuole la verità e la gioia di noi stessi.” 24
96
24Idem
pp. 69-71.
mastica e frantuma, la preghiera la assapora, la
contemplazione è la stessa dolcezza che dà gioia
e ri-crea. La lettura si ferma alla scorza, la
meditazione le penetra il midollo, la preghiera
formula il desiderio, la contemplazione si diletta
nel godimento della dolcezza raggiunta. (GUIDI
II)
Anche se inizialmente la Parola era per tutti via via si
ridusse a pochi per ignoranza della lettera ed ignoranza della cultura religiosa
ma la sete non si estinse e il nutrimento venne per mezzo della “bibbia dei
poveri”: i dipinti delle chiese. Sino a quando lo scossone protestante non
provocò la grande crisi.
 La lampada accesa dei fratelli protestanti: sola scrittura : esagerazione
pro-vocante
 La grazia del Vaticano II: il ritorno alla Parola: le due mense
La chiesa ha sempre venerato le divine scritture
come ha fatto per il corpo stesso del Signore,
non mancando mai, soprattutto nella sacra
liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia
della Parola di Dio che del corpo di Cristo, e di
porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra
tradizione, la chiesa le ha sempre considerate e
le considera come la regola suprema della
propria fede; esse infatti, ispirate da Dio e
redatte una volta per sempre, comunicano
immutabilmente la Parola di Dio stesso e fanno
risuonare, nelle parole dei profeti e degli
apostoli, la voce dello Spirito santo. (DV 21)
3.3.3 Le Vie…
Vi sono varie vie di avvicinamento alla Bibbia, non alternative, ma
complementari, che ci possono aiutare ad incontrare il Signore che
parla.
 La via della “conoscenza di sé, o, in linguaggio moderno, la via
dell'introspezione. E' una scoperta molto importante quando si
riesce a farla. Come descriverla?
Noi tutti, specialmente da giovani, viviamo emozioni profonde,
tensioni interiori, esperienze emotive intense e pure mutevoli che si
succedono l'una all'altra, situazioni di entusiasmo e di depressione, di
sconfitta e di vittoria, di idealità e di tentazione. Facciamo fatica a capirci
249
È Gesù
Parola che chiede obbedienza
Parola che condanna
Parola che chiede di abitare in noi
(Gv 1,13; Mt 17,5; 3,17ss)
(Dt 6,4-9; Gv 14,23)
(Gv 12,48-50)
(Gv 1,13; Col 3,16-17)
(Sal 118; Eb 1,1; Gen 12,1; Es 34,1-2; Dt 5,1-5; Am 8,11-12;
1Sam 3,1.3-4.10.19-21; Ger 15,16; Ez 2,1; 3,1-3.10-11; Ne 8,13.8.9b)
 Chi l’ha ascoltato da vicino: i Padri
- L’amore alla Parola
“Ignoranza delle Scritture è Ignoranza di
Cristo“ (S. Girolamo)
“la lectio divina è una base assolutamente
indispensabile per ogni vita ascetica seria e per ogni
progresso nel discernimento spirituale…Ecco come devi
intendere le Scritture: come il corpo unico e perfetto del
Verbo…noi beviamo il sangue di Cristo non solo quando
lo riceviamo secondo il rito dei sacri misteri, ma anche
quando riceviamo le sue parole ove risiede la vita, come
egli dice di se stesso: «Le Parole che ho detto sono Spirito
e vita» (Origene)
“Ecco ciò che guasta tutto: voi credete che la
Lectio Divina sia un compito riservato unicamente ai
monaci, mentre, invece, voi ne avete bisogno molto più di
loro” (S. Giovanni Crisostomo)
7. La storia personale: casa del
“Mistero”
La Parola
 Il Medioevo: fra nutrimento e digiuno
Il medioevo vide la fioritura della Lectio divina in ambito
monastico particolarmente grazie a Guigo II,
Voi che percorrete i giardini delle scritture non
dovete attraversarli in fretta e nemmeno con
negligenza; scavate ogni Parola per estrarne lo
spirito; imitate l’ape diligente che estrae da ogni
fiore il suo miele. Poiché il mio Spirito, dice
Gesù, è più dolce del miele e la mia eredità più
soave del favo. Provando in tal modo il sapore di
questa manna nascosta, vi compiacerete ripetere
con Davide: «Quanto sono dolci alle mie labbra
le tue Parole» (GUERRINO D’IGNY)
La lettura cerca la dolcezza della vita beata, la
meditazione la trova, la preghiera la chiede, la
contemplazione la gusta. La lettura porta, in qual
modo, cibo solido alla bocca, la meditazione la
248
«Chi sono io? Chi sei Tu?».
Io sono anzitutto parte di un gruppo familiare e sociale ben individuato.
Ciascuno di noi e qui perché figlio dei suoi genitori, parte di una società, di un gruppo
religioso, culturale e umano. Come tale e oggetto dell’amore di Dio che lo chiama nella sua
storia. «Tu Signore sei colui che mi ha amato, mi ha cercato in questa famiglia, in
relazione con questi genitori, fratelli, sorelle, parenti, amici: persone che condividono
l'immediata esperienza della mia esistenza. Tu mi hai voluto e mi ami nelle mie relazioni
di scuola, di cultura, di società». Nell'insieme di queste relazioni c'e tuttavia una parola
personale e irripetibile: «A te, dico!». E a nessun altro.. Per capire chi siamo noi ci viene
chiesto di renderci conto della singolarità della nostra storia.
La nostra vicenda personale e cosi unica che Dio l'ha voluta per se stessa e non
l'ha messa in dipendenza da nessun'altra. Questa e la dignità assoluta della mia persona:
it fatto che Dio mi vuole per me stesso. Ha dunque a cuore la singolarità della mia vita e
del mio cammino, anche se a me appare poco interessante, povero, modesto. Dio ha in
mente e ha in mano la mia storia come storia singolarissima, che non vuole cambiare con
nessun'altra. Non vuole barattarci con nessuno perché il nostro valore e definitivo e
irrevocabile.
Dio si e compromesso per la mia storia personale.
A questa verità forse noi pensiamo poco, non diamo importanza a noi stessi, mentre sta
proprio qui la fonte della nostra dignità personale. La radice, l'origine del nostro essere con
gli altri, del fare comunità, dell'avere creatività, sta in questa parola: «A te dico! ».
E importante riuscire a cogliere nella preghiera, magari per un solo istante, la bellezza di:
«A te dico!».
«Signore, davvero a me?». «Si, proprio a te!». «Davvero, Signore, tu che sei
cosi grande, infinito, tu che hai creato l'universo, che vivi da sempre e per sempre, mi dici
questa parola?». «Si, a te e per te! ». Non dovremmo mai finire di stupirci di questa
verità. […]
«O Padre, questa parola the tu hai detto su di me quando mi hai dato la vita e mi hai
creato l'anima, tu l'hai ripetuta con amore, al momento del mio Battesimo». E questa,
infatti, per ciascuno di noi la parola battesimale: “Risorgi, vivi la vita di Cristo, vivi una
vita nuova, esprimi la potenzialità della tua vita».
Chi sono io? Sono colui che e chiamato cosi da Dio. […]
Noi siamo l'epifania di Dio.
Occorre imparare quindi a guardare a noi e a tutte le altre persone come al
mistero di Dio che si manifesta; arrivare a quella visione di fede che ci permette di scoprire
la rivelazione di Dio nella storia. Allora i nostri problemi, le difficoltà, le antipatie, la
97
fatica nello studio, le stanchezze, le noie, il tempo brutto, i momenti grigi della giornata, la
malattia, tutto, insomma, ci rivelerà la presenza di Dio nella nostra vita.
Ecco che cosa significa sapere chi sono io.
Io sono un miracolo di Dio, in cui egli si rivela nella storia.
E chi sei tu, Signore?
Tu sei colui che dici: «A te. Parlo a te! Vivi la pienezza della tua vita e non avere paura,
non avere timore. Non importa che tu creda di avere poche doti, di non sapere fare questo
o quest'altro perché io sono con te e questa è la tua vita ».25
Il filo rosso della salvezza: riconoscere la mediazione del Signore
negli altri facendo particolare attenzione a:
Chi ho ammirato di più?
In che ambito si ritrovano?
Che caratteri li accomunano?
Riascoltiamo ancora un’altra parola del santo Padre ai giovani: «Vi
esorto ad acquistare dimestichezza con la Bibbia, a tenerla a portata di
mano, perché sia per voi come una bussola che indica la strada da seguire.
Leggendola, imparerete a conoscere Cristo. Una via ben collaudata per
approfondire e gustare la parola di Dio è la lectio divina, che costituisce un
vero e proprio itinerario spirituale a tappe». […]
Nell’ascolto della Parola maturate il discernimento sul vostro domani. Nel
Percorso pastorale per il prossimo triennio ho scritto: «Ci pare che il termine
biblico e teologico che coglie gli aspetti più originali e pregnanti dell’ascolto
sia quello del discernimento: l’ascolto, cioè, raggiunge la sua verità piena
quando si configura come esercizio di discernimento. Il discernimento
comporta un duplice e inscindibile elemento: il giudizio e la scelta» (n. 24).
Nell’ascolto meditato e pregato della parola di Dio potete trovare i
criteri per leggere ed interpretare quanto succede nel mondo e nella vostra
vita. Spesso, infatti, ci si sente frastornati di fronte alle informazioni e ai fatti
che succedono attorno a noi. A volte siamo disorientati, incapaci di mettere
ordine e valutare secondo verità, e così finiamo per cadere nell’indifferenza
o per rassegnarci al pessimismo. Altre volte facciamo nostri quei criteri, che
riflettono i luoghi comuni o la voce di chi ha più potere mediatico. Ma –
diciamolo francamente - il profilo rimane basso e, a lungo andare, deludente.
Nella parola di Dio, invece, si trovano i criteri che ci aiutano a fare chiarezza
e che durano nel tempo, non passano con le mode e resistono ai
cambiamenti culturali o ideologici. Quelle del Signore sono «parole di vita
eterna», come ha proclamato un giorno – anche a nome nostro – l’apostolo
Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo
creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Giovanni 6,68-69).
Dal giudizio matura poi la scelta. «Si tratta, in forza di un giudizio
credente e con l’energia della «legge dello Spirito che dà la vita in Cristo
Gesù» (Romani 8,2) di scegliere e di decidersi a utilizzare responsabilmente la
propria libertà, a renderla cioè operativa mediante precisi atteggiamenti,
comportamenti, opere e gesti. Ed è quanto avviene là dove c’è coerenza,
corrispondenza armoniosa, quasi un’inscindibile alleanza tra il giudizio e la
scelta, tra il “pensiero” di Cristo e l’“agire” di Cristo, che il discepolo è
chiamato a imitare e rivivere nella sua esistenza con la luce e la forza dello
Spirito» (Percorso pastorale, n. 24).
3.3.2 La Parola
98
25 idem,
pp. 25-27.
Alla sorgente: “in principio era la Parola”
Parola che è, che era e che sarà:
Parola che crea: “e Dio disse…e…fu”
Parola viva efficace
247
(Gv 1,1; Eb 1,3; Ap)
(Gn1)
(Is 55,10-11; Eb 1,3)
dedicata a dare corpo a quel disegno che Dio le indicava. È diventata
protagonista nel fare proprie quelle parole e nell’attuarle dentro la sua libertà
e la sua storia.
Chiedo ora a ciascuno di voi, in particolare in questo anno, di creare le
condizioni e di coltivare gli atteggiamenti che consentano un vero e proprio esercizio di
ascolto. Da dove partire? Dalle vostre famiglie! Proprio lì, infatti, è più difficile
custodire il tempo per il dialogo. Il tempo per il dialogo nella vostra casa va
trovato! Sarà un ascolto benedetto quello che vi permetterà di
ricomprendere la vostra storia. Vi aiuterà a fare chiarezza sui vostri progetti
di vita e, se ci fossero delle incomprensioni o delle difficoltà, solo a partire
dall’ascolto vi sarà possibile fare qualche passo verso la riconciliazione:
sappiamo bene che non c’è altra via che ci renda veramente liberi e ci doni
la pace. Dimostrate dunque la disponibilità e coltivate l’atteggiamento
dell’ascolto in ogni vostra relazione con gli altri.
C’è un’annotazione dei tempi passati che ci può far bene. E’
questa: gli antichi saggi di Israele facevano notare che l’uomo ha due
orecchie e una bocca: il tempo dedicato all’ascolto dovrà essere almeno
doppio di quello dedicato alla parola.
6. Nel racconto di Luca, Maria passa dalle domande sul senso e
sulla possibilità di quella Parola alla disponibilità a viverla, e così quella Parola si
fa carne nel suo grembo, è cresce di giorno in giorno - il tempo dell’attesa – fino
a venire alla luce nella grotta di Betlemme.
Anche voi, dunque, sentitevi chiamati ad essere testimoni di questa parola
ascoltata e a portarla nel mondo nel quale ogni giorno camminate. Perché non
rinnovare in voi questo desiderio e questo impegno? All’inizio del nuovo
anno pastorale forse qualcuno di voi si starà chiedendo se riprendere o
meno il proprio impegno dentro la comunità cristiana, come animatore, o
educatore o catechista o in altre forme. So che a volte, per tante ragioni, può
prevalere la voglia di lasciar perdere. Vorrei ricordarvi che il vostro impegno
nella comunità cristiana non è un gesto di volontariato o di filantropia. È un
servizio a Cristo stesso e al suo corpo che è la Chiesa; è una testimonianza
straordinaria e insostituibile di Gesù, della sua cura da buon pastore per ogni
uomo; è annuncio vivente del Vangelo e espressione limpidissima della
carità di Cristo verso la povertà estrema e disarmante dell’uomo: la povertà
della fede, la mancanza o il rifiuto dell’amore di Dio! Il vostro servizio è
necessario, ed è prezioso.
Vi auguro che, come Maria, siate docili all’invito del Signore per il bene della
sua Chiesa e del vostro stesso bene. Ma la docilità vi sarà possibile ad una precisa
condizione: che la parola di Dio ascoltata e meditata diventi vita della vostra
vita!
Fate della parola di Dio ascoltata la vita della vostra vita
246
7.1. Storia, memoria e rilettura: traccia26
Dio si è rivelato ed ha orientato il cammino del Suo popolo sempre
dentro la storia, diventando così storia di salvezza. È in questo vissuto che
Egli chiama. È necessario allora conoscere e coscientizzare sempre più
questo vissuto fatto di persone di relazioni, di eventi, di risorse e di fatiche.
È uno sguardo sul passato che non si fossilizza su questo in forma da
trovare i “colpevoli” o i “capri espiatori” da allontanare nel deserto su cui
esorcizzare gli attuali peccati ma per fare del passato il luogo di una riconoscenza dell’opera di Dio che anche nelle vicende dolorose si rivela con
la forza della sua Pasqua. Questo passato può essere una delle chiavi
interpretative dei desideri e delle ansie delle soddisfazioni o delle ricerche
attuali, sfide reali dell’oggi che spesso determinano anche problemi o sfide
del presente e del futuro.
È necessario allora scoprire dentro questa storia le sue tracce al di
là della presunzione possibile di sapere già tutto anche della Sua presenza
che tocca ogni cosa.
Metodologicamente lo scriverla costringe ad essere chiari e
concreti, cogliendo le connessioni fra gli avvenimenti, fissando conclusioni e
interrogazioni facendo uno scavo profondo in una memoria che passa
dall’essere memoria affettiva per giungere a quella biblica. 27
Ogni avvenimento se viene letto alla luce del “suo agire sempre”, 28
alla nostra memoria non può essere accantonato, dimenticato o definito
insignificante. Non avvengono in altri termini coscienti coscienti rimozioni.
Se qualcosa non viene compreso diventa l’ulteriore occasione per maturare
che l’esistenza è mistero posto tutto nelle sue mani che ci supera. È il
principio della totalità,29 dove tutto è de Lui abitato e che proprio in
questa storia Lui mostra il Suo volto ed il nostro destino. Allora parlare
della propria storia è parlare di Diocostantando il bene o l’amore ricevuto, la
custodi a percepita che fa nascere la contemplazione meravigliata e
riconoscente.
26 Cfr. CENCINI A., La storia personale casa del Mistero. Indicazioni per il
discernimento Vocazionale = Animatori di pastorale giovanile e vocazionale, 9, EP,
Milano.
CENCINI A., I sentimenti del Figlio…, oc, pp. 89-94.
CENCINI A., Dio della mia vita. Discernere l’azione divina nella storia personale =
I quaderni di Padre Cencini, EP, Milano 2007.
27 Cfr. I quaderni del grigio – la scelta, pp.16-21.
28 Gesù disse loro: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero». Gv 5,17
29 Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano
Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Rm 8,28
99
Questo principio di totalità fa si che il positivo debba essere tutto
scoperto, riconosciuto nella sua profondità riconoscente, ed un negativo da
vedere, chiamare per nome integrare. Per questo è importante operare:
 un riconoscimento accettazione attraverso l’esercizio
dell’esame di coscienza
 il perdono riconciliazione mettendosi dentro la
prospettiva della propria debolezza come luogo
dell’essere costitutivamente perdonati
 trasformazione trasfigurante che parte dalla coscienza di
essere costantemente chiamato non nonostante i nostri
peccati ma dentro il peccato. Questo dentro una lotta con
e contro se stesso.
Il principio di totalità trova nella lettura Cristologia della vita il
significato pieno dentro quattro passaggi:
 ripercorrere con i propri affetti i misteri oggettivi della
vita di Gesù è la conoscenza contemplativa della vita di
Cristo
 ripercorrere con il Figlio dell’uomo la storia soggettiva dei
propri affetti con un confronto fra i miei affetti
sentimenti, relazioni, impulsi, motivazioni ecc.. e quelli di
Gesù.
 Ripercorrere alla luce dei misteri di Cristo la propria storia
facendoci scoprire quali fasi della vita devono essere
rinnovate in Lui per cui anche gli eventi più duri alla Sua
luce acquistano senso (storia di Giuseppe)
 Rivivere gli affetti come mediazione della Sua grazia
percependo quanto vivo come occasione preziosa
d’identificazione a Cristo. Lui è percepito in ogni
frammento.
Dentro questa storia, fra le righe, sono a volte nascoste le domande
inespresse, i sogni mal interpretati o delusi o inibiti, una sufficienza ostentata
e solo apparente ma soprattutto la voglia profonda e incancellabile di
autenticià.
In queste pieghe abita la domanda di Gesù che ha bisogno di acqua
come al pozzo di Sichem. Questo può sembrare strano scuotendo il cuore
presentandosi come qualcosa di impensato ma che suscita attrazione
misteriosa. A volte l’accostamento con questa “storia” pone una sana
inquietudine che apre ulteriori domande, che deve portare ad una apertura
oltre le individuali economie e le paure quotidiane perché supera perché è
“lui che chima”. È il Mistero che invade.
100
mondo - anche senza saperlo - attende da voi! E se Gesù vi chiama, non
abbiate paura di rispondergli con generosità, specialmente quando vi
propone di seguirlo nella vita consacrata o nella vita sacerdotale. Non
abbiate paura; fidatevi di Lui e non resterete delusi».
4. Ma questa sera, immagino, che voi facciate vostra la stessa
domanda che Maria ha rivolto all’angelo: «Come è possibile?».
Certo, voi mi direte: come è possibile mettere in pratica la parola
del Signore che ascoltiamo quando questa parola, come nella vita di Maria,
cambia in modo radicale la nostra esistenza?
Come è possibile, oggi, assumere la logica e i criteri del Vangelo
quando la società sembra muoversi – anzi di fatto si muove - in direzioni
esattamente opposte? Lo abbiamo sentito anche nei dialoghi della veglia di
questa sera.
Come è possibile attuare il disegno di Dio dentro le logiche
complesse delle prospettive di lavoro che un giovane vede davanti a sé,
dentro le dinamiche affettive spesso ingarbugliate, dentro una situazione
socio-politica globale sempre più incerta e piena di paure?
Questa domanda – come è possibile? – può nascere anche da una
realistica ma timorosa presa di coscienza dei propri limiti: un giovane
potrebbe pensare che la parola del Signore sia troppo alta ed esigente per le
sue capacità, perché non si ritiene all’altezza e non si sente adeguato.
5. Per la verità, anche Maria ha sentito la sproporzione tra il progetto di
Dio e la sua piccolezza, ma ha saputo mettersi in gioco e fidarsi. Lei ha accolto quella
Parola, custodendola pazientemente e facendola crescere.
Allo stesso modo il cristiano che si mette in ascolto del Signore
non deve lasciarsi travolgere dai ritmi frettolosi - come se le cose di Dio
fossero soggette alla logica della produttività e del successo - ma deve
coltivare la pazienza di lasciar maturare nel tempo quella Parola. Mi pare che
alla radice delle ansie di non pochi giovani ci sia l’eccessiva premura di
risolvere subito i problemi; la pretesa di ottenere risposte immediate e,
possibilmente, facili; di arrivare presto anche nella vita di fede a risultati
gratificanti e umanamente misurabili.
L’ascolto, invece, chiede tempo e silenzio, chiede fatica e docilità.
Anche nei rapporti interpersonali, dentro la famiglia, nelle dinamiche di
coppia, nelle amicizie e nei gruppi, l’ascolto reciproco è la condizione del
dialogo e della buona qualità della convivenza e della collaborazione. Se
prevale invece la voglia di essere protagonisti e di apparire, se l’imposizione
del proprio parere detta lo stile della comunicazione, come è possibile
giungere a un’autentica disponibilità all’ascolto? Maria ha saputo farsi
interpellare dal messaggio dell’angelo, ha fatto piazza pulita dei suoi progetti
di un tempo, senza voltarsi indietro, e si è decisamente e unicamente
245
Eppure Dio sceglie per parlare un contesto difficile e inospitale,
non famoso né importante, bensì limitato da molti pregiudizi e intolleranze.
Possiamo, allora, cercare di immaginarci la giovinezza di Maria, il tempo del
suo progetto di vita, la primavera dei suoi sogni e dei suoi ideali, e pensare
alle attese e alle paure che solcavano il suo cuore, alla trepidazione con cui si
protendeva al futuro, alla realizzazione delle meraviglie promesse e al calcolo
delle possibili incognite, delle risorse disponibili e dei passi necessari per
raggiungerle.
2. Dentro questa casa, nel cuore di Maria, irrompe la parola del
Signore. Innanzitutto, l’angelo Gabriele le rivela: “Tu sei piena di grazia, il
Signore è con te!”. E’ davvero significativo che prima di ogni consiglio o di
ogni proposta, prima di manifestare lo scopo della sua missione, l’angelo
annunci a Maria questa verità inattesa, sconvolgente e consolante ad un
tempo. La parola del Signore rivela a questa donna la sua dignità
straordinaria, le dice che è destinataria nientemeno che della cura amorosa e
del progetto inimmaginabile di Dio, le parla del suo futuro, anzi del futuro
dell’umanità.
Anche a voi, cari giovani, la parola di Dio dice che non siete soli e
che potete sempre contare sulla vicinanza del Signore. In ogni momento, ma
in modo particolare in quelli decisivi o difficili, in quelli di una scelta o di
una crisi, provate a ripetervi questa parola semplicissima e formidabile, vera
e autentica: “Il Signore è con me!”.
È solo un primo passo, magari piccolo, ma è importante per non
scoraggiarsi, per dire che vale la pena di fermarsi, di fermarsi per ascoltare
quanto il Signore ha da dire, per comprendere che – se si vuole - si può
trovare la forza di prendere una decisione o di assumersi un impegno. Dio
parla in ogni contesto di vita, senza privilegiare quelli più favorevoli. Anche
oggi, dentro la complessità della nostra cultura e dentro le sfide di questo
nostro tempo, Dio parla all’uomo.
3. Luca ci riferisce della reazione di Maria al saluto dell’angelo: «A
queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto» .
E dunque, anche voi, come lei, chiedetevi che senso ha per la vostra
esistenza la parola del Signore. Domandatevi che posto essa occupa
nell’economia delle vostre giornate e delle vostre settimane, fermatevi a
pensare che cosa essa dice circa la vostra identità e il vostro destino. Sono
sicuro: ne resterete stupiti e affascinati.
Il Santo Padre Benedetto XVI, nel messaggio per la XXI Giornata
Mondiale della Gioventù di quest’anno, scriveva: «E’ urgente che sorga una
nuova generazione di apostoli radicati nella parola di Cristo, capaci di
rispondere alle sfide del nostro tempo e pronti a diffondere dappertutto il
Vangelo. Questo vi chiede il Signore, a questo vi invita la Chiesa, questo il
244
Non si deve però né banalizzare né difendersi per in-fedeltà verso
se stsessi ed il mistero dell’azione di Dio nella propria vita ma prendere \si
sul serio.
Tale memoria è il fondamento di un progetto di vita costruito sulla
certezza che Dio non viene mai meno. È memoria proiettata verso il futuro.
Questa memoria della fedeltà di Dio è forza per la fedeltà dell’uomo che
anche nella sua fragilità trova solo lì la sua origine, la sua forza, l’entusiasmo
per camminare.
Scrivere la propria storia è attenzione a eventi, emozioni,
aspettative che poi potranno essere decifrate in chiave di decisionale. Fra
storia e decisione vi è una connessione che non può mai essere scissa.
Legame inconscio o riflesso che chiede di essere in qualche modo
valorizzato e orientato perché non diventi un boomerang che si ritorce
contro. Questa storia non è un deterministico destino che ha un seguito
fatale senza alternativa, ma anche se non vi è stata responsabilità sul passato
ma è appello per una libera e responsabile risposta: libertà che dà significato
agli eventi, responsabilità che non subisce ma orienta gradualmente
introducendo novità che rinnovano. L’amore trasforma a partire da se stessi
perché il senso delle cose non sta nella superficie ma nell’amore fatto di
perdono invocato e ricevuto, di aperture progressive, di riletture sbloccanti,
di autoconsapevolezze diverse, senza autocomissiserazione, né determinismi
che uccidono.
Dentro questo percorso non si deve assolutamente escludere la
logica del percorso vitale come via crucis segno di una libertà di essere e
amare che porta nella logica divina.
La vita diventa così dall’accadimento (qualcosa che viene subito)
all’avvenimento (che dice coinvolgimento con qualcuno che av-viene) sino a
divenire evento (dimensione salvifica che ha in Cristo il suo vertice).
Toccare là dove esiste una certa tensione emotiva, la dove qualcosa
è stato irrisolto, la dove ci si sente in discussione, dove la vergogna può non
voler affrontare, o dove il coraggio di riconoscere la verità o dove c’è stata o
c’è estrema debolezza lì il Signore vuole prendere dimora per nostra
adesione libera. 30
Qui si gioca la verità interiore. Qui nasce la vera adesione a Cristo e
il vero annuncio, come per la donna samaritana. Che lascia definitivamente
la brocca e ormai libera dal e nel suo passato può affrontare la vita e le
relazioni.
30 Dare
un nome alle proprie ferite. Le sconfitte accumulate sinora vanno fatte emergere
in superficie: emarginazione da parte dei coetanei, legami parentali infelici, insuccessi
scolastici o sportivi, ferite nel campo affettivo (autoerotismo esasperato interpretato
come valvola di decompressione...)
101
31
7.2. L’autobiografia
L’autobiografia è come una fotografia che rivela molto di una persona,
ma non tutto. Essa è utile sia per la riflessione su di sé, sia per la
manifestazione alla guida. L’autobiografia è un aiuto per avviare l’esperienza
della direzione spirituale. Don Bosco considerava di estrema importanza il
rapporto con la guida spirituale fin dai primi passi, come ha fatto egli stesso
con don Calosso: “Mi sono messo nelle sue mani. Gli ho fatto conoscere tutto me
stesso: ogni parola, ogni pensiero, ogni azione. In tal modo, con fondamento mi ha potuto
guidare”.
L’importanza dell’autobiografia deriva dal fatto che mediante il
racconto si giunge più facilmente alla comprensione di sé, degli altri, del
mondo, di Dio. In ambito cristiano pensiamo alle narrazioni della Sacra
Scrittura, delle “confessioni” dei mistici, delle agiografie. Nella vita religiosa
pensiamo allo spirito dell’Istituto che viene trasmesso attraverso la narrativa,
specie quella del fondatore; oggi “si forma narrando”.
Nel racconto cerchiamo il senso del tempo che abbiamo vissuto e il
senso del nostro futuro. Anche quando può sembrare che la nostra
narrazione riguarda gli altri, in verità essa parla di noi stessi. Il racconto è
sempre manifestazione e rivelazione della persona.
7.2.1 Conoscenza della persona
In essa si cerca di comprendere la persona: qual è il senso della sua vita?
come è giunto alle soglie della nostra casa? qual è la percezione della sua
identità?
L’autobiografia ci fa percepire le diverse scelte della persona, la sua
crescita, le difficoltà, le sue reazioni, la sua identità. Tutto ciò viene
compreso dal punto di vista “interno”, dal di dentro. Può darsi che non si
giunga a dire tutto; ma ciò che è emerso è unico e prezioso. Interessante è
comprendere soprattutto la dimensione vocazionale, il suo sorgere, i primi
passi, le sue motivazioni.
Il parlare di sé è necessario. Non si può infatti conoscersi senza farsi
conoscere; non si può accogliere il dono della vocazione senza disponibilità
a farsi accompagnare.
31 CEREDA F., L’autobiografia, come mezzo di formazione e discernimento durante
il PreN , Roma, 1 maggio 2004.
102
vi parlano non per il loro interesse, ma perché vi ritengono davvero
importanti e preziosi e hanno autentica cura di voi.
3.3.1.4 Tu hai parole di vita eterna!
Questa sera voglio assicurarvi, ancora una volta ma con una forza
nuova, che chi certamente non vi deluderà con la sua parola è il Signore.
Nella parola della sacra Scrittura voi potete immergervi nella storia
d’amore di Dio con il suo popolo, con ogni uomo. Dio non solo risponde
alle domande dell’uomo, ma condivide in piena solidarietà le sue vicende. La
parola di Dio è luce e vita, è energia creatrice, ossia opera ciò che dice, è
fonte di libertà e di gioia. Non è una parola lontana da noi, ma prende carne
e sangue dentro la storia dell’uomo e gli rivela la dignità vera e il destino di
una felicità piena e intramontabile.
«Il Dio della Bibbia è un Dio che parla. Ma un Dio che parla
richiede ascolto. In questo sta la differenza tra la preghiera pagana e quella
biblica: non un parlare a Dio, ma un ascoltare Dio. Il punto di partenza è
l’ascolto, il punto di arrivo è la carità» (Percorso pastorale, n. 18).
Ora un esempio affascinante e straordinario di questo ascolto di
Dio che trasforma la vita è quello che abbiamo letto nella pagina
dell’annunciazione raccontata dall’evangelista Luca (1,26-38).
Per un giovane che vuole fare dell’ascolto del Signore il principio
dinamico del proprio progetto di vita la figura di Maria è di una attualità
davvero sorprendente.
3.3.1.5 Maria, la donna dell’ascolto, nostro modello di vita
1. Nel brano evangelico a sorprenderci è innanzitutto il fatto che
l’angelo del Signore entri nella casa di Maria a Nazaret, in Galilea. Non si
tratta qui di una semplice coordinata geografica. È molto di più. Dio si fa
presente con la sua parola nel luogo della ferialità e dell’intimità, dentro il
lavoro e le relazioni quotidiane, là dove una persona cresce e progetta il
proprio domani. Altre volte il Signore aveva parlato sul monte Sinai o nel
tempio di Gerusalemme: questa volta, invece, sceglie la semplicità e la
discrezione di una casa per rivolgersi al cuore di una giovane. Altre volte il
Signore aveva parlato a sacerdoti, a re e a profeti: questa volta sceglie una
giovane donna. E questo avviene a Nazaret, nella “Galilea delle genti”, un
luogo isolato sulle colline, in una terra spesso considerata pagana.
Certamente questa pagina di Luca deve aver stupito più di un buon
ebreo. Ricordiamo, ad esempio, come rispose un giorno Natanaele a Filippo
che gli riferiva di aver incontrato «colui del quale hanno scritto Mosè nella
Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret. Natanaele esclamò:
“Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”» (Giovanni 1,45s). Sono
parole che esprimono scetticismo, se non addirittura disprezzo.
243
Da soli non riusciamo a trovare la parola che dica il perché, che
indichi le vie di uscita, che apra a nuovi orizzonti. L’uomo da sé può
solamente balbettare qualche risposta e qualche soluzione. È ancora il poeta
a scrivere: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta
sillaba e secca come un ramo». Non solo l’uomo non possiede le formule
risolutive, ma addirittura, con amarezza e quasi con rassegnazione, Montale
scrive: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Ma noi abbiamo assoluto bisogno di sapere chi siamo e che cosa vogliamo,
altrimenti saremmo destinati all’insoddisfazione, all’inquietudine,
all’infelicità. Ogni giovane allora deve assumersi con coraggio il compito
fondamentale di sapersi dire chi è e che cosa vuole: altrimenti non potrà mai
trovare la serenità interiore, non riuscirà a costruire relazioni vere e durature,
non potrà prospettare il proprio domani e quello del mondo che gli è
affidato. Sarà un fallimento!
3.3.1.3 Un ascolto nella relazione con l’altro
E’ per questo che l’uomo, il giovane cerca una parola decisiva nella
relazione con l’altro. Nel Percorso pastorale per il prossimo triennio L’amore di Dio
è in mezzo a noi ho scritto: «Ascoltare non è una strategia, ma una condizione
umana e teologica fondamentale. Parlare e ascoltare non sono nell’uomo
solo una capacità fra le altre: sono la facoltà che fa dell’uomo un uomo. Da
solo l’uomo non esiste. Esiste solo nella relazione. E nel suo corpo c’è un
organo che è sempre in esercizio, che funziona sempre: è l’orecchio» (n. 18).
Cari giovani, nella relazione con l’altro, nell’ascolto sincero e
assiduo, potete conoscere meglio voi stessi, capire i vostri progetti di vita e
trovare le risposte alle questioni che vi interpellano.
Certamente potreste obiettarmi, questa sera, che non è facile
riconoscere le parole autentiche, quelle dette per amore; che non è semplice
identificare chi ascoltare per non essere ingannati. Potreste dirmi che tante
volte vi hanno illuso e siete stati delusi da idee, opinioni, da consigli di
persone che non vi hanno condotto alla verità.
San Paolo scrive al suo discepolo e collaboratore Timoteo: «Verrà
giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di
udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie
voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2 Timoteo
4,3). Quanti “maestri secondo le proprie voglie” circondano la nostra società
e riempiono di parole vuote – quando non insulse e stupide - i mezzi di
informazione, le pagine dei giornali, le teste della gente! Quante favole si sono
sostituite alla verità! Il prurito di udire qualcosa spesso è diventato morbosa
curiosità, pettegolezzo, chiacchiera.
Con la convinzione dell’apostolo Paolo, a voi giovani dico: non
scoraggiatevi nella ricerca della verità, ma non fatevi illudere né ingannare!
Esercitatevi, invece, in un ascolto sapiente e vero delle persone che vi vogliono bene e che
242
7.2.2 Momento giusto per l’autobiografia
L’autobiografia è utile al duplice scopo di conoscersi e di farsi
conoscere. Il prenovizio infatti “con apertura e coraggio affronta il proprio
passato e non ha paura di parlare di sé e della propria famiglia. Impara a
riflettere sulla propria condotta, sulle esperienze, sulle ragioni delle scelte e
sul proprio modo di pensare. E’aiutato a scoprire le motivazioni inconsce e
a distinguere tra i desideri e le vere motivazioni. Quest’approccio sincero e
profondo di sé costituisce una prima base di discernimento”(FSDB 334).
7.2.3 Istruzioni per l’autobiografia
Prepara una breve autobiografia. A partire dai tuoi ricordi più antichi
procedendo cronologicamente, pur sapendo che i ricordi emergono
gradualmente. Per questo è opportuno farlo su un quaderno ad anelli, in
modo che se emerge qualcosa su eventi già narrati e paiono significativi si
possono inserire come appendice.
Sii attento agli influssi più significativi nella tua vita, i rapporti e gli
eventi salienti nella tua vita fino ad oggi… la famiglia, il curricolo degli studi,
i rapporti e le amicizie, le esperienze nel lavoro, le gioie e le ferite più
profonde comprese le tue reazioni, ecc.”
7.2.4 Lettura dell’autobiografia
E’ un fatto che un’autobiografia contiene molto di più di ciò che si
vede per iscritto. Per questo si deve sapere già in partenza che nelle pieghe
del testoè nascosto un piccolo tesoro da scoprire, per questo è opportuno
lasciare uno spazio bianco al fianco di ogni pagina per porre note,
approfondimenti, chiarimenti... che parranno utili. Sono importanti le cose
scritte, ma lo sono anche quelle non scritte; suscita interrogativi il trovare
alcuni temi trattati e altri passati sotto silenzio.
Di enorme importanza per valutare la maturità emozionale, per
esempio, è la descrizione delle emozioni, sia quelle presenti che quelle
assenti, il modo di esprimere la gioia e di reagire alla sofferenza, reattività o
blocchi.
7.2.5 Dialogo sull’autobiografia
A partire dai molti dati forniti dal testo è importante anche il passaggio
di chiarificazione vocale fatto di spiegazioni o conferme alle osservazioni; se
vi sono dissonanze che richiedono chiarimento. Così si può arrivare ad una
conoscenza più adeguata via per un aiuto di crescita.
103
Anche il dialogo a partire dal testo e dall’esperienza di redazione nel
comporre lo scritto è importante: se per esempio è stato un esercizio
difficile, un momento di autoscoperta, un mezzo per crescere nella
conoscenza di sé, … E’ utile anche la riformulazione orale di qualche
aspetto e la ripresa di alcuni temi in vista dei passi di cammino da svolgere.
Si può ulteriormente esplorare ancora più in profondo, quello che è
scritto trasformando la storia in preghiera e a parlare con Dio dell’esperienze
raccontate e non raccontate, delle sue emozioni espresse e non espresse,
delle sue relazioni.
L’autobiografia è un momento di conoscenza di sé che ha bisogno di
essere integrato nel resto del cammino, per un’ulteriore conoscenza di sé e
per un progressivo farsi conoscere, per la ricerca delle esperienze da
integrare nella propria vita e per il processo di discernimento.
3.3 “Il tempo della Parola”84
3.3.1 Introduzione85
3.3.1.1 In ascolto, insieme, di una parola che dà senso alla vita
L’ascolto è una dimensione decisiva dell’esistenza. Da sempre l’uomo, e in
modo speciale il giovane, coltiva dentro di sé tanti interrogativi, alcuni forse
banali, altri invece formidabili, e sono quelli sul senso della vita e della storia,
su di sé e sul mondo, sul futuro, sulla giustizia, sul dolore, sulla morte, e su
molti altri quesiti che attendono una risposta.
L’uomo è alla ricerca di una parola che dia risposta alle sue domande più
grandi. Penso a quelle che avete nel cuore questa sera: su voi stessi e il vostro
domani, sui vostri affetti e le vostre relazioni, sulle sfide che la società vi
pone, sul modo di vivere oggi la fede dentro la complessità delle prove
dell’esistenza, su quanto sta succedendo nel mondo.
3.3.1.2 Chi siamo e che cosa vogliamo?
A volte l’uomo cerca queste risposte per conto proprio, in se
stesso, nelle sue risorse e nelle sue capacità. Può certamente fare molta
strada, ma, ad un certo punto, si troverà in un vicolo cieco: di fronte alle
questioni decisive, da solo, non può raggiungere quella risposta che cerca.
Sono straordinariamente lucide al riguardo le parole con cui il
grande poeta Eugenio Montale apre una delle sue liriche: «Non chiederci la
parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe» (in Ossi di seppia). Proprio
così, carissimi giovani: spesso l’animo dell’uomo ci appare “informe”,
soprattutto nei momenti della crisi e del dubbio, del dolore e dell’errore; e
noi, da soli, non possediamo la parola che possa “squadrare”, ossia definire,
fare chiarezza e dare certezza. L’animo dell’uomo ci appare informe ogni
volta che non riusciamo a comprendere le scelte di male che si compiono
nel mondo con le ingiustizie, le disparità tra i popoli, le guerre e le violenze.
84 CENCINI A., Luce sul mio cammino. Parola di Dio e iter vocazionale =
Animatori di pastorale…27, 2002, Paoline Ed. Mi.
AAVV, XVII Seminario di formazione sulla direzione spirituale,
L'accompagnamento vocazionale sotto la Parola di Dio, in Vocazioni 3, 2002, pp, 8-13; 4294.
ABS, Parola di Dio e Spirito Salesiano, LDC, Torino, 1996, pp. 13-25; 159168; 321-332.
ABS, Atti del III Convegno Mondiale, Bollettino, n. 10, pp. 141-181.
85
Tettamanzi D., Lampada ai miei passi è la tua parola, Il racconto
dell’amore, Milano-Duomo, 22 settembre 2006.
104
241
soffre per noi, il suo cuore è aperto nei nostri confronti e possiamo trovarvi la salvezza.
 […]Quando facciamo l'adorazione eucaristica, questo sarebbe il luogo
in cui potremmo imparare da Dio un amore che può soffrire e
quindi anche salvare. L'adorazione non è dunque qualcosa di puramente
privato, è invece l'esercizio di un amore diverso per il nostro prossimo.
In questo cuore trafitto potremmo contenere tutti quanti ci stanno a
cuore. E guardando il cuore trafitto potremmo aprire il nostro cuore
affinché possa amare e salvare le persone che incontriamo quotidianamente. […] Li possiamo introdurre nell'amore di Gesù Cristo, nel
cuore aperto che solo l'amore può far guarire e nel quale l'amore è più
grande e più potente di ogni colpa umana.
 L'adorazione vuole trasformarci . Noi stessi siamo un ostenso rio,
perché Gesù Cristo abita in noi. E dobbiamo portare questo
ostensorio nel mondo. […] La preghiera più bella che possiamo dire a
Dio nell'adorazione è la preghiera che tre cappellani di Lubecca hanno
recitato poco prima di essere giustiziati nel Terzo Reich.
«Signore, ecco le mie mani.
Porgi loro ciò che vuoi. Portami via ciò che vuoi.
Conducimi dove vuoi. In tutto si compia la tua volontà».
8. L’immagine di sé32
Con il termine « immagine di sé » ci si riferisce a come uno si vede,
a che cosa dice e sente di sé, a come si percepisce in rapporto con se stesso,
gli altri e l' ambiente. Per immagine di sé perciò intendiamo una
« con figurazione, una sagomatura di sé, una strutturazione
intellettivoaffettiva » della propria realtà, cosi come noi ci vediamo e
sentiamo in relazione a noi stessi, agli altri, soprattutto alle persone
importanti per noi. Ne risulta il nostro volto, la nostra fisionomia personale
con le sue caratteristiche, una certa idea di noi, strutturatasi a livello conscio
e inconscio a partire dall'inizio della vita, e poi attraverso le varie esperienze
di sé. Dato psicologico dell'immagine di sé centrale per il divenire della
persona, per la sua identità.
Ogni persona tende ad agire come si vede. Di conseguenza il
comportamento di ciascuno e fortemente condizionato da come di fatto si
percepisce. L' immagine infatti e qualcosa che entra in azione
automaticamente, secondo il meccanismo del ruolo. Ad esempio, chi si
conosce pigro, non si meravigliera della propria pigrizia; chi non si vede
fatto per la felicità non essere credervi quando questa si presenterà a lui.
Arriverà a compiere atti che la faranno allontanare. Chi si sopravvaluta si
lancia in imprese al di sopra delle proprie forze. Non ogni immagine e adatta
a promuovere una adeguata identità di sé. E molto importante, per il
divenire dell' identità di sé, individuare il tipo di immagine prevalente in se
stessi ed elaborarne una di adeguata, pena una crescita ridotta, talora anche
distorta. Riconducendo i vari tipi di immagine di sé ad alcuni,
schematizzando un po', queste sono le principali forme di immagine con cui
confrontarsi così da individuare la propria:
-immagine di sé reale, sana e adeguata;
-immagine di sé negativa;
-immagine di sé montata;
-immagine di sé ipervalorizzata.
Ovviamente nella realtà concreta ci sono indefinite gradazioni
intermedie. Conta individuare con verità e realismo la propria, riferendosi a
questi tipi modello.
8.1 Le immagini di sè
8.1.1 Immagine sana e adeguata
240
32 SOVERNICO G., Progetto di vita. Alla ricerca della mia identità, ELLE DI
CI Torino Leumann 1984, pp. 161-180.
105
Si tratta dell'immagine normale. Essa e quella di un essere positivo
che ha dei contorni, cioè dei limiti. Anzitutto al centro sta la percezione della
propria «positività congenita». I1 centro di sé stessi è percepito come
positivo. Questa realtà positiva è fatta delle nostre tendenze buone, delle
nostre qualità, dei nostri doni naturali, dei nostri talenti e doti, delle nostre
aspirazioni profonde, dei nostri bisogni di. base... Questi vari aspetti positivi
fanno di noi degli esseri validi: tuttavia questa realtà positiva e sentita come
parziale. I limiti, che ci sono costituiti, ci rendono maldestri e ostacolano il
nostro agire, ma non costituiscono l'essenza della persona. È questa la
condizione umana. Questo ci dà la nostra personale fisionomia e il nostro
carattere unico. Noi abbiamo il nostro modo personale di essere buoni,
intelligenti, aperti agli altri, servizievoli, ecc. Da giorni — annota Giuliano di
anni 29, educatore in una comunità mi sénto sollevato e con il A. MILLER,
17 dramma del bambino dotato, cit., pp. 27-3è. cuore contento, come non
mi era mai capitato prima. E vero, un punto tiene e sta al centro di me:
amato da Dio incondizionatamente, scelto da Dio per essere prete ed
educatore proprio fin dai primordi della mia vita. Ciò fa parte di me, è me, è
mia identità. Avverto da giorni risuonare questa frase del Vangelo dentro di
me, un versetto che mi da gioia e luce: "Tu séi stato provato, Pietro... ma tu,
una volta superata la prova, conferma i tuoi fratelli". Questa è la mia
missione, entro la mia storia. Aiutare gli altri, una volta ristabilito dentro, a
ritrovare sé stessi, a guarire e a crescere... Avverto che ciò viene da dentro di
me e conferma tanti momenti della mia giovinezza. Si inserisce nella mia
storia recente, nei passi fatti in avanti mettendomi "in verità" con me stesso,
con chi mi accompagna e con coloro con cui vivo assieme. Sento come un
fluire d'acqua dentro di me, con un timbro inconsueto. Avverto la presenza
di Dio lungo tutta la mia vita, anche nei momenti di eclisse, di ricerca a
tentoni. Si è fidato di me più di me stesso, incredibilmente. Mi chiama ad
essere più vero, più umile, più rispettoso di me e degli altri, più a sérvizio del
Vangelo e delle persone concrete. Si e fidato sénza forzare, sénza porre
troppe condizioni. t vero. "Quando sono debole, e allora che sono forte". I
miei limiti presénti e passati non sono contro di me, come una realtà contro
cui lottare, da rifiutare. Sono parte di me da portare a bordo, superadoli da
dentro”.
8.1.2 Immagine negative
L'immagine è strutturata attorno al negativo e ai difetti. Ci sono
persone che non vedono del proprio essere che gli aspetti negativi o quasi.
Fra questi alcuni riconoscono anche i loro lati positivi, aggiungendo subito
un grosso «ma... », come se non fossero realtà proprie. Vedono sopratutto
ciò che manca loro oppure quello che hanno, ma che non vorrebbero avere.
Il fenomeno dell'immagine negativa, a varie gradazioni, è molto esteso.
106
mostrano in essi Gesù Cristo come il loro mistero più profondo. In ogni
uomo incontro Cristo: guardare l'ostia mi permette di scoprire Cristo
negli uomini. In questo modo l'ostia fa sì che mi riconcili con i miei
fratelli, le mie sorelle, mi dà nuova speranza per loro e risveglia dentro
di me l'amore ' che nutro per loro. Guardare l'ostia mi fa anche vedere
tutto il mondo in maniera diversa.
 […] L'adorazione eucaristica è incontro personale con Gesù Cristo, che è
presente nell'ostia come colui che si offre per noi […] e si sacrifica per
noi sulla croce , mi ama ed è morto per me. […]
 Nell'amore di Gesù, tangibile e visibile nel pane, possono guarire le
nostre ferite poiché interpretiamo in modo diverso la nostra solitudine,
le nostre paure e la nostra rabbia. Guardiamo colui che ci ama. Non
dobbiamo far altro che guardare. […]. Il mio cuore trova la calma in
Cristo. Sento che mi è concesso di stare semplicemente di fronte a lui
senza dover fare niente. Posso semplicemente essere. Va bene così.
Basta essere di fronte a lui, senza intenzione, come tra amici. […]
Nell'incontro col cuore ferito posso anche trovare un modo diverso per
trattare le mie ferite. Naturalmente preferirei non sentirle più. Me ne
voglio liberare, voglio che non mi facciano più soffrire. Allora cerco di
farle richiudere con preghiere o altre tecniche psicologiche, in modo che
non lascino segni e le cicatrici scompaiano. Allo stesso tempo sento che
questo non funziona perché nonostante tutto provo ancora dolore. Le
mie parti sensibili vengono continuamente colpite e le ferite si riaprono.
Il cuore di Gesù mi indica un'altra via. Ha poca importanza che le mie
ferite si rimarginino: devono invece venir trasformate. La ferita può
divenire la fonte della vita. Quando accetto la mia ferita, questa può
diventare il luogo in cui Dio torna ad incontrarmi. Devo quindi
eliminare la pressione che mi spinge a non voler più sentire le ferite.
Devono poter far male, le critiche devono poter ferirmi, anche se ormai
ho capito quali sono i meccanismi che regolano tutto quanto. Se mi
rassegno ad essere vulnerabile e a soffrire, posso conoscere Dio proprio
nei punti sensibili, come colui in cui mi imbatto, come colui che mi
ricorda che lui solo può essere la mia salvezza. […]
 Incontro Gesù col cuore trafitto. Cristo si è fatto ferire per noi, ha
lasciato distruggere il suo cuore, perché noi non ci lasciamo distruggere
dalla nostra vita. Si è fatto trapassare per noi per essere accessibile a tutti
noi. «L'apertura del cuore significa consegna di tutto ciò che è più intimo
e persona-le affinché venga usato da tutti: tutti possono entra-re nello
spazio così aperto e svuotato» (Hans Urs von Balthasar). […]Un detto
antico dice: Cor pat et qui a pat iens. Il cuo re di Gesù è aperto a noi perché
soffre, perché tollera il dolore. Può amare solo chi può essere ferito.
Solo il medico ferito può guarire, come dicono i greci. Siccome Gesù
239




abbiamo finalmente trovato ciò di fronte al quale possiamo
inginocchiarci. Infatti per tutta la vita l'uomo cerca colui di fronte al
quale si possa inginocchiare e che unisca tutte le sue forze e soddisfi i
suoi aneliti e bisogni.
[…] L'adorazione non avviene nella mente: al contrario, tutto il corpo vi
partecipa. Il gesto originario dell'adorazione è la prostratio, nella quale
l'uomo si getta ai piedi di Dio. Ma si può rivolgere una preghiera a Dio
anche inchinandosi o sedendo di fronte a lui e tenendo le mani aperte.
L'adorazione spinge comunque ad una espressione corporea. Tutta la
forza dentro di noi deve venir unita. Il corpo offre un aiuto,
permettendo allo spirito di trovare la calma e di raccogliere nel gesto
tutto ciò che è presente dentro di noi per indirizzarlo a Dio.
Adorazione significa fare riferimento a Dio: dentro di me non ci sono
più stanze private, in cui io mi possa ritirare per pensare ai miei sogni a
occhi aperti e nelle quali non faccio entrare nessuno, nemmeno Dio.
Adorazione significa fare riferimento a Dio, essere completamente in
relazione con Dio. Non dobbiamo avere alcuna paura di pensieri o
sentimenti dentro di noi. Ciò che importa è essere in relazione con
Dio ed esserne avvolti. Se ogni cosa viene inserita nell'incontro con Dio
tutto prenderà vita dentro di noi e si trasformerà. Le stanze che
chiudiamo a Dio sono chiuse anche a noi. Alcuni cristiani vivono
tenendo molte stanze chiuse a chiave e serrate. La loro vita è ridotta,
visto che si svolge solo in poche stanze del loro corpo. L'incontro con
Dio nell'adorazione intende aprire tutte le stanze dentro di noi e fare
entrare in ogni angolo lo sguardo amorevole di Dio che tutto ravviva.
Adorazione si dice adoratio in latino e significa letteralmente «mandare
un bacio a qualcuno». L'ado razione consisteva dunque nel portare la
mano alla bocca e mandare un bacio a Dio o all'adorato im peratore.
Questa origine mostra come adorare non significhi solo gettarsi a terra
e dimenticare se stes si: adorazione è anche intimità. Il gesto del
bacio, che di norma si mostra solo alla persona amata, viene usato
anche nei confronti di Dio. Il profondo anelito di toccare con dolcezza
la persona amata con un bacio viene rivolto a Dio. L'adorazione è
quindi un incontro intimo con Dio: gli comunico i miei aneliti e i miei
bisogni più profondi nella fiducia che li soddisferà.
[…] L'adorazione eucaristica ha diversi significati. Un - aspetto essenziale
è il guardare. […] Questo guardare apre il mio sguardo all'intera realtà.
L'ostia è come una finestra attraverso la quale posso vedere la realtà della
mia vita sotto una nuova luce. L'ostia mi mostra la verità del mio cuore.
Non ci sono più solo i pensieri arzigogolati e fragorosi, le sensazioni di
paura e le preoccupazioni; c'è già Gesù Cristo che ha trasformato anche
il mio cuore.[…] Non vedo più gli uomini attraverso gli occhiali delle
mie proiezioni, li vedo invece attraverso gli occhiali dell 'ostia, che mi
238
Costituisce un forte «handicap» per la crescita di una autentica identità
personale. Ne deriva infatti scarsa fiducia in se stessi, un senso o meno
accentuato e manifesto di autonegatività. Talora ci sono dei fatti positivi che
sembrano smentire tale immagine, ma non ci si crede. Se va bene, «è il caso»
oppure «non sono tanto io». Se va male, «non poteva essere più o meno che
così». Gli insuccessi infatti, i limiti, i difetti non meravigliano. Sono più o
meno attesi. Se si fa luce sulle qualità e i successi, ciò viene mal tollerato. A
volte ci sono persone che portano date responsabilitä, […] spesso si
considerano più o meno insignificanti da coloro che le circondano. L'origine
di tale immagine è varia. Sono molteplici i fattori che vi concorrono e
solitamente vanno oltre la responsabilità dell'interessato.
8.1.3 Immagine montata
È tipica di chi tende a sopravvalutare gli aspetti positivi di se
stesso. La vita è prevalentemente organizzata attorno alla riuscita di sè. Ci
sono infatti persone che sopravvalutano i loro aspetti positivi per difendersi
dal negativo che si sottolinea loro. Interiormente queste persone non si
percepiscono con «l'aureola»; riconoscono di avere ombre e luci. Però il
modo con cui si difendono, quando le si attacca, fa dire agli altri che si
sopravvalutano. Dietro a tutto ciò c'è una grande insicurezza dovuta ad un
passato di sofferenze, più o meno cosciente, spesso di prima infanzia.
[… per la testimonianza vedi pp. 166-167]
In loro, di fronte agli insuccessi e alle umiliazioni, sono frequenti le
reazioni di ripiegamento su di se in vario modo e a vari livelli, fisico,
psicologico, morale e spirituale, forme di permalosità e risentimento più o
meno giustificato, forme di gelosia più o meno mascherata. Solo
l'eliminazione di questo passato guarirà da ciò che gli altri chiamano
«aureola». Di fatto queste persone non hanno una immagine ipervalorizzata.
Sono gli altri, l'ambiente che rischiano di appiccicare questa etichetta perché
queste persone danno l'impressione di sopravvalutarsi.
8.1.4 Immagine ipervalorizzata
Si tratta di persone con una immagine di sé montata e rinforzata.
Hanno una grande stima di sé stesse e desiderano, quasi hanno bisogno, che
anche gli altri le stimino ugualmente. La loro vita è organizzata attorno al
successo e alla riuscita sociale. Sono persone che non vedono di sé che gli
aspetti positivi, incapaci di accettare di avere qualcosa che non và. Non
possono sbagliare veramente. In realtà non sanno chi sono.
Sintomi:
* È presente una rigidità con sé stessi e con gli altri con frequenti
reazioni sproporzionate e ripetitive rispetto alle effettive cause. A monte sta
una insicurezza di sé non cosciente. L'immagine si è venuta strutturando
107
attorno ai successi esteriori, non attorno alla realtà positiva di sé percepita
interiormente. Di qui il bisogno di successo sociale da mantenere e allargare.
Senza questi successi tutto crollerebbe. Il loro impegno sociale porta con sé
una forte componente compensatoria. Se la persona è dotata e non conosce
mai un insuccesso, questa immagine può durare tutta la vita. In caso di
insuccesso c'è come un rimbalzo alla ricerca di un altro successo. Ma se
l'insuccesso è troppo centrale, allora avviene crollo.
* La relazione con gli altri non è armonica: o dominano o sono
sottomessi e dipendono. Spesso c'è disprezzo dei deboli, di coloro che non
riescono. C'è dipendenza molto forte da coloro i cui giudizi sono ritenuti
«valorizzanti». C'è incapacità di rimettersi in questione davanti agli altri per
mancanza di solidità interiore. La risposta a coloro che tentano di metterli in
questione è fatta di ironia, disprezzo, sufficienza, giustificazioni,
autosoddisfazione. A volte queste persone riconoscono di avere qualche
elemento negativo. Anzitutto perché ce ne sono, ma soprattutto perché è
«interessante» avere qualcosa da rimproverarsi. Sono persone solitamente
sensibili alle buone maniere.
* L'affettività è molto controllata. Essa è spesso vissuta come una
debolezza che mette in dipendenza dall'essere amato. Ne risulta un
supersviluppo della capacità di ragionare, fino al cavillo, o dell'agire. Ciò si
manifesta solitamente con irrigidimenti e presa di distanza nei confronti
degli altri.
* Rapporto superficiale con se stessi e con gli altri. Le relazioni con
se stessi e con gli altri sono poco profonde. Prevale la regola del «tutto o
niente», come un rassicuramento di se. Si tratta di una immagine strutturata
prevalentemente sui fatti o sugli altri o sulle persone significative o sui
successi. […]
108
Questa mentalità però ignora del tutto la pienezza regale della
preghiera che vuoi donare. Ignora appieno la profonda adorazione; ignora
appieno l'anima della preghiera che non domanda nessun « perché » né « a
che scopo », bensì sale perché è amore e fragranza e bellezza. E quanto più
essa ama, tanto più è anche offerta, e la fragranza scaturisce da fuoco
consumante.
3.2.3.4 Riconoscere la sua presenza. Lui è qui.
 Nell'adorazione mi inginocchio di fronte a Dio perché Dio è Dio.
Non gli chiedo niente, con l'adorazione non voglio raggiungere niente,
né bei senti-menti, né tranquillità né calma. Nell'adorazione non parlo
dei miei problemi, non mi lodo né mi rimprovero: mi inginocchio
semplicemente di fronte a Dio perché è il mio Signore e il mio
Creatore. Quando ho realmente capito che cosa significhi essere creato
da Dio ed essere tenuto in esistenza da lui in ogni momento, non posso
fare altro che inginocchiarmi di fronte a lui che è il mio Creatore e
adorarlo. Nell'adorazione riconosco di dipendere completamente
da Dio e che tutte le fibre del mio essere hanno bisogno di lui: dentro di
me non v'è nulla che io non abbia ricevuto da lui. E confesso che è il
mio Signore, la meta del mio anelito. Non posso fare altro che
inginocchiarmi di fronte a lui in ammirazione e pregarlo.
 Nell'adorazione non mi occupo più di me stesso e dei miei problemi.
Tento invece di guardare solo verso il mio Dio. Dimentico me stesso
perché Dio mi ha preso nella mia totalità, perché egli solo è importante
per me. Il paradosso è che, dimenticando me stesso, divento
presente a me stesso, divengo vero, io stesso. I problemi e gli uomini
non mi interessano più perché Dio mi riempie completamente.
Nell'adorazione è presente l'anelito di giungere infine a liberarmi di me
stesso, di essere libero dagli interessi personali e dalla brama di vedere
tutto sempre rif erito a me stesso, di voler sempre avere qualcosa per
me. Dimenticando me stesso, divento pienamente libero e preso da
Dio. […] Quando Dio mi è talmente vicino che conta soltanto
l'incontro con lui, la vicinanza, spesso invadente, di quanti vogliono
qualcosa da me perde spesso importanza, e lo stesso succede alle
preoccupazioni e ai problemi che mi assillano. Quando la presenza di
Dio riempie ogni cosa, dentro di me non c' è più posto per altre cose,
nulla ha più potere su di me. Dimenticando me stesso, raggiungo la
calma e si spegne il chiasso dei miei pensieri e dei miei sentimenti.
Sono finalmente arrivato, dopo una lunga ricerca sono finalmente a
casa. Si può essere a casa solo se ci si inginocchia di fronte al mistero.
L'adorazione è l'esperienza dell'e ssere a casa. Quando ci ingi nocchiamo
di fronte al mistero di Dio siamo veramente arrivati. La nostra anima si
placa e sentiamo che il nostro anelito più profondo è stato realizza to:
237
è destinato alla custodia dell'Eucaristia ci richiama alla mente sia la presenza
del Signore, che deriva dal sacrificio della Messa, sia i fratelli, che dobbiamo
amare nella carità di Cristo. La Chiesa infatti nel dispensare i sacri misteri ad
essa affidati da Cristo Signore, provvede anzitutto alla conservazione
dell'Eucaristia per gli infermi e i morenti. Questo cibo celeste, riposto e
custodito nelle chiese, è adorato dai fedeli.
3.2.3.3 L'incenso 83
« Io vidi venire un angelo, e portava un incensiere d'oro e si
presentava all'altare. E gli fu dato molto incenso. E la fragranza dell'incenso
saliva dalle mani dell'angelo attraverso le preghiere dei santi su su fino a Dio
».
Così parla l'Apocalisse.
Vi è tanta nobile bellezza in questo distribuire i granelli dal preciso
contorno sul-la vampa, e in questo elevarsi del fumo odoroso dall'incensiere
agitato. È come una melodia fatta di movimento dominato e di profumo.
Senza alcuno scopo, pura come una canzone. Una bella prodigalità di cose
preziose. Amore che dona, che elargisce tutto.
Come un giorno, quando il Signore sedeva in Betania, e Maria gli
recò nardo prezioso, e glielo versò sui santi piedi, e li asciugò coi suoi capelli
e la fragranza riempiva l'intera casa. Uno spirito gretto mormorò: « A che
scopo tanto dispendio? ». Ma il Figlio di Dio ammonì: « Lasciate fare, è pel
giorno della mia sepoltura ». V'era qui un mistero della morte, dell'amore,
della fragranza, dell'offerta.
E lo stesso è pure nell'incenso: un mistero della bellezza che ignora
ogni scopo, ma sale libera; dell'amore che arde, e si consuma e trapassa nella
morte. Ed anche qui si presenta lo spirito arido che domanda: « A che scopo
tutto questo? ». Un'offerta della fragranza, lo dice la stessa Scrittura: ecco
cosa sono le preghiere dei santi. Simbolo della preghiera è l'incenso, e
proprio di quella preghiera che non mira ad alcuno scopo; che nulla vuole e
sale come il gloria dopo ogni salmo, che adora e vuoi ringraziare Dio, «
perché è così grande e magnifico ».
Certo in siffatto simbolo si può insinuare della vanità. Le nubi di
profumo possono anche portare un tiepido sentimento del mistero, uno
spasso religioso dei sensi. Se è così, ha piena ragione la coscienza cristiana di
sollevar obbiezioni e di richiamare « allo spirito ed alla verità »; di
raccomandare d'essere casti ed onesti. Ma c'è anche nella religione un
filisteismo che proviene da meschinità di sentire, da aridità di cuore, come la
mormorazione di Giuda Iscariota. Qui la preghiera si riduce ad utilità
spirituale; ed in tal senso ha certo da essere misurata e borghesemente
ragionevole.
R. GUARDINI, I santi segni, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 68-69.
236
Per il cammino di interiorizzazione
A quale di queste quattro immagini di sé mi sento più vicino?
In base a quali tratti principali?
Oggi quale immagine ho di me? Come mi vedo? Che cosa dico di
me? Quali sono gli aspetti positivi e negativi che costituiscono la mia
immagine, la mia fisionomia?
Quali sono gli aspetti di me noti a me e sconosciuti agli altri,
oppure noti a me e agli altri, che accetto con più difficoltà, o che rifiuto?
Chi vorrei essere che non sono, nè realisticamente posso essere?
Questi tuoi tratti principali da quali fattori ti sembrano causati? Se trovi
presente in te come prevalente un'immagine negativa montata o
ipervalorizzata, quali esperienze senti che potresti, dovresti fare per risanarla
e camminare verso un'immagine reale, sana e adeguata?
83
109
8.1.5 Alcune condizioni per un’immagine reale
* Vivere relazioni vivificanti in cui ci si senta amati e riconosciuti
per ciò che si è
* Lo sblocco di ciò che ostacola l’espansione della vita. Più la vita
cresce, più si diventa sensibili a ciò che ostacola la vita. Più si vive nella luce,
più si percepiscono le zone di tenebra. La fedeltà a se, alla vita e alla luce
condurrà a sbloccare tutto ciò che ostacola l'avanzare della vita. Questi
sblocchi possono attuarsi mediante la coscientizzazione personale di ciò che
fa da freno a livello non tanto del sapere, ma del sentire, del vissuto. Spesso
e necessario l'aiuto altrui. Un «altrui» che sa aiutare con un ascolto benevolo,
pieno di comprensione, fiducioso e attivo. Si progredisce molto più in fretta
nella conoscenza di sè e nella liberazione dai blocchi con l'aiuto di un altro.
* Tempi di solitudine in comunione con la vita.
* Cura continua nell’accettazione di sé. Anzitutto rendersi attenti
volontariamente, perché ci si crede, al positivo in sè e negli altri. Si tratta di
orientarsi, tramite la volontà, a sottolineare volutamente ciò che va, anche se
minimo, ciò che è sorgente di gioia, di positività, di luce, di senso, di vita,
anche se presente allo 0,1%. E ciò a partire dalla vita quotidiana. Conta che
lo si percepisca come proprio e lo si coscientizzi, magari tramite l'«esame di
coscienza positivo» […] fare questo esercizio per scritto almeno per un mese
o due. E mentre si scopre il positivo, occorre accettare, nel limite del
possibile, i propri limiti e gli aspetti negativi della propria persona,
previamente a qualunque giudizio morale di bene o di male. […] Questo
processo di autoaccettazione richiede di individuare e chiamare per nome, a
livello soprattutto emotivo affettivo, i propri acquitrini, le proprie sabbie
mobili, i divieti interni, le preclusioni e gli arroccamenti apparentemente
immotivati, eppure inflessibili.
* Attenti alla vita coscienti che il percorso chiede tempi medio
lunghi con passi graduali
* Farsi aiutare da qualcuno di cui si ha fiducia per la sua
autorevolezza e competenza. Soprattutto in relazione all’immagine negativa.
Richiamare con lui ciò che ha provocato questa immagine lasciando
affiorare la propria sofferenza confidandogliela. Il passato doloroso, non
chiarificato e assunto, non si può soffocare senza danni gravi. Riemerge in
uno dei molteplici modi che la psicologia spesso evidenzia e che l'esperienza
personale conferma. Sta alla radice di dati crolli, come pure di irrigidimenti
difensivi e ripetitivi o di fughe nel sogno. Bisogna perciò non chiudersi nella
fierezza della propria sofferenza come un riccio o una conchiglia. Vivere
sulla difensiva e motto pia dispendioso e meno redditizio che vivere con
liberta interiore ed esteriore.
* Individuare il tipo della propria immagine e riconoscerlo per
quello che è, in base alle reazioni abituali della vita. Occorre coraggio e vera
110
3.2.3 L’adorazione: Lui è fedelmente qui
3.2.3.1 Proskunesis82
Cosa fa una persona quando s'inorgoglisce? Si drizza, alza il capo,
irrigidisce le spalle e l'intera figura. Tutto in essa dice: «Io sono più grande di
te! Io sono da più di te!». Quando uno invece è di umile sentimento e si
sente piccolo, china il capo, la sua persona si rattrappisce: egli «si abbassa».
Tanto più profondamente, quanto più grande è colui che gli sta dinanzi;
quanto meno egli sente di valere agli stessi propri occhi. Ma quando mai
percepiamo noi più chiaramente la nostra pochezza di quando stiamo
dinanzi a Dio? Al grande Iddio che era ieri come è oggi, tra secoli e millenni!
Al grande Iddio che riempie questa stanza e l'intera città ed il vasto mondo e
l'incommensurabile cielo stellato, dinanzi a cui tutto è come un granello di
sabbia! Al Dio santo, puro, giusto, infinitamente sublime... Come è grande
Lui... e come son piccolo io! Così piccolo che non posso neppure mettermi
a confronto con Lui, che dinanzi a Lui sono un nulla! Non è vero — e vien
con tutta evidenza da sé — che non si può stare da superbi dinanzi a Lui? Ci
si «fa piccoli»; si vorrebbe impicciolire la propria persona, perché essa non si
presenti così, con tanta presunzione: l'uomo s'inginocchia. E se al suo cuore
questo non basta ancora, egli può inoltre prostrarsi. E la persona
profondamente chinata dice: «Tu sei il Dio grande, mentre io sono un
nulla!». Quando pieghi il ginocchio, non farlo né frettolosamente né ,sbadatamente. Dà
all'atto tuo un'anima! Ma l'anima del tuo inginocchiarti sia che anche interiormente il
cuore si pieghi dinanzi a Dio in profonda reverenza. Quando entri in chiesa o ne esci,
oppur passi davanti all'altare, piega il tuo ginocchio profondamente, lentamente, o quando
il mistero del pane che diviene Suo corpo; ché questo ha da significare: « Mio grande
Iddio!... ». Ciò infatti è umiltà ed è verità ed ogni volta farà bene all'anima tua
3.2.3.2 Tabernacolo
(in ebraico mishkhan) della tradizione giudaica, era un santuario
trasportabile che era eretto nel deserto e che accompagnava gli israeliti nel
loro vagare dopo l'esodo. I Leviti avevano il compito di occuparsene.
All'interno del tabernacolo c’era il Santo dei Santi, che a sua volta conteneva
l'arca dell'alleanza e le tavole della legge. Una tenda le separava dal resto
della struttura. Il tabernacolo è il luogo della presenza di Dio nella comunità
ed era costruito sul modello del santuario celeste. La sua disposizione
simboleggiava la creazione, la struttura del cosmo e la storia futura del
popolo d'Israele fino all'età messianica. Il tabernacolo ora nelle nostre chiese
R. GUARDINI, I santi segni, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 30-31.
235
82
3.2.2 Possibile struttura della preghiera settimanale
lunedì
Ringraziamento
Setaccio la mia settimana e ringrazio per 10 minuti
martedì
Implorazione dello Spirito
Invoco lo Spirito Santo
sulle persone che hanno un compito di decisione
sulle situazioni più confuse
sulle decisioni che devo prendere
mercoledì
Ascolto
Passo momento per momento quello che ha voluto dirmi Dio
durante i momenti della giornata,
magari partendo dalla Parola di Dio del giorno
umiltà per poter chiamare per nome le varie realtà presenti in noi, molto più
che per continuare ad illudersi su di se e sugli altri.
* L'esperienza di un'altra gerarchia di valori, in cui l'essere vince
l'apparire e l'avere, spesso apre la strada al risanamento. […] Ogni vera
identità di se si precisa e consolida nella misura in cui da vita ad una
missione. Ogni persona ha un suo compito da svolgere, entro le piccole cose
del vivere quotidiano. Vivere la propria missione attraverso le varie scelte
alimenta e sostiene l'identità di se. Quest'impegno di se deve essere guidato
dalla «regola d'oro»: io, con la mia responsabilità personale, qui, in questo
ambiente, ora, in questo tempo, con queste persone concrete, in base al mio
progetto di vita vivo, secondo le mie effettive possibilità oggi, in cammino
verso la mia pienezza di vita, assieme a molti fratelli entro un popolo in
cammino.
giovedì
Supplica
Ripasso persone che mi danno fastidio,
situazioni difficili che mi provocano negativamente
o che sono causa di sofferenza per me o per altri.
Chiedo di poter voler bene
e concretamente scegliere una modalità di intervento d’amore.
venerdì
Penitenziale
Rivedo la mia vita e chiedo perdono: vado davanti al Signore, con il
desiderio di cambiare e se è il momento della riconciliazione tutto è
concentrato sul sacramento
sabato
Conoscenza di sé ed affidamento a Maria
Davanti alla Verità di Dio desidero fare verità nella mia vita,
guardando con verità ai miei pensieri, desideri, decisioni e azioni non
falsando in più o in meno le miei dinamiche e le mie proprie doti
domenica
Comunione con la Chiesa
Passare in rassegna le situazioni della Chiesa,
della mia comunità
del mio gruppo
della mia famiglia con le sue gioie e i suoi problemi
Nel momento in cui non hai voglia è il tempo della volontà amante
prendendo anche una posizione che più richiede al proprio corpo
234
111
9. L’accettazione di Sé33
Un uomo giunto alla coscienza di essere amato da Dio, di avere da lui la vita,
di ricevere da lui tutto quello che ha, esclama: «Grazie, Signore! ». La prima risposta alla
domanda: «Chi sono io? Chi sei Tu?», e che io sono uno che ha imparato a dire grazie.
Specificando meglio, esprimerei cosi la prima parola: «Grazie, ti devo tutto». Qui è il
punto in cui comincio a prendere veramente coscienza di me stesso: quando, guardando
negli occhi il Signore, nella preghiera, arrivo a dire con sincerità: «Grazie, mio Dio. Io ti
devo tutto. Tu sei colui che mi ha dato la vita, la parola, l'essere, la ragione, il movimento,
i genitori, la casa, la salute, la forza, la debolezza. Io ti devo tutto».34
 “fiume alla sua sorgente, come il raggio al sole”. Quindi no alla fretta, inquietudine,
irritazione contro se stessi… ma imparare dal Signore”mite e umile di
cuore”cioè”così come sono davanti a Dio sono davanti agli uomini”
 “Non so come sono fatto : sebbene mi senta miserabile, non me ne rattristo punto e,
qualche volta ne sono contento pensando che sono davvero un buon soggetto per la
misericordia di Dio (lettere, EP, 850)
 “accettarsi non è rinunziare o abdicare, ma piuttosto pendere coscienza delle nostre
reali forze per sostenere con coraggio il combattimento spirituale”.
 “le sonnolenze, i languori e le pesantezze dei sensi non possono non causare qualche
specie di tristezza sensuale; però finché la vostra volontà e il fondo del vostro spirito
sono ben risoluti di appartenere interamente a Dio, non vi sono ragioni per temere,
perché si tratta di imperfezioni naturali e piuttosto malattie che peccati o difetti
spirituali. Tuttavia bisognerà esercitarsi ed eccitarsi al coraggio e all’attività dello
spirito per quanto vi sarà possibile.”
 “L’umiltà non unita alla generosità è falsa e dannosa”.
 “Accettarsi è accettare Dio in noi e attaccarsi a lui con un legame più reale”
(S. Francesco di Sales)
R., L’accettazione di Sé, Morcelliana, Brescia, 1992.
JACQUES P., La libertà interiore. La forza della fede della speranza e dell’amore,
Ed San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pp. 28-40.
34 MARTINI C.M., Tu mi scruti…, oc, pp. 22.
112
3.2 Graduale acquisizione di un tempo di
preghiera personale
3.2.1 Un poco di metodo

Dedica un tempo ben preciso alla tua preghiera: all’'inizio, è utile
almeno mezz'ora.

Scegli bene il luogo della preghiera, è necessario che sia silenzioso e
raccolto. Se puoi metti davanti a un crocifisso o un'immagine sacra, ed ancora
megliodavanti all'Eucaristia.

Mettiti in ginocchio: con le spalle erette, le brace rilassate; se impari a far
pregare anche il corpo la tuapreghiera sarà più attenta.

Incomincia col segno di croce fatto bene: toccando fronte consacrando
al Padre i tuoi pensieri; toccando, il petto consacrando a Cristo il tuo cuore, la
tua capacità di amare; toccando le spalle consacrando allo Spirito le tue azioni, la
tua volontà.

Dividi la preghiera in tre spazi esatti: più la organizzi più inizialmente la
rendi facile.
o
Il primo spazio dedicalo allo Spirito Santo, è Lui il maestro della
preghiera; concentrati sulla presenza dello Spirito Santo in te. Dice Paolo: "Siete
tempio di Dio, e lo Spirito di Dio abita in voi” (1 Cor 3,16) Prova a dialogare con lui,
prova a esprimergli un problema difficile che hai tra le mani. Invocalo con fede:
"Vieni Spirito Crea tore !"
o
Il secondo spazio dedicalo a Gesù. È preghiera d’ascolto, prendi tra le
mani il Vangelo di questa giornata o i brani di Parola di ti sono stati presentati
nella riflessione e prova a leggerli con calma: è Gesù che ti parla personalmente.
Attraverso questa Parola: "Si gnore, che cos a vuoi da me?" "Signore, che cosa
disap provi in me?"
o
Il terzo spazio dedicalo al Padre. Ama! Sta' in silenzio davanti a Lui, sei
immerso in Lui: "In Lui viviamo, muoviamo ed esistia mo" (Atti 17,28).
Ama! Aiuta il tuo silenzio, se è necessario, dicendo "Pa dre mio, mio tutto!"
Non terminare la preghiera senza qualche decisione concreta da
attuare al più presto, perché l’amore è un fatto e la preghiera deve portarti
all'azione

Concludi con un pensiero a Maria SS., implora con un'Ave Maria la
grazia di imparare a pregare ed amare con costanza.
33 GUARDINI
233
3. Vita di preghiera80
3.1 Vita nello Spirito: cos'è?
9.1 Accettazione35
81
Dono dello Spirito per la vita della Chiesa
Non sono le opere ma il modo d’essere
Riconoscere e confessare Dio presente nella storia e nell’uomo
Ispirare la propria vita nella logica della carità
Affermare nella storia il primato della persona
Lo Spirito conferisce una prospettiva diversa alla visione solita
della fede
Lo Spirito porta felicità nella fede a cui ci si deve abbandonare
La Spiritualità è:
Coscienza di essere figli di Dio
La nostra vita è un mistero di cui si deve scoprire il senso
Provare a vivere come veri figli di Dio
Felicità = libertà = uscita dal mondo = assomigliare a Cristo
Invocare lo Spirito Santo per mezzo di Maria che da sempre ha
creduto nella Sua potenza
Lo Spirito è presente sempre nella storia attraverso l’uomo, ogni
individuo agisce in virtù dello Spirito, ogni cristiano per la prima volta nel
Battesimo che ha un valore totalizzante
La vita consacrata:
Dallo Spirito Santo, lo Spirito ti rende Sua proprietà esclusiva
Per il Regno di Dio, per una missione particolare
Nella sequela di Cristo
80
81
CEI, Principi e norme per la liturgia delle ore, Roma 1983.
VECCHI J. E. Spiritualità Salesiana. Temi fondamentali, LDC
Torino, 2001, pp. 9 – 21.
RUPNIK M. I., Nel fuoco del roveto ardente. Iniziazione alla
vita spirituale = Betel brevi saggi spirituali 2. Lipa, Roma, 1996, pp. 573.
232
Se qualcuno mi domandasse: Io vorrei avanzare nella vita morale;
dove devo cominciare?, risponderei: Dove vuoi. Puoi cominciare da un
difetto di cui ti sei reso consapevole nella vita professionale. Puoi iniziare
dalle esigenze della vita sociale, della famiglia,dell'amicizia, là dove hai
osservato una tua lacuna.
Oppure hai capito il punto debole d'una tua passione, e puoi
cercare di venirne a capo. In fondo ciò che importa è soltanto che tu sia
leale e che in qualsiasi punto ti metta all'opera con decisione: allora una cosa
tira l'altra. Perché la vita dell'uomo è un tutto; se egli incomincia
decisamente da una parte, la sua coscienza si desta e la sua energia morale si
rafforza anche verso le altre parti, allo stesso modo che un difetto in un
punto dell'esistenza incide in ogni suo punto.
Ma se colui volesse ulteriormente domandare: Che cosa costituisce
la premessa di ogni proposito morale veramente efficace, per rettificare
storture, fortificare fragilità, riequilibrare eccessi?, allora gli si dovrebbe
rispondere, io credo: E’ l'accettazione di ciò che è; l'accettazione della realtà;
della realtà tua, delle persone che ti stanno intorno, del tempo in cui tu vivi.
Tutto ciò suona forse teorico, ma è non soltanto giusto, bensì
degno della viva attenzione d'ogni spirito lealmente impegnato; giacché non
è affatto ovvio che noi accettiamo anche intimamente con prontezza di
cuore ciò che è.
Ora si potrebbe un'altra volta obiettare e dire: Ma questo è un
modo artificioso di pensare. Ciò che è, è sia che lo si “accetti”, o no. A
prescindere pure dal fatto che un atteggiamento simile e comodo e rende
passivi. Vogliamo allora anzitutto mettere in chiaro che qui non si tratta d'un
passivo e debole subire tutto, ma si tratta di vedere la verità e di disporsi a
suo riguardo, risoluti naturalmente alla fatica e, se necessario, alla lotta per
essa.
Tutto ciò è anzitutto veramente umano. Un animale è
immediatamente identico a se stesso. Diciamo più esattamente: per un
animale non esistono domande. E’ come è, inserito e risolto nel proprio
ambiente. Di qui l'impressione di “naturalezza” che l’animale ci fa: esso è
tutto quanto come deve essere in rapporto alla sua essenza e alle condizioni
ambientali.
35
113
GUARDINI R., Virtù…, oc, pp. 33-44.
Con l'uomo le cose non stanno così. Egli non si risolve in ciò che è
e in ciò che esiste riferito a lui. Egli può porsi in distanza da se stesso e
riflettere su se stesso; può giudicarsi; può desiderarsi al di là di ciò che è in
direzione di ciò che vorrebbe o dovrebbe essere.
Può perfino fantasticare di sé realtà o ideali impossibili. Nasce così
una tensione fra l'essere e il desiderio, la quale può diventare un principio
della crescita, purché l'individuo in questione abbia davanti a se
un’immagine di se atta a essere assunta in ciò che egli realmente è. Ma da
questa tensione può generarsi una frattura negativa; una fuga dalla propria
realtà; una esistenza fantasma che sorvola sulle possibilità date, come pure
sui pericoli incombenti
Questo si voleva intendere quando si diceva che ogni serio ed
efficace proposito morale doveva cominciare con l'accettazione
dell'esistenza come essa è.
2. Il Credo, approfondimento dei
contenuti della fede
CCC 198-1065
Cerchiamo di capire il significato di tale accettazione con una più
precisa consapevolezza dei contenuti di essa.
Tali contenuti sono io anzitutto a costituirli. Giacché io non sono
un uomo in genere, ma quest'uomo determinato. Ho questo carattere e
nessun altro; questo temperamento fra tanti; queste energie, debolezze,
possibilità, limiti. Ecco quanto io devo accettare ed ecco ciò su cui io mi
devo porre come sulla base prima della mia vita.
Tutto ciò, ripetiamo, non è affatto ovvio, esiste anche appunto – il
che getta un'acuta luce sulla finitezza del nostro essere – la nausea di se
stessi, la protesta contro se stessi. Dobbiamo un'altra volta pensare che
l'uomo non è come l'animale tutto concluso in se stesso, ma può librarsi
sopra di sé. Egli può farsi delle idee su come gli piacerebbe essere, e quanti
ce ne sono che vivono come avvolti dentro aloni di sogno invece che nella
coscienza della propria realtà. Conosciamo anche quell'attività strana per
mezzo della quale l'uomo cerca di sgusciar via da ciò ch'egli è: il
travestimento, la maschera, il gioco. Non parla forse da tutto ciò il desiderio,
vano ma di continuo ritornante, d'essere altri da quello che realmente si è?
Insorge così l'imperativo, rigoroso ma arduo da eseguire, di voler anche
realmente essere quello che si è, convinti che là dietro sta non una sorda
necessità di natura e non una maligna contingenza, ma una indicazione
(Zuweisung) che viene da una eterna sapienza.
Si vuol dire con questo che io devo accettare non solo le forze che
possiedo, ma anche le debolezze;non solo le possibilità, ma anche i limiti.
Giacché così stanno le cose con la nostra strana natura umana: che quanto ci
porta e ci innalza anche ci opprime; che quanto ci garantisce anche ci
minaccia. A ogni struttura d'essere appartiene il positivo, ma anche il
negativo, e non è possibile evadere da tale situazione.
114
231
1. Il progetto di vita
“Una delle forme concrete per esprimere la propria
responsabilità nella formazione è avere il progetto personale di vita”
(Ratio, n.216)
Cfr CERERDA, il progetto di vita personale
E’ una grande saggezza che noi conquistiamo imparando tutto ciò:
che non si può evadere dai dati fondamentali dell'essere ma che dobbiamo
accettare la situazione in tutto il suo complesso. Questo non significa che si
deve prendere per buono tutto e tutto lasciare come sta, assolutamente no.
Io posso e devo lavorare, plasmare e migliorare me stesso e il mio carattere,
ma anzitutto dire sì a ciò che è, altrimenti tutto si falsifica.
A chi ha il dono d'una intelligenza attiva e precisa, d'un occhio
pratico, d'una mano decisa è interdetta una fantasia creatrice e la bellezza del
sogno, che appartengono invece all'attitudine artistica. A questa invece sono
assegnate, come contropartita dei suoi propri doni, le ore oscure del vuoto
interiore e della desolazione, e una difficoltà di adeguamento al mondo reale
e ai suoi calcoli. Chi ha sentimento profondo per sentire la felicità della vita
deve affrontare anche la sua infelicità. Nessuno può pretendere di tenere per
sé l'una e di buttar via l'altra cosa, ma deve, se vuole essere fedele alla realtà,
dire di sì al quadro totale della propria esistenza. Chi ha un carattere freddo
e perciò corazzato contro i dispiaceri non sa però nulla delle grandi estasi ed
ebbrezze della vita.
Ciò non significa, un'altra volta, che si debba dire buono quello che
buono non è. Il brutto è brutto, il cattivo è cattivo, e l'odioso deve essere
chiamato odioso. Ma ogni sforzo che voglia sviluppare il buono e vincere il
cattivo si fonda anzitutto sulla presupposizione che si deve prima
riconoscere ciò che è. Quanti sono quelli che si fabbricano un fantasma di se
stessi e si ingannano passando sopra a cose che pure in essi esistono! Vanno
in furia quando si richiama la loro attenzione verso un loro difetto e fanno
grandi meraviglie quando qualcosa a loro non riesce. Il principio d'ogni
proposito e conquista morale sta nel riconoscere ciò che è; anche gli errori e
i difetti. Soltanto se io decido lealmente di portare il peso dei miei difetti,
giungo alla serietà e solo in un secondo tempo può allora cominciare il
lavoro per un superamento.
Bisogna anche accettare la situazione esistenziale come ci è stata
assegnata. Si possono certamente cambiare e migliorare molte cose e si può
rendere questa situazione conforme ai nostri desideri; e tanto più quanto
più risoluti sono questi desideri e più ferma la mano che li vuole realizzare.
Ma in fondo a tutto rimane l'impostazione (Ansatz), quel primo gradino che
si è fissato fin dai miei primi anni e che determina tutto il seguito
dell'esistenza. Gli psicologi dicono che già con il terzo e quarto anno sono
date le determinazioni fondamentali d'un bambino. Esse passano tutte nella
vita successiva, unitamente agli influssi che le persone dell'ambiente, il
gruppo sociale, la città o la campagna hanno esercitato su di lui.
Anche l'epoca storica in cui vivo e penetrata in me di continuo vi
penetra: gli avvenimenti, le situazioni,le possibilità e le limitazioni sue. Tutto
questo io devo per prima cosa accettare se voglio accingermi a cambiarvi
230
115
Un passo più avanti e siamo all'accettazione del destino. Il
«destino» non e il caso; implica una consequenzialità, definita anzitutto
esteriormente da concatenazioni di eventi, ma anche interiormente dalla
natura della persona in questione.
Nella vita d'un uomo mediocremente dotato non si verificano né i
trionfi, né le catastrofi che toccano all'uomo geniale. A un carattere
amministrativo e organizzativo non succedono gli smarrimenti che colgono
invece l'artista, allo stesso modo che costui non esperimenta nella vittoria e
nella sconfitta ciò che vi esperimenta chi e nato per la conquista e l'esercizio
del potere. La natura propria d'un uomo e, in tal modo, come un setaccio
che lascia scorrere certe esperienze e ne ferma certe altre.
Le disgrazie stesse che ci colpiscono – per esempio un fulmine che
ci cade sulla casa – sono diverse se colui a cui la casa appartiene perde il
proprio controllo e viene coinvolto nella rovina o se invece e capace di
autodisciplina e di resistenza. Si può cosi in qualche modo dire che a
ciascuno e stato assegnato per mezzo del suo carattere un abbozzo del suo
destino. Non è una necessità fissa; vi contraddice il fatto della libertà, la
quale di continuo partecipa, nel piccolo e nel grande, alla elaborazione d'una
vicenda umana, ma è una direzione, un carattere radicale, spesso una
verosimiglianza di un certo processo. Ma un'altra volta ciò che importa è che
l'uomo accetti il suo destino, per poi tanto più decisamente impegnarsi a
guidarlo e a plasmarlo.
La vita dell'uomo moderno è dominata da una concezione che e il
controgioco dell'angoscia sempre latente nei suoi nervi: dall'idea di potersi
garantire contro i pericoli crescenti. E possibile realmente far molto in
questo senso. E possibile, per fare un solo esempio, calcolare quanto sia
grande in una certa professione la probabilità d'una vita lunga, e quanto
grande in un'altra la probabilità di una disgrazia; e con tanta maggiore
precisione in quanto possiamo disporre di macchine le quali eseguono il
lavoro che prima non si poteva controllare in ogni suo punto. Tuttavia
contro la stessa vita non ci si può assicurare, ma la si deve accettare con
tutto ciò che essa implica nelle grandi e nelle piccole cose, nelle possibilità di
disgrazia o di fortuna. Accettare il destino significa infondo accettare se
stessi e cimentarsi con se stessi. L'idea ha trovato la sua forma paganascettica nel concetto dell'amor fati: l'amore, generato dal dispetto, verso il
proprio destino; e la sua forma cristiana nell'affermazione della vita
116
Dimensione spirituale
qualche cosa. Quanto ciò sia essenziale lo si percepisce dagli atteggiamenti di
coloro che non lo fanno e che invece cercano di evadere dal proprio tempo:
nel passato, come i romantici che trovano presente sempre spoglio di
attrattive e bello solo ciò che è stato; oppure nel futuro, come gli utopisti
che vivono solo in ciò che sarà e gli danno di continuo la caccia. E sempre
l'accettazione del reale che fonda la lealtà dell'esistenza.
229
Strumenti
Formazione settimanale (2 incontri max)
Il quotidiano
colloquio personale
revisioni comunitarie
lavoro sull’autobiografia
stesura (memoria biblico-affettiva)
sottolineatura delle relazioni familiari
accompagnamento dello psicologo
prefigurata dalla propria personale natura, nella fiducia che tutto si fonda su
prescrizioni o assegnazioni divine.
L'ordine logico dei nostri pensieri porta ancora oltre: non soltanto
a difenderci dal dolore e dalla sventura, oppure, se non è possibile sviarli, ad
affrontarli coraggiosamente, ma ad accettare la loro amarezza. Bisogna
essere stati educati alla scuola di Cristo per essere capaci di ciò, poiché la
nostra natura si comporta diversamente. Essa protesta contro il dolore, e
contro questo non c'è nulla a tutta prima da obiettare, tanto più che esiste
anche un consenso al dolore che nasce dalla debolezza, anzi esiste anche una
ricerca morbosa di esso. Ma il puro e semplice rifiuto perde il significato che
il dolore ha nella vita: giustamente capito e sostenuto, esso approfondisce la
vita, la purifica, porta l'uomo in una superiore unità con se stesso in quanto
egli si unisce alla volontà divina che sta dietro ogni accadimento.
Anzi il dolore stesso può in tal modo farsi pin leggero. Se un uomo
e alle prese con un amaro dolore – corporeo o spirituale – e gli riesce di
eliminare la ribellione e di abbandonarsi entro di esso, allora tutto il peso si
trasforma, ed egli esperisce una liberta profonda, la liberta nel dolore.
Un'ultima cosa infine. L'auto-accettazione significa che io sono
d'accordo di esistere, in senso puro e semplice.
Questa affermazione suona strana a quelli a cui le cose vanno bene,
perché allora si vive e si avanza nel proprio essere e agire e non si pensa
altro. Ma vengono anche altre ore, le ore della sventura, dell'insuccesso, della
noia; allora si apre una frattura fra me e me stesso. Io non mi sono trovato
davanti alla possibilità della mia esistenza e non ho io deciso di volere essere,
ma sono stato collocato nell'essere. Sono uscito dalla vita dei miei genitori,
dalla vita dei miei antenati, dalle contingenze del tempo. L'evento della mia
nascita mi ha detto: Ora tu sei. Vivi dunque te stesso! In certi momenti; uno
può avere l'intima percezione di quale grazia sia poter esistere, poter
respirare, sentire, fare. Ma può anche succedere il contrario, e ad esempio, la
parola che definisce l'esistenza può allora suonare a qualcuno non come
“esaudimento”, ma come “imposizione”. Quando le forze scemano, le cose
ingrigiscono, i doveri opprimono; in tempi di lenta malattia e di lunga
indigenza, in ore di scoraggiamento o di malinconia, può insorgere la
protesta: io non sono stato interrogato. Non ho voluto essere. Perché devo?
Allora si sente che dover essere potrebbe essere una pretesa impostaci, e che
accettare l'esistenza può essere un atto da realizzare a grande profondità.
Poiché essa potrebbe essere anche respinta: in una maniera stanca e ottusa
quando l'uomo si trascina a vivere con l'alzata di spalle della rassegnazione;
ma anche con atti disperati, giacche il numero di coloro che si tolgono la
vita e spaventosamente grande e sembra aumentare. Il numero di coloro per
i quali il dono dell'esistenza e diventato un peso che non sono disposti a
228
117
portare; o forse anche semplicemente non lo possono,perché nessuna fede e
nessun amore insegna loro a capire l'arduo enigma.
In tutto ciò non esiste via d'uscita con motivi unicamente umani.
Questo andava detto gia all'inizio delle nostre considerazioni. Giacche
quando noi riflettevamo che non siamo noi a darci l'esistenza, ma che la
riceviamo, la prima domanda sarebbe dovuta essere: Da chi? E la risposta
sarebbe stata: dai genitori, dalla situazione storica, dagli antenati. Ma in
definitiva, e attraverso tutte le mediazioni intermedie, da Dio. Non potremo
perciò mai realizzare l'accettazione – quella autentica – se non si viene in
chiaro da che cosa dobbiamo accettarla, questa nostra realtà:dall'oscurità dei
processi naturali, dall'insensatezza del caso, dalla malizia d'un demone,
oppure dalla pura sapienza e dal puro amore di Dio. E vogliamo di continuo
richiamare alla nostra coscienza che la rivelazione di Cristo, che fa da
fondamento a ogni altro suo atto, fu di rivelarci gli atteggiamenti e i
sentimenti di Dio a nostro riguardo.
L'accettazione autentica e possibile unicamente in ordine a
un'istanza di cui ci si possa fidare, ed essa è il Dio vivente. Quanto più ciò
che dobbiamo accettare tocca da vicino la nostra vita, quanto più
esattamente l'accettazione importa un superamento di noi stessi – un
“lasciarsi calar entro” come dicevano i maestri spirituali del medioevo; un
abbandonarsi nell'intimo di ciò che e – tanto più io ho bisogno di sapere di
che genere sia l'onnipotente pensiero che si rivolge a me.
C'è una domanda, senza dubbio sciocca, ma che ha bisogno
d'essere espressa, poiché essa ci aiuta a penetrare meglio nel nostro rapporto
con questo Dio troppo più grande di noi: Sa davvero Dio ciò che pretende
da noi, Lui che non ha destino, dato che non c'è potenza che possa
imporGli nulla? Le sue disposizioni non vengono forse sempre, se così si
pub dire, «dall'alto», olimpicamente, dalla serena freddezza dell'essere
assolutamente intoccabile?
Qui la rivelazione ci parla d'un mistero, confortante quanto
incomprensibile: che Dio in Cristo ha deposto tale intoccabilità. Con
l'incarnazione Egli è entrato in quello spazio che forma per quelli che ci
vivono un'unica catena di destino, cioè nella storia. Quando l'eterno Figlio e
diventato uomo, lo è realmente diventato, senza difese né privilegi; e
diventato vulnerabile da parte di cose e di parole; intessuto come noi nella
fittissima trama delle vibrazioni e delle influenze che s'irradiavano dallo
smarrito cuore umano. Anzi,la condizione era un'altra volta diversa ancora,
giacché un uomo viene colto da tali irradiazioni tanto più duramente, quanto
più il suo spirito e grande, profondo il suo cuore e viva la sua vita. Avere
destino vuol dire appunto soffrire; quanto più uno e capace di dolore, tanto
maggiore si fa nella sua esistenza l'elemento del destino. Quali catene di
118
17.4 Lettura e critica della situazione
odierna 79
17.5 Attenzione alle problematiche giovanili
-
Attenzione quotidiana ai giornali condividendo nelle buona
notti gli articoli, le riflessioni, le emergenze sulla realtà dei
giovani.
Attenzione alle realtà personali e di gruppo dei ragazzi con
cui si opera, rileggendo le loro storie, le modalità
espressive, le fatiche e le modalità nostre di intervento
rispetto a questi dati.
79 VECCHI J.E., “Io per voi studio” (C 14). La preparazione adeguata dei
confratelli e la qualità del nostro lavoro educativo, ACG 361, Ottobre-Dicembre 1997.
227
– povere capacità di relazione e intimità; goffaggine con i coetanei
(specialmente, ma non solo, in persone molto introverse). La tendenza a
usare Internet e le attività del sesso virtuale serve a evitare il disagio di
tentare la socializzazione con i coetanei, "connettendosi" in modo più
"sicuro"... ma si tratta di una connessione illusoria;
– una storia di difficoltà sessuali irrisolte, compresa la mancata
integrazione dell'identità sessuale, e/o di un trauma sessuale;
– qualche forma di depressione (sensazioni durevoli di depressione,
calo di energie, ansietà). L'esperienza soggettiva di sentimenti negativi e di
abbassamento di energia può rendere difficile ad alcune persone la capacità
di connettersi efficacemente con gli altri, e può portarli a cercare sollievo,
stimoli, diversione dal loro umore negativo attraverso il sesso virtuale;
– una vita spirituale impoverita. Molte persone che lottano con la
dipendenza dal sesso virtuale stanno sperimentando in qualche misura una
forma di distanza, di alienazione da Dio, a causa di una vita d'intimità con
Dio poco curata, a volte derivante da capacità relazionali scarsamente
sviluppate.
Quanto detto non deve essere inteso come una demonizzazione di
Internet. Piuttosto vuole aiutare a mantenere i piedi per terra, e favorire nelle
persone un uso sano degli strumenti che la scienza moderna ha posto nelle
nostre mani, senza ridurli ad essere un'occasione in più per costruirsi un
mondo fantastico a parte, lontano dalla realtà. Chi cede a questo uso
regressivo della rete, finisce per divenire sempre più restio a fare i conti con
il mondo reale, a ritirarsi nella nicchia del mondo virtuale, dove può sentirsi
libero di fare uso delle persone che lì incontra senza assumersi alcuna
responsabilità di fronte a loro.
Sarebbe utile parlare del problema nelle nostre comunità, che mai
come oggi sentono farsi forte il vento dell'individualismo, favorito anche da
un uso maldestro di strumenti della tecnologia. Una maggiore
consapevolezza delle responsabilità relazionali insite nel valore della vita
comunitaria e nell'azione pastorale, oltre che il valore della persona in
quanto tale, chiede di essere realisti e non sottovalutare questo fenomeno.
E. B.
pensiero s'aprono allora! Quale culminazione sperimenta concetto! Il Figlio
di Dio entra nella storia per espiare la nostra colpa e per portarci a una
nuova grande possibilità. Ed Egli lo fa pronto ad accettare tutto quello che
Gli sarebbe capitato, senza precauzioni, deviazioni, resistenze o astuzie! Gli
uomini, i quali non hanno precisamente nessuna forza su Colui «a cui e stato
dato ogni potere in cielo e sulla terra», gli creano il più amaro dei destini; ma
esso è la forma the la volontà del Padre ha assunto a suo riguardo. Egli
stesso vuole questa volontà; eseguirla e il «cibo» della sua vita (Gv 4, 32).
Così la pressione del destino diviene libertà. La libertà più alta e il dovere più
grave si identificano. Si vedano le arcane parole pronunciate sulla via di
Emmaus:
226
119
«Non doveva forse il Cristo patire tutto ciò e cosi entrare nella sua
gloria? » (Lc 24, 26)
Ora Dio non è “l’Essere assoluto” della pura filosofia, ma è Colui
che è tale che la sua essenza più intima, cioè il suo amore, si esprime in
questo fare di Cristo. E’ la sua signoria è quell'altissima libertà che è capace e
che vuole realizzare tale fare.
Soltanto da questo punto di vista e possibile comprendere e
dominare l'esistenza. Non dal punto di vista di questa o quella filosofia della
personalità e del suo rapporto con il mondo, ma della fede a ciò che Dio ha
fatto, e in comunione con Lui. L'immagine che tutto riassume e la croce,
come Egli disse:
«Chi vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi
segua» (Mt 16, 24).
Ognuno «la sua»; quella che gli a assegnata. Allora il Maestro opera
in lui il mistero della santa libertà.
Per il cammino di interiorizzazione
L’accettazione di sé può rischiare di essere o un esclusivo percorso
individuale e vago o può trovare le sue tracce in alcuni semplici indicatori a
cui prestare attenzione:
La riconoscenza36
Verifico per un tempo prolungato (almeno un mese) nell’esame di
coscienza serale per iscritto quali sono gli ambiti di costante lamentela o di
irriconoscenza.
Le dinamiche del confronto\scontro
Quali sono le persone con cui metto in atto maggiormente un
confronto\scontro che può diventare invidia o emulazione? Dopo aver
fatto un elenco dettagliato colloco al loro fianco gli ambiti di invidia o
emulazione? Verifico quale oggettiva lettura ho messo in atto e mi
confronto su queste. Invidia – emulazione – riconoscenza –
complementarietà: dalla mentalizzazione allo stile di vita.
L’uso del tempo (che recupereremo successivamente)
36
106)
CATERINA DA SIENA, Epistolario, Lettera a Neri di Landoccio (III,
Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.
Carissimo figliuolo in Cristo dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de’
servi di Gesù Cristo, scrivo a te nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedere
spegnere in te ogni negligenza e ingratitudine. Però che negligenza non è senza
ingratitudine. Perocché se l’anima fusse grata, e conoscente verso il suo Creatore,
sarebbe sollecita, e non si lasserebbe fuggire il tempo fra le mani; ma con fame della
virtù furerebbe il tempo. Voglio adunque, carissimo figliuolo, che col desiderio della
virtù, o con gratitudine de’ benefici ricevuti, eserciti sempre il tempo, con umile e
continua orazione. Altro non dico. Bagnati nel sangue di Cristo crocifisso, e permani
nella santa e dolce dilezione di Dio. Gesù dolce, Gesù amore.
120
elaborare risposte, reazioni e sentimenti nel momento in cui si manifestano.
E in una società già così individualistica e isolata non è salutare isolarsi
sempre di più. Dato che molte persone che entrano in formazione devono
ancora crescere a livello psicosessuale, un coinvolgimento con il sesso
virtuale risulta fortemente controproducente, dal momento che priva delle
condizioni necessarie per la crescita e l'integrazione.
Il sesso virtuale isola le persone dal contatto sociale con i coetanei,
elemento particolarmente problematico per individui che hanno problemi di
personalità, ansietà, paure, limitate capacità di comunicazione sociale e di
rapporto con il gruppo. A volte questo tipo di persone passano ore e ore
davanti al computer anziché usare il loro tempo libero nello sforzo di
relazionarsi in modo genuino, compromettendo così anche la testimonianza
del valore della vita comunitaria.
Il sesso virtuale rischia di depauperare sempre di più la sensibilità della
persona per ciò che è sessualmente appropriato o problematico, e di
compromettere la coscienza a proposito di ciò che riguarda la sessualità e la
relazione. Ciò rende sempre meno capaci di rispondere adeguatamente alle
proprie e altrui situazioni sessuali e relazionali, comprese quelle che
avvengono in circostanze pastorali.
Il sesso virtuale, in modo implicito ed esplicito, crea e sostiene il
mercato della pornografia di ogni tipo, compresa quella infantile, con tutti i
pericoli e lo sfruttamento che questo comporta. Va da sé che ciò costituisce
una seria controtestimonianza dei valori evangelici e della giustizia sociale.
I religiosi e i sacerdoti che fanno uso del sesso virtuale mettono le
loro comunità e le loro diocesi in una posizione eticamente vulnerabile, dal
momento che l'uso di siti pornografici può essere rintracciato dalle autorità
competenti.
Accanto al problema di questa dipendenza specifica, è bene
ricordare che l'eccessivo uso del computer incide sulla salute fisica ed
emotiva in generale, poiché contribuisce a una generale negligenza personale
(riposo, attenzione, impegno nei propri compiti), e a dare un'attenzione
insufficiente ad altre aree della propria vita: comunità, preghiera, riflessione,
lettura spirituale, lavoro pastorale, relazioni interpersonali...
Le persone a rischio
Il lavoro clinico ha premesso di mettere a fuoco alcune
caratteristiche di individui, religiosi e presbiteri, coinvolti in modo
considerevole nella pratica del sesso virtuale. Gli psicologi precisano che
l'inventario di caratteristiche da loro riportate non significa che ognuna di
esse causi dipendenza: «vogliamo solo dire che persone con queste
caratteristiche possono più di altre correre il rischio di rimanere coinvolte
col sesso virtuale». Ecco le principali:
225
camera danno un senso di protezione, al punto che spesso alcuni passano
ore e ore davanti allo schermo del computer.
Ma quando si può parlare di dipendenza? «Il sesso virtuale diventa
dipendenza quando un individuo lo usa per cambiare il suo umore,
consapevolmente o inconsapevolmente». La dipendenza dal sesso virtuale
non è molto diversa da altre forme di dipendenza: la persona si sente bene
quando vive le sensazioni provocate da questa attività, e si sente depresso
quando queste finiscono. Come il tossicodipendente, anche chi vive la
dipendenza da sesso virtuale può cercare di smettere, ma senza grandi
risultati: «per la persona dipendente dalla rete la realtà virtuale è divenuta la
realtà».
La dipendenza dal sesso virtuale inizia col guardare del materiale
pornografico offerto gratuitamente e senza alcuna interazione con altre
persone, e può progredire con l'iniziare a pagare per avere accesso ai siti
pornografici con la creazione di un profilo dell'utente ed entrando in
contatto con un'altra persona via e-mail. Un passo successivo potrebbe
essere collegarsi con un'altra persona attraverso una comunicazione
istantanea relativa a un'attività sessuale. Altro passo può essere di
coinvolgersi poi nel fare uso di telefonate erotiche, finché si può giungere a
incontrare realmente un altro partecipante per avere un rapporto sessuale.
Questo comportamento finisce per interferire con il lavoro, la vita
comunitaria, la preghiera, la relazione con se stessi e con Dio. E ciò causa
sentimenti di disagio profondo, di colpa e vergogna che, a loro volta,
possono divenire una motivazione per lasciarsi risucchiare ancora di più in
questo vortice.
Che cosa comporta?
Negli ultimi anni il fenomeno è divenuto una realtà sempre
crescente anche tra i consacrati. Formatori, direttori spirituali e superiori
registrano questa realtà e non sanno come rispondervi. In base all'esperienza
clinica gli esperti hanno identificato alcune tratti fondamentali di questo
comportamento.
Anzitutto l'attività legata al sesso virtuale alimenta un atteggiamento
voyeuristico riguardo alla sessualità, che porta gli individui ad allontanarsi
sempre di più dall'attitudine relazionale necessaria per una sana sessualità.
Il sesso virtuale favorisce un'esperienza frammentata della sessualità,
concentrata su determinate parti del corpo piuttosto che sull'interazione con
la persona nella sua totalità. L'esperienza clinica ha registrato interessi e/o
comportamenti ossessivi di tipo feticistico, che solo con un intenso lavoro
terapeutico possono essere ricondotti a un'esperienza più integrata della
propria sessualità.
Il sesso virtuale isola sempre più la persona e la sua sessualità, poiché non
comporta uno scambio diretto, un feedback oggettivo, l'opportunità di
224
Appendice - La riconoscenza37
Se l'idea espressa al principio di queste considerazioni a giusta, cioè
che in ogni “virtù” – sotto un valore morale particolare di volta in volta
quale dominante – tutto l'uomo si esprime, allora anche la storia dovrebbe
avervi la sua incidenza, e dunque la storia d'ogni singolo come lo sviluppo
culturale d'un popolo o di un paese. Non in tutti i tempi le stesse virtù
determinano la posizione morale. Potremmo dire che esse sono come stelle
che appaiono in certe epoche e che dominano il firmamento dei valori per
poi a poco a poco retrocedere e lasciare lo spazio ad altre. Con questo esse
non cessano di essere delle valide forme di valori, hanno ancora il loro
influsso, dato che le epoche non sono mai divise le une dalle altre da un
taglio netto. Solo che esse non stanno più alla ribalta della coscienza etica.
Naturalmente possono in seguito, nel corso mutevole del tempo spirituale,
riapparire ancora in primo piano. D'una di queste virtù che oggi, se vedo
bene, sono in fase di declino vogliamo ora parlare, ossia della riconoscenza.
Da quali criteri del giusto e del conveniente viene determinata la
nostra vita moderna? Esiste in essa ciò che rende insomma possibile un
ringraziamento, cioè un libero dare e ricevere come tratto caratteristico
determinante per la vita sociale? Io credo di no.
Naturalmente si dà e si riceve anche oggi, dovunque una persona
voglia fare un piacere od offrire un aiuto a un'altra; ma tutto questo si e
ritirato nella sfera privata, e perfino la si fa valere una sorta di
organizzazione del dono, in rapporto con la nostra vita economica e society
dei consumi, che distrugge la spontaneità. Pensiamo anche soltanto alla
selvaggia mania dei doni nel tempo di Natale. No, ciò che definisce il
sentimento generale non e la preghiera e il dono, ma una enunciazione di
diritto e la sua solvenza, organizzata e controllata dall'autorità. E la risposta a
tutto ciò non è il grazie, ma la ratifica che la cosa è in ordine. In questo c'è,
francamente, anche molto di positivo: fatto cioè che le cose camminano in
modo realistico secondo un ordine finalisticamente calcolato, e i valori
personali
non vengono costretti a inserirsi nel luogo a cui non
appartengono. Vi influisce anche la crescente coscienza democratica della
dignità personale di tutti gli uomini; il sentimento che quanto concerne il
giusto ordine non può essere affidato alla necessità di pregare e a
concessioni graziose, ma che le condizioni di necessità e miseria sociale
dovrebbero essere superate in uno sforzo comune. Ma in questo modo si
37
121
GUARDINI R., Virtù…, oc, pp. 157-168
profila il pericolo che sparisca quanto c'è di vitale in ciò che si intende con le
parole «pregare», «ringraziare», «dare» e «ricevere». Peggio ancora: c'è il
pericolo che il modello meccanico si imponga come misura delle relazioni
umane. Il complesso sociale e la sua vita appaiono come una struttura di
funzioni in cui non si agisce sulla base di «prego» e di «grazie» – anzi forse
neppure più sulla base di veri e propri diritti e doveri – ma secondo un
funzionamento finalizzato. Nella misura in cui questa concezione si afferma,
non c'è ovviamente più posto per la riconoscenza. Cerchiamo di porre a
fuoco questa nostra virtù in lento declino. Domandiamoci quali siano i
presupposti della sua possibilità.
L'attenzione a questo fenomeno, apparentemente estraneo alla vita
consacrata, può essere di grande utilità a tutti i consacrati e in particolare ai
formatori.
Inoltre la riconoscenza è possibile soltanto nello spazio della
libertà. Io non ringrazio per il fatto che al mattino sorge il sole; detto
scientificamente, per il fatto che la terra assume rispetto al sole la posizione
che lo rende visibile a una sua porzione. Senza dubbio non possiamo
svegliarci in un bel mattino con vivissime emozioni di gratitudine verso la
bellezza e la magnificenza di un'aurora. Ma queste sono risposte della
creatura umana a Colui che ha creato ogni cosa, o anche vibrazioni postume
dal tempo in cui si adorava lo stesso sole come un nume. Del resto sono
ormai note le formule astronomiche, e se io posseggo le informazioni
occorrenti, so perché il sole deve «sorgere». Per questo io non ringrazio, allo
stesso modo che non ringrazio la macchina quando ha ben funzionato.
Anche in questo caso possono verificarsi trasposizioni di sentimenti. Se la
mia automobile regge bene in una difficile situazione, io posso sentirla come
una compagna che da buona prova di sé. Ma in realtà questa non è
gratitudine. Se la macchina è costruita come si deve e come si deve viene
adoperata, essa deve funzionare in modo corrispondente. Ma io non
ringrazio pure quando esiste un diritto mio personale. Quando compero una
certa merce ed essa mi viene consegnata, non ringrazio, saldo il conto:
«ricevuto questo e questo» ... Se ho stipulato contratto sulla base del quale il
Le coordinate del fenomeno
Il fenomeno del sesso virtuale assume diverse forme: può consistere
nello scaricare dalla rete immagini o storie di contenuto esplicitamente
sessuale, impegnarsi in uno scambio di messaggi di posta elettronica
esplicitamente sessuali prolungato nel tempo, guardare video di sesso
esplicito offerti da siti pornografici, vedere o procurare immagini in diretta
esplicitamente sessuali attraverso l'uso di una telecamera collegata al
computer, conversare o condividere fantasie sessuali che possono culminare
in forme masturbatorie o in un appuntamento per avere un incontro reale
con la persona con cui si comunicava attraverso la rete.
Caratteristica comune di queste attività – notano gli psicologi – è
l'anonimato: i partecipanti non svelano la loro identità, ma si nascondono
dietro nomi inventati, che non corrispondono a chi essi sono nella vita reale.
Grazie a questo anonimato le persone spesso cambiano professione, età,
interessi, ed esagerano gusti e avversioni sessuali. Il rischio di una
progressiva alienazione dalla realtà è grande.
Per molte persone questo uso della rete è divenuto un modo sicuro
di esplorare le proprie fantasie sessuali nascoste, un nuovo modo di trattare i
conflitti consci o inconsci nell'area della sessualità; ma finisce per creare «un
mondo fantastico con le sue regole, norme, e consuetudini che è molto
distante dalla realtà nella quale vivono. Le interazioni cibernetiche con altre
persone sono limitate a un raggio ristretto, se paragonate con l'ampio raggio
tipico degli incontri faccia-a-faccia, nei quali comunichiamo non solo con le
parole, ma anche con l'intonazione vocale e i messaggi non verbali veicolati
dallo sguardo, dal linguaggio del corpo, dagli abiti. Nell'ambito ristretto
dell'interazione cibernetica c'è molto spazio per la proiezione, che alimenta
la fantasia; c'è spesso un immediato contatto con un'altra persona, che può
essere percepita come un'istantanea intimità».
È un compito difficile gestire in modo adulto le proprie fantasie
sessuali, sviluppare la capacità di parlare della sessualità in modo salutare,
integrarla nella vita quotidiana. Nella rete è possibile oggi vivere il paradosso
di avventurarsi ed esplorare un'area altamente relazionale come quella della
sessualità, senza alcun bisogno di condividere realmente qualcosa con
qualcuno. L'inganno è davvero enorme, e tanto più pericoloso perché
utilizza la corsia preferenziale del mondo emotivo e istintuale.
Questo tipo di utilizzo della rete, inoltre è circondato da segreti. «La
maggior parte delle persone che lo praticano – annotano gli psicologi – non
ne parlano con gli amici, in famiglia, con i membri della comunità, i direttori
spirituali, o i superiori». L'anonimato, il silenzio e la solitudine della propria
122
223
Anzitutto una cosa: si può ringraziare soltanto una persona. Un
«grazie» o un «prego» sono possibili soltanto fra un «io» e un «tu». Non si
può ringraziare una legge, un potere, una assicurazione. Io lo posso fare per
cortesia, quando per esempio mi viene consegnato l'importo pattuito,
affinché tutto scorra nello stile d'un'educazione civica; ma non si può parlare
d'un vero ringraziamento poiché questo è l'espressione d'un incontro
personale in una necessità dell'esistenza. Invece due persone, di cui una a
nella situazione di avere o di potere, e l'altra invece non ha o non può, sanno
gli occhi negli occhi l'una di fronte all'altra. L'una prega e l'altra è pronta;
l'una dona e l'altra ringrazia, e le due sono congiunte dalla dimensione
umana. Allora è possibile il «grazie», e dimostra d'essere una forma
fondamentale della comunione umana.
 Le mete coscienze o inconsce
 Le mete scelte o quelle fornite
 Il taglia\incolla comodità e velocità vs la fatica
dell’elaborazione della propria interiorizzazione
 I blog (diario o confessioni virtuali) e le chat (relazione
continua fra evidenza e nascondimento): per non
guardarsi in volto?
13.3.1 Internet: i rischi della rete.
Una nuova forma di dipendenza78
Pregi indiscutibili e rischi sempre maggiori nell'uso della rete. Si
registrano nuove forme di dipendenza che vanno dal gioco d'azzardo allo
shopping compulsivo, dal pettegolezzo delle chat-line alla ricerca di
compagnia e di affetto, fino alla dipendenza dal sesso virtuale. Un fenomeno
che interessa anche i consacrati.
Da alcuni anni Internet – una rete globale di computer (World Wide Web),
chiamata anche Web – è la nuova realtà della comunicazione. Attraverso la rete si può
essere in collegamento con ogni parte del mondo: chiunque può leggere, ascoltare
suoni, guardare immagini e video, entrare in contatto e scambiare messaggi con ogni
persona collegata nella rete.
L'accesso alla Web richiede poca spesa ed è quasi sempre
disponibile. Il vantaggio di questo strumento, anche per religiosi e sacerdoti,
è indubbio: si ha accesso immediato a un mondo di informazioni che
possono favorire le conoscenze, gli studi, il ministero; con un semplice click
si può comunicare immediatamente con altre comunità, con amici e
familiari...
Ma, come sempre, assieme ai pregi ci sono gli inconvenienti: gioco
d'azzardo, shopping compulsivo, pettegolezzo sconsiderato e giochi di
seduzione nelle chat-line, ricerca di compagnia e di affetto ad ogni costo, siti
pornografici e sesso cibernetico (o virtuale)... Tutti fenomeni che
sembrerebbero marginali, ma che alcuni psicologi – basandosi
sull'esperienza clinica – considerano molto più diffusi di quanto si pensi.
In questo articolo prendiamo in considerazione soprattutto il
fenomeno del sesso virtuale, cioè quella ricerca di siti che offrono materiale
pornografico, o di contatti attraverso la posta elettronica (e-mail) o le chat-line
(un sistema di comunicazione in tempo reale che può simulare una
chiacchierata). Una ricerca che col tempo rischia di diventare compulsiva,
per cui può essere considerata una vera e propria forma di dipendenza.
78
222
Tratto da “Testimoni”, EDB, Numero 11, 2001, pag. 4.
partner s'impegna in qualcosa, in seguito io non lo ringrazio ma dico: «Tutto
a posto». Ciò che va oltre è cortesia.
Una vera riconoscenza si dà soltanto nel campo della liberta.
Quanto più il sentimento per i fenomeni umani si trasforma in quello di un
generale funzionalismo – questo tipo di autorità regola il traffico, quell'altro i
rapporti di lavoro; in quest'ora precisa secondo le determinazioni legali deve
verificarsi questo, in quell'altra quell'altro – uno spazio sempre minore
rimane per quel libero schiudersi del cuore che dice: Ti ringrazio. Dove
cessa la libertà, sparisce la gratitudine. Al suo posto succede la conferma
che si è verificato ciò che doveva verificarsi.
Una terza condizione per la possibilità della riconoscenza è la
seguente. Colui che dona deve farlo con rispetto verso colui che riceve,
altrimenti il suo senso dell'onore resta ferito. Non lo può fare con
l'indifferenza; neppure può rappresentare la parte d'uno che dono. Un
pericolo per tutti quelli che lavorano al servizio del prossimo è quello di
voler sentire la propria posizione di potere; giacché colui che ha bisogno è
come tale più debole di colui che aiuta; e se egli ringrazia per l'aiuto,
riconosce con ciò stesso la sua debolezza.
Tutto ciò rende la riconoscenza penosa. Se chi aiuta fa sentire la
propria superiorità, la riconoscenza muore; al suo posto subentrano
umiliazione e rancore. Più di un aiutato ha provato la tentazione di scagliare
il regalo in faccia al donatore?
Dunque tre condizioni importanti. La gratitudine si dà solo
dall'«io» al «tu». Non appena sparisce la coscienza della persona e viene
innanzi l’apparato, essa muore. La riconoscenza si dà soltanto nello spazio
della libertà. Non appena si profila un obbligo o si accampa una pretesa,
essa si fa assurda. E la riconoscenza si dà soltanto nell'onore. Se non si
rende percepibile nessuna stima reciproca, essa degenera in mortificazione.
Chi aiuta farà bene a riflettere su ciò. Merita d’essere chiamato aiuto solo
quell'aiuto che rende possibile la riconoscenza. Un autentico pregare e
donare, un autentico ricevere e ringraziare è Bello. E’ umano nel più
profondo dei significati. E’ sorretto dalla coscienza che nel bisogno si è
insieme, e che solo casualmente oggi ha bisogno questi e non quegli; questi
può e non quell'altro. Domani potrebbe essere viceversa.
Le necessità umane però non sono l'unico incentivo di
riconoscenza; essa può spuntare ovunque un animo ben disposto percepisce
un'occasione di procurare una gioia, di creare una bellezza, di illuminare la
vita. Allora chi è stato rallegrato dice: Tu l'hai fatto, grazie! Questo è bello. E
se la realtà vera è che la struttura della nostra vita consente spazio sempre
minore alla riconoscenza, noi vogliamo cercare quello spazio dove ancora
123
esiste – e crearlo dove lo si può – con quella energia che non può essere
spenta perché l'energia radicale del cuore, ossia con l'amore. Vorremmo a
questo punto richiamare l'attenzione su qualcosa che alla luce di quanto
abbiamo ora detto sembrerebbe un paradosso – e forse anche lo – ma
quanti paradossi contiene la vita che e irriducibile alle formule! Si danno
momenti in cui si sente il bisogno di ringraziare qualcuno semplicemente per
il fatto che egli è: non soltanto perché egli ha fatto questo o quello, ma
perché esiste. Un non-senso propriamente, giacché egli non si è certo fatto
da sé. Eppure tale bisogno istintivo si prova. Forse esso è rivolto
inconsapevolmente a Dio, giacché Dio e Colui che ha voluto che quella
persona esista. Ma forse c'è ancora dell'altro. Giacché «essere» è per
l'appunto un verbo e allude a un agire. Cosicché quel sentimento e forse
rivolto a una «prestazione» non ulteriormente comprensibile ai nostri
pensieri.
Questa gratitudine circa l'essere ha nei riguardi di Dio un altro,
misterioso significato. Nel Gloria della Messa non si dice forse: «Ti
rendiamo grazie per la tua gloria immensa»? Gli storici ci informano, a vero,
che questo «rendere grazie» – in latino gratias agere – appartiene alla lingua
dei grandi cerimoniali ed un'espressione di omaggio: «Rendiamo omaggio
alla tua grande potenza». Può essere; tuttavia significa di più d'una pura
espressione di omaggio. E’ anche giusto ricordare che Dio non potrebbe
non essere e che quindi non avremmo motivo di ringraziarlo perché è. Sul
monte Oreb, Egli ha appunto detto a Mosè, che gli chiedeva il nome, che
Essere era il suo nome (Es 3, 14).
Ciò che per ogni essere finito è aggiuntivo – e non solo
teoricamente ma realmente – e per Dio essenza, e sarebbe del tutto
insensato appellarLo con le parole: «Tu, esistente!». Tutto questo è vero, e
tuttavia! Nella ineffabilità della gloria sussistente di Dio sembra ci sia
qualcosa che si vorrebbe chiamare libertà dell'essere: come se, per così dire,
Egli ci regalasse fatto che Egli è. Come se il suo essere stesso fosse una
grazia che Egli ci concede. Come se il suo essere fosse una «prestazione» al
di là di ogni concetto e per la quale l'uomo gli dicesse un «grazie», il quale
dovrebbe rapire in estasi se potesse essere realmente vissuto. E il lettore non
si scandalizzi di questi pensieri, i quali non vogliono in realtà far altro che
alludere oltre ogni realtà concepibile.
Dare e ringraziare, due cose che tolgono l'uomo dalle condizioni
funzionali della macchina, come pure dai sistemi istintivi dell'animale, sono
in realtà per l'appunto l'eco di qualcosa di divino. Giacché fatto che il
mondo in genere sussista e abbracci tale inesauribile immensità, non si
capisce affatto per se stesso, ma il mondo è perché è stato voluto; è azione e
opera.
124
17.2 Educazione alla corretta informazione76
17.3 Strumenti o strumentalizzati: internet e
cellulare
“Il problema non sta nel fatto di adoperare strumenti, ma nella
capacità di esprimerci adeguatamente attraverso essi. […] Il modello nuovo
pone in evidenza che i media non sono solo “mezzi”; comportano una
cultura, una filosofia della vita, un’etica che reinterpreta e rilegge i valori, una
spiritualità che richiede la sintesi su aspetti nuovi della vita umana e
cristiana”.77
Il cellulare
 Dal pubblico al privato sino al nascosto (e non solo i
numeri!). Invasività nei tempi e nei luoghi.
 Dalla comunicazione all’informazione ()
 Dalla voce al messaggio (e solo a mezze parole!)
 Dal messaggio allo squillo (presenza\assenza)




La libertà di comunicare in ogni luogo
La libertà di comunicare in ogni tempo
Il “creduto” controllo
I “legami” (mai sciolti) della ricarica
 Alcune considerazione sull’apparecchio: telefono, fotocamera, telecamera, internet-poit…, solo questione di
comunicazione? Mezzi fisici e muti
che invece
emettono messaggi anche prima che comunichiamo.
 Povertà ed uso dei mezzi?
Internet
 Tutto (l’elogio della banca dati) e tutti (l’elogio di MSN
e Skype) gratis
 Navigare per una meta (utilitarismo) o per curiosità (…)
76 POPPER K. R., Cattiva maestra televisione, BORSETTI G. [ed.], Marsilio,
Venezia 20056,, pp. 128.
77 VECCHI J.E., La comunicazione nella missione salesiana. «è straordinario! Fa
sentire i sordi e fa parlare i muti», ACG 370, Gennaio-Marzo 2000.
221
nella sintonia con la Chiesa; e si esprime nel discernimento degli
avvenimenti, nel vaglio di fronte a Dio delle esperienze spirituali, nella
comprensione delle situazioni e nel servizio di orientamento e guida degli
altri.
“Io per voi studio”: ci fa pensare anche a un Don Bosco capace di
cercare i tempi e i luoghi che favoriscono la solitudine attiva, il
raccoglimento e la progettazione. Sono i suoi tempi di preghiera, gli esercizi
spirituali annuali, certe pause che gli permettono una maggior
concentrazione, ma anche il suo lavoro d’ufficio dal quale venne una
abbondante corrispondenza, concezioni di nuovi progetti e una produzione
di scritti, tutt’altro che trascurabile. […]
D’altra parte, “lo stile di vita evangelico – dice l’Esortazione
Apostolica Vita Consecrata – è una fonte importante per la proposta di un
nuovo modello culturale. Quanti fondatori e fondatrici, cogliendo alcune
esigenze del loro tempo, pur con tutti i limiti da essi stessi riconosciuti,
hanno dato loro una risposta che è diventata proposta culturale
innovativa… Il modo di pensare e di agire di chi segue Cristo più da vicino,
infatti, dà origine ad una vera e propria cultura di riferimento” 75.
Essere consapevoli e testimoniare il valore e il senso della presenza
di Dio nella vita, in un contesto culturale che non si spinge oltre l’orizzonte
temporale e privilegia la funzionalità e l’utilità immediata, implica una
profonda comprensione della propria identità consacrata e del suo valore
educativo, così come una rinnovata capacità di inserirsi nell’ambiente come
profezia e lievito.
Ma proprio per questo ci si deve rendere consapevoli,
personalmente e comunitariamente, attraverso il discernimento, la creatività
e la coerenza, come, quando e dove applicare alcuni criteri che portano
verso una espressione efficace della scelta fatta: assumere dell’ambiente
quello che è legittimo, immettere in esso il nuovo che viene da Cristo, dare o
ridare significato a quello che è ancora ambiguo, contestare quello che
congiura contro la persona. […]
Chi vuol impegnarsi nella nuova evangelizzazione deve rendersi
capace di un confronto aperto, intelligente e propositivo con i nuovi
fenomeni, capire le tendenze culturali, tentare l’annuncio nel cuore della vita,
interpretare i nuovi linguaggi e codici di significato.
VC 80
220
75
Nel pensiero attuale si ritrova un concetto che è da una parte
indispensabile e dall'altra è una disgrazia, cioè quello di natura, inteso il
termine in senso moderno. Esso significa anzitutto il complesso di tutto ciò
che è immediatamente esperibile; la totalità delle cose ordinata secondo leggi
universalmente valide nel modo come la scienza la indaga. Ma poi il
concetto si fa eccessivo, si contrappone alla fede tradizionale e intende il
mondo come realtà autointelligibile in cui si vive, si ricerca e si lavora, ma
non ci si dà più oltre pensiero riguardo al suo fondamento. «Natura» è allora
ciò che è; ed è come è e non può essere diversamente. In tale concezione
muoiono le cose più nobili, poiché queste vivono del fatto che non sono per
se stesse comprensibili, in quanto derivano dalla libertà. Mondo non è
«natura», ma «opera»; opera di Dio. Esso è perché Egli l'ha pensato, è perché
Egli vuole, dal mistero della sua libertà d'amore, che esso sia.
Così il mondo è il continuo dono di Dio a noi. Anche il fatto che
io sono è un continuo dono fatto a me stesso. Il fatto che io sia, e sia ciò che
sono, che possa respirare, sentire, lavorare, tutto ciò non è affatto
comprensibile per se stesso, ma è qualcosa degno di adorante meraviglia.
Sapere ciò è una componente della coscienza fondamentale dell'uomo.
Riceversi di continuo dalla mano di Dio è dunque anche ringraziare per
questo è una componente dell'atteggiamento essenziale dell'uomo:
dell'uomo reale, che sta nella propria autentica essenza. Sarebbe del tutto
possibile che io non ci fossi, e anche del tutto possibile che non ci fosse il
mondo. Quanto all'essenziale non mancherebbe niente, se io o se il mondo
sparissimo, poiché Dio «basta». Forse questo è l'atto fondamentale di ogni
religiosità: sapere ed essere d'accordo e confessare:
«Tu Dio sei. E sei abbastanza. Ma tu hai voluto che io sia e grazie
per questo».
Questa è una preghiera che rimette di continuo l'uomo nel giusto.
Cerchiamo di farlo: per esempio al mattino quando si esce freschi dal sonno,
quando in qualche modo ci si riceve un'altra volta dopo che il sonno ci ha
come portati via da noi stessi:
«Signore, e buono quello che tu hai voluto, che io dovessi esistere!
Ti ringrazio di poter esistere! ».
Allora si annebbiano le false ovvietà e naturalezze, crollano i
meccanismi dell'orgoglio culturale. Fra Dio e me tutto si rifà vivo, e le cose
si rettificano. In seguito, nel corso della giornata, esse vengono di nuovo
sopraffatte dal vortice delle volontà e degli accadimenti; ma esse c'erano
pure al mattino e nel mattino seguente ci saranno ancora a rimettere un'altra
volta in ordine l'esistenza.
125
Ma questi pensieri possono forse fare un altro passo avanti. Come
stanno queste cose con Dio stesso? Ringrazia anche Dio? Noi rispondiamo
a tutta prima: Che domande sono queste? A Lui tutto appartiene! Ma se noi
vogliamo sapere quali sono i sentimenti di Dio, non possiamo metterci a
tavolino a riflettere come debba essere l'«Essere assoluto», ma dobbiamo
interrogare Lui stesso, ed esiste veramente un «punto», dove il suo cuore si
rivela: questo punto e Cristo.
Cristo ha ringraziato? Quando Egli in Samaria stava seduto alla
fontana e chiese alla donna di dargli da bere, ed essa attinse l'acqua e porse il
secchio, certa mente disse «grazie»! Oppure quando Lazzaro, Maria e Marta
premurosamente lo ospitavano nella loro casa di Bethania, Egli ha pure
ringraziato, in grazia e potenza. E quando al convito di Simone il fariseo, la
donna disprezzata di Magdala arrivò, versò l'unguento prezioso sui suoi
piedi e con la perfetta d'una penitente glieli asciugò con i suoi capelli, e il
fariseo che si credeva giusto la criticò insieme con Giuda l'ipocrita, Egli
pronunciò a riguardo di lei parole imperiture (Lc 7, 40 ss.).
In quale misterioso amalgama stanno nelle sue parole la
consapevolezza circa il pentimento e la remissione delle colpe di lei e il
profumo dell'unguento e la bellezza dei gesti! In Gesù la riconoscenza era
insieme debolezza e potenza. Egli era bisognoso di tutto; giacché era
diventato uno di noi che, con tutta la nostra aria di grandezza, siamo pure
bisognosi dei doni dell'esistenza dal primo all'ultimo nostro respiro. Ma Egli
ha dato la sua risposta mentre guardava negli occhi e stringeva al cuore colui
che amava. Chi può mai allora misurare le ripercussioni in Dio stesso d'un
simile contatto? Chi può sapere – ammesso che si possa così parlare – che
cosa Dio sente quando noi nei suoi riguardi non soltanto eseguiamo
«doveri», ma doniamo amore? Quando la nostra piccolezza cerca di farsi
magnanima verso di Lui? Allora c'è in Dio qualcosa a cui potremmo alludere
da lontano con il termine di riconoscenza. Per un attimo almeno; poi tutto
affonda nel mistero. Ma un giorno Egli ci dimostrerà come il nostro dono è
stato da Lui ricevuto, e questo pure entrerà a comporre la nostra
beatitudine.
126
17. Comun-i care: “mi interesso”73
realtà
17.1 Rettitudine di coscienza e apertura alla
74
L’esperienza di Dio è stata sempre pensata anche come una
saggezza che illumina la vita dei singoli e dell’umanità, non solo con
l’esempio morale, ma anche con lo sguardo sul mondo, il pensiero e la
parola seppur semplici. […]
Pensiamo a don Bosco ed alla sua capacità di guardare la realtà,
quella giovanile in primo luogo, ma anche le vicende della Chiesa e la
situazione del Paese, senza smarrirsi né lasciarsi condizionare, attento a
valutare l’insieme secondo chiavi di lettura educative e pastorali proprie della
sua vocazione. Pensiamo alla sua intraprendenza nel cercare risposte
adeguate ai problemi; lanciare messaggi comprensibili, usando tutti i mezzi a
sua disposizione; impegnarsi a diffondere, imponendosi il lavoro di
raccogliere, ordinare e redigere, la storia sacra, quella italiana, la verità
cristiana e una forma di letteratura popolare.
“Io per voi studio”: richiama lo sforzo paziente di elaborare un
“sistema educativo originale”, con materiali di sempre, intuizioni proprie,
contributi di contemporanei e sintesi originali. Fa pensare pure alla messa in
atto di un “progetto di opere” rispondente ai tempi. Egli ne segue il
funzionamento e traccia con intelligenza e concretezza indicazioni e norme,
attento allo stile che vi voleva immettere e al raggiungimento dei fini. Si
dimostra capace di condividere, di confrontarsi, di entrare in dialogo con
persone dalle più diverse esperienze e competenze, con protagonisti del
pensiero, della politica, della vita sociale.
Anche la formulazione pensata di una esperienza di vita nello
Spirito, con cammini spirituali per giovani e adulti, presentati a parole e
messi per iscritto, ha comportato quella applicazione della mente espressa
nel “io per voi studio”. Era un imparare dalla vita, un riflettere
sull’esperienza educativa, un andar avanti aperto alla verifica, senza
accontentarsi di ciò che si è sempre fatto o cadere nella ripetizione. Era il
desiderio e il paziente acquisto della “sapienza” (“Sapientiam dedit illi...”),
indicata nel primo sogno come caratteristica della sua vita, che si impara alla
scuola del Buon Pastore e di Maria Maestra, nella disponibilità allo Spirito,
73
CONSIGLIERE GENERALE PER LA FORMAZIONE, CONSIGLIERE GENERALE PER LA COMUNICAZIONE SOCIALE,
Orientamenti per la formazione dei salesiani in comunicazione sociale. Contenuti e metodologie per
le varie fasi formative, Roma, 24 maggio 2006
74 GRÜN A., Lacerazioni. Il cammino verso l'unità personale,EMP 2003.
219
Per il cammino di interiorizzazione
Per il cammino di interiorizzazione
1. Il peso della vita lo sentiamo tutti è può coniugarsi secondo i
termini della fatica, della prova e del male. Prova a verificare alcune
situazioni pesanti che hai vissuto: dove, quando e perché hai ceduto nel
momento della fatica? Dove hai sperimentato la prova e come ti ci sei
rapportato (come l’hai letta e come oggi la vedi)? Dove hai sperimentato il
male e che idea te ne sei fatto?
2. Nell’esperienza di Gesù la prova è il luogo dove si concentra di
più la potenza di Dio. Come il Vangelo ti ha sostenuto e illuminato a
superare la prova? Hai sperimentato i frutti di questa pazienza? Di fronte al
peso immancabile della vita, come ti poni da cristiano: lo fuggi, lo rimuovi,
lo scarichi sulle spalle degli altri, ne cerchi pervicacemente una
giustificazione, oppure ti abbandoni fiduciosamente a Dio, consapevole che,
alla luce del Crocifisso, questo è il luogo privilegiato della grazia?
3. Dio ti forma attraverso le prove che sono il suo scalpello sulla
tua pelle! Prova a guardare a queste come al luogo dove Dio ti chiama a
seguirlo sulla croce, perché questa è la vita cristiana. Cosa ti dice oggi la
fatica del vivere in chiave vocazionale?
Sei cosciente di essere prediletto da Dio e quindi originato da
un’intenzione d’amore, oppure sei in fondo anche tu un convinto
costruttore di te stesso, un homo faber suae fortune (con tutto quanto abita la
tua vita?) Sei riconoscente per quello che sei e per quello che hai o ci sono
cose di cui continui a lamentarti “mormorando” come il popolo d’Israele nel
deserto, o come la stupida moglie di Giobbe?
218
127
10. Affettività serena
Romano Guardini parlando delle età della vita evidenzia come “il giovane
porta dentro sé un'infanzia vissuta bene o male; l'adulto, lo slancio del
giovane; l'uomo maturo, la ricchezza delle opere e dell'esperienza dell'uomo
adulto; il vecchio, il patrimonio della vita intera”.38
La prima stagione nel cammino mai concluso di maturazione affettiva è
quella che porta il giovane a scegliere Gesù Cristo: una scelta per amore.
Amore giovane vuol dire passione, sentimento intenso, a volte travolgente,
sempre sincero e sicuro di sé, anche se privo dell'esperienza di vita. È il
primo amore, fresco e ricco di vitalità, anche un
po' idealista, forse, al punto da sembrare ingenuo e poco affidabile.
Ma è normale e desiderabile che vi sia questa carica d'amore e d'idealita. Per
tre ragioni.
a. Anzitutto perché tale carica sembra corrispondere ai due tratti
caratteristici della sensibilità giovanile: lo slancio vitale e l'inesperienza, cui
sono connessi ben precisi atteggiamenti, come la fiducia assoluta negli ideali,
il sogno di cambiare il mondo, il ripudio dei
compromessi a fronte del difetto di oggettiva (dimensione che oggi sembra
un poco smorzata)
b. la carica data dall’io ideale che supera quello reale con tutti i rischi che
esso comporta.
c. si avverte un'attrazione profonda verso qualcosa di vero-bello-buono,
qualcosa che si percepisce come intrinsecamente amabile e che di fatto si
ama intensamente, poiché vi si riconosce progressivamente la propria
personale identità.
Il legame fra chiamata e maturità affettiva è strettissimo perché
- si percepisce la propria vocazione primariamente come chiamata
ad amare prim'ancora che a servire
- e inoltre come legata a una proposta d'amore del tutto gratuita e
imprevista, e a una risposta d'amore, senz'altro più grata che
eroica; proposta e risposta che chiedono il massimo delle capacità
affettiva.
Tutto è segnato da un amore appassionato per Cristo causa e meta
di ogni donazione vocazionale. Non esiste mistica senza una corrispondente
ascetica, non è credibile un'ascetica che non abbia radici mistiche, per non
cadere in un volontarismo frustrante o in una lotta sterile contro se stessi ed
il mondo. È la follia dell’amore che pone scelte di esclusività, di elezione di
totalità.
128
38 GUARDINI
R., L’età della vita, Vita e Pensiero, Milano 2004.
pensiero o in una libera calma. O si potrebbe chiudere la radio per avere un
po' di silenzio in camera. 0 rimanere una sera a casa invece che uscire. 0
sapersi dire di no qualche volta quanto al cibo, alla bevanda o al fumo, e così
via. Una volta che ci si è fatti attenti a simili possibilità, troveremo di
continuo occasioni di «esercitazione» alla libertà: sopportare un dolore
invece che subito eliminarlo con un calmante;accettare intimamente una
rinuncia che ci risulta buona per qualche motivo; andare incontro con
tranquilla cordialità ad una persona antipatica. Tali gesti e altri simili non
sono grandi cose. Parlando di ascesi non occorre parlare di rigorosi digiuni,
di veglie notturne, di aspre penitenze, ma semplicemente di allenamento a
una vita corretta. Della verità che la nostra esistenza si comporta
diversamente da quella dell'animale. Che essa e vita umana dove gli impulsi
interiori vengono collocati dallo spirito in una magnifica ma anche rischiosa
libertà. E’ questo spirito che conferisce loro tutta la loro dinamica. Deve
perciò anche esplicare una potenza ordinatrice, quella per cui la vita non
viene distrutta ma avviata verso la sua pienezza.
217
I profeti del vitalismo dicono che la vita non si può mutilare; che
bisogna spremere tutte le sue possibilità e goderne. Se poi si domanda che
cosa sia propriamente il contenuto di questa vita, il suo senso, la sua norma,
essi rispondono: essa stessa, la «vita» forte, sentita, ricca. Ma è vero tutto
ciò? La vita è essa stessa il suo senso a sua misura? Cosi parlano non
soltanto gli uomini della strada, ma interi sistemi filosofici. Ma non è forse
rivelatore il fatto che oggi abbiamo loro esatto contrario, ossia una filosofia
della delusione e della nausea? Il senso dell'atto vitale non consiste nel
godimento della sua propria forza e soddisfazione, ma nella realizzazione di
ciò che è stato affidato all'uomo. L'uomo vive realmente e pienamente
quando conosce la responsabilità sua propria; quando compie l'opera che lo
attende; quando serve alle creature umane che gli sono state affidate. Ma
riconoscere il giusto e sceglierlo, scartare il falso – questo continuo passo
oltre i propri desideri nel dovere – ecco l'ascesi. Guardiamo infine a ciò che
decide assolutamente del senso della nostra esistenza, cioè al rapporto verso
Colui che ci ha creati, sotto i cui occhi noi viviamo e davanti a cui, dopo
qualche anno su questa terra, dovremo apparire. Allora vedremo facilmente
che non potremo realizzare tale rapporto senza disciplina e superamento di
noi stessi.
L'uomo non è spinto a Dio di forza. Se egli non vi si orienta da sé,
se non prega mattina e sera, se non dà importanza ai giorni del Signore, alle
domeniche, se non ha mai a portata di mano un libro che gli richiami
qualcosa della «altezza, lunghezza, larghezza e profondità» (Ef 3, 18) delle
cose di Dio, la vita gli scorrerà di continuo via lontano dai sommessi
avvertimenti che da quelle cose discendono. E quando dovrà essere con Dio
si annoierà, apparendogli la sfera religiosa come vuota. Conferenze, giornali,
radio gli diranno che per l'uomo moderno i valori e i rapporti religiosi non
sussistono più e si sentirà non solo giustificato,ma immerso nella corrente
dell'universale progresso. Perché Dio ci divenga familiare in modo da
trovarci con Lui volentieri e con il sentimento d'una presenza viva, è un'altra
volta necessario – come per ogni serio interesse – l'«esercizio». Anche
questo dev'essere sempre di nuovo voluto e compiuto con superamento di
sé: allora la sua presenza si dona a noi in grazia.
Dobbiamo così imparare a vedere nell'ascesi un elemento d'ogni
vita giustamente vissuta. Faremo bene a esercitarci nel modo in cui, per
amore della misura, si frena un impulso; nel modo come si può lasciare
perdere ciò che è meno importante, ma allettante, per quanto è più
importante; nel modo come ci si prende noi stessi in mano per essere
spiritualmente liberi.
Per esempio ci si potrebbe proporre – il lettore non scambi questa
precisione per pedanteria – durante una passeggiata in città di non lasciarci
attrarre da persone o da reclami, ma di contenere lo spirito in un buon
216
L’ascetica, rappresenta la traduzione, su un piano spirituale, del
concetto di lotta, quale situazione di sviluppo dell'essere umano. Lotta
necessaria e inevitabile, fondamentalmente, per una ragione psicologica ben
precisa: per desiderare il bene reale occorre scoprire e abbandonare il bene
apparente.
Nelle prime fasi formative è forte una duplice dimensione:
* la dimensione “drammatica” dove si deve con fatica: ric ono scere
le pro prie imm aturità, di sap er reg ger e la solitudin e, di sap ers i opporr e
alla per ver sa log ica del pia cere che mor tifica (= da la mor te) ecc…
* la dim ens ione “an alg esica” che vor reb be togliere ogni for ma
di fatica , rende ndo ci così vul ner abili soprat tutto in cam po aff ettivo . È
nec essari a allora una discesa agli inferi della propria passionalità, della
propria tendenza narcisista, del proprio bisogno di possedere l'altro, delle
proprie schiavitù ecc., provoca, insieme alla sorpresa, una sofferenza che e
sempre salutare.
Un giovane può considerarsi sufficientemente maturo da un punto di vista
affettivo-sessuale se sta progressivamente acquisendo le seguenti
caratteristiche personali.
A. Conoscenza di se e del proprio cuore. Ossia deve conoscere
sufficientemente la sua interiorità tanto da aver individuato il qual è la sua
area di maggior debolezza tanto da poter legare questa immaturità al
percorso di crescita generale. È segno di maturità la disponibilità a farsi
aiutare. Imparare ad imparare. È l’arte della docilità.
Opposto invece è una certa pretesa di «far da se» o il non tirar mai
fuori il problema affettivo-sessuale o la ambizione di conoscersi (che
nasconde una sottile paura).
B. Libertà affettiva e relazioni oggettuali totali. Non basta il
sapere, occorre controllare l’immaturità affettiva, al punto da esserne
progressivamente libero, nel cuore e nei desideri, nella mente e nella
fantasia, nelle scelte e nello stile di vita. Immaturo invece è chi non sa vivere
adeguatamente la tensione legata alla rinuncia dell'istinto sessuale o la sente
come un sacrificio troppo pesante, come una tensione che toglie la gioia di
vivere, o chi non sa imporsi una disciplina della vita affettiva perché non sa
coglierne l'aspetto profondamente liberante.
* libero di scorgere il positivo presente nella propria esistenza e di
godere dell'affetto gia ricevuto dagli altri (┴ ingrato che ha sempre da lagnarsi
della propria vita e di quanto non ha ricevuto)
* libero di guardare anche al negativo provando in Cristo a dare
una senso che vada al di là della superficie (┴desidera solo o soprattutto ciò che
gratifica i suoi bisogni)
129
* libero con una identità positiva che non necessita di costanti
relazioni compensative (┴bisogno di sentirsi importante per qualcuno o d'appoggiarsi
a qualcuno)
* libero è chi ama la propria vocazione con lo stile ad essa relativo
(┴che aderisce ma senza un particolare entusiasmo o senza cogliere la bellezza e il gusto
della sua scelta di vita; o ancora chi dimostra di non saper amare secondo la sua
vocazione, con uno stile specifico legato ad essa)
* libero è soprattutto colui che ha ferme due certezze strategiche:
- la certezza d'essere stato amato, da sempre e per sempre,
- e la certezza di poter amare per sempre.
Più queste certezze sono forti e stabili, più il soggetto è
libero affettivamente e in grado di scegliere d'esser celibe per il
regno.
l'incontro del primo amore comincia in assoluto quello che è il compimento
dell'amore. Che un vero matrimonio può sussistere soltanto con
l'autodisciplina e il superamento. Allora esso diviene autentico e capace di
generare la vita e di avviarla nel mondo.
Qualcuno impianta un'impresa, incomincia un lavoro o qualunque
altra cosa comporti la sua professione. Pensiamo al caso migliore: che costui
cioè si ritrovi nella professione che gli si attaglia; che gli sia consentito di fare
ciò per cui è nato e che perciò lo faccia volentieri. Costui dapprima trova
gioia in quello che fa e vi impegna tutte le sue forze. Ci sarebbe forse già
bisogno che uno gli dicesse di mantenersi nella misura del possibile e di non
forzare. Dopo qualche tempo, infatti, la tensione crolla, e tanto più
improvvisamente quanto più impetuoso era stato l'inizio, ma i compiti
continuano. Che cosa sarà di essi se ciò che regge il tutto non è che il «vivere
totalmente se stessi», il piacere del lavoro, il gusto del successo? Ne segue
anzi tutto indifferenza, ma poi subito disgusto e alla fine tutto precipita.
Nessuna opera fiorisce se non esiste a suo riguardo una
responsabilità, sulla cui base l'uomo compie il suo lavoro nella fedeltà e nel
superamento di sé.
La vita dell'uomo ha molti strati. C'è quello più superficiale, quello
più profondo, quello essenziale. Ciascuno strato ha i propri bisogni, i suoi
valori, ciò che gli dà pienezza e lo ricolma. Evidentemente non è possibile
avere tutto in una volta. Bisogna scegliere; lasciar perdere una cosa perché
un'altra possa essere.
Guardiamo un'altra volta nella vita di tutti i giorni. Chi va spesso al
cinema perde il gusto al vero e grande spettacolo, non è più in grado di
capirlo. Egli deve quindi domandarsi che cosa vuole, e scegliere: scartare le
superficiali attrattive dei film per poter essere in grado di esperire ciò che
vale di più forse diventarlo ancora, oppure rimanere come prima e
persuadersi che è quella l'arte del suo tempo, che egli ha bisogno di
distensione, che dopo tutto un giorno di fatica non può pretendere da sé
l'impegno che il teatro esige, e via dicendo. Chi legge molta inutile
cianfrusaglia perde la sensibilità per le letture autentiche. Egli deve dunque
ben chiarirsi che cosa è più importante per lui. Chi è di continuo in mezzo
alla gente e discorre e discute, perde la capacità di essere con se stesso e di
tutto ciò che là solo può rivelarsi. Un'altra volta: aut-aut. Più di una vittoria
su se stessi sarà necessaria per venire a capo del caos che ci disperde. Se
l'uomo vuole ricavare dalla vita che dura così pochi, così veloci anni, le cose
preziose che essa può dare, deve sapere che ciò è possibile solo se egli
rinuncia a ciò che vale di meno per avere ciò che vale di più.
130
215
Gli istinti fisici che emergono dall'organizzazione psico-fisica
dell'uomo si presentano alla coscienza con una tale forza elementare che
quelli spirituali vengono facilmente dimenticati. Ma in realtà questi,visti nella
totalità dell'uomo, sono ancor più decisivi. La costruzione di ciò che
chiamiamo la personalità, la sua autoaffermazione nel mondo, il suo agire e
il suo creare: tutto ciò i regge su istinti spirituali. Esiste, per esempio, un
impulso verso un proprio valore e ascendente personale, verso il potere in
ogni sua forma. Esiste un impulso verso la compagnia e la comunità; verso
la libertà e la formazione personale. Esiste il desiderio del sapere e del creare
artistico, e via dicendo. Tutti questi istinti hanno, come s'è detto, la loro
importanza in quanto spinte su cui si regge l'autoaffermazione e
l'autoespansione dell'uomo. Ma essi hanno anche la tendenza a spingersi
oltre la misura, a detorcere la propria vita dal rapporto con quella altrui e ad
agire così in modo da turbare o distruggere. Perciò si rende di continuo
necessaria una disciplina i cui punti di vista sono definiti dall'etica e dalla
saggezza, e questa disciplina si chiama ascetica.
Ma lasciamo stare le tesi generali e guardiamo alla realtà. Pensiamo,
per esempio, a un'amicizia. Due persone si sono conosciute e hanno trovato
gioia l'una nell'altra. Hanno scoperto armonie reciproche nelle loro opinioni
e nei loro gusti, si è sviluppata una simpatia e ciascuno dei due ormai ha
fiducia nell'altro. Essi pensano che il loro legame sia sicuro e lo vivono
senza ulteriormente preoccuparsi. Ora ci sono in loro due, com'è naturale,
anche diversità e queste a poco a poco si fanno sentire. Nascono malintesi,
contrarietà, tensioni. Nessuno dei due cerca i motivi di tutto ciò la dove
realmente esistono, cioè nella propria autosicurezza e trascuratezza, e di lì a
poco ciascuno sente che l'altro gli da ai nervi. La calma fiducia di prima
sparisce, e piano piano tutto si disgrega. Se un'amicizia deve durare, occorre
vigilare su di essa. Ci dev'essere qualcosa che s'incarica di custodirla.
Ognuno dei due deve consentire all'altro lo spazio per essere quello che è;
ognuno deve farsi consapevole dei propri difetti e guardare a quelli dell'altro
on li occhi dell'amicizia. Volere questo e sostenerlo contro la suscettibilità, la
pigrizia, l'angustia della propria natura, è un'altra volta ascesi.
Perché tanti matrimoni diventano opachi e vuoti? Perché in
ognuno dei coniugi domina la concezione fondamentale che ciò di cui si
tratta nel matrimonio sia la «felicità», ossia che ciascuno dei due possa
adempirsi unicamente nel «vivere pienamente se tesso». In realtà un vero
matrimonio è uno stare insieme nell'esistenza, a reciproca prestazione di
aiuto e fedeltà. Matrimonio significa che «l'uno porti il peso dell'altro», come
dice Paolo (Gal 6, 2). Perciò la responsabilità dello spirito deve vigilare su di
esso. Sempre di nuovo l'uno deve accettare l'altro quale egli è;deve
rinunciare a ciò che non può essere. Deve lasciar perdere quei film arsi e
bugiardi, che distruggono la realtà del matrimonio, e sapere che solo dopo
214
10.1 Corporeità e vocazione39
10.1.1 Il corpo40
Il corpo è stato, lungo i secoli, il luogo del sospetto e
dell'ambiguità, con una varietà di letture che non è facile armonizzare in
teoria e in pratica.
"Quale" corpo è oggi al centro di tanto interesse? che cos'è il
corpo? e per farne che?
[…] c'è il rischio di uno smembramento, di una parcellizzazione del
corpo, con la conseguente perdita del suo senso globale?
Vedi le immagini pubblicitarie di prodotti specifici per alcune parti
del corpo, vedi anche i settori specialistici della medicina.
E non c'è pure il pericolo che l'attenzione ossessiva al proprio
corpo personale, individuale, sgretoli la relazione con gli altri?
[…] Il nostro corpo, infatti, è soggetto prima e più che un oggetto;
è soggetto non semplicemente del tatto e della vista, ma di tutte le nostre
azioni e passioni.
Antecedentemente a ogni riflessione, la realtà del corpo si impone:
quando nasce, subito si distingue dalla madre, è oggetto di cura e di amore,
si imbatte in altri corpi, e alla fine riconosce se stesso.
Chi sono io? La risposta che do corrisponde a come comprendo il
mio corpo, primo luogo di conoscenza di me e degli altri. […]
Mi viene la tentazione di dire: io sono il mio corpo. Ma poi sento
che, di fatto, dico: io ho un corpo. E questa ricchezza crea confusione.
Il corpo mi definisce, mi limita. È sempre al centro del mio
orizzonte di azione e di pensiero; tuttavia percepisco che mi mette in
contatto con ciò che è "oltre" […]
39
Cfr. MARTINI C.M., Sul Corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000.
MANICARDI L., Il corpo: via di Dio verso l'uomo, Qiqajon Comunità di Bose,
Magnano 2005.
MARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo il mio cuore…» (Ger 3,15).
Sessualità, affettività e vocazione all’amore: un itinerario formativo, un cammino spirituale, Ed.
San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, pp. 98-115.
ZATTONI M.T.-GILLINI G.-MICHIELAN M.-RESCHIGLIAN M.,
Che male c’è? La sessualità nella vocazione all’Amore, Ed. Porziuncola, Assisi 2007, pp. 781.
40 MARTINI C.M., Sul Corpo…, oc, pp.
131
Mentre è vivo, io sono lì dove lui è, anche se il mio cuore sa di
abitare anche altrove, di abitare là dove desidera e ama. Per questo il corpo è
continuamente inquieto e in ricerca.
Che cosa cerca? La sua identità? la sua verità? Un vero enigma!
Il mio corpo mi colloca in uno spazio e in un tempo, mi separa
dagli altri e mi unisce, si muove e si arresta, è attratto e respinto, accende e
spegne il pensiero.
Si verifica per il corpo una certa coincidentia oppositorum. Fa tutto, ma
tutto non è; è uno solo e ha bisogno di tutti; c'è, prima non c'era e poi non
ci sarà; conosce ciò che è bello e buono, e conosce anche ciò che è brutto e
gli fa male . Implicitamente e come spontaneamente il corpo è concepito in
opposizione allo spirito, e per certi versi è così.
Più profondamente, lo spirito è il respiro, la vita del corpo: fa sì
che esso viva e viva in un certo modo. È lo spirito che fa essere un corpo
ciò che è, che lo segna e lo differenzia.
Posso dire che il mio corpo e in particolare il mio volto sono la
sedimentazione e la storia del mio spirito.[…]
Non è affatto scontato un rapporto pacifico con il proprio corpo
che, sovente, suscita simpatia e insieme diffidenza. Lo si esalta e lo si
denigra, lo si considera come un valore assoluto e lo si legge come carcere
dello spirito, dominio della necessità, fonte di dolore.
Fin dagli inizi la nostra cultura occidentale legge il "corpo" in
contrapposizione ad "anima".
Il corpo è ciò che abbiamo in comune con tutte le altre realtà
terrestri; l'anima è ciò che ci distingue come uomini.
Questa è la parte vitale e incorruttibile, dotata di intelligenza e
libertà; quello è la parte mortale e corruttibile, soggetta a passioni e
necessità.
Per Socrate la morte non è altro che la separazione dell'anima dal
corpo; l'anima esisterebbe da sola e sarebbe anzi bene che fin da ora si
tenesse il più lontano possibile dal corpo (Fedone 64a).
Platone, dal canto suo, pensa che l'anima si trovi unita al corpo
accidentalmente, pensa che il corpo, in greco soma, sia la tomba, in greco
sema, dell'anima, la prigione da cui uscire. In attesa della liberazione
definitiva l'anima deve sottometterlo e governarlo per compiere il suo
cammino di ascesa.
A questa posizione spiritualistica, di disprezzo del corpo, si
contrappone quella materialistica. L'anima è spiegabile in modo meccanico,
come moto del corpo: il corpo e i suoi moti sono santi (Epicuro, fr. 130.414).
Tra le due posizioni estreme e semplificatorie, mai tramontate, ce
ne sono altre più sfumate e articolate. Comunque queste concezioni, con le
successive spiegazioni e variazioni, stanno alla base della nostra
comprensione occidentale dell'uomo.
Tutto ciò è un avviso – per sottolinearlo ancora una volta
energicamente – del fatto che l'istinto nell'uomo significa qualcosa di diverso
che nell'animale, e che è insensato per noi uomini cercare nell'animale, e cioè
nella natura pura, il criterio di giudizio sulla nostra vita. Ora, «ascesi» vuol
dire che l'uomo si risolve a vivere da uomo. Da qui discende per lui una
necessità che non si dà per l'animale, la necessità di contenere l'istinto in un
ordine liberamente voluto e di vincere l'inclinazione all'eccesso o alla
deviazione. Non nel senso che gli istinti come tali siano cattivi. Essi
appartengono all'essenza dell'uomo e agiscono a tutti i livelli e in tutte le
forme della sua vita. Essi costituiscono la sua riserva di energia. Indebolirli
vorrebbe dire indebolire la vita stessa; ora la vita è buona. C'è una profonda
corrente spirituale nella storia della religione e dell'etica, la quale scaturisce
dal principio che l'istinto in quanto tale, la vita sessuale,la realtà corporea,
anzi la materia, tutto ciò sia semplicemente cattivo, sia addirittura il male per
se stesso,mentre lo spirito in quanto tale sarebbe semplicemente il bene. Si
tratta del dualismo, una dottrina in cui certamente agiscono nobili motivi.
Ma nel suo complesso esso è un errore pericoloso; si capovolge infatti ogni
volta nella capitolazione che si consegna all'istinto. Il vero motivo
dell'autentica ascesi non sta in una simile espressione della vita istintuale, ma
nella necessità di condurla nel suo ordine appropriato.
Quest'ordine si definisce a seconda dei vari punti di vista: esigenze
della salute, riguardi per gli altri, doveri della professione e del lavoro.
Ciascun giorno pone sempre nuovi postulati a mantenersi nell'ordine, e
questo è ascetica. La parola – dal greco àskesis - significa esercizio: esercizio
di giusta condotta di vita.
132
213
E’ da considerare inoltre il fatto che esiste una scala di valori. Per
accennarvi: ci sono valori nella vita quotidiana, come quelli che
appartengono alla vita fisica; più in alto si trovano i valori della professione;
più in alto ancora quelli delle relazioni personali e delle creazioni spiritualiculturali; infine quelli che si attuano nell'immediato rapporto con Dio. Noi
realizziamo questi valori con le energie del nostro essere, le quali sono però
limitate, e noi dobbiamo vedere chiaramente verso quali obiettivi le
dobbiamo inalveare. Noi dobbiamo scegliere e attuare la scelta. Tutto ciò
costa sacrificio e sforzo. Ecco l'ascesi. Ma, anche a rescindere da ciò,
ognuno di noi sa dell'arrendevolezza dell'umana natura, sa pure quanto sia
necessario imporsi superamenti volontari, non richiesti da finalità
immediate.
Essi sono necessari affinché la vita possa soddisfare facilmente ai
postulati del dovere immediato e improvviso. Essi sono inoltre necessari
come via nella libertà, la quale consiste appunto nell'essere padroni di se
stessi, dei propri stimoli e dei propri stati d'animo.
Più sciocco ancora è quanto oggi spesso si fa quando si vuole comprendere
l'uomo dal punto di vista della macchina, ma lasciamo stare per ora tale
questione. In ogni caso a insensato assumere o volgimento della vita
dell'animale come norma per la vita umana.
Che cosa introduce ed effettua dunque lo spirito nell'istinto
dell'uomo? Nell'impulso al nutrimento, alla soddisfazione sessuale,
all'attività, al riposo, alla comodità? Anzitutto qualcosa di sorprendente: lo
intensifica. Nessun animale asseconda l'istinto nutritivo come l'uomo, che si
è fatto del gusto uno scopo a sé e che n tal modo si rovina. In nessun
animale l'istinto sessuale tocca gli eccessi e gli arbitri a cui arriva l'uomo, che
si lascia istigare da esso fino alla distruzione della vita e dell'onore. Nessun
animale ha il gusto di uccidere che ha l'uomo, la cui arte guerresca non ha
riscontri nel regno animale.
Tutti gli istinti lavorano nell'uomo diversamente che nell'animale.
Lo spirito traspone gli impulsi vitali in una libertà del tutto particolare. Essi
si fanno più forti, più profondi. Acquistano più vaste possibilità di domanda
e di risposta, ma nello stesso tempo perdono la difesa che propria delle
leggi organiche, alle quali essi nell'animale restano legati e cosi garantiti.
Nell'uomo finiscono con il non avere regola e non l'essere insidiati nel loro
stesso significato. Il concetto del «viversi» è un falso concetto. L'animale «si
vive», deve viversi, ma con l'uomo. Lo spirito dona all'istinto un significato
nuovo. Si esplica nell'istinto e suscita in esso profondità, carattere, bellezza.
Lo ilua nel rapporto con il mondo dei valori, come pure nel rapporto con
ciò che sostiene questi valori, la persona. Lo solleva in tat odo nella sfera
della libertà. Nell'animale gli istinti sono «natura»; lo spirito elabora da essi
ciò che noi chiamiamo «cultura» (Kultur), inteso il termine in quanto
espressione di responsabilità e di superamento. Nell'animale l'istinto cerca
l'ambiente adeguato la sua specie; ma con ciò stesso lo inserisce nelle
condizioni e nelle delimitazioni dell'ambiente. Nell'uomo l'istinto porta
verso 'incontro libero con la vastità e la ricchezza del mondo; ma con ciò
stesso esso viene anche posto in crisi. Tutto ciò che va sotto il nome di
eccesso, di affinamento squisito, di innaturalità d'ogni genere diviene
possibile e allettante.
Lo spirito crea un'altezza sopra l'istinto. In tal modo non lo
distrugge, non si fa, come pensa la stolta formula, «avversario della vita».
Tale diviene soltanto lo spirito corrotto che tradisce a propria essenza.
Invece lo spirito si conquista la possibilità di regolare e di plasmare l'istinto e
di condurlo verso un significato superiore. Verso la sua perfezione, anche e
precisamente in quanto istinto, ma certo con il pericolo della contraffazione,
dell'antinatura.
212
10.1.2 La prospettiva biblica41
La tradizione giudaico-biblica non conosce il dualismo greco di
anima e corpo non disponendo neppure di un lessico appropriato per
designarlo. La distinzione fra corpo, anima e spirito fu introdotta con il testo
dei LXX, che deviò un poco dall’antropologia biblica, tracciando percorsi
d’alterità in contrasto fra loro. Il testo masoretico conosce tre termini che
verranno sinteticamente delineati: nefĕ
s, bâś
âr, leb.
Il termine nefĕs, tradotto dai LXX con yuxh/ e dai latini con
anima, indica l’indigenza dell’uomo ed i suoi bisogni. Per questo non è
un componente dell’umanità ma ne è l’essenza. Con il passare del tempo, il
termine metaforicamente assunse il significato di desiderio, aspirazione,
brama e, successivamente, il valore di vita, simboleggiata nel sangue. Per
questo il passaggio dal mondo semitico a quello greco latino è stato
improprio, in quanto il primo termine non ha coincidenza con l’anima, ma
con la vita dell’uomo nella sua vulnerabilità esistenziale.
Bâś
âr, invece, non significa corpo – sw=ma – come invece
traducono i LXX, ma puttosto carne – sa/rc – intesa come simbolo di
caducità ed impotenza dell’uomo rispetto all’unica potenza che è quella di
Dio – ruah. Essa non rappresenta la negatività della carne rispetto alla
positività dell’anima, come invece sembrerebbe ritrovabile nel mondo greco
postplatonico.
La carne nel contesto semantico semitico non è né positiva né
negativa in sé, ma assume una connotazione valoriale differente a seconda
della sua fedeltà o infedeltà all’alleanza con Dio. Allora bâś
âr, come nefĕ
s,
indica l’impotenza e la caducità della vita quando rompe la sua alleanza con
la potenza di Dio, non in quanto componente dell’umanità ma come
debolezza totale dell’uomo quando si erge nella sua solitudine e finitudine
contro Dio.
Di carne è il cuore dell’uomo (il leb) che, differentemente
dall’accezione che solitamente gli viene attribuita, non è il segno del
sentimento ma della sinergia di ragione, volontà, sentimento. Sinergia di
conoscenza ricercata, decisione per o contro Dio, amore che costruisce la
gioia del vivente.
Da quanto affermato è chiaro che da un punto di vista biblico non
si sostiene nessun dualismo antropologico, ma solo un’assoluta e radicale
distanza tra l’onnipotenza – ruah – di Dio e l’indigenza – nefĕ
s, la caducità –
bâś
âr, l’insicuro muoversi – leb, dell’uomo.
Chi lede il corpo dell’uomo 42 lede allora l’immagine di Dio, perché
il corpo è carne vivificata dalla sua potenza creatrice. 43
41 LEONI E., La danza nella liturgia. Nella tradizione della Chiesa,
Università Cattolica di Milano 1999-2000.
42 Cfr. Gn 4,10.
133
L’uomo non è carne, ma corpo, cioè carne vivificata dalla potenza
di Dio, e perciò sottratta ad ogni forma di negatività e quindi di morte a
condizione che ascoltando la chiamata divina acconsenta ad un rapporto
d’alleanza col “Vivente”.
16. Fatica, sacrificio e ascesi
16.1 Ascesi 72
10.1.3 Il corpo nel cristianesimo44
Sappiamo che il cristianesimo si incontra, fin dagli inizi, con il
mondo greco. Pur se ne assume alcuni aspetti, mantiene ferma la concezione
positiva che la Bibbia ha del corpo, nonostante molte tendenze contrarie.
[…]
In ogni caso, a una lettura pessimistica del corpo si contrapponeva
sempre il dato rivelato, incontestabile: l'uomo è molto bello (cf Gn 1,31), il
corpo viene da Dio, è a sua immagine e somiglianza, la Parola è diventata
carne e la carne è il cardine della salvezza secondo l'espressione di
Tertulliano «caro salutis cardo».
Il Verbo si è fatto carne dandoci del corpo una visione totalmente
nuova. Assumendo la nostra carne mortale, il Figlio di Dio ha voluto
partecipare della nostra debolezza, della nostra fragilità. Una fragilità che
non oscura più la bellezza del nostro corpo.
Come infatti il corpo di Gesù è rivelazione della Gloria, visibilità
dell'Invisibile, narrazione di Dio tra gli uomini, così anche il nostro corpo
nella sua completezza di carne e di spirito è destinato a essere specchio della
bellezza divina.
Possiamo dire che, a motivo del mistero dell'Incarnazione che
trova compimento nel mistero della Risurrezione, il cristianesimo ha al
centro il corpo e la corporeità.
Il corpo di Cristo, offerto per noi, è il cuore della vita e della
riflessione cristiana. Per questo san Paolo dice che il nostro corpo diventa
«culto logico (loghikòs, che concerne la ragione profonda della persona) e
gradito a Dio» (cf Rm 12,1); non è più vissuto secondo schemi che lo
svalutano, ma secondo la proposta di appartenere a Cristo come Cristo
appartiene a noi.
Naturalmente la carne rimane l'aspetto debole e mortale dell'uomo.
È un dato di fatto che sottostà agli usi negativi del termine:
confidare nella "carne", vivere secondo la "carne", significa chiudersi nei
propri limiti e fare di essi il luogo di difesa e di aggressione.
Viene in mente, per contrasto, la saggezza dei medievali: «Homo
habet animam, sed est corpus», polvere, terra.
43 Cfr.
134
Gn 1,2.
C.M., Il corpo, o.c.
44 MARTINI
C'e stato un tempo in cui si parlava dell'ascesi e di cose simili in
tono non solo di ripulsa ma di indignazione, come se il termine indicasse
cose non solo pervertite ma antinaturali e offensive. L'opinione dominante
era che l'«ascesi» nasceva da paura e ostilità contro la vita, da un deforme
sentimento contro natura. In essa si sarebbe tradito l'odio con cui il
cristianesimo odiava il mondo, l'animo velenoso del prete che denigra la
vivente natura allo scopo di affermare la propria esistenza e via dicendo.
Era il tempo della fioritura borghese-liberale. Ma da allora
l'atteggiamento si è mutato. Chi voleva vedere ha visto ciò, che si occultava
sotto il concetto di «servizio della vita» (Lebensdienst). Tuttavia il termine
«ascesi» suscita ancora antipatie.
Vale la pena chiederci che cosa precisamente significhi. Nella
polemica contro l'ascesi molta dell'ostilità insorgeva dal desiderio d'un
lasciapassare verso l’arbitrarietà dell'istinto. Ma insieme vi operava un falso
concetto della vita; o più esattamente, del modo come essa si sviluppa e
fruttifica.
Come si svolge la vita della natura? Volentieri l'uomo viene
confrontato con essa quando ci si vuole fare spazio per qualcosa che
contraddice allo spirito di Cristo. Come va la «vita»? Come cresce e si
espande un animale sano? Seguendo i propri istinti. Tutto cammina allora
correttamente, poiché precisi istinti vigilano a che nulla sbagli strada.
Quando l'animale è sazio smette di mangiare. Quando ha riposato
abbastanza non se ne sta a giacere ozioso. Quando lo investe l'istinto
riproduttivo, l'animale lo soddisfa; finito il tempo, tace l'istinto. II modo, il
tipo, se cosi si può dire, secondo cui la vita della natura si effettua, è quello
della spontanea auto esplicazione. Ciò che è dentro si esprime, si vive.
Come stanno le cose con l'uomo? Nell'uomo esiste e opera
qualcosa che non esiste nell'animale; è reale ed effettivo a tal punto che
bisogna essere proprio ciechi per non vederlo: lo spirito. Lo spirito
trasferisce tutto ciò, che è «natura» in una situazione nuova.
Nello spazio dello spirito l'istinto ha, cioè, un significato diverso da
quello che ha nella natura pura. Esso gioca e agisce in altro modo; ed è
perciò sciocco voler comprendere la vita dell'uomo da quella dell'animale.
72
211
GUARDINI R., Virtù…, oc, pp. 97-108.
15. Uso del tempo
Il valore e la valorizzazione del tempo, soprattutto di quello libero. Dalla
visone della cultura radicale, a quella pragmatica a quella teologica e salesiana. Qoelet
(Qo 3) e Paolo (Col 3,17)
Per il cammino di interiorizzazione
Come vivi il tuo tempo: buttandolo via? in autogestione? in
obbedienza alle mediazioni di bisogno? lasciandotelo costruire e consumare
dal bene che puoi fare? In un costante atteggiamento di riconoscenza per ciò
che ricevi?
210
10.1.3 Il corpo in relazione
[…] Il corpo dell'uomo parla, parla e ascolta perché ogni altro
corpo gli parla […] con il suo stesso modo di essere […]45
45
GILLINI G.-ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp.161-170.
Non si può non comunicare, ogni comportamento è comunicazione e
viceversa. […]il nostro corpo dice
molto più di ciò che crediamo di far vedere all'altro, anche se non ne
siamo consapevoli ed anche (non finiremo mai di stupirci) al di là delle nostre
intenzioni. […]
Il nostro corpo, però, parla. Ed è una fortuna, perché prima o poi ci
costringe a fare unità con il nostro mondo interno, a conciliarci con noi stessi. Per
dirla in termini banali: ciò che pensiamo dell'altro o puzza o profuma. Anche con le
parole più delicate o più sfuggenti o più diplomatiche, il nostro corpo emana il
cattivo odore del nostro disgusto, della nostra distanza, del nostro giudizio. Ma, al
contrario, anche con parole scarne, o addirittura rozze, il nostro corpo emana il
profumo dell' alleanza, della vicinanza, della condivisione se il nostro mondo interno
è accogliente con l'altro. […]
Il tuo corpo dice, dichiara, proclama il tuo modo di metterti in relazione
con gli altri. […]
Facciamo un secondo guadagno: "abitare il proprio corpo" sembra un
intento pagano, proprio à la page se teniamo presente la massiccia dose di consigli e
strumenti di ogni tipo per un corpo bello, in forma, in benessere. Ma "abitare il
proprio corpo" è molto più che cercare l'aspetto fisico: è una forma pienamente
umana di rispetto per sé e per gli altri. È conciliarsi con la propria storia, con la
propria famiglia d' origine, con il "come si è fatti" («Bruna sono ma bella», dice la
sposa del Cantico). Il corpo non è il luogo del "nonostante" (nonostante non sia
bello, non sia piacevole, ecc.) ma il luogo che Dio mi ha dato per cominciare a
cantare i suoi benefici: se non avessi questo corpo, non sarei io.
[…] «Dio non ha che te per amare te; se non hai nessuna cura per te Dio
non può raggiungerti». […] Proprio nell’abitare il nostro corpo incontriamo l'altro. Il
corpo-grumo di relazioni, infatti, è il vivente provvisorio risultato di miliardi di
contatti, carezze, manipolazioni, coccole, ma anche di ferite, di assenze, di
microtradimenti («non c' eri quando ti aspettavo...») […] abitare il proprio corpo
significa assumere alcune linee di senso importanti
a) Prendere contatto con le proprie emozioni e apprendere il "controllo
degli impulsi" o 1' autocontrollo emotivo, […] è la capacità più importante che ci
rende umani e ci restituisce alla nostra intelligenza emotiva (il re-inquadramento
cognitivo indispensabile per superare le tensioni […].
b) Imparare a tranquillizzare se stessi, ed è arte: aver fiducia nel proprio
termostato emozionale, sapere che è l’io i1 capitano del proprio corpo.
c) Imparare a confortare se stessi, mettendo in atto meccanismi di
riparazione (adesso posso meritarmi una buona musica, un cioccolatino ecc. ecc.).
[…] è modalità del tutto umane in cui è più probabile che noi ci mettiamo in una
disposizione d'animo corretta, perché Egli ci dia la sua pace.
d) Conoscere umilmente i propri desideri, le proprie gratificazioni sane (e
distinguerle dalle proprie pretese!).
135
Nel mito greco, narrato da Platone, dell'uomo rotondo e perfetto
spaccato in due da Giove, con la conseguenza che ciascuno cerca sempre
l'altra sua metà, è presente la verità che sperimentiamo: il corpo come parola
non detta, realtà non completa, che rimanda ad altro.
Rimando che è molto di più di un semplice desiderio di
completezza fisica perché riguarda tutto l'essere corporeo dell'uomo in
relazione ad Altro da sé.
La Bibbia, nel primo capitolo della Genesi, sottolinea che il corpo
dell'uomo e della donna sono creati a immagine e somiglianza di Dio anche
in quanto maschio e femmina: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza... Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e
femmina li creò» (Gn 1,26.27).
Questa rivelazione è fondamentale per capire che cos'è il corpo e
come diviene se stesso.
C'è un secondo racconto biblico che spiega che cosa è il corpo: «Il
Signore disse: Non è bene che l'uomo sia solo... Allora fece scendere un torpore sull'uomo,
che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore
Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo.
Allora l'uomo disse: Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa...»
(Gn 2,18.21-23).
Qui Adamo dorme! Ritorna alla luce quando nasce, dalla ferita del
suo cuore, Eva, la sua altra parte. Si risveglia con un grido di gioia e di
meraviglia, e riconosce se stesso nell'alterità della donna. L'uomo esulta nel
superamento della solitudine, nella scoperta dell'altro da sé. I due testi della
Sacra Scrittura rispondono alla domanda cruciale sul corpo.
Il mio corpo ha una parola precisa iscritta in sé: questa parola è
l'altro, è richiamo dell'altro, il corpo diviene se stesso davanti all'altro,
mettendosi in relazione.
L'altro è però il mistero che sfugge a ogni analogia e riduzione di
similitudine; se voglio possederlo non è più “altro”, e io resto solo, senza
nessun altro.
La diversità dei sessi fa sì che il maschio e la femmina siano
incompiuti in sé e che ognuno dei due si definisca in rapporto all'altro.
Non c'è posto per il bel Narciso che si specchia nell'acqua: nella
propria immagine può solo annegare.
Le implicazioni di questa rivelazione biblica sono tante.
La parola iscritta nel corpo, cioè l'altro, dice l'Altro, parla di Dio,
del Santo: «Siate santi, perché io sono Santo» (Lv 11l,44). Santo significa appunto
«diverso, altro rispetto a ogni altro». Il corpo è per l'Altro, per il Signore (cf Cor
6,13). Il mio corpo è chiamato a vivere in un modo diverso, proprio di Dio,
della sua bellezza, a essere riflesso della gloria di Dio, «tempio di Dio» (1 Cor
3,16).
che viene da molto lontano, ma che è sempre lì e che probabilmente non se
n'è mai andato da noi. È mistica perché molto più che accettata, può essere
transvalorata, trasfigurata nella vita cristiana, diventando realmente redentiva
per le persone che ci sono affidate o che incontriamo sul nostro cammino,
come preti, religiosi, educatori, padri e madri. Credo che la solidarietà, intesa
in questo senso, come condivisione profonda dell'esperienza dell'altro, come
com-passione che sana, sia realmente un luogo di annuncio e condivisione del
Vangelo.
136
209
quello stile di personalità che più adeguatamente è in grado di entrare in
sintonia con la persona che incontro e che magari vive in una situazione di
sofferenza, fisica o psichica. Pensiamo al ministero della consolazione per
un prete o un religioso; ma pensiamo anche all'importanza che un genitore
possa sintonizzarsi sugli stati affettivi di un figlio che vive in una situazione
di soggettiva difficoltà.
Io posso realmente fare compagnia all'altro nella sua sofferenza, se
in qualche modo non la temo: è un luogo nel quale so di poter entrare,
perché è uno spazio che so abitare.
Certo, non è facile e nemmeno immediato saper entrare nella
sofferenza di un altro.
Ci possono essere modi di entrare nella sofferenza di un altro
senza abitarla, perché il dolore dell'altro è percepito come qualcosa da cui ci
si deve soprattutto difendere; ci possono essere, all'opposto, modi di entrare
nella sofferenza di un altro, ma come riassorbendola nella propria vicenda
biografica, così che alla fine non è più il dolore dell'altro che sento, ma il
mio. E il rischio è che anche questa sia per me un'esperienza insostenibile
oltre che possibilmente autocentrata e perciò sterile. Ad ogni buon conto
non si può pensare ad un ingresso nella sofferenza dell'altro che non sia
anche un po' autobiografico. La sofferenza dell'altro non può non
agganciare anche il mio vissuto di sofferenza e perciò farlo risuonare.
Si deve far diventare, però, questo spazio di risonanza come il
luogo della sintonizzazione affettiva con l'altro, e non invece come lo spazio
della memoria per me. Il primo esito, auspicabile, potrebbe essere trascritto
così: «Soffro con te e ti faccio realmente compagnia nel tuo dolore, perché
accetto di non difendermi dal dolore che tu sperimenti; ciò accade perché in
qualche modo ho dovuto entrarci e restarci anch'io». Il secondo esito, meno
auspicabile (ma sempre un pochino presente), potrebbe essere trascritto
così: «Soffro vedendoti soffrire, perché il tuo dolore mi ricorda il mio».
Può accadere che talora, pur con una reale disposizione del cuore,
si entri nella sofferenza dell'altro, ma senza abitarla. A volte è necessario,
difensivo: quando il dolore dell'altro è troppo grande se ne può essere
travolti. Se assunto come atteggiamento abituale, però, rischia di rendere
infeconda la consolazione: è il ricorso alla parola che spiritualizza, che
razionalizza o, peggio, che rende quel dolore uno stereotipo.
Il dolore dell'altro può assumere forme differenti: la perdita non
riguarda soltanto le esperienze di morte, ma anche quelle di abbandono o
fallimento affettivo, professionale o vocazionale; la stessa angoscia di avere
perduto Dio.
Ci collochiamo dunque in una prospettiva che vorrebbe andare al
di là della semplice accettazione e che si colloca in quella di un «realismo
mistico». La consapevolezza emozionale che proviene dall'ascolto di sé, è
reale perché assume ciò che c'è, e lo riconosce come parte di un desiderio
Nella Bibbia la coppia maschio e femmina, non è intesa, come per
gli altri animali, semplice mezzo per la conservazione della specie.
Essa, in quanto chiamata a diventare a immagine e somiglianza di
Dio, esprime a livello corporeo e tangibile il volto di quel Dio che è Amore.
Viene da dire che l'alterità sessuale costringe l'uomo a essere come
Dio, a mettersi in relazione di simpatia, di sinergia, di comunione, di
fecondità.
Da qui la grande stima che il cristiano ha per il corpo e la sessualità,
la cui dignità non deve mai essere falsata o svenduta. Da qui segue che la
sessualità non può essere né "sregolata" né "irragionevole": ha un senso, una
direzione, delle regole, dei limiti.
Il corpo umano, che porta il sigillo di Dio, a Dio rimanda proprio a
partire dall’amore reciproco dell'uomo e della donna: un amore non chiuso
in se stesso, non sufficiente a se stesso, bensì aperto a Colui che vuole essere
con l'uomo una cosa sola.
Esisto se amato ed esisto se amo. Realmente amore è il divino che
permette al nostro corpo di esistere. Dunque il sesso contiene una parola
sublime di amore, che realizza la persona a immagine di Dio la cui santità è
l'amore. Così, una sessualità che non riscopre la parola del corpo, riduce il
corpo all'insensatezza, lo disonora, lo disprezza, lo vuota del suo significato.
Il significato o non significato del corpo è dato dall'amore che si dona.
Donandosi, promuove la libertà, non donandosi e cercando se stesso, la
impedisce e la distrugge. La sessualità, dono di Dio, è un'energia a
disposizione di ciascuno. Dipende da me come usarla. […]
"Libertà" è un termine equivoco. Il corpo dell'uomo e della donna
è connessione tra necessità e libertà. È oltre l'istinto.
L'animale è regolato necessariamente dall'istinto e portato in una
determinata direzione. Il corpo dell'uomo, invece, è abitato dalla libertà
ragionevole della persona, è possibilità, è apertura. La libertà del cristiano è
vivere il corpo con la capacità di servirsene per amare. Non è fare ciò che
piace o soltanto ciò che devo, ma fare ciò che piace a Dio: mi piace piacere a
chi mi ama e amo. Non è quindi la libertà del libertino schiavo di ogni
impulso. Non è la libertà dello stoico che nega ogni impulso. È libertà di
amare e di dominare il proprio corpo. È libertà che si esprime nel «dominio di
sé» (cf GaI 5,22). Nell'ottica del cristiano, la bellezza e l'armonia della
sessualità sono un'arte da apprendere, come la poesia, la pittura, la musica. Il
sapersi relazionare permette ai nostri impulsi, di non uscire alla cieca e a
caso, o con imperizia, ma di essere diretti con libertà, secondo l'ispirazione
del Signore. È molto importante educare a vivere la sessualità quale
espressione di amore e di comunione con Dio.
208
137
10.2 Identità e differenza sessuale
46
10.2.1 Il mistero della comunione inscritto nella
dimensione biologica della sessualità umana47
Ciascuno, maschio o femmina, conosce se stesso attraverso una
riflessione su di sé. Vi sono tuttavia aspetti importanti di me che solo l'altro
conosce, che solo la donna può conoscere dell'uomo e viceversa.
Nessuno quindi può pretendere di autodefinirsi, ma deve lasciarsi
aiutare dalla percezione di sé che l'altro o l'altra ha.
[…] Complementarietà dice una diversità correlativa tra due che si
integrano in una unità. La complementarietà fa gioire del bene che l'altro ha
ed è, diventa principio di comunionalità nel dono, nell'accoglienza e nel
servizio reciproco, impregna l'amore di umiltà, di rispetto, di fedeltà, di
riverenza.
L'uomo diventa ciò che ama, l'amato diventa il centro vitale di chi
ama: «Amatus fit forma amantis». Dio stesso, amato, diventa la vita dell'uomo,
come dice la Scrittura: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta
l'anima e con tutte le forze» (Dt 6,4), con tutta la tua vita, la tua intelligenza.
La sessualità mette nel nostro corpo il segno di questo splendido
disegno: sono partner di Dio, la mia identità è lui stesso.
Nella Bibbia il rapporto maschio/femmina è figura del rapporto
Dio/uomo. In questo senso, «il femminile diventa simbolo di tutto l'umano»
(Mulieris dignitatem 25): essere sposa di Dio, simile a lui in quanto chiamata a
rispondere all'amore con cui la ama.
L'aspetto sponsale lo ritroviamo in tante pagine della Sacra
Scrittura, in particolare nel Cantico dei Cantici, nel profeta Osea,
nell'Apocalisse.
L'uomo, maschio o femmina che sia, è fatto per amare Dio in
modo assoluto, come suo unico partner in senso pieno.
Dunque l'amore appassionato e fedele, che unisce l'uomo alla
donna e fa dei due una sola carne - secondo il testo della Genesi 2,24 -, è
riverbero dell'amore che ha spinto Dio a unirsi con l'uomo per essere con
46 CENCINI A., Nell’amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato,
EDB, Bologna 1995, pp. 87-112.
GILLINI G.-ZATTONI M.T., Le strade del cuore. L’educazione affettiva e
sessuale dell’adolescente e della sua famiglia, San Paolo, 1999, pp. 47-64.
ARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo…, oc, pp. 155-174; 194-201.
47 MARTINI C.M., Il corpo…, oc, pp.
138
bravi preti o i bravi mariti, se costoro preti o mariti non sono. Snaturiamo
l'essenza del ministero o del matrimonio, anche quando ci accontentiamo di
avere manager del business religioso, o mariti che si fanno trovare a casa alle
sette di sera e alla domenica portano i figli al lago.
L'ascolto di sé ha a che fare con una vera e propria sfida. Se la
profondità alla quale ho inteso riferirmi è, ad esempio, quella di una
componente depressiva che «c'è», allora devo capire in che modo questa
«c'entra» con la mia vocazione. E questo vale anche per le altre componenti
profonde della personalità: il sentimento della debolezza, l'insicurezza, e
altro ancora.
Si badi bene: non sto affermando che «c'entra», nel senso che Dio
mi chiama ad essere depresso, o debole, o insicuro. «C'entra» nel senso che
anche queste componenti hanno un loro posto all'interno della mia
esperienza cristiana, e a ciascuno di noi spetta il compito di individuare
quale sia.
Quei tratti, eventualmente anche dolorosi, appartengono alla mia
biografia e pure a quel progetto ideale che costituisce la meta del mio
cammino umano e cristiano. Come dire: se voglio arrivare là, ci devo
arrivare «tutto». Anche con questi tratti profondi e non senza di loro, perché
loro sono... io!
Verso un «realismo mistico»
Riconoscere il modo in cui quei tratti profondi «c'entrano» con la
mia vocazione non corrisponde ad una semplice accettazione.
Non che l'accettazione sia poca cosa, intendiamoci.
Un'accettazione realmente emozionale, e non semplicemente cognitiva,
intellettuale, non costituisce una consapevolezza di poco conto. Eppure si
presenta ancora come qualcosa di possibilmente riduttivo, perché statico.
Ritengo si possa osare di più, senza per questo giungere ad esaltare
la sofferenza in se stessa, ma allo stesso tempo senza distanziarsi da un
giusto realismo, nascondendo a se stessi la portata delle proprie
vulnerabilità.
Pur seguendo con cautela questo percorso, possiamo riconoscere
che il potenziale associato ad un tratto depressivo71 è notevole. La
consapevolezza emozionale («So e sento») e non soltanto intellettuale
(«So…», e basta) di quella componente depressiva comporta in me la
capacità di scendere e risalire (regredire e progredire) trasversalmente lungo
la vicenda del mio sviluppo. E questo mi consente di andare ad assumere
71 La cautela è d'obbligo perché il termine stesso depressione è
impegnativo. Qui non ci riferiamo ad una depressione significativa al livello
psicopatologico, giacché il discorso si rivelerebbe assai più complesso, ma al livello
evolutivo.
207
della perdita, al fondo ci sta un desiderio che affiora: essere «colmati», essere
sottratti ad un vuoto. E si tratta in qualche modo sempre di un vuoto di
affetto, o di identità, o di sicurezza, o di altro ancora, mescolati o intrecciati
gli uni con gli altri.
Le strategie utilizzate per far fronte alle perdite sono molteplici e
perfino contraddittorie, ma mai tutte uguali ai fini del proprio benessere. È
importante che siano in armonia con il problema di partenza. Lo capiamo
subito se al posto del bambino facciamo l’esempio di un adulto, padre di
famiglia o prete, dirigente d'azienda o artigiano: se le sue strategie lo portano
a comportamenti inappropriati o devianti, rovina se stesso e gli altri.
Occorre allora fare il percorso a ritroso ed esplicitare la domanda di
partenza, i desideri originari a cui non si è riusciti a dare una risposta
adeguata se non quella problematica o addirittura patologica. Un intervento
esclusivamente morale o legislativo per quanto corretto, opportuno e in
taluni casi perfino necessario, rischia di colpire non solo il comportamento
riprovevole, ma anche il desiderio legittimo che scaturiva da quella perdita
da colmare.
Talora accade che la persona coinvolta accolga o subisca
l'intervento morale o legislativo. Non riuscendo, però, a cogliere il legame
fra il vissuto problematico o deviante e il desiderio profondo che lo
muoveva, può tendere a dissociare la propria esperienza: riconosce che ciò
che vive è sbagliato, ma non riuscendo contemporaneamente a farne a
meno, va verso la deriva di una doppia vita, con conseguenze che possono
investire livelli diversi, non ultimo quello della patologia psichica.
Rispettare i tracciati della vita per viverla bene
L'esempio della perdita serve per cogliere meglio l'idea di fondo di
questo scritto: i dinamismi interiori che regolano lo sviluppo sono in
relazione con il suo esito maturo; perciò il loro ascolto ha come obiettivo
l'armonia fra il proprio progetto di vita e il proprio cammino di uomo o di
donna.
Qualunque vocazione cristiana si rivolge all'intero della persona e
proprio per questo ha a che fare in modo dinamico, cioè sempre in
movimento e mai in modo concluso, con il tutto della personalità70. Se si
limitasse a coinvolgere alcuni processi della personalità poco si
differenzierebbe da una scelta professionale o dall'acquisizione di un insieme
di atteggiamenti religiosi. La vocazione deve avere a che fare anche con le
profondità della personalità e non soltanto con alcuni suoi strati, magari di
superficie. Non è un mestiere, né un modo di fare. Non possiamo avere
buoni preti o bravi sposi insegnando ad alcuni giovani come si fa a fare i
70 Cf S. Guarinelli, Intuizione vocazionale e costruzione della personalità,
in «Tredimensioni», 1 (2004), pp. 26-41, in particolare pp. 36-40.
206
lui, in Gesù, una sola carne. E reciprocamente si può dire: «Chi si unisce al
Signore, forma con lui un solo spirito» (1 Cor 6,17).
[…] Chi conosce il pensiero della Chiesa sulla sessualità sa bene
che il suo intento è ultimamente educativo. […] L'etica cristiana sui vari
problemi della sessualità è incentrata e articolata sulla "responsabilità".
La regola classica della sessualità è molto semplice. La
soddisfazione che viene dagli atti sessuali acquista vero significato umano
quando è finalizzata all'unione amorosa di due persone legate da fedeltà
reciproca definitiva e aperta alla fecondità.
Tutto ciò che non rientra in questa regola non rientra nell'ordine.
Confluisce qui una marea di azioni, gesti, pensieri, desideri che
vanno nella direzione giusta oppure che deviano più o meno da tale regola .
Altre azioni e pensieri sembrano addirittura aver dimenticato il
fatto dell'incontro, e si avvitano su se stesse o usano dell'altro come puro
strumento di ripiegamento su di sé. Sono queste le perversioni più dolenti.
[…]
Non è detto però che ogni "disordine" sia un peccato nel senso
teologico e religioso del termine. Per arrivare al peccato occorre la coscienza
che un gesto libero ed evitabile turba in modo grave l'equilibrio interiore e
relazionaIe della sessualità bene ordinata e con ciò il rapporto di
sottomissione al disegno divino per la felicità umana. […]
Occorre perciò un cammino di chiarezza e di vittoria su di sé,
anche graduale. Il consiglio di una persona matura e il sacramento della
riconciliazione saranno di grande aiuto.
10.2.2 Attrazione amicizia e amore: maturazione
affettiva ed impegno spirituale
Abbiamo già affrontato la tematica della motivazione nell’ambito
delle scelte, ma dentro questa tematica della maturazione affettiva questa
assume dei connotati particolari che sono anche indicatori di una
maturazione in crescita.
La prima tappa è costituita dalla motivazione fisiologica tendente
alla riduzione di un bisogno o alla soddisfazione di un impulso risponde al
principio del piacere.
In seconda istanza si passa alla psico-fisiologica tendente al
principio di realtà dove la soddisfazione del bisogno è per un dovere da
compiere.
139
Il terzo è quello conoscitivo-spirituale che ci fa muovere senza che
forse sia coscientizzata la motivazione ma è risposta a ciò che viene
intravisto come un bene oggettivo, un valore. Non è più la ricrca di un bene
per me, ma del bene in sé.
I passaggi sono un percorso graduale e possono essere effettuati
anche attraverso quella che viene delineata come “sublimazione” anche se dal
punto di vista terminologico si pongono vari sospetti su questa metodologia.
Essa non è rimozione di un bisogno ma è la dinamica che permette di dare
al bisogno una risposta diversa differente che in quanto forza è funzionale
alla maturazione giungendo all’autenticità del bisogno con il coraggio di non
assolutizzarlo ma di contestualizzarlo dentro l’amore vero.
Dentro il percorso di maturazione affettiva è importante
considerare che l’affettività ha u grosso rischio: quello di riportare
l’attenzione alla nostra stessa persona, rinnegando l’orientamento all’altrp
quale sua originaria natura. Allora tutto viene valutato inbase a quanto la
relazione, al situazione, l’altro suscita in noi. E se questo diviene il criterio
ultimo l’io spadroneggerà nelle scelte conseguenti limitando l’oblatività e la
logica del dono. Se la ripercussione emotiva ne sarà il criterio la conseguenza
diverrà il ripiegamento su di sé, facendo dei sentimenti non la parte del
mondo affettivo ma il suo tutto.
L’altro non è mai la risposta ad un bisogno ma sempre un valore
che si impone rispondendo, nella misura in cui vi si aderisce, ai nostri
bisogni più veri, profondi, inespressi, ma alla condizione che l’altro rimanga
sempre un valore, ossia un bene in sé.
Il linguaggio della relazione può essere di tipo fisico, affettivo e
spirituale. Linguaggio della sessualità risulta così essere differente a seconda
della vocazione e della persona ma esprime sempre la totalità, ossia la verità.
Linguaggio da apprendere e su cui vigilare. Anche questa cura è inserita
dentro il percorso di maturazione che va dal bisogno al valore,
dall’attrazione al dono di sé.
L’attrazione è a,imentata dal desiderio di dirigersi verso… è il primo
passo dell’amore ma è ricchezza che muove e limite che illude, perché si
compiace di sé stessa per cui il sentimento è ciò che tiene vivo l’interesse per
l’altro e quando questo viene meno c’è il rischio che decada anche
l’attenzione all’altro. Questo è spesso lo stile di vita della nostra cultura. La
bellezza è il punto di partenza che deve diventare integrale e intrinseca per
giungere poi all’amore di concupiscenza dove il bisogno di
complementarietà è determinante, su cui però non si deve fossilizzare per
non utilizzare la persona, ma deve divenire amore di benevolenza che cerca
il bene dell’altro e per l’altro dentro ogni situazione sino a giungere al dono
si sé o amore sponsale.
L’amicizia
140
proprio, riproducono in modi diversi eppure analoghi questo passaggio,
necessario e drammatico allo stesso tempo.
La presenza della perdita è una costante dello sviluppo umano. Si
tratta di una perdita affettiva, di sicurezza, e il suo grado di drammaticità
dipende oltre che dalla precocità dello stadio in cui avviene anche dal modo
in cui questa è gestita, soprattutto da parte di coloro che si occupano di
accudire la persona in sviluppo. Un transito troppo brusco potrà essere
vissuto come vera e propria deprivazione; viceversa un passaggio attenuato e
custodito ne attutirà la portata emozionale.
Dunque la dinamica della perdita fa parte della biografia di tutti.
Bisognerà poi vedere come ciascuno di noi la gestisce. Se rimane tale, come
ferita aperta, la perdita può deteriorarsi, in emozione di vuoto, di sofferenza,
di mancanza. Se viene colmata, ci si dovrà domandare come e con che cosa.
Ad esempio: una perdita affettiva infantile può essere stata colmata
con un investimento nella vita intellettuale. Il bambino di prima elementare,
figlio unico, con entrambi i genitori che lavorano, «scopre» che il modo per
agganciarsi all'orbita affettiva dei suoi genitori è quello di andare bene a
scuola: quando prende un bel voto loro sono contenti e il bambino «sente»
che i suoi si accorgono di lui. A quel punto, però, l'esperienza paventata del
fallimento scolastico potrà assumere tonalità drammatiche. Al di sotto del
timore (consapevole) di prendere un brutto voto si cela il timore
(inconsapevole) di vedere confermato il proprio stato di solitudine. Il non
riuscire a smascherare questo dinamismo potrà condurre il bambino, poi
giovane e quindi adulto, a mettere in atto comportamenti sempre più
sofisticati per prevenire la possibilità del fallimento intellettuale. Dunque si
dedicherà, anima e corpo, alla vita intellettuale, fino a rinunciare ad ogni
attività che potrebbe distoglierlo dal suo percorso. Consacrerà la propria vita
alla cultura e vivrà da solo per non essere distratto nella propria ricerca.
Tragico e ironico paradosso: per superare la propria solitudine sarà
un uomo solo.
Risorse disponibili e strategie
In ogni caso, affinché una perdita affettiva sia colmata con il
ricorso ad una risorsa alternativa qualunque occorrerà che quella risorsa sia
disponibile: per investire nella vita intellettuale occorre disporre di sufficienti
risorse intellettuali; per investire nel possesso di beni occorre disporre di
risorse economiche; e via dicendo. Se la perdita affettiva fosse molto
consistente e/o se mancassero le risorse alternative atte a colmarla (per
quanto in modo illusorio) la perdita rimarrà tale e potrà affiorare, nella
forma di una mancanza o di una sofferenza, come tratto pressoché
permanente di quello stile di personalità: triste, sfiduciato, perennemente
arrabbiato o portato a vedere sempre il lato negativo delle cose.
Al di là della strategia messa in campo per mettere mano al problema
205
Anche in questo caso l'analogia del corpo fisico ci è di aiuto. È
sempre lo stesso mio corpo ad interagire con il dolore dell'altro e con il mio.
Eppure le due esperienze di sofferenza sono inevitabilmente diverse, a
seconda che il dolore sia dell'altro anziché mio. Sono sempre gli stessi occhi
che vedono me stesso e gli altri; ma vedono me stesso e gli altri in modo
diverso. E se mediano male o nulla non potrò vedere né me stesso, né gli
altri. Dunque vi sono esperienze in cui il funzionamento corporeo si
diversifica; in altre mettiamo sullo stesso piano il rapporto con noi stessi, gli
altri e il mondo in generale.
Una cosa del tutto analoga accade anche per la personalità. La
capacità introspettiva è una condizione necessaria per la conoscenza di sé.
Però si tratta di una funzione che si diversifica: non posso essere
introspettivo con le altre persone nel medesimo modo in cui lo sono con me
stesso. Inoltre si tratta di una condizione non sufficiente. Infatti, come ho
appena detto, la conoscenza di sé passa attraverso lo stile della personalità.
Ad esempio, può accadere che il mio stile di personalità nel corso degli anni
si sia premurato di mettere fuori dal mio campo visivo tutto ciò che
contribuirebbe ad umiliarmi. Il processo può essersi talmente perfezionato
che delle cose che mi umiliano, dei miei difetti, realmente nemmeno mi
accorgo, mentre sono un mostro di bravura nel cogliere quegli degli altri.
Dunque se voglio conoscermi veramente non posso non chiedere
ad un'altra persona che cosa lei vede di me. Il suo sguardo, così come la mia
capacità introspettiva, sono assolutamente necessari. Non l'uno senza l'altra,
dunque.
La conclusione di questo discorso è semplice, ma importantissima:
la conoscenza di sé passa necessariamente attraverso la relazione con l'altro.
Occorre che almeno un'altra persona possa dirmi qualcosa su di me. Per una
ragione fondamentale: essa mi raggiunge attraverso una personalità che
semplicemente non è la mia.
L'ascolto del proprio «vuoto»
Vorrei ora entrare, come esempio di ascolto di se stessi, in un
ambito concreto che dobbiamo ascoltare e che appartiene a tutti noi perché
elemento intrinseco allo sviluppo umano. Qualcuno lo ha chiamato così: la
depressione inerente al sorgere della persona69. Svilupparsi, infatti, vuole
anche dire transitare da spazi di sicurezza, dai quali siamo spinti ad uscire,
verso spazi di insicurezza senza entrare nei quali non potremmo eseguire il
compito essenziale dello sviluppo umano che è crescere. Il momento della
nascita, l'adolescenza, perfino la scelta di mettere su una famiglia per conto
Cf D. Lopez – L. Zorzi, Dalla depressione al sorgere della persona,
Cortina, Milano 1990.
204
69
Una tappa non secondaria è quella dell’ amicizia scelta volontaria
di ciò che prima era solo frutto della simpatia (stare bene insieme) o
cameratismo (condivisione di alcuni impegni comuni).
Essa è caratterizzata
* Dalla reciprocità : risposta all’amico e dall’amico nella ricerca del
bene vicendevole. Dando una particolare sicurezza nell’essere custoditi
nella verità.
* Dalla comunicazione che è un sapersi consegnare nella parola e nel
silenzio che non conosce chiusure e gelosie.
* Dalla verità, ossia dalla condivisione della stessa verità che si ha a
cuore.
10.2.3 Elementi di riflessione su alcune
problematiche connesse all'identità e al comportamento
sessuale
10.2.3.1 Pornografia
Il contesto culturale in cui siamo inseriti è definibile come
pansessuale con una spinta erotica ormai spinta agli eccessi di una
considerazione considerata “normale”.
Il termine pornografia è composto da due parole: grafòs (scrivere e
tutto ciò che ad esso è collegato nella comunicazione) e pornèia
(prostituzione ossia la “vendita” del corpo). Oggi la pornografia ha subito
delle enormi variazioni con la dinamica di fondo di un coinvolgimento
sempre più globale dal punto di vista sensitivo e sempre più accessibili.
Dietro al fenomeno è aperta una profonda voragine di solitudine
che spesso genera un profondo isolamento partendo o giungendo ad una
reificazione di se stessi e dell’altra persona. L’ulteriore conseguenza è un senso
di colpa che normalmente negativo può in questo caso divenire un prezioso
campanello d’allarme quale rivelativi di un disagio.
10.2.3.2 Masturbazione48
Definibile nella sfera più ampia dell’autoerotismo che implica una
“concentrazione dell’energia erotico sessuale della persona su se stessa”. Già
la definizione posta in rapporto al valore\significato della sessualità porta in
48 Cfr. ZATTONI M.T.-GILLINI G.-MICHIELAN M.-RESCHIGLIAN
M., Che male c’è?..., oc, pp. 132-148.
ARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo…, oc, pp.
141
se una valutazione del fenomeno, contrariamente ad una diffusa
considerazione come “normale” e non una autentica forma di immaturità.
Nella fase edipico puberale, nella quale è connessa alla scoperta
della propria ed altrui corporeità e sessualità, è una fase destinata al
superamento, mentre nella fase adulta è una fissazione sintomo di un disagio
comportamento compensatorio di paure, debolezze, insoddisfazioni,
solitudini e difficoltà che non si stanno affrontando.
La pulsione istintuale che può sembrare impellente esigenza può
avere altre risposte che non sia la soddisfazione immediata del bisogno
stesso.
La masturbazione molto spesso (nella maggioranza dei casi,
probabilmente) dice un forte bisogno di autonomia o di aggressione, altre
volte e sfogo narcisista o espressione di rancore o reazione a sensazioni
d'inferiorità.
Questa tematica spesso non è affrontata per una sorta di timore e
vergogna mentre deve essere affrontata con coraggio, serenità, coerenza e
speranza.
* la masturbazione è esperienza di profonda solitudine intesa come
reale isolamento e chiude all’amore
* genera una incapacità al dono rendendo il piacere la dimensione
primaria del bisogno e della “relazione oggettivante”
* è sintomo di difficoltà più profonde che chiede un cammino di
verità ed educativo che potremmo sintetizzare in 5 tappe
a. l’educazione al bello
È la cultura del bello nelle immagini, delle parole, delle esperienze,
riconoscendo nella persona la sua bellezza ed armonia originaria. Questo
necessita anche di una cura di se stessi, del nostro corpo che sia segno
dell’amore che diamo alla persona come valore in sé e per gli altri.
b. l’educazione al vero
È passione crescente per la ricerca, per la “scrutatio”, per lo studio,
per la lettura della nostra persona , per l’insegnamento della chiesa e del
rapporto con gli altri.
c. l’educazione al servizio
Sono necessari per questo cammino gesti concreti ed autentici
“tagli sul vivo” come percorso di gratuità con regolari momenti di verifica
sulla qualità del servizio vissuto non per formalismo né per dovere ma
spontaneamente generoso e disponibile, sul quotidiano impegno con i
“prossimi” di casa, con uno stile di vita sobrio ed ordinato che non si
abbandoni al comodo ed al superfluo “viziato”.
d. l’educazione della volontà
Imparando non solo a desiderare ma a volere con piccole scelte ma
portate avanti con sacrificio esercitando la virtù della costanza nella fatica.
virtù. Nel concreto, conoscersi sembra voler dire: «Guardati dentro e più sai
guardarti dentro più avrai un occhio interiore». In tal modo accade come se
identificassimo il mondo interno, ciò che c'è «dentro» di noi, con la persona;
e come se da ciò potessimo rapportarci a noi stessi saltando la mediazione
storica, quella della personalità, appunto. Le cose non stanno così. C'è una
sorta di errore epistemologico fondamentale.
Il mondo interno non è conoscibile se non attraverso la necessaria
mediazione della personalità, giacché il mondo interno, esattamente come il
mondo esterno, esiste nella storia.
Quando guardo una cosa, la guardo nella mediazione di un corpo
fisico e di un corpo psichico. Guardare una cosa è assai di più che vederla.
Infatti una cosa guardata può suscitare attrazione, ribrezzo o indifferenza. E
queste sono tutte operazioni psichiche e non meramente fisiche. Accade,
però, che nella pratica non tiriamo le conclusioni di questo discorso. Nel
concreto, quando cerchiamo di conoscere noi stessi sembra che
implicitamente giungiamo a configurare una sorta di sguardo interiore che
«salta» l'inevitabile mediazione della personalità. Come se io, affermando che
per conoscermi devo «guardarmi dentro», uscissi dalla metafora e la
utilizzassi in senso letterale: «Siccome il corpo è il contenitore della mente,
ecco che se mi guardo dentro, il corpo non media un bel niente, dunque mi
vedo realmente come sono». Buffo, vero?
Sarebbe meglio dire che non vi è nulla di più ingenuo.
Inevitabilmente io conosco me stesso attraverso me stesso e non senza me
stesso. La personalità di ciascuno di noi ha un proprio stile, che rappresenta
l'esito dei molti modi di interazione con la realtà che sono andati
consolidandosi nel corso dello sviluppo. Quello stile agisce da mediatore
rispetto alla realtà conosciuta, così che due persone non si relazionano mai
con la stessa realtà nel medesimo modo. Anzi, è come se, dal loro punto di
vista, si trovassero di fronte a realtà differenti.
Quello stile di personalità è attivo anche quando mi relaziono con
quella realtà singolarissima che sono... me stesso. Si badi: questo non vuol
dire che io mi relazioni con me stesso nel medesimo modo in cui mi
relaziono con gli altri. Io sono per me stesso una realtà diversa da tutte le
altre. Non posso dire aprioristicamente che ne sarà della mia relazione con
me stesso a partire dalla relazione che ho con le altre persone. Può accadere
che io ami gli altri e odi me stesso o viceversa. Ciò che si mantiene è lo stile
di personalità, non i modi di funzionamento. È sempre la stessa personalità
ad interagire: se amo gli altri e odio me stesso, non è perché ho una doppia
personalità. È sempre l'unica mia personalità, che ha diversi modi di
funzionamento.
142
203
Conoscenza di sé e relazione con l'altro
Una giovane religiosa in formazione aveva chiesto di poter fare una
valutazione della personalità, cioè un percorso volto alla conoscenza di sé
soprattutto dal punto di vista psicologico, spinta forse più dalla curiosità che da un
reale desiderio di crescita. Comunque, anche la curiosità può essere una buona
motivazione per partire.
In ogni caso, una delle prime domande che faccio in sede di valutazione
della personalità è più o meno questa: «Quali sono le ragioni che l'hanno condotta
a chiedere di fare questa valutazione?». La risposta fu la seguente: «Mah,
sinceramente mi è stato consigliato dal direttore spirituale: lui dice che anche
questo può servire. Comunque io credo di conoscermi abbastanza bene: in questi
anni ho molto riflettuto su di me».
Nulla da obiettare. Il guaio è che quando una valutazione inizia così...
insomma le cose non si mettono molto bene. Quando una persona ti dice che, in
fondo, è lì perché gliel'hanno suggerito altri e che questioni proprie non ne ha... da
che parte si entra? Chi invece si ritrova fra le mani un interrogativo, un problema,
addirittura un sintomo, fosse anche secondario e assolutamente marginale, offre
almeno una chiave d'accesso per entrare in quel sistema complesso che è la sua
personalità.
Ad ogni buon conto abbiamo le nostre domande di riserva. E così le ho
fatto quella a cui in genere ricorro in questi casi: «Quali potrebbero essere gli spazi
della sua personalità che ritiene di conoscere di meno?». Risposta: «Sinceramente
non saprei».
La risposta della nostra giovane religiosa basterebbe a smontare la
concretezza di quegli anni in cui «ho molto riflettuto su di me». A meno che
non fosse un espediente (più o meno consapevole) escogitato sul momento
per supplicarmi di lasciarla in pace.
Una persona che veramente si guarda dentro e conclude
affermando che in lei non ci sono zone d'ombra (se non qualche innocuo
neo; ma chi non ce l'ha?), o ha guardato male, o è già nella visione beatifica!
Guardarsi dentro... senza mediazioni?
La personalità rappresenta l'interfaccia psicologica fra la nozione
filosofica di persona e il mondo (o la storia): la persona, infatti, è nella storia,
ma allo stesso tempo è al di là della storia. Il bambino di sei mesi e l'adulto
che da quel bambino si svilupperà, avranno poche somiglianze. Si potrà
realizzare che si tratta della stessa persona, appunto; eppure, dal volume e dal
peso corporeo fino al carattere, un bel po' di cose saranno cambiate. La
personalità, dunque, si colloca in perfetta analogia con quell'altra interfaccia,
fisica, fra la persona e il mondo (o la storia) che è la corporeità. In questo
senso si può dire che la personalità è come il corpo psichico della persona.
Questo significa che la personalità (il corpo psichico), esattamente come il
corpo fisico, è attiva in ogni relazione che la persona ha con il mondo.
Sorprendentemente, però, nella pratica non procediamo così e sorvoliamo
sulla mediazione. Sorvolare sul corpo fisico sembra, anzi, il massimo della
202
Proprio la “resistenza” dentro questa dinamica aiuterà al volontà a
rafforzarsi sino ad alcuni “no” coraggiosi.
e. l’educazione alla fede
Educarsi alla fede è porsi fiduciosamente nelle mani di un
Altro\altro a cui dare obbedienza. La fiduciosa consegna apre alla forza
trasformatrice della Pasqua del Signore e l’obbedienza matura al primato del
valore più che a quella del sentimento.
Dentro questa educazione la potenza dei sacramenti, della
preghiera e della mediazione della guida spirituale diventano così
importantissimi
10.2.3.3 Omosessualità 49
“Può esser così definita: un'attrazione costante e a senso unico,
emotiva e sessuale, verso persone dello stesso sesso, con o senza rapporti
fisici e comunque con scarsa capacità di controllo dell'attrazione medesima
nel pensiero e/o nelle azioni.
«La caratteristica della persona omosessuale è... un'organizzazione
psico-sessuale specifica, i cui segni clinici frequenti sono i seguenti: attrattiva
sessuale fin dall'infanzia per le persone dello stesso sesso; fantasie sessuali
diurne e notturne a nettissima predominanza omosessuale; poca o nessuna
attrattiva erotica per le persone dell'altro sesso; passaggi all'atto omosessuale
che hanno procurato un vivo godimento genitale, anche se poi ne è seguito
un senso di colpa; e infine, più spesso, una certa pregnanza dell'istanza
materna»". Ovviamente l'elemento maggiormente indicativo è i1 fatto che vi
sia stato un vero e proprio coinvolgimento omosessuale con un'altra
persona, ma l'analisi deve prestare attenzione alla globalità del
comportamento e della personalità.
Altri segni possono essere di natura non esplicitamente sessuale,
quali espressione d'una immaturità più generale (di cui l'omosessualità è una
componente): per esempio, senso dell'autoidentità con notevoli residui di
«fissazione» al corpo, esibizionismo, rigidità generale, narcisismo, sentimenti
d'inferiorità a volte mascherati con reazioni di protesta, abitudine a cercare
compensazioni consolatorie, atteggiamento infantile di autocompassione e
impulso a vedere la propria vita in chiave di tragedia e sofferenza, selettività
nei rapporti, sottile atteggiamento adescatore, tentativo di omologare l'altro
a se, difficoltà ad accettare il diverso lasciando che sia tale, tendenza
protezionistica verso l'amico, specie se più giovane ecc. In tali casi si può
49 Cfr. GILLINI G. – ZATTONI M., Il piercing dell’anima. Capire il dolore
nascosto dell’adolescente, Ancora, Milnao 2005, pp. 67-82.
ARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo, oc, , pp..
143
parlare di personalità omosessuale. Naturalmente questi segni non sono tutti
necessariamente presenti in tutte le persone omosessuali.” 50
Le cause non sono ben chiare ma dal punto di vista degli studi si
sono notate alcuni dati ricorrenti quali:
- nella maggioranza dei casi il figlio omosessuale aveva una relazione
troppo intima con la madre la quale lo “preferiva” al marito,
- la relazione tra padre e figlio era caratterizzata da un atteggiamento
di aggressione e competitività quando questi non era distaccato o
ostile indifferente o disattento.
È importante allora un cammino di separazione dalla relazione
infantile con la madre e stabilire una rinnovata con il padre orientando il suo
enorme desiderio dell'affetto. Dentro questa immaturità la relazione
omosessuale è un inconscio «uso» dell'altra per completare se stesso, o per
ottenere, per esempio, sicurezza, protezione, comprensione, autostima,
conforto..., tendendo in qualche maniera a omologare l’altro a se. Negando
la vocazione al dono e ricadendo su se stessi... non aprendosi all’alterità alla
distanza, all'uscita dall'identico facendo ricadere su un immobilismo umano
e spirituale.
Sono state a partire da questo delineate tre tipologie di
omosessualità
- vera o aperta (overt homosexuality) il motivo fondamentale e
primario di attrazione per una persona dello stesso sesso e la
gratificazione sessuale, e secondari sono i motivi della dipendenza
affettiva e del potere (o dominio sull'altro). In tal caso il desiderio
sessuale è impersonale, ogni persona dello stesso sesso, e
relativamente attraente, può divenire oggetto del desiderio.
- Nella falsa omosessualità la situazione s'inverte: al centro c'e il
bisogno di gratificare la dipendenza affettiva e/o il potere su di un
altro, solo dopo il legame assume anche una colorazione eroticosessuale.
- L'omosessualità immaginaria o temuta, per i motivi pia diversi. O
perché il soggetto sta attraversando un periodo di particolare
insicurezza circa la propria identità che può render incerta anche la
propria tipificazione sessuale; o a causa d'un residuo di una fase
adolescenziale non ancora del tutto superata e che il giovane, però,
debitamente aiutato, mostra di poter superare, sia pur lentamente;
o altre volte è solo vera e propria paura infondata di essere
omosessuali, magari perché si hanno fantasie o pensieri un pò
50 CENCINI A., Nell’amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato,
EDB, Bologna 1995, pp. 87-112.
144
un signore che l'ha costretto a rallentare perché attraversava lento lento e
fuori dalle strisce pedonali ha suggerito la probabile professione della
madre...; che ha parcheggiato in divieto di sosta perché «Tanto, chi se ne
frega!».
«Certo, – potrebbe obiettare il nostro giovane amico – ma nessuno
ha sentito o visto nulla!».
Meglio così; ma non è questo il punto. Non si tratta di una
questione di galateo sociale; né quella morale, con l'eventuale richiamo ad
una condotta di vita più coerente anche nel privato, è la prospettiva che
immediatamente ci interessa.
L'ascolto di te interessa... te. Non interessa che gli altri ti ascoltino.
Ma che tu ti ascolti. E tu, certamente ti sei ascoltato!
Non vorrei inserire una questione teologica tanto per nobilitare
l'ordine delle argomentazioni. Eppure una riflessione del genere, a mio
parere, si impone proprio da un punto di vista teologico. Perché la teologia
cristiana pone il concreto, lo storico, all'interno del piano del senso. È la
logica dell'evento di Gesù a mostrarci che uno schema che scinde troppo
trascendenza e immanenza è inadeguato a dire la verità del mondo e della
persona umana. In altre parole: se esiste una vocazione, che si dispiega in un
progetto, questo c'entra con la concretezza storica della persona. E non si
può dire che la storia sia un semplice spazio di mediazione, inevitabile ma
quasi «spurio» per una vocazione: qualcosa che nel declinarla concretamente,
finisce allo stesso tempo per contaminare ciò che in realtà si trova da
un'altra parte.
Insomma: se questo giovane ha voglia di fare la guerra (anche se
non lo sa), questa guerra in qualche modo «c'entra» con la sua vocazione. E
la sua vocazione non può consistere soltanto nel tentativo di concretizzare il
mondo dei desideri «alti» (o giudicati tali), come se quegli altri non ci
fossero.
L'ascolto non si esaurisce nella lettura introspettiva dei fatti
Anche questo terzo aspetto probabilmente è molto scontato.
Ancora una volta, però, mi pare molto scontato nella teoria e, soprattutto,
quando parliamo degli altri e non di noi. Nella pratica difficilmente lo
applichiamo a noi stessi.
Ho appena detto dell'importanza dei fatti, di ciò che accade
concretamente. Però, non è detto che i fatti semplicemente perché ci sono
siano conosciuti e dunque letti. Nella pratica circola una falsa persuasione:
che la conoscenza di se stessi in qualche misura coincide con la propria
(presunta) capacità di introspezione.
Le cose non stanno del tutto così. Vediamo un altro semplice
esempio.
201
applichiamo alla nostra testa le leggi dell'algebra binaria: se una cosa c'è, non
ci può essere anche quella contraria. E chi l'ha detto? Senza chiamare in
causa la teoria delle relazioni oggettuali, che forse meglio di tutte le teorie
psicologiche di taglio psicoanalitico ha riflettuto sulla scissione della
personalità, basterebbe leggere san Paolo che, tutto sommato, dice la stessa
cosa: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che
voglio io faccio, ma quello che detesto»68.
L'ascolto di sé, dunque, deve essere capace di svelare il rischio della
idealità. Perché è rischio? Perché si porta via una parte di noi, che potrebbe
essere perfino buona. Non è buona, o può diventare non buona, quando
non sono più io a decidere di lei; e ciò la lascia in balia di ciò che non sono
più io necessariamente a gestire.
L'ascolto è a partire dai fatti
Questo secondo aspetto è la conseguenza delle riflessioni appena
fatte.
Mi sembra che l'espressione «ascolto di sé» evochi, nel sentire
diffuso, l'immagine di colui che si mette lì, forse un po' assorto, e «si guarda
dentro»; e, magari, proprio in quella circostanza si pone le domande
fondamentali della vita: «Chi sono?»; «Da dove vengo?»; «Dove vado?».
Non voglio certo ridicolizzare la questione del senso della nostra
vita, che è tutt'altro che secondaria. Ad ogni buon conto l'ascolto di sé è
un'altra cosa.
Riprendiamo il caso del nostro giovane interessato a diventare
prete.
Proviamo ad immaginare l'ascolto di sé secondo la prospettiva che
forse ci viene più spontanea. E cioè: quel giovane, finito l'incontro in
seminario, se ne torna a casa e quella sera, a letto, si mette a pensare alla sua
vita, a ciò che vorrebbe fare, al suo desiderio di vivere per la causa della
pace, all'eventualità di donarsi agli altri come prete... Se ne sta lì, con lo
sguardo al soffitto... e pensa..., pensa...
Giusto. Può essere importante fare questo, sia chiaro.
Ma l'ascolto di sé non può partire dalle sole riflessioni, giacché
queste, appunto, rilanciano soprattutto ciò che appartiene ai progetti. In
termini di realtà complessiva questo non può bastare. L'ascolto di sé dovrà
opportunamente tenere conto anche dei fatti. Il giovane ricorderà sì il suo
desiderio di pace e la bellezza di essere finalmente riuscito a confidarlo a
qualcuno, esplicitandolo, oggettivandolo e perciò rendendolo più concreto,
più provocante per se stesso e per la sua vita. Il giovane, però, dovrà anche
ricordare che andando in auto in seminario, ed essendo in forte ritardo, ha
sciorinato fra sé e sé tutto il suo repertorio linguistico da bassifondi; che a
68
200
Rm 7,15.
insistenti in tal senso; o perché non si è secondo quel modello di
conquistatore
Oggi gli studiosi ulteriormente delineano soluzione delle fatiche di
maturità affettivo-sessuale in relazione a tre condizioni fondamentali:
A.
La prima condizione è che la persona sia cosciente della
radice del suo problema, della sua vera motivazione, o – per lo meno sia
disponibile a cogliere la reale funzione psicodinamica, a volte inconscia, di
quella debolezza nella sua personalità o il posto strategico che essa occupa
nella mappa dell'io (la plasticità e l'onninvadenza), in forza delle quali a volte
il vero problema sessuale viene «nascosto» e non emerge, mentre altre volte
è esso stesso a «nascondere» un problema nato in altre aree della personalità.
molto frequentemente la radice delle debolezze sessuali non e di natura
sessuale.
B.
La seconda condizione è che il giovane senta la sua
debolezza affettivo-sessuale come un corpo estrane o e non come qualcosa
con cui s'identifica e l'allo nta na, lo «aliena» da se stesso e da quello che
vorreb be essere. Con tra ria men te vie ne con dan nat a a par ole ma di
fatto diventata parte della sua vita e quasi un elemen to di sostegno,
giustific and ola rid ime n sionando il peso moral e, rid ucendo il senso di
colpa e il disagio.
C.
Infine, terza condizione, è la libertà di controllare queste
debolezze: sia perché ci cade sem pre men o, sia per chè quest' ultime
distur ban o sem pre men o la s u a v ita e gl i c o n s e nt o n o di
sv o lg e r e i s u oi d o v er i n or m a li. È un sap er pre ndere sem pre più
le distan ze da questi con diz ion ame nti nel cuore e nella men te, nella
vol ontà e nei desideri, nelle scelte e nelle azi oni, per ess ern e sem pre
men o dipend ent i.
10.2.4 Sessualità e senso del peccato: la gioia di
riconoscersi bisognosi d'amore per amore alla verità
La conoscenza di sé soprattutto nell’ambito della propria affettività
è percorso veritativo che conduce al riconoscimento della propria
peccaminosità intrinseca, riconoscendo sia la dimensione soggettiva che
oggettiva.
A. Dal punto di vista soggettivo: questo richiede la capacità di
ascolto e analisi di sé stesso alla luce della Parola. Questo consente di
imparare con onesta e sincerità tutto ciò che nei pensieri, nelle azioni e nelle
parole provoca tensione, squilibrio, disagio, vergogna e tutto ciò che ci porta
in un clima di falsità quali segnali di una lontananza da Dio e da noi stessi.
Ma questo non è sufficiente perché potrebbe condurre ad un relativismo
soggettivistico dove noi siamo misura a noi stessi.
145
B. Il confronto con l’oggettività ci fa comprendere che il male non
coincide con ciò che emotivamente ci ferisce ma per il legame intrinseco
con la verità. È questo un dono da chiedere, da implorare per sé e per gli
altri. Il senso del peccato allora non sarà immediatamente un legame con il
giudizio ma diverrà un grido che si leva dentro di noi eco dell’originaria
chiamata di Dio alla verità ed all’amore.
Un cammino che purifica la nostra esistenza affettiva è dato dalla
padronanza di sé mediante la temperanza cioè la custodia dei desideri e la
scelta dell’essenziale. I desideri allora sono vincolati ai valori ed in
particolare a quello dell’amore crocifisso,
10.2.5 La castità dono di Dio: valore pedagogico e
spirituale di sè51
Come scriveva Karol Wojtyla, poi papa Giovanni Paolo II, nel suo
libro Amore e responsabilità, la castità «atteggiamento trasparente nei confronti della
persona di sesso diverso». Oggi invece si afferma facilmente che l'uomo deve
accettare e soddisfare tutte le sue pulsioni psicofisiche e psicosomatiche; si
dice che il dominio della sessualità porterebbe a un'eccessiva tensione e, di
conseguenza, a forme di nevrosi. Invece la castità è ordine, equilibrio,
dominio, armonia.
Molti affermano: «Il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio io.
Sono responsabile dei miei atti esterni che danneggiano gli altri, ma non
devo rispondere a nessuno del mio corpo».
Ma così si contraddice tutto il detto sul corpo “in relazione”.[…]
Di fatto la castità […] lungi dall'essere disprezzo del corpo,
permette di incanalarne le energie, distogliendole da ripiegamenti egoistici,
verso un servizio sempre più grande e reciproco.
È vero che la radice del sostantivo "castità" ricorda l'austerità, il
tenere a freno; essa ci insegna in positivo la disciplina del cuore, degli occhi,
del linguaggio, di tutti i sensi. Ma tutto ciò dà scioltezza, libertà, armonia e
pace. […] È un'autentica signoria su di sé e insieme riconoscimento della
signoria di Gesù sul nostro corpo e sulla nostra vita. San Paolo ha in
proposito quella parola che mi ha mosso a stendere questi appunti, una
parola che è come un fuoco: ”il corpo non è per la fornicazione”(1cor 6,13)
La castità ci fa vivere nel nostro corpo la libertà dello Spirito il cui
frutto è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, moderazione,
autocontrollo, cortesia, mitezza, longanimità (cf Gal 5,22). Anche qui si
avvera il detto: c'è più gioia nel sacrificio.
MARTINI C.M., Il corpo, oc, …pp.
Cfr. ARCIUANÒ S.- PELLICANÒ P., «…secondo…, oc, pp.
51
146
piano non sia autentico. Il «pacifismo» interiore ed esteriore del nostro
giovane amico era certamente qualcosa a cui lui credeva veramente. Di più:
quando dicevo che alcuni segni di ciò che sarebbe poi emerso nella
conversazione del pomeriggio, erano già visibili in quella del mattino, mi
riferivo precisamente al suo desiderio perfino «eccessivo» di una pace
interiore. Chissà, forse già in quella affermazione il nostro giovane stava
svelando ciò che nel profondo lo inquietava, seppure inconsapevolmente: la
presenza di una notevolissima tensione aggressiva (voracità nell'assumere il
cibo; film e letture violente) che cercava di respingere imponendo a se stesso
di fare «pace» dentro di sé.
L'ascolto di sé, per essere realmente tale, però, non poteva sostare
soltanto su quel piano ideale o progettuale. In ogni caso «ideale» o
«progettuale» non significano «non reale» o «soltanto ideale». Significano che
l'ascolto di sé era parziale, escludendo ciò che di sé sembrava non rientrare
nel proprio «progetto di sé». L'ascolto integrale di sé avrebbe dovuto
condurre quel giovane a dire «Voglio la pace; ma voglio anche la "guerra".
Che mi piaccia o no, so che questo è un mio "desiderio"».
Tuttavia una siffatta consapevolezza non può non recare con sé
una spontanea obiezione: «Ma come posso desiderare ciò che non amo, e
che anzi respingo? Posso ancora chiamarlo desiderio?».
Ciò che si agita dentro di noi
È qui che alla chiarezza teorica non corrisponde altrettanta linearità
logica nella pratica. Talora possiamo rischiare perfino di perderci nella
disamina critica dei termini: affetto, bisogno, motivazione, desiderio... Non
che una simile ricerca della puntualizzazione terminologica sia priva di
senso. Assolutamente no. Il rischio, però, è che così facendo ci si distanzi
troppo dall'esperienza. Infatti nell'esperienza di ciò che «muove»
semplicemente la nostra volontà, di ciò che ci attrae e ci respinge, non
facciamo queste distinzioni, ma ci limitiamo a subire o a dialogare con delle
mozioni, cioè semplicemente con qualcosa da cui ci sentiamo «mossi». E non
è detto che ci possa sempre aiutare, sapere che una cosa sentita è un bisogno
piuttosto che un desiderio, una motivazione anziché un affetto.
Di fatto, e al di là delle interpretazioni o delle puntualizzazioni, ma
per aderenza alla concretezza della sua vita, il nostro giovane avrebbe
dovuto dire proprio così: «Desidero questo (la pace), ma anche questo (la
"guerra")».
Spesso fatichiamo ad attuare questo riconoscimento complessivo,
in primo luogo perché ci sembra che ciò che merita di essere identificato
come desiderabile debba essere per forza di cose buono. Se non è buono
non può essere desiderabile. Sarà anche vero o almeno legittimo pensare
così; però, di fatto, quella roba «c'è». E quella roba, qualunque «cosa» sia, e
da qualunque parte venga, «c'è». In secondo luogo, perché talora
199
Mi chiese un incontro un giovane che desiderava iniziare un itinerario di
approfondimento vocazionale. Era interessato alla prospettiva di diventare prete e
chiedeva di poter fare una semplice chiacchierata; non molto di più. Come a dire:
cominciamo a conoscerci e poi si vedrà.
Ci accordammo per mezzogiorno. Poi lui si sarebbe fermato a pranzo da
noi. Quindi sarebbe ripartito.
Arrivò con mezz'ora di ritardo. E siccome il pranzo comunitario era alle
13, gli proposi di fare una prima breve chiacchierata. Avremmo poi ripreso per un
altro po' nel primo pomeriggio.
Si presentò. Era molto grasso. Aveva un grande tau di legno al collo, la
barba un po' trascurata, di chi non si capisce bene se voglia lasciarsela crescere
oppure si sia solo dimenticato di farla. Vestiva in modo semplice.
La svolta in senso vocazionale della sua vita era stata una marcia della
pace, ad Assisi. E il tema della pace, della concordia, e quindi del Signore Gesù
che dona la pace, e poi ancora il prete come vero ministro della pace... insomma,
tutto era costruito in modo consistente su questo tema.
Mentre parlava sorrideva molto.
Niente da dire. Anzi. Una bella figura di giovane, con valori alti, profondi.
Con lui, allora, provai a mettermi in ascolto dei suoi desideri. Anzi:
provammo insieme a metterci in ascolto dei suoi desideri. «Che cosa desideri nel
profondo?»: la risposta, a quel punto prevedibile, fu: «La pace!». La pace
universale, ma anche la pace interiore, e poi ancora la pace in famiglia... e via
dicendo.
Vero. Tutto vero. Tutta farina del suo sacco. Niente finzioni e un desiderio
genuino di pace.
Dopo questa prima parte andammo a pranzo.
Dio ci aiuti! Dire che questo giovane e simpatico pachiderma «mangiava»
non rende assolutamente l'immagine che mi si stampò quando inevitabilmente (ero
di fronte a lui) fui costretto a vedere come mangiava e quanto mangiava. Visto il
peso, il quanto era perfino scontato. Il come, invece, assomigliava a quello del T Rex in Jurassic Park. Insomma: una voracità «primordiale» e una velocità al cui
confronto la mia (che pure non sono lento) era roba da dilettanti. Il fatto di
osservarlo mangiare così non mi portò propriamente a nessuna conclusione sul
«che cosa» poteva dinamicamente muoversi all'interno della sua personalità.
Piuttosto mi suggerì di approfondire alcuni aspetti che, nella chiacchierata del
mattino, non avevo toccato per niente.
Nel pomeriggio, anziché lasciarlo andare troppo a ruota libera (perché a
quel punto, e con la pancia piena, chissà quante altre cose sulla pace avrei
scoperto!) provai a incalzarlo con qualche domandina, pescando un po' di qua un
po' di là. Qui mi limito a riportarne una che avrebbe svelato in modo paradigmatico
ciò che appariva diffusamente in molti altri spazi della sua personalità e che già
nella mattinata, a ben guardare, dava qualche segno di sé. Gli domandai come
occupava il suo tempo libero. Siccome gli interessavano i film e i libri, gli chiesi che
cosa guardava e che cosa leggeva. Come film probabilmente la cosa meno
violenta e angosciante che aveva visto era L'esorcista. Quindi: Arancia meccanica,
l'«Opera Omnia» di Dario Argento, e poi tutta quella roba tipo Zombie I, Zombie II,
Zombie III, Non aprite quella porta I, Non entrate in quella casa II, Statevene a casa
vostra III, e via dicendo... I titoli dei libri ve li risparmio, ma siamo sempre lì.
Ecco dunque ciò che vorrei mettere in evidenza. Nell'ascolto di noi
stessi talora ci fermiamo a considerare ciò che appartiene ad un piano di
idealità, ad una sorta di progetto. Non è detto che il contenuto di questo
198
Nelle diverse situazioni di vita
Naturalmente la castità riveste significato e sfumature diverse a
seconda della situazione di vita.
C'è un modo di vivere la castità che è proprio del matrimonio; un
altro di chi è in stato di vedovanza; c'è un modo di vivere la castità proprio
di chi, per circostanze indipendenti dalla sua volontà, è celibe; e ce n'è un
altro di chi ha la vocazione di verginità consacrata per il Regno.
C'è in particolare il modo di vivere la castità nel tempo
dell'adolescenza e della giovinezza.
Qui si pongono le basi ideali per lo sviluppo della persona e si
forma quella coerenza e dominio di sé che si rifletterà in modo benefico su
tutte le fasi e le esperienze successive.
Educarsi alla castità
Nel campo della disciplina della sessualità non basta affidarsi al
ragionamento sul lecito e l'illecito; in tal caso la ragione appare come una
diga che facilmente si rompe. È necessaria un'intuizione spirituale che ci
aiuti a cogliere le esigenze derivanti dal fatto che il nostro corpo è del
Signore. Con la riflessione razionale non si va oltre gli elementi fondanti,
non si entra nella profondità della persona che continuerà a vivere forme di
complicità, di doppiezza, di compromesso. L'intuizione spirituale ci addita la
via della castità, del superamento continuo di sé, della sottomissione alla
straordinaria grandezza dell'amore.
Ma tutto ciò richiede umiltà, preghiera, coraggio, perseveranza. E
un lungo cammino di liberazione.
Castità come povertà
La castità è educazione e allenamento a superare ogni mentalità di
tipo possessivo e padronale nei confronti del proprio e dell'altrui corpo.
È una forma di "povertà" evangelica perché si estende pure al cibo
e alle cose voluttuarie che contraddistinguono la nostra società consumistica,
e comporta anche un uso moderato e intelligente della televisione.
Castità è purezza di cuore
La purezza di cuore è una beatitudine evangelica, «I puri di cuore
vedranno Dio» (Mt 5, 8), ed è un atteggiamento più ampio della castità.
Tuttavia la include e ci consente di scoprire la causa remota di non
pochi offuscamenti che si registrano nel campo della fede. Quando infatti la
volontà si lascia infiacchire e i rapporti amicali non sono casti, il cuore non è
puro e ci si sente cristiani banali, non si prega, si avverte il bisogno di
continue eccitazioni. In tale terreno crescono le tentazioni d’incredulità.[…]
147
Il discorso della castità cristiana è scomodo e in qualche modo
paradossale rispetto agli attuali modelli del vivere. Crea spinte e aperture che
sono in ordine al modello evangelico di amore e di libertà. […]
Educare a donarsi
Il passaggio dall'adolescenza all'età adulta non ha luogo quando
uno diviene maturo intellettualmente bensì quando ha imparato a sviluppare
un amore altruistico e disinteressato, gratuito.
Un giovane e una ragazza diventano un uomo e una donna quando
sono capaci di dimenticarsi per il bene dell'altro e degli altri.
Prima di ciò sono psicologicamente ancora adolescenti o
addirittura bambini.
Ma tale passaggio non avviene automaticamente o a caso; è la
conseguenza di un'educazione ad amare, di cui la capacità di dominare le
proprie pulsioni sessuali, i propri desideri, è momento fondamentale.
Imparare ad amare non significa iniziarsi alle tecniche dell'atto
sessuale, e nemmeno alla ricerca del godimento separato dalla comunione
interpersonale e dalla sua apertura al dono della vita.
I giovani e la castità
L'impegno a vivere la castità nell'età giovanile crea condizioni
ottimali per una trasparenza interiore che permette di ascoltare, al di là di
ogni ottusità e pesantezza, la parola di Dio e i suggerimenti dello Spirito. Per
questo è quasi impossibile che nasca una vocazione evangelica là dove non
si è vissuto un sincero sforzo di castità.
Il giovane casto diviene obbediente a ogni più pura ispirazione e
capace di dire di sì al Signore superando la propria fragilità e inerzia.
La castità non reprime i desideri, non li ridicolizza e non li nega.
Piuttosto li orienta dall'interno e insieme sostiene il tentativo del giovane di
aprirsi a un modo diverso, più profondo, di guardare e di decifrare la realtà.
libertà dell'uomo, da un abuso di questa libertà, dalla sua ribellione, e si
rinnova continuamente nella ribellione dell'uomo. Ora questa fedeltà di Dio
è un concetto fondamentale della Rivelazione.
La Sacra Scrittura ci racconta come Dio, per preparare la salvezza,
elegga un popolo; come stabilisca con esso un patto che si fonda totalmente
sulla sua fedeltà eterna, e come da essa – la quale si «comprova»di continuo
contro l'infedeltà dell'uomo – nasca la storia dell'Antico Testamento. E
come infine la fedeltà di Dio compia l'inconcepibile, l'atto di prendere su di
Sé la responsabilità per colpa dell'uomo, di entrare con 1'Incarnazione nella
storia e di subire in essa il destino. La vita di Gesù è tutta un'unica fedeltà.
Ne è espressione il modo come Egli persevera nella Palestina angusta e
ostile, perché si sa mandato come partner dell'alleanza del Sinai, pur
sapendo che il vasto mondo pagano l'avrebbe accolto con prontezza.
Persevera fino ala morte, e quale morte!La fedeltà viene nel mondo da Dio.
Noi possiamo essere fedeli perché Egli lo è e perché Egli ci ha destinati, noi
sue immagini, a essa.
14.3 Senso del concreto,
14.4 Ordine67
Conoscere se stessi per ciò che si è: un esercizio di maturità che
spesso nasconde equivoci che ce lo fanno immaginare come in realtà questo
esercizio non può essere. Ne raccolgo tre: cogliere solo il bello di noi;
ancorare i propri progetti alle grandi questioni; guardarsi dentro da soli.
Successivamente, in positivo, proverò ad entrare in un ambito concreto
dell'ascolto di sé (il tema della perdita) avente valore esemplificativo, ma con
un rilievo che mi pare vada al di là di quello che potrebbe essere lo spazio
circoscritto di un esempio.
Il rischio della idealità
Se avessi letto o ascoltato da un altro qualche tempo fa le
considerazioni che ora io stesso scrivo in questo paragrafo, probabilmente
avrei sentenziato che sono ovvie e perfino banali. Nel lavoro concreto, sia in
ambito psicologico, sia più ampiamente in campo formativo, mi sono
accorto che se è vero che nella teoria le cose sembrano molto chiare e molto
ovvie, sembra che non lo siano altrettanto nella pratica.
Vediamo meglio con un semplice esempio.
148
67 GUARINELLI S., L'ascolto di sé: equivoci e obiettivi in “Tredimensioni” 2
(2005), pp. 261-275.
197
In questo modo la fede acquista un significato nuovo: è
quell'azione in cui l'uomo supera il tempo della lontananza e del silenzio di
Dio. Quando Egli fa sentire la sua prossimità, quando la sua parola è una
cosa viva, non è difficile essere certi della sua realtà; allora è gioia credere.
Ma quando Egli si nasconde, non si sente, la parola santa non parla, allora è
difficile. Ma allora è il tempo per la vera fede.
La fedeltà e ciò che sopravvive al tempo. Ha in sé qualcosa
dell'eternità. Ma, dacché si parla di eternità, ci si può domandare come
stanno le cose in Dio. La «fedeltà» ha un senso per Lui? La domanda ci
rinvia a cose profonde; le vogliamo accuratamente raccogliere nel nostro
cuore.
Quando Dio ha creato il mondo l'ha fatto davvero grande. Le
conoscenze scientifiche degli ultimi decenni ci hanno reso consapevoli in
maniera sconvolgente della grandezza del mondo. Grandezza nel grande, ma
anche grandezza nel piccolo, se cosi si può dire. Il pensiero si perde in ciò
che qui si dischiude. II mondo è più grande del nostro pensiero; ma di
fronte a Dio e piccolo, poiché Egli è assoluto. II vocabolo «è» non può
essere adoperato per Dio con lo stesso significato che per il mondo. Non si
può dire: Dio e il mondo «sono». Egli è semplicemente, auto-sufficiente e
autopotente; i1 mondo è per Lui, davanti Lui, ordinato a Lui. Quando però
Egli l'ha creato, non l'ha fatto come per gioco, ma in modo divina-mente
serio. Egli ha collocato il suo onore nel mondo. Gli ha dato – lo si può
davvero dire – la sua fedeltà, quando Egli disse che era «buono». Lo si dice
sei volte nel racconto della Genesi, e alla fine, per la settima volta:
«Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono»
(Gn 1, 31).
In tal modo Egli si è legato al mondo. Abbiamo già parlato di quel
mito indiano secondo cui il Dio Shiva ha plasmato il mondo in un impeto di
gioia creatrice, ma poi ne ha avuto fastidio, lo ha ridotto in frantumi e ne ha
creato un altro, e dopo questo ancora un altro e così via. Questo sarebbe
l'aspetto di un Dio che non avesse nessuna fedeltà verso la propria opera.
Egli non verrebbe mai a capo, con la sua pretesa, della finitezza del mondo;
dopo un po' di tempo esso sarebbe ormai troppo poco per lui e lo
butterebbe via. Sarebbe terribile trovarsi nelle mani di Dio simile! Ma non è
così Colui che si e rivelato a noi, Egli tiene ferma la sua opera. Tiene il
mondo nell'essere. Ogni momento esso consiste e sussiste in virtù della sua
fedeltà. Questa era, se così si può dire, quella «prova» della fedeltà di Dio
verso il mondo che sta nella finitezza delle cose create, la quale non sarà mai
eliminata. Ad essa si aggiunge un'altra «prova», che non vi sarebbe mai
dovuta essere. Essa non derivò dalla natura delle cose, ma dalla storia; dalla
196
11. Emozioni e loro lettura 52
Nessuno può vivere senza sane gratificazioni, cioè, senza piccole
gioie, senza emozioni positive, senza soddisfazioni gratuite. Se uno non se le
permette, finirà con il prendersele come rapina, azzerando una parte dell'io
[…]. E soprattutto non soddisfacente.
Una gratificazione insana è destinata a ripetersi, poiché comporta
un'emozione non godibile, non piena, come una sorta di assaggio che promette
ma non da, oppure da in maniera talmente miserevole e deludente che solo
per rabbia uno tende a ripeterla, aggiungendovi il veleno del risarcimento
folle; nel male, infatti, siamo così complessi da arrivare alla volontà proterva
del risarcimento per ciò che non poteva offrirci quanto prometteva: sazietà e
pace.
Ma come si apprende la gratificazione sana? Diciamo subito che
essa ha radici di umiltà: né me la posso "rapinare" da solo, né posso essere
così disincarnato (disumano) da farne a meno. Quando è sana, la
gratificazione è un vero ponte verso l'altro di cui ho bisogno e che ha bisogno
di me; sta nella verità del legame, cui siamo consegnati. È come se Dio
avesse inventato il legame perché non credessimo di essere mostruosamente
ed orgogliosamente autosufficienti. Un sorriso, un saluto, una parola di
approvazione, uno sguardo buono ci dicono chi siamo gli uni per gli
altri. […]
[un ciao luminoso, con il sapore di una punta di desiderio.
«Finalmente ti vedo!», disse il vecchio frate — il più anziano della comunità al giovane frate di ritorno da una missione. «Quel saluto e quel sorriso hanno
dissipato le nebbie che coltivavo insieme alle mie paure di non essere
accettato, di non essere importante per loro»]
La vera gratificazione che equivale al «tu esisti» me la danno
gratuitamente gli altri.
Prima condizione
In primo luogo, ad un patto: e cioè che io abbia appreso che tra gli
umani l'unico modo di ricevere carezze è quello di darle. E qui ci
sarebbe molto da dire, meglio, da meditare: quanto la nostra cultura
massificata ci ha disabilitati ad offrire carezze (un saluto gioioso, un grazie,
un sorriso, un'approvazione) soprattutto tra maschi; sembra che una "pacca
sulle spalle" sia quanto si possano permettere gli uomini [...]
52
325.
149
GILLINI G. – ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp. 319-
E ancora: quanto la nostra cultura ci abbia abilitati a prendere
(rapinare), al punto che arriviamo a dare alfine di ricevere. E quindi ci
condanniamo a non ricevere mai; poiché quel dare è già calcolo-attesapretesa e quindi perde i caratteri del dare.
Contempliamo per un attimo quel dare speciale che è il saluto di
Maria alla parente Elisabetta (Lc l,39ss). […] Maria: «Entrata nella casa di
Zaccaria, salutò Elisabetta». Un semplice e scontato convenevole? Tutt'altro
[…] Ma da dove viene questo shalom. […] In questo «shalom» Maria porta
tutta se stessa: la sua voglia d'incontro, lo stupore per ciò che Dio compie nell'altra. E
noi, invece, non abbiamo corroso i nostri saluti che sono così scontati da
non dice nulla di nuovo all'altro? Ci dimentichiamo di quanto siano importanti i saluti, un ciao luminoso, con il sapore di una punta di desiderio.
«Finalmente ti vedo!», disse il vecchio frate - il più anziano della comunità al giovane frate di ritorno da una missione. «Quel saluto e quel sorriso
hanno dissipato le nebbie che coltivavo insieme alle mie paure di non essere
accettato, di non essere importante per loro», commentò il frate. Perché non
possiamo dire che nel saluto del vecchio frate è passato lo Spirito? […]
mutamenti, svantaggi e pericoli. Non in forza di un potere di resistenza
dovuto al temperamento. Questo ci può essere, e fortunato colui che lo
possiede. Ma la fedeltà e di più
e cioè fermezza che emerge dal fatto
che l'uomo ha assunto qualcosa nella propria responsabilità e se ne fa
garante. Essa vince le mutevolezze, i danni e le minacce della vita con la
forza della coscienza.
In un uomo simile si può aver fiducia. Si sente che in lui c'è un
punto che sta al di là della paura e della debolezza e che di lì il suo
atteggiamento di continuo si rinnova.
Seconda condizione
In secondo luogo, la vera gratificazione mi è data gratuitamente dagli
altri a patto che abbia imparato a distinguere tra pulsione e desiderio. "Pulsione" è
un movimento istintivo, immediato (ad esempio il sintomo della fame) che
esige immediata soddisfazione: e non può essere mai una buona guida
dell'io; anzi quando la pulsione pretende di guidare l'io, lo scaraventa nel
baratro del non senso. […] La pulsione non ammette dilazioni ed è tutt'altro
che umanizzante.
[…] Ma questo è un apprendimento. […]
La pulsione può diventare il mattone con cui è fatto il "desiderio"
quando ha imparato ad aspettare e ad adattarsi ad un tu. Un desiderio non
ha la protervia del bisogno o del diritto al soddisfacimento, ma si fa umile
poiché sa che la sua soddisfazione proviene da un tu. Modulare le proprie
emozioni, controllare gli impulsi, monitorare i propri bisogni, accorgersi
delle emozioni dell'altro, provare empatia: sono tutte sfaccettature del
desiderio che pronuncia in punta di piedi l'umile "posso?" per non diventare
invasore o prevaricatore.
L'Unico che potrebbe prevaricarci pronuncia da sempre il «se
vuoi»: Egli è il Desiderio che si china fino a ciascuno di noi; e, del resto, ha
chiesto proprio alla vergine il «se vuoi» che lo rende pienamente umano e
nel contempo uno che - qui - ha scelto di non pareggiare mai i conti. Per
rendere presente il margine del desiderio che sempre ci supera.
Ma se la verginità non ha radici nel controllo emotivo, nell'integrità
emozionale, nella capacità di automonitoraggio dei propri impulsi, allora
rischia di essere una fonte disseccata e vuota. Tutto questo porta all'arte di
Non possiamo inoltre dimenticare un'altra specie di fedeltà: quella
verso Dio.
Che cosa interviene quando un uomo si decide per la fede con
matura risoluzione? Anzitutto vi influisce tutto ciò che egli ha appreso e
assimilato dai genitori, dall'atmosfera della sua casa, dagli insegnamenti, dalla
vita della Chiesa e via dicendo. Ha avuto magari egli stesso delle esperienze
religiose. Egli ha, poniamo, esperito in tempi di sincera preghiera qualcosa
come una sacra e serena realtà che lo reggeva dentro. Oppure ha
sperimentato in determinate occasioni ciò che si chiama. provvidenza. Le
risposte della religione cristiana alle domande dell'esistenza lo hanno
convinto; ha notato che, seguendo le sue indicazioni, egli diveniva migliore,
più sicuro e più ricco interiormente, e altre cose del genere. Fondandosi su
ciò, egli si è deciso e ha dato a Dio la sua fede. Questa prima religiosità è
bella, generosa e colma della coscienza d'un profondo significato. Ma con il
tempo questi sentimenti possono pure alterarsi, o anche scomparire del
tutto.
Svanisce ad esempio la sensazione della vicinanza di Dio, e come
un vuoto religioso si innalza tutto intorno al credente. Oppure egli deve
constatare tutto quel molto di umano che aderisce al mondo religioso.
Oppure intervengono fatti che egli non è in grado di porre in accordo con
l'idea di provvidenza. Oppure le idee del suo tempo si allontanano dalla
fede, cosicché questa risulta come qualcosa di sorpassato. Allora la fede
perde gli appoggi che aveva nel sentimento, nelle persone del suo ambiente,
nell'ordine degli avvenimenti,e gli insegnamenti della Rivelazione, cosi
stupendamente illuminanti a tutta prima, impallidiscono. Allora lo può
assalire il dubbio di essersi ingannato, d'essere caduto in balìa di qualche
falso idealismo. Gli potrà sembrare in simili frangenti di essere stato davvero
uno stolto a credere. E questo il tempo per la fedeltà. Essa dice: io resto
fermo. Quando mi decisi per la fede, ciò che allora incise in me non fu una
inclinazione sentimentale o l'attrattiva d'una bella teoria, ma fu un'azione del
mio centro, della persona e della sua serietà. La parola «credere», «fede»
(Glauben) significa «votare» (geloben), significa votare fedeltà. Dio conta su
questo mio «voto»; perciò gli resto fedele.
150
195
forza della sua propria essenziale missione; rassicurarlo sempre daccapo e
mettersi a sua disposizione.
C'è da considerare inoltre un'altra cosa. Quando due persone si
uniscono, ognuno arriva con un determinato carattere. Ora «vivere» significa
appunto che si cresce e che perciò si cambia. Certe proprietà emergono
quando si è bambini, altre quando si e maturi, altre ancora soltanto negli
anni tardi. Può cosi succedere che un giorno uno dei due, sconvolto, dica
all'altro: Non ti conosco più! Tu non eri cosi quando mi sono innamorato di
te! Può succedere che chi parla in questo modo si senta come abbandonato
e ingannato, come se l'altra persona si fosse contraffatta, mentre in realtà
non era stata che un'evoluzione vivente quella che aveva portato in luce in
lei i suoi aspetti nuovi. E’ questo, un'altra volta, il tempo della fedeltà, della
vittoria sul cambiamento e della perseveranza. Ma ciò non rigidamente e
costrittivamente, bensì in modo che l'uno accetti sempre di nuovo l'altro e vi
si adegui. Tutto ciò può essere difficile, in certe circastanze difficilissimo; il
sentimento deluso può insorgere. Ma nella misura che una simile fedeltà
viene praticata essa aumenta in profondità e crea ciò che è realmente un
matrimonio.
Andiamo avanti: Fedeltà significa rimanere fermi in una
responsabilità a dispetto delle perdite e dei pericoli. Un tale, per esempio, ha
riassunto determinate obbligazioni. Egli ha ben riflettuto sull'affare, l'ha
riconosciuto giusto, e l'altro conta ormai su di lui. Ma ora le circostanze si
sono mutate e si profilano svantaggi. Fedeltà significa stare alla parola,
prendere su di se il danno che nel caso inverso si sarebbe addossato l'altro.
Oppure un tale è afferrato da un'idea, ha riconosciuto un'azione come
necessaria e vi si e impegnato. Ma ecco subito, come è naturale, difficoltà in
vista. Fedeltà significa tener fermo e lottare. Si può trattare di rischi attinenti
alla professione. Un medico sente che il suo lavoro logora le sue forze, forse
mina la sua vita. Un assistente sociale ha un servizio duro, forse più duro
ancora in quanto altri si danno buon tempo.
La fedeltà dice: non mollare.
tranquillizzare e confortare se stessi, arte di vivere, richiesta a tutti: se non si
vuole cadere in una morbosa dipendenza che fa dell'altro il biberon e la
stampella terapeutica. Chi possiede intelligenza emotiva, cioè non l'intelligenza
astratta che lascia l'io in balia delle pulsioni-emozioni magari non riconosciute, ha un proprio termostato emozionale, in grado di riconoscere le proprie
sane gratificazioni e di attivarle al momento opportuno, senza falsi eroismi o
superomismi. Ognuno deve imparare a riconoscere ciò che lo gratifica, che
lo rende in qualche modo diverso e che di solito pesca le radici nella propria
infanzia; «mangiare pop corn davanti alla TV» ci diceva una suora, tutta presa
dai suoi impegni missionari. Staccare la spina ogni tanto, concedersi una piccola gioia, cambiare magari ambiente per breve tempo: tutti trucchi del nostro
termostato emozionale che non consegna la nostra intelligenza e la nostra libertà
al primo impulso che passa.
Ma, di nuovo, questo apprendimento non avviene nel vuoto: ha
bisogno di un'assemblea fraterna che diventi motrice di una fraternità che
approva, conferma, sostiene e nella quale ciascuno generi l'altro nella
capacità del desiderio e non lo lasci nascondersi dietro i buchi neri della sua
storia. Per quanto grandi siano stati. È sempre possibile, infatti, aiutarsi
reciprocamente ad apprendere gratificazioni sane (o quanto meno a mettersi
reciprocamente sulla buona strada di un apprendimento, che poi ciascuno
continua in camera sua).
E che cos'è precisamente ciò che si chiama «convinzione»?
Anzitutto conoscenza: si è capito che questo e così e così lo si stabilisce, lo
si rende appunto stabile; non si ha neppure bisogno di appoggiare
ulteriormente la cosa, di metterla d'accordo con le opinioni correnti, di
vedere se reca vantaggi, o altro. Ma, dovunque ci siano uomini in gioco, non
bastano mai semplici motivi intellettuali, la presa di posizione dev'essere
sostenuta da una obbligazione cui ci si vincoli. La forza con cui si tiene
fermo ciò che si è affermato, attraverso tempi e situazioni varie in cui i
«motivi» appaiono pallidi o insicuri, è la fedeltà. La fedeltà supera i
194
151
12. Vincoli e
relazioni familiari53
riconoscenza
nelle
In parte già trattata in relazione alle motivazioni qui la vorremmo
osservare nell’ambito delle dinamiche famigliari.54
Un minimo di consapevolezza sulla qualità delle relazioni coi
propri genitori (presenti, assenti etc) è importante per fare un discernimento
un po' più libero. Le dinamiche poste dentro il legame coniugale genera
insicurezze e il loro opposto che non si possono solo risolvere
volontaristicamente. Spesso in modo incosciente quanti cordoni ombelicali
sono ancora da tagliare per incapacità o per comodità anche dopo
l’appartenenza alla nuova famiglia. Laddove il rapporto col padre o la madre
è lacunoso ne viene a risentire il legame col Signore anche smascherandone
le giustificazioni inconsistenti per questo la ri-conoscenza è la via per una
autentica relazione con Dio ed i fratelli.
“A casa di qualcuno si arriva sempre con la valigia – talora perfino
con delle potenti ipoteche – non si arriva mai come "nati stamani", senza
bagaglio. Allora vale la pena di rendersi conto del contenuto della valigia,
perché essa potrebbe contenere "attrezzature" tanto potenti da precondizionare il nostro rapportarci agli altri In ogni caso, trattare il proprio
esser figlio come corredo spendibile e credibile è la condizione per,
integrarsi nel flusso della vita, dei rapporti con gli altri.
[…] Le posizioni della persona verso la propria famiglia di origine
possono essere, più o meno consapevolmente di misconoscimento che
può diventare rifiuto o di idealizzazione .
Nel misconoscimento qualcuno pensa di “essersi fatto da solo”
con l’atteggiamento di chi ha paura di dovere un grazie a qualcuno che sia
altro da se e da cui penso di dover dipendere. “Accettare la famiglia dove mi
sono "trovato" a nascere e che non ho fatto niente per aver avuto (anche se
poi, almeno agli inizi, ho certamente determinato la storia di questa
famiglia!), accettare dunque di esser stato plasmato mi immetterebbe in una
"dipendenza" che temo, perché a senso unico. Questo sarebbe un
riconoscermi veramente debìtore: dovrei accettare che si possono contrarre
idem, pp. 173-188.
Per un approfondimento: ZATTONI M.T., A pranzo da mamma. La
coppia e le famiglie di origine. Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005.
152
53
54
psicologica. In essa i processi psicologici hanno luogo lentamente, ma hanno
per compenso una interiore profondità. I sentimenti sono forti. Essi non
divampano improvvisi e intensi per poi subito estinguersi, ma persistono e
creano stati d'animo duraturi. Le decisioni hanno bisogno di tempo per
attuarsi, ma poi perseverano come indirizzo interiore e incidono rassicuranti
sull'agire concreto. Quando un uomo con una simile indole nativa dona la
propria simpatia a un altro o si decide per la sua causa, sarà un legame fermo
che sopravvivrà a molteplici mutamenti. Simili qualità sono belle, anche se
hanno i loro lati d'ombra: il pericolo della rigidezza, della ristrettezza d'idee e
dell'ingiustizia. Ma sono, come si disse, una questione di attitudine naturale,
che non ci si può dare da se stessi e che non si può eticamente pretendere da
altri.
Altre nature sono diversamente configurate, ma anch'esse sono
obbligate alla fedeltà. Questa non può reggersi in esse a una particolare
struttura psicologica, ma deve fondarsi su una base che è in tutti
supponibile. E’ la persona umana, la sua intuizione del vero e del falso, del
giusto e dell'ingiusto, dell'onore e dell'ignominia; la libertà della sua
decisione e la fermezza con cui essa vi persiste a causa dell'altro e della sua
fiducia, per l'ideale propostosi, e rialza e riconferma la propria decisione,
ogni volta che minaccia di crollare.
Quale è il significato di questa virtù? La si può descrivere come
una forza che vince il tempo, cioè il mutare e il perire, ma non come la
durezza della pietra in rigidità fissa, bensì una forma vitale, che cresce e crea.
Cerchiamo di renderci viva davanti agli occhi la sua immagine.
Un uomo e una donna si sono incontrati, hanno cominciato ad
amarsi e si risolvono al matrimonio. Ciò che all'inizio porta il loro rapporto
è il desiderio vitale reciproco l'uno per l'altra; sono sentimenti di simpatia,
accordi del loro sentire la natura e l'uomo, identiche preferenze e
inclinazioni e via dicendo.
Questi sentimenti sembrano a tutta prima garantire una durata per
tutta la vita. Ma essi si attenuano presto; emergono differenze inevitabili in
persone differenti, ed ecco giunto il tempo per la vera fedeltà che consiste
nel fatto the ognuno dei due sia consapevole che l'altro ha fiducia in lui. Egli
si abbandona a me. Noi ci siamo legati con un vincolo che incide sulla
nostra vita. Ciò che lo regge dev'essere ciò che c'è di meglio in noi, il centro
della nostra umanità, la persona e la sua capacità di garanzia. E ora
cominciano i superamenti: esistere in ordine all'altro e riserbarsi a lui; ma
non per possederlo e dominarlo, ma per conservare la vita fondata sul
vincolo e per renderla feconda. Sapersi responsabile per l'altro; non
prescrivergli come debba comportarsi, ma consentirgli la libertà di essere ciò
che è dal suo centro personale; aiutarlo a diventare ciò che deve diventare in
193
ecclesiastiche e per lui fu fondata una cattedra di arte sacra al Politecnico di
Torino, l'unica in tutto il Regno! E questo fu il frutto della formazione,
procuratasi da se stesso, con lo studio e con la iniziativa personale. In S.
Giovanni Evangelista di Torino si ammira l'altare di Don Bosco, se non erro
detto un gioiello d'arte e un grande ed artistico lampadario di puro stile,
pure da lui ideato disegnato; n.d.r. ed. 1949). Adesso una gloria: « Quando
avverrà che un salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime,
allora direte che la nostra Congregazione ha riportato un grande trionfo e
sopra di essa discenderanno copiose le benedizioni del cielo » (M.B. XII,
381383).
14.2 Fedeltà e protagonismo negli incarichi
comunitari
14.2.1 La fedeltà66
Se le pagine che seguono devono trattare della fedeltà, si affaccia
immediatamente, quanto all'oggetto della nostra considerazione, la necessità
di chiarire alla coscienza il suono che il termine oggi ha. Noi lo usiamo oggi,
appunto, con ritrosia. Come vari altri termini concernenti valori morali,
anche questo non ha più oggi un suono del tutto genuino; è troppo grande,
troppo patetico e, di fronte alla realtà confusa della nostra vita, troppo
semplice.
Varie cause hanno contribuito a creare questo stato d'animo: enfasi
poetica, retorica ufficiale, insincerità di politici e di giornalisti. Inoltre il fatto
che durante anni terribili ci è stata chiesta un'assolutezza di adesione, una
disponibilità a ogni genere di sacrifici che nessuna causa terrena può
pretendere, e il fatto che simultaneamente si eseguivano, da parte di quegli
stessi uomini che ce lo domandavano, tradimenti tali da fare inorridire.
E tuttavia resta sempre vero che la nostra vita si fonda sulla
fedeltà. Facciamo allora bene a riflettere attentamente su ciò che intende
questa nostra logora parola.
Vogliamo anzitutto porre in chiaro che due sono le specie di
comportamento a cui essa viene applicata. La prima è una attitudine
debiti non voluti, per la sola ragione di esser nati; e ciò non si accorda con il
mio efficientismo! Oppure, e questo è ancor più difficile, dovrei accettare
che in mezzo alla zavorra degli "errori" familiari verso di me ci sia qualcosa
di prezioso che mi è stato tramandato, che in mezzo al fossile multistrato
senza valore ci sia un filo aureo. Come ogni metallo prezioso, però, occorre
che sia passato attraverso il crogiolo dei vari punti di fusione per essere
apprezzato. È troppa fatica! Perché non ne posso fare a meno?».55
Un’altra modalità di porsi da parte di chi si è fatto da solo è di chi
pone un verdetto inappellabile: «Dalla mia famiglia di origine io non ho
portato via niente perché non era possibile portare via niente!» e per cui è
facile ad ogni verdetto, liquidando ciò che non va o esaltando chi ha il
coraggio di buttare tutto alle spalle con il mito “di ricominciare da capo”,
senza annunciare che Dio ama proprio lì.
L’idealizzazione invece, quale opposto al misconoscimento, fa del
passato all’età dell’oro funzionale al mio presente.
Idealizzazione magari di un solo genitore sempre perfetto magari in
opposizione con l’altro. Dentro questa struttura sarà facile perpetuare
l’atteggiamento partigiano diventando atteggiamento potente.
Vi sono anche persone che hanno idealizzato la propria coppia
parentale: è la forma forse più sottile di idealizzazione. Essi si reputano
figli/e fortunati e grati di una coppia degna di abitare nel... paradiso terrestre
che ha i caratteri del “sempre” e del “mai”. Questa “è forse una persona con
il metro in tasca, animato da buona volontà e comprensione per "i malati",
gli sfortunati, gli infelici, sollecito anche, ma con il perpetuo sospetto che le
cose che vede non devono essere così, che c'è sicuramente da qualche parte
un colpevole, se le cose non vanno lisce... perché la sua esperienza familiare
l'ha reso un "piccolo psicologo", esperto su come le cose dovrebbero
andare!
La sua mente può essere ingombra di miti e leggende. Chissà mai
perché incontra persone che prima o poi gli dicono «tu non capisci» e che
non entrano nei suoi schemi in bianco e nero.[…] "Ri-conoscenza"
55
66
192
GUARDINI R., Virtù…, oc. pp. 79-88
177.
153
GILLINI G. - ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp. 176-
I cristiani hanno una linea di direzione importantissima: la
ziz- zania è sempre mescolata al buon grano (Mt 13,25-30). Anche se questo
crea da sempre problemi ai "puristi": «Ma allora non do- vremmo estirpare
la zizzania che cresce insieme al buon grano? Non avremmo diritto al solo
buon grano, non dovremmo darci da fare per separare, discernere,
giudicare? Cerchiamo di capire bene perché cresce, e così la eviteremo!». Il
realismo e la fede matteana ci additano una logica superiore, non
semplicistica come quella "psicologia fondata sui luoghi comuni". Ci
indicano lo sforzo concreto di discernere il filone aureo per conoscere la
nostra famiglia d'origine e le nostre figure pater- ne. Ri-conoscenza è
anzitutto un conoscere di nuovo […] Ri-conoscere è una "fatica" (gioiosa!)
che occorre volere e scegliere; per riuscire a trovare il punto di fusione dei
materiali grezzi quali i risentimenti, i conti sospesi, le delusioni, le ostilità, i
rancori, i "dolori non trattati" e per tener, al tempo stesso, ostinatamente
fermo il filo aureo della trasmissione del bonum ricevuto. […]
La famiglia d'origine è l'ordine-organizzazione entro cui siamo nati, che ci ha
in qualche modo "creati" e che noi abbiamo imparato ad usare come nostra,
addirittura portandola a nostra misura, con lessici familiari, con modalità
tipiche di gestire lo spazio e il tempo (per cui qualcuno sa sempre che giorno
è, e non confonde la sinistra con la destra; qualche altro non sa più a quali
artifici ricorrere per ricordarsi dov'è la destra o non ritiene neces- sario
distinguere il lunedì dal martedì). Il corpo familiare d'origine è carico degli
infiniti significati che hanno per noi dato colore al mondo", ma che
mantiene sempre, al di là di tutte le nostre analisi, un suo quid di incognito,
di non quantificabile, di sempre-ancora- di-nuovo esplorabile. ”56
56
154
idem, pp. 182-184.
trovarsene del lavoro. Guai a coloro che dicono: io faccio la mia scuola e
basta. Tu non sei salesiano, sei un poltrone. Senza misurare il lavoro, dice il
Papa Pio XI (M.B. XIX, 157). Guardate Don Bosco. È una personalità
unica nella storia. Il lavoro se lo cercava lui in tutti i campi. Ed era un genio
di attività e di organizzazione nell'attività salesiana. Don Bosco faceva notare
il bene che può fare un chierico facendo un giro per i corridoi e per i luoghi
nascosti. Tra tutti si fa tutto. Aiutare gli altri, lavorare d'accordo. Don Bosco
va per una strada, vede un carrettiere che spinge inutilmente il suo carretto e
senza fare tante distinzioni e senza temere di ribassarsi, l'aiuta a spingere
insieme. « Coscienza collettiva », che bisogna lavorare e lavoro che bisogna.
Cosi si fa in molte case. Quando si lavora, dei peccati non se ne fanno, ed il
diavolo se ne scappa. Coscienza interna, che ci porta a far bene il nostro
lavoro; correggere il compito, e non lasciar scappare i maccheroni. Studiarsi
le prediche... Il salesiano vero non misura il lavoro ». Che Bella parola ha
detto Pio XI! Per carità, non ascoltate mai i sonniferi, che ci sono in ogni
casa. « Non si stanchi troppo, mangi di più lavori di meno, ecc. ». Ma
piantatela 1ì, che bisogna lavorare. Non lavorare per far carriera, ma per
piacere a Dio. II salesiano bisogna che si renda atto al lavoro, perché noi
formiamo un'azienda cooperativa. La nostra rendita si vende nel cielo ed il
guadagno si divide fra noi. Con amore »: lavorare con amore e il segreto
della nostra riuscita pedagogica e professionale, e la gloria del passato
artigianato italiano (osservate i musei...), far bene il proprio mestiere.
Coraggio e ardimento »: e una qualità che non dobbiamo dimenticare. Cosi
si sono formati i vecchi salesiani; la scuola non insegna tutto eh') che
bisogna sapere. Se non sai, aggiustati, cerca, ardisci. Ti danno una scuola. Ma
io non so... Ardisci, fai quel che puoi, studia. Non fate caso ai disfattisti: ma
la salute? Iddio aiuta. Saper far più di un mestiere: la preziosità di un
coadiutore e che non sa fare una sola cosa. Nelle nostre case siamo
fortunati, quando abbiamo dei coadiutori che sanno fare di tutto, e che se
non sanno, si danno al lavoro per imparare. Un direttore disse a Don Rua: «
C'e Guaschino (un coadiutore) che lavora da mane a sera e non ha tempo di
prendere fiato. Ha bisogno di aiuto. Faccia il favore di mandare un altro ». E
Don Rua: « Lavora molto? Tenete conto per la biografia ». Per il sacerdote è
dovere di coscienza la scienza: ma già nella vita moderna non basta più quel
poco di teologia, ma bisogna formarsi della cultura. Nessuno al mondo
conosce la cultura di Don Bosco come me; in un libro in cui non c'e
nessuna citazione — « La Storia d'Italia » — ne ho scoperte moltissime
provenienti da 80 libri diversi. C'e il Muratori, i Bollandisti, ecc. Questa
cultura Don Bosco se l'e raggranellata poco a poco. I primi coadiutori di
Don Bosco, nei momenti liberi, avevano sempre un libro in mano;
perfezionarsi nel proprio mestiere... Ci sono state delle rivelazioni, nessuno
si sarebbe aspettata tanta scienza da quel salesiano. (Don Caviglia divento
storico di erudizione; professore d'arte sacra, tanto che meravigliò le autorità
191
forze e il numero degli individui: ma niuno si sgomenta, e pare che la fatica
sia un secondo nutrimento » (XIV, 218). In quella relazione Don Bosco con
piena coscienza e fedeltà storica, fa il più bell’elogio della Congregazione
salesiana. Orestano, che è uno di quelli che meglio dissero di Don Bosco,
perché non fa della retorica, ma pensa e studia, afferma che «necessità
educative e sociali intuite nello spirito dei tempi, gli fecero scoprire lo spirito
di educare con il lavoro e per il lavoro; questa è la vera originalità di Don
Bosco ». Don Bosco fin agli ultimi istanti ripete sempre: « L'ardore del
lavoro ». A quelli che, vicino alla morte, gli andavano a baciar la mano in
silenzio, come Settimio Severo, l'infaticabile imperatore di Leptis Magna,
ripeteva: « Laboremus! » (Lavoriamo!). Noi siamo veri proletari della Chiesa,
i lavoratori nel senso nobile della parola: « Chi non sa lavorare non è
salesiano » (XIX, 157). Parole citate dal Papa Pio XI il 3 giugno1929. Nel
1933 diceva ancora: « Non appare bene nelle file salesiane chi non è un
lavoratore: il lavoro è il distintivo, la tessera di questo provvidenziale
esercito » (XIX, 235). E già nel 1922 ci aveva concessa la « Porziuncola
salesiana », l'indulgenza del lavoro (La guadagniamo? detto questo tra
parentesi). Ecco lo scandalo di un santo, di un santo, possiamo dire, «
americano »: dice molte più volte lavoriamo che non preghiamo (Si fa presto
a dire: preghiamo quando c'è la tavola pronta, ma è piu difficile
prepararsela). Don Bosco raccomanda il lavoro; ma suppone la nostra
spiritualità del lavoro, che il lavoro è preghiera! Non faccio una conferenza
di accademia, quindi bisogna che noi vediamo il lato spirituale del lavoro. Il
lavoro salesiano è lavoro di anima, la nostra anima, è la spiritualità che noi ci
mettiamo nel lavoro. Ecco la seconda definizione che vi do: « Il salesiano
esce dal mondo per associarsi religiosamente ad una collettività organizzata
sotto una guida per un lavoro profittevole alla società cristiana ed alla gloria
di Dio ». Insomma noi siamo santi dalle maniche rimboccate: questo è il
tipo del salesiano. Se io dovessi dipingere Don Bosco tra noi salesiani, li
farei tutti con le maniche tirate su. Non bisogna più dire nelle lettere
mortuarie: « Nonostante il molto lavoro si faceva santo». Come? Non
capiscono niente costoro? Mediante il tuo lavoro ti fai santo, non «
nonostante » il lavoro... Quando sentite leggere in refettorio, date un pugno
sulla tavola e se si rompe il bicchiere, sarà in onore di Don Bosco, il quale
non ha fatto libri di ascetica, ma ha raccomandato il lavoro. Non libri dotti,
non collezioni magnifiche; noi nel mondo siamo considerati come lavoratori
gente che produce, non succhioni della società. Il lavoro di colui che vuol
essere buon lavoratore di Don Bosco ha qualità proprie: « Alacrità, voglia di
lavorare ». Il vero salesiano non cerca riposo, sempre dice: datemi qualche
lavoro. La vera vacanza consiste nel cambiare lavoro, Il vero salesiano ha
bisogno di lavorare. Voi non lo vedete mai fermo.. Noi dobbiamo essere
come i bambini che non sanno mai stare fermi. Spontaneità. È il « vado io »,
il contrario del « non tocca a me ». Non farsi dire le cose, ma anche
190
12.1 Svincolo e onnipotenza 57
Sabi na, 19 anni , prim o anno univ ersit ario, non sa fare una piccola scelta
in proprio.
Ascoltiamola*
Sono arrivata all'università con il massimo dei voti di maturità, ho
passato brillantemente gli esami di selezione, ora sono qui a Roma nel
collegio universitario: anche se sono la primogenita di quattro fratelli, i miei
mi finanziano tranquillamente. Riconosco di essere sempre stata privilegiata
(o viziata) su tutto e che non ho mai affrontato vere difficoltà: qualche nota
a scuola, specie nelle medie; qualche predicozzo per farmi rigare diritto.
Normale amministrazione. Poi al liceo ci ho dato dentro con tutta me stessa:
mi sono perfino "innamorata" del mio prof. di filosofia e quasi quasi
sognavo la sua stessa laurea. Papà, però, dirigente d'azienda, uno che sa
come va la vita, mi ha fatto ragionare: con la filosofia non si mangia, anche
se non avrebbe trovato scandaloso se proprio mi volevo iscrivere. La cultura
è sempre cultura, dice. Mamma lo sostiene; nelle grandi scelte sono sempre
d'accordo. Nelle piccole abitudini, invece, sono molto diversi... e lo sanno.
Ma dì solito – non se lo rinfacciano. Hanno scelto di abitare a Velletri, nella
grande cintura romana, per essere comodi alla capitale e nel medesimo
tempo fare vita di provincia, dove si può conoscersi e "lavorare sul
territorio", come si esprimono.
Sono ambedue nel consiglio pastorale, il parroco li stima molto,
anche se – di fatto – è più mia madre che "lavora" come catechista,
animatrice, responsabile di un gruppo famiglia. Ma nelle grandi occasioni
siamo tutti assieme all'ombra del campanile: per sostenere un'iniziativa,
magari fare una mascherata o un bel pran-zo insieme, in cui vengono fuori
tutte le doti organizzative di mia madre. Nel saper stare al posto giusto nel
momento giusto non la batte nessuno. Anche papà l'apprezza molo, glielo
dice sia in pubblico, sia in privato. Siamo una bella famiglia. Anche nel
permettermi il collegio universitario si sono rivelati in gamba: potevo andare
su e giù, come tutti; ma papà ricorda come «gli anni più belli della sua vita»
quelli del collegio univer-sitario ed io ero entusiasta di fare vita universitaria,
di fare nuove amicizie ecc. Ed ora eccomi qui: sono passati sei mesi e sto già
per dare gli esami del primo semestre; intanto mi sono fatta amici, ma in
particolare una, vicina di camera, un anno più avanti di me, brillante,
estroversa, sicura di sé. Io invece, me ne accorgo sempre più,sono più
bambocciona, ingenua e anche capricciosa, se vogliamo. Eppure Erica, la
57
155
GILLINI G. – ZATTONI M., Il piercing dell’anima…, oc, pp. 143-152.
mia vicina di camera, mi apprezza e mi vuole bene. Sono fortunata ad aver
trovato un'amica come lei. Ma è successo qualcosa che rischia di minare i
nostri rapporta: ed è la sua proposta di iscrivermi al corso di volontaria della
Croce Rossa; lei – giusto l'anno scorso – ha fatto il semestre teorico, poi ha
fatto l'esamino ed ora fa la pratica. Le piace moltissimo. Anche a me
piacerebbe. All'inizio, mi è sembrato che non ci fossero problemi di sorta:
una bella esperienza, che mi avrebbe allargato gli orizzonti. Ma quando l'ho
detto in famiglia, è iniziato il gelo. Io credevo che mi dicessero come al
solito: «Apprezziamo le tue scelte, sei libera!». E invece, prima mamma e poi
papà, hanno cominciato ad avanzare quelle che loro chiamano "le loro
riserve": sono troppo giovane, mi metto allo sbaraglio, vengo a contatto con
cose terribili, come accogliere uno in overdose dal marciapiede, posso venire
in contatto con ubriaconi, violenti,prostitute ecc. Non sono pronta. Loro
sarebbero troppo in ansia a sapermi in giro con l'autoambulanza, specie
papà; il quale ha anche aggiunto che ha saputo che la vaccinazione contro
l'epatite. C, obbligatoria per i volontari della Croce Rossa, non è a ben
guardare priva di rischi... Oh, con loro ho fatto il muso duro: ho detto che
eco pronta, che non ero più una bamboccia, che non mi facevano paura i
rischi, anzi! E poi: che non faccio niente di male, che era una bella cosa
spendersi per gli altri, che loro mi avevano insegnato ad accettare i rischi,
che loro dovevano essere orgogliosi di una figlia come me, che non
dovevano avere paura. Non sapevo di poter combattere così, di essere
capace di tirar fuori tante ragioni... alla fine il papà ha detto: «Fa' come vuoi.
Noi ti abbiamo avvisato». Ma io piango. La mia amica Erica non mi capisce,
non vede che bisogno ci sia di piangere. Neanche io lo vedo, ma le lacrime
in questo periodo mi vengono da sole. Non rinunciare: si tratta di te! – mi
dice Erica. Non posso – rispondo, inondata di lacrime. Ma se, in fondo, ti
hanno dato il permesso! Non posso – ripeto – il mio papà non si merita che
lo tratti così. Così come?! – sbalordisce lei. In fondo, non mi costa
rinunciare; non voglio mandarli in ansia; in fin dei conti, lui ha vissuto
sempre per noi, ha fatto tutti i sacrifici, anche la notte, con noi piccoli; sul
lavoro – lo so io – ha dei problemi anche se lui non li fa pesare... Vuoi che
sia io a dargliene uno in più?! Allora di' che questa cosa della Croce Rossa
non t'interessa e amici come prima – incalza lei. — No che mi interessa,
eccome! Mi ero già immaginata crocerossina... entusiasta... sarebbe
finalmente una cosa che mi entusiasma davvero... E allora non rinunciarci!
— Non posso. E di nuovo le lacrime si impadroniscono di me.
Ecco finalmente una famiglia "normale", anzi una bella famiglia
che ha valori, che è unita e si dà da fare per gli altri; la famiglia che ogni
adolescente vorrebbe avere: in cui ci sono diversità, ma non scontri; unità,
ma non omologazione; in cui i genitori stanno bene insieme, condividono le
scelte di fondo, eppure si permettono di essere diversi nelle piccole cose, di
avere strategie in proprio, di non essere confusivamente uguali. La
156
14. Senso di responsabilità64
Il quotidiano come misura della vita
Le piccole cose come via per la conquista delle grandi
Esercizio del lavoro di differenti tipologie:
Dalle pulizie della casa al lavoro nascosto per i ragazzi
L'animazione del cortile
La fantasia e lavoro per i grandi eventi
La disponibilità a lasciarsi destrutturate dagli eventi e dai destinatari
14.1 Dovere quotidiano
14.1.1 Il lavoro65
“Sint lumbi vestri praecincti et lucernae ardentes in manibus
vestris”. (Siate pronti, con la cintura ai fianchi le lucerne accese nelle vostre
mani. Lc 12,35). “Qui laborat orat ” (Chi lavora prega). “Il lavoro e la
temperanza faranno fiorire la società salesiana” (Sogno di Don Bosco).
I sogni sono molti ma dicono tutti lo stesso parlando del lavoro
salesiano. Il lavoro non è stato messo nel nostro stemma che fu creato per
metterlo nella Basilica del Sacro Cuore a Roma. Non è il motto, ma è lo
stesso stemma, l'eredita di Don Bosco. Gli venne insegnato nel sogno del
1876: “ Questa è la condizione per la conservazione e propagazione della
Congregazione: farai stampare un manuale che lo spieghi (Il lavoro e la
temperanza faranno fiorire la Congregazione salesiana). Finché i tuoi figli le
osserveranno, avranno seguaci in occidente, in oriente, al sud ed al nord
(M.B. XII, 446). Lascio stare quello che disse Pio IX: « Preferisco una casa
dove si lavora molto, che una casa in cui si prega solo, perché vi può regnare
l'ozio » (X, 799; IX, 566).
Ciò che scrisse Don Bosco nel 1879 nella relazione della Società
salesiana, che fece a Roma, ci allarga il cuore: e son sicuro che se Don Bosco
dovesse scrivere adesso, non cambierebbe una sillaba. « Il lavoro supera le
64 CENCINI A., Per un salto di qualità nella pastorale vocazionale alle soglie del
terzo millennio, in "Vocazioni", 1, 2000, pp. 75-86.
VECCHI J. E, Spiritualità Salesiana. Temi fondamentali, LDC Torino, 2001,
pp. 100 – 103.
VIGANÒ E., Un progetto evangelico di vita attiva, LDC – Torino, 1982, pp.
100-117.
65 CAVIGLIA A., Conferenze sullo Spirito Salesiano, CMS – IIDB Torino
1985, pp, .
189
b)
e)
lungo ad "esercitare da stampella"! Accettare se stessi
significa accettare i propri limiti, le proprie idiosincrasie,
accettare di esporsi all'altro, di non mettersi maschere. Non
costruisco nessuna fraternità se non accetto che l'altro mi
veda come sono.
Una seconda condizione è la capacità di scambiarsi carezze,
il che è come dire «nutrire l'altro ed essere nutriti» (abbiamo
già usato il termine carezza come termine tecnico di E.
Berne). È il principio della cura, in senso heideggeriano, se
vogliamo. Una fraternità non è un dato esterno che c'è o
non c'è, ma essa accade nella cu ra, è costituita nel mio
prendermi cura del legame, nel coltivarlo con tutte le
fatiche, le attenzioni e le sorprese che ciò comporta (e
questo mi fa uscire dalla logica del «Non toccherà sempre a
me?», «Perché devo cedere io?»). La cura del legame è una
grande testimonianza di maturità spirituale!
La terza condizione si configura in quei tratti alternativi
alla cultura competitiva che non può immaginare una
fraternità che non produca scorie e rifiuti, per cui l'unico
modo di mantenere viva la fraternità è che tutta la comunità
se ne faccia carico. Ciò comporta allora che ciascuno apra il
proprio cuore
1) a tollerare apporti provvisoriamente diseguali
2) a tollerare apporti imperfetti
3) e a vivere le due fasi precedenti nella gratitudine.
primogenita porta alta la bandiera familiare: a pieni voti è già con un piede
nell'Università; le hanno permesso un legittimo distacco, e cioè la residenza
nel collegio universitario, anche se non sarebbe stato strettamente necessario
per la frequenza. Lei sa bene che questo è un privilegio, e perfino che ciò
rappresenta il suo modo di sentire le ragioni di papà: «Per me è stato il più
bel periodo della mia vita». Eppure basta un piccolo intoppo per farla
precipitare nelle lacrime; Sabina non ce la fa a fare quella piccola e benefica
scelta in proprio di iscriversi al corso di volontaria della Croce rossa e si
rifugia in un vissuto depressivo, agli occhi di tutti – specie della sua amica –
esagerato. Ma allora? Com'è che c'è qualcosa che non va? Com'è che da un
bel giardino di rose ad un certo punto salta fuori la gramigna? Una sonda:
non sta scritto da nessuna parte che, quando le cose vanno bene in famiglia,
il figlio/a non debba affrontare sofferenze e intoppi. Anzi, è saggio
"lasciarlo soffrire" con rispetto. Non è saggio evitargli tutte le sofferenze,
anche se fosse possibile! Dobbiamo coraggiosamente porci al di là di ogni
determinismo, del tipo: quando le cose non vanno in famiglia per forza il
figlio/a sta male, vive nel disagio; ma quando, viceversa, in famiglia va tutto
bene, non si vedono le ragioni perché il figlio/a sia inceppato e insofferente
(a meno di non dare la colpa, al solito, alle cattive compagnie, alla società
ecc.: cose che, nel caso di Sabina, filano emblematicamente tranquille).
Insomma, togliamoci dalla testa il facile determinismo delle colpe dei
genitori: vogliamo forse togliere al figlio/a in crescita il suo fazzoletto di
libertà? Questo cercare sempre comunque le colpe non è – in fondo –
un'operazione comoda che ci rassicura sull'ingenua aspettativa da paradiso
terrestre prima de. peccato originale: se non ci sono colpe, tutto deve andare
bene?
I bravi genitori
A dire il vero, un modo di colpevolizzare i genitori qui ci sarebbe:
«Come sono ansiosi, come sono esagerati, come le mettono i bastoni tra le
ruote, poverina! ». Anzi, qualcuno potrebbe insinuare: «Eccoli i bravi
cristiani che predicano bene e razzolano male. Quando si tratta della loro
figlia, tutte le loro belle idee "umanitarie" sono azzerate. Se tocca alla loro
diciannovenne scontrarsi con la dura realtà, loro glielo vogliono impedire!
Soprattutto questo padre non vuole forse preservarla troppo dalla realtà?
Non vuole forse lasciarle fare solo quello che vuole lui per stare meno in
ansia e per stare più tranquillo?». In altre parole: i "bravi" genitori non
devono tirare indietro i figli, non devono contraddirli, non devono
esprimere il loro parere. Altrimenti guastano l'incantesimo di un'intesa così
solidale e poi, poverina, mettono la figlia nella situazione di disobbedire
oppure di rinunciare alle sue legittime aspettative. Sabina infatti piange, non
sa cosa scegliere: questi genitori le hanno messo i bastoni tra le ruote. Un
simile ragionamento fa molte pieghe: i "bravi" genitori non sono perfetti; i
188
157
"bravi" genitori sbagliano, specie quando un figlio/a primogenito/a li mette
di fronte ad opinioni o scelte che loro non avevano previsto; i "bravi"
genitori hanno il loro parere che non è necessariamente uguale a quello del
figlio; i "bravi" genitori sono franchi, non credono di dover star zitti per
paura di "perdere" il figlio/a. Nel nostro caso, possono essere d'accordo sui
suoi valori di fondo, ma non sulla sua realizzazione pratica e contestuale. La
nostra sonda: genitori che stanno zitti, che ritirano il loro parere alla vista del
dolore del figlio, non sono genitori che rispettano il figlio; essi devono
essere franchi - a maggior ragione se le scelte del figlio sono oggettivamente
sbagliate! - poiché non è in loro potere cancellare le sofferenze del figlio;
genitori franchi, che dicono quello che pensano, sono genitori molto più
rispettosi, perché sanno che la sofferenza del figlio non lo sommergerà.
Lo svincolo
C'è un altro indicatore che ci fa propendere per la legittimità
dell'esprimere il proprio parere di genitori: l'assenza di ricatto. Il padre di
Sabina le esprime le sue perplessità e le sue paure, poi la lascia libera. Non la
"lega" con ricatti del tipo: «Non so da dove ti venga fuori quest'idea, ma...
sei proprio mia figlia?» Peggio: «Se farai questa scelta ti sottraggo qualcosa
(per esempio, non ti finanzio il collegio)».
E allora? Perché mai Sabina, in vista di una scelta oggettivamente
generosa e lodevole, non dice: «Caro papi, ho capito le tue ragioni, però io
trovo giuste le mie e quindi (magari con qualche mediazione del tipo: per
ora farò soltanto la parte teorica) faccio ugualmente la mia scelta»?
Perché Sabina precipita nelle lacrime confusive e non sa più se
seguire se stessa o il papi? Perché non le basta l'appoggio disincantato e
disinteressato dell'amica?
Abbiamo qui a che fare con un passaggio importante dello svincolo
familiare. Il bambino, legittimamente, sente come vitale la protezione dei
genitori e - se in famiglia non ci sono drammi particolari - vuole meritarsela,
facendo in tutto e per tutto quello che vogliono i genitori. Vuole stare sulle
loro orme, ha bisogno di stare al sicuro dietro di loro, è come se dicesse:
«Vedete che mi merito la vostra protezione, vedete come sono bravo?». Egli
cioè, a buon diritto, confonde protezione con approvazione: se sono contenti di
me, allora mi proteggono, allora restano genitori.
Ma il punto è che non può sempre durare così: egli - durante
l'adolescenza - è chiamato ad uscire dalla zona d'ombra dei genitori, magari
solo a tratti; se resta sempre protetto, al sicuro, a fare il "bravo bambino" (il
bambino che si paga genitori onnipotenti e buoni!), allora non diventerà mai
adulto.
Man mano che cresce deve fare scelte in proprio, non necessariamente contro i genitori, ma appunto in proprio: deve cioè uscire dalla
zona d'ombra genitoriale, con il rischio di non essere approvato', che non vuoi
158
d) Conoscere umilmente i propri desideri, le proprie gratificazioni sane (e
distinguerle dalle proprie pretese!).
La condizione di astinenza affettiva è disumana: di chi crede di non
aver bisogno degli altri e quindi si espone a vari gradi di dissociazione.. […]
Anche il consacrato/a ha bisogno di dare e ricevere gesti affettivi, semplici,
leali, spendibili alla luce del sole […] Jacques Lacan afferma che ciò che
l'uomo (nel senso di essere umano) desidera più di ogni altra cosa è che
l'altro lo desideri. Se, dentro la storia in cui vivo, nessuno mi dice con un
sorriso: «Ti vedo», «Ci sei», «Avevo proprio voglia di sentirti!»; se nessuno fa
mai un gesto per venirmi vicino, se quan do ho un pensiero, un dubbio, un
dolore non ho mai nessuno a cui ,dirlo (ma non dirlo solo per parlare, dirlo
sentendo che l'altro/a lo sente, lo percepisce e mi risponde con il suo corpo:
«OK, messaggio ricevuto»), allora la condizione in cui vivo è disumana.
Posso essere ascoltato come autorità, citato per la competenza, rispettato
per i titoli accademici, ma prima o poi sentirò l'estremo dolore di non
essere importante per qualcuno. E se mi chiudo nella mia camera
dicendomi: «Dio solo mi basta» sto mentendomi, perché quel Dio solo mi ha
posto in mezzo a fratelli e sorelle che hanno il compito non eludibile di
raggiungermi (vedi la tradizione delle sette opere di misericordia!). Ma qui è
possibile l'estremo inganno: che io (come la moglie della lettera che abbiamo
letto all'inizio del paragrafo) mi limiti ad attendere che gli altri si accorgano
di me, che gli altri mi raggiun gano, non accorgendomi che, man mano che
la mia attesa si rivela vana, il mio corpo rivela tensione, delusione e
risentimento. In forza del desiderio tramutato in pretesa, mi sono
dimenticato la "regola aurea", stupefacente regola che può essere detta
anche in termini tecnici: «Tra gli umani, l'unico modo di ricevere carezze è
quello di darne», [quanto la nostra cultura massificata ci ha disabilitati ad
offrire carezze (un saluto gioioso, un grazie, un sorriso, un'approvazione)…
E ancora: quanto la nostra cultura ci abbia abilitati a prendere (rapinare), al
punto che arriviamo a dare alfine di ricevere. E quindi ci condanniamo a non
ricevere mai; poiché quel dare è già calcolo-attesa-pretesa e quindi perde i
caratteri del dare.]
13.5.5 La fraternità
Ma perché i membri della fraternità siano in grado di viverala
occorrono alcune condizioni.
a)
L'accettazione di se stessi come persona, con le proprie luci e le
proprie ombre. Se nelle relazioni fraterne vado a caccia di
prove di quanto sono accettato, di quanto sono approvato,
di quanto sono amato, trasformo la fraternità in stampella
terapeutica. Mi inganno e inganno gli altri. Nessuno regge a
187
-
dice molto più di ciò che crediamo di far vedere all'altro, anche se non ne
siamo consapevoli ed anche (non finiremo mai di stupirci) al di là
delle nostre intenzioni. […]Il nostro corpo, però, parla. Ed è una
fortuna, perché prima o poi ci costringe a fare unità con il nostro
mondo interno, a conciliarci con noi stessi. Per dirla in termini
banali: ciò che pensiamo dell'altro o puzza o profuma. Anche con le
parole più delicate o più sfuggenti o più diplomatiche, il nostro corpo
emana il cattivo odore del nostro disgusto, della nostra distanza, del
nostro giudizio. Ma, al contrario, anche con parole scarne, o
addirittura rozze, il nostro corpo emana il profumo dell'alleanza,
della vicinanza, della condivisione se il nostro mondo interno è
accogliente con l'altro. […]«La lampada del corpo è il tuo occhio?».
Il tuo modo di vedere illumina o precipita nelle tenebre il tuo
corpo. E cioè (quanto al guadagno che abbiamo annunciato) il tuo
corpo dice, dichiara, proclama il tuo modo di metterti in relazione
con gli altri.
Abitare il proprio corpo: è mol to più che cercare l'aspetto fisico: è
una forma pienamente umana di rispetto per sé e per gli altri. È
conciliarsi con la propria storia, con la propria famiglia d'origine,
con il "come si è fatti" («Bruna sono ma bella», dice la sposa del
Cantico). Il corpo non è il luogo del "nonostante" (nonostante non
sia bello, non sia piacevole, ecc.) ma il luogo che Dio mi ha dato per
cominciare a cantare i suoi benefici: se non avessi questo corpo, non sarei io.
«Dio non ha che te per amare te, se non hai nessuna cura per te
Dio non può raggiungerti». Proprio nell’abitare il nostro corpo noi
incontriamo l'altro. Il corpo grumo di relazioni, infatti, è il vivente
provvisorio risultato di miliardi di contatti, carezze,
manipolazioni, coccole, ma anche di ferite, di assenze, di
microtradimenti. Il mio corpo è la palese dichiarazione che sono
stato amato. Allora, abitatare il proprio corpo significa ascoltarlo nei
suoi messaggi profondi fra cui :
a) Prendere contatto con le proprie emozioni e apprendere il "controllo degli
impulsi" o l'autocontrollo emotivo, che non è attività per uomini o
donne in odore di castrazione, ma è la capacità più importante che
ci rende umani e ci restituisce alla nostra intelligenza emotiva
b) Imparare a tranquillizzare se stessi, ed è un'arte: aver fiducia nel proprio
termostato emozionale? sapere che è l'io il capitano del proprio
corpo.
e) Imparare a confortare se stessi, mettendo in atto meccanismi di riparazione
(adesso posso meritarmi una buona musica, un cioccolatino ecc.
ecc.).
186
dire non essere protetto (amato). L'adolescente dovrebbe fare esperienza
che i genitori possono ritirare la loro approvazione, ma non la loro
protezione; che cioè essi rimangono tali, generanti, anche in presenza di
scelte altre del figlio/a; perfino di scelte sbagliate. È ciò che accade nel
modello inconfondibile di Padre della parabola lucana del padre buono: il
figlio prodigo se ne va; il Padre non lo approva, ma non gli ritira la sua
protezione, non rinuncia ad essergli padre. Tant'è vero che, quando egli si
sente indegno di essere figlio e vorrebbe essere semplicemente servo, Egli lo
re-istituisce figlio, gli ridona la sua protezione (l'anello e il vestito: Le 15,22)
per la sola ragione che non gliela aveva mai ritirata. Lo svincolo del figlio
non può non comprendere il dolore dell'allontanamento: auguriamo ad ogni
figlio/a di fare almeno una briciola di esperienza del Padre che non viene
mai meno al suo essere padre (e madre), qualunque cosa faccia il figlio.
Un atteggiamento onnipotente
Sabina invece, persegue un compito impossibile: fare ciò clie lei
vuole e contemporaneamente ottenere l'approvazione paterna. È cioè
drogata di onnipotenza: non vuole mollare il suo essere "bravo bambino" e
nel contempo pesta i piedi per essere se stessa. Non vuole perdere nulla e
per questo annega nelle lacrime: forse vorrebbe "far pena" ai genitori e, in
qualche modo, obbligarli a darle la loro approvazione, cui lei ritiene di avere
diritto. Anche se è una dolcissima "bamboccia", come lei si autodefini-sce, è
una bambina arrogante. È la prima volta che si scontra seriamente con un
parere diverso dei genitori. Lo ripetiamo, a mo' di sonda: certe lacrime, per
quanto manifestino dolore, non devono commuovere i genitori; genitori
tirati ad approvare una scelta anche controvoglia sono genitori che non
hanno fiducia nel figlio/a e quindi "capitolano", facendo capitolare anche
lui/lei. Questo, lo ripetiamo, non ha niente a che fare con i ricatti affettivi o
le minacce. Oltre che arrogante, cioè desiderosa di far fare ai genitori quello
che vuole lei e nei modi in cui vuole lei, Sabina è anche confusa: si racconta
che il papà non si merita un dispiacere, che lei non dovrebbe deluderlo, che
un simile padre ha tanti crediti presso di lei; riesce persino a pensare di
essere generosa, se rinuncia; salvo poi essere piena di lacrime che, come
nebbia, nascondono la sua rabbia per non essere riuscita a far... quadrare il
cerchio. Ma in questa auto-narrazione Sabina rassicura soprattutto se stessa:
non vuol rinunciare a fare la bambina di papà; vorrebbe piuttosto che papà
non avesse le idee che ha. Se i genitori stanno fermi, non ritirano la loro
disapprovazione, Sabina passerà il guado e ne trarrà una grande lezione: lei,
come tutti, non può avere contemporaneamente capra e cavoli. È così
chiamata a un passo ulteriore: accedere all'approvazione della propria
coscienza. Non c'è altra strada per diventare adulti, anche se costa fatica. E
lacrime. Ma lacrime di un'altra marca, che vincono la nebbia confusiva e
fanno intravedere il sole della propria vocazione.
159
(talora più di due) lo sanno soltanto loro. A mano a mano che la
nicchia si chiude all'esterno, ciascuno funziona da partner
sessualizzato dell'altro: tant'è vero che, più o meno
consapevolmente, ciascuno tratta l'altro da tale; vuole per sé
l'esclusiva dei pensieri, delle emozioni, dei vissuti; non accetta
nessuna distanza; diviene sempre più intrusivo e fagocitante; prova
perfino fenomeni emotivi: gli batte il cuore se sente la sua voce, lo
pensa ossessivamente, non può ammettere di non essere il centro
dei pensieri dell'altro. […] Probabilmente i due hanno fatto fuori
tutti i legami di lealtà. Per loro è scontato che soltanto loro due
sono reciprocamente leali: ciò che li ha spinti l'uno verso l'altro è
forse la disperazione di non trovare, al di fuori, legami di lealtà
soddisfacenti. È come se ciascuno di loro dicesse: ciò che mi viene
negato (fiducia, riconoscimento, gratitudine, soddisfazione
totale) me lo prendo con la forza o surrettiziamente; mi proteggo
fagocitando l'altro, sfruttand olo, privatizzandolo: è assai probabile,
infatti, che — almeno agli inizi - l'altro non sia veramente un
pari, ma uno gerarchicamente inferiore, o per lo meno un debole.
Anche qualora la diade non diventi manifesta ed i due si ritengano
invisibili, il danno alla lealtà del gruppo è enorme: queste sacche
rappresentano dei buchi neri che fagocitano energie e credibilità del
gruppo.
d) Anche il membro che si sente "prigioniero del gruppo"", del tutto
involontariamente fagocita energie pappare depresso, demotivato,
incapace di speranza, ma è probabile che sia un membro
sensibile e fragile che si carica della depressione del gruppo, è
come se portasse i fardelli di tutto il sistema che non sa più darsi
vie di uscita, creatività, futuro.
Ciò che si voleva qui affermare con queste tipologie è che i conflitti o gli sbilanciamenti di lealtà interferiscono con il benessere e la
crescita di tutti i membri del gruppo. Nessuno può ritrova rsi nel
mondo della sua stanzetta facendo finta che gli altri non ci siano,
poiché - anche solo per il fatto che "si riti ra" - egli se li è già portati in
camera, nessuno escluso. La comunità funziona da campo base che
offre le risorse per le scalate anche individuali; ma non si può non
contribuire a che il campo base sia tale, a beneficio di tutti.
Le nostre sonde
Non sta scritto da nessuna parte che, quando le cose vanno bene in
famiglia, il figlio/a non debba affrontare sofferenze e intoppi. Anzi, è saggio
"lasciarlo soffrire" con rispetto. Non è saggio evitargli tutte le sofferenze,
anche se fosse possibile! Genitori che stanno zitti, che ritirano il loro parere
alla vista del dolore del figlio non sono genitori che rispettano il figlio; essi
devono essere franchi – a maggior ragione se le scelte del figlio sono
oggettivamente sbagliate! – poiché non è in loro potere cancellare le
sofferenze del figlio; genitori franchi, che dicono quello che pensano, sono
genitori molto più rispettosi, perché sanno che la sofferenza del figlio non lo
sommergerà. Certe lacrime, per quanto manifestino dolore, non devono
commuovere i genitori. Genitori tirati ad approvare una scelta anche
controvoglia sono genitori che non hanno fiducia nel figlio/a e quindi
"capitolano", facendo capitolare anche lui/lei. Questo, lo ripetiamo, non ha
niente a che fare con i ricatti affettivi o le minacce.
Sprazzi di dialogo*
A)
B)
-
160
Ma non c'è una via di mezzo?
In che senso?
L'hai detto tu che c'è prima la teoria, poi l'esamino, poi le
vaccinazioni e poi l'inizio della pratica...
Vorresti dire che intanto potrei fare la parte teorica?
Appunto, non ci sarebbe niente di male.
No che non ci sarebbe niente di male. Lo dice anche il mio papi
che le nozioni teoriche mi farebbero bene...
Imparare non fa mai male.
E se dopo la teoria, se dopo l'esamino sono ancora più entusiasta
di adesso?
Questo sarà un problema tuo e non di tuo padre.
La teoria mi piace molto; poi sono tra gente simpatica, alla mano;
mi hanno detto perfino che non tutti passano alla pratica, non tutti
se la sentono, ma che le nozioni di pronto soccorso restano
sempre valide.
E tu non te la senti di passare alla pratica?
Altroché se me la sento.
Ma come la metti con il tuo papi?
Molte cose sono cambiate nel frattempo, l'ho aggiornato di tutte le
cose che imparavo e lui era attentissimo...
E allora ti ha dato l'OK?
13.5.4 Il corpo del profeta - La comunicazione non
verbale
-
185
Non si può non comunicare, ma ogni comportamento è
comunicazione e viceversa. Soprattutto il nostro corpo, magari a
volte indirettamente, parla. E cosa dice il nostro corpo? Il nostro corpo
La diversità costringe ogni giorno alla fatica di tener fede all’unità
come a qualcosa di più grande delle mie idee e dei miei programmi, e
veicola una correzione fraterna che ancora prima di essere un
rimprov ero, è una benefica potatura. Ma nessuno fa volentieri la fatica
di essere potato, preferisce ar roccarsi; anche se, con uno sguardo più
ampio, quella che prima vista sembra una "potatura" potrebbe
considerarsi u chiamata: una chiamata a uscire dal proprio Egitto. Per
scoprire poi che la chiamata è avvenuta precisamente grazie ai miti di
quel fratello, che a prima vista sembravano una impo sizione.
-
13.5.3 La comunità campo base – le figure in
comunità
-
-
184
-
Tra beniamini, santi martiri, nicchie e depressi:
Visitiamo ora brevemente, non avendo certo la pretesa di esplorare tutte
le possibili ricadute di una non equità degli scambi nella comunità,
alcune figure: il beniamino, quello che si accolla tutto, il partner sessualizzato, il
prigioniero depresso.
a) Il beniamino è colui che da allegria e leggerezza al sistema; non è il più dotato o il più ammirato, ma è il più "riposante": è bravo e buono e non
chiede nulla. È come se jl suo ruòlo "fosse quello di dare spensieratezza
e riso al gruppo; con lui si ride, si fa la battuta. Ma nelle cose serie la
sua parola appare meno seria di quella degli altri. […]
b) Quello che si accolla tutto è il tappabuchi; è talmente "leale" che si
offre al sistema come uno da sfruttare. Se nessuno si farà avanti per
un compito, lui ci sarà. A poco a poco ci troverà così gusto che, prima
ancora che qualcuno indichi un compito, lui l'avrà già fatto. E
naturalmente è sempre preoccupato per tutto, è sempre più sorpreso
che ci sia "chi se la prende così calma", chi non sa mettersi dal
punto di vista dell'iniziativa da portare avanti, della causa cui
dedicarsi... La sua lealtà al sistema è totale, al punto che egli non vi
si distingue più. Diviene indispensabile come l'aria che si respira e,
allo stesso tempo, prova vivente che nessun altro è così affidabile. Si
identifica così bene con la causa, che le critiche o le approvazioni che
vengono fatte ad essa, vengono fatte a lui, in persona. Non ha il minimo
sospetto che uno come lui sia difficile da reggere, che il trovare il
posto sempre occupato disincentivi gli altri a prendersi le loro
scomodità, nonostante che egli denunci il suo essere lasciato solo. Non
lo sospetta al punto che egli diventa una lamentazione vivente.
c) Talora in comunità si creano delle diadi fustonalmente connesse: è molto
di più della simpatia, del feeling, della facilità di comunicazione,
della sintonia di vissuti e di valori. È una vera e propria nicchia che
sfida la tenuta della lealtà del gruppo. Che cosa passa "tra quei due"
-
161
Non è questo, non mi ha dato l'OK. Anzi rimane sempre perplesso
sui rischi.
E allora cosa è cambiato?
Sto capendo che lui ha diritto di avere le sue opinioni ed io le mie.
Hai capito una cosa importantissima: non è necessario che tu tiri
tuo padre a pensare come te.
E nemmeno che lui tiri me a pensare come lui. Possiamo volerci
bene lo stesso.
Non pensi più di deluderlo, di recargli un dispiacere che non si
merita ecc.
Prima ero una bambina onnipotente e pretendevo che tutti la
pensassero come me. Forse per stare più tranquilla io. Adesso devo
assumermi le responsabilità di quello che penso, me lo dice anche
Erica.
Ma questo principio vale sempre e comunque? Anche quando
pensi in modo sbagliato?
Veramente no. Ma in questo caso non c'è niente di male a fare la
volontaria della Croce Rossa.
Sono pienamente d'accordo. Non dovrai mai rinunciare, però, a
porti dei limiti.
Adesso ragioni anche tu come mia madre? Lo so bene che prima
vengono gli esami!
58
12.2 Del non lasciare andare
Alessandra, 28 anni, una laurea, un lavoro, un fidanzato,
ma non si decide a sposarsi.
Ascoltiamola*
Avrei tutto: una laurea in architettura appena raggiunta, un padre
ed una madre che mi vogliono bene e stanno bene tra loro; abbiamo una
bella casa e non ci mancano i soldi; adesso ho anche il moroso definitivo, un
ingegnere serio, posato, di cinque anni più anziano di me, con un bel lavoro.
Vive da solo a Milano dove lavora; sta facendo carriera, ha amici e molte
conoscenze. Mi ha chiesto di sposarlo.
Qui tutto è precipitato: gli avrei detto di sì, ma non posso.
Gli ho chiesto di pazientare, che non sono ancora pronta, lui ha
pazientato per un anno e poi è tornato alla carica. Ha detto che, se non mi
decido, lui è anche disposto a lasciarmi, perché vuole una famiglia. I miei
sanno che facciamo sesso e che, almeno quando vado per il fine settimana
nel suo appartamento, mi trovo come a casa mia. Però, quando hanno
scoperto che c'è in vista il matrimonio, mi hanno detto che è troppo presto,
che non sono matura, che fretta c'è; che loro mi danno tutta la libertà
possibile, non mi controllano in niente e io, in cambio, non devo fare colpi
di testa.
Ho 28 anni, da qualunque parte guardi la situazione non vedo
impedimenti: dovrei lasciare il mio lavoro sì, ma qui a Genova il lavoro non
ha prospettive; sto facendo pratica e mi danno quattro soldi, e non è un
lavoro che mi soddisfa. Lui dice che a Milano avrei altre possibilità e che mi
aiuterebbe a trovare lavoro, con tutte le conoscenze che ha.
Sto malissimo, non so decidermi. Da una parte mi sembra che
tutto quello che mi dice Franco sia normale, dall'altra mi sembra tutto
campato per aria. Perché? Sto ripassando mentalmente i. cinque anni della
nostra storia: all'inizio entusiasta, toccavo il cielo con un dito; devo dire che
mi sono decisa a fare la rincorsa per finire gli esami proprio grazie al lui. A
me piace la montagna, faccio roccia, sono sportiva; lui è piuttosto pigro,
sedentario. Ma ha imparato ad amare la montagna; «abbiamo il nido», come
dice lui, sulle Alpi svizzere, un gioiellino di appartamento di cui i suoi amici
gli danno le chiavi; mi accompagna nelle escursioni e, quando sono troppo
impegnative per lui, mi aspetta alla base. Dice che adesso per lui la
montagna è diventata parte della sua vita, anche se l'iniziativa la lascia
-
-
-
lasciar passare tutto, perdonare". «Per amor di pace gli dirò sempre
di sì e passerò sopra a tutte le cose che non capisce...». Così l’altro si
trova perdonato per ciò che pensa e fa, ma anche per ciò che non
hai mai detto o fatto.
Le differenze: È del tutto ingenuo dire che non vi sono differenze,
soprattutto quando vi sono generazioni unite insieme. Ma questo
deve far scattare da una parte la riconoscenza è gratitudine per la
generazione anziana. È riconoscere i propri debiti […]; più all'anziano
viene detto grazie, più egli diviene solidale con le nuove generazioni. Il
primo rispetto al differenziale generazionale è appunto il riconoscimento delle difficoltà oggettive, della peculiarità delle
situa zioni. Più la generazione anziana è ringraziata e riconosciuta
per come è stata, meno esibisce bollette e desiderio di risarcimento.
E questo nella misura in cui le giovani generazioni sanno di entrare
in un sistema di "debiti " e non si lasciano schiacciare dal mito unidimensionale che sia possibile cominciare il mondo da capo, azzerare il passato e fare tutto ex novo. Quanto più è negato il computo
intergenerazionale, tanto più ci si espone alla minaccia dell'isolamento.
La virtù del ricevere : la generazione anziana non deve avere
soltanto gratitudine e riconoscimento, bensì deve essere in grado di ricevere
e quindi di apprendere. […] Vi sono persone che coltivano in tutta la
loro vita il valore del dare (dare esempi, consigli, guida, sostegno,
conforto, sacrifici, fare del bene, mettersi a disposizione, esser
disponibili) e non coltivano il prezioso concime del ricevere. Sono
come un terreno cui è chiesto sempre e solo di produrre, senza soste
e senza concimi adeguati: prima o poi diventa arido. Nessuno si può
esimere dalla virtù del ricevere. […] Q uanto più i giovani sono
disponibili a pagare il loro debito di lealtà verso la generazione più
anziana, più quest'ultima è disponibile a ricevere; più la generazione
anziana è disponibile a ricevere, più i giovani sono disposti a dare il
riconoscimento all'equilibrio dei debiti. È ovvio che aspettare che
cominci l'altro è l'unica maniera per assicurarsi stagnazione
relazionale.
In sostanza, ed a parole è facile, serve promuovere gesti di comprensione e di compassione reciproca tra le generazioni. Ogni pio
desiderio che ciò non debba esser necessario, che basterebbe avere
più fede o pregare di più, è destinato a lasciare strascichi di depressione e sfiducia. […] Dare e ricevere sono due facce della stessa
medaglia.
58
162
GILLINI G. – ZATTONI M.T., Il piercing dell’anima…, oc, pp. 153-163.
183
-
-
è..., e ci impediamo di godere del mistero che la vita ci regala. […] Il
giudizio universale, che affiora nelle parole di chi usa il sempre, e il
mai… sfugge anche alla vita, fatta di eventi alterni e di segno
discorde. È importante cercare "il caso unico" l'esempio dissonante
che rompe il sempre del giudizio universale e apre alla speranza.
Su quanto abbiamo detto la comprensione con la testa è semplice, ma
quella comprensione con il cuore i tempi hanno la durata della vita.
L’altra dinamica della "psicologia fondata sui luoghi comuni" è
quella che usa la struttura lineare causa/effetto “ è così perchè…”
dove la spiegazione del comportamento viene ricondotta a
qualche causa interna al soggetto, dove il comportamento di un
soggetto viene visto come causato dal comportamento di un altro
individuo». Questo […] conduce a spiegazioni semplicistiche, dal
fiato corto. Esso non ci permette di andare al di là delle cose, di
dare aria, di scoprire una trama più vasta nella realtà relazionale
del sistema umano che vogliamo capire. La linearità, anzi, finisce
spesso nella ricerca del colpevole , […] come se, trovato il
colpevole, il problema fosse risolto.
Un altro elemento connesso connotato l’aut aut: «O vinco, o
perdo», «O è bianco o è nero», «O sto sopra o sto sotto»; tali
espressio ni guidano le competizioni in cui siamo immersi verso
un sottosopra che procura malessere a tutti. La sua dinamica
opposta è quella dell’et et che promuove il passaggio a vedere/pensare
"la realtà di primo ordine" con lo sguardo di Gesù, e cioè riesca ad intuire,
pur nel dolore, quei «nuovi cieli e una nuova terra» che già pulsa sotto la
crosta dei fatti che” parlano da soli”
13.5.2 Dire grazie - Superare le stagnazioni
relazionali
-
182
Vi sono due modi per tentare di superare il conflitto, quello del
noblesse oblige e quello della clemenza (talora detta impropriamente
perdono). Il comportamento del noblesse oblige è il comportamento
distaccato di chi non scende mai "ai piani inferiori"; vive nelle sue
stanze alte e - anche quando avrebbe una voglia matta di partecipare ai "pettegolezzi che si svolgono nelle cucine" - mantiene la sua
distanza "nobile": “non vi mostrerò mai i miei bisogni, poiché la mia
condizione m'impone di essere sempre all'altezza […] è l'atteggiamento difensivo
dettato dalla paura, più o meno riconosciuta. Paura di non esser amati
e accettati per quello che si è. […] Anche l'atteggiamento della clemenza a
buon mercato, anzi non richiesta, mantiene la disparità di
reciprocità: vi sono persone disposte a scusare tutto, capire tutto,
sempre a me. Non ama la vita alla grande, al mare gli va bene anche un
campeggio; io sono abituata ad alberghi di un certo tono, dove sono sempre
andata fin da piccola con mamma e papà.
Sto malissimo, ripeto; sento che lui ha ragione, ma io non posso
lasciare mamma e papà. Sarebbero troppo infelici. Mamma qualche volta mi
trova a piangere e allora mi dice: «Ma non vedi che hai la vita ancora
davanti? Divertiti, esci con i tuoi amici come hai sempre fatto...». Mi parla
come se non avessi il moroso. Ho sempre avuto il sospetto che Franco a
loro non piaccia, ma ieri ne ho avuto la certezza. Non sono abituata a spiarli
quando parlano tra loro (succede raramente, a dire il vero), ma ieri sera loro
non mi hanno sentita entrare ed io sono stata sorpresa da una parola detta in
modo alterato da papà "quello là" e allora mi sono messa ad origliare:
- Cosa vuoi che le possa offrire! – diceva papà con una stizza che
di solito, nella sua pacatezza, non sa dove stia di casa.
- E poi è lontano – rincarava la mamma.
- Sì, Milano è troppo lontano. Nostra figlia a Milano e noi qui
come due allocchi.
- E se ci trasferiamo anche noi là?
- Neanche morto, io voglio godermi i miei anni in pace, non nel
caos di Milano.
- E se loro si trasferissero qui?
- Non fare sogni ad occhi aperti: per lui Milano è la carriera.
- Già, noi ci mette in secondo piano.
- Tua figlia ci mette in secondo piano! Questo è il grave. Del resto
lui si è visto da quale famiglia viene.
- Sì, sono poveri operai che si sono levati il sangue per farlo
studiare, hanno laureato lui, il primogenito, ma non ci sono riusciti con gli
altri due...
- Quando li abbiamo invitati qui... sembravano morti di fa- me;
hanno fatto le meraviglie per la nostra casa, ci hanno chiesto questo e
quello...
- Indelicati, ecco.
- E nostra figlia dovrebbe mettersi con quella gente... I suoi di lui
resterebbero a casa loro, in provincia; ma si sa come vanno queste cose...
- E se dopo non sarà felice?
- Ecco perché sta così male, anche lei sospetta che lui non sia
all'altezza... Uno che si piega ad andare in tenda...
Avevo ascoltato anche troppo: sono rimasta di sasso. Ecco quanto
sono preoccupati per me. Ecco quanto sono attaccati a me.
Sto peggio di prima, non so decidere. E se i miei avessero ragione?
Come faccio ad essere sicura che poi funzioni? E se mando tutto a monte?
Non mi mancano certo i ragazzi...
163
Chi trova il coraggio di dirglielo che non se ne fa niente? Mi vedo i
suoi occhi tristissimi, delusi. Mi direbbe: «Come vuoi tu». Non direbbe una
parola contro i miei genitori, anche se io non vado certo a riferirgli il dialogo
che ho rapinato; lui percepisce che non è gradito, quando viene a casa mia,
ma non mi rinfaccia niente, lo so. Sarebbe disposto a prendermi come sono.
Ma perché sto così male?
Come i genitori tirano indietro
Nell'analisi di questa storia ci troveremo a dire, apparentemente,
l'esatto contrario di ciò che abbiamo affermato nella storia precedente. È
necessario, perciò, che veniamo allo scoperto con la questione di fondo che
vogliamo sostenere qui, nella storia precedente ed in ogni rapporto in cui si
tratti di svincolo dalla famiglia d'origine. Lo svincolo – detto in termini
biblici: il lasciare il padre e la madre – è necessario per diventare adulti. Nella
storia precedente lo svincolo consisteva nel non voler sempre e comunque
te l'approvazione dei genitori, qui consiste nella capacità di deluderli, senza
venir meno né alla stima di loro né alla stima di sé.
Ma prima di addentrarci in questa nuova acquisizione, occorre che
guardiamo in faccia un fenomeno sempre più massiccio nella nostra cultura
ed in particolare nella cultura mediterranea della "famiglia lunga del giovane
adulto": e cioè la difficoltà da parte dei genitori a "lasciar andare" il figlio/a.
Come abbiamo visto, il figlio deve pagare in proprio i costi del suo distacco,
sofferenza compresa, né è legittimo colpevolizzare i genitori che "resistono"
allo svincolo, che non buttano il pulcino fuori dal nido, che provano il lutto
per la sua "partenza" o, meglio, per le sue molte partenze.
Ma tutto questo non ha niente a che fare con il voler trattenere il
figlio/a a tutti i costi: anche a costo della "sanità" del figlio/a tanto amato.
Se vogliamo mettere il dito sulle colpe dei genitori, facciamolo in modo
circostanziato e corretto, cioè mostrando, nel caso specifico, quali remore,
bastoni fra le ruote, freni a mano mettono simili genitori al figlio/a che se ne
vuole andare: magari non del tutto consapevolmente.
Facciamoci aiutare dagli errori dei genitori di Alessandra; è come se
essi dicessero: il tuo mondo siamo noi, il tuo orizzonte siamo noi, quello che
va bene a noi, quello che fa contenti noi, va bene anche a te e fa contenta
anche te (anzi, se tu non ti mostrassi contenta, saresti un'ingrata, dopo tutto
quello che abbiamo fatto per te!). Se tu esci da quest'equazione, ci perdi. Più
ancora: noi non lo reggeremmo, poiché tu sei la ragione della nostra vita.
Noi senza di te saremmo "due poveri allocchi"! Con un'aggravante:
Alessandra è figlia unica e spaventosamente sola.
Detto in questi termini, sembra un'esagerazione: certamente i primi
a non sentirsi rispecchiati nelle suddette parole sarebbero loro, i genitori. Ma
mettiamo a fuoco i segnali che essi mandano alla figlia ventottenne: ti
lasciamo liberar puoi entrare ed uscire quando vuoi, siamo discreti e ti
164
-
-
181
permettiamoci un bisticcio di parole - anche per il solo fatto di farsi i
fatti suoi, per il solo fatto di esporre la minima parte del sé a contatto
con gli altri, egli influenza il gruppo con cui vive e ne è influenzato. […]
Una persona non può essere indifferente, non può chiudersi
nell'illusione «io non nuoccio agli altri e gli altri non nuocciono a me...»
perfino quando è materialmente assente.
Fuori dai nostri sistemi di congelamento, la vita è variegata,
complessa, non si lascia determinare nei nostri comodi schemi
causa-effetto. La vita delle persone non solo non si riduce alla loro foto
formato tessera: quello è così e non può essere che così, ma — se vogliamo
vedere - la vita ci mostra la persona tutta intera, non solo con le parti
che espone ma anche con quelle che vorrebbe celare, con i fili intricati
che la legano agli altri e da cui è legata. Tutto ciò rischia di essere
scomodo, molto scomodo. Uscire dal formato tessera è qualcosa che ridà
spessore, movimento (anche se inquietante), dinamismo e voglia di
cambiamento, meglio ancora: possibilità di cambiamento. La strada del
formato tessera è sempre a senso unico («è così perché») […]
Il piccolo psicologo: è quell’atteggiamento per cui si utilizzat la
“pscicologia dei luoghi comuni” dove le idee pregresse con cui le
persone della nostra cultura, in generale, si avvicinano (magari
per dare aiuto e sostegno) alle altre persone con cui sono in
relazione, e questo second o dei “ MODELLI ”, applica bili a
priori […] essi sono convinti che quell'individuo sia fatto così,
indipendentemente dalla relazione in cui è immerso e che
coinvolge anche loro stessi. E ciò comporta che chi parla sia un
"osservatore esterno", si metta cioè al di fuori della relazione,
come se dicesse: «io osservo soltanto dall'ester no». Il che equivale
ad affermare in maniera del tutto ingenua: «Io non c'entro!» e nello
stesso tempo a "reificare la relazione" attribuendo le caratteristiche
(spiacevoli, quasi sempre) della relazione (di noi due) all'altro. […] E
si finisce anche con il formulare giudizi sul soggetto che hanno tutto
il sapore del... giudizio universale: “è fatto così e così, e non ci posso fare
niente”, interpretando e stenografando un numero limitato di
comportamenti (e non tutti i comportamenti del soggetto: quelli che
lui non ha messo in atto in mia presenza, quelli che metterà in atto
domani...) togliendoli dalla relazione con me, e che quindi possono
essere diversi da quelli messi in atto verso altri. Questo irrigidisce la
relazione e non ammette più lo scorrere della vita, non produce
ben-essere perché evita persino che si possa intraprendere una
nuova strada per risolvere il problema. “Tanto è inutile!” […]
Abbiamo già giudicato che il nostro … purtroppo è..., che nostro…
diverse. L'accordo primario, da cui nasce la vita, proviene dalla diversità più
radicale, l'essere uomo e l'essere donna. Ogni diversità, se accettata come
una possibile riserva di significati, è un bene per la comunità. Omologarsi,
privilegiare lo stesso stampino, essere religiosi solo in un certo modo è un
impoverimento che paghiamo tutti molto caro. Certo che, se l'altro è
diverso, non funziona come me. E questo è il rovescio della medaglia più
difficile da accettare.
* Una seconda condizione è la dose necessaria di autostima
conseguentemente il saper offrire all’altro la stessa stima. Se non
permangono nella cooperazione ambedue i poli, si ricade pesantemente nel
sistema competitivo dove il sovrano è uno solo: o io, e allora l'altro è mio
suddito, o l'altro e allora io sono un suo suddito. […]
L'accordo è infatti il frutto dei gaudenti, di coloro che sanno
gustare quello che hanno, dei Beati.
Prima condizione: venire a sapere (ha a che fare con il mistero?) che le
differenze (e ci sono, anche nella coppia più innamorata o nella parrocchia
che funziona meglio!) non sono incidenti, ma vocazione. Gli idealisti (ed i
talebani) tra noi vorreb bero abolire le differenze, ma dimenticano che è da
queste che è iniziato il mondo. E dunque la differenza, anche la più dolorosa,
contiene in sé un germe di vocazione una chiamata, cioè, a uscir fuori dal proprio
(monotono) Egitto... Se la differenza è vocazione, non solo non tenteremo
di abolirla, ma la guarderemo con rispetto.
Seconda condizione: l'abbandono delle aspet tative di potere sull'altro,
rinunciando ad una intesa integra e perfetta che (come abbiamo già detto)
assomiglia più ad un tentativo di omologazione dell'altro.
La terza condizione è la tenace e coraggiosa ricerca dei propri
tentativi di sottrarsi al confronto (quelli dell'altro li sappiamo a memoria!).
E questa è la condizione più difficile perché in effetti ciascuno si
autoconvince che se fosse per lui... è l'altro che rifiuta di mettersi in
discussione!
13.5. Le relazioni caso, incontro e affetto63
13.5.1 “Sistemi di congelamento” la
basata sui luoghi comuni”
-
Esserci e non esserci entrambi cambiano la situazione: Anche se
ciascuno stesse chiuso nella sua stanza egli esisterebbe per, non potrebbe
dire «io non c'entro, io sono uno che si fa i fatti suoi» perché 63
180
“psicologia
idem, pp. 151-158.
diamo tutto, anche benessere economico ed esistenza ovattata; sappiamo
che hai rapporti sessuali con «quello là», sappiamo anche che deve essere
una cosa seria, se dura da cinque anni; noi non ti abbiamo messo i bastoni
fra le ruote, anzi; abbiamo anche conosciuto lui, lo abbiamo accolto, così
come abbiamo accolto i suoi. Non che siamo stati contenti, però non te lo
abbiamo fatto pesare, perché noi siamo "democratici": in fondo sono scelte
tue. Certo abbiamo guardato questo lui (laureato, vero; con un buon lavoro;
serio e modesto, vero: fin troppo) con qualche distanza, pensando che tu
meritavi di più, che tu sei abituata a ben altro, con l'agiatezza che ti abbiamo
sempre procurato; e del resto il papà ha lavorato tutta la vita per questo.
Come vedi, non ti abbiamo detto niente, se non qualche accenno tra le
righe, ma sempre con molta discrezione. Adesso lui \ vorrebbe sposarti: ma
non sei pronta, che fretta c'è, hai tutto.
Forse, tra le righe, il discorso potrebbe essere più pesante: perché
prenderti la responsabilità di una famiglia, quando ti puoi godere la vita, e
poi con la maternità rischierai la carriera: che cosa ti abbiamo laureato a
fare?!
Tutto questo è una lunga catena di ricatti effettivi: nati certamente
non in occasione del ventilato matrimonio della figlia, ma da ben più
lontano. E la figlia si trova invischiata in queste catene7ribr-ST15ériéTai
credere; anche se non avesse colto il discorso tra i suoi (tra le righe:
finalmente uniti e complici in ciò che pensano dell'aspirante genero!), i reali
pensieri dei suoi li conoscerebbe, o meglio, li percepirebbe dal di dentro: del
resto si è messa ad origliare perché già sospettava ciò che ha "rapinato".
Una focalizzazione genitoriale eccessiva
Ci permettiamo una breve digressione: capita oggi più che mai di
sentire lamentele dei genitori perché «il figlio/a non se ne va». E per giunta il
figlio/a appare scontento, nervoso, anche se apparentemente ha raggiunto le
sue mete: titolo di studio, lavoro anche se precario, rapporto affettivo
stabile. Ed ecco la nostra sonda: molte volte la sofferenza (anche se può
tradursi all'esterno in sicumera ed egocentrismo) di non sapere "andare" è
favorita da un genitore o da entrambi, anche se a parole dicono il contrario.,
Abbassamento dei conflitti, zona franca, nessuna richiesta di
contribuire al ménage familiare, "servilismo" nel fargli/le trovare tutto
pronto, libertà di movimento assoluta del figlio, nemmeno concessa
reciprocamente ai padroni di casa: sono tutte strategie per trattenerlo, anche
se a parole si vorrebbe farlo/a uscire dal nido.
Perché? Torniamo ai nostri "istruttivi" genitori di Alessandra:
temono di non trovare altra ragione per vivere; il loro orizzonte vitale è
stato troppo "occupato" dai figli e lo spettro di una "disoccupazione" dai
figli fa paura.
165
Se poi il figlio/a – come nel caso di Alessandra – va lontano (da
Genova a Milano!), allora il riciclarsi in compiti a portata di mano diventa
difficile: pensarsi come importanti per la nuova famiglia, perfino
indispensabili come nonni, porterebbe a un non-distacco effettivo; il che –
nel caso di Alessandra – sarebbe fortunatamente impossibile. La paura di
rimanere "soli" (in due!) è sempre più frequente, oggi, da parte delle coppie
anziane: ma non è che il frutto di lunghi silenzi e di "compiti centrai ti solo
sui figli".
Alessandra è a un bivio
È ora, però, che ci occupiamo di Alessandra, che denuncia tutta la
sua incapacità a decidere. Quando dice «sto malissimo», possiamo crederle.
La solidità del suo ragazzo, le libertà che si prendono, lo star bene assieme
in montagna, le prospettive future, tutto passa in secondo ordine. Niente
scalfisce questo dolore non provocato, ma semplicemente evocato dalla
prospettiva – che appare impossibile – del matrimonio. Alessandra appare
sempre più demotivata, depressa, magari dimagrita e stanca: e così offre
involontariamente una "scorciatoia" (vedi capitolo Sette) ai genitori, che
possono interpretare questa sua infelicità come la prova che lui non è il
ragazzo giusto e che lei non è pronta. E, probabilmente, più la vedono
soffrire, più rincarano la dose del loro iperprotezionismo. Fatto è che
Alessandra si trova di fronte ad una duplice impossibilità: non è possibile
tradire i genitori e non è possibile lasciare Franco. Ci auguriamo che Franco
persista nella sua fierezza: il suo desiderio di farsi una famiglia; e con lei. Ma
che sia disposto perfino a lasciarla, se non ci sono sbocchi. Se Franco
"cedesse" (sto con te senza prospettive), non contribuirrebbe di certo alla
maturità della donna che ama.
Alessandra è a un bivio che non può evitare: se non sceglie, se
sceglie di non scegliere, va incontro al fallimento. Non c'è fallimento più
grande di non uscire alla vita: se non sceglie, ogni altra riuscita è solo "una
pezza". E Alessandra lo sa benissimo. Avverte un pericolo di morte, per così
dire; come il feto che non può rimanere oltre nel grembo materno, eppure
non sa cosa troverà là fuori, staccato e solo.
Ma per scegliere deve passare per un crogiolo dolorosissimo:
accettare di deludere i genitori, di non essere come loro speravano che fosse,
di non essere all'altezza delle loro aspettative. Non basta soltanto non
mettere in atto strategie per volere la loro approvazione a tutti i costi: serve
il distacco. Ed ecco una preziosa sonda: c'è un momento in cui l'adolescente
sceglie di essere sé, di distinguersi, di seguire le tracce della propria
coscienza; ma lungo questa strada gli può capitare di non essere come i
genitori si aspettavano; di sicuro questo lo fa soffrire, anche se magari,
all'esterno, esibisce sicurezza, sfrontatezza e persino sfida. Se arrivano
13.3 Legami di simpatia (in comunità e coi
ragazzi) 62
13.4 Lavorare insieme
I bimbetti delle scuole elementari, dopo poco tempo di modulo
con tre maestre, sono diventati abili a dividerle: «Maestra, tu sì che spieghi
bene, la Rosa invece... Con te sì che lavoriamo, con la Mariella no!» e via di
questo passo. Se le maestre ci cascano, la loro azione educativa è frantumata
e dispersa. Ma se una dice: «Quello che fa la mia collega è ben fatto; se fa
così, avrà le sue buone ragioni», se – in altre parole – le maestre imparano ad
essere solidali tra loro ed a parlare in noi, allora il loro potenziale educativo
diventa enorme. Hanno immesso nella loro vita relazionale la convinzione
che le qualità dell'una non fanno ombra all'altra, anzi. Mettere insieme i loro
pani e i loro pesci-significa- Moltiplicarli.
Ma per fare questo occorre una decisione del cuore. Decidersi per
la modalità cooperativa di gestire i conflitti non può essere semplicemente
più razionale, più giusto, più efficiente, anche se è razionale, giusto ed
efficiente. È una decisione del cuore perché sorpassa tutte le evidenze, anzi
– sui tempi brevi – mette a rischio. Mette a rischio tutto.
La logica cooperativa
La logica che vogliamo introdurre è più ampia di quella che si
attesta sull'aut/aut del tertium non datur. La logica cooperativa di ce: «E
perché no?». Oppure, di fronte agli ormai e al "non ci resta che piangere"
introduce rispettosamente un «E se?». E se l'altro non ce l'avesse per
definizione con me? E se Dio, che ha avuto il buon gusto di chiamarlo a
sedere alla stessa mensa con me, non si fosse sbagliato? E se lui, così
indifferente o centrato su di sé, fosse interessato alla causa come me? E se
non fosse ciò che a prima vi sta si vede di lui? Se decidessi di sbarazzarmi,
almeno provvisoria mente, del formato tessera in cui l'ho incasellato? E se
Dio avesse visto in lui ciò che io ancora non riesco a vedere? […]
Le condizioni per l’accordo
Naturalmente occorrono delle condizioni umane perché si dia un
accordo. Ne accenniamo almeno due.
* La prima consiste nell'accogliere le differenze come una minaccia
né come una colpa, bensì come una risorsa. La cultura massificata ci vuole
sempre più convincere che solo il simile si intende con il simile e ci avvia ad
una tragica frammentazione. L'accordo, invece, è possibile tra persone
62
166
179
idem, pp.189-234; 315-325.
La strada che porta alla soluzione passa per un cambiamento del
cuore che fa dire a ciascun membro del sistema, indipendente mente da
quello che fanno e dicono gli altri, indipendentemente dai tempi degli altri:
nella nostra relazione c'è qualcosa che non va, ma, poiché la relazione è un
prodotto di tutti e io ci metto la mia parte, io comincio a chiedermi cosa
posso fare io per cambia re (me, s'intende!). Eventualmente io sono
disponibile a farmi aiutare. La strada della raccolta differenziata impegna
tutta la comunità e comincia già nel luogo dove i rifiuti vengono prodotti
[…] Per fare questo sono necessarie alcune condizioni importanti:
a) Tollerare apporti provvisoriamente diseguali. È questo un tratto
assolutamente inconciliabile con la nostra cultura competitiva, che si
interroga sempre su chi ha di più/chi ha di meno. Nella fraternità esistono
tempi diseguali: un modo autentico di portare la croce nella fraternità può
essere quello di tollerare che l'altro faccia di meno, che sia per ora debole,
per ora sia "in perdita".. Questo non mi giustifica a ritirare il mio impegno, a
misurare, ad incensare l'idolo del «unicuique suum». La logica del calcolo è
messa radicalmente in discussione! Anche a me sarà permessa una sosta, un
dare di meno... […] Si possono accogliere apporti provvisoriamente anche
diseguali, e anche il nostro stesso apporto come carente. E nel momento in
cui mi lascio lavare i piedi, non posso immaginare di lavarli a mia volta. Oggi
qualcuno li lava a me.
b) Tollerare apporti imperfetti. Chi "raccoglie i rifiuti" non è il più
bravo, il più santo, quello che ha ragione, ma è semplicemente chi fa un
servizio alla comunità, sapendo (e non solo per ammissione teorica) che a
sua volta produrrà rifiuti. E in ciò rientra anche la disponibilità a farci aiutare
non come vogliamo noi, ma come l'altro può e sa: è esperienza comune che
quando un membro della comunità dà il suo apporto non lo dà come e
quando gli altri vorrebbero…
c) Vivere tutte queste fasi nella gratitudine. […]
- Per poterti lavare i piedi io devo riconoscere con stupore e con
riconoscenza che sei arrivato fin qui: i tuoi piedi, che si sono la sciati
incrostare dalla polvere della strada, mi dicono che hai faticato per arrivare
fin qui, per essere qui con me ora, proprio ora.
- Per potermi lasciare lavare i piedi devo riconoscere, con stupore
e con riconoscenza, che tu mi aspettavi così come arrivo, dopo la fatica del
cammino, senza alzare nessuna barriera.
178
segnali che il figlio/a li delude, è bene che i genitori li accolgano come
segnali benedetti, pur permettendosi di soffrirne.
L'alternativa nessun genitore se la augura: un figlio/a "malato",
ripiegato su di sé, depresso... un figlio che fallisce. Quante volte, nel nostro
lavoro, ci siamo detti, di fronte ad uno di questi fallimenti: ma quanto
costano, questi genitori! La regressione sul "sicuro", la non-uscita,
via.patologica. Di pochi. Le tante Alessandre che abbiamo conosciuto sono
per noi motivo di speranza: a poco a poco il figlio che soffre il suo "voler
andare" impara ad ascoltare la parte migliore di sé; impara che, se lui/lei
sceglie, non solo fa piacere a se stesso, ma fa un dono anche ai suoi genitori
che, un giorno, nelle mille svolte della vita, nonostante la delusione ricevuta
e accolta, potranno dire: «Proprio te volevo!». E non il figlio/a immaginato e
sognato.
Ancora un'annotazione. Il distacco o, meglio, la fatica del distacco,
non può essere addebitata al partner. «Ti sposo per andare via di casa», non
solo non è una buona mossa, ma si rivelerà un boomerang; può capitare che
il partner cui si è dato il compito di rapirci dalla nostra famiglia, si riveli, una
volta esaurito il compito, un peso. La fatica va fatta in proprio; anche perché
– come diciamo in Benessere in famiglia – al matrimonio si arriva ciascuno
con la propria benedetta valigia.
Le nostre sonde
Molte volte la sofferenza (anche se può tradursi all'esterno in
sicumera ed egocentrismo) di non sapere "andare" è favorita da un genitore
o da entrambi, anche se a parole dicono il contrario.
C'è un momento in cui l'adolescente sceglie di essere sé, di
distinguersi, di seguire le tracce della propria coscienza; ma lungo questa
strada gli può capitare di non essere come i genitori si aspettavano; di sicuro
questo lo fa soffrire, anche se magari, all'esterno, esibisce sicurezza,
sfrontatezza e persino sfida. Se arrivano segnali che il figlio/a li delude, è
bene che i genitori li accolgano come segnali benedetti, pur permettendosi
di soffrirne.
167
Sprazzi di dialogo*
A)
-
Quale sarebbe la condizione per sposarti serenamente, Alessandra?
Una sola: che i miei siano d'accordo.
Hai chiesto esplicitamente il loro parere, oltre quello che hai
trafugato origliando?
No, tanto lo so già.
E invece potresti farli uscire allo scoperto. E dopo? Dopo, quando mi
hanno detto tutte le ragioni per- ché io non mi sposi, che faccio?
Intanto tu hai permesso loro di dirle a te, non solo di insi- nuarle o
di fartele capire; hai permesso loro di dirle a te adulta.
Ma io sono adulta?
Questa è la domanda vera. L'anagrafe, la laurea, il lavoro, tutto dice che
sei adulta. Ma lo vuoi essere?
Non lo so.
Come sarebbe, se tu lo fossi?
Li provocherei a parlarmi, a dirmi le loro ragioni e io direi le mie.
Ma io ho paura.
Paura di che cosa?
Di deluderli, io sono tutta la loro vita, me lo hanno sempre detto;
anzi adesso mi rimproverano che, da allegra e spensierata che ero,
sono diventata musona.
Ma loro hanno proprio bisogno di te?
Certo che sì! Cioè no, gli adulti capaci di vivere sulle loro gambe
dovrebbero essere loro...
È ora che siate in tre adulti, e che proviate a staccarvi...
Loro mi dicono che mi hanno lasciato tutta la libertà... che
vogliono il mio bene... mio padre ha perfino fatto un
appartamentino nella villa, di cui solo io ho la chiave...
È così che ti "lasciano andare"?
Sì e no.Se proprio volessi sposarmi, loro si rassegnerebbero.
Tu reggeresti la loro rassegnazione?
B)
168
Io vorrei che loro fossero contenti di me.
Hai chiarito il vero punto nodale: è necessario che i tuoi genitori
siano contenti di te, cioè ti approvino sempre, in tutte le tue scelte?
Ho sempre pensato che dovesse essere così, per essere loro gradita,
per farli contenti, insomma, per non farli soffrire.
O per non fare soffrire te stessa?
È vero, forse non voglio affrontare questa sofferenza, la sofferenza di
deluderli.
prodotti li elimini! Chi dice così è infatti convinto che "lui non c'entra" ed è
pronto a sfidare a duello chi afferma il contrario. […]
I tentativi si soluzione
 Uno dei tentativi di «smaltimento dei rifiuti psicologici» che, in
varia misura e in vario mo do, tutti provano a fare è la negazione
del problema […]Ma se questo tipo di reazione al disagio può
essere accettabile nel breve periodo, alla lunga è fallimentare.
 L'inceneritore , come metafora, sta per la pretesa di risolvere
radicalmente il malessere del "convivere" con la lotta e "una volta
per tutte". È un tentativo di giudizio definitivo, la distruzione del
peccato insieme al peccatore. È il trionfo del moralismo senza
appello: «così non deve essere!». Questo mette in luce, è a volte
ammantata di intenti quanto mai nobili ed apprezzabili: l' amore
della verità, l'intenzione di aiutare l'altro «finalmente a rendersi
conto che...»; l'altro con altrettanta buona intenzione risponderà:
«Beh, do il mio assenso per amore di pace!». E ciascuno resta così
attaccato ad un solo aspetto della realtà, e sembra quasi non
ammettere che la realtà è più complessa dei suoi stupidi aut aut.
[…] Come ogni modalità unilaterale ha però anche aspetti positivi
che non dobbiamo negare: è frutto di passione e coraggio; solo se
diviene «la» soluzione rischia di non accedere ad una soluzione più
matura.
 È la soluzione “tecnica ” e tanto meglio se esterna (psicologico,
prete, autorità ecc…) quando di dice “se... sono convinti che ormai...
se... è convinto che ormai... «noi non possiamo farci niente... », tutti sono
preda di una sorta di profezia che anticipa, senza nessuno sbocco
possibile, un giudizio universale. Questi non hanno il cuore pronto
a potersi aspettare che, attraverso tutto il reale, positivo e negativo,
Dio ci parli, non possono disporsi a leggerne il messaggio di
speranza, non sono disponibili. E nemmeno l'esperto dall'esterno
può far qualcosa se non c'è una previa apertura del cuore in cui
fare breccia.
In sintesi, ogni comportamento che mina la relazione tra confratelli
e consorelle è un problema di tutti, di più: è un'opportunità per tutti. A volte
si potrebbe addirittura pensare che a Dio per smuovere una comunità non
restasse che mandare loro quel confratello o quella consorella problematici;
la soluzione allora di chi pensa: "nella relazione che l'altro/gli altri mi
offrono c'è qualcosa che non va (perché lui/loro producono rifiuti tossici) e
quindi propongo che un tecnico aiuti (l' altro/gli altri) a cambiare", è una
non-risposta, una non-soluzione.
Compito di tutti
177
Se Gesù fosse appartenuto al suddetto partito, nessuno di noi
avrebbe una sola chance, nessuno di noi potrebbe essere libero dal passato,
tutti vi rimarremmo inchiodati senza speranza di futuro (che è poi
esattamente l'effetto del giudizio universale prima del tempo![...] Egli
chiedendoci di amare come Lui ci ha amati ci ha abilitati a deporre il peso
del passato e a cercare un altra trama di lettura, se lo vogliamo. Non dare
potere al passato (anche di un giorno, di un ora) è opera profondamente.
creativa. «Anche con il cappello!»
-
«Devi prendermi anche con il cappello».
Un quarto gioco competitivo può essere «devi prendermi anche
con il cappello». Sulla base del "tu mi devi" (tu genitore, tu superiore, tu
gruppo, tu comunità) il giocatore esibisce comportamenti che potremmo
chiamare di dolorosa sfida. "Vediamo se mi prendi come sono". Vediamo se
mi accetti. Vediamo se mi ami. Io mi permetto di... [...] Sta a te accettarmi;
magari ti mostro che potrei anche cambiare, se tu farai il primo passo. Altri
menti, che padre sei, che comunità sei, che carità cristiana hai?[...] Chi gioca
questo doloroso gioco è uno che ci rimette in immagine sociale, gli altri
diranno: è un tipo difficile; è uno da prendere con le pinze; non si sa mai
dove vuole arrivare; e cercheranno di renderlo innocuo, magari con favori e
promozioni. Egli riduce gli altri a pubblico e, qualche volta, ad esecutori dei
suoi voleri. È vero, è alla ricerca disperata di approvazione, ma si avvia ad
un gioco senza fine: più ne riceve, più ne ha bisogno. Perché egli, nel suo
intimo, sa che l'ha estorta, è un'approvazione inquinata. Egli, per sentirsi
accettato, pone le condizioni su come lo debbono accetta re: con il cappello
appunto e cioè con qualcosa sempre sopra le righe, qualcosa di esclusivo,
qualcosa dí eccezionale. Ma poiché egli pone le regole, non potrà mai sapere
se l'accettazione che riceve è genuina o no. E tutti si trovano nel campo
dell'indecidibile: lui, perché non sa se gli sorridono, sì ma tra i denti, e gli
altri perché non sanno se è lui o il suo cappello che si rassegnano ad
accettare. È un braccio di ferro in cui tutti, ripetiamo sui tempi lunghi,
escono perdenti.
-
-
C)
-
-
I postumi del conflitto
nel giro di poche altre battute allargano il conflitto in modo da
giustificare la propria diagnosi da «piccolo psicologo»: «Ormai... ho capito
che lui, che io...»; la situazione di disagio è vista cioè come conseguenza della
mancanza di amore da parte dell’altro. Danno così per acquisito il divario tra
le attese di prima del matrimonio con il presente di sei anni dopo, che
conferma, ai loro occhi, l’ipotesi della fine di un amore in cui avevano
investito molto. […] Il "piccolo psicologo" ha pronta la soluzione: chi li ha
176
169
È arrivato il momento!
Di scegliere tra me e loro?
No di certo: in questi termini sarebbe una scelta tra egoismo e
altruismo.
E allora, in quale senso?
L'hai visto tu stessa: puoi scegliere la parte migliore di te, i tuoi
desideri, i tuoi sogni sul futuro. La tua coscienza ti dice che sono
buoni, che fanno parte della vita, che non sono colpevoli. Puoi
scegliere questo.
E loro?
Sui tempi brevi possono essere in disaccordo, spaventati per la
solitudine che procura la tua assenza, ma la parte migliore di loro
"sa" che tu hai diritto di scegliere. Devi permettere loro di essere
un pochino in lutto, se te ne vai. Poi si accorgeranno che hai fatto
la scelta giusta.
Ho capito che non posso scegliere definitivamente adesso, cioè
non sono pronta per scegliere di sposarmi o stare con i miei.
È un'idea saggia. Allora cosa farai? Ho chiesto al mio moroso un
break, con tutti i rischi che questo comporta.
Un break per fare cosa?
Per verificarmi; ho veramente bisogno di staccarmi dai miei; ma ho
anche bisogno di capire se i dubbi dei miei su di lui non siano
anche i miei. Ho bisogno di capire se veramente lo vo- glio, così
com'è.
Quindi hai deciso di aspettare e di avere pazienza.
Pazienza?
Sì, pazienza con te stessa!
Oh, bello! Ma non aspetterò molto: ora mi è chiaro che comunque
mi dovrò staccare dei miei.
Non vuoi addebitare questa fatica sul conto del tuo rapporto con
Franco...
Sì, è una fatica tutta mia. Adesso lo so.
12.3 In sintesi, distacco e famiglia d’origine
Il distacco dalla famiglia d'origine
Per tutti si parte dalla famiglia in cui si nasce e nella crescita di ogni
persona è contemplato il distacco dalla famiglia d'origine verso una propria
famiglia. Gli elementi fondamentali di tale passaggio si possono a nostro
avviso condensare in tre momenti.
1. Il momento della considerazione infantile dei genitori come onnipotenti,
buoni, narcisisticamente concentrati sul mio bene di figlio, cui è legata tutta
una serie di pratiche per ingraziarmeli (ad esempio potremmo leggere in
questo modo l'obbedienza). Questo atteggiamento infantile è estremamente
funzionale al piccolo dell'uomo perché produce l'imprinting fondamentale
che gli permette di adattarsi all'ambiente in cui vive (una sorta di
addomesticamento a cui il piccolo è portato). Se però questo modo di
relazionarsi ai genitori non matura, questa sorta di genitori-ombrello
possono diventare non solo l'oggetto su cui proiettare i miei bisogni di
protezione, ma anche irraggiungibili ideali dell'io, metro di paragone per
svalutare le persone che la vita mi fa incontrare ecc. […]
2. Il momento della considerazione adolescenziale dei genitori come l'opposto di
ciò che io voglio diventare. Anche questo è un atteggiamento estremamente
funzionale alla crescita dell'adolescente, soprattutto se la società vuol
progredire e sottrarsi all'eterno ritorno, se vuol ospitare qualche sogno
divergente. Se una tal sorta di reazione oppositiva si mantiene però ancora
nell'adulto, produce atteggiamenti ai limiti dell'assurdo perché basati su di
essa e non sulla realtà; ad esempio, questa persona potrebbe leggere
sentimenti di oppressione di ribellione anche in persone impegnate in tutt'
altro tipo di coinvolgimento.
istruito dalle sue vicende familiari a misurare, a ri conoscere nelle cose
ricevute un quantum di affetto, con dosi chenecessariamente devono essere
tutte uguali. [...]
* Una seconda premessa indiscussa è il mito della par conditio:
come se fosse possibile una pari opportunità di partenza nelle relazioni
umane. Ci risulta che il Pastore si prende cura della pecora debole e di quella
forte, di quella grassa e di quella malata e non si carica al momento sulle
spalle quella forte e quella grassa, per la smania democratica di comunicare
loro che sono tutte uguali nel suo cuore di padre. Fino a che chiederemo alla
relazione fraterna ciò che essa non ci può dare, e cioè sicurezza di essere
amati e approvazione incondizionata, ci autocondanneremo sempre a con
dune lotte per stabilire i posti. [...] Ci possono essere dei privilegi espressi,
non usati per sé, ma per gli altri (ricordiamo Mosè che ha il privilegio di
parlare con Dio, ma lo usa al fine di perorare la causa della sua gente). Chi
usa in tal modo le proprie chance riconosce che siamo canali gli uni per gli
altri, altrimenti l'acqua della vita trova ostruzioni o provoca inondazioni.
«Se mi ami fai quello che desidero»
Il secondo gioco nelle relazioni in comunità parte dalla
considerazione: «Se mi ami fai quello che desidero» [...] Su questa strada i
contorcimenti mentali possibilità sono infiniti.[...] Le situazioni di seduzione,
cioè i tentativi di piacere all'autorità,sono all'ordine del giorno [...] o la
preoccupazione che assolutamente l'altro pensi bene di me,Normalmente
chi fa tali richieste si appella ad un bene superiore[...] Fatto è che molto
spesso qualcuno si fa lo scherzo di identifica re ciò che è il bene con il
proprio desiderio o il proprio bisogno: il che è una bella mossa per vincere.
Ma, come dicevamo, è una mossa che fa perdere di vista il bene primario
della relazione: prima o poi se ne esce invischiati, soffocati, braccati e
perdenti. Anche quando si riesce a imporre il gioco
3. Il terzo e fondamentale elemento del passaggio alla maturità consiste
nell'abbandonare le statue di sale dei genitori e nel ri-conoscere, nel senso di conoscer
di nuovo e con occhio adulto, le proprie figure parentali (e la propria
famiglia d'origine), come figure che vivono di vita propria e che non si
identificano con quella loro parte che "io ho visto" nella fase infantile o nella
fase adolescenziale come "il mio" papà o "la mia" mamma. In altri termini,
per me adulto, i miei genitori saranno due persone dello stesso popolo di
Dio a cui anch'io appartengo, e quindi miei fratelli, con una loro vita di
«Ormai!».
Un terzo gioco si identifica con una mossa che chiama in
causal'irreversibilità del passato: è il gioca "dell'ormai".[...] la sostengolon
coloche che definiamo quelli del partito della torta tagliata. Essi paiono
persino appellarsi alla ragione, all'evidenza del fatto che, se la torta è tagliata,
non è più intera.[...] «Ormai non si può più tornare indietro, tra noi non può
più essere come prima». [...]È stupefacente come qui una ferita possa
tramutarsi in credito sempre aperto e, per l'altro, in debito inassolvibile. Chi
è all'interno di una simile relazione dice all'altro: ormai l'hai fatto, non avresti
dovuto. Proprio tu. Non posso farci niente se non posso più essere verso di
te come prima.[...]
170
175
subisco soltanto e poiché sono buono, per amor di pace sopporto. Anzi,
lascio che l'altro si infanghi da solo. Che ci posso fare?... e sono così buono
che lo sopporto anche».Ma questo è un modo quasi perfetto per vincere la
competizione. Il santo martire è un raffinatissimo esperto in competizione:
combatte così bene che spunta le armi dell'altro ad una ad una lasciandolo
nella più completa esasperazione, opponendogli un muro di gomma, un
ossequiente: parla pure che io non ti ascolto. E quando l'altro si sente
costretto ad aumentare il tiro per arrivare fino a lui, quando l'altro si mette
perfino ad urlare, dal suo piedistallo di purità rituale può perfino rispondere:
«Ma perché ti scaldi tanto?»; e lascia che l'altro perda le staffe
definitivamente, non facendo niente per proteggerlo. In fondo è un bel
vincitore. [...]
Chi nel duello interpreta il ruolo della vittima innocente avrà molti
fans. Tutta una serie di persone pie saranno pronte a parteggiare per lui/lei
dicendo che «la colpa dell'altro è evidente» e sostenendo che «la vittima si sta
santificando».[...]
Mostrarsi passivi, sottrarsi allo scontro aperto sono modi
raffinatissimi per duellare, per vincere in qualità di "vittima". L'assensoè
l'arte del braccio di ferro del sottomettersi e soccombere o dell'avere la
meglio. provvisoriamente però. nessuno duella per perdere. Ciascuno in
attesa della prossima volta.[...]
Tutto è bianco o nero o sfruttati o sfruttatori o oppressi o
oppressori o vincenti o perdenti. [...]
Quando si è presa la via della competizione la stereotipia ha
allargato dismisura il conflitto e ci impedisce di essere liberi.La competizione
procede a tappe non vi è mai la definitività sino a piccole tregue che
chiamiamo assenso per cui c'è un "ma va l'ha" legato all'attesa di un
riconoscimento, di gratificazione. Chi accetta ritiene di avere dei crediti e chi
è provvisoriamente vincitore, ben lungi dal riconoscerglieli si sente a sua
volta creditore. L'assenso è solo tattico non pone nessun cambiamento.
lascia i rapporti di fondo come stanno, nonostante le buone intenzioni. caso
mai uno si aspetta che cambi l'altro.
Stabilire i posti
I controllanti stanno bene attenti che essi siano equamente
distribuiti. Perché io di meno? È il sospetto che pervade il controllante che
non può fare a meno di misurare. [...]
In questa competizione due sono le premesse indiscusse.
* La prima potrebbe esprimersi così: «Se ho di meno (meno
possibilità di azione, meno privilegi, meno libertà ecc.), sono meno
apprezzato,meno valutato, meno accettato; in ultima analisi, meno amato».
E questo è terribile. Generalmente chi è ossessionato dall'avere dimeno, è
uno che arriva già in comunità con un imprinting di vec chia data, è già
174
coppia che né io bambino né io adolescente ho conosciuto, anche se, in
qualità di figlio, ero a volte convinto del contrario.”59
59
239.
171
GILLINI G. - ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp. 238-
13. Capacità relazionale: vita fraterna ed
apostolica60
passo
13.1 Protagonismo nella relazione – primo
13.2 Gestione del conflitto61
Il conflitto è un ospite non invitato che si siede alla nostra mensa.
Non dobbiamo stupircene. Esso è di casa e conosce bene la parte debole di
ognuno: è di quella che si nutre, con accanimento o in modo soft a seconda
dei casi. Fatto è che nessuno può eliminare i conflitti in un sistema: e cioè là
dove non si è in un hotel con le sue camere numerate dentro le quali l'altro
ignora fisicamente chi ci abita, là dove ci si riconosce almeno teoricamente
un compito comune, là dove è non finisce di stupirci ciascuno riconosce
nell'altro la chiamata, la vocazione, l'essere per, il conflitto non può non
essere presente. Nessuno è autorizzato ad immaginare che «ci si capisce
senza parlare, quando ci si vuol bene».[…]
Nessuno è autorizzato ad aspettarsi magicamente che l'altro veda
le stesse cose che vede lui e che, vedendole, ne tragga le stesse conseguenze
e che, perciò, se si comporta diversamente da come dovrebbe, è solo per
indifferenza, per malanimo, per noncuranza o cattivo carattere: queste attese
non sono che formulazioni sempre cangianti del mito dell'amore ro-mantico
che conduce spontaneamente all'intesa dei cuori. Il che non ha a che fare, ci
sembra, con l'unanimità giovannea, che non s'instaura per consonanza
emotiva o per simbiosi: chiunque sia arrivato vicino a simile unanimità, sa
sulla propria pelle quanto pocospontanea essa sia, quanto poco immediata e
naturale […]
Nessuno è autorizzato a far sparire i conflitti, anzi. Il cardinal
Martini con la lucidità anche psicologica con cui ha esplorato il cuore della
comunità ecclesiale, affermava che proprio là dove è maggiormente vissuta
la prossimità a Gesù, alle mete ultime, proprio là c'è un maggior bisogno di
conciliazione. Definiamolo in modo approssimativo come voler due cose
diverse o la stessa cosa, ma in modi diversi; come voler stabilire delle
priorità non condivise; come un non co gliere e un non permettere che gli
altri la pensino diversamente, come — vivaddio — esser diversi,
60 CENCINI A., “…come rugiada dell’Ermon…”. La vita fraterna comunione di
santi e peccatori, Ed Paoline, Milano 1998.
61 GILLINI G. – ZATTONI M.T., Ben-essere per la missione…, oc, pp. 117147.
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inevitabilmente diversi. In questa ottica, negare il conflitto è l'atteggiamento
più deleterio […]
Tenere in piedi rituali e costruzioni interrative che hanno perso il
loro significato è un modo per negare i conflitti: come se tutto e sempre
dovesse andar bene come "prima, come se certi segnali di accordo per la
loro pura sopravvivenza formale, rassicurassero che non c'è niente che non
va. Chi nega il conflitto — e normalmente lo fa in modi non del tutto
consapevoli — lo fa per trattenere larve di potere, simulacri di non
cambiamento, per tenere a bada le proprie paure espansive: se qualcosa non
va, allora non va più bene niente.
Il che cosa decide il significato del conflitto (il significato
interattivo, e cioè se crisi salutare o blocco dei rapporti) è la modalità di
gestirlo.
La modalità competitiva
Vi è una modalità che tutti giudichiamo spontanea, ovvia:
quella competitiva. Già, sperimentiamo ancora una volta che ciò
che ci viene spontaneo è "ciò che viene indotto dalla nostra cultura", dalla
visione del mondo che tutti più o meno respiriamo, che abbiamo chiamato
"psicologia fondata sui luoghi comuni". Siamo infatti fino al collo nello
schema dell'aut aut, dell'alternativa che non ammette la terza via.
Se appena appena ci affacciamo al vocabolario di un gruppo, ci
troviamo inondati di verbi quali: esser preferiti/esser messi da parte, esser
forti/esser deboli, aver la meglio/aver la peggio, star sopra/star sotto,
vincere/perdere, ecc.
I controllanti,
quelli cioè che devono sempre controllare a che punto uno sta
nella gerarchia, quelli che sanno sempre quale sarebbe il posto giusto, quelli
che hanno una contabilità sofisticata che svela le mosse dell'altro [...]
Il provocatore passivo
Nessuna meraviglia, chi abita tra le mura di una comunità o tra le
mura virtuali del presbiterio è figlio del suo tempo. Gli viene spontaneo
correre, come insegnava tempo fa quel suggestivo, e così comprensibile,
spot pubblicitario: «Quando ti svegli la mattina, non importa se sei leone o
gazzella, coni» e cioè: la vita è una lotta continua. C'è chi vince e c'è chi
perde. Chi è lodato e approvato e chi vien messo da parte. [...]
Il provocatore passivo è colui che attende e dice fra sè «ride bene
chi ride ultimo» rinforza la saggezza popolare. Basta aspettare. [...]
«Vedete tutti come sono stato sfortunato a capitare in questa
comunità con un superiore così o con dei confratelli così... Naturalmente, io
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A cura del Centro di PG e consulta per la Formaziuone ISPETTORIA