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DOSSIER
DOSS
Dire DIO
narrandolo con la BIBBIA
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Bruno Ferrero
UNA NECESSARIA PREMESSA:
PERCHÉ RACCONTARE, OGGI?
Una storia è «Le storie sono doni d‘amore» diceva Lewis Carroll. Il piacere dei bambini
un piacere che ascoltano un racconto sembra evidente, perlomeno è visibile. Quello
condiviso dell‘adulto che racconta è meno visibile. Il più delle volte questa mancanza
di piacere è solo un‘apparenza, una forma di autocensura. Anche se effettivamente alcuni animatori e insegnanti considerano questo “esercizio” una
specie di obbligo imposto dall‘uso e dai programmi, ma non amano veramente le storie, se non per la “morale” che possono trarne. Di solito questi
insegnanti si lamentano della mancanza di ascolto da parte dei bambini.
Altri cercano e leggono centinaia di storie, si lasciano impregnare da
esse, si divertono a imitare la voce dell‘orco o della bambina smarrita, sono
attenti agli sguardi dei loro piccoli spettatori, modificano il testo quando
occorre, aggiungono rumori, mimica, parole, modificano la voce... e gli
allievi li divorano con lo sguardo. Perché il piacere dell‘adulto è indispensabile alla riuscita della narrazione, dell‘atto narrativo. «Raccontare una
storia senza trovarci piacere per se stessi, senza meravigliarsi del proprio
potere di suscitare l‘interesse o l‘entusiasmo dei bambini, senza lasciarsi
prendere dal fascino che può avere la propria voce... in breve, raccontare
una storia rifiutando il suo premio di autosoddisfazione, sottrae alla
narrazione molta della sua efficacia» (Hochmann).
Il piacere dell‘adulto e quello del bambino si incontrano e provocano l‘atmosfera tipica della narrazione. Immaginare, fabbricare un pensiero, tanti pensieri,
sono attività della coscienza, sorgenti di un piacere speciale. Che si trasforma
nella base di ogni altro apprendimento. Il verbo leggere, per esempio, non si può
coniugare all‘imperativo. Il “piacere” di leggere si impara con una trasmissione
umana, calda, affettuosa. Esiste una certa diversità tra l‘imparare “per dovere” o
per costrizione e imparare “per piacere”. Questo vale soprattutto per
l‘insegnamento religioso.
L’alfabeto
della vita
Esiste un alfabeto della vita e le narrazioni sono il modo privilegiato
per comunicarlo alle nuove generazioni. Il ritmo di un racconto è un
respiro spirituale che mette insieme il mondo degli adulti e quello
dei piccoli. I racconti sono un tuffo in un mondo di simboli che appartengono non ad un‘età, ma al semplice fatto di essere “umani”.
Come scrive Mircea Eliade: «Il pensiero simbolico non è dominio
esclusivo del bambino, del poeta o dello squilibrato, esso è con-
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naturato all‘essere umano: precede il linguaggio e il ragionamento discorsivo.
Il simbolo rivela determinati aspetti della realtà – gli aspetti più profondi – che
sfuggono a qualsiasi altro mezzo di conoscenza. Le immagini, i simboli, i miti,
non sono creazioni irresponsabili della psiche, essi rispondono ad una necessità
e adempiono una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete
dell‘essere. Ne consegue che il loro studio ci permette di conoscere meglio l‘uomo, l‘“uomo tout court”, quello che non è ancora sceso a patti con le condizioni
della storia… I sogni, le fantasticherie, le immagini delle sue nostalgie, dei suoi
desideri, dei suoi entusiasmi, ecc., sono tutte forze che proiettano l‘essere umano
storicamente condizionato in un mondo spirituale infinitamente più ricco rispetto al mondo chiuso del suo “momento storico”» (M. Eliade, Immagini e simboli.
Saggi sul simbolismo magico-religioso, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 16-17).
Ben lo sanno coloro che devono, per professione o missione, “parlare” a
bambini e ragazzi. I loro ascoltatori sono irrequieti e distratti nei confronti
di parole e ragionamenti, ma sbocciano in una silenziosa attenzione, appena l‘educatore “comincia una storia”. Raccontare quindi non è un facile
trucco per conquistare l‘attenzione dei ragazzi e martellarli poi di sorpresa con le parole “che contano”. I bambini e i ragazzi sono conquistati
dalle narrazioni, perché raccontare è un magnifico modo di comunicare.
L’uomo
è un
animale
narrante
È l‘esperienza di tutti i giorni: uomini e donne amano moltissimo raccontare
storie. Si racconta per la strada, al bar, nei treni. Dappertutto risuonano racconti
che dilatano la vita; non importa se sono veri o falsi. I giornali e i libri raccontano e offrono questi “allargamenti” dell‘esistenza. Si racconta molto in famiglia: quello che è successo a scuola e al lavoro, gli incontri, ciò che si è visto per
la strada. I programmi trasmessi dalla televisione sono costituiti soprattutto da
racconti: telefilm, commedie, sceneggiati, cartoni animati... Perfino notiziari e
documentari sono spesso confezionati come racconti, per attirare l‘attenzione.
Esplorare Il bambino, durante il giorno, stanca gli adulti ponendo domande senza
la realtà sosta. Le domande riguardano la formazione di un concetto: «Che cos‘è
questo?». Da questo tipo di domanda nascono quelle che contano di più,
quelle che cominciano con «Perché?». Poi, alla sera, prima di abbandonarsi al sonno, il bambino chiede che gli sia raccontata una storia. Storie di
gnomi e di tigri che divorano la gente, di lupi vestiti da nonne e di giganti
che vivono in cima ad uno stelo di fagioli; storie che si svolgono tutte “una
volta”, in illo tempore, e in un luogo lontano, in illo loco, non nel “qui e adesso” di un letto caldo e confortevole. Le storie dei tempi spaventosi e degli
eventi terribili circondano il letto con una barriera che
gli spiriti non possono varcare. Permettono al bambino di
affermare, sebbene inconsciamente, che il “qui e adesso” è
al sicuro, che non è vulnerabile da parte delle forze sconosciute ed ostili. Insomma, le storie che raccontiamo ai nostri
bambini prima di dormire esorcizzano l‘ignoto, in modo che
il conosciuto possa essere affermato come sicuro e buono.
Nello stesso tempo invitano ad un‘esplorazione ulteriore in
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quanto suggeriscono che la realtà, il mondo del “qui e adesso” proprio del
bambino, non esaurisce le possibilità di ciò che potrebbe accadere.
Le storie umane esprimono il modo di essere nel mondo e il modo di vivere
in relazione ad esso. Proprio per questo gli psicologi dell‘inconscio fanno
sempre più ricorso a storie di vita per capire e curare i loro pazienti. Le
cure psicoterapeutiche iniziano generalmente con l‘anamnesi della storia del
paziente. La psicanalisi freudiana richiede in gran parte che il paziente racconti
la sua storia. La capacità di organizzare i propri ricordi e di sperimentare se
stesso come soggetto unico di un racconto continuo, in breve la capacità di raccontare la propria storia, è una condizione assoluta di salute mentale. Lo stesso
Freud ha definito la fiaba «una scala che affonda nelle viscere della terra».
«La potenza di modificazione che la fiaba induce risulta sempre sorprendente: vedo le persone che scuotono la testa incredule, alzandosi dal lettino, per
tutto ciò che sono state capaci di produrre e di assemblare, per la leggerezza
della fantasia, per i suoi giochi aerei. E per come, incredibilmente, quella stupida fiaba che hanno narrato abbia saputo risolvere quell‘interrogativo, abbia
risistemato quegli equilibri, consegnato informazioni essenziali». È la singolare
testimonianza della psicologa clinica M. Cristina Koch Candela.
Le
molteplici
funzioni
di un
racconto
In forma sintetica, secondo diversi studiosi, le principali funzioni di una
narrazione sono le seguenti:
1. I racconti destano curiosità. È davvero una “storia” antica. Cesario di Heisterbach racconta che, nel XIII secolo, un abate cistercense, Gerardo, predicava ai conversi che sonnecchiavano. L‘abate si fermò, poi cominciò: «C‘era
una volta un re che si chiamava Artù...». Tutti si risvegliarono. E Gerardo notò:
«Quando parlavo di Dio voi dormivate e per ascoltare delle favole vi
svegliate».
Uno dei più grandi disturbi della comunicazione umana, in questi nostri tempi, che per altro si vantano di essere “l‘era della comunicazione”, è proprio
quello di essere irrilevante e noiosa per le troppe pretese di tecnicismo e specializzazione. Siamo spesso circondati da «abracadabra inintelligibili», sosteneva
il teologo Schillebeeckx. Chiunque debba comunicare con dei bambini e con
dei ragazzi, oggi, si accorge facilmente che le parole (soprattutto quelle astratte)
stanno diventando una barriera insormontabile. I ragazzi le subiscono e solo raramente le comprendono. Le parole, spesso così abbondanti, di tanti educatori
sono come aeroplanini di carta che volano sulle teste dei ragazzi e
poi finiscono nel cestino della carta straccia.
2. I racconti collegano con la storia, quella terra comune in
cui affondano le radici di tutte le nostre esperienze. Gesù di Nazaret era un grande narratore. Parlava in immagini, ma le storie
che raccontava affondavano le radici nella vita della gente che
lo ascoltava. Parlava della vita in modo tale che gli ascoltatori
la vedevano in modo nuovo e sorprendente. Li aiutava a scoprire come le cose della vita sono piene di parole, se vogliamo
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ascoltarle, e piene di immagini, se vogliamo guardarle. Apriva nello stesso
tempo occhi e orecchi.
Essere senza storia significa essere incapaci di mettersi in relazione con gli altri e anche con se stessi, con il mondo e con Dio. Gli
uomini senza storia vivono in una situazione di insicurezza patologica e
radicale. Ai giovani di oggi si rimprovera proprio di essere senza-storia,
gente senza passato e quindi senza futuro, fluttuanti in un esasperante “presentismo”.
3. I racconti hanno una grande forza di coinvolgimento esistenziale
e conducono a prendere decisioni di vita. Stany Simon ha condensato il
valore pedagogico del racconto in alcune formule suggestive: «L‘immaginario crea uno spazio nuovo. In questo spazio nuovo, ciò che appare impossibile diventa possibile. L‘impossibile divenuto possibile permette il
cambiamento. Questo cambiamento ha un effetto salutare per il gruppo e
per l‘individuo. Né il mediatore né la mediazione sono neutri».
L‘esempio migliore di questa forza della narrazione viene dalle narrazioni bibliche. Come si dirà ancora e più ampiamente in seguito, il profeta
Natan narra a Davide una storia che lo costringe ad aprire gli occhi sulla
propria situazione. Le parabole di Gesù sono solo belle storie per molti.
Per chi le ascolta veramente sono un invito pieno di forza al cambiamento.
4. I racconti aiutano a ricordare. Lo insegna l‘esperienza: è molto più
facile ricordare una storia che un insieme di ragionamenti astratti. Duemila
anni fa, il poeta greco Simonide di Ceo insegnava che per ricordare le cose
più complicate bastava inserirle in una specie di raccontino di viaggio di
cui si era protagonisti.
5. I racconti stimolano il cervello destro, l‘immaginazione, il cuore,
la totalità. Nello stesso tempo rimettono in vigore il potere originario delle
parole. Stiamo assistendo al lento avanzare d‘un nuovo modo di essere e
di pensare. Un altro modo di vivere in società. La musica ne è l‘inizio e il
segno. I giovani che camminano per le strade, si aggirano per i cortili o se
ne stanno seduti tranquilli sul pullman della gita scolastica con la cuffia del
walkman incollata sulle orecchie sono “qui”, ma sono “altrove”. I ragazzi
che “guardano” la televisione due o tre ore al giorno in media, quando
devono semplicemente “ascoltare” delle parole, di solito astratte e logicamente interconnesse, si sentono veramente spaesati.
Oggi coesistono due modi di capire e di comunicare. In
modo schematico potremmo definirli la Galassia Gutenberg e l‘Universo Marconi o Mondo della parola e Mondo dell‘audiovisivo o anche Cervello sinistro e Cervello
destro. L‘emisfero sinistro è la fonte della massima parte del
nostro potere di linguaggio, di quello che definiamo “ragionare”, della riflessione logica. L‘emisfero destro del cervello è largamente non linguistico e non logico: è il regno
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dell‘emozione, della musica, della suggestione. Senza dubbio non si possono separare col coltello questi due linguaggi, così mescolati nella vita
quotidiana. Tuttavia conoscere la distinzione tra i due linguaggi e i due
modi di comprendere è un‘esigenza vitale per chi vuole capire il nostro
tempo, particolarmente le nuove generazioni e la loro cultura. Nel campo della comunicazione religiosa i due linguaggi coesistono da sempre. Il
catecheta Babin li definisce la “via catechistica” e la “via simbolica”.
Nella via catechistica gli ascoltatori sono messi di fronte ad un messaggio
presentato prevalentemente sotto forma di verità dogmatiche e di enunciati
teologici. Nella via simbolica il messaggio è enunciato prevalentemente sotto forma di storie, di sentenze-chiave, di immagini e di impatti emozionali.
Una buona comunicazione religiosa armonizza i due linguaggi: ci vogliono i
simboli e i riti, come pure la logica e la riflessione. “Raccontare storie” è uno
dei modi più efficaci per costruire un “ponte” tra i due universi comunicativi.
Un racconto libera sempre le ricchezze impreviste e creatrici dell‘immaginazione. Harvey Cox scrive: «L‘immaginazione è la sorgente più ricca
della creatività umana. Teologicamente parlando, riproduce nell‘uomo
l‘immagine di Dio Creatore».
«Leggi con tuo figlio una pagina tutte le sere», consigliano i pediatri americani ai genitori che hanno figli con problemi di rendimento scolastico, di eccessiva agitazione o addirittura di salute mentale. Le belle storie si stanno manifestando più efficaci di mesi di cura a base di tranquillanti e stimolanti. «Stiamo
assistendo» dice una ricercatrice della Boston University, «al passaggio da una
generazione, la cui base cognitiva era formata sulla stampa, ad una formata
sui media elettronici: non solo TV, ma walkman, videoregistratori, giochi al
computer. Tutti insieme hanno creato un clima di resa davanti ad un turbinio
di immagini prefabbricate che finiscono per dominare il bambino. E lui non è
più capace di crearsi immagini mentali, quelle che noi tutti abbiamo imparato
a costruire attraverso la lettura e l‘ascolto di storie. Un bambino così non
sa ascoltare, non sa inventare, quindi non sa neppure scrivere». Anche per
questo, il racconto, dimenticato, svalutato, deprezzato, riconquista con forza la
scena pedagogica. Le scuole organizzano sessioni di storytelling, si rifanno vivi i
narratori professionali, le università aprono corsi di «narratologia».
Al di là di tutti gli aspetti più o meno teorici, il momento della narrazione è
un momento particolare, privilegiato. In questo nostro tempo, i ragazzi sono
insaziabili ma passivi consumatori di immagini. Insegnare immaginazione,
cioè capacità di creare immagini, è un compito educativo primario. I racconti e le fiabe guidano adulti e ragazzi verso l‘interiorità
e la riflessione. Prima di tutto, perché sono basati sulla parola. La
parola “narrata” produce nella mente onde di superficie e di
profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e suoni, in
un movimento che interessa l‘esperienza e la memoria, la fantasia e
l‘inconscio. Un racconto “narrato” diventa vivo, capace di suscitare
le parole dei ragazzi riguardo alle loro esperienze, alle loro emozioni, alle loro idee nascenti. Un racconto, una favola, una storia sono
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sempre ascoltati con partecipazione, perché sono brandelli di vita. La vita è
sempre una storia, la “mia” storia.
6. I racconti creano rapporti nuovi, aiutano a superare le divisioni e rompono il guscio dell‘isolamento. Nella cornice di un racconto, i ragazzi scoprono
quello spazio nuovo, libero, dove hanno diritto di cittadinanza fantasie e meraviglioso, dove veramente l‘impossibile diventa possibile. I racconti sono il
modo più utile per fornire basi di speranza e di moralità. La fiaba prende
molto sul serio le ansie e i dilemmi esistenziali e s‘ispira direttamente ad essi: il
bisogno di essere amati e la paura di non essere considerati, l‘amore della vita e
la paura della morte. Inoltre, la fiaba offre soluzioni in modi che il bambino può
afferrare in base al proprio livello intellettivo. Per esempio, le fiabe pongono il
problema del desiderio di vita eterna concludendo talvolta: «Se non sono ancora morti, sono ancora vivi». L‘altra conclusione «E vissero felici per sempre»
non fa credere per un solo istante al bambino che la vita eterna sia possibile.
Essa indica però qual è l‘unica cosa che può farci sopportare gli angusti limiti
del nostro tempo su questa terra: la formazione di un legame veramente soddisfacente con un‘altra persona.
Le storie, anche le più fantasiose, non sono mai una fuga nel puro immaginario, ma una ricerca nel cuore profondo della realtà. Per ritrovare lembi importanti di se stessi. Il racconto non deve mai essere una semplice storia allegorica
con intenti moralistici. L‘importante in una narrazione è l‘esplorazione di quello
strano paese che può anche essere dentro l‘uomo. Nel regno fantastico dei racconti possiamo aiutare i ragazzi di oggi a scoprire i tratti essenziali del vivere
religioso: il mistero, la speranza, la paura, la meraviglia, il silenzio, la parola, la
solitudine, la comunione, il sacrificio, la gratuità...
Ogni storia provoca l‘identificazione del ragazzo con i personaggi dei
quali approva o disapprova il comportamento. Il coinvolgimento provoca le prime riflessioni critiche, un primo “mettersi in questione”. L‘aiuto
accorto dell‘educatore conduce per mano i ragazzi nel “senso nascosto” di
un racconto, in quello “spazio verde” dove il dialogo diventa facile, perché
i ragazzi trovano simboli accessibili, immagini e parole piene di immagini.
Non era forse questo lo stile di Gesù quando raccontava le parabole? Anche i ragazzi di oggi hanno “le orecchie per intendere”.
7. Raccontare permette di vivere insieme, di ritrovarsi nell‘emozione, nella riflessione, nel giudizio, nella decisione. Raccontare cementa un gruppo. «Ti ricordi del giorno, quando ti è successo questo o quando
ci hai raccontato quello che avevi visto? ». Lo ricorda Daniel Pennac nelle pagine di uno dei suoi libri per ragazzi più
poeticamente intensi, L‘occhio del lupo: «La sera, quando
Africa accendeva i fuochi, non passava mol­to che ombre nere
scivolassero fino a lui. Ma non erano la­dri, né animali affamati. Era la folla di coloro – uomini e be­stie – che venivano
ad ascoltare le storie di Africa, il piccolo pastore del Re delle
Capre. Lui parlava loro di un‘altra Afri­ca, l‘Africa Gialla. Rac-
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contava dei sogni del dromedario Pi­gnatta, misteriosamente scomparso.
Ma raccontava anche storie dell‘Africa Grigia, che conosceva meglio di loro,
ben­ché non ci fosse nato. “Racconta bene, eh?”. “Sì, racconta benissimo!”. E
all‘alba, quando ognuno se ne andava per conto suo, era come se rimanessero insieme».
Ciò che si ricorda di più, a distanza di tempo, non è quasi mai la storia
rac­contata, ma il senso di vicinanza, di autenticità e di condivisione
che ha caratterizzato il momento del racconto. Si ricorda di essere stati
complici di una scoperta, di un viaggio meraviglioso, della condivisione di
un segreto. Le storie fanno passare dalla comunicazione alla comunione, alla comunità: quando l‘insegnante comincia a raccontare (soprattutto se la storia è avvincente e il narratore conosce il suo mestiere) i bambini si avvicinano l‘un l‘altro, creando un cerchio fatto non solo di corpi,
ma di aspettativa gioiosa e di un sentimento di fiducia e di appartenenza.
Il narratore “affida” qualcosa di intimo, di proprio, di personale agli
ascoltatori. Gli ascoltatori “si fidano” di colui che decide di narrare. Il narratore e gli ascoltatori intraprendono un cammino insieme verso qualcosa
di più profondo, una sorgente nascosta che potremmo chiamare la coscienza dell‘umanità, a cui danno un‘incarnazione provvisoria e concreta. Da
comunicazione, la narrazione diviene comunione, ciò che viene comunicato riguarda la vita concreta del narratore, che la testimonia, e quella
degli ascoltatori, che ne sono commossi. «Il discorso spiega, la legge dà ordini, il racconto “converte”». Ciò significa che raggiunge la persona sia nel
suo essere personale, come nel suo essere sociale e la obbliga a prendere
posizione di fronte agli aspetti essenziali della vita: la solitudine, l‘impotenza, il male, la sofferenza, la morte, la propria identità.
Il racconto, nella sua forma più banale, può avere soltanto una valenza informativa: così è, per esempio, dei fatti che leggiamo sul giornale. Ma quando il
racconto diventa parabola, narrazione, epica, mito, racconto della passione
di Gesù o della sua risurrezione, esso fa appello ai nostri sentimenti, ai valori,
alle scelte della vita, e provoca un cambiamento, una trasformazione, una
“conversione”. Questo avviene perché, generalmente, ogni racconto si snoda
mostrando i cambiamenti, vissuti dall‘eroe, così che l‘ascoltatore si sente spontaneamente invitato a cambiare lui stesso. Si capisce che qui non si tratta, prima
di tutto, di una conversione in senso religioso, ma nel senso in cui la intendono
gli psicologi: una trasformazione del modo di sentire, del modo di comprendere, del modo di pensare.
Proprio per questo importante fattore di relazione tra persone,
anche il luogo e il momento della narrazione non possono
essere neutrali. C‘è una sola atmosfera giusta per la narrazione:
può essere definita in modo adeguato dalle parole “qui si sta
bene”. Si tratta soltanto di riaccendere l‘antico fuoco: sarete meravigliati da quante persone vi si stringeranno intorno.
8. I racconti sono la via maestra dell‘educazione religiosa. In
tutte le religioni del mondo i racconti hanno avuto un ruolo insoCATECHESI
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stituibile, spesso addirittura “fondante”. Il raccontare è più che un metodo; il
raccontare non è solo uno strumento per la psicanalisi e una trovata descrittiva
per la teologia; è fondamentale per la formazione dell‘identità personale e religiosa. Allo stesso modo in cui gli individui creano e sono creati dai racconti, le
religioni creano e sono create dai racconti. Il racconto rappresenta il cuore
della religione, i suoi eventi religiosi originari. La narrazione ripropone una tradizione religiosa, gli elementi validi ed essenziali del passato. Il Baal Shem dice:
«La dimenticanza porta all‘esilio. Il ricordo è il segreto della redenzione». È
attraverso il racconto che noi ricordiamo i segreti delle nostre tradizioni.
L‘arte Prima ancora della narrazione c‘è il narratore. Il filosofo tedesco Waldi ter Benjamin (1892-1940) ha cercato di analizzare l‘importante compito
raccontare umano di colui che decide di diventare “narratore”. Benjamin constata in
primo luogo che il declino dell‘arte di raccontare è legato al declino del
valore dell‘esperienza e della saggezza. La narrazione è una forma artigianale di comunicazione in cui il narratore non trasmette un oggetto, come
fosse un pacchetto di conoscenze o un libretto di istruzioni, ma che implica
se stesso nella comunicazione, con la quale cerca di dare consigli pratici
di vita, aprire alla saggezza, creare la comunità attraverso uno scambio di
esperienze.
Il narratore non è un insegnante, né un poeta, né un teorico, né semplicemente un furbo, ma una persona che scopre un sentiero profondamente umano “nella sua carne” (mani, occhi, bocca, parole modulate, posizione, tono, ecc.) per comunicare una verità da lui vissuta che provochi
un qualche cambiamento nei suoi ascoltatori.
Il narratore è un maestro e un saggio, quasi un guru. Gli ascoltatori
di una storia non sono isolati, ma “dentro” la narrazione, coinvolti. È
questa la forza segreta di un racconto. Una narrazione non riferisce semplicemente una trama, non descrive, non riporta soltanto dei fatti: simultaneamente parla all‘ascoltatore, lo interpella, lo sconvolge, lo spinge a cambiare. Costringe chi ascolta a fare quell‘autentico lavoro di interpretazione
che Ricoeur descrive con il termine appropriazione.
L‘arte e la tecnica del raccontare non si possono imparare da un libro. Si
acquisiscono imitando i maestri e con l‘esperienza. I maestri sono dappertutto, perché dappertutto c‘è gente che racconta. «Che cosa è capitato? Che
novità mi porti?». Per rispondere bisogna raccontare. Raccontare in modo
che l‘interlocutore riviva l‘avvenimento. La parola d‘ordine di ogni vero
racconto è partecipazione.
Raccontare permette di rivivere insieme, di incontrarsi
nell‘emozione, nella riflessione, nel giudizio, nella decisione. Solo l‘esercizio consente di arrivare ad una vera esperienza. Spesso si tratta solo di vincere una certa ritrosia. Mettersi a
raccontare è sempre scendere dal piedistallo, abbandonare la
maschera del ruolo, scendere a livello dei bambini e della loro
piccola esperienza.
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Alcune
modeste
«istruzioni
per
l‘uso»
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La prima viene da Bruno Bettelheim: «Perché possa comunicare appieno i
suoi messaggi consolatori, i suoi messaggi simbolici, e, soprattutto i suoi significati interpersonali, una fiaba dovrebbe essere raccontata piuttosto che
letta. In questo caso, chi legge dovrebbe essere coinvolto emotivamente
sia dalla storia sia dal bambino, provare un senso di empatia per quanto la
storia può significare per lui.
1. La narrazione è preferibile alla lettura perché permette una maggiore
flessibilità».
2. Gli occhi del narratore devono incontrarsi con quelli degli ascoltatori. Chi racconta deve aiutarsi con dei movimenti, con la mimica, con
l‘intonazione della voce.
3. Il buon narratore si appropria della storia, la arricchisce con la
sua persona, la fa vivere. Per lui il testo diventa una testimonianza. Se
vive interiormente ciò che racconta (soprattutto quando si tratta di un testo
biblico) è lui stesso ad essere trasformato. Afferma ancora Bettelheim: «La
narrazione della storia ad un bambino, per ottenere la massima efficacia,
deve essere un fatto interpersonale, plasmato da coloro che vi partecipano».
4. Il buon narratore ha chiaramente in testa l‘essenziale che vuol
comunicare, è sicuro dello svolgimento, della trama, dei personaggi, dei
dialoghi, per non avere poi esitazioni durante la narrazione.
5. Il narratore efficace non mette mai al primo posto l‘intenzione
didattica, cioè non “tira fuori la morale della storia” a tutti i costi. A questo
riguardo esiste una significativa storia orientale:
Un discepolo una volta si lamentava con il maestro: «Ci racconti delle storie,
ma non ci sveli mai il loro significato».
Il maestro rispose: «Che ne diresti se qualcuno ti offrisse un frutto e lo masticasse prima di dartelo?».
Nessuno può sostituirsi all‘ascoltatore per trovare il suo significato. Neppure il
maestro. E Bettelheim: «Ascoltare una fiaba e recepire le immagini
che essa presenta può essere paragonato a uno spargimento di semi,
che solo in parte germogliano nella mente di un bambino».
6. Un racconto non è mai la “spiegazione” di un testo. È necessario evitare anche di fare un legame esplicito tra un‘immagine
fiabesca e qualche immagine biblica. A qualcuno la mela di Biancaneve può far venire in mente la mela di Adamo ed Eva. Ma Gesù
non è il principe azzurro. I racconti non sono fatti per “far passare”
un messaggio religioso senza che gli allievi se ne accorgano.
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7. Non bisogna neppure limitarsi al racconto vero e proprio. Un buon narratore lo fa diventare un momento di intensa partecipazione vitale.
Crea l‘atmosfera adatta. Lascia che i bambini e i ragazzi rispondano con
fantasia alla fantasia. Li stimola a partire dal significato esperienziale del
racconto per creare messaggi personali, manifesti, mimi, montaggi, canzoni, storie all‘incontrario, ecc.
8. Narrare inserisce educatori e allievi in una struttura dialogica. Il
racconto è fatto proprio per consentire ai ragazzi di trovare con il loro insegnante uno spazio d‘incontro, in cui anch‘essi sentano di avere qualcosa
da dire e da condividere. L‘incontro con l‘insegnante non è incontro con
un professore o un maestro in più, ma con un vero amico grande. Proprio
per questo i racconti devono essere scelti con cura, dosati con attenzione
(esiste anche il pericolo di overdose) e preparati. I ragazzi che si annoiano
non imparano assolutamente nulla.
Una storia
è una nave,
uno
specchio,
una
conchiglia
Ci si imbarca in una storia. «C‘era una volta... » e comincia l‘incanto: si
mollano gli ormeggi. Partiamo, noi e i bambini, verso un mondo di straordinari
orizzonti, popolato di animali che parlano, di sirene e di giganti, di streghe e
principesse, cioè di esseri che non esistono e che tuttavia ci rassomigliano stranamente. E anche quando parla della vita di tutti i giorni, una storia lo fa con
un certo distacco. Una storia rimane una storia. E anche un bambino di quattro
anni capisce che è tutto “per finta” e che, proprio per questo, è totalmente vero.
In quel momento adulto e bambini vengono assorbiti in una atmosfera invisibile fatta di calore (di corpi e di cuori), del suono della voce, di gesti, di qualche
immagine.
Si naviga così verso un‘isola meravigliosa chiamata complicità, che è un
altro nome per dire comunione. «Io sono il tuo specchio, Bella. Rifletti
per me, io rifletterò per te». Così parla lo specchio nel bel film di Jean Cocteau. Le storie sono anche degli specchi. Chi ci guarda dentro con attenzione, vede riflesso, oltre il proprio volto, le proprie domande, inquietudini e
piaceri. Ma si indovinano anche i sentimenti, le emozioni, i movimenti del
cuore comuni a orchi e coniglietti, mamme e streghe, scudieri e folletti, e
dunque anche al vicino di banco, alla sorellina e ai compagni dell‘oratorio.
I bambini capiscono tante cose nello specchio delle storie, soprattutto che
non sono i soli a provare invidia o felicità, questa o quella difficoltà, a farsi
certe domande. È una grande soddisfazione sentire un bambino dire, con
sollievo o fierezza, dopo aver ascoltato una storia: «Anch‘io!».
Come una conchiglia piena di echi, una storia risuona a
lungo. Il suo modo di operare è sorprendente, come quello
di un mago che estrae domande dalla testa dei piccoli come
colombe da un cilindro. Una storia è l‘arte di dire le verità più
profonde e apparentemente inesprimibili usando la finzione.
Di spiegare la vita a dei bambini reali con dei personaggi inventati. Una storia è come una conchiglia: la appoggiate
all‘orecchio, ed essa vi racconta l‘oceano.
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NARRATORI DI BIBBIA
PAROLE DA RACCONTARE
La situazione è drammatica. Il libro più pubblicato e più tradotto del mondo è
probabilmente il meno letto. È facile, oggi, nascere, vivere e morire senza averne letta neppure una riga. Ma la Bibbia è un libro che si legge con le orecchie.
«La Bibbia è un libro fatto di molti libri e in ciascuno di essi ci sono molte frasi,
e in ognuna di queste frasi ci sono molte stelle, ulivi, fontane, asinelli e alberi di
fico, campi di grano e pesci… e il vento, dappertutto il vento, il viola del vento
della sera, il rosa della brezza mattutina, il nero delle tempeste maestose. I libri
di oggi sono di carta. I libri di ieri erano di pelle. La Bibbia è l‘unico libro
d‘aria: un diluvio di inchiostro e di vento. Un libro insensato, scombinato, perso nelle sue pagine come il vento nei parcheggi dei supermercati, nei capelli
delle donne, negli occhi dei bambini. Un libro impossibile da tenere tra due
mani per una lettura corretta, calma, staccata: prenderebbe il volo subito, sparpaglierebbe la sabbia delle sue frasi tra le dita. Prendiamo il vento tra le mani
e presto ci arrestiamo, come per un improvviso amore» (Christian Bobin). Un
“libro d‘aria” è una bella definizione. La Bibbia è qualcosa da respirare e da
trasmettere come un soffio di vita. Proprio questo la rende particolare. La Bibbia
è il deposito di una Parola Viva che chiede di rimanere tale. Per questo non può
essere semplicemente letta.
Una lettura, anche fatta benissimo, è un‘altra cosa da un racconto offerto da
qualcuno. Il racconto narrato è necessariamente un po‘ più sviluppato del testo
letto. Vi si entra più facilmente. Esso dischiude un mondo che tende le braccia
all‘uditore, mentre il testo, conciso, rigoroso, con le sue linee fitte, mantiene
per molte persone le braccia conserte. Nell‘ascolto di un racconto, l‘immaginazione è subito messa in allarme. Allora sorgono paesaggi, rumori, odori,
personaggi che all‘improvviso diventano molto più vicini. Ci si può identificare
con loro, riconoscere nella loro storia qualcosa della nostra.
Il racconto scende profondamente in noi; senza che ne siamo coscienti,
“lavora” in noi, si anniderà in quelle zone male illuminate, sede delle nostre emozioni, paure, dei nostri desideri, di quanto sentiamo. Senza parere,
si insedia tranquillamente nella nostra memoria, gira nei paraggi del nostro
inconscio, si inscrive nel nostro corpo, nello spessore del nostro essere, abbandona un po‘ il piano delle idee o delle convinzioni in cui vegeta. Raggiungiamo qui una notevolissima intuizione della Bibbia: l‘invito a mangiare il testo come è scritto, per esempio, nel libro di Ezechiele o in
quello dell‘Apocalisse, perché ci nutra, corpo e anima.
Il Il narratore biblico dà una restituzione orale di un testo. Rimane
narratore vicino all'originale ma non restituisce il testo tale e quale. Ne
biblico dà un'interpretazione fedele e nel contempo personale: egli con-
divide il modo in cui ha accolto questo testo, il modo in cui esso
vibra in lui. Il suo racconto costituisce una testimonianza, certamente discreta ma reale. Il narratore impegna se stesso nel suo
racconto. Egli si azzarda a condividere con pudore qualcosa della
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sua intima ricerca di Dio. Raccontare rappresenta quindi per il narratore una
esperienza spirituale. Il narratore si ricollega in qualche modo all‘ispirazione
dell‘autore umano del libro biblico. Ispirazione non significa che le parole
sono state dettate da Dio, ma una parola umana che parla di Dio. L‘autore,
gli autori enunciano una verità che li sorpassa e che dice qualcosa di Dio.
C‘è una collaborazione effettiva tra Dio e l‘autore, gli autori.
Dal momento che questa parola è risuonata in un luogo, in un tempo, in
una storia ben determinata, oggi è importante fare un lavoro d‘attualizzazione e interpretazione per scoprire come parli ancora alla vita degli uomini e delle donne del XXI secolo. L‘autore umano è il primo uditore della
Parola, il primo che le risponde e che ne diventa “responsabile”. In questo
modo, è il testimone della Parola che è prima di tutto indirizzata a lui per
indirizzarsi a tutti e provocare una risposta.
Leggere La Bibbia non è stata scritta per i lettori del XXI secolo, ma esistono mila gliaia di studi storici, sociologici, religiosi, linguistici che ci permettono di
Bibbia capire e superare il fossato culturale, linguistico, politico tra l‘epoca della
redazione e il mondo di oggi. Per questo occorre un vero lavoro di lettura
e di interpretazione. In ogni caso, è necessario evitare due forme di lettura:
▪ Sacralizzare il testo. È ciò che porta al fondamentalismo: le parole sono
prese nel loro senso immediato con il rischio concreto che sembrino assurde
e incomprensibili. Non c‘è interpretazione né attualizzazione.
▪ Far parlare il testo al passato, come se la Bibbia fosse immobilizzata
una volta per tutte e fosse indispensabile ripeterla tale e quale.
Conoscere e comprendere i testi biblici richiede un lavoro di analisi,
possibilmente in gruppo con una persona che abbia la giusta esperienza
e gli studi necessari a sciogliere tutti i nodi che nascono dalla inevitabile
distanza che intercorre tra il mondo attuale e il mondo in cui la Bibbia è
stata raccontata e scritta.
La prima sensazione che si scopre è che le storie bibliche, pur vecchie
di migliaia d‘anni, non sono polverose, ma incredibilmente moderne. La
Bibbia tratta tutte le questioni fondamentali dell‘esistenza, non in maniera
teorica o filosofica ma raccontando una storia, delle storie. È proprio narrando storie di uomini, donne, popoli nella loro umanità, che il lettore,
per identificazione, si sente interpellato nella sua esistenza personale,
toccato nella sua vita, nella sua attualità. Ed è la Bibbia stessa a dircelo. In 2
Samuele 12,1-7, Dio mette bruscamente Davide di fronte alla sua colpa. E lo
fa con una semplice storia che si dimostra molto più efficace di
qualsiasi metodo più diretto o violento.
Ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore.
Il Signore mandò il profeta Natan a Davide, e Natan andò da
lui e gli disse: «Due uomini erano nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso
in gran numero, mentre il povero non aveva nulla, se non una
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sola pecorella piccina, che egli aveva comprato. Essa era vissuta e cresciuta
insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa
e dormendo sul suo seno. Era per lui come una figlia. Un viandante arrivò
dall’uomo ricco e questi, evitando di prendere dal suo bestiame minuto e
grosso quanto era da servire al viaggiatore che era venuto da lui, prese la
pecorella di quell’uomo povero e la servì all’uomo che era venuto da lui».
Davide si adirò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore,
chi ha fatto questo è degno di morte. Pagherà quattro volte il valore della
pecora, per aver fatto una tal cosa e non averla evitata». Allora Natan disse
a Davide: «Quell’uomo sei tu!».
Da ogni storia biblica spunta l‘indice del profeta che dice chiaramente al
lettore e soprattutto all‘ascoltatore: «Quell‘uomo sei tu!».
COSÌ NACQUE LA BIBBIA
I libri che formano la Bibbia non sono piovuti dal cielo.
Prima di essere parole scritte sono state la storia di un popolo dal destino straordinario. Conosciamo questa storia perché in molti l’hanno raccontata.
Raccontarla è il modo migliore per farla “rinascere” nella nostra storia, oggi.
La Bibbia non è una collezione di libri piovuti dal cielo. Sono esistite
certamente persone che, in una determinata epoca storica, in un determinato luogo, si sono chinate su un papiro od una pergamena, hanno estratto
gli strumenti per scrivere e lentamente hanno fissato le parole, i canti, i
racconti che sentivano intorno a loro. Oggi noi possiamo scoprire l'identità
di quelle persone, di quelle epoche storiche, di quei luoghi.
La Bibbia prima di essere una raccolta di libri è una storia. La storia di un popolo, di un gruppo umano che si muove nelle zone fertili del
Medio-Oriente in quella fascia chiamata «mezzaluna fertile» che dalla
Mesopotamia, la terra dei due fiumi (Eufrate e Tigri), forma lo stretto corridoio, a forma di mezzaluna, tra il deserto siro-arabico e il Mediterraneo, e
si estende in Egitto nella ricca vallata bagnata dalle acque del Nilo.
Poche regioni della terra hanno subito maggiori influssi umani,
nel bene come nel male, dei paesi della Bibbia. Su questo angolo
di terra, alla confluenza dell'Africa, dell'Asia e dell'Europa l'uomo
primitivo ha imparato i rudimenti dell'agricoltura (tra il 12000 e
l'8000 avanti Cristo) e ha addomesticato alcuni degli animali più
utili. Qui sono stati progettati i primi sistemi d'irrigazione e sono
state costruite le prime città 4000 anni avanti Cristo. È qui, in Mesopotamia ed Egitto, che si sono sviluppate le più antiche civiltà
del mondo e che le relazioni tra l'uomo, la cultura e l'ambiente
geografico sono state le più marcate e le più complesse.
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Le grandi culture idolatriche d'Egitto e della Mesopotamia riflettevano
strettamente l'ambiente fisico. La loro religione, come quella dei loro vicini
ittiti e cananei, era centrata sulla natura. Non avevano il concetto di un
Dio creatore, unico e onnipotente, ma spiegavano i capricci del clima, le
alluvioni, gli avvenimenti agricoli e la geografia del mondo circostante con
tutta una serie di dèi, a cui affidavano la fertilità del bestiame della terra.
Gli I grandi cambiamenti del clima, siccità ed inondazioni, provocavano spoHabiru stamenti di interi popoli, soprattutto di quelli non legati alle potenti città o
erranti alle terre coltivate e che si accampavano alle porte dei grandi insediamenti,
vivendo di piccolo commercio e di pastorizia. Questi erano gli “Habiru”
(tradotto alla lettera significa “attraversanti”) di cui faceva parte il clan
di Abramo; in esso matura, nel II millennio, una storia umana e spirituale
che si impone come fenomeno mondiale unico. Da Habiru deriva probabilmente il termine “Ebrei” i quali si rapportavano al Dio in modo solo
apparentemente simile a quello delle religioni della «mezzaluna fertile»,
comprendendo la sua assoluta superiorità alla natura e non limitato da essa
come pensavano i popoli circostanti. Inoltre questo Dio unico, che ha
«creato» tutto ciò che esiste, si interessa soprattutto degli uomini, tanto che
viene chiamato «il Dio di mio padre». Già in questa denominazione si
nota una distanza enorme dalle altre religioni del tempo.
I luoghi di incontro con Dio non sono le imponenti ziqqurat, i superbi
templi di Babilonia, vere montagne di pietra, né i levigati e preziosi santuari egiziani, o le statue tempestate di gemme, ma la storia umana di tutti
i giorni dove si realizza l'impegno dell'uomo e maturano i suoi progetti.
In questa storia Abramo capisce che il motivo del suo spostamento dalla
terra del Tigri e dell'Eufrate verso la regione di Canaan non è causato
dai disastri climatici o da altri fattori esterni, ma è voluto da Dio. Da questo momento tutto quello che avviene nella storia degli Ebrei è compreso come volere di Dio, che ha riservato a loro un compito speciale
nella storia dell'umanità.
Gli
schiavi
spezzano
le
catene
Il cuore o il centro esplosivo di questa storia è l'Esodo, liberazione dei seminomadi ebrei, discendenti di Abramo, costretti alla schiavitù e ai lavori
pubblici in Egitto. Nel secolo XIII a.C. questo piccolo popolo, immigrato
alcuni secoli prima per motivi economici in Egitto, riacquista la propria
autonomia e libertà sociale. Il «Dio dei padri» diventa «Il Signore che
ci ha fatti uscire dall'Egitto». La riconquista della libertà si conclude
nel Sinai, il deserto che divide l'Egitto dalla Palestina, nuova patria degli Ebrei, con un'alleanza a cui si impegnano
Dio, per bocca di Mosè, guida spirituale degli Ebrei, e tutto
il popolo. L'alleanza con Dio è stipulata sulle basi di un
contratto inciso su tavole di pietra e firmato con il sangue
degli animali sacrificati. Tutti questi avvenimenti vengono
ricordati prima di tutto nell'ambiente familiare. Ogni anno
si celebrano delle feste che ricordano le grandi tappe della
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storia e durante queste feste i padri spiegano ai figli il significato dei riti.
Sorgono anche dei santuari, dove i giovani imparano la storia del popolo
e vengono raccolte le tradizioni religiose e culturali che più tardi saranno
inserite nei libri biblici.
La prima sintesi della storia biblica, che dagli studiosi viene definita «jahvista», perché Dio è quasi sempre chiamato JHWH, è legata al
massimo splendore politico e culturale del popolo ebraico: il tempo dei
due re Davide e Salomone. Dopo la divisione del regno in due tronconi,
al nord, nei secoli IX-VIII a.C., sotto l'influenza del movimento profetico,
viene operata una nuova sintesi storica denominata «elohista» perché
Dio viene designato sempre con il nome «Elohim» (Signore). Nel secolo
VI a.C., il piccolo popolo ebraico, diviso ed inquieto, è ormai stretto nella
morsa dei potentissimi vicini Babilonesi ed Egiziani. Si aggrappa perciò
alla sua storia e alla sua religione, che viene raccolta in una nuova sintesi
che prende il nome di «deuteronomista», dal libro del Deuteronomio
che ne rappresenta lo spirito di riforma.
Nel 587 a.C. Gerusalemme, capitale e cuore del popolo ebraico, viene
distrutta. Capi e sacerdoti vengono massacrati o deportati in esilio dai Babilonesi. È una tragedia immane. Ma ancora una volta gli Ebrei vedono in
tutto questo la mano di Dio che li vuole purificare. È l‘epoca dei grandi
profeti: Isaia, Geremia ed Ezechiele, e delle guide spirituali che seguono
il popolo nei “campi profughi” della Mesopotamia. I discepoli dei profeti
raccolgono insieme gli insegnamenti dei loro maestri, che aiutano a dare
un senso alla storia di rovina e dispersione, e fanno maturare la speranza
di un nuovo futuro: un nuovo esodo e una nuova alleanza. I sacerdoti
del tempio, meditando su tutta la storia precedente, sentono di capirla
meglio e ritoccano le sintesi precedenti. Il ritorno dall'esilio e il fervore
della ricostruzione in terra di Palestina nei secoli VI-V a.C., segnano
la nascita della Bibbia come libro.
I
racconti
e le
tradizioni
diventano
un libro
Il materiale tradizionale precedente: appunti di cronisti, racconti, preghiere,
canzoni, resoconti dei discepoli dei profeti, leggi, viene rifuso in un‘opera storica che spiega le origini e fonda l‘identità spirituale del popolo. È adesso che
viene redatto il Pentateuco, che comprende i primi cinque libri della Bibbia.
Sono gli avvenimenti più antichi, ma solo ora sono capiti perfettamente. La storia raccontata diventa la biblioteca del popolo, dove è concentrato il suo
cammino passato che dà un senso al momento presente e sprona ad
inventare un futuro nuovo e diverso.
Quando nasce Gesù, la Bibbia, precisamente quasi tutta quella parte che noi chiamiamo Antico Testamento, è un libro letto
nelle sinagoghe, spiegato nelle scuole, la sorgente di tutta la fede
ebraica. Il pensiero di Gesù sull‘Antico Testamento è chiarissimo: «Non dovete pensare che io sia venuto ad abolire la
legge di Mosè e l‘insegnamento dei profeti. Io non sono venuto
per abolire, ma per dare loro il vero significato. Perché vi assicuro che fino a quando ci sarà il cielo e la terra, nemmeno la più
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piccola parola, anzi nemmeno una virgola, sarà abolita dalla legge di Dio: e
così fino a quando tutto sarà compiuto». «La Bibbia non può essere annullata».
«Vi dissi chiaramente che doveva accadere tutto quello che di me era stato scritto nella legge di Mosè, negli scritti dei profeti e nei salmi!». Gesù cita frequentemente l‘Antico Testamento. Sono parole dei salmi quelle che pronuncia
con fatica durante gli spasimi dell‘agonia sulla croce. Tutto l‘insegnamento di
Gesù è radicato profondamente nell‘Antico Testamento; egli sa di essere venuto
a portare a compimento tutte le promesse fatte da Dio. Ma il popolo ebraico,
che ormai sopravvive a stento sotto il giogo dei Romani non riconosce Gesù.
La “vecchia” Bibbia si fermerà qui, dove sboccia la nuova. Uno dei primi atti di Gesù, infatti, è di raccogliere e formare un piccolo gruppo di
discepoli, perché conservino e trasmettano i suoi insegnamenti. Come i
discepoli degli antichi profeti, i discepoli di Gesù misero per iscritto tutto
quello che avevano visto e sentito. Nacque così, lungo gli anni, una nuova
raccolta di scritti che furono aggiunti agli altri che Gesù aveva pienamente
accettato. Questa nuova raccolta è il Nuovo Testamento. Lentamente
racconti, tradizioni e parole sono state fissate per scritto.
UNA RISORSA ATTUALE PER LA FEDE
È necessario ridimensionare l'idea della Bibbia in quanto “libro” su cui agire,
da analizzare, studiare e interpretare. Forse a volte è bene rinunciare a pensarlo come “libro” e considerarlo invece come “tradizione” che continua a
essere viva ed efficace in mezzo a noi.
La Bibbia è una risorsa attuale per la fede, non una curiosità storica. Questo
significa collegare due elementi: l'idea che questi testi antichi incidono in modo
significativo sul presente, e l'esistenza di una comunità di fedeli che si estende
per molte generazioni. Affermare che la Bibbia è una risorsa attuale per la nostra
fede, la caratterizza immediatamente come un libro nella comunità e per la
comunità dei fedeli: le Scritture ebraiche per il popolo ebraico, e queste con gli
scritti del Nuovo Testamento per la Chiesa cristiana; solo queste comunità, colte
insieme, possono tessere il nesso tra i testi antichi e il presente. Non si tratta di un
giudizio esterno, ma di una decisione fondamentale sull'essenza della Bibbia, di
una dichiarazione confessionale mantenuta viva in una comunità confessante che con il suo stesso agire proclama il carattere distintivo di questo libro.
La Bibbia è un libro strano, una letteratura insolita che contiene
immagini oscure provenienti da culture estranee, molto diverse
dalla nostra. A qualcuno può apparire arcaica e primitiva e quindi
un puro oggetto di indagine storica. È ovvio che un serio studio
della Bibbia ha bisogno dei migliori strumenti di analisi storica e
letteraria, compresi strumenti archeologici e linguistici estremamente raffinati e specializzati. Ma la cosa più importante non
è recuperare qualche pezzo da museo, come si potrebbe fare
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con un antico documento egiziano estraneo alla comunità dei credenti.
L'obiettivo è piuttosto quello di entrare nelle confessioni e nelle tradizioni che ancora possono conferire energia alla Chiesa.
Tra La Bibbia va intesa tanto come una serie di domande poste alla Chiesa,
domande quanto come una serie di risposte. La Bibbia fornisce la rassicurazione ultima
e risposte sui problemi della storia e del destino dell'uomo; la risposta finale è che in Dio
coincidono la grazia che fa dono di sé e la sua incontestata sovranità. È
questa l'affermazione centrale della Bibbia, che è certamente una “risposta” agli
interrogativi più profondi della vita. E niente può sminuire questa verità.
Ma spesso si distorce la Bibbia considerandola come un libro di sole risposte, una “coperta di sicurezza”. Questo è particolarmente lampante quando
viene trattata come un amuleto portafortuna o una sacra reliquia su cui giurare.
Oppure quando si cerca nella Bibbia la soluzione dei dilemmi morali o un codice di buona condotta. Un approccio di questo tipo attribuisce alla Bibbia una
sorta di assolutezza statica che presume la fissità di ciò che è corretto. E lo stesso
accade quando si vuole fare della Bibbia la raccolta di una dottrina giusta che
deve solo essere “creduta” senza riconoscerne il carattere dinamico o storico.
Il risultato finale è quello di attribuire alla Bibbia una caratteristica assoluta e
immutabile (certamente estranea alla testimonianza che offre) che nega a Dio
la libertà e a noi la nostra responsabilità storica. La Bibbia non si occupa della
correttezza della moralità, della religiosità o della dottrina. Si occupa piuttosto
del rapporto fedele tra Dio e il popolo, tra tutti i membri della comunità di
Dio e tra la comunità di Dio e il mondo che egli ha creato. La caratteristica delle
certezze offerte dalla Bibbia non è mai quella della “risposta esatta” ma quella
di una memoria affidabile, di un'immagine dinamica, di un viaggio senza sosta,
di una voce fedele.
L'impulso principale della Bibbia è dunque quello di suscitare nuove
domande, di spingere all'esplorazione di nuove dimensioni di fedeltà, di nuovi
ambiti di fede. Tali domande servono come inviti a una fedeltà più audace e
più ricca. Esse fungono anche da critiche che mettono in evidenza le nostre
decisioni disinvolte, i nostri atteggiamenti senza fede, le illusioni con cui inganniamo noi stessi. Se la Bibbia fosse soltanto una risposta prestabilita, non riuscirebbe mai a raggiungerci. Invece è anche una domanda aperta che ci stimola,
ci esorta e ci invita. Per questo motivo la comunità dei credenti non è mai
totalmente a suo agio rispetto alla Bibbia e non finisce mai di esaurirne i
doni e di onorarne la pretesa.
La sostanza centrale della Bibbia non si basa su prove documentali ma sul coraggio e sull'assertività di testimoni che hanno
il coraggio di rendere testimonianza. E questa testimonianza assume i tratti di una confessione, non di una prova. La sostanza
centrale della Bibbia è il kerygma, ovvero l'annuncio; esso non
viene spiegato, dimostrato o provato ma soltanto proclamato
come roccia fondante della fede. Per questo insistiamo che la
Bibbia è il punto di partenza, e non il risultato finale, di un
ascolto illuminato dalla fede.
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Un
compagno
con cui
dialogare
La Bibbia non è un “oggetto” da studiare ma un compagno con cui dialogare. Per leggere la Bibbia dobbiamo abbandonare la modalità soggettooggetto con cui percepiamo le cose. È necessario ridimensionare l'idea della Bibbia in quanto “libro” su cui agire, da analizzare, studiare e interpretare.
Forse a volte è bene rinunciare a pensarlo come “libro” e considerarlo invece come “tradizione” che continua a essere viva ed efficace in mezzo a noi.
La posizione assunta qui è che la Bibbia non è un oggetto chiuso ma
un compagno di dialogo che ci prende sul serio. Possiamo analizzarlo, ma
dobbiamo anche ascoltarlo e aspettarci di essere interpellati da esso.
Lo ascoltiamo per cogliere quale identità esso ci dona, per interrogare il nostro atteggiamento presente e per riascoltare la promessa per il nostro futuro.
Una lente
per
interpretare
la vita
La Bibbia è una lente attraverso cui interpretare tutta la vita. Nessuna
esperienza si può leggere in sé, ma sempre attraverso una serie di altre esperienze e di punti di partenza. È importante essere consapevoli delle varie
lenti che possono condizionarci e che riflettono interessi e ideologie di parte,
stabilendo la forma di quello che vediamo.
La Bibbia è una lente speciale. È radicalmente diversa da ogni altro punto di vista. Rivendica una pretesa sulla nostra capacità di percezione, al suo
livello più essenziale. Mette in discussione ogni altro modo di guardare la
vita. Così, fondamentalmente, la Bibbia ci invita ad adottare un modo completamente diverso di conoscere, discernere e decidere. Chi prende sul serio
la Bibbia non cerca semplicemente in essa delle risposte, né impara a memoria una quantità enorme di versetti. Il lettore serio è quello che permette
alla propria coscienza di lasciarsi plasmare dall'intreccio di sovranità
e grazia presente nella Scrittura.
L’ESERCIZIO DELL’IMMAGINAZIONE
Gestita dall'immaginazione, la tradizione diventa una memoria viva che
esercita, come risorsa e come pretesa, una pressione continua sul presente.
La Bibbia è depositaria di una memoria e di una promessa peculiari, di una
identità e di una vocazione uniche.
Uno dei principali obiettivi della lettura e dello studio biblico è quello di
coinvolgerci nella storia dell'alleanza, mettendoci nella condizione di condividerne gli elementi e le sfumature affinché il nostro “ambiente vitale” sia il più conforme possibile a quello che viene
promesso nella Bibbia. Per ambiente vitale si intende quella
rete di simboli, parole, gesti e immagini che conferiscono significato e coerenza all'esperienza. Ogni esperienza, vissuta in ambienti vitali diversi, è caratterizzata da un diverso
coinvolgimento. Rispetto a un medesimo evento, un tedesco
e un italiano, per non parlare di un abitante della Tanzania,
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reagiscono in modo diverso in quanto hanno un vissuto completamente
differente. In tal senso diventa importante tenere presente lo scarto tra l'ambiente vitale della Bibbia e gli altri ambienti vitali.
Perché ciò avvenga è però necessario leggere la Bibbia come se noi ne
fossimo i protagonisti, il che non è scontato. A un primo impatto, infatti, ci
sentiamo estranei al suo linguaggio e alla sua mentalità, ai suoi assunti culturali
e storici. Di seguito cercheremo di illustrare il processo che ci permette di passare da un atteggiamento di estraneità a una lettura della Bibbia da protagonisti,
in modo da partecipare a quella storia di alleanza che ne costituisce il cuore.
La fede biblica spinge ad aderire a una storia. Una storia di ricordi che altri
non possono ricordare, una storia di promesse che altri non riescono nemmeno
a immaginare. Essa contribuisce a delineare un'identità e una vocazione che
altri non conoscono o non riescono ad assumere.
Dal momento che la Bibbia esce, in modo palese, dagli schemi, tutti noi
tendiamo a essere estranei al peculiare ambiente vitale che la caratterizza.
Diventa quindi importante occuparsi di quel processo che consente anche ai
più estranei di entrare a far parte del mondo biblico. Non è facile aderire
a una storia “altra” accogliendone le speranze, le memorie, la vocazione.
Ma questo è l'invito che ci viene dal Vangelo e da tutta la fede biblica. A noi
è offerta la possibilità di partecipare a quella storia. Se dobbiamo condividere, accogliere e prendere sul serio una storia che diverge dalla nostra in misura così drastica, si rendono necessari vari livelli di ri-apprendimento. Il
primo prevede l'esercizio dell'immaginazione. Il secondo esige la conoscenza di alcune note essenziali, anche banali, come le questioni cronologiche e
geografiche. Non tutte arricchiscono sul piano spirituale, ma sono indispensabili ai fini di percepire le peculiari sfumature di un episodio.
Per poter leggere la Bibbia con intelligenza è necessario possedere:
a) il senso della cronologia storica, in modo da comprendere i vari elementi negli effettivi rapporti reciproci;
b) la capacità di collocare i singoli episodi in tale cronologia;
c) una conoscenza della geografia della regione cananea e delle aree
limitrofe;
d) una comprensione dei rapporti internazionali e dell'interazione tra
Israele e le principali popolazioni della Mezzaluna Fertile;
e) un'infarinatura circa le più importanti crisi religioso-culturali attraversate da Israele, come per esempio il sincretismo, l'urbanizzazione, l'esilio, l'insediamento;
f) una minima percezione circa l'importanza delle istituzioni
come la monarchia, il diritto e il culto per Israele.
La
necessità
della
immaginazione
La conoscenza della cronologia e della geografia è indispensabile
per studiare la Bibbia con serietà, ma non basta a coinvolgerci in
essa. A mio parere, la chiave per entrare da protagonisti in questa
storia (cosa che presume le dimensioni di conoscenza sopra elencate), e dunque per partecipare alla comprensione della realtà nella prospettiva della storia dell'alleanza, consiste nell'alimentare
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l'immaginazione storica. Per immaginazione intendo un atteggiamento di
apertura e di sensibilità verso gli elementi di significato che possiamo individuare riflettendo sull'esperienza storica che la comunità preserva.
L'immaginazione in riferimento alla Bibbia si esercita soprattutto a partire
dalle immagini portanti della sua storia specifica: il faraone, ad esempio, diventa il riferimento simbolico di ogni forma di oppressione; il pane rappresenta
lo straordinario dono del nutrimento nel deserto... E nuove storie si aggregano
attorno a tali immagini, così che ogni evento di oppressione-liberazione ne richiama altri, come il miracolo che libera dalla morte per fame il popolo di
Israele. Ogni ambiente vitale ha un proprio repertorio di immagini, un
repertorio che è anche un serbatoio di risorse che danno energia, vita e orientamento. La capacità di stimolare l'immaginazione si contrappone naturalmente
al puro interesse per i “fatti” e per la “storia”, che porta a credere solo a quel che
è dimostrato e limita la fede a ciò che è empiricamente verificabile. Il parlare
per immagini è segno della vitalità che consente alla comunità dei credenti di
riconoscere la possibilità e la promessa di trovare novità e guarigione laddove
altri si accontentano di misurare, contare e analizzare.
I concetti di storico e di immaginario solo in apparenza vanno in direzioni
opposte. Ciò che è storico rimanda a esperienze precise, concrete, identificabili. Ciò che è legato all'immaginazione si dirige verso nuove e originali sovrapposizioni simboliche derivate dall'esperienza. La storicità conserva la concretezza e la particolarità dell'enunciato, che l'immaginazione sembra disperdere
in direzioni imprevedibili. Ma sono concetti dialettici in quanto devono essere
tenuti in tensione, correggendosi continuamente a vicenda. La storia senza
l'immaginazione rischia di essere arida e non coinvolgente. L'immaginazione senza la storia rischia di trasformarsi in fantasia indisciplinata.
È l'immaginazione a impedire al passato biblico di essere unidimensionale, tedioso e chiuso, nulla più che la noiosa messa in scena di un remoto
passato. Gestita dall'immaginazione, la tradizione diventa una memoria
viva che esercita, come risorsa e come pretesa, una pressione continua sul
presente. Come “risorsa”, perché permette di scoprire che le energie di
liberazione donate da Dio continuano a essere elargite alla stessa comunità
credente. Come “pretesa”, perché in tale tradizione discerniamo, in modi
sempre nuovi, il progetto a cui Dio ci chiama.
Il pane nel Prendiamo ora in esame un esempio dell'immaginario storico per illustrare
deserto come questa pratica possa aiutarci a capire la Bibbia e a lasciarci coinvolgere
nella fede, nella forza e nell'autorità che in essa sono attestate
Il testo di Es 16 racconta la storia di Israele condotto nel deserto e sfamato. È una storia molto antica, considerata da Israele
come una delle sue memorie più preziose. Possiamo ben credere
che nell'immaginario storico di Israele, cioè nella meditazione
creativa del suo passato, tale evento rivestisse un'enorme importanza. Tra l'uscita dalla schiavitù e l'ingresso nella terra buona e
sicura c'è la lunga e faticosa permanenza nel deserto.
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Il deserto, immagine biblica di grandissima importanza, è luogo di precarietà, dove non c'è cibo, né difesa né risorse. Al centro del racconto
c'è un'esperienza stupefacente per il fatto che, in questo luogo dove la
morte sembra una certezza, Dio si rende presente e condivide le condizioni del popolo. Dio si manifesta donando un cibo sorprendente, inatteso
e inspiegato. La Bibbia non cerca di spiegare, ma si limita a dar voce allo
stupore. Da questo evento il popolo deduce un aspetto focale del suo immaginario storico: il pane del deserto è il pane del cielo!
Questo pane si contrappone a quello della schiavitù, che offre sicurezza
ma non la vita né la libertà. Esso si contrappone anche a quello della terra
promessa, che sarà buono ma che ancora non si possiede. Questo pane si
contrappone alla morte per fame nel deserto, perché Israele, che teme la
morte, riesce grazie ad esso a sopravvivere. Da questo evento Israele impara
una cosa di cruciale importanza sul Signore: nel tempo della tribolazione Dio
è un rifugio sicuro (cfr. Sal 46,1), capace di realizzare cose inattese che danno vita proprio quando ciò sembra impossibile. Non solo. Il popolo impara
anche qualcosa sul deserto: per quanto esso appaia desolato e disperato, è
un luogo di nutrimento, perché lì c'è il Signore. Israele, infine, impara
una cosa anche sulla propria vita: la condizione di precaria dipendenza cui
è destinato l'uomo non trova ristoro nella sicurezza della schiavitù né banalmente dotandosi di panifici, ma restando alla presenza del Signore, persino
nel deserto, e nutrendosi grazie allo straordinario pane di Dio. Quell'evento
diventa così un prisma attraverso il quale, Israele prima e la Chiesa poi, interpretano l'esistenza.
Nel Nuovo Testamento il Vangelo di Marco riporta due episodi in cui
Gesù nutre la folla. In 6,30-44 egli dà da mangiare a cinquemila persone
e in 8,1-10 a quattromila. Naturalmente le azioni di Gesù sono descritte in
maniera particolare: ricordandole, la Chiesa legge tali racconti attraverso il prisma dell'episodio della manna, come sicuramente fece Gesù
stesso. È chiaro che essi riprendono l'antico racconto dove si parla di un
cibo che dà vita in un luogo di morte. La narrazione di Marco manifesta
un'inventiva consapevole nell'uso della storia. La sua presentazione è vivace, ma il suo immaginario è radicato in una precisa memoria storica. Ne
consegue che Gesù è presentato non come un semplice operatore di prodigi, né tanto meno come un produttore di pane, ma come colui che incarna
l'opera di Dio che trasforma il “deserto” (cf Mc 6,35; 8,4) in luogo di
nutrimento, il territorio dell'abbandono in uno spazio di amore
e di condivisione, il luogo della morte in un luogo di vita. Gesù,
in quanto potenza di Dio, trasforma le condizioni dei suoi. E la
Chiesa, ricordando e narrando questa storia, e meditando su di
essa, ne trae una conclusione di grande efficacia: noi siamo stretti
da un patto di alleanza con Colui che compie tutto questo. Così
è stato fin dai tempi dei nostri padri e delle nostre madri in Es 16,
e così avviene ogni volta che mangiamo alla sua presenza.
Nel riprendere tali episodi, noi siamo chiamati a viverli dal
di dentro, da credenti. Il “credente” non è necessariamente
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qualcuno che ha una particolare competenza o conoscenza tecnica, ma piuttosto
qualcuno che vive in una comunità che crede in quanto compie, e che da questa
comunità attinge la propria esistenza. Si lascia coinvolgere chi crede che queste
memorie parlino del suo passato e che queste promesse riguardino il suo futuro. Gli
estranei, per contro, non prendono in considerazione questi episodi con altrettanta
serietà, ma li considerano soltanto racconti interessanti, da prendere o lasciare come
meglio aggrada. Solo uno che si sente protagonista è in grado di operare un legame
con Es 16 capace di dare forma e forza alla narrazione di Marco.
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Dire DIO
narrandolo con la BIBBIA
2
Bruno Ferrero
QUATTRO PASSI PER DIVENTARE
NARRATORI DI BIBBIA
Perché sia veramente efficace questo lavoro deve essere fatto in gruppo.
PRIMO PASSO: STUDIARE UN RACCONTO BIBLICO
Per presentare bene un racconto biblico, lo studio del medesimo è fondamentale, è la prima tappa sulla quale si costruisce tutto il lavoro di narratori. In un primo tempo, occorre avere ben chiaro il significato che ciascuno
attribuisce alla Bibbia. È un libro sacro? Che cosa significa “testo ispirato”?
Che cosa rappresenta questo libro per me? Ho il diritto di “giocare” con il
testo? Quali sono i limiti della mia interpretazione personale?
L'obiettivo del narratore consiste nell'appropriarsi il testo biblico, nel trovarne il “messaggio”. Se questo testo ha attraversato i secoli, ha qualcosa
da dire a ognuno; ciò sarà messo in luce dalla discussione collettiva, dalla
condivisione delle riflessioni, dalle osservazioni, dai rifiuti, dalle domande.
Soprattutto, non dimentichiamo che lo studio biblico deve condurre all'appropriazione di questo testo, perché lo si possa raccontare. Ciò passa attraverso l'identificazione con i personaggi e con le situazioni nelle quali
si trovano. Nel racconto, l'identificazione svolge un ruolo fondamentale.
È il processo psicologico tramite il quale un individuo confonde ciò che
accade a un altro con ciò che accade a lui stesso. Così, ogni personaggio
diventa un essere concreto che suscita interesse. È il ponte tra il narratore
e l'ascoltatore. Il narratore non si identifica invece mai con Dio, né con
Gesù.
Considerare
la diversità
delle letture
e delle
traduzioni
La ricchezza dello studio biblico deriverà dal fatto che sarà un'attività
svolta in un gruppo formato da almeno tre persone. Il rispetto di questa
regola è fondamentale, perché scongiura il rischio di un'interpretazione unilaterale del testo. Potete radunare qualche amico sia perché vi aiuti a effettuare questo studio del testo biblico (se è possibile, ci si può rivolgere a un
teologo, a un sacerdote o a un pastore), sia, e questa sarebbe
la motivazione migliore, perché avete il progetto comune di
imparare a raccontare: avrete così lo stesso intento.
Il gruppo permetterà di scoprire i numerosi aspetti di uno
stesso testo. Insieme, si scoprono i luoghi del racconto, i personaggi, i loro reciproci coinvolgimenti, le situazioni, le ten-
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sioni, i conflitti, ecc. Lo studio dà la parola al testo e lo fa apparire nella sua
alterità. Non dà un solo messaggio, ma è polifonico. Interpella, interroga,
rimette in discussione la fede di ciascuno. Raccontare, infatti, non porta a
ricostruire un testo “finito”, ma fa sentire come risuona il testo in un dato
momento della vita del narratore. Così, uno stesso testo presentato da due
persone potrà dare luogo a due racconti molto diversi nella costruzione,
nell'ambiente, nel centro di gravità.
Per lo studio biblico, inoltre, ognuno deve avere una Bibbia! È interessante
che ognuno porti la sua Bibbia perché non tutti avranno la stessa traduzione (Traduzione della CEI, Traduzione interconfessionale in lingua corrente...). E se qualche componente del gruppo conosce il greco o l'ebraico,
tanto meglio. Le differenze tra le varie traduzioni permettono di scoprire le sottigliezze della lingua ebraica o greca, le sfumature a livello
di comprensione, perfino qualche contraddizione. Ognuno deve avere la
possibilità di leggere il testo da studiare, percorrerlo con il dito, poter fare
ricerche in altri passi della Bibbia...
Lo studio biblico approfondito si nutre del dialogo tra il testo e il gruppo e
permette l'interiorizzazione.
Seguire un ▪ Si comincia leggendo il testo scelto a voce alta. Non supponete
metodo mai che il testo sia ben conosciuto, anche se in certi casi è vero... È assemplice solutamente essenziale che effettuiate una lettura collettiva, all'inizio
del vostro lavoro. Inoltre, ognuno, seguendo sulla propria traduzione, coglierà le differenze tra le varie versioni, che spesso sono interessanti da
sottolineare.
▪ Occorre poi comprendere i termini difficili: quali sono le parole in cui
si incespica, quali i nomi difficili da pronunciare? Si cerca sul dizionario,
ci si scambia informazioni, si confrontano i modi di tradurre un passo o
un'espressione... L'idea qui non è quella di effettuare uno studio approfondito, ma di sgombrare il terreno dalle prime difficoltà che si possono
risolvere facilmente.
▪ Si giunge allora alle prime impressioni spontanee: che cosa mi
piace, che cosa non mi piace, che cosa rimane ostico, che cosa attira,
che cosa si pensa si debba trovare in questo racconto, qual è
l'apparente significato. Questa operazione può essere definita
proiettiva: permette al gruppo di esprimere le sue domande, il
suo stupore, le sue difficoltà di comprensione. È un momento
del tutto soggettivo.
È opportuno che duri un certo tempo. Queste prime impressioni dovranno poi essere “messe in fresco”, per continuare
a emergere alla fine dell'incontro, consentendo di valutare il
cammino percorso. Se l'incontro dura due ore, per questa fase
dovrebbero bastare cinque o dieci minuti.
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▪ Dopo le reazioni spontanee, bisogna studiare il testo con maggior rigore, passo passo, un versetto dopo l’altro. Vi proponiamo allora di
seguire le tappe di un percorso organizzato, in altri termini, di un metodo.
Nella maggior parte dei casi, ne seguiamo congiuntamente tre:
Il metodo storico-critico cerca di analizzare il contesto storico, politico,
sociale del racconto; perché e quando fu scritto? Si ritrovano i costumi
dell'epoca, la geografia dei luoghi, le motivazioni dei personaggi. Utilizzando questi dati nella presentazione del racconto, si potrà poi aiutare
l'ascoltatore ad avvicinarsi alla storia; i dettagli del racconto renderanno
più vero il medesimo, che funzionerà.
Il metodo strutturale studia le parole che esprimono i movimenti del testo,
la sua semantica, lo stile... Si potrà così discernere meglio il messaggio
tramite la terminologia impiegata, che esprime l'intenzione, il movimento... (per esempio, i verbi usati soltanto per esprimere l'idea della risurrezione hanno una portata semantica particolare). Questo metodo aiuta a
trovare gli agganci teologici del testo, la sua “struttura portante”.
Infine, il metodo narratologico studia l'intreccio: nocciolo, conclusione, ricerca, soggetto, eroi, persone che offrono il proprio appoggio, avversari... Si considera come si situa il narratore: ci rende complici
di certi fatti? Come si situano i personaggi gli uni rispetto agli altri? Ci
si rende conto che talvolta esistono più intrecci mescolati che si valorizzano reciprocamente. Mettere in luce il procedimento narrativo
dell’autore del testo biblico può aiutare nel modo di costruire il proprio
racconto, per valorizzare ciò che è importante. Concretamente accade
che si “mescolino” i diversi elementi / tappe / operazioni dei “metodi”
proposti; è normale, ed è un buon segno: il “metodo migliore” è quello
che si adatta all'originalità del testo studiato. Occorre capire bene che
grazie allo studio biblico il racconto acquisisce le profondità che ci interpella ancora oggi.
Dopo questo studio del testo biblico, giunge il momento di entrare nel
vivo dell’argomento, cioè di cominciare il lavoro di creazione di un “racconto biblico”. Occorre evitare due scogli: il primo consiste nel voler scrivere il proprio racconto e impararlo a memoria; il secondo nel rimanere
“incollati” al testo biblico, accontentandosi di una misera parafrasi senza
spessore, né significato; in questo caso, rimane preferibile una
buona lettura del testo biblico! La grande preoccupazione del
futuro narratore biblico è il vuoto di memoria. Niente panico.
Un narratore non avrà vuoti di memoria nella misura in cui
accetta di lasciare il mondo dello scritto per acquisire una
memoria visiva, applicando la tecnica della suddivisione del
testo biblico in quadri.
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SECONDO PASSO: SUDDIVIDERE IL TESTO BIBLICO
IN QUADRI
Riprendete il testo biblico il modo lineare, un versetto dopo l'altro, e
suddividetelo in scene, come per fissarne lo scenario o una proiezione di
diapositive in cui le immagini si susseguono una dopo l'altra. Si cambia
scena, immagine (di quadro) quando sopraggiunge un cambiamento nel
testo: personaggi, luoghi, situazioni, ambiente...
Un “quadro” può riguardare uno o più versetti. Per memorizzarlo,
dategli un titolo un po' convincente, mezzo mnemotecnico che permette, tramite associazione di idee, di visualizzarlo, viverlo, “vedere” tutto
ciò che contiene per non dimenticare nulla di essenziale: i personaggi,
i luoghi, le situazioni, come anche le piste di riflessione. Suddividere il
testo in quadri significa concretizzare la struttura portante del testo stesso,
ritrovarne l'anatomia essenziale, precisando i passaggi obbligati, i noccioli del testo e l'epilogo. La suddivisione in quadri tiene conto di tutti i
versetti, anche di quelli che impressionano o che non si comprendono.
Il numero di quadri è molto variabile a seconda del testo da studiare;
può passare da 4 a 12 o più. Ma attenzione: i quadri devono poter essere
memorizzati, per cui non moltiplicatene troppo il numero.
Disposte così l'una a fianco all'altra, le diverse suddivisioni faranno emergere qualche similitudine nella struttura del testo. Potete così osservare
che il bilanciere del testo, il nocciolo dell'intreccio, si situa praticamente
sempre nello stesso posto. I titoli dell'epilogo nelle varie serie di suddivisioni fanno emergere la preoccupazione del futuro narratore e quello che
sarà il suo messaggio, la risposta alla domanda: perché voglio raccontare questo testo?
È possibile effettuare questo lavoro di suddivisione da soli o in gruppo. Vi
atterrete a questa struttura portante per rivestirla con gli abiti del narratore. È la ringhiera che vi impedisce di tradire il testo biblico.
TERZO PASSO: VISUALIZZARE I PERSONAGGI
E LE SITUAZIONI
A forza di soffermarvi su questo testo biblico, siete ora certi di averne memorizzato i passaggi “obbligati”: i personaggi con i loro nomi, le
situazioni, i luoghi… A poco a poco, vi siete appropriati di questo testo e avete risolto le domande che poteva porvi. Non bisogna però dimenticare che una vera appropriazione passa per
l'identificazione con i personaggi e le situazioni. Per poter
raccontare, dovete ora “riascoltare” e “vedere” persone, luoghi e
situazioni. Osservate intorno a voi, cercate nei vostri ricordi per
tratteggiare i personaggi e descrivere i luoghi.
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Rivestire
i quadri
I quadri sono come l'impalcatura o lo scheletro del racconto. Ma bisogna rivestirli, dar loro consistenza, perché una storia vive, si muove,
non è una costruzione astratta.
Il narratore cerca di vedere nella sua fantasia i vari attori nei loro movimenti. Dà concretezza ai personaggi; non sono soltanto uomini, donne,
bambini: sono alti, magri, calvi, stanchi...; giocano, cantano, esercitano
un mestiere... Descrive i luoghi dove si svolgono gli avvenimenti: una
pianura, un ruscello rinfrescante, una strada a curve, un burrone scosceso... Ascolta i rumori, sente le conversazioni, percepisce gli odori. Così
fa nascere le immagini davanti ai suoi occhi e le dipinge agli ascoltatori:
ogni personaggio deve apparire come se il narratore lo conoscesse intimamente, i luoghi gli sembrano familiari, dà l’impressione d’aver partecipato agli avvenimenti, nulla gli sembra estraneo.
Lo scopo è di sviluppare, di rendere esplicito in un racconto ciò che
il testo contiene di implicito. Ci si può aiutare guardando fotografie,
sfogliando atlanti, riviste: i paesaggi non sono molto cambiati, le costruzioni, le piante, lo stile di vita delle popolazioni del deserto richiamano
il mondo della Bibbia. Più elementi si possiedono, più è facile scegliere
quelli che rendono vivo questo o quel racconto, distinguendolo da un
altro. Non bisogna dimenticare che gli ascoltatori devono vedere, capire, sentire il gusto dei cibi, provare la difficoltà di un cammino... I
particolari che si inseriscono in un racconto devono essere esatti. Non
servono soltanto ad abbellire il racconto, lo rendono comprensibile a un
pubblico lontano da quell'epoca e da quella cultura.
A proposito di Marco 2, ad esempio, ove si racconta del paralitico calato davanti a Gesù dal tetto, gli ascoltatori che non sono informati sull'architettura
di quell'epoca, forse penseranno spontaneamente alle case che conoscono,
in città o in campagna, e magari a un grattacielo di trenta piani. I bambini
saranno forse colpiti dal pensiero che qualcuno possa scoperchiare il tetto
della loro casa. Portati dalla loro fantasia, gli uni e gli altri avranno difficoltà
a seguire e a capire il racconto. Tuttavia, il racconto non è una lezione
scolastica. Si tratta di raccogliere impressioni, di imbeversi di un clima, di
penetrare nel complesso del testo, per sentire ciò che racconta e per capirlo.
La fantasia rischia talvolta di portare troppo lontano il narratore. Essa
deve intervenire soltanto per conferire all'insieme una forma viva, bella,
attraente, senza aggiunte artificiose, ma plausibili, conforme al contesto
culturale e teologico. È necessario uscire dall'ambiguità dell’espressione “ricamare attorno a un testo”. Nel linguaggio corrente significa adornare, abbellire. E talvolta la fantasia del narratore si mette a
galoppare, inventando particolari inesatti o attribuendo ai
personaggi sentimenti che falsano l'intenzione di un testo.
I primi ascoltatori o lettori non provavano le difficoltà che
incontra il pubblico moderno. In particolare, tutto lo sfondo
culturale era loro familiare, mentre oggi si può inciampare molto presto su particolari sconosciuti, che rischiano di
provocare controsensi o vicoli ciechi.
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Per evitare questi ostacoli è dunque necessario aggiungere alcune precisazioni. Ed eccoci di nuovo di fronte alla domanda fatta poco prima: il
narratore ha il diritto di usare nel racconto dei dati che non figurano nel
testo biblico? Si può fissare una regola simile a quella data prima: è lecito
aggiungere tutto ciò che facilita la comprensione del testo.
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QUARTO PASSO: CREARE E PRESENTARE
UN TESTO BIBLICO
Siete ora in condizione di creare un racconto per servire e offrire il testo
biblico. Siete ora soli e responsabili delle vostre parole. Vi lascerete allora coinvolgere nel testo e riempirete “silenzi”. Può allora cogliervi un
senso di vertigine! Non ne sarò mai capace, che responsabilità! Ne ho il
diritto? Se il lavoro biblico è stato approfondito, se vi sta dietro un gruppo,
non rischiate nulla di sacrilego. Sarete fedeli al testo biblico nella misura
in cui viene rispettata la “struttura portante” del medesimo, quando tutti i
quadri sono effettivamente presenti nel vostro racconto.
Scegliere Vi sono molti modi di utilizzare i quadri per elaborare il proprio racconto.
un tipo di È possibile raccontare seguendo l'ordine del testo biblico o un ordine
racconto diverso. La costruzione del racconto dipenderà dall'ispirazione del mo-
mento, dall'immaginazione, dal carattere del narratore, dal pubblico al
quale si rivolge. Qualunque sia la costruzione scelta, un “racconto biblico” non deve oltrepassare la durata di 20 minuti.
L
tras
Racconto Il racconto lineare è quello che rimane ricalcato sul racconto biblico
lineare nel suo svolgimento. Il primo quadro del racconto è il primo quadro del
racconto biblico, e la fine del racconto coincide con la fine del testo biblico.
I quadri
in un
ordine
diverso
È possibile cominciare il racconto dalla fine del testo biblico o da metà,
servendosi di flash-back: «ricordava allora l'epoca in cui…». La scelta
di questo tipo di racconto non deve portare a effettuare una cernita dei
quadri per scegliere solo quelli che rientrano nella logica del narratore.
Nel racconto devono trovare posto tutti i quadri, anche quelli che scandalizzano o disturbano.
L‘uso di un Il racconto pone domande che si tiene a integrare nella
personaggio storia raccontata. Si inventa allora un personaggio (plausibile)
testimone che svolgerà il ruolo dell'“ingenuo” e porrà domande svolgendo
il suo ruolo nella storia. I bambini sono adatti a svolgere questo
ruolo, ma attenzione a non cadere in uno stile “sciocchino”.
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La La trasposizione può essere effettuata spostandosi in un altro tempo,
trasposizione in un'altra cultura, in un altro paese o in un'altra epoca. Si può proce-
dere, per esempio, a un'attualizzazione del racconto. Occorre allora conservare la stessa struttura, lo stesso “canovaccio”, le stesse gerarchie tra i
personaggi, le stesse situazioni, gli stessi agganci. Le parabole si prestano
bene a questa costruzione.
Una storia
nella storia
Il testo biblico può indurci a pensare a un'altra storia. È allora possibile
raccontarle tutte e due, mescolate, facendo in modo che si valorizzino
reciprocamente. È un procedimento narrativo talvolta impiegato in certi
passi evangelici (per esempio, la figlia di Giairo e la donna che soffriva di
emorragia: Mc 5,21-43 o Lc 8,40-56).
La storiacornice
Talvolta si ritiene che il testo biblico sia troppo bello per cambiarlo, lo si vorrebbe citare tal quale (ad esempio certe parole di Gesù, le beatitudini, passi
molto poetici, testi molto ricchi dal punto di vista teologico…). Si costruisce
allora una storia immaginaria che avrà lo stesso pretesto del testo biblico e
che fungerà da “scrigno”, da “cornice” al testo biblico che verrà allora
citato tale e quale alla fine del racconto. È possibile leggerlo molto semplicemente nella Bibbia per evitare la recita a memoria, sempre pericolosa!
La
trasversalità
Se ci si è dati la regola di non mescolare diversi Vangeli o altri Libri, è invece possibile raccontare una parte consistente del Libro o del Vangelo, sorvolando su più episodi della vita di uno stesso personaggio o della
vita di Gesù. L'unità del racconto sarà allora costruita intorno a questo
personaggio, che potrà esserne il narratore.
Qualunque sia la costruzione che avete scelto, occorre prestare particolare cura all'inizio o “avvio” e alla fine, “conclusione”. L'avvio deve stimolare e svegliare la suspense. Dopo la conclusione, deve essere chiaro
dove avete voluto arrivare.
Rispettare le
regole del
racconto
orale
Per conferire fascino al vostro racconto, per renderlo vivo e autentico,
a questo punto occorre abbellirlo con gli ornamenti utilizzati dai narratori tradizionali, ma anche da tutte le persone che si servono della
comunicazione orale.
Se avete scelto di non presentare un racconto lineare, occorrerà memorizzare
la nuova successione dei quadri con il loro titolo e verificare che nessuno
manchi all'appello. Il titolo di ogni quadro farà sorgere in voi le immagini di
tutto ciò che lo costituisce: luoghi, paesaggi, personaggi che agiranno, parleranno, ecc. Siete in mezzo a tutto questo universo
e descrivete agli ascoltatori tutto ciò che vedete, tutto ciò che
vivete. È un lavoro che riguarda l'immaginario, le parole, il ritmo, ma anche il corpo, la voce, la forza di persuasione. Grazie a
tutte queste tecniche presto richiamate, condurrete gli ascoltatori
in viaggio; li inviterete a partecipare all'avvenimento che vivete
insieme a loro.
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I cinque Non dimenticate che avete cinque sensi (la vista, l'odorato, l'udito, il
sensi tatto e il gusto). Gli ascoltatori devono provare insieme con il narratore
tutte le sensazioni evocatrici di emozioni: avvertire odori, percepire
rumori, evocare impressioni tattili, vedere colori, cogliere sapori…
Il ritmo L'alternanza di movimenti rapidi (azioni) e lenti (descrizioni) consente
di non stancare gli ascoltatori. Per dare un ritmo al racconto, dovete
servirvi di silenzi, ritornelli e ridondanze.
I personaggi Dovete trattare tutti i personaggi con la stessa cura. Sono tutti impor-
tanti, non lasciatene cadere nessuno nel corso della storia. Non sono “del
tutto cattivi” o “del tutto buoni” come nei racconti fantastici. Sono uomini
e donne con le loro zone d'ombra e di luce.
Il narratore non mostra né giudizi, né preferenze. Gli ascoltatori potranno così identificarsi con l'uno o con l'altro senza sentirsi giudicati. Per consentire questa identificazione, è importante raccontare non alla prima
persona (“io”), ma alla terza (“egli” o “ella”). In caso contrario, gli ascoltatori dovranno compiere una doppia identificazione: quella che corrisponde
all'io del narratore e quella che passa attraverso l'“io” del personaggio.
Il narratore sa che, quando racconta, si espone agli sguardi degli altri,
e naturalmente susciterà reazioni (di commozione, turbamento, irritazione,
pianto, riso…). Dovrete rimanere imperturbabili e procedere fino alla fine
del racconto, qualunque cosa accada! D'altra parte, non dovete lasciarvi trasportare dalla vostra emozione. Fissate sempre un limite da non oltrepassare.
La Per fare in modo che gli ascoltatori si sentano perfettamente a loro agio,
posizione dovete esserlo anche voi. Prima di cominciare, concentratevi qualche
“regale” istante per ritrovare mentalmente le vostre immagini; sistematevi con i
piedi ben piantati a terra o state seduti, senza incrociare le gambe; comunicate l'impressione di sentirvi a vostro agio. Se rimanete in piedi
senza appoggiarvi a un tavolo, state attenti a non saltellare da un piede
all'altro, altrimenti al pubblico verrà il mal di mare! Prendete possesso
dello spazio e pensate a parlare a voce abbastanza alta da farvi sentire
nell'ultima fila. Tutti devono trovarsi sotto il vostro sguardo: nessuno dietro di voi!
IL LINGUAGGIO
Il linguaggio è il veicolo del racconto. Se non è adeguato, la
storia non sarà recepita, nonostante gli sforzi di preparazione e
di elaborazione.
Dev'essere capito da tutti gli uditori. Niente gergo, dunque, il
cui uso è limitato a qualche gruppo.
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Dev'essere semplice: evitare il più possibile le subordinate, per esempio.
Dev'essere bello, senza tuttavia cadere nella ricercatezza.
Le parole Non bisogna esitare a usare parole nuove. La storia raccontata permette
nuove di familiarizzarsi con esse, perché le inserisce in un'azione in cui esse
e difficili svolgono un ruolo. E questo è meglio di una spiegazione astratta, che non
si può mai rivolgere nello stesso modo a tutti gli ascoltatori.
Ecco come si può procedere. In un racconto, usare anzitutto la parola
in questione come se non presentasse difficoltà. Poi darle un contenuto
raccontando, finché si abbia l'impressione che chi ascolta ha compreso
la parola e non si distrae dal racconto a causa della novità del termine.
I sinonimi Diffidare dei sinonimi. Talvolta sono utili, ma bisogna verificare se cor-
rispondono realmente al significato della parola sostituita e se non sono
ugualmente sconosciuti, il che aumenterebbe la difficoltà. Un esempio:
si parla di Abramo e del suo “clan”. Questa parola compare per la prima
volta, e ha bisogno di una spiegazione. Se la si sostituisce con “famiglia”, chi ascolta penserà alla propria famiglia, e questo non faciliterà la
comprensione massimale, che include tutti gli aspetti delle avventure del
patriarca. Se si preferisce “tribù”, ci si avvicina al significato mediorientale, ma si rischia di provocare rappresentazioni errate, dovute ai western
e altri film di Indiani.
Ecco una proposta. Abramo si sposta da un luogo all'altro alla ricerca di
pascoli per i suoi greggi. Tutto il clan si sposta con lui. In testa camminano i servi, uomini forti che scrutano l'orizzonte e segnalano il più piccolo
pericolo. Altri chiudono la marcia. I pastori fanno avanzare i greggi, sorvegliando le pecore e i capri, e portando gli agnelli neonati, troppo deboli
per camminare. Le serve sono incaricate dei bagagli dei loro padroni: a
dorso d'asino, ma spesso anche sulle loro spalle o sulla testa, trasportano
quanto è necessario alla vita e al sostentamento quotidiano. Le ragazze
sono addette soprattutto al servizio di Sara, la moglie di Abramo. I bambini corrono in tutti i sensi: alcuni si rendono utili sorvegliando i più piccoli o dando una mano a destra e a sinistra. Era un corteo interminabile,
perché al clan di Abramo si era unito Lot, suo nipote, con la sua famiglia,
i suoi greggi e tutti coloro che lavoravano per lui.
Questa rievocazione concreta permette a chi ascolta di associare la parola
“clan” alle nozioni di numero e di diversità, le sue due caratteristiche.
E il bambino che cresce solo con sua madre in due stanze all'ottavo piano di
un grattacielo potrà superare la propria realtà per seguire Abramo che cammina nel deserto.
Le parole Come fare con le nozioni astratte: amore, libertà, ecc.? Si
astratte può affrontarle mediante un'attività pedagogica: un gioco,
una lettura di immagine... prima della narrazione. Questo è
possibile soltanto con un pubblico che si incontra regolarmente. Se la narrazione si colloca al di fuori di un cammino
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globale, bisognerà procedere diversamente. «La libertà è quando...»: questo inizio conduce direttamente a una definizione astratta. Anche abbellendola con esempi, si resta sempre nel ragionamento e nell'apprendimento
teorico. Per la nozione di cui si parla, è meglio cercare di inventare una
storia che si inserisce nel racconto, una “storia nella storia”, in qualche modo.
Si può descrivere, per esempio, la vita di una famiglia di agricoltori in
Palestina in un giorno ordinario: tutti lavorano, gli uni nei campi, gli altri
con i greggi, altri ancora nel vigneto. Il padre di famiglia il mattino distribuisce il lavoro, assegnando a ciascuno il compito della giornata. Solo il
figlio più giovane se ne sta seduto all'ombra del fico, accanto alla casa,
e non vuole fare nulla. La sera, dopo cena, parla al padre e gli annuncia
il suo desiderio di partire, e ne spiega il motivo: vuole essere libero. Per
precisare che cosa significa ciò per quel giovane, e forse per i ragazzi che
ci ascoltano, non bisogna essere avari di particolari: non dover più obbedire, scegliere chi si vuole frequentare, quando lavorare, non sopportare
più il cattivo umore degli altri, non dover rendere conto... in breve, fare
ciò che si vuole. Non si esiti a ripetere le lamentele del figlio e a illustrarle
con esempi concreti: “raccontare” la libertà come la intende lui. Così
per il bambino non sarà una nozione filosofica lontana, ma una realtà che
incide sulla vita quotidiana.
Estranea, generica o semplicemente nuova nel vocabolario degli ascoltatori, ognuna di queste parole diventa una breve storia che si inserisce
nell'insieme del racconto, come una tessera senza la quale il mosaico
non sarebbe più quello.
Meglio Di queste due formulazioni dello stesso contenuto, quale vi sembra preil discorso feribile?
diretto
▪ Mosè, dopo essere stato chiamato da Dio presso il monte Sinai, ritorna
in Egitto. Là, quello che vede lo spaventa: era molto peggio di quanto
avesse immaginato. Il suo popolo era costretto a compiere lavori sempre più pesanti, la loro vita era quella di schiavi disprezzati e sfruttati.
Egli è convinto che così non può continuare e risolve di recarsi dal
Faraone per chiedergli di liberare gli Ebrei. Invita suo fratello Aronne
ad accompagnarlo.
▪ «Mosè, Mosè! Ascoltami. Ho visto la miseria del mio popolo, ho sentito il suo grido. Va' dal Faraone e libera i tuoi
fratelli. Conducili fuori da quella terra di schiavitù».
Così Dio ha chiamato Mosè presso il monte Sinai. Mosè
parte. Appena entra in Egitto, resta costernato: «È spaventoso – grida – così non può durare!».
Si reca da suo fratello Aronne: «Accompagnami, bisogna
parlare al Faraone. Aiutami a convincerlo».
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Il discorso diretto rende più viva la seconda, quindi più gradevole da
ascoltare e più facile da assimilare.
Le proposizioni subordinate, frequenti nel discorso indiretto, allungano
e appesantiscono le frasi e provocano monotonia. Tutti i dialoghi, ma
anche il pensiero dei personaggi si possono esprimere in discorso
diretto. La loro costruzione e il tono di voce con cui sono pronunciati
sono sufficienti per distinguere i diversi interlocutori. Non è indispensabile
introdurre tutte le frasi con «Egli dice», o «Gridò»... Tuttavia queste locuzioni verbali, usate opportunamente e accompagnate da espressioni, come
il volto triste o rosso di collera, provocano una scossa nel racconto e aiutano l'ascoltatore a rappresentarsi una scena di dialogo di per sé non visibile.
Il tempo
dei verbi
I narratori di professione sono categorici: il tempo della narrazione è il
presente. Esso avvicina gli ascoltatori agli avvenimenti raccontati e rende
la narrazione più leggera e più viva. Inoltre la correlazione dei tempi al
passato non è facile e certe forme verbali assumono spesso risonanze
insolite e non sempre gradite all'orecchio.
Alcuni, tuttavia, sono convinti che bisogna differenziare i tempi: una narrazione situata nel passato esige il tempo passato. In italiano, le azioni
puntuali si esprimono al passato prossimo, le descrizioni e la durata al
passato remoto. Il presente è riservato a quanto è simultaneo agli avvenimenti riferiti. Questioni scolastiche, problema di fondo o di forma? Come
per i racconti profani, il presente narrativo sembra il tempo più adatto
per le narrazioni bibliche. Ma non bisogna imporre norme rigide e lasciare che ognuno si esprima liberamente a modo suo.
APPLICHIAMO QUESTO METODO AD UN BRANO
DEL NUOVO TESTAMENTO: GESÙ A NAZARET (Lc 4,14-30)
Questo passo è tratto dal Vangelo di Luca, medico greco, che scriveva più
per i “pagani” che per gli Ebrei.
Passando in mezzo a una folla inferocita, Gesù se ne va. E tuttavia ciò che aveva annunciato aveva entusiasmato i presenti: aveva parlato di libertà, giustizia,
chiarezza per il futuro. Ma, concretamente, tutti gli avvenimenti che avranno
luogo si scatenano a causa del posto accordato allo straniero. Sta per manifestarsi una tempesta. La decisione della folla si gioca relativamente a Gesù: credere in lui come si accorda fiducia al medico,
o al profeta, o ad altri ancora?
Luca redasse il suo Vangelo circa 40 anni dopo la morte di Gesù.
In questo passo raccolse tutti gli elementi che caratterizzano il
suo Vangelo. Occorre sapere che qui l’autore non traccia una
biografia di Gesù, ma scrive un “vangelo”, cioè una “buona
notizia” per tutti. Il progetto è definito in Lc 1,1-4.
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Per un aiuto A questo punto avete assimilato perfettamente il modo di studiare il testo
nello studio biblico, in un gruppo vivo e dinamico, in cui ognuno si sente autorizzato
del testo a intervenire in qualunque momento in uno spirito di rispetto reciproco.
biblico
Ognuno porta così il proprio mattone per costruire l'edificio della comprensione del testo. Lanciatevi con fiducia!
Comprendere i contesti del racconto di Luca
Per conoscere meglio i luoghi, i costumi o le abitudini religiose di questa
storia, seguono alcuni complementi che vi aiuteranno nel vostro studio.
Il contesto letterario
Luca è un eccellente narratore, che ha l'abitudine di guidare i suoi lettori.
Colloca dunque, sia all'inizio, sia in conclusione, segnali che danno al
lettore la possibilità di non perdersi nella lettura. Questi “segnali” sono
quelli che si definiscono “sommari”. Così, in Lc 4,14-15, l'autore fornisce
informazioni importanti su Gesù dopo la tentazione nel deserto:
«Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo.
E la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe.
E tutti ne facevano grandi lodi».
Potete confrontare questo passo con altri sommari pure collocati nel Vangelo di Luca: Lc 5,15-16; Lc 8,1-3; Lc 9,51-56.
Il contesto geografico
Il passo che vi proponiamo qui è caratterizzato da unità di luogo. Tutto
accade a Nazaret, un piccolo villaggio della Galilea; è qui che l'angelo
annuncia a Maria che ella concepirà un bambino; qui Giuseppe lavora
come carpentiere. Gesù è nato a Betlemme (paese della casa di Davide),
dove i suoi genitori si erano recati per il censimento, ma, dopo la fuga in
Egitto, Giuseppe torna a Nazaret. Gesù è chiamato Nazareno (Mt 2,23; At
2,22...) o Gesù di Nazaret (Gv 1,45; Mc 1,24).
Solo al versetto 31 si avrà un cambiamento di luogo: Gesù discende a Cafarnao, e questo introduce una nuova azione.
Il contesto religioso
Nella sinagoga, il servizio aveva luogo di sabato e nei giorni di
festa. Si cominciava con la recita della professione di fede chiamata “Sema” (Dt 6,4-9), seguita da preghiere e dalla lettura tratta
dalla Torah (i cinque primi libri della Bibbia, chiamati in greco
“Pentateuco”). I Profeti e gli altri scritti della Bibbia erano letti
come commenti. I fedeli più istruiti si alzavano per effettuare
il commento. Il testo di Isaia letto da Gesù si trova in Is 61,1.
Osservate che l'autore non cita integralmente il versetto 2 e
omette (volutamente o no?) il riferimento alla vendetta di Dio.
L'anno di grazia fa riferimento al “giubileo”: ogni 50 anni, si
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riparte da zero. I debiti sono condonati, gli schiavi sono liberati, ognuno
recupera il suo patrimonio. Non si sa se questa legge sia stata veramente
applicata o se sia rimasta un'utopia.
Studiate la costruzione del testo e il contenuto dei versetti. Lo studio della
costruzione del testo e del contenuto dei versetti di questo testo di Luca
rivela diverse dimensioni di Gesù.
Gesù si
identifica
con la
Parola
A proposito della lettura di Gesù: l'autore non ci dice nulla sul testo contenuto nella Torah e non ci comunica se Gesù abbia letto un testo previsto (lettura del giorno!) o se sia stato lui a scegliere.
Come l'ha trovato? Ha cercato un testo che voleva leggere? Legge il testo
di Isaia o recita a memoria? Constatiamo che Gesù va al di là di una
semplice appropriazione del testo: si identifica con la Parola che
proclama (identificazione con la prima persona del testo di Isaia), e questa
parola annuncia l'azione liberatrice di Gesù. Egli è l'Unto (= Messia) che:
▪ annuncia la Buona Notizia,
▪ proclama ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista,
▪ rimette in libertà gli oppressi,
▪ predica un anno di grazia.
Considerate i verbi che caratterizzano Gesù dopo il suo ingresso nella sinagoga:
v. 17: alzarsi, dare, aprire, trovare; v. 20: arrotolare, consegnare, sedersi.
L'oggi della Oggi (vv. 21-22): questi due versetti sono molto densi. Guardateli in mopresenza di vimento. Gesù comincia a parlare per annunciare l'oggi del compimento
Gesù della Scrittura. Nel momento stesso in cui parla, il programma “virtuale”
della profezia di Isaia si compie nell'oggi della presenza di Gesù.
La parola oggi è importante per Luca? Cercatela:
▪ Lc 2,11: nascita di Gesù: «oggi vi è nato... un salvatore»;
▪ Lc 5,26: perdono dei peccati: «oggi abbiamo visto cose prodigiose»;
▪ Lc 19,9: Zaccheo: «oggi la salvezza è entrata in questa casa»;
▪ Lc 23,43: sulla croce: «oggi sarai con me nel paradiso».
Per Luca, la salvezza (liberazione) si compie oggi, non ieri, né domani.
Nessun
profeta
è bene
accolto in
patria
Il versetto 23 di questo passo riecheggia un detto: «Nessuno è profeta in patria». Per illustrare queste parole, Gesù rievoca un episodio della vita di Elia che
fu accolto per tre giorni da una vedova straniera fuori del paese (a Sarepta) e di
Eliseo che ha risanato Naaman, il Siro, nel paese (2 Re 5).
Luca suggerisce che Gesù sia più che un medico: è anche profeta a immagine di Elia e di Eliseo, i quali hanno pure guarito.
Gesù, un
medico che
inaugura il
Regno di
Dio
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Le malattie, all'epoca, erano viste come la conseguenza di
un’influenza da parte dei demoni o di Satana, che opprimevano gli esseri umani. È un'epoca in cui si svolgono numerosi
culti, celebrazioni di guarigioni, rituali a cui veniva sottoposto
l'ammalato.
La guarigione può essere opera di un taumaturgo, di un guari-
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tore, perfino di un sacerdote (per esempio, nella piscina di Siloe). Nel Vangelo di Luca, la lotta contro le malattie fa parte di un combattimento
che Gesù sostiene contro tutte le forze che schiacciano l'essere umano
(non dimenticate che Luca è un medico).
Gesù è medico, ma dopo aver proclamato e inaugurato (oggi) il Regno di
Dio. L'espressione «medico, cura te stesso!» riecheggia nel racconto della Passione (Lc 23,35 e Lc 23,37).
L'annuncio Il ciglio del monte (vv. 28-30): la collera delle persone riunite in questo giorno
di una di sabato è grande; è un genere di collera che provoca violenza... Le persone
tragedia infatti si alzano, escono dalla città per precipitare Gesù giù dal monte.
Il v. 29 ci porta fuori della città: è il luogo in cui si lapidavano le
persone. Osservate qui il procedimento letterario di Luca per esprimere il
desiderio di uccidere quest'uomo e annunciare così che la missione intrapresa è una tragedia.
Gesù,
rifiutato, che
accoglie gli
esclusi,
messaggero
universale
Perché la collera dei presenti? Perché questo cambiamento, dallo stupore pieno di ammirazione alla violenza del rifiuto? Potete immaginare due
ipotesi: la prima è che il popolo, che si considera erede della promessa,
manifesti gelosia perché Gesù accorda più attenzione agli stranieri!
La seconda ipotesi può essere che Gesù si identifichi con la Parola di Dio
facendo proprie le parole di Isaia. Così facendo, agli occhi della folla è
blasfemo...
Troviamo in questo passo la prefigurazione dei tre elementi che ritroveremo nel corso di tutto il Vangelo di Luca:
▪ Gesù è rifiutato dal suo popolo. Colui che centra la sua azione sugli
esclusi sarà a sua volta escluso.
▪ Vedove e lebbrosi sono due categorie di esclusi e di poveri che beneficiano della qualità dell’accoglienza di Gesù.
▪ L'universalità del messaggio di Gesù: egli è venuto per tutti (Luca è anche
l'autore degli Atti degli Apostoli, in cui si racconta come la Buona Notizia valichi le frontiere); all'interno e all'esterno del paese, vi è l'annuncio dell'universalità del messaggio dell'oggi della salvezza, caro a Luca.
In questo passo affiorano allusioni alla passione del Messia per sfociare al
rifiuto, fuori della città. Bisogna osservare il contrasto tra la collera espressa
dalla folla (i verbi impiegati per esprimere l'azione di precipitare Gesù) e la
calma di Gesù che passa in mezzo a loro e se ne va. È già un
annuncio della risurrezione, un Gesù che è già altrove.
Individuare Come vi abbiamo detto spesso, la ricerca degli agganci del testo, di
gli agganci ciò che il testo stesso ci dice oggi, può arricchirsi a ogni incontro
teologici di nuove scoperte. Ne sarete sorpresi! Ne presentiamo alcuni.
del testo
▪ La missione di Gesù
Questo passo è un condensato del “programma” di tutta la storia di
Gesù che sarà sviluppato nel corso dell'intero Vangelo di Luca.
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▪ L’identità di Gesù
Compare come l'Unto = Messia, figlio di Giuseppe, medico, profeta, rifiutato.
▪ Le reazioni di fronte al messaggio di Gesù
Sono tanto lontane da quelle che possiamo vedere oggi intorno a noi?
Suddividere Vi proponiamo qui una suddivisione che può essere letta in due modi posil testo sibili: nel primo, le varie sequenze sono definite dagli inviti di Gesù; nel
biblico in secondo, i nomi dati a Gesù spiegano il tema della sua identità.
quadri
Nomi di Gesù
Versetti
Inviti di Gesù
Quadri
Unto=Messia
1
16-20
Gesù legge il passo di Isaia
figlio di Giuseppe
2
21-22
cominciò a dire
medico
rispose
3
23
profeta
4
24-27
aggiunse
5
28-30
collera dei presen- rifiutato
ti in Sinagoga
“Vestire” Ricordate che la suddivisione in quadri rappresenta la struttura pori quadri tante del testo biblico a cui bisogna rimanere aderenti per non deviare dal
significato.
Non Come abbiamo già detto, quando presentate il racconto, siete liberi di
identificarsi disporre questi quadri in un altro ordine. In ogni quadro metterete più
con Gesù dettagli di quanti ne siano presentati dal testo biblico; colmate vuoti, in-
ventate personaggi plausibili, nella misura in cui l'“anatomia essenziale”
è rispettata.
Quando presenterete questo testo, incontrerete una difficoltà importante:
non dovete identificarvi con Gesù. Non potete esprimere i suoi sentimenti o i suoi stati d'animo, o magari le parole che pensa, al di là di ciò che
ci dicono gli evangelisti. Gesù si trova a essere raccontato dalle testimonianze indirette di quelli che erano presenti, in qualche modo dalla
sua ombra riportata. Quando Giovanni esclama: Gesù scoppiò in pianto
(Gv 11,35), presentando un racconto voi non potete dire altro che: «Gesù
piange», senza aggiungere alcun dettaglio immaginario sulle manifestazioni psicologiche di questa situazione. Queste osservazioni sono importanti
sul piano teologico, perché nessuno può identificarsi con
Gesù, più di quanto lo si possa fare con Dio. D'altro canto,
quando avrete a che fare con racconti del Nuovo Testamento
in cui Gesù è in azione, dovrete rapportarvi a lui. Lo sentite
più come Figlio di Dio o come fratello, compagno di strada,
amico, confidente...? Il vostro racconto deve tenere presente
ciò che vi caratterizza a questo riguardo; non cercate di far
credere ciò che non sentite.
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Visualizzare Per raccontare questo passo, dovrete visualizzare tutti i quadri; vi propola collera niamo alcune indicazioni per “vestire” l'ultimo quadro: la collera della folla.
della folla In questo quadro, Gesù non parla. Dov'è? Cercate di descrivere i movimen-
ti che avvengono intorno a lui. Guardate la scena: è in piedi davanti a loro,
tutti si alzano e afferrano. Gesù oppone resistenza? Il testo non dice nulla
al riguardo...
Guardate la folla riunita fin dalla sua uscita dalla sinagoga.
Ci sono uomini, donne? Bambini? Giovani, anziani? Sono insieme o separati? È una folla variopinta (a quel tempo, gli uomini e le donne erano separati, solo i bambini che avevano più di 12 anni erano ammessi in sinagoga). Gli abiti avevano il colore della lana (nei toni del marrone, dal chiaro
allo scuro); solo i ricchi e i farisei potevano permettersi sostanze coloranti
(blu, gialle, rosse e loro mescolanze) o abiti di lino.
Immaginate i sentimenti (si veda il gioco sulla percezione dei sentimenti): avete avvertito una progressione che va da attestazioni favorevoli nei
confronti di Gesù fino al rifiuto, passando per la perplessità e lo stupore.
Pensate che tutta la folla fosse unanime?
Immaginate i movimenti: la folla esce dalla sinagoga, si leva e afferra
Gesù; getta Gesù fuori della città; lo conduce fino a un precipizio per precipitarlo giù. Gesù passa in mezzo a loro e se ne va. A che cosa vi fa pensare
questo?
Cercate termini precisi. Ciò che si può percepire:
▪ i passi delle persone sul terreno (smorzati, sonori...),
▪ le parole scambiate (bisbigliate...),
▪ i diversi rumori (una porta che cigola, un oggetto che cade...),
▪ i suoni nell'edificio (eco...),
▪ i rumori provocati dall’uomo (colpi di tosse, richiami all'ordine...),
▪ il silenzio percepibile prima della cerimonia,
▪ le parole della lettura, i mormorii di risposta, il vociferare, le grida (cercare parole precise),
▪ l'uscita della folla.
Ciò che si può vedere:
▪ il pubblico nella sinagoga (gli abiti, a seconda che si tratti di
uomini, donne, bambini, giovani, anziani...),
▪ l'edificio (colore dei muri, tracce di umidità, di aridità, crepe,
macchie...),
▪ la luce nell'edificio.
A questo punto può incominciare il racconto.
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CONDIVIDERE UNA NARRAZIONE BIBLICA
Perché lo studio di un testo e l'elaborazione di un racconto portino a un momento di vera condivisione tra la persona che racconta e quella che ascolta,
bisogna creare condizioni favorevoli.
La voce È lo strumento principale del narratore. Bisogna adattarla al locale in cui si
trova e al gruppo al quale ci si rivolge. Tutti devono sentire il narratore senza
dover tendere l'orecchio: uno sforzo troppo prolungato impedisce all'ascoltatore di concentrarsi sul contenuto.
È bene esercitarsi chiedendo ad alcune persone di collocarsi in punti diversi
della sala e di fare poi le loro osservazioni. Il narratore deve mantenere la sua
voce naturale. Ovviamente, può cambiare intonazione secondo i passi,
e di registro in funzione dei personaggi del racconto – più chiaro se riporta
la frase di un fanciullo, più grave se si tratta di un vecchio – ma eviterà di
prendere una voce artificiale che non corrisponde né alla sua personalità, né
al contenuto del racconto.
È importante parlare lentamente: le parole che escono dalla bocca del narratore devono essere non solo sentite, ma anche capite, assimilate, e
tutto ciò richiede tempo. Anche per questo, in un primo tempo è bene farsi
correggere.
Atteggiamento Una prima regola: non camminare. Per un pubblico è impossibile stabilire
un contatto con un narratore che si sposta in continuazione. Anche se gli
ascoltatori non lo fissano sempre, hanno bisogno di poterlo situare come un
punto stabile.
Ogni narratore deve cercare l’atteggiamento più adatto per lui e che
gli permette di concentrarsi su quello che dice. Trovato tale atteggiamento,
è bene mantenerlo per tutta la durata della narrazione. In piedi, seduto, per
terra... dipende anche dalle circostanze in cui si racconta. Come norma generale, conviene mettersi allo stesso livello degli ascoltatori. Una narrazione non si fa cadere dall'alto.
I gesti La narrazione non è un mimo o un teatro. Certo, al momento opportuno
alzare un braccio, scrollare le spalle o scuotere la testa sottolinea le parole.
Ma i gesti troppo accentuati e troppo numerosi fanno concorrenza alle
parole e spezzano il ritmo della narrazione.
L'uso di Quanto abbiamo detto per i gesti vale anche per gli oggetti:
accessori possono disturbare come possono aiutare.
Una canna da pesca appoggiata al muro, una brocca messa al
fianco della persona che racconta, una pietra o un pane nella
sua mano apparentemente non dicono nulla. Ma le frasi del
racconto li richiamano e conferiscono loro un ruolo, e al momento giusto, invitati da un gesto discreto, tutti gli sguardi convergeranno verso di essi. Questo può dar rilievo al racconto.
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Dire Tutti i tecnici dell'arte narrativa sono concordi: non si legge un racconto,
o leggere sia biblico che profano. Il racconto deve fluire liberamente, senza che il
il racconto? narratore sia costretto a guardare il suo manoscritto.
Questo esige una preparazione molto accurata. I titoli dei quadri, che
indicano la struttura del racconto, sono di grande aiuto. Servono da filo
conduttore. Pur sottoscrivendo questo principio, ci si può tuttavia chiedere
se la differenza tra la lettura e la narrazione sia così forte.
Una buona lettura, ben preparata, resa viva dalle intonazioni giuste, dalle
pause, permette a certi narratori di sentirsi a loro agio, superando ogni
timore. Non è forse meglio questo che una narrazione imparata a memoria,
più simile alla recita di un testo che a una storia raccontata?
Lasciamo aperta la questione, senza dirimerla in modo assoluto.
Gli Gli ascoltatori devono essere sistemati comodamente: i bambini prefeascoltatori riscono sedersi per terra su cuscini, o anche bocconi; gli adulti saranno
probabilmente più a loro agio sulle sedie.
Anche se non guardano sempre il narratore, tutti devono poterlo vedere e
sentire. Una disposizione in cerchio è più familiare che le file di sedie.
Gli ascoltatori non devono trovarsi davanti a una grande finestra: la luce li
può disturbare. Occorre ridurre il più possibile i rumori o i movimenti
che infastidiscono: chiudere la finestra, dare qualche giocattolo non troppo
rumoroso o matite colorate e carta ai piccoli irrequieti...
Una narrazione deve scorrere in un clima calmo e armonioso: un mazzo di fiori, un poster (purché non distolga l'attenzione) e, perché no, una
candela... calmano gli spiriti e favoriscono l'ascolto.
Un momento
di
soddisfazione
e di
complicità
Preparare un racconto e presentarlo agli ascoltatori procura a un narratore una vera soddisfazione. Che conosca personalmente il pubblico o no,
questo non cambia gran che. In ogni caso, egli cercherà di creare una
relazione tra il pubblico, la storia e se stesso.
Tuttavia, non sempre si stabilisce questa relazione. Capita che un racconto
non tocchi gli ascoltatori, come se non riuscisse a superare una barriera. Il
narratore deve allora interrogarsi sulle ragioni di tale difficoltà: tema inadatto
a quel pubblico, preparazione insufficiente, cattive condizioni materiali, o
forse difficoltà del narratore a svolgere quell'attività. Non si deve mai costringere qualcuno a raccontare: non si può raccontare per obbligo.
Più volte abbiamo usato la parola «condividere». Infatti, una narrazione non funziona a senso unico. Il narratore che ama raccontare
offre la sua storia agli uditori come un regalo. In cambio, riceve
la loro gioia di scoprire una storia, di incontrare personaggi e di seguire le loro avventure. Talvolta ha perfino la soddisfazione di aiutare una persona che, identificandosi con uno degli attori della storia,
può progredire nella sua riflessione su quella o quell'altra difficoltà.
Ma oltre alla complicità tra un narratore e un pubblico, si intreccia un legame molto forte tra il racconto stesso e colui che lo
ha preparato e lo narra.
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Venne chiesto a un rabbino di parlare di suo nonno, che era un discepolo di
Baal Shem.
«Mio nonno era paralizzato, inchiodato a letto da molti anni. Un giorno uno
dei suoi discepoli gli disse: “Raccontaci una delle tante storie che corrono
sul tuo maestro, il grande Baal Shem”.
Mio nonno si solleva leggermente e si mette a parlare: “Baal Shem era un
uomo molto pio. Non mancava mai all’ora della preghiera. E pregava con
tutto il suo essere: parlando, cantando, alzando le braccia al cielo e prostrandosi a terra. Gli capitava perfino di saltare e di danzare”.
Gli occhi di mio nonno cominciano a brillare mentre racconta. Egli si solleva
sempre di più, si alza, ed ecco che salta e danza anche lui, come il suo maestro era abituato a fare. Da quel giorno mio nonno fu guarito».
Senza prendere questa storia alla lettera, ricordiamo che raccontare non è
una tecnica neutra, esteriore alla persona che racconta. Una narrazione
non lascia mai un narratore come prima: lo interpella, lo trasforma, gli fa del
bene.
ESEMPI
Una narrazione semplice che, in un certo senso, prende la storia “dal basso”, con due strani personaggi come testimoni.
I SANDALI DI SIMONE (cf Mt 14,22-33)
A Cafarnao, prospero villaggio di pescatori sulle rive del lago di Tiberiade, aveva la sua bottega un bravo ciabattino di nome Zaccaria. Tutti
quelli che vivevano sulle rive del lago sapevano che i sandali fatti da Zaccaria erano i più robusti e i più comodi della Galilea.
Dalle mani callose del ciabattino uscirono un giorno, con il loro buon profumo di cuoio nuovo, due sandali. Si chiamavano uno Destro e l'altro
Sinistro. Erano gemelli e così si specchiavano uno nell'altro.
«Siamo una meraviglia!».
«In tutto l'Impero Romano non c'è paio di scarpe che ci valga».
«Credo che dobbiamo prepararci ad una luminosa carriera, caro Sinistro» esclamò Destro.
«Certo. Tappeti morbidi, lucidi pavimenti di marmo… Questo
è il nostro destino!» gli fece eco Sinistro.
«E soprattutto piedi nobili e profumati».
«È evidente: noi siamo fatti per un colto scriba, un facoltoso
commerciante, un pubblicano ricco e potente, magari un viceré» ripetevano all'unisono.
Un pomeriggio, il buon Zaccaria li prese dalla mensola dove
li aveva riposti. Era arrivato un cliente.
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«Urrà! Si parte!» gridarono.
«Mondo, arriviamo! Morbidi tappeti e lucidi pavimenti di marmo, eccoci!».
Finirono invece infilati in due piedoni callosi, duri come pietra, che sapevano di acqua, alghe, pesci e umidità.
«Nooo, un pescatore no!» squittì Destro.
«Io odio il pesce!» si lagnò Sinistro.
In un attimo videro il loro futuro. Era tutt'altro che roseo: sempre all'umido
fra uno sguazzare di pesci puzzolenti e di reti piene di alghe.
Destro cercò di consolare l'altro: «Non si sa mai» gli disse: «chi può stabilire fino a che punto un male di oggi non sarà un bene domani?».
«Non sarà facile abituarsi a tutte queste schifezze…» brontolò Sinistro.
Il nuovo padrone si chiamava Simone, uomo franco e generoso, ma con un
gran brutto carattere, sempre a gridare su e giù dalla barca e fra i sassi della
riva. Urta di qua e sfrega di là, i due sandali si ritrovarono, in breve tempo,
proprio malconci, ma ormai pareva loro di fare parte di quei piedi, che la
necessità aveva reso instancabili.
L‘uomo che
faceva
cantare
la sabbia
I due fratelli adempivano con attenzione al loro dovere e proteggevano i
piedoni di Simone con serietà e diligenza. Tanto più che i due piedi erano
sempre meno quelli di un pescatore e sempre più quelli di un viandante.
Non più dunque pesce, ma strade e polvere condivise con un misterioso e affascinante Uomo comparso d’improvviso nella vita del loro padrone e che, con quelle sue storie straordinarie che loro non si stancavano
di ascoltare, sapeva dare a ogni avvenimento un magico significato.
Quell'uomo aveva anche cambiato il nome a Simone e lo chiamava
Pietro.
«Gli sta proprio bene. Ha decisamente la testa dura come una pietra!» aveva spiegato Sinistro agli altri sandali che si trovavano ai piedi delle persone
che stavano sempre vicino a quell'uomo singolare chiamato Gesù.
Con Gesù, la vita era una sorpresa continua. Un giorno, avevano trascorso la serata correndo per un prato in mezzo ad una folla immensa,
che aveva ascoltato Gesù per tutto il giorno. Poi Pietro e i suoi amici si
erano messi in grande agitazione. Non che loro avessero potuto capire
bene cos'era successo, occupati com'erano a correre su e giù distribuendo pane e pesci, che sembravano moltiplicarsi da sé in quelle ceste, ma
certo qualcosa di meraviglioso era successo. Quando Pietro e suoi amici
discutevano di questo e di altri avvenimenti che avevano avuto
Gesù come protagonista i due sandali non si lasciavano sfuggire
una parola.
«Tu pensi che Gesù abbia ragione?» aveva chiesto un giorno
Destro al fratello.
«Sì. Quello che dice è bellissimo, nessuno parla come lui»
rispose Sinistro.
«Ma accidenti, quanti passi ci fa fare. Cammina. Senza sosta
cammina. Va qui e poi là. Si direbbe che il riposo gli è vietato».
«E noi sempre dietro!».
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«Ma i granelli di sabbia, sollevati dai suoi piedi cantano».
«E solo noi li possiamo sentire».
Una strana
passeggiata
La notte dopo il miracolo del pane e dei pesci, i due fratelli poterono finalmente riposare senza possibilità di nuove faticacce perché, trovandosi su una barca, grandi camminate non le potevano fare. Pietro e i suoi
amici si buttarono esausti sul fondo della barca. Solo Giovanni, il
più giovane, badava al timone.
L'Uomo delle storie straordinarie, Gesù, non c'era: l'avevano sentito dire
che desiderava starsene solo per un po' e dopo aver rimandato a casa la
gente era salito su una montagna per pregare.
I due sandali erano incuriositi da quei suoi ricorrenti desideri di solitudine: forse era semplicemente stanco o forse doveva parlare con Qualcuno. Dopo quei colloqui pareva sempre raggiante di gioia, più luminoso del solito. Venne la notte, e Gesù era ancora là, solo. La barca era già
molto lontana dalla spiaggia, ma aveva il vento contrario ed era sbattuta
dalle onde. Fu allora che l'attenzione di tutti fu calamitata da una figura
umana che si stava avvicinando. Ma come poteva, se intorno a loro
non c'era che acqua? Nella barca scoppiò un parapiglia tremendo. La
paura li aveva talmente coinvolti che sbraitavano: «È un fantasma!»
e urlavano di paura. Ma poi udirono tutti la voce rassicurante che ben
conoscevano.
«Coraggio, sono io! Non abbiate paura!».
Era proprio Gesù che si faceva una bella passeggiata sull'acqua.
Mentre gli altri si rincuoravano un po', Pietro gridò: «Signore, se sei tu,
dimmi di venire verso di te, sull’acqua».
«Questa volta è impazzito!» sbottò Sinistro.
«E noi finiamo a mollo!» gli fece eco Destro.
Gesù gli disse: «Vieni!».
Pietro allora scese dalla barca e cominciò a camminare sull'acqua verso
Gesù. In quel momento i due sandali si resero simultaneamente conto
di cosa sarebbe capitato loro, coinvolti senza volerlo in un'incredibile
avventura. Si guardarono e risero felici.
«Camminiamo sull'acqua!».
«Lo dicevo che Gesù è veramente speciale!».
Quell'Uomo singolare li stava rendendo simili a Lui, più forti di qualsiasi
legge della natura, straordinari. Ora erano davvero i più fantastici sandali
del mondo! Ma vedendo la forza del vento, Pietro ebbe paura, cominciò ad affondare e gridò: «Signore! Salvami!».
«Ecco, ha rovinato tutto» bofonchiò Destro.
«È proprio un testone!» continuò Sinistro.
Gesù afferrò Pietro per i capelli e gli disse: «Uomo di poca
fede, perché hai dubitato?».
«Noi no!» gridarono insieme Destro e Sinistro. «Noi non
dubitiamo!».
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I due sandali si sfilarono e incredibilmente continuarono a camminare
allegramente sull'acqua, sollevando trine di spruzzi, mentre Pietro veniva
tirato di peso sulla barca da Gesù.
(Da B. Ferrero, Anche la Bibbia nel suo piccolo, Torino-Leumann, Elledici 2008, pp.
28-35)
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Un magnifico esempio di come si possa raccontare un brano apparentemente
non narrabile, ma decisamente importante.
DA UN'ANTICA FAMIGLIA (Mt 1,18-25)
«C'era una volta a Betlemme un uomo giusto che si chiamava Giuseppe...».
Forse la sai già questa storia? Ma se aspetti un momento non ti racconterò
soltanto la storia di Giuseppe ma anche quella dei suoi nonni, bisnonni,
trisnonni, fino a più di mille anni prima!
Un uomo
giusto
Il Vangelo di Matteo ci racconta che Giuseppe è un uomo giusto, una persona che cerca di comportarsi secondo i comandamenti, secondo la volontà di Dio. Questa volta però gli è andata proprio male: pensate che
Maria, quella ragazza così carina e simpatica con cui è fidanzato e di cui è
innamorato pazzo, aspetta un bambino. E lui, Giuseppe, sa che non può
esserne il papà, ne è assolutamente certo! E per di più mancano soltanto
pochi giorni al matrimonio con Maria: la data delle nozze è già stata
fissata e tutti si rallegrano di veder vivere nella stessa casa come marito e
moglie questa simpatica coppia di sposi. Ma ora che guaio: Maria aspetta
un bambino che non è di lui, di Giuseppe.
Gli
antenati
di
Giuseppe
Giuseppe perciò è tristissimo e non sa proprio che fare. Mentre
cerca una soluzione al difficile problema, Giuseppe ricorda il passato
della sua famiglia: pensa ai suoi antenati. Giuseppe va indietro più di
mille anni. Pensa al suo antenato più famoso, il grande re Davide. No!
Davide per quanto credente non era proprio stato un esempio! Aveva
fatto morire in guerra il suo fedele ufficiale per rubargli la moglie...
E il re Salomone con tutta la sua saggezza e gloria? Invecchiando aveva
dimenticato il Signore, aveva seguito divinità straniere e aveva commesso molte ingiustizie. E le donne della sua famiglia?
C'era Rut, un vero esempio per tutti, ma era una straniera. E
che dire di Raab? Una poco di buono, meglio non parlarne!
Eppure Dio, il Signore, l'aveva scelta come una protagonista
della storia d'Israele.
No: Giuseppe non può fare il giudice di Maria perché è
un uomo giusto; non può condannare Maria visti anche gli
esempi della sua propria famiglia. Deve invece trovare una soluzione e lasciare soltanto a Dio la decisione.
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Un'idea
luminosa
e un sogno
bellissimo
Così a un tratto gli viene un'idea luminosa: «Non accuserò mai Maria, io
piuttosto me ne vado, scappo, sparisco; nessuno saprà mai che fine ho fatto
e così tutti se la prenderanno con me. Diranno: “Guarda un po' che disgraziato, dopo quello che ha fatto è scappato, non ha accettato la responsabilità di fare da marito e da padre!”. Così Maria è salva: io faccio un'orribile
figura mentre lei qui a Betlemme verrà accolta e aiutata da tutti».
Ma la notte seguente, Giuseppe fa un sogno bellissimo. Sogna un angelo,
un messaggero del Signore, che entra nella sua stanza e la illumina con
luce sfolgorante. E gli dice:
«Giuseppe, discendente di Davide, non devi aver paura di sposare Maria la tua fidanzata: il bambino che lei aspetta è opera dello Spirito Santo. Maria partorirà un bambino e tu gli metterai nome Gesù (che nella loro
lingua significa Dio salva) perché è lui che salverà il suo popolo da tutte le
sue colpe».
Al suo risveglio Giuseppe pensa: «Allora non devo più scappare, non devo
più fuggire. Allora posso restare con Maria! Ma che cosa significa quello
che ha detto il messaggero di Dio? Che cosa vuol dire è opera dello Spirito Santo?». Giuseppe non lo sa, capisce soltanto che questo bambino
fa parte di un grande progetto di Dio e che loro, Maria e Giuseppe,
diventeranno strumenti nelle mani di Dio per realizzare quello che l'antico
profeta Isaia aveva già annunciato: il figlio di Maria si chiamerà anche
Emmanuele che significa Dio è con noi.
Con grande gioia Giuseppe sposa Maria e la prende in casa sua. Maria
mette al mondo il suo bambino e Giuseppe lo chiama Gesù. Qui comincia
la storia di Natale: con la nascita di Gesù, Dio ci salva e Dio è con noi.
(Da M.G. Girardet - Th. Soggin, Racconta la Bibbia ai tuoi ragazzi, Torino-Leumann,
Elledici – Torino, Claudiana – Gorle,Velar 2005, pp. 206-207)
L'ASINO DI BALAAM (Numeri 22; 23; 24)
Gente da Gli Israeliti si stanno avvicinando alla terra promessa. I Moabiti li vemaledire dono arrivare e sono molto preoccupati: «Divoreranno tutto quello che c'è
intorno a noi, come il bue divora l'erba dei campi». Disperato, re Balac
cerca salvezza nel profeta Balaam, un indovino, le cui parole sono piene di una forza straordinaria. «Vieni a Moab e maledici questo popolo,
in modo che vada in rovina prima che andiamo in rovina noi. Maledicilo.
È benedetto colui che tu benedici, è maledetto colui che tu
maledici. Maledici questo popolo».
La maledizione, come il raggio della morte, per noi non
esiste più. Eppure non è un concetto tanto primitivo: talvolta abbiamo paura di usare parole pesanti: «Non dirlo, non
ne parlare, perché una volta detto...!». Una parola detta non
si può mai più ritirare. È detta. Talvolta ci spaventiamo davanti
alle parole che ci scappano di bocca. Tocca ferro, perché non
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si sa mai... Le parole hanno un potere, possono danneggiare per tutta la
vita, e anche consolare per tutta la vita. Possono essere una benedizione e
una maledizione.
Balaam
tra
delegazioni
e Dio
«Maledici questo popolo» chiedevano i messaggeri del re di Moab a Balaam. Balaam è un pagano, tuttavia conosce il Dio d’Israele la cui parola
non può essere contraddetta, come egli sa nel suo profondo. Come poteva
lui, Balaam, maledire un popolo che questo Dio ha benedetto? D'altra
parte, i messaggeri del re gli dissero pure che l'avrebbero pagato generosamente e questo gli fece vedere il tutto sotto un'altra luce. O meglio, forse
non la chiamerei proprio luce, ma comunque cambiava un po' tutto.
«Lasciate che ci dorma sopra una notte» disse Balaam. «Stanotte spero di
venire a sapere da Dio se posso soddisfare la vostra richiesta oppure no».
«Che cosa chiedevano?» domandò Dio.
«Mi chiedevano di maledire Israele, Signore». «Ma è impossibile, Balaam. È il mio popolo. È benedetto. E un popolo benedetto non può essere
maledetto. Non puoi farlo. Almeno finché sono Dio io. In una parola: non
si può».
«Dunque?» chiesero i messaggeri del re. «Mi dispiace, cari signori, dovete dire al re che non si può». La delegazione tornò dal re Balac con un
nulla di fatto. «Secondo me egli ha detto “no” ma voleva dire “sì”» disse uno
degli ambasciatori. «Esattamente» sottolineò un altro, «anche per me non è
stato del tutto convincente».
«Forse per Balaam il livello diplomatico della delegazione non era abbastanza rispettabile» pensò Balac. «Oppure, forse, il compenso non era abbastanza cospicuo per lui». Diplomatici più ragguardevoli vennero inviati
per fare un'offerta più generosa in nome del sovrano.
«Signori miei» disse Balaam con voce forte – forse un po' troppo forte, per
risultare veramente convincente – «signori miei, anche se Balac mi offrisse
il suo palazzo pieno d'argento e d'oro, mai potrei fare qualcosa contro
la volontà del Dio d’Israele».
La delusione comparve sul volto degli inviati del re. Anche il volto di Balaam si oscurò, perché anche per lui questo era naturalmente un vero peccato. Peccato per quell'argento e quell'oro. «Restate qui per la notte? Forse
stanotte verrò a sapere se Dio ha qualcos'altro da aggiungere».
«Mi hai chiamato, Balaam?». «Sì, Signore, mi chiedevo se tu non potessi
trovare una via d'uscita. Sai, gli uomini di Balac sono di nuovo
qui. E io pensavo, per sicurezza, di chiederti ancora se...». «Vai,
Balaam. Vai pure a Moab. A una condizione però: devi dire
solo quello che ti suggerirò io».
Balaam si sveglia tutto felice! Ha fatto proprio bene a interpellare
Dio, ancora una volta. E che bella risposta gli aveva dato Dio! O
forse lui stesso aveva fatto parlare Dio, come un ventriloquo? No,
sciocchezze. Anche Dio ci aveva dormito sopra una notte e ora
aveva ricevuto il permesso. Che fortuna! «Signori miei, vengo con
voi. L'oro sia con noi. Voglio dire, Dio sia con noi. Andiamo».
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Entra Balaam salì sul suo asinello. Quando prese le briglie si accorse che gli
in scena tremavano le mani. Sciocchezze! Le sue mani non tremavano. Perché
l'asino avrebbero dovuto? No, era l'asino che tremava. L'asino tremava in tutto il
corpo e dopo pochi passi la bestia si scosse tutta. S'impennò e improvvisamente corse via dalla strada verso sinistra, nei campi, come se, con
un ampio giro, volesse evitare qualcosa. Balaam afferrò il suo bastone e
picchiò la bestia riportandola di nuovo sulla strada.
Sì, finché la bestiola non si sdraia...
«E poi che cosa accadde, Balaam? Tu avevi rimesso in piedi la bestia capricciosa e l'avevi ricondotta sulla sua via, e poi?».
«Poi per un po' di tempo andò bene. Già, bene, ma non troppo, però
almeno proseguimmo. Fino a quando arrivammo tra le vigne, circondate
da rozzi muri di pietra, tu li conosci. Qui l’animale divenne improvvisamente ingovernabile. Sembrava che si spaventasse per qualcosa, ma
non c'era assolutamente niente di cui potesse aver paura. Preso dal panico,
si strinse contro il muro, schiacciandomi il piede. Urlai, tirai le briglie, gli
assestai un sacco di legnate. Ma l'animale non si dava per inteso. E poi
un po' più avanti, in uno stretto passaggio dove non c'era più posto per
scansarsi, né a destra né a sinistra, la bestia si coricò. Io mi sfilai dalla sua
schiena, avevo un piede contuso, mi faceva maledettamente male, zoppicavo. Colpii di nuovo l’asino e volevo anche tirargli un calcio, ma naturalmente non riuscii più a farlo. Finché la bestia non alzò improvvisamente
la testa e la guardai negli occhi, in quei suoi occhi grandi e spalancati.
“Balaam, perché mi sono meritato tutto questo?” mi chiese l'asino. “Ti
ho forse mai colpito o calpestato? Ti ho servito per chissà quanto tempo, ti
ho portato dappertutto, ho portato i tuoi carichi. Perché mi percuoti?”.
Poi accadde. Veniva forse dai suoi occhi disperati? Oppure dalla tristezza
della sua voce? Non lo so. Certo so che improvvisamente mi si aprirono gli occhi: in mezzo alla strada, proprio davanti a noi, vidi un angelo,
che emanava una luce candida, accecante, con una spada in mano. E ho
capito. “Perché hai picchiato il tuo asino tre volte? Tu andavi incontro
alla tua rovina, il tuo frate asino mi ha evitato tre volte. Se non mi avesse
evitato, in realtà, ti avrei ucciso e avrei lasciato in vita l'asino”.
Un attimo dopo l'angelo era già sparito. L'asino e io eravamo di nuovo
soli. “Mi dispiace” dissi al bravo animale “mi dispiace. Dio sa quanto
mi dispiace. Non ho ascoltato la sua voce. Le percosse che meritavo io
sono cadute sulla tua schiena. Perdonami, in nome di Dio, perdonami.
Vieni, andiamocene da qui. Torniamo a casa, mia cara bestiola. Signore,
mio Dio, mi perdonerai? Mi sono veramente comportato da
essere umano. Ti ringrazio di essere intervenuto. Ho ricevuto
il tuo messaggio e l’ho capito”.
“No, Balaam, fermati un istante. Vorrei che tu andassi lo
stesso da Balac. Questo lo avevamo pattuito, se mi ricordo
bene. Avevamo anche pattuito che tu avresti detto le parole
che io ti avrei suggerito”.
“Bene, Signore, andrò. Dimmi le parole che devo dire”».
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Gente da Il re Balac vide Balaam avvicinarsi già da lontano. «Mi hai fatto aspettabenedire re a lungo, signor Balaam!». «Mi dispiace, maestà, ma ho avuto alcuni
intoppi, strada facendo. Ho avuto qualche problema con il mio asino. O
meglio, il mio asino ha avuto qualche problema con me».
«Non ti capisco proprio. Ma non perdiamo altro tempo. Andiamo in fretta
su quel colle, il tempo stringe ed è venuta l’ora che tu maledica Israele».
Balaam salì sul colle, lasciò che Balac costruisse sette altari e sacrificasse
sette giovenchi e sette arieti. Poi aprì la bocca e disse:
«Questo è l’oracolo di Balaam:
l’uomo dall’occhio aperto,
l’uomo che ascolta le parole di Dio...
L’uomo dall’occhio aperto... il suo asino ha visto meglio di lui! L'uomo che ascolta le parole di Dio... Ma che fatica ha fatto il frate asino a fargli
ascoltare quelle parole! Questo è l'oracolo di Balaam, Un astro sorge da
Giacobbe, uno scettro si eleva da Israele».
«Ritira queste parole!» urlò Balac. «Questa non è una maledizione, è
una benedizione. In futuro queste parole vivranno di una vita propria. Maledici questo popolo, Balaam, devi maledire questo popolo!».
«Come potrei maestà? Come posso maledire chi è benedetto? Mio signore e re, è il popolo di Dio! Dio non è un uomo che possa mentire, né un
essere umano che si pente. Potrebbe dire qualcosa e non farlo? Potrebbe
dire qualcosa e non mantenerlo?».
In un ultimo tentativo di salvare il salvabile, Balac trascinò Balaam di colle
in colle, costruì su ogni colle sette altari e offrì sette giovenchi e sette arieti, nella speranza che, da un altro luogo, altre parole potessero calare su
Israele. La sua speranza fu vana, Balaam poté dire solo quello che Dio gli
dettava.
Come sono buone le tue tende, Giacobbe
Come sono buone le tue case, Israele.
Fino ad oggi la preghiera quotidiana degli Ebrei è introdotta da queste parole di Balaam. Anche le trasmissioni di Radio Israele si aprono ogni giorno
con questo antico testo. Il testo della benedizione di un pagano.
(Da N. Ter Linden, In principio. Il racconto della Bibbia, vol. 1: Pentateuco, Milano,
Rizzoli 1998, pp. 355-360)
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