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storia/e
Umanesimo
versiliese
alla corte dei Tommasi
Vania Di Stefano
dall’alto
Vania Di Stefano
ritratto da Riccardo Tommasi
Ferroni (1968)
Vania Di Stefano e Riccardo
Tommasi Ferroni (c.1975)
Fonderia di Luigi Tommasi
sotto
testo dell’epigrafe
commemorativa e firme
degli accademici
L
a mitologia e la storia della
Versilia moderna negli anni ’70
del XX secolo rivivono nel bel
romanzo di Luigi Testaferrata: L’Altissimo e le rose (1980). Personaggi reali coi loro veri nomi (c’è anche Vania,
detto Ivàn) si riunivano nei luoghi più
diversi, ma specialmente nella terrazza d’una casetta in località Solaio; qui, contemplando il Padreterno,
banchettavano lieti per onorare la
vita e l’amicizia, accomunati da un sogno collettivo destinato all’immortalità per virtù di poesia, un sogno nato
fra la tribù dei Tommasi, che nell’agosto 1969 m’accolse a Pietrasanta promuovendomi a fratello minore, figlio,
nipote, amico, compagno di giochi e
di cene, suonatore di chitarra. Fu un
privilegio e insieme una fortuna. Mi
travolse e mi nutrì un concentrato di
intelligenza creativa, di umorismo toscano beffardo, corrosivo, polemico,
talvolta aggressivo; mi contagiò la
fiamma di un Umanesimo imbevuto di
una concezione aristocratica dell’esistenza goduta in nome dell’Arte, cioè
della bellezza riflessa nel paesaggio
dei loro volti, delle loro menti, delle
mani tese a modellare argilla, a disegnare leonardescamente, a inventare
mondi pittorici nuovi all’insegna della
più classica, rivoluzionaria figurazione
moderna.
Nell’archivio della memoria ho antiche pagine che li riguardano: scaldano il cuore, attenuano la malinconia,
rivelano gioie comuni e imprese surreali, come la fondazione dell’Accademia Stendhaliana, promotrice di
un’epigrafe commemorante la ... assenza di Stendhal a Malbacco (vedi il
foglio volante col testo e le firme degli accademici). Ho vissuto con loro
anche momenti tristi, cristianamente
condivisi, e persino pause ludiche,
come il gioco del piattino rovesciato:
ignoti spiriti, giovandosi delle nostre
dita convergenti, lo muovevano sul
tavolo entro un cerchio formato da
caratteri alfabetici. Lettera dopo lettera veniva fuori di tutto, persino ottave: l’antica luce che dilegua a sera /
perde l’oro di cui fu carco il giorno. /
Ormai l’azzurro imbruna e quella sfera / ci lascia sospirar del suo ritorno.
/ S’acqueta nella mente ancor la fiera
/ che tutto il dì mi fa girare intorno. /
La desterà il diman, se non l’uccide, /
la bocca di costei che mi sorride. Che
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l’avessi composta io (lo confesso),
lo capirono subito, fingendo teatralmente spiritico stupore.
Non conobbi il patriarca di famiglia,
lo scultore Leone, ma quando fui
ospite nella sua casa in viale Marconi
sentii forte la presenza del suo nume
irrequieto che abitava lo studio, colmo di gessi, e che aleggiava sul destino dei figli: Luigi focoso direttore
della fonderia d’arte, Riccardo olimpico pittore emigrato a Roma, Marcello sanguigno scultore radicato a
Firenze, Paolo generoso e onesto
avvocato in Pietrasanta. Le loro belle
mogli crescevano i figli sotto gli occhi
affettuosi e severi di Carolina Ferroni,
sposa di Leone, attorniata da una folta, mobile, inquieta selva di parenti
che ho nel cuore.
Alla corte dei Tommasi passarono
tutte le arti dell’uomo. Ai nomi dei
celebranti il centenario stendhaliano
aggiungo quello della pianista Maria
Tipo e del pittore Alejandro Kokocinsky, ma l’elenco intero sarebbe
lungo. Convitato speciale era Manlio
Cancogni, personaggio oracolare,
disincantato scrittore e giornalista; di
me disse a Riccardo che sapevo scrivere, ma definì “sbagliato” il mio primo, inedito romanzo, L’apprendista,
bocciato anche da Sergio Pautasso
e dall’editore Baldini & Castoldi. Era
piaciuto a Riccardo, a sua moglie
Rossana, a Fortunato Bellonzi, a Igor
Man (aspetto ancora il giudizio di Testaferrata).
Dopo tanto tempo valeva la pena ricordare con gratitudine il privilegio
della ricchezza accumulata in quegli
anni, io civis Romanus abbracciato
dalla corte dei Tommasi e promosso
cittadino di quella godibile Repubblica di Versilia descritta da Gigi nel
suo immortale, onirico racconto; la
copia che conservo ha questa dedica
autografa: “Al mio Ivan, vivo, insieme
a me, in questo libretto, per una brevissima, effimera eternità. Gigi”.
Luigi Testaferrata (1973)
frontespizio del romanzo di
Testaferrata con dedica
Luigi Tommasi (1970)
Vania Di Stefano nello Studio
di Leone Tommasi (1969)
Casetta dei Tommasi in
località Solaio (1972)
Paolo Tommasi
a pranzo dai Tommasi (1969);
da sinistra:
Marcello, Carolina junior,
Riccardo, Andreina, Ilaria,
Vania Di Stefano,
Maria Grazia Bastreri,
Carolina Ferroni
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