ShtàrLàn
warlan
Giancarlo Niccolai
ShtàrLàn -
00.52.41 - 13/02/03
Indice
Il mondo di Pitermòs......................................................................................................................................3
Prologo...........................................................................................................................................................6
Capitolo 1.....................................................................................................................................................14
Capitolo 2.....................................................................................................................................................25
Capitolo 3.....................................................................................................................................................41
Intermezzo....................................................................................................................................................50
Capitolo 4.....................................................................................................................................................54
Intermezzo....................................................................................................................................................67
Capitolo 5.....................................................................................................................................................69
Capitolo 6.....................................................................................................................................................83
Capitolo 7.....................................................................................................................................................97
Capitolo 8...................................................................................................................................................114
Capitolo 9...................................................................................................................................................129
Intermezzo..................................................................................................................................................149
Capitolo 10.................................................................................................................................................152
Capitolo 11.................................................................................................................................................168
Capitolo 12.................................................................................................................................................185
Epilogo.......................................................................................................................................................201
Alfabeto Pitermossiano...............................................................................................................................210
Grammatica pitermossiana.........................................................................................................................212
Dizionario minimo pitermossiano-italiano..................................................................................................238
ferY..........................................................................................................................................................244
bejimD......................................................................................................................................................245
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ShtàrLàn - Il mondo di Pitermòs
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Il mondodi Pitermòs
Il Sollàn
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ShtàrLàn - Il mondo di Pitermòs
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La Città di BàiVil, Kalédion del Sud
Il Kalédion del Sud
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ShtàrLàn - Il mondo di Pitermòs
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Il Kalédion del Nord
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ShtàrLàn - Prologo
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Prologo
1.
La Sala era buia e deserta. Sepolta sotto tonnellate e tonnellate di roccia, nelle viscere della montagna più
alta del mondo, non aveva nessuna porta, nessuna finestra, nessun arredamento. Ai proprietari della Sala
non serviva nulla di tutto ciò.
Un tenue bagliore iniziò a pulsare al centro dell’enorme spazio, come se un essere vivente stesse nascendo,
e la sua vita fosse luce. Dopo poco non vi furono più angoli bui.
E fu allora che due globi lucenti apparvero, sotto quello che rischiarava l’ambiente. Le forme divennero più
nitide, fino a trasformarsi in due figure umane.
– Benvenuto– disse uno di loro. Il suo corpo era circondato da una sottile aura che pulsava ritmicamente,
come in simbiosi col suo cuore. Era di statura media, anche se l’unico termine di paragone che potesse
permettere di giudicarlo era l’altra figura. Indossava un pesante manto rosso, ornato di ricchi ricami dorati,
e di perle di inestimabile valore. Ciò che l’oro e le perle disegnavano era la possente figura di un drago
nell’atto di librarsi in volo. Il suo volto duro incastonava occhi marroni brillanti come quelli di un
ragazzino, ma la ribelle capigliatura grigia tradiva la sua età. O almeno, l’apparenza della sua età.
– Qual è il motivo di questa convocazione, DàganSén?– Era la voce di un altro essere, più alto di almeno
una testa, che vestiva una semplice tunica blu notte. La pettinatura ordinata e precisa si posava con
delicatezza sul suo sobrio viso dall’apparente età giovanile. Anch’esso, come DàganSén, era circondato da
una tenue aura, ma la sua sembrava essere più intensa.
Al centro della stanza, sospesa nell’aria, comparve una mappa tridimensionale del mondo. Alture, rilievi,
laghi ed addirittura le alte onde oceaniche erano riportate fedelmente. Il dettaglio aumentò velocemente
fino ad inquadrare una piccola regione. Era possibile distinguere le singole città, le linee che dovevano
essere strade, lo scorrere dei fiumi... Ma un osservatore più attento avrebbe potuto individuare un tenue
movimento, una specie di brulicare... tutti gli esseri viventi.
– Ho fatto un sogno, ShtàrRésel!– rispose DàganSén. L’altro dio sorrise; in un tempo oramai remoto,
anch’egli era stato umano, e non poteva dimenticarlo. Gli uomini sognano, e non succede niente; se fosse
stato un uomo a dire quella frase, nessuno lo avrebbe considerato importante. Ma non era stato un uomo a
parlare: era DàganSén, il Signore dei Draghi, il più antico degli Dei, ed un suo sogno era una profezia.
L’Uomo delle Stelle tornò serio, come imponeva il peso di ciò che avrebbe dovuto presto ascoltare.
DàganSén continuò: – Fratello mio: giorni orsono mi accorsi che uno dei miei sacerdoti nelle regioni del
Kalédion non invocava più il mio nome. Insospettito, volli verificare,– disse indicando una parte del
Simulacro del Mondo, – e non scorsi niente al di fuori dell’ordinario.–
ShtàrRésel rimase perplesso. Anche se il suo culto era rigoroso, non era raro che qualcuno dei sui fedeli
provasse istanti di smarrimento, o che i riti predisposti in suo nome, per qualche incontrollabile
contingenza, risultassero privi di forza.
– Non nel mio caso, amico mio.– disse DàganSén, che aveva letto nella mente dell’altro. – Non è così
normale. Ciò che mi ha allarmato, come ho detto, è che non sia riuscito a trovare il mio negligente
sacerdote... Ho scrutato i loro pensieri. Assolutamente niente.–
L’espressione del volto dell’altro dio iniziò a mutare. Un dio può sapere tutto, se lo vuole... a meno che
qualcosa di altrettanto potente non gli impedisca di farlo...
DàganSén continuò a voce: – É quello che ho pensato io. Quindi ho deciso di sognare...–
Dopo una breve pausa, il dio andò avanti: – Ho sognato i Creatori, le loro due razze. Ho sognato coloro
che, venuti da stelle lontane, avevano creato Arkànjel e Asemodés, i loro Giudici. Ho sognato la loro
ribellione al potere dei Creatori ed ho visto che questi si univano per cacciare i Giudici e imprigionarli
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ShtàrLàn - Prologo
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nell’Inferno. Ma tutto questo lo sapevamo.– Il dio si fermò per soppesare le parole che avrebbe dovuto
dire.
– Io ho sognato il ritorno dei Creatori. I Creatori torneranno e divoreranno il mondo. Sono come dei ragni
affamati. I loro mondi sono vuoti e verranno da noi, per nutrirsi delle nostre carni e delle nostre anime
poiché noi, per loro, siamo solo come mandrie disperse nel pascolo.–
Il Signore dei Cieli ascoltò sconcertato.
Quasi senza preavviso, le immagini degli dei scomparvero, mentre la loro immateriale sostanza si
espandeva e riempiva tutta la sala. Adesso, pur essendo due entità separate, erano una cosa sola; ed
insieme presero la loro decisione, un disegno immenso, incomprensibile per le menti degli un esseri umani.
2.
Una voce asettica risuonò nella camera.
– Signor Presidente.–
Edgard Rayan aprì piano gli occhi, staccandosi delicatamente dal dolce sogno che lo teneva prigioniero. Il
suo appartamento era come l’aveva lasciato. Una semplice scrivania, una console a contatto mentale su di
essa, la porta... e poco più a destra, una finestra oltre la quale si intravedevano le stelle, così vicine da
poterle quasi toccare. Quei punti di luce persi nel vuoto si muovevano rapidi, seguiti da una impercettibile
scia. In quel momento, la nave stava viaggiando molto più velocemente della luce.
Pazientemente la voce ripeté: – Signor Presidente.–
–Sono sveglio– rispose questi. Si alzò con calma dal letto con i biondi capelli disordinati ed i muscoli
intorpiditi. Rifletté stancamente che era ormai troppo che non vedeva il sole sorgere al mattino.
Si alzò in piedi, lasciando che la fresca aria della stanza accarezzasse il suo corpo nudo. Spalancò le braccia
e sbadigliò rumorosamente... lo faceva felice il sapere che qualche volta poteva non essere formale. Quindi
si diresse con calma verso una specie di cabina rotonda, dalle pareti in vetro. Vi entrò, chiuse lo sportello
ed appoggiò la mano su di una piastra metallica sulla parete. Poi sussurrò sovrappensiero: – Programma
standard.–
Improvvisamente mille gocce profumate di acqua calda piovvero su di lui. Adorava lasciarsi massaggiare
dall’acqua. Dopo poco la doccia si fermò. L’umidità sul suo corpo venne come dissipata, in una sfrigolante
ondata di scintille. I suoi capelli tornarono ordinati e precisi come sempre, mentre la barba appena
accennata spariva ed i baffi assumevano la sobria forma abituale. L’aria intorno a lui iniziò a vibrare,
mentre le molecole dell'uniforme si componevano e si sistemavano sul suo corpo. Ancora pochi istanti, ed
era completamente vestito.
Uscì dalla cabina ed andò a verificare il risultato davanti allo specchio che aveva preso il posto del letto.
L'uniforme era composta da una giacca in stile militare, lunghi pantaloni e scarpe lucide, tutto
rigorosamente nero. Sotto alla giacca portava una ricca camicia di raso bianco, tessuta con elaborati
ricami, e sopra la giacca, una mantella cucita alle maniche, così che ad ogni movimento delle sue braccia il
manto lo avviluppava in modo diverso. Ma la cosa più importante erano le catene d’oro che lo ornavano:
tre partivano dalla spalla destra, per poi terminare sulla parte sinistra del petto, davanti al cuore. Altre due
erano sistemate sulla parte superiore delle braccia. Quelle catene erano i suoi gradi militari, il simbolo che
indicava che era il comandante delle forze armate, oltre ad essere il Presidente. Accennò un sorriso
nell'abbandonare la propria figura riflessa, e si incamminò verso una piattaforma quasi invisibile, in un
angolo della stanza. Come vi fu sopra, scomparve in una nuvola di scintille.
Nello stesso istante, in un altro punto della nave stellare, una piattaforma si illuminò, mentre una figura
umana compariva rapidamente sopra di essa.
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ShtàrLàn - Prologo
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Il presidente si guardò intorno per permettere ai propri sensi di riprendersi. La sala era semplice nelle sue
forme lineari; un tavolo rettangolare, lungo circa cinque metri, la occupava quasi per intero. Alla sua
destra, una parete completamente trasparente permetteva di vedere lo spettacolo di una nebulosa dalla luce
azzurrina che attraversava lentamente la visuale.
Quasi tutte le sedie erano occupate quel giorno, e sul volto dei personaggi seduti il presidente poteva
scorgere una lieve traccia nervosismo. Il presidente si sedette al suo posto a capotavola. –Bene,– esordì in
maniera del tutto informale –il Consiglio è stato convocato dal direttore Kandal; stiamo tutti pendendo
dalle sue labbra, direttore. A lei la parola.–
Un uomo dai capelli brizzolati e dall’aspetto minuto si alzò in piedi. Era una di quelle persone che, se mai
fosse uscita dal proprio laboratorio, nessuno avrebbe degnato di un secondo sguardo, schivo ed attento
com’era ad evitare ogni contatto umano.
–Dunque, prima di tutto, permettetemi di dire che l’idea di creare un’arena è stata a dir poco... affrettata.–
–Fatelo presente alla prossima riunione della commissione militare in Parlamento, direttore.– rispose
Edgard.
Il direttore borbottò qualcosa fra sé e sé, quindi sollevò una mano e l’agitò sul tavolo. In risposta, davanti
a tutti i presenti comparve l’immagine tridimensionale di un pianeta.
–Questo, signori, è Bandar III, o Pitermòs, come lo chiamano i locali. L’immagine è stata rilevata dai
sensori ottici della sonda di controllo. Il tempo relativo è pari a quindicimila anni fa. Quando abbiamo...
creato i giudici.–
L’immagine cambiò leggermente, il pianeta diventò impercettibilmente più ovale, e lo scienziato continuò:
–Questo invece è quello che i nostri sensori alle distorsioni hanno rilevato tramite il ponte spaziotemporale,
sempre alla stessa data.–
L’immagine del pianeta tornò normale, ma guardando attentamente, si sarebbero potute distinguere alcune
differenze rispetto a prima: l’effetto della deriva dei continenti o di mutazioni della crosta dovute a
catastrofi naturali.
–Questo invece è Bandar III oggi, nel nostro tempo relativo, sempre come rilevato dai sensori ottici della
sonda.–
–Giunga al punto, direttore. Dove vuole arrivare?–
Lo sguardo dell’ometto brizzolato perforò gli occhi dell’uomo che sedeva a capotavola. In risposta alla sua
provocazione, il direttore alzò una mano. L’immagine cambiò improvvisamente, ed al posto del pianeta
comparve una figura assurda, una specie di stella con innumerevoli punte di lunghezza e spessore diversi.
Uno di questi pungiglioni era così lungo che arrivò diritto in faccia al presidente, che sobbalzò per la
sorpresa.
–Questo, invece è Bandar III oggi, signori, come i nostri sensori alle distorsioni lo stanno captando.–
Alcuni mormorii si levarono dalla, che fino ad allora aveva assistito in composto silenzio.
Anche se a volte pareva un poco dissoluto, il presidente delle federazioni Siriane era una persona ligia al
suo dovere e capace nel suo ruolo. La sua mente aveva già assimilato il senso di quella riunione
straordinaria e dimenticato gli attriti con il direttore del Centro Scientifico Interstellare.
–Una incredibile combinazione di distorsioni naturali...–
–Non naturali, signor presidente.–
Il presidente inarcò un sopracciglio, pensando che si stava parlando di un popolo primitivo, che della
tecnologia delle distorsioni non aveva nemmeno l’idea dell’esistenza.
–Direttore, sappiamo che gli indigeni non hanno ancora sviluppato una tecnologia sufficiente a gestire le
distorsioni. Non è così?–
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–Signore... siamo certi che non si tratti di distorsioni generate da macchine.– Kandal aveva ormai creato un
pathos quasi tangibile nella sua platea, e volle prendersi la soddisfazione di vedere quei burocrati aspettare
con il fiato sospeso le sue prossime parole.
–Sono le creature che abitano Pitermòs che generano questi campi di distorsione.–
Dopo che gli ascoltatori ebbero il tempo di assimilare la notizia, il direttore iniziò a spiegare come erano
andate le cose. Il pianeta scelto come arena si trovava originariamente in una distorsione, cioè in un luogo
in cui la struttura dell’universo è piegata su se stessa, dove lo spazio interno e quello esterno non sono
totalmente coincidenti. Tuttavia, essendo questo un caso assolutamente raro ed imprevedibile, nessuno di
loro si era accorto del piccolo campo distorsivo che circondava il pianeta. Ma questo campo c’era, ed era il
motivo dei fallimenti dei primi esperimenti: erano state create intere popolazioni sul luogo, ma purtroppo il
sistema di controllo era stato disturbato dal campo naturale del pianeta. Si erano così venute a creare
imprevedibili mutazioni genetiche sulle creature, mutazioni che le avevano rese in qualche modo capaci di
interferire con gli strumenti di controllo dei loro creatori. Quindi gli addetti al progetto erano stati costretti
ad eliminare quelle creature, ma la cosa non si era rivelata così facile, tanto che avevano dovuto
rinchiudere i “Giudici” in un luogo isolato, in modo da impedire loro di interferire ancora.
Gli esperimenti erano continuati, ma qualcosa andava sempre storto. Alla fine, gli scienziati si erano chiesti
se i problemi non fossero dovuti a loro errori, ma a qualche fattore esterno, e quindi avevano finalmente
trovato il campo distorsivo...
Il presidente ascoltò attentamente il racconto del direttore, e pensò a lungo prima di parlare.
–Lei cosa suggerisce, direttore?–
–Sospendere immediatamente gli interventi sul pianeta ed il progetto. Il campo distorsivo intorno a Bandar
III aumenta ogni istante, e presto potrebbe essere così vasto da interferire sui nostri sistemi.–
Era una decisione difficile, che avrebbe richiesto molto tempo, e molti validi consigli.
–Bene.– concluse il Presidente, – Signori, voglio una relazione completa da ognuno di voi entro stasera.–
Quando Edgard aveva deciso di alzarsi per andare nel suo appartamento, l’ammiraglio, molto
discretamente, gli aveva posato una mano sulla spalla, lanciandogli un’occhiata eloquente. Adesso, nella
sala del consiglio rimanevano solo il Presidente, l’ammiraglio ed il direttore. Rayan cominciò.
–Quello che ci avete detto non era tutto, vero Danis?–
–No, Edgard. In effetti c’è di più. –
Le tradizioni Siriane volevano la caduta di ogni formalità nelle conversazioni private.
Il presidente inspirò profondamente. –Avanti. Sono pronto.–
–Non prendermi per pazzo, Edgard, ma qui c’è qualcos’altro, qualcosa che non siamo riusciti a capire.–
–Cosa intendi, Danis?–
–Vedi, le variazioni nel campo distorsivo non sono disorganizzate, casuali, bensì precise e coerenti.–
–Da cosa lo hai capito?–
–Sappiamo bene quali sono gli effetti di distorsioni casuali, e generalmente si concretizzano nella
dispersione di materia, o nella formazione di plasma subatomico. In questo caso, ad ogni rilevazione si
accompagna l’aumento di massa del pianeta. Ogni singolo evento che abbiamo registrato realizza una
creazione. Edgard... qualcosa, o qualcuno, su quel pianeta usa le distorsioni in maniera naturale, e se ne
serve come uno strumento.–
Edgard sorrise. –Sei matto...–
–Temo proprio di no, signor Presidente.– e sottolineò la parola “presidente”, per sincerarsi che il ritorno al
tono formale non passasse inosservato.
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–Interessante...,– rifletté il presidente, prendendo qualche istante per cercare di comprendere quanto gli
veniva detto. – Capisco che scoprire come questi esseri controllino con meccanismi biologici i campi
distorsivi potrebbe avere qualche interessante ripercussione... anche in campo militare... Ma...–
–Non è tutto qui, Edgard.– lo interruppe Danis. –Vedi... prima ho parlato di mutazioni genetiche
incontrollabili.–
–Vai avanti.–
–Beh, che tu ci creda o no, i nostri Giudici sono diventati demoni.–
Il flusso dei pensieri di Edgard si congelò, come se qualcuno avesse premuto il pulsante di stop di un film
d'orrore proprio durante la scena madre. Per qualche istante, si dimenticò perfino di respirare, immobile
come il tempo. Ad un certo punto se ne accorse, e proprio mentre raccoglieva le forze per tornare a
inspirare e poter finalmente chiedere –Eh!?!–, lo scienziato agitò una mano nell'aria, facendo comparire gli
ologrammi di due figure umanoidi davanti a loro. Una era l’immagine di Arkanjel, il capo del gruppo di
esseri che per primi erano stati creati dai Siriani. L’altro era la figura di un demone, che sembrava giusto
uscito da uno di quei testi antichi che Edgard aveva avuto occasione di leggere in gioventù. Testi scritti
con inchiostro su carta, rilegati con macchinari rudimentali; antiche testimonianze delle loro origini, ormai
perdute nella notte dei tempi.
–Non si somigliano molto.– asserì dubbioso Edgard.
–Già. Ma come avrai intuito, sono entrambi Arkanjel.–
Stavolta, in qualche modo Edgard trovò la forza di respirare, ma si accorse dallo sguardo dell'ammiraglio
fisso su di lui che doveva essere impallidito.
Dopo una pausa più lunga del dovuto, lo scienziato continuò: –Quel demone che vedi è Arkanjel, rilevato
con i sensori alle distorsioni, dopo che lo abbiamo trasferito nella cella di contenimento.–
L’ammiraglio, rimasto silenzioso fino a quel momento, intervenne: –Una mutazione piuttosto precisa... non
trovi? Non si direbbe che sia dovuta ad un errore casuale.–
–Andiamo Joseph, non mi dirai che anche tu credi a un’idea talmente assurda... In tutta la mia vita giuro
che non ho mai sentito nulla di più insensato, di più illogico...–
–Ascolta Edgard.– lo interruppe il direttore. –L’universo è grande. Per quanto noi adesso cominciamo a
comprenderne la natura intima, ci sono ancora moltissime cose che nessuno sa spiegare e moltissime cose
che non conosciamo. Non ti chiedo di credere ad antiche leggende di maghi e di demoni, ma solo di
guardare i fatti. Laggiù usano le distorsioni con la mente... Se non vuoi chiamarla magia, chiamala in un
altro modo, quello che sta succedendo su Bandar III non cambia. Abbiamo giocato a fare gli dei,
Presidente, ed è successo qualcosa che non siamo in grado di comprendere.–
–Ed inoltre,– intervenne l’ammiraglio, –che tu creda o no a quello che ti ha detto il direttore, non ha
nessuna importanza: gli Unionisti ci credono eccome! Hanno già inviato degli agenti sul pianeta. Cosa ci
facciano laggiù non lo so davvero, ma potrei scommettere i miei gradi che anche loro si sono accorti che
c’è qualcosa di strano e che vogliono vedere se possono usare questo qualcosa contro di noi...–
Il Presidente si immerse nei propri pensieri, ma per poco tempo. Non che stesse prendendo una decisione
affrettata; solo si rendeva conto che non c'era alternativa mentre dichiarava: –Signori, sembra che abbiamo
scoperchiato il vaso di Pandora. Bene, non mi tirerò indietro dopo tutto quello che abbiamo fatto: andiamo
laggiù e vediamo se riusciamo a prendere uno di questi demoni per la coda.–
3.
Nello stesso momento, nel regno del Kalédion, su Pitermòs, era notte. Tre agili figure si muovevano nel
buio, camminando rapidamente per le strette vie di BàiVil, la capitale. Non seguivano mai per più di
qualche momento la stessa strada, ma la cambiavano continuamente, tenendosi nascosti ed uscendo allo
scoperto solo se necessario. Presto furono davanti alle porte della Fortezza Ottagonale, che dominava la
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città, il porto e, più in là, il mare. Un uomo di una certa età e mole li stava attendendo, scrutando da una
finestrella aperta nel grande portale.
–Eccoli, Finalmente!– disse a bassa voce. Quindi fece cenno alle guardie che gli ospiti erano arrivati.
Una piccola porta inserita nello stesso portale si spalancò, permettendo alle tre figure di entrare senza
rallentare il proprio passo, e si richiuse subito dopo.
La persona che attendeva si inchinò ai nuovi arrivati.
–Vostra maestà... Vostra Sapienza... Santità.– salutò l’uomo. La figura più vicina a lui calò il cappuccio
che era alzato ed aprì il proprio mantello, rivelando comodi ma ricchi vestiti.
–Per un po’ è divertente muoversi come un ladro, tensìt Dénel, ma alla lunga stanca. Spero che ne sia valsa
la pena.–
L’uomo portava una corta barbetta a forma di v e lunghi baffi. Aveva i lineamenti dolci ed i capelli neri
perfettamente ordinati, ed era alto e longilineo.
Il tensìt, o alchimista nella lingua locale, rispose in tono formale: –Fra pochi giorni nessuno di noi avrà più
bisogno di muoversi come un ladro, Vostra Maestà.–
–Sembrate molto sicuro della vostra invenzione, Dénel.–
Intervenne la seconda figura, che si era già liberata della cappa, indossava una larga camicia azzurro-chiaro
ed era di taglia minuta. Aveva una folta e corta barba nera che non faceva intravedere nulla della sua vera
espressione; si poteva solo intuire che stesse sorridendo.
–Io e Dénel abbiamo lavorato molto, Maestà, e fra poco potrete vedere i risultati.–
–Non offendetevi, Vostra Sapienza, ma per il momento i maghi continuano a mettermi a disagio.–
–Vostra Maestà è solo vittima di un pregiudizio che dura da quasi trecento anni.–
–Nel popolo risiede molta saggezza...–
–... ma vi risiedono pochi maghi, se permettete. –
Il re stava per ribattere, ma la terza figura lo interruppe. Era un uomo oltre la metà della propria vita;
eppure, i suoi occhi sprigionavano una grande forza, una forza che pareva riflessa nel medaglione intarsiato
d’oro e d’argento che portava al collo. Il monile raffigurava un possente drago di fuoco.
–L’ora è tarda, Vostra Maestà, ed il viaggio per Tàndar è lungo.–
Solo il sacerdote massimo di DàganSén poteva permettersi di rivolgersi in questo modo al re; la forza di
quelle parole lo fecero gelare sul posto.
– Non indugiamo oltre. Tensìt Dénel, indicateci la strada.–
Dénel li guidò verso un piccolo edificio addossato alle mura, a pochi metri dal portale. La costruzione
conteneva un unica stanza, abbastanza grande da ospitare comodamente una decina di persone. Il re sibilò
nervosamente –Ma, qui non c’è nulla...–
Rispose Dénel: –La ShtàrLàn ci attende in cima alla torre centrale. –
Re Zorand fu sorpreso da quella risposta, ma non ebbe il tempo di capire cosa il tensìt intendesse; questi
sfilò dal petto un pesante medaglione ornato da gemme di diversi colori disposte in cerchio; quindi, con il
pollice ne premette una e subito l’aria della stanza fu invasa da una tenue luce bluastra. Il re fu colpito dalla
spiacevole sensazione di disorientamento, accompagnata da un formicolio diffuso, ma l’attimo fu breve,
perché l’incantesimo durò solo un istante.
Adesso il gruppetto era in piedi in una grande sala rotonda, per la maggior parte vuota. Solo una parte era
occupata da uno strano oggetto, lungo quasi venti metri, alto almeno tre e largo circa otto.
Sembrava che per costruirlo fossero state usate le chiglie di due navi, una delle quali capovolta e poggiata
sull’altra. Era interamente composto da uno strano metallo nero, tranne la parte superiore della prua che
era costituita da un’unica grande vetrata. Dalla linea di unione fra la parte superiore e quella inferiore
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spuntavano oggetti simili a mulini in miniatura, e nella piatta chiglia che poggiava al suolo c’erano due
grandi fori, o meglio, due tubi che attraversavano la nave da poppa a prua. Sul fianco visibile, ad
un’altezza di due metri e mezzo dal suolo, grandi lettere d’oro battezzavano quella nave con il nome di
FàrDan, "Alba Lontana"
Il re del Kalédion rimase a bocca aperta.
–Questa è la ShtàrLàn.– dichiarò orgoglioso Dénel.
Si avvicinarono alla nave, e quando furono abbastanza vicini, il re chiese: –Ma come fa questa cosa a
volare?–
–Semplicissimo; mi chiedo perché nessuno ci abbia mai pensato prima.– rispose Dénel, quindi infilò la
mano sotto la chiglia e sollevò il braccio; la ShtàrLàn seguì il movimento docilmente, restando sospesa a
mezz’aria.
–Non ha peso. Per guidarla bastano i mulinelli laterali, e per la spinta ci sono due grandi mulini dentro a
questi tubi. L’aria mossa è più che sufficiente a farla viaggiare ad una certa velocità. Ma vi prego:
saliamo.–
Dénel sfiorò una grande gemma verde che si trovava sotto la vetrata, ed una porta si aprì scorrendo nella
parete. Alcune scale portavano all’interno della saletta, che il re non ebbe difficoltà ad identificare come la
plancia. L’arredamento era assai ricco e ricordava molto una sala da ricevimento della sfarzosa corte di
Tharis, ben lontana dallo spartano stile Kalédionìt. Il suolo era coperto da un grande tappeto che
raffigurava scene epiche di lotta tra draghi e serpenti volanti; ovunque pendevano drappi dorati, e le pareti
erano imbottite con un morbido velluto rosso. Tre comode poltrone foderate erano situate in fronte alla
nave, davanti ad un piano inclinato sul quale erano inserite delle leve e dei pulsanti. Altre due poltrone
erano poste ai lati della sala, entrambe rivolte a prua. Una aveva davanti un grande specchio ed una
pulsantiera, mentre l’altra si trovava di fronte ad una grande sfera, che emetteva dei bagliori rossastri. In
fondo alla sala c’era quello che poteva sembrare un trono, elevato rispetto al pavimento e raggiungibile
grazie ad alcuni gradini. Sotto di esso c’era una grande calotta che emetteva un’intensa luce bluastra, e
perfino il re poteva sentire la magia che essa irradiava.
–Vi spiegherò tutti i dettagli durante il viaggio. Sedetevi su quella poltrona, e voi, Santità, troverete
comoda l’altra– disse indicando due delle tre postazioni in fronte alla plancia. –Io devo guidare la FàrDan
dalla poltrona centrale.–
Il re ed il prelato fecero come era stato detto loro, mentre il mago salì i gradini e si sedette sul trono.
–Siete pronto, Mànit?–
–Pronto, Dénel! rispose il mago.– Quindi il tensìt premette un’altra delle gemme che aveva sul medaglione,
ed il muro di fronte alla nave iniziò a spostarsi. Il lento movimento rendeva l’attesa snervante, ma
finalmente, la strada fu libera, e le mani di Dénel iniziarono a lavorare sui comandi di fronte a lui. Un
fremito percorse la ShtàrLàn quando i mulinelli iniziarono a girare; la nave si mosse piano, uscendo
dall’alto della Torre Centrale.
La luna illuminava BàiVil di un chiarore argenteo che rendeva quella notte strana; magica. Il re ed il
sacerdote provarono una grande emozione, nel vedere le case che iniziavano a scorrere sempre più veloci
sotto di loro.
–Vostra Sapienza, rendeteci invisibili appena potete. Preferisco non correre rischi.–
Il rumore della magia risuonò in simpatia con ogni parte dello scafo, ed un onda di luce azzurra attraversò
una fitta ragnatela di invisibili filamenti, fino ad avvolgere tutta la nave. Così FàrDan scomparve dal
panorama notturno della città.
–Vostra Maestà– , disse Dénel, – come vedete la ShtàrLàn è ormai pronta. Per pilotarla e per usare le armi
non è necessaria la presenza di un mago, ma come vedete, può risultare utile. Inoltre un mago a bordo
rende la nave abbastanza sicura.–
–...Cosa intendete?– chiese intimorito il re.
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–Attualmente la nave non è protetta dalla magia; è per questo che stiamo andando a Tàndar. Per quanto gli
incantesimi che fanno funzionare la nave, soprattutto quello che annulla il peso, siano molto potenti, non
sono pochi i maghi che sarebbero in grado di cancellarli.–
Il re osservò biecamente Dénel.
–Sì, Vostra Meaestà, lo so che questo non è l’ideale, ma abbiamo ridotto le parti magiche al minimo
indispensabile, a favore di quelle meccaniche; inoltre, dopo che i maghi di Tàndarlàn avranno compiuto il
loro lavoro, questo problema sarà del tutto secondario.–
Zorand sospirò. Sapeva che non avrebbe potuto chiedere di più al genio di Dénel, eppure, in cuor suo,
sperava ancora di non dover dipendere così tanto da una forza che era fuori dal suo controllo... e sotto il
controllo di un’altra Nazione.
–Santità,– disse piano il re, con l’idea di trovare conforto nell’alto sacerdote, –ho fatto come DàganSén mi
ha ordinato.–
–Il Supremo lo sa già. Ma sa anche che molta è ancora la strada, e che dobbiamo stare all’erta.–
Il re, aggrappato alla propria poltrona sussurrò piano: –Più all’erta di così...–
–Dénel,– avvertì il mago, –è il momento.–
–Bene...–
Il pilota sollevò uno strano attrezzo, fino ad allora perfettamente incastrato nella consolle di fronte a lui.
Era un braccio metallico collegato ad una specie di semicerchio. Dénel appoggiò la fronte sulla coroncina,
chiuse gli occhi e pronunciò a bassa voce –TàndarLàn–. Una gemma incastonata nel pannello si illuminò, e
lui la toccò. Subito la navicella fu pervasa dal tremito della magia e dalla sua luce, quindi la FàrDan
scomparve dal cielo del Kalédion per riapparire su quello del Regno dei Maghi.
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ShtàrLàn - Capitolo 1
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Capitolo 1
TérellinSélandaset si guardò intorno. Il sole si stava abbassando, proiettando lunghe ombre sulla strada
polverosa. Il tepore primaverile e la dolce brezza gli toglievano dalla pelle il fetido odore di terra malsana
ed umida che aveva portato con se’. Quando il giovane Vàlen gli aveva chiesto se gli interessasse dare
un’occhiata a quella grotta, non aveva esitato. Il mago però non aveva accennato al fatto che la grotta non
era naturale; era una tana di goblin. Trellin, questo era il nome che veniva usato nelle occasioni informali,
ne aveva viste molte nella sua lunga vita e sapeva riconoscerle bene: i goblin mancano di fantasia. Ma
aveva deciso comunque di entrare per esplorarla..."È troppo vicina ai miei boschi, voglio essere sicuro che
non ci sia nessun pericolo qui sotto"; questa era la scusa che aveva inventato, per motivare la sua
curiosità...
Era stato un folle! Con loro c’era anche sua figlia, TàlyaSamilìsa; un piccolo e delicato fiorellino che mai
avrebbe dovuto vedere quello che aveva visto quel pomeriggio. Ma ormai, era successo. La guardò ed
ancora una volta si sentì stringere il cuore; non sapeva se era per l’affetto che provava per la sua bambina,
o per la sua incredibile somiglianza alla madre. Gli capitava ogni volta che la guardava. Aveva i biondi
capelli fluenti che le ricadevano sulle spalle e circondavano le sue delicate orecchie, che come quelle di
ogni Elfo, erano estremamente aggraziate; gli occhietti verdi, tagliati un poco a mandorla guardavano il
cavallo che, sotto di lei, si muoveva stanco. Aveva un’espressione seria ed assente: un tacito rimprovero
verso il padre. Accanto a loro, sui loro cavalli, si trovavano tre umani: Vàlen, un giovanissimo mago, il suo
amico Tòret (che tutti chiamavano Trott), che sembrava un irsuto gigante ed il serafico Hellis, un
sacerdote di uno degli dei umani.
Sua figlia lo aveva pregato! Lo aveva scongiurato nel regale Elfico che solo gli eredi al trono possono
usare "Padre! Non andare!". Lo teneva per un braccio, le unghie piantate nella sua carne, lo sguardo
supplichevole ma deciso e fermo... Come quello di sua madre. Forse era stato proprio per questo che si era
divincolato dalla presa di Talya, aggiungendo "Dobbiamo controllare che non ci siano pericoli".
Ed i pericoli c’erano. Sua figlia non aveva mai visto uccidere, né mai avrebbe creduto che suo padre fosse
capace di colpire una creatura con la propria spada, anche se quella creatura era un immondo goblin.
La ruggente voce del gigante umano ruppe i suoi pensieri.
—Tu cosa farai con i soldi che abbiamo trovato, Vàlen?— Il gigante barbuto indossava una poderosa
armatura, un’accozzaglia di pezzi di metallo legati insieme in maniera approssimativa che nel complesso gli
davano un’aria piuttosto minacciosa. La folta barba ed i lunghi capelli neri, la carnagione scura e gli occhi
seri completavano l’aspetto del poderoso guerriero.
—Credo che mi comprerò un vestito decente, per una volta.— Il ragazzo non aveva raggiunto i venti anni,
ma per essere un umano, era un tipo in gamba! Il più giovane mago che avesse mai visto. Una mente
brillante ed analitica, curiosa ed equilibrata allo stesso tempo. I suoi lineamenti erano aggraziati, i capelli
corvini ondulati dai riflessi bluastri e l’aspetto curato lo rendevano un bel ragazzo. Indossava una semplice
tunica di cotone bianco, molto adatta alla primavera. Macchie di terra e qualche traccia di sangue
ricordavano quello che era appena successo. Il suo volto era segnato da una stanchezza inusuale per lui;
Vàlen aveva usato molti incantesimi quel giorno.
Vàlen notò il profondo sguardo del principe Elfo su di lui... Trovava divertente l’altezzosità di Trellin a
volte, e adesso era proprio uno di quei momenti.
—Pensate che per parlare a vostra altezza sia sufficiente una richiesta scritta o ritenete che sia più
opportuno immolare una vittima per implorare la vostra presenza?—
L’Elfo sorrise. —La seconda...—
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—Purtroppo, date le nostre condizioni non possiamo permetterci una vittima. Potreste esonerarci, solo per
questa volta, e tornare fra noi mortali?—
Disarmante, pensò Trellin sorridendo e scuotendo il capo. Cambiò discorso. —Mi chiedo perché ho
accettato di aiutarvi... E coinvolgendo anche mia figlia in questa follia!—
—Per quanto riguarda "questa follia", l’unica spiegazione è che ti andava di vedere cosa avremmo trovato
la sotto... C’è chi la chiama curiosità e sembra che serva a combattere la noia. Per tua figlia invece... Beh,
nessuno è perfetto...—
Eccessivamente disarmante. Trellin spronò il cavallo, imbronciato, andando a raggiungere una posizione di
avanguardia.
Hellis aveva osservato la scena. Il volto disteso era incorniciato da una barba lunga di due o tre giorni, di
colore grigio. I capelli erano neri, abbondantemente spruzzati di bianco, non troppo lunghi ma selvaggi, e
gli occhi di ghiaccio, profondi come il mare, davano al volto un aspetto di grande saggezza. Avvicinò il
proprio cavallo a quello del mago.
—Non ti sembra di aver esagerato un poco, ragazzo?—
—Non può fargli che bene Hellis...—
—Vàlen, gli elfi non cambiano.—
—Pensiero piuttosto saggio, non trovi? Anche gli elfi pensano, lentamente, ma pensano, quindi anche loro
possono capire, e dunque cambiare. Questo invece è un pensiero dinamico.—
Hellis osservò attentamente il ragazzo. Questi era convinto che il ragionamento del sacerdote fosse
indifendibile... ed in effetti lo era, dal punto di vista del ragazzo. Ma c’erano tante cose che Vàlen non
poteva ancora sapere.
—Figliolo, un giorno la tua mente svelta potrebbe condurti in situazioni spiacevoli, se non stai attento a
come la usi...—
—Ovunque mi possa portare, sarà sempre più lontano di dove si può arrivare con una statica saggezza.—
Vàlen ridacchiava fra se; due vittorie in un minuto. Hellis si riportò dietro a Vàlen, scuotendo lentamente il
capo.
Qualche minuto più tardi arrivarono in prossimità di FòrKép, dove vivevano Vàlen e Tòret e dove si
sarebbero fermati per la notte. Talya non voleva dormire in una città umana, ma il principe le aveva
spiegato che non sarebbero mai riusciti ad arrivare a Sàlliandém prima che facesse buio, e che non era una
buona idea viaggiare di notte, da quelle parti. Talya si sarebbe dovuta adattare, per quella volta.
Trellin era ancora in avanguardia, qualche decina di metri più avanti degli altri, e la fila procedeva al passo.
L’elfo scorse una strana luce provenire da dietro una curva, oltre la quale la strada scompariva dietro le
rocce. Sicuramente non era un riflesso; il colore della luce era bianco ed il sole, ormai al tramonto, aveva
una colorazione rossastra.
Scese da cavallo, facendogli segno di restare immobile ed in silenzio. Questi, ubbidiente, mosse con calma
il capo senza far rumore. Con passo leggero, l’elfo si avvicinò alle rocce che nascondevano la curva; alzò
la testa molto lentamente. La luce usciva da una grotta, ed era estremamente intensa. Trellin non
conosceva bene quella strada, ma era sicuro di non aver visto alcuna grotta nel viaggio di andata ...
Tornato rapidamente indietro, avvicinò il proprio cavallo a quello del mago. —Più avanti c’è qualcosa che
devi vedere.—
Il giovane era stanco; quella giornata era stata massacrante per lui più di quanto lo fosse stata per gli altri.
Lo sguardo di Vàlen era eloquente: l’unica cosa che doveva vedere era un letto fresco.
—È importante! Muoviamoci.— disse Trellin spronando il cavallo.
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—Ehi, ma qui non c’era nessuna grotta!— disse Tòret guardando sbigottito davanti a sé.
—Geniale!— osservò Vàlen. Dopo un attimo di riflessione continuò —Non ho intenzione di passare oltre
senza aver capito che cos’è questo posto. Chi viene con me?—
Trott aveva già allentato la spada nel fodero; Trellin, dopo l’esperienza del pomeriggio aveva qualche
dubbio, ma il candore abbagliante lo attraeva come se fosse stato un insetto notturno. Hellis e Talya
rimasero fermi, ma come videro gli altri muoversi risoluti, all’idea di rimanere soli lì fuori si incamminarono
senza ulteriori esitazioni.
Procedettero con calma all’interno; la grotta era formata da un calcare bianchissimo, sul quale si rifletteva
una luce accecante. Tuttavia, per quanto si sforzasse, Vàlen non riusciva a capire quale ne fosse la
sorgente.
Passarono sotto un basso e stretto arco formato dalle stalattiti, che terminava in una camera separata, sul
fondo della grotta. Al centro dell’ampia sala si trovava l’unica struttura non naturale; nella nuda roccia era
stata intagliata una piattaforma circolare. Il suo diametro non doveva superare i cinque metri, ed al centro
si ergeva una piccola colonna poco più alta della vita di un uomo; sopra di essa, sospeso a mezz’aria, c’era
un oggetto che emetteva una luce ancora più forte di quella che proveniva dalle pareti, dalle dimensioni tali
che sarebbe potuto entrare comodamente in una mano. Sembrava che una forza viva vi splendesse dentro,
e che la luce della grotta fosse solo il riflesso, o lo spettro, di quella al suo interno.
Vàlen avanzò, mentre gli altri si tennero un poco distanti dal piedistallo. Un passo dopo l’altro, il mago si
avvicinava cautamente all’oggetto luminoso, mentre dietro di lui sentiva il tendersi di un arco ed il familiare
rumore della spada di Tòret che strideva contro il fodero. Sorrise, anche se era teso; qualsiasi cosa potesse
succedere lì, pensava, le frecce e le spade non sarebbero state di grande aiuto. Adesso era così vicino da
poter toccare l’oggetto e, lentamente, alzò la mano per afferrarlo. La luce batteva sulla mano di Vàlen,
procurandogli una sensazione quasi fisica; ma la mente del mago non percepiva ancora alcun pericolo. Il
ragazzo sapeva che in certi casi il pericolo si sa nascondere bene, quindi iniziò a preparare un incantesimo
per analizzare la cosa che aveva davanti. L’energia della sua mente lo attraversò, ed una tenue aura lo
avvolse, mentre la magia risuonava intorno a lui. In quel breve istante la mente di Vàlen si espanse fino a
toccare quelle tese dei suoi amici e, oltre a questo, niente. Assolutamente niente. Era come se in quel luogo
esistessero solo loro cinque.
Mentre l’effetto dell’incantesimo giungeva al culmine, la coscienza di Vàlen fu trascinata verso l’oggetto.
—Chi sei?— Una voce nella sua testa lo fece sobbalzare. Non aveva timbro né intonazione; aveva solo
comunicato quelle parole nella sua mente. Il mago, disorientato dal contatto inaspettato, aveva risposto:
—...Sono Vàlen Èmelfél—
La stessa voce asettica di prima aveva continuato: —Prendimi.—
Il tono era sempre piatto, ma quello era molto più che un verbo; era un ordine.
—Non mi farai male?— aveva chiesto silenziosamente il mago, e la risposta era stata semplicemente: —
No.—
Qualcosa, una sensazione intima, diceva al mago che la voce non stava mentendo. Per un fugace istante
Vàlen ebbe il dubbio che anche quella sensazione fosse stata proiettata all’interno della sua mente dalla
stessa forza che aveva parlato nel suo pensiero... ma c’era un solo modo per scoprirlo.
Con uno scatto che fece trasalire i suoi compagni, il ragazzo afferrò l’oggetto che, nello stesso istante nel
quale veniva a contatto con la mano del mago, si spense. Insieme, un tremito che originava dal piedistallo
percorse la terra e si allontanò verso l’infinita luce di un soffitto troppo distante per essere scorto. Tòret,
Hellis, Trellin e Talya seguivano con lo sguardo il rumoroso brivido delle rocce, ma Vàlen era troppo
intento ad esaminare ciò che aveva tra le mani. La forma era quella di una lente, o di un disco, con la
sezione ovale e non molto spessa ed il diametro perfettamente circolare. Era composta di un materiale
simile a vetro traslucido, ed alcuni caratteri sconosciuti erano incisi in cerchio, attorno al bordo.
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Dopo un istante che sembrò non dover finire mai, mentre il lamento della terra si faceva lontano ma
cupamente onnipresente, Vàlen fece sparire in una delle sue tasche il disco, si girò di scatto e disse con
decisione: —Usciamo di qui.—
Gli altri non se lo fecero ripetere una seconda volta, allontanandosi svelti verso l’ingresso dal quale erano
entrati.
Mentre galoppavano veloci, il giovane mago si girò a guardare la grotta un’ultima volta e vide quello che
temeva: era scomparsa.
La notte era scesa in fretta, e Trellin era andato ancora in avanguardia, cosa che faceva spesso quando
accompagnava gli umani durante la notte, dal momento che la vista degli Elfi è sensibile al calore. Era
almeno un paio di centinaia di metri davanti agli altri, quando improvvisamente, dal folto della foresta, la
strada si aprì per dare spazio a FòrKép. Trellin frenò il cavallo, mentre guardava sorpreso ciò che aveva
davanti: gli alberi ai bordi della pista erano caduti, sradicati come da un vento violentissimo. Più avanti
c’erano solo macerie, che agli occhi dell’elfo apparivano rossastre, segno che dovevano essere calde.
Macerie le une sulle altre, dove quella stessa mattina il nobile Elfo aveva visto le case degli umani. Bambini
che ridevano, donne che lavavano i panni... Il cuore di Trellin si riempì di orrore; girò il cavallo e si
precipitò verso gli altri. Corse fuori dal villaggio in rovina proprio un attimo prima che il gruppo potesse
giungere a distanza tale da distinguere nel buio cosa fosse successo. Senza capire bene cosa volesse fare
davvero, mise il cavallo per traverso e parlò cercando di mostrarsi calmo.
—Per stasera sarebbe meglio non entrare nel villaggio...—
Vàlen alzò gli occhi stancamente; Tòret, che era decisamente ansioso di tornare a casa, chiese all’Elfo —
Cosa intendete dire?—
—...Beh, ci deve essere un po’ di agitazione. Ho visto degli umani che litigavano molto animatamente...—
Trellin cercava di aggrapparsi alle parole della lingua umana che conosceva per inventare una bugia
plausibile; ma Vàlen e Tòret non erano tipi facili da ingannare, e comunque, l’Elfo non avrebbe ingannato
neanche un bambino. Il mago spronò il cavallo mentre Trellin non aveva ancora finito di parlare, ed il
guerriero gli fu subito dietro. Gli altri li seguirono, arrivando pochi istanti dopo i due e li videro fermi,
eretti sulla sella, mentre osservavano la devastazione che aveva colpito il villaggio e la foresta intorno ad
esso. Dopo alcuni istanti, Valèn si gettò giù dal cavallo e corse fra le rovine, gridando e piangendo insieme.
Tòret, pallido come un cadavere, scese con calma e con lo sguardo incredulo corse dietro al suo amico: la
sua casa e quella del mago erano nella stessa zona del villaggio. Hellis, funereo in volto, scese a sua volta e
si avviò dietro di loro, guardando le rovine fumanti mentre passava . Talya rimase sul cavallo, tremante e
con lo sguardo sconvolto. —Padre...— sussurrò piano, con un fil di voce, ma anche Trellin era senza
parole. Anche se non conosceva bene quella gente, e anche se erano umani, la scena di morte l'aveva
riempito di orrore.
Arrivato davanti ad alcune rovine che giacevano dall’altra parte del villaggio Vàlen si fermò di scatto,
cercando con gli occhi qualcosa. Lo trovò solo alcuni istanti dopo, mentre arrivavano i suoi amici: era una
strana forma carbonizzata, dall’ aspetto vagamente umano. Quello che restava di sua madre.
Si inginocchiò davanti al suo corpo, tanto pallido che, nella notte, e fra le rovine annerite, spiccava come
uno spettro. Lentamente, mise le braccia attorno a quel povero corpo, ma appena lo strinse a sé con la
dolcezza che aveva sempre avuto per lei, non ne rimase che la polvere. Fra le sue braccia. Lasciandogli le
vesti e le mani sporche di carbone.
Si gettò sulla terra bruciata, mordendo disperato la polvere, piangendo, come se volesse urlare fino a
dimenticarsi la fine che aveva fatto sua madre.
Tòret era di fronte a casa sua, a qualche decina di passi dall’amico, e aveva già la barba bagnata da
silenziose lacrime. Quando le case erano in piedi, pensava amaramente, quella distanza gli era sempre
sembrata maggiore. Alzò gli occhi; di fronte a lui alcune macerie ed un largo quadrato disegnato con le
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pietre era tutto quello che restava della sua casa. Si sedette sul bordo delle rovine, piangendo
sommessamente; sapeva già che i suoi genitori si trovavano lì. Le lacrime scendevano sulle guance del
gigante, ma il suo sguardo era fermo ed il suo corpo non tremava. In silenzio, il grande guerriero stava
salutando Deliàn e Rinèd, sua madre e suo padre. Nella sua mente li vedeva camminare mano nella mano
su di una strada luminosa, accompagnati da DàganSén nel lungo viaggio che li avrebbe condotti verso il
riposo eterno.
Hellis osservò la scena con il doloroso distacco di chi ha già visto il volto della sofferenza. “ShtàrRésEl,”
pregò chiudendo gli occhi e congiungendo le mani, stringendosele fino a sbiancare le nocche, “accompagna
le anime di questa brava gente...” ma ebbe un sussulto. Gli parve quasi che la sua voce interiore si perdesse
nel nulla: la sua preghiera non era ascoltata. Si guardò intorno, come se potesse trovare una ragione per
questa stranezza nel mondo fisico che lo circondava, ma la voce di Vàlen richiamò la sua attenzione.
Il giovane mago era adesso seduto sui resti tiepidi del muro di cinta, e piangendo recitava la Preghiera
dell’Addio fra i singhiozzi, ora più calmi. Era sicuramente un ragazzo forte, ma al mondo aveva poche
cose. Solo un posto che chiamava casa e l’affetto di sua madre. Suo padre era morto molto tempo prima.
Mentre FòrKép veniva edificata, un gruppo di uomini del villaggio si era attardato oltre il tramonto nella
costruzione di una palizzata attorno al primo insediamento, per difendersi dall’assalto delle belve notturne
che avevano già mietuto molte vittime tra i coloni. Era rischioso, ma il lavoro doveva essere portato a
termine. E così era stato fatto, ma già si udivano i versi delle bestie affamate che avevano imparato a
procurarsi il cibo attaccando gli umani, quando gli ultimi uomini, tra cui Lasàl, il padre di Vàlen, stavano
cercando di rientrare. La palizzata era completa, ma la porta era dalla parte opposta. Così, Lasàl, che era il
più forte degli uomini rimasti fuori dalla recinzione, faceva da retroguardia; proprio a pochi metri
dall’ingresso il gruppetto fu assalito da tre orsi neri, bestie enormi, feroci e dannatamente intelligenti. Il
padre di Vàlen, armato di un pesante piccone, gridò agli altri di entrare, e attirò l’attenzione delle bestie su
di se’. Con un violento colpo, fracassò il cranio di uno degli orsi, ma la piccozza rimase incastrata, e
mentre tentava di liberarla gli altri due furono su di lui. La gente del villaggio assistette impotente dall’alto
della palizzata; Vàlen aveva appena due anni.
Liàn, questo era il nome della madre di Vàlen, lo aveva cresciuto da sola. Non volle mai risposarsi, non
volle che nessun uomo prendesse il posto di Lasàl nel suo cuore e nella sua vita. Per procurarsi di che
vivere, lavorava nei campi come un uomo, sebbene la gente di FòrKép avrebbe volentieri fornito tutto il
necessario a lei ed al suo bambino; ma Liàn non era donna da accettare la carità di nessuno. Vàlen era
diventato uomo presto, eppure, adesso piangeva la morte di sua madre, di una donna che gli aveva dato
molto di più che la sua stessa vita.
Improvvisamente, Hellis udì un tintinnio metallico provenire dalla loro sinistra. Qualcosa si stava
muovendo fra le macerie di una casa vicina. Dopo aver parlato in una lingua che ricordava molto i versi
degli animali, due creature che superavano di poco il metro in altezza si voltarono a guardarlo. Avevano
una faccia ovale, più larga che alta. La bocca arrivava da un orecchio appuntito all’altro e spuntavano delle
piccole zanne irregolari e dall’aria malandata. Il loro naso era la caricatura di quello delle scimmie e al
posto degli occhi c’erano dei punti rossi. “Goblin!” sussurrò fra i denti, e con un soffio di magia fece
arrivare la sua voce a Tòret e a Vàlen, per avvertirli del pericolo. I mostriciattoli repellenti stavano
saccheggiando le rovine.
Vàlen scattò in silenzio verso di loro, facendo comparire da una delle sue tasche un lungo stiletto, e prima
che potessero capire la furia che li stava travolgendo, il mago infilò la sua arma nel petto del goblin più
vicino. Il guerriero era più lontano, ma stava giungendo di gran carriera, ed il sacerdote, più vicino, poteva
vedere che gli umanoidi indossavano armature di cuoio ben curate ed avevano al fianco una corta spada,
ma di ottimo acciaio e ben tenuta.
La violenza con cui Vàlen straziava il corpo della sua vittima fu tale che l’altro goblin, spaventato, tentò
una rapida fuga verso il bosco. Scappò urlando qualcosa che doveva essere un grido di allarme, ma Vàlen
fu su di lui prima che il malcapitato potesse finire il suo grido. Dalla foresta spuntarono una quindicina di
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piccoli esseri repellenti con l’aspetto molto vendicativo. La furia del ragazzo lo costrinse a commettere un
errore nel quale un mago non dovrebbe mai cadere: era troppo stanco per usare ancora la magia, ma ora
era troppo triste e furioso per rendersene conto. Urlò le parole dell’incantesimo con una forza tale che la
luce della sua energia lo illuminò come una torcia. La sua voce risuonò nella mente di tutti quanti, uomini e
goblin, come un brivido che entra nelle ossa: la magia che tesse l’universo e che scorre nelle cose al
comando di un mago. Dall’altra parte del villaggio anche Talya percepì quella forza e, preso per mano suo
padre, corse verso il ragazzo, cercando di non vedere la distruzione che la circondava. Sapeva che la voce
del mago significava pericolo.
Prima ancora che la luce della magia di Vàlen si fosse spenta, almeno dieci goblin caddero come colpiti da
una mano gigante. Gli altri, vedendo i loro compagni giacere immobili e storditi dal fragore causato
dall’incantesimo, esitarono un poco. Nel mentre Trott ed Hellis avevano superato il mago e si stavano
dirigendo verso lo sparuto gruppo di nemici. Vàlen stava in piedi, esaurita tutta la sua forza, pallido come
un cadavere, ondeggiando pesantemente. Si accorse che respirava faticosamente, come se fosse in un
deserto, e aveva caldo; la sua vista si stava oscurando, ma più perdeva i sensi, più la sua testa era leggera,
e lui si sentiva felice. Quell’oblio era così dolce, così riposante, ed era troppo stanco e troppo triste per
lottare ancora, ed ora il suo corpo era veramente leggero. Si sarebbe lasciato avvolgere da quell'oblio
profondo che avrebbe guarito le ferite della sua anima.
L’arco elfico del principe Térellin scoccò una freccia e perforò il cuore di un goblin a cinquanta passi. I due
umani che erano sugli avversari avevano già eliminato due di essi e stavano per finire gli ultimi tre rimasti.
Tòret si liberò facilmente del piccolo nemico che gli si parava innanzi: la spada del guerriero attraversò il
suo cranio ed il suo petto, spezzando in due la misera creatura. Hellis stava per imporre un incantesimo
definitivo sullo sconcertato goblin rimasto ancora in piedi, ma Trellin fu più rapido di lui, e da grande
distanza infilzò la testa del mostriciattolo con una freccia precisa.
Il guerriero si guardò attorno. Il sangue dei goblin tingeva di un rosso scuro e malsano la terra bruciata del
villaggio di FòrKép. Con il rombo della battaglia ancora nelle orecchie, Tòret guardò indietro, nella
direzione di Vàlen... e vide l’inerme corpo del ragazzo sdraiato in una posa innaturale.
Il grande cuore del gigante sobbalzò, mentre, gettato lo spadone, correva verso il mago. Hellis, che non
era più giovane come un tempo, non riusciva a stargli dietro.
Vàlen era il suo unico amico. Trott e Vàlen si conoscevano da tantissimo tempo; erano cresciuti insieme. Il
guerriero era sempre stato enorme, anche da ragazzo; gli altri giovani del villaggio erano invidiosi della sua
forza. E così, per sentirsi meno inferiori a quel gigante, lo avevano colpito nel suo punto debole: il cuore.
Tòret era sempre stato semplice, fiducioso nel prossimo... Non era stupido ma gli altri ragazzi avevano
tentato di tutto per farlo apparire come lo scemo del villaggio, ed anche se non erano riusciti nel loro
intento, comunque lo avevano trattato da tale, e questo gli aveva fatto molto male.
Fino a che un ragazzino con qualche anno meno di lui, gracile e minuto, non lo aveva difeso davanti agli
altri. Le immagini di quel giorno erano davanti agli occhi del guerriero, mentre volava verso il corpo inerte
del suo amico.
—Allora, da quale parte del monte cade l’uovo del gallo, bestione?— gli aveva chiesto Màrdet, mentre gli
altri lo schernivano. Trott era impegnato a portare un carico di legna da ardere, ed avrebbe dovuto
ignorare quel mostriciattolo. Ma la derisione di quei bambocci era come un coltello avvelenato che girava
dentro una profonda piaga. Stava per rispondere, quando un ragazzino che non poteva avere più di dodici
anni si avvicinò e gridò allo spaccone: —Solo una testa di rapa come te può credere che i galli facciano le
uova.—
In realtà, tutti conoscevano quello scherzo vecchio come il mondo, ma lo scopo del ragazzino era chiaro;
chiaro e pericoloso: provocare Màrdet.
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—Il moccioso si crede un genio!— aveva apostrofato questi tra le risa dei suoi compari, ed il giovane
Vàlen aveva risposto: —No, io penso solo di essere una persona normale... non so se riesci a capire...
insomma non un ritardato come te.—
Màrdet si stava avventando su di lui come un falco sulla preda, e lo avrebbe sicuramente fatto a pezzi, ma
il ragazzino stava fermo, sicuro del suo piano. Ed infatti, di fronte a quella scena, Trott aveva preso una
decisione che non era mai riuscito a prendere in tutti quegli anni di derisione. Quei gradassi avevano
bisogno di una lezione.
Tòret aveva scaraventato la legna che trasportava addosso a Màrdet, che era caduto a terra per il tremendo
impatto. Quindi, prima che questi potesse capire cosa fosse successo, il gigante era arrivato su di lui, lo
aveva sollevato sopra la sua testa e lo aveva letteralmente scagliato addosso agli attoniti spacconi. Due di
questi erano stati colpiti dal corpo del loro compare, ed erano caduti rovinosamente. Gli altri si erano
dileguati in tutte le direzioni. Màrdet e gli altri due, appena poterono riprendersi, si alzarono, ed aiutandosi
l’un l’altro per non zoppicare, si allontanarono senza voltarsi nemmeno una volta.
Da quel giorno Tòret e Vàlen erano diventati inseparabili. Anche se c’erano quattro anni di differenza fra
di loro, i due erano affiatati come due fratelli gemelli. Inconsciamente, Tòret ammirava, quasi riveriva
Vàlen, la sua mente sveglia, la sua sagacia. Ma allo stesso tempo, Vàlen era rimasto affascinato dalla forza
del futuro guerriero, ma ancora di più era attirato dalla sua bontà e semplicità d’animo, che facevano da
contrappunto alla propria complessità. Trott trovava quel ragazzo debole e indifeso. Senza neanche
saperlo, aveva giurato a se stesso di proteggerlo, di costruirgli attorno una barriera invalicabile; sapeva che
in cambio avrebbe trovato l’affetto di un vero amico.
Adesso quell’amico che proteggeva come un fratello minore era accasciato a terra, mortalmente pallido.
Non poteva perdere i suoi genitori e Vàlen nello stesso giorno.
Piangendo, il gigante si inginocchiò di fronte al mago e lo sollevò con delicatezza.
—Val... Val! Rispondimi! Che cos’hai? Non sei ferito, nessuno di quei mostri ti ha ferito, che cos’hai?
Svegliati, dimmi che stai bene! Val!... —
Il cuore del mago batteva ancora, ed il petto del ragazzo si muoveva debolmente. Perché non apriva gli
occhi?
Hellis, ansante fu su di lui qualche istante dopo. Un solo sguardo gli bastò per capire cosa era successo.
—Trott, calmati, non ha niente.—
—Allora perché non mi risponde?—
—Ha usato troppa magia.—
Il guerriero guardò confuso Hellis.
—La magia è la nostra stessa vita. Se ne usi troppa, non hai più abbastanza forze e svieni. Non ti
preoccupare; Vàlen ha solo bisogno di riposo.—
Il cuore del guerriero smise di correre all’impazzata. Tra le braccia aveva ancora il corpo dell’esile
ragazzo, che in quel momento era ancora più indifeso di un bambino appena nato. Arrivarono sul posto
anche gli Elfi, che avevano sentito quello che aveva detto il sacerdote, anche se erano molto distanti.
Trellin osservò il ragazzo umano con apprensione: aveva veramente un aspetto cadaverico. Disse a sua
figlia, nella lingua degli Elfi, di prendersi cura di lui, ma questa parve non sentirlo. Si girò a guardarla e
vide che stava osservando i resti della carneficina che si era consumata davanti ai suoi occhi. Il principe la
chiamò di nuovo e le ripeté di prendersi cura del ragazzo. Lo sguardo fermo e severo del padre non
ammetteva repliche; anche se sapeva che il sacerdote umano era un abile guaritore, voleva lo stesso che
fosse sua figlia ad occuparsene. Talya si chinò sul ragazzo e lo osservò con cura.
—È caduto... sbattuto la testa.— cercò di spiegarsi la ragazza. Trellin disse a bassa voce, abbastanza bassa
da non essere udita dagli umani, ma più che udibile per un elfo: —Cadendo, ha sbattuto la testa.— Sapeva
che sua figlia conosceva benissimo le parole della lingua umana, ma evidentemente non le riteneva degne
dello sforzo necessario ad articolarle. Talya, che aveva sentito perfettamente arricciò il naso, e si sforzò di
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riflettere più a lungo sulle parole della lingua a lei straniera. Quindi sentenziò: —Niente di grave, solo
qualche graffio ed un bernoccolo. Ma dovrei pulirlo, sennò si infetta.—
Trellin scosse la testa.
Talya medicò le ferite del ragazzo in maniera rapida ma efficiente, ed applicò una semplice fasciatura, sotto
l’attenta supervisione di Tòret. Quindi si prepararono a dormire, montando un campo poco al di fuori
dell’abitato; sembrava quasi un sacrilegio dormire tra le rovine ancora calde. Il guerriero si sedette accanto
al mago e vegliò su di lui, con la spada al suo fianco, fino a che non cadde addormentato. Ma Tòret era un
buon guerriero, ed anche dormendo, restò vigile tutta la notte.
Vàlen sognò in un sonno talmente profondo da sfiorare l’incoscienza. Essere svenuti è una sensazione
avvolgente, è un momento in cui il corpo e la mente decidono finalmente di riposare. È il riposo più
profondo, perché nel sonno la mente lavora per organizzare le idee del giorno, per affrontare le paure o per
sognare... Ma quando si sviene, corpo e mente decidono di riposarsi. E sognare quando si è svenuti è
molto raro, ma quando accade si tratta sempre di un sogno semplice, lineare, e mai ansioso, ma sempre
delicato e dolce. Liberatore.
Il mago sognò, nel suo morbido sonno, di fare una lunga passeggiata con Liàn; dopo aver camminato per
ore nella foresta ed aver parlato con gioia del passato, sua madre gli aveva detto che non poteva restare.
Ormai Vàlen era diventato uomo e lei doveva andare... Era tutto molto confuso. In quello stato gli alberi
erano solo le idee di alberi e sua madre era solo un’immagine non molto nitida, che sembrava ferma come
qualsiasi immagine, ma cambiava ad ogni istante. Ma il sogno era venuto per salvare la mente del ragazzo,
e lo lasciò sereno.
Quando si svegliò, gli parve di vedere un biondo angelo sopra di lui. Mettendo a fuoco la vista riconobbe
Talya; gli stava pulendo un graffio che aveva sul viso. Si sentiva la testa un poco dolorante, doveva averla
picchiata cadendo. Si accorse che aveva anche una benda sulla fronte ed una pezza fredda sopra di essa. La
ragazza guardò Vàlen negli occhi, ma non per comunicare una qualche emozione: il suo era uno sguardo
clinico, attento nella ricerca di un qualche segno di malessere. Ma i suoi occhi erano vigili e brillanti come
al solito; avevano uno stranissimo colore, tra l’azzurro ed il grigio, che nella sua pur lunga vita, Talya non
aveva mai visto. Sorrise al ragazzo: —Stai bene?—
—Sì...Grazie a te...— disse serio il giovane, usando alla perfezione la lingua degli elfi. La ragazza non ne
fu lusingata, piuttosto sembrò sorpresa; non si aspettava una reazione così delicata da parte dell’umano.
Ma poi si ricordò che aveva frequentato per molto tempo suo padre, era normale che avesse imparato le
buone maniere. Sorrise.
—Oh, io non ho fatto gran che. Sai? Il ...guerriero... ti ha vegliato tutta la notte. Dovete essere molto
amici.—
Il giovane mago guardò l’imponente figura di Tòret, che era poco distante. Si era già allontanato e stava
smontando il campo, ma Vàlen sapeva che, senza farsene accorgere, aveva già controllato che stesse bene.
I ringraziamenti lo mettevano terribilmente a disagio...
Si era fatto da poco giorno e il giovane mago si mise a sedere non appena la testa smise di girargli.
Ricordava vagamente di aver sognato sua madre. Guardò le rovine del suo villaggio. Ora non era più
disperato: aveva accettato la realtà e si sentiva solo triste, malinconico, ma la sua mente voleva già tornare
a lavorare.
Iniziò a chiedersi cosa poteva essere successo; ad una prima analisi gli sembrò che solo un drago, o un
ottimo incendio, avrebbero potuto bruciare un paese in quel modo. Poi vide la fossa al centro del villaggio
e si accorse che attorno ad esso, il terreno era come sollevato.
Anche gli altri stavano discutendo sulla questione. Tòret era rivolto in modo da non girare le spalle agli
altri, ma da avere sempre sottocchio Vàlen.
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—Non credo che siano stati gli dei— intervenne la voce chiara di Hellis che parlava agli altri seduti in
cerchio, a poca distanza dal mago. Il guerriero era in piedi, ed aveva l’aria veramente imponente. Aveva
appena finito di parlare, ed il sacerdote gli stava rispondendo da sotto il suo cappuccio.
—Non ho sentito la loro presenza. Ho pregato ShtàrRésel, ieri sera e stamattina, ma le mie preghiere sono
state udite ed accolte come sempre.— ma tacque quel momentaneo smarrimento che aveva provato la
notte prima.
—Ma neanche un drago poteva farlo! E non sono stati neanche quei Goblin.—
Vàlen alzò la voce per farsi udire: —E’ stata una stella. Una stella caduta dal cielo.—
Gli altri si guardarono perplessi. —Cosa?— chiese Tòret. Trellin, invece, capì. Incrociando le braccia
rifletté ad alta voce: —Una volta vidi una stella cadere. Ero molto giovane, saranno ormai quattro... o
forse cinquecento anni. Ricordo che ci vollero giorni per spegnere l’incendio che aveva provocato.—
—Io non le ho mai viste,— continuò Vàlen, —ma ne ho letto nella biblioteca del mio Maestro. Ne
abbiamo parlato un po’ e mi ha spiegato alcune cose... Credo che sia ciò che è avvenuto qui.—
Si guardarono l’un l’altro. Se quello che diceva il mago era vero, non era colpa di nessuno: quella gente
era morta solo per uno scherzo del destino... Vàlen tirò fuori da una tasca la lente di vetro che avevano
trovato nella grotta.
—Ma le stelle non cadono sui villaggi. Sono convinto che la grotta che abbiamo trovato... e questo disco...
hanno qualcosa a che vedere con quello che è successo.— Vàlen poteva sentire ancora echeggiare nella
propria mente le poche parole che quello strano oggetto gli aveva rivolto.
Dopo un istante di pausa, Tòret chiese piano, non rivolto a nessuno in particolare, —E adesso... e adesso
cosa facciamo?—
Era una domanda difficile, alla quale seguì un silenzio talmente denso da essere palpabile. L’operoso e
rigoglioso villaggio era annientato; nemmeno il vento sembrava voler turbare il riposo di coloro che
giacevano lì, per sempre. Vàlen guardava quello che rimaneva della sua casa, immobile. E cosa c’era da
fare? Niente. Nemmeno seppellire i loro amici, e i loro cari.
Hellis aveva bisogno di una risposta ad una domanda molto pressante. Non poteva parlarne ai suoi
compagni, non ancora, ma era certo che le sue parole sarebbero state ascoltate. Inoltre, i suo i compagni
avevano bisogno di conforto adesso, e di uno scopo, un qualsiasi obiettivo che andasse oltre il rimanere lì.
—Dobbiamo andare a SàiVod.— disse a voce alta. —Il Reggente deve essere informato di quanto è
successo qui. Ma soprattutto, dobbiamo chiamare i sacerdoti affinché benedicano i resti di questo villaggio:
abbiamo questo ultimo dovere nei confronti di chi ha perso la vita. Inoltre, forse qualcuno alla Casa di
DàganSén saprà dirci qualcosa sulla lente e sulla grotta.—
Quindi i suoi occhi azzurro ghiaccio puntarono dritti su Tòret. Il guerriero gonfiò il petto, inspirando
profondamente. —Sì— disse scuotendo con quel suono il proprio animo. —Non ha senso stare qui. Fra
l’altro è pericoloso, i goblin potrebbero tornare, e non solo loro. Vàlen?—
Il mago guardò tristemente in basso, e chiuse gli occhi. Poi riprese fiato. —Hai ragione, amico mio.—
Trellin si sentiva escluso dalla conversazione fra i tre; forse pensavano che la faccenda non lo riguardasse
affatto, ma aveva un grosso debito con Vàlen; non voleva lasciarlo solo in un momento come questo.
Inoltre, il territorio di FòrKép, e di SàiVod, confinava con il suo. C’erano molte comunità elfe nella zona, e
doveva assolutamente sapere cosa stava succedendo; aveva la precisa sensazione che si trattasse di un
pericolo che non avrebbe coinvolto solo gli umani.
Vedendo che suo padre stava cercando le parole adatte ad iniziare un discorso, Talya lo guardò come per
ammonirlo più che per supplicarlo. Ma lui fece finta di non accorgersene, e disse: —Vi accompagneremo:
è di strada. E poi, se quel disco di vetro che abbiamo trovato è importante,— sorrise impercettibilmente,
—non voglio lasciarvi tutta la gloria.—
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La principessa si girò verso suo padre, rivolgendogli uno sguardo che avrebbe incenerito una foresta.
Questi, che doveva essere molto allenato, la ignorò con noncuranza.
Avevano quasi finito di smontare il campo. Vàlen era già pronto e stava seduto con le ginocchia fra le
braccia accanto al suo cavallo, guardando malinconicamente le rovine. Talya si era avvicinata con fare
distratto, osservando disinteressata i sassi, gli arbusti e le foglie che stavano attorno al ragazzo. Ad un
certo punto, dopo qualche esitazione, si sedette vicino a lui guardando quello che restava del villaggio.
—Vàlen...— esordì incerta, mentre cercava le parole, —...Mi dispiace.—
—Anche a me, Vostra Altezza.— disse calmo il ragazzo. Se non si fosse sentito così triste, si sarebbe
stupito per il comportamento dell’elfa. Talya si morse delicatamente il labbro, essendosi accorta di non
aver detto nulla di quello che aveva realmente intenzione di dire, sapendo che qualsiasi cosa avrebbe detto
sarebbe stata inutile per confortare Vàlen. Ma, in fondo, perché avrebbe dovuto confortare un umano?
—Sai? Anche io ho perso mia madre.— cercò di continuare. Il mago pensò debolmente che, per essere
un’elfa, quella ragazza aveva proprio la delicatezza di un toro. Ma aveva voglia di parlare, quindi si sforzò
di non intristirsi.
—Davvero? E come hai fatto ad andare avanti?—
—All’inizio, pensavo che sarei morta anch’io. Poi, dopo un po’ di tempo, mi sono rassegnata a vivere
senza di lei.—
—E... quanto tempo fa è stato?—
—Circa centoventi anni.—
Sul volto di Vàlen comparve il suo sorriso più malinconico. —Non credo che avrò centoventi anni per
dimenticare.— Talya sorrise a sua volta, sorpresa dalla forza d’animo del ragazzo.
Ci fu qualche istante di silenzio, nel quale la tensione emotiva crebbe. Talya osservò discretamente Vàlen,
scorgendo in lui il triste dolore di una vita di ricordi che stava rapidamente passando davanti ai suoi occhi.
Doveva dire qualcosa.
—Sai? Io posso sentire la tua magia.—
Il salto di argomento era stridente, ma il ragazzo fu grato di avere qualcosa a cui pensare che non
riguardasse la sua casa.
—Tutti gli elfi ne sono capaci.—
—Ma io la sento davvero Vàlen. Sai? Mio padre non mi ha mai insegnato niente di magia. Dice che è
pericolosa e che bisogna farla fare a chi la studia davvero.— Talya aveva nel cuore un sogno da tanto
tempo ed il ragazzo aveva già capito cosa la principessa stesse per chiedere.
—Tu sei un mago... hai studiato la magia.—
—Qualcosina, ogni tanto, la facciamo bene anche noi...—
—Vàlen...— ci fu una lunga pausa, mentre la ragazza cercava il coraggio di vincere centottant’anni di
pregiudizi, e quasi altrettanti di timidezza. —Vàlen, ti prego, insegnami la magia...—
Il ragazzo sorrise, allargandosi il volto fino al limite della risata. Talya si pentì immediatamente di aver
chiesto una cosa così assurda. Come poteva un ragazzino umano insegnare a lei qualcosa come la magia?
Come aveva fatto lei a pregarlo?..
Il sorriso del mago tornò alle sue normali proporzioni. —Ne riparliamo a SàiVod—
Mentre il giovane si alzava e si allontanava verso il cavallo sellato che lo attendeva, la principessina lo
guardava incredula e stupita. Quando ebbe assorbito l’idea che presto avrebbe imparato la magia, si alzò di
scatto ed andò a raggiungere gli altri.
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Capitolo 2
Il viaggio fra le foreste nella fresca mattina di primavera era stato abbastanza piacevole. In poche ore erano
arrivati nei pressi di SàiVòd, un piccolo borgo periferico; l’ultima vera città umana prima degli immensi
territori inesplorati della parte settentrionale del continente.
Il Kalédion del Nord era una colonia molto giovane. Il Sòllan, che ospita il regno del Kalédion del Sud è
una grande isola nel Canale di Ponente. Circa seicento anni prima, gli esploratori di Thàris (la città-stato
più imponente di tutto il SénKòden, il Continente Centrale) avevano scoperto quest’isola, distante quasi
cinquemila miglia dalle spiagge dell’Impero. Il Sòllan (Terra del Sole) era completamente disabitato, se
non per qualche gruppo di animali selvatici. Era relativamente povero di corsi d’acqua, ed il terreno non
pareva particolarmente fertile, ma Thàris volle comunque colonizzare l’isola. Questa si trova in una
posizione strategica di primario interesse: da un lato chiude il passaggio preferito ai pirati del Drenn verso
il Continente Centrale, e dall’altro si trova oltre i territori occupati dagli Elfi sulla terra ferma; l’Imperatore
di Thàris pensò che quella sarebbe stata una buona base per raggiungere le terre selvagge che si trovavano
nei continenti ad Ovest. Prima timidamente, poi in modo sempre più pesante, le navi dell’Impero solcarono
il Canale per raggiungere la nuova isola. Il Sòllan venne diviso in cinque principati, affidati a cinque nobili
che si erano ingraziati il favore dell’Imperatore. Questi voleva che l’isola (così distante) rimanesse in
qualche modo dipendente da Thàris, e dividerla tra cinque rivali, aveva pensato, poteva essere un modo per
tenere occupati i coloni. Ogni principe sarebbe stato troppo impegnato a mantenere le proprie terre contro
le mire degli altri per poter pensare di rendersi indipendente da Thàris; inoltre, l’Impero favorendo ora un
Principe, ora un altro, avrebbe potuto mantenere sotto il proprio controllo i vari governi che si fossero
imposti sull’isola.
Il sacrificio dei primi coloni fu grande: centinaia di navi approdarono sull’isola nel giro di due anni, e
vennero costruite le prime città. Come aveva previsto Thàris, aver affidato la terra a cinque principi senza
delineare confini e autorità precise, forzò i piccoli Stati che stavano nascendo a subire continue tensioni,
che a volte sfociavano in guerriglie. Come sempre, chi soffriva di più di questa situazione erano i coloni più
umili, che avevano abbandonato la loro casa in cerca di un luogo dove iniziare una nuova vita, ma si erano
trovati coinvolti nei litigi dei Principi.
Comunque, dopo circa trecento cinquant’anni dall’avvio della colonizzazione, la situazione si era
ampiamente stabilizzata. I confini erano stati tracciati, i principati battevano una propria moneta, avevano i
propri centri religiosi, culturali, artistici e una forza militare sempre crescente. Le lotte intestine si erano
quasi sopite: il prezzo da pagare per una campagna militare sbagliata sarebbe stato troppo alto.
Ma il peso di questo sviluppo era stato addossato interamente alla popolazione più povera. Mentre le classi
agiate commerciavano con l’Impero, o con gli altri regni al di là dell’oceano, e persino con i pirati Drennìt,
mentre i Principi ed i nobili passavano la loro vita a accumulare ricchezze esotiche nei loro palazzi, i
contadini continuavano a dissodare la terra arida, ad ammalarsi per i morbi endemici presenti nelle paludi e
nelle zone malsane, a vedere ricompensate con tasse inique i propri sacrifici.
Il malcontento crebbe, fino a quando, inevitabile come inevitabilmente segue l’incendio all’incuria del
guardiano, scoppiò la rivoluzione. Dapprima fu un manipolo di coraggiosi ad opporsi, ma il manipolo
crebbe di giorno in giorno, molto rapidamente, fino a diventare un esercito di uomini, donne, vecchi e
bambini disperati e senza più nulla da perdere. Si rifugiarono in una regione protetta da alte catene
montuose a nord dell’isola, la valle del Tébenel, dove il controllo dei Principi era meno stretto; all’inizio, i
Principi, occupati com’erano ad amministrare i loro tesori, non si preoccuparono molto. Ma quando tra le
file degli eserciti si scoprirono molti disertori, che andavano a raggiungere amici e parenti e si preparavano
a combattere, la questione si fece seria. E fu ancora più seria dal momento che quasi tutti i sacerdoti di
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DàganSén del Sòllan accorsero in massa a dare man forte ai ribelli. I Principi si accordarono e decisero di
intervenire per sedare la rivolta nel sangue.
In condizioni normali, le forze dei Principi sarebbero state sufficienti a schiacciare i ribelli, ma questi
avevano il vantaggio della posizione: erano arroccati su montagne impervie, ed essendo il Sòllan
prevalentemente pianeggiante, le truppe dei Principi non erano adeguatamente preparate a combattere su
quel tipo di terreno. In più, Thàris vedeva nella rivolta un modo per indebolire la posizione dei Principi, che
si era fatta troppo sicura, ultimamente. Anche se l’Imperatore non poteva schierarsi apertamente dalla
parte dei ribelli, le spie di Thàris si adoperarono in modo da insinuare un clima di sospetto reciproco tra i
nobili del Sòllan. Un ulteriore vantaggio per i ribelli era costituito dalla magia e dall’abilità in
combattimento dei fedeli di DàganSén.
Ma più determinante di tutti fu l’opera che i sacerdoti di ogni confessione svolsero nei principati. Per alcuni
anni, i chierici sostennero fattivamente la causa dei ribelli, al punto tale che si arrivò a nascondere il frutto
dei raccolti nei templi, affinché non andasse a finanziare ed a sfamare gli eserciti dei Principi.
Nonostante questo, le forze dei ribelli erano inferiori di venti a uno rispetto alle truppe nemiche; e la
maggior parte di uomini abili doveva combattere e coltivare le poche terre fertili strappate all’ambiente
impervio. Anche le donne dovettero impugnare le armi, ed i giovani di ambo i sessi, appena superata la
pubertà, dovevano aiutare (o spesso sostituire) i loro padri e le loro madri in battaglia.
Contro i ribelli si schierarono quasi tutti i maghi del Sòllan: i personaggi più influenti fra i maghi, infatti,
erano molti vicini ai Principi, ed inoltre ritenevano che la rivolta non potesse concludersi felicemente.
Gli scontri durarono cinque anni: da un lato i Principi non avevano mai sferrato un attacco deciso per
paura di scoprire il fianco verso gli altri regni del Sòllan, ma dall’altro la furia, la preparazione, la tenacia
dei ribelli aveva inflitto notevoli perdite a qualunque truppa si fosse avventurata tra le gole che chiudevano
la valle di Tébenel. E nascevano fortificazioni su ogni fianco delle montagne, mentre la parte fertile della
valle, vicino al mare, veniva dissodata e irrigata con la stessa caparbietà che caratterizzava i ribelli in
battaglia.
Dopo cinque anni di continue perdite, i Principi iniziarono a domandarsi se valesse la pena continuare a
combattere i ribelli. Thàris aveva ridotto il suo sostegno formale all’iniziativa dei Principi, accampando
scuse di varia natura, il cibo per gli eserciti scarseggiava, le casse di tutti gli stati si stavano svuotando, e
mentre le truppe ribelli combattevano per la sopravvivenza, i loro soldati combattevano solo per chi li
pagava più oro.
Del resto, la valle del Tébenel era una piccola regione a cavallo dei principati di Monasér di Vangàred; i
Principi di Bàshtél, Gandélnesht e Vòrdon avevano perso solo alcuni contadini, e durante questa guerra
stavano perdendo molto più di quanto avrebbero potuto rischiare lasciando in pace i ribelli. Quando fu
chiaro che questi ultimi avrebbero cessato le ostilità, i primi due dovettero desistere: avrebbero vinto, ma
questo lo sforzo li avrebbe resi vulnerabili nei confronti degli altri.
Così, i Principi del Sòllan ed il capo dei ribelli, il Sénedèl Zòrand Kàildém firmarono un accordo di non
belligeranza reciproca nella piazza di Bàyvil, il piccolo centro che era nato alla foce del Vàldelrév. Ogni
uomo ed ogni donna che aveva combattuto per la propria libertà e per la propria vita assistette alla firma
del documento; e quando il Principe Gonedél I di Vangàred disse: —Questa terra ora è vostra. Come
volete chiamarla?—, dalla piazza si levò a una voce sola alto nel cielo il grido: —Kalédion!—
La Terra della Libertà.
Zòrand Kàildém venne nominato a furor di popolo Re Zòrand I, e gli uomini e le donne che avevano
lottato con maggiore onore furono nominati nobili; ma prima, strinsero con il popolo un patto che non
aveva precedenti su Pitermòs: ognuno di loro si impegnava a proteggere e servire l’ultimo Kalédionìt a
costo della propria vita. Se così non fosse stato, ogni suddito avrebbe avuto il diritto e il dovere di
denunciare agli altri nobili le mancanze del suo Signore. Infrangere il patto avrebbe significato la pena di
morte anche per il re. E così fu fino ai giorni nostri.
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Il regno crebbe velocemente nei trecento che seguirono. Zòrand I governò ed amministrò con giustizia, ed
i suoi successori resero sempre più prospero il piccolo Kalédion. Il regno attirò da Thàris molti Tensìt, gli
alchimisti votati all’arte della creazione di congegni meccanici; seppure alcuni maghi avessero raggiunto i
combattenti durante la ribellione, il loro tradimento generalizzato aveva influenzato profondamente lo stile
di vita dei ribelli, che avevano dovuto sostituire con l’ingegno ciò che prima veniva fornito grazie alla
magia. Per questo motivo, il regno aveva stanziato fondi rilevanti per le sue modeste finanze in favore delle
ricerche dei tensìt. Bayvil si era dotata di un’importante scuola di alchimia; presto nuove tecniche di
coltivazione, di pesca, di irrigazione e di allevamento avevano elevato il tenore di vita dei cittadini del
Kalédion al di sopra di ogni altra nazione umana. In trecento anni, anche grazie all’immigrazione
proveniente da ogni parte del mondo, la popolazione era passata da poco più di ventimila persone a più di
ottocentomila abitanti.
E fu per questo motivo che, primo tra i reami del Sòllan, il Kalédion rivolse lo sguardo oltre il mare, sulla
terra ferma. La sponda più vicina del continente dista circa ottanta miglia dall’isola, ma non era la distanza
a tenere lontano gli umani. I territori della costa del continente erano testimoni da secoli, forse da millenni,
di una eterna contesa tra gli Elfi più agguerriti e le creature bestiali che abitavano la terra primigenia.
Mostri sanguinari e violenti che avevano smembrato qualunque visitatore, tranne quei pochi che erano
tornati per raccontare i massacri a cui avevano assistito. E cosa ci fosse oltre la costa... nessuno lo sapeva.
Ma il Kalédion, stretto tra un pericolo ancestrale e la morsa di uno sviluppo senza pari nella storia di
Pirtermòs, nato dal coraggio della disperazione, era pronto per tentare l’impresa. E così fu. Più che una
colonizzazione, si era trattata di una invasione massiccia. Le bestie erano arretrate di fronte alla forza e
all’intelligenza degli umani, ma non erano mai state sconfitte. Gli Elfi, i cui territori confinavano con la
zona scelta dai Kalédionit per tentare la colonizzazione, si erano dimostrati amichevoli, o per lo meno non
aggressivi: i forti umani del Regno della Libertà si erano rivelati leali con loro, e stavano avendo dei
successi nel tenere lontano i mostri dai loro territori; per questo motivo, di tanto in tanto, gli Elfi
arrivarono persino ad aiutare gli umani.
In cinquant’anni il Kalédion del nord aveva visto la nascita di quattro città: KalédionSàl, il porto sulle rive
del Vìtrrév, il Fiume Bianco, che era la città più importante. Era lì che si erano insediati i primi coloni, e da
lì partivano le navi per la Madre Patria. Mìtton era al centro di una vasta brughiera, e serviva come nodo di
comunicazione verso Risfél, ai piedi delle colline argentifere dell’ovest. Quindi veniva SàiVòd, il Bosco dei
Cieli, a metà del corso del Fiume Bianco; su Pitermòs, la città umana più vicina al territorio degli Elfi.
Ora Sàivòd compariva ai piedi di una bassa collina. In lontananza si potevano vedere le mura della
cittadina; erano smaltate di bianco, a forma di una complessa figura geometrica con innumerevoli lati. Ad
ogni vertice, una torre guardava la radura, e più in là, la foresta. Non erano delle vere e proprie mura
difensive; non dovevano proteggere la città dagli eserciti, ma solo dalle belve e dalle creature che ancora
infestavano numerose la zona. I tetti delle torri erano circolari e dorati. Quelli che si intravedevano oltre le
mura, invece, erano di tegole rosse o di colore ocra, e lasciavano supporre una città ben ordinata e
costruita solidamente.
SàiVòd non era una città ricca; grazie al legno dei resinosi abeti che si trovavano nelle foreste circostanti,
gli abitanti della zona guadagnavano abbastanza per vivere decorosamente. Infatti, la città doveva il suo
nome alla qualità del legname e del carbone, che erano già famosi in tutto il mondo per il calore e la luce
che sprigionavano; le leggende narravano che fossero stati gli stessi dei a benedire quelle foreste. E proprio
a questo stava pensando Trellin: quelle erano le sue foreste. Vi avrebbe regnato fra cento anni, quando il
periodo di regno di suo padre fosse giunto al termine. Il VìtRèv, che da secoli era quello che gli Elfi delle
Foreste consideravano il confine delle loro terre, divideva in due la città umana; metà SàiVòd era in
territorio elfo. Il principe osservò cupo i campi coltivati che separavano le mura dai primi alberi; la radura
nella quale giaceva la città era una ferita molto dolorosa, per la foresta.
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Attraversarono rapidamente le coltivazioni mentre gli instancabili contadini lavoravano nel sudore, e
giunsero presto davanti al Cancello della Sera. Dall’alto della piccola fortificazione che proteggeva
l’ingresso, due soldati coperti da una corazza di maglie splendente, ornata con l’emblema del Kalédion sul
petto, chiesero quali fossero i loro affari in città. I Kaledionìt sono gente cordiale, ma molto sospettosa.
Rispose Vàlen: —Cerchiamo il priore Sémel. Dovremmo discutere con lui di alcune faccende molto
urgenti...—
—E qual’è il nome del giovane straniero che vuole discutere con il priore?—
Il ragazzo abbassò il cappuccio, scoprendosi il volto.
—Il mio nome è Vàlen EmelFèl.—
—Non abbiamo mai sentito parlare di te, giovane straniero. Nessuno di voi è un cittadino, e potreste essere
degli intrusi. Quali garanzie ci date?—
Vàlen si calò di nuovo il cappuccio sul volto e recitò a bassa voce le parole di un incantesimo. La luce della
sua forza era invisibile nel giorno e soltanto Talya ed Hellis si accorsero del potere che stava muovendo;
Vàlen, seppur giovane, era già molto abile, e quando voleva riusciva a fare poco rumore. Appena ebbe
finito di recitare le parole, apparve alle spalle delle guardie la figura di un possente guerriero che indossava
una splendente corazza di piastre dorata di ricami preziosi. I segni sull’armatura indicavano il grado di
comandante. Era la perfetta immagine di Lìon ShtìcosTèl, il Reggente di SàiVòd. L’illusione Disse
semplicemente: —Lasciateli passare, sono amici miei.—
Le due guardie scattarono sugli attenti. Nel mentre, il gruppetto guidò i propri cavalli oltre il cancello.
La città era semplice, ma pulita e ben curata; gli edifici erano recenti, e gli abitanti si erano prodigati per
mantenerli in perfetto stato. Le strade erano lastricate di pietra serena, e le case erano di solida roccia;
alcune abitazioni avevano il piano superiore in mattoni di argilla, altre in legno. Comunque, tutte le case
erano disposte ordinatamente ed ornate da piccole statue e coloratissimi vasi di fiori, ed alcune avevano
anche un piccolo giardinetto, nel quale spiccavano alberi fioriti che emanavano un profumo delicato. Le
strade che attraversavano erano piene di vita, di grida, di odori. Quella era l’ora della lezione, nella quale le
madri Kalédionìt impartivano ai figli alcune nozioni elementari. Le lezioni si tenevano all’aria aperta,
quando il tempo lo permetteva, ed in questo momento i giardini delle case erano affollati di bambini curiosi
sulla vita e di madri che spiegavano loro i primi misteri: alcuni simboli della scrittura, sommare i numeri,
contare; in un giardino una madre intratteneva i suoi due figli raccontando loro della guerra di secessione.
A Vàlen sembrava che tutte quelle madri assomigliassero alla sua; si scrollò di dosso la tristezza, ma non
senza una pesante difficoltà.
Anche Hellis osservava la scena. Era originario di un villaggio vicino a Thàris, la capitale dell’Impero;
trovava affascinante il rapporto tra genitori e figli nel Kalédion. Nel resto del mondo, per quanto aveva
potuto vedere, i figli venivano istruiti da maestri, in istituti, scuole o quantomeno botteghe artigiane... se la
famiglia poteva permetterselo. Hellis aveva già visitato quella Nazione, e sapeva che, a quell’ora, i ragazzi
più grandi stavano assieme ai padri, per imparare la loro professione o altre cose che questi potevano
insegnare. Aveva ormai cristallizzato un’immagine nitida del rapporto genitori-figli nel Kalédion: i genitori
coltivavano i loro frutti, per farli diventare maturi. Questo era il centro della loro vita.
Più avanti, verso il centro della cittadina, i commercianti e gli artigiani erano all’opera. In alcune botteghe
si scambiavano carichi di legname contro oro o altre merci; in altre preziose statuette venivano intagliate in
legni pregiati. Mobili ricchi di intarsi ammiccavano da dentro le botteghe più grandi. In alcune, i padri
insegnavano pazientemente il proprio mestiere ai figli.
Nella piazza della centrale c’era una grande attività: era giorno di mercato. Si vedevano tende colorate su
tutta la piazza e le voci dei mercanti risuonavano assieme a quelle degli acquirenti. Qua e là si sentivano
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clienti truffati che urlavano, contrattazioni sul prezzo di quel tessuto o di questo profumo. Vàlen sorrise
nel vedere la scena.
L’attraversamento della piazza non fu facile. Dovettero lasciare i cavalli alla barra che si trovava nel viale
davanti al mercato. Talya si sentiva male in mezzo all’umanità della piazza: in tutta la sua vita non aveva
mai visto nessun posto talmente disordinato! Neanche un banchetto di lupi era così cruento. Si aggrappò
stretta a suo padre, tenendo gli occhi chiusi e calandosi i capelli sugli orecchi per cercare di non far capire
quale fosse la sua razza; aveva paura di essere sola fra gli uomini. Anche a suo padre tutto questo non
piaceva, ma lui era stato abbastanza a contatto con gli umani da sapere che per loro la confusione non è
qualcosa di strano.
La Casa era una semplice costruzione di pietra ma i dettagli rivelavano che, anche se era stata costruita
velocemente, vi era stata messa una certa cura. Non era un luogo di culto: ogni fedele di DàganSén è una
cattedrale; era solo un punto di incontro, dove trovare sempre un sacerdote disponibile, o un alloggio
temporaneo per i viandanti meno facoltosi. Era anche un centro culturale, dove la gente poteva recarsi per
discutere, scambiare le proprie esperienze, imparare dai colti sacerdoti di DàganSén.
Superato il portale, i cinque si trovarono in un grande ambiente a pianta quadrata, con il lato di quindici
metri e un soffitto a volta che partiva da sei metri di altezza e culminava in un lucernario a circa dieci metri
dal suolo. Strette feritoie regolari facevano filtrare una luce soffusa che lasciava alcune parti della sala in
penombra. Il pavimento aveva una decisa inclinazione verso il basso; attraversando file di panche
digradanti, il corridoio conduceva ad un area centrale in piano, un quadrato di cinque metri di lato, che
serviva come luogo di incontro. Una volta ogni sei giorni, i sacerdoti invitavano i fedeli a sedersi sulle
panche e inscenavano piccole recite che avevano ad oggetto la vita di DàganSén e dei suoi discepoli,
recitavano i testi delle Scritture, oppure raccontavano di avvenimenti significativi nella storia di Pitermòs.
Alle volte, si parlava anche di avvenimenti recenti, persino dei problemi della comunità; in certe occasioni,
la Casa diventava una specie di “parlamento” dove tutti erano invitati a prendere la parola e a dire la
propria sulle questioni locali, sotto la vigilanza dei sacerdoti che garantivano che la discussione fosse
equilibrata. Quando le faccende da discutere erano molte, le riunioni avvenivano più spesso, in casi estremi
anche tutti i giorni, o più volte al giorno. In questo modo, i sacerdoti di DàganSén assumevano un ruolo
molto attivo e importante nella vita delle comunità, in veste di consiglieri e mediatori.
La Casa era affollata come sempre, ma la gente, divisa in piccoli gruppi, parlava sommessamente. Alcuni
pregavano in angoli discreti e poco illuminati, altri discutevano sottovoce. In quel momento c’era un solo
sacerdote nella sala; era una figura incappucciata che vestiva un saio di lana grezza, ed era inginocchiato in
silenzio in un luogo appartato. Vàlen gli si accostò e toccò con delicatezza la sua spalla; dopo alcuni istanti
questi alzò il volto rivolgendosi al suo interlocutore.
—Come posso aiutarti, giovane?— chiese. Era un volto sereno e disteso, ormai nel crepuscolo degli anni.
—Avremmo urgenza di parlare con il priore Sémel.—
—Fratello Sémel sarà lieto di ricevervi.— rispose con tono gentile. —Aspettate di essere convocati.—
L’uomo si alzò senza aggiungere altro e si diresse verso una porta che conduceva all'area riservata ai
sacerdoti.
Nel mentre, Tòret si era allontanato, per appartarsi in un angolo della Casa. Un panchetto imbottito stava
davanti ad una specie di cabina di legno, appoggiata ad una parete del perimetro. Di fronte
all’inginocchiatoio, un poco riparato dal legno laccato che faceva da scudo per quell’intima alcova, era
dipinto un grande drago dorato attorcigliato come un serpente: era il simbolo della preghiera e della
riflessione. Tòret si inginocchiò con delicatezza, facendo in modo che il proprio peso non facesse
scricchiolare il legno, congiunse le proprie mani, chiuse gli occhi e pregò.
“DàganSén... É da molto che tu ed io non parliamo, vero?”
Qualcosa nella sua anima si mosse; un lontano fremito o forse solo una fuggevole ombra.
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“Non ho l’arroganza di chiederti qualcosa per me. Non sono un buon fedele, e non mi merito nulla della
tua immensa misericordia... Ma ti prego; ascoltami lo stesso...”
Quella consapevolezza era ora più vicina. Qualcosa era in lui, ed ascoltava le sue parole. Tòret, conscio
della vicinanza del dio cercò di meditare più a fondo...
“Io non sono qui per chiederti aiuto. Non ti... disturberò con le mie lamentele o le mie... Beh, insomma,
questa é una preghiera, ma io non voglio pregarti, cioè non voglio però ti prego... O grande Dio Dei
Draghi...”
L’ombra in lui tremolò flebile come mossa da una candela; non lenta come se si annoiasse, ma col ritmo di
un uomo che ride.
“Hai ragione, forse sono solo un povero sciocco, non so parlare ad un dio.”
La presenza si fermò, e Tòret la sentì più vicina, più intima.
“Io ti prego, DàganSén. Accompagna papà e mamma. Io non sono un degno, ma loro ti hanno sempre
pregato e servito, erano buoni... Non meritavano quella morte. Ma se tu non hai voluto salvarli, almeno
dai loro la pace eterna.”
L’ombra mutò impercettibilmente, e per qualche fugace momento, nella mente del grande guerriero
apparvero i volti dei suoi genitori, felici e sereni come nei giorni di sole. La presenza in lui lo sfiorò e
l’emozione travolse come un torrente, facendo tremare le sue labbra ed i suoi occhi.
—Trott...— lo chiamò con delicatezza Vàlen. Il guerriero si destò, con gli occhi lucidi. Un giovane
sacerdote aspettava che il gruppo lo seguisse, vicino ad una porta poco distante. Tòret si rivolse al simbolo
dipinto davanti a lui e sussurrò mentre si alzava ancora emozionato, ma sorridente: —Grazie, Vecchio
Drago.—
Forse fu un’impressione, ma a Tòret sembrò proprio che quell’immagine si fosse mossa. Ma non era certo
possibile che il disegno di un drago gli avesse fatto l’occhiolino...
Attraversarono alcuni corridoi e si trovarono in una stanza con un lungo tavolo al quale erano seduti otto
sacerdoti. Quello a capotavola disse: —Sono Kàlen Sémel. Qual’è il motivo per cui cercate il mio aiuto,
giovane uomo?—
—Il mio nome è Vàlen ÈmelFél e questi sono i miei compagni: il principe TérellinSélandaset degli Elfi
delle Foreste; questa sua figlia TalyaSamilìsa.—
Gli uomini seduti sgranarono gli occhi; non era facile vedere gli Elfi... Elfi così importanti, poi! Ma Valen
continuò senza permettere loro di dare troppo peso alla cosa: —Costui è Hellis Falès, sacerdote di
ShtàrRésel ed egli è Tòret Vàrgas. Il motivo che ci spinge a cercare il vostro aiuto è questo...—
Da una delle sue tasche, fece comparire il disco che avevano trovato nella caverna luminosa. Si avvicinò al
tavolo e porse l’oggetto al priore. Si levarono sommessi mormorii, mentre i sacerdoti si chinavano a
sussurrare ognuno al proprio vicino. Sémel guardò quell’oggetto di vetro con stupore, prendendolo poi
con diffidenza fra le mani, per osservarlo meglio. Chiese: —Di che cosa si tratta?—
—Eravamo di ritorno da un viaggio. Stavamo tornando a FòrKép...— abbassò lo sguardo per un instante,
sospirando, e poi continuò: —... stavamo per giungere a destinazione. Lungo la strada abbiamo trovato
una caverna che nessuno si ricordava di aver visto; dal suo interno proveniva una luce che non aveva nulla
di naturale, così siamo entrati per capire cosa fosse quel luogo. Poco distante dall’ingresso abbiamo
trovato un altare con sopra quel disco, e lo abbiamo preso. Quando ci siamo allontanati, mi sono girato e la
grotta era scomparsa.—
Dopo un attimo di dubbio il priore parve come impressionato da ciò che aveva tra le mani. Iniziò a parlare
nella Lingua Antica. Hellis si accorse che si trattava della frase incisa sul disco; appena il prelato ebbe finito
la frase, il disco si illuminò rischiarando la stanza dalla penombra. Dunque, posò delicatamente il disco sul
tavolo.
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—Credo che sia una Lampada di DàganSén. Nessuno ne sa molto, ma la leggenda narra che DàganSén
stesso le abbia create per farne dono ai suoi discepoli.— asserì il priore. La luce del disco di vetro
conferiva al volto di Sémel una perfezione metallica. Un volto umano rischiarato da quella luce divina.
Nessuno si mosse. Nessuno parlò. Un istante eterno di silenzio. Poi Sémel toccò il disco e la luce si spense.
I sacerdoti attorno a lui facevano andare lo sguardo dal disco al suo viso, e poi a quello del ragazzo. A
tutti loro pareva difficile che una reliquia tanto antica fosse lì davanti a loro, semplicemente “ritrovata”,
anche se in circostanze misteriose, da quel ragazzo. Un sacerdote di DàganSén sa distinguere un fedele
devoto alla prima occhiata, e per certo, quell'ÈmelFél non lo era.
Un dolore, una feroce fitta voleva spaccare il petto di Vàlen, mentre il ragazzo lottava per mantenere il
controllo di se stesso. Avendo preso fiato ed contato fino a dieci, Vàlen aggiunse: —C’è un altro
particolare.— I suoi occhi divennero come duri come il diamante mentre pronunciava le parole: —FòrKép
non esiste più.—
I chierici seduti attorno al tavolo guardarono scioccati ed ammutoliti il giovane mago, increduli e adirati,
poiché credevano che il ragazzo si stesse prendendo gioco di loro. E chi non lo avrebbe creduto?
Ma gli occhi di Vàlen erano gonfi, e anche Tòret, imponente e terribile, aveva lo sguardo rivolto verso il
basso. Gli Elfi avevano un'espressione indecifrabile, ma ai sacerdoti di DàganSén bastò un solo sguardo
rivolto al chierico di ShtàrRésel per comprendere che il ragazzo diceva il vero.
Molti di loro sbiancarono. La gente di FòrKép era conosciuta a SàiVòd; molti in città avevano parenti nel
villaggio, e moti abitanti di FòrKép, soprattutto i militari della guarnigione, andavano e venivano
costantemente. Uno dei sacerdoti, un ragazzo al di sotto dei trent'anni, si alzò in piedi, pallido, e chiese:
—Cosa è successo?—
—È stata una stella caduta dal cielo. Deve essere stato molto prima che trovassimo il disco; non eravamo
molto lontani allora. Io però credo che le due cose siano correlate.—
Il giovane sacerdote si sedette, chiedendo con un filo di voce: —Si è salvato nessuno?—
Vàlen tacque.
—Non è possibile...— disse piano il ragazzo, rivolto a se stesso, —mio zio, il fratello di mio padre... aveva
tre figli, uno è nato il mese scorso...—
Un sacerdote più anziano, di fianco a lui lo abbracciò, e il giovane nascose il volto nella sua tunica,
singhiozzando. Gli altri rimasero in silenzio.
Dopo aver assorbito la notizia, e aver sospirato profondamente, il priore Sémel parlò.
—So per certo che gli dei non hanno deciso la distruzione di un villaggio di persone innocenti. Tuttavia
credo di essere della vostra stessa opinione quando dite che la Lente deve avere qualcosa a che fare con
ciò che è successo... Non esiste nessuna possibilità che due eventi tanto singolari siano capitati nello stesso
giorno per pura coincidenza. Diffonderemo la notizia...— lo sguardo dell’anziano si posò con dolcezza
paterna sul ragazzo, —... e andremo a benedire ciò che resta e a pregare per coloro che ci hanno lasciato.
—
Cercando di mantenere la voce ferma, Vàlen rispose: —Grazie, Padre.—
Tòret non amava troppo le persone importanti. Nella sua pur breve vita, ne aveva viste già troppe. Se ne
stava in disparte, più indietro di tutti, come se lui, che di solito avrebbe difeso fino alla morte i suoi amici,
adesso avesse bisogno di essere protetto. Eppure, non era questo che gli faceva solleticare i nervi del
collo... Era forse stato quel guizzo nella mascella dell’alto prelato? Era forse stata la sua misurata calma
nell’ascoltare il ragazzo?
—Ti chiedo un favore figliolo.— disse il priore, passando ad un tono più caldo e convenzionale, —Puoi
avvertire tu il nostro reggente? Io vorrei recarmi subito sul luogo della tragedia per adempiere ai miei
doveri, senza indugio, ed è meglio che sia una persona che ha visto ciò che è successo a riferire
dell’accaduto.—
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—Sì, lo faremo noi. Ma vi chiedo: pregate per mia madre. Il suo nome è... era Lìan.—
—Ti prometto che sarà la prima persona per cui pregherò, giovane ÈmelFél.—
Sémel si alzò lentamente, ed assieme a lui si alzarono gli altri chierici seduti al tavolo.
—Ti auguro che il destino che ti è riservato sia felice, d'ora in poi. E spero di incontrarti ancora, in un
momento in cui il tuo cuore sia colmo di gioia. Arrivederci, Vàlen ÈmelFél.—
Il saluto colpì il ragazzo come, in quella momento, avrebbe potuto fare una carezza di sua madre.
I sacerdoti abbandonarono la sala, dirigendosi verso l'interno dell'edificio. Vàlen si girò verso i suoi
compagni, ma mentre stava per invitarli ad uscire si sentì come pungere dietro al collo. Si girò di scatto. La
lente giaceva sul tavolo, abbandonata, illuminata da un bagliore appena percettibile. Il ragazzo girò attorno
al tavolo ora vuoto e sollevò la lente fra due dita. Perché era stata lasciata lì? Beh, in un certo senso si
poteva dire che fosse “sua”. Valen la osservò in controluce, quasi come a voler scrutare un qualche segno
di cambiamento, ma il debole bagliore si spense, lasciandogli nella mente solo un vago senso di
inquietudine. —Andiamo.— disse più perentorio di quanto non volesse essere, mentre già si muoveva
verso i suoi compagni e l'uscita, riponendo in una tasca la lente.
Uscirono dalla Casa nel calore del primo pomeriggio e Vàlen si accorse di avere fame. Discutendo con gli
altri, propose di andare a mangiare in una locanda, ma Trellin e sua figlia decisero che non sarebbero mai
entrati in un posto così squallido (a dire il vero avevano usato la parola “umano”). Li avrebbero aspettati
gradinate del Palazzo del Reggente, anch'esso sulla piazza centrale, in attesa che gli altri avessero finito di
pranzare nella taverna di fronte.
L’insegna indicava: “Il Cane Selvatico”. Dall’esterno non sembrava un posto malvagio, almeno secondo
Tòret. Anche Vàlen dovette concordare che la facciata (a parte il nome disgustoso) non era assolutamente
male. E fu così che Hellis, Vàlen e Tòret si accorsero di come la gente di SàiVòd amasse l’esteriorità. Il
primo gradino di legno che immetteva nella sala, poco più bassa del livello della strada, si incrinò sotto il
peso del guerriero. Questi fece finta di nulla e appoggiò quel tronco che aveva per gamba sul pavimento,
saltando l’altro gradino. Nella taverna aleggiava un pungente odore di birra stagionata (forse un po’ troppo
poco birra ed un po’ troppo stagionata), e seduti davanti a delle assi di legno unite per formare qualcosa
chiamato “tavolo” stavano dei loschi individui intenti a divorare rumorosamente qualcosa che avevano nel
piatto. Si sedettero ad un “tavolo” vuoto e subito l’oste accorse con un sorriso. L’oste in se’ non era male;
era un uomo di mezza età e di media altezza, con diversi capelli grigi ma un con volto giovanile ed aperto.
Era il sorriso, munito di circa venti denti, che lasciava un poco a desiderare. Alla domanda retorica —Che
cosa posso fare per voi?— Vàlen voleva rispondere con un sonoro —Ci può indicare una locanda decente?
— ma poi si trattenne ed optò per un meno sarcastico —Forse potrebbe portarci qualcosa che siamo in
grado di mangiare?—
L’ oste rispose allegramente: —Dipende da cosa intendete per "mangiare"— e si allontanò ridacchiando
verso la cucina. Vàlen disse a bassa voce: —Il nostro oste ha del talento!— ed Hellis rispose: —Hai
trovato qualcuno più “ironico” di te!—
Mentre mangiavano, due persone si sedettero al loro stesso tavolo (strano, pensò Vàlen, visto che la
locanda era vuota) ed iniziarono una conversazione pacata.
Tòret aveva un’aria pensosa da quando erano usciti dalla Casa di DàganSén. Era un’espressione così
insolita sul volto del suo amico, pensava Vàlen mentre assaggiava la zuppa che aveva davanti che, doveva
ammettere, non era poi così male.
—Qualcosa non va?— domandò Vàlen all'amico.
—Il priore.— rispose pensieroso e preoccupato Tòret. Il giovane mago sgranò gli occhi per la sorpresa, ed
anche Hellis, intento a consumare il suo pasto, alzò il volto per guardare il guerriero.
—Cosa intendi?—
—Val, forse eri troppo impegnato per accorgertene, ma il priore non era sorpreso.—
—Vai avanti...—
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—Abbiamo portato davanti ai suoi occhi un oggetto che può avere duemila e più anni. Gli abbiamo anche
detto che cosa é successo stanotte... eppure Sémel non era sorpreso.—
Il mago non capiva perfettamente dove volesse arrivare il suo amico, ma si sforzò di accettare per un
attimo l’idea che quella persona che gli aveva dato così tanta speranza avesse qualcosa di... strano...
Trott era una persona semplice, ma proprio per questo non era facile ingannarlo. Senza preconcetti, senza
barriere mentali, senza stili ferrei di pensiero, Tòret era capace di leggere il cuore delle persone alla prima
occhiata, e Vàlen lo sapeva; aveva imparato a fidarsi dell’istinto del suo amico.
—Continua...— lo esortò Hellis, che aveva dimenticato il proprio pranzo. I suoi occhi azzurri erano
puntati sul giovane guerriero, e questo lo metteva terribilmente a disagio.
—Vedi, Hellis... tutti gli altri là dentro erano così agitati quando siamo arrivati... quando Val ha parlato.
Ma non lui. Per un piccolo istante mi è sembrato quasi... irritato, ecco...—
Il maturo sacerdote si spostò leggermente indietro, adagiandosi sulla sedia. Un movimento pacato. A
Vàlen ricordò un comandante che si siede per analizzare un piano, prima della battaglia; era un’espressione
che non aveva mai visto sul volto di Hellis.
Vàlen e gli altri pagarono il simpatico oste ed uscirono dalla locanda per andare a raggiungere i due elfi che
li aspettavano sotto al porticato della Casa del Reggente. Il principe era seduto sui primi gradini, con la
schiena appoggiata sulla colonna e sua figlia gli stava teneramente in braccio. A degli occhi inesperti, quei
due sarebbero potuti sembrare due giovani sposi: gli elfi hanno sempre un aspetto giovanile. Trellin aveva
l’aria di essere assonnato; mentre i tre uomini si avvicinavano Talya alzò lo sguardo come se li stesse
vedendo per la prima volta.
Vàlen esordì, questa volta con aria neutra, senza sarcasmo: —Siete dolcissimi; però dobbiamo proprio
andare.—
Talya si girò verso suo padre, senza parlare, e i due si alzarono insieme.
Il Palazzo del Reggente non era particolarmente imponente. Come tutto il resto della città era nuovo,
modesto, funzionale, pulito e soprattutto costruito in fretta. Una navigata guardia accolse Vàlen
all’ingresso, impedendogli di proseguire oltre. Intimò: —Straniero, ferma il tuo passo e dichiara le tue
intenzioni!— usando una retorica formula che ormai non veniva usata neanche alla corte reale di Forte
Kalédion.
Vàlen si rese improvvisamente conto che non aveva voglia ripetere ancora quello che era successo al suo
villaggio. Senza riflettere più di tanto, il ragazzo rispose: —Il mio amico Hellis Falès, Sacerdote della
Chiesa di ShtàrRésel ha un messaggio della massima urgenza da recapitare al Reggente ShtìcosTèl.—
Hellis sussultò per l’improvviso cambiamento di programma, ma afferrò al volo la situazione e si avviò
lungo un buio corridoio, scortato dalla guardia. Trellin assunse un’aria interrogativa.
—Come mai hai fatto andare lui?—
—Ho delle cose diverse da fare...— mentì abilmente Vàlen. Subito gli venne in mente la promessa che
aveva fatto alla principessa. — ... Anzi,— disse guardandola, —abbiamo delle cose da fare. Non è
vero? —
—... Io... sì.—
Trellin osservò la figlia, improvvisamente adombrato, se non adirato.
—Cosa si è messo in testa questo ìlenaman?— chiese acido a Talya in elfico. Ìlenaman è uno dei termini
della lingua degli Elfi per “umano”, certamente non uno dei più cortesi.
—Va tutto bene, padre, gli avevo chiesto solo di...—
—Chiesto cosa? Cosa tu ti sei messa in testa?—
—Padre... Io ho solo chiesto a Vàlen di farmi vedere un po’ di magia...—
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Trellin tacque. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato. Per quanto gli Elfi delle Foreste avessero
abbandonato l’uso di quel potere che aveva causato profonde divisioni tra le loro antiche stirpi, Talya
aveva sangue di Sylvan nelle sue vene.
La ragazza conosceva molto bene suo padre, e sapeva che la sorpresa lo aveva destabilizzato; l’istante
sarebbe durato poco, e doveva approfittarne subito.
—Padre!— disse secca, affrontandolo il suo sguardo con sfida, —Tu mi hai portato lontano dalle nostre
terre per farmi vivere questa “avventura”. Ebbene, se proprio devo partecipare a tanta violenza, lascia
che mi prepari come si deve.—
Talya si girò scura in volto, ma dentro di se’ sorrideva: aveva prima stoccato e poi affondato, ed aveva
colpito nel segno. Vàlen, che aveva capito quasi tutto, non poté fare a meno di notare l’abilità della
principessa elfa: pensò che sarebbe stata una grande regina per il suo popolo.
Il ragazzo si rivolse agli altri: —Ci incontreremo davanti alla Porta della Sera, al tramonto.—
Ma non appena il giovane mago fece cenno di muoversi, si sentì strattonare; Trellin lo teneva per una
manica. Si avvicinò al mago e gli sussurrò: —Attento, — con l’aria di chi ha qualche strano sospetto in
mente, —se le succede qualcosa... qualsiasi cosa... io ti troverò. Ricordatelo!—
Vàlen sentì affiorare il suo solito sorriso e non poté fare nulla per fermarlo. Prima di riflettere aveva già
risposto: —Oh, non ti preoccupare! Ho una memoria perfetta.—
Talya aveva appena ultimato un leggiadro saltello di gioia, spiccato non appena i due si erano addentrati
nel bosco, sicuri di non essere spiati.
—Da che cosa cominciamo?— aveva chiesto con l’aria di una bambina che chiede quale regalo le è stato
fatto.
—Da una cosina semplice semplice!—
Vàlen era rimasto un poco sorpreso dalla calda reazione dell'elfa. Cominciava a pensare che avrebbe
dovuto dialogare con lei a domanda e risposta, e che la risposta sarebbe dovuta essere un sì o un no. Ma
sembrava che la ragazza fosse disposta a mettere da parte i propri pregiudizi, almeno per un po’.
Vàlen le si avvicinò dicendole: —Porgimi la mano destra...—
Talya fece come detto, ma quando il mago accennò a sfiorarla, la principessa ritrasse meccanicamente il
braccio. Il giovane mago le rivolse uno sguardo piuttosto categorico. Gli occhi di Talya assunsero per un
attimo l’aspetto di quelli di una cerbiatta spaventata...
Dopo qualche esitazione, Vàlen teneva con delicatezza la mano destra dell’elfa. A questo punto, il mago si
concentrò. L’aria iniziò a risplendere delicatamente attorno ai due, e Talya udì con chiarezza quel brivido,
quel rumore che contraddistingue la magia. Vàlen pronunciò con voce calma ma decisa una parola ed in
quel momento, l’immagine della radura si offuscò e sparì.
A Talya parve di sognare: una candela che bruciava in un luogo buio si spegneva, diventando fredda ma
senza che la sua luce diminuisse. Anzi, lentamente la luminosità aumentava, e più la candela era fredda, più
il bagliore era accecante. Presto non vi fu più la minima traccia di tepore e la luce invase tutto il suo campo
visivo. Improvvisamente, l’immagine cambiò: adesso era di nuovo nella radura, accanto a Vàlen; eppure
era un luogo diverso. Vedeva scoiattoli, fringuelli, una gazza che saltellava, una volpe che si era fermata
incuriosita a guardare. Sentiva il battito del cuore di Vàlen come un enorme tamburo, anzi sentiva il cuore
di tutti gli animali. E poteva capire le loro parole! E gli alberi: li vedeva, foglia per foglia, ed ogni foglia
parlava, e lei sentiva tutto!
Una vertigine la colse quando i segnali che la sua mente riceveva superarono la soglia del sopportabile; la
sua mente si adeguò riducendo e filtrando la massa di parole, versi, visioni che l’assalivano.
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Quindi, Talya vide Vàlen che si chinava per sfiorare una pietra che giaceva ai suoi piedi, ed ebbe la
spiacevole sensazione di sentire la tensione dei muscoli del ragazzo.
La visione cambiò ancora. Fu accecata dalla luce, che si andava concentrando, lasciando i bordi del campo
visivo liberi di scorgere la radura. All’improvviso, quando le dita di Vàlen toccarono il sasso, la luce si
mosse allontanandosi, come se il braccio del ragazzo fosse un canale ove la magia fluiva impetuosa.
La pietra si illuminò di un bagliore tenue e delicato. Quindi, il rumore della magia si placò, e con esso
sparirono all’istante tutte le sensazioni che avevano colpito la ragazza: la sua vista tornò quella di sempre.
L’elfa ebbe un altro capogiro, e si dovette appoggiare al mago per non cadere. Quindi si portò una mano
davanti agli occhi, li sfregò un poco e riprese l’equilibrio.
Vàlen guardò Talya, chiedendole: —Allora, tutto chiaro?—
—Ma...— La ragazza non aveva ancora assorbito lo shock dovuto a quella strana onniscienza.
—Oh, avanti, non è poi così difficile! Sono sicuro che hai già capito tutto. Sù... prova!—
—Io, veramente... Non credo di essere già pronta!—
—La magia, piccola principessa, è credere in se stessi. Se vuoi essere pronto lo sei. Se non pensi di essere
pronto, non lo sei. È così che funziona.—
La principessa osservava il giovane mago, senza capire a fondo le sue parole. Si sentiva un poco in
soggezione davanti a quel ragazzo umano, così sicuro di se’, così padrone del mondo. Vàlen continuò.
—Hai il dono, hai il potere, hai visto benissimo cosa ho fatto nella mia mente: ho creduto! Ho preso la mia
energia ed ho immaginato la luce, la pura idea di luce. L’ ho vista, nel sasso. Doveva essere così, e così è
stato! Questa é la magia.—
Vàlen rivolse un’occhiata eloquente alla pietra che splendeva a terra, brillando di una luce stranamente
"naturale".
Talya gonfiò il petto e si erse sulla schiena, riuscendo addirittura ad avere un aspetto sicuro. Chiuse gli
occhi e assunse un’aria concentrata. Vàlen non poté fare a meno di notare che non aveva
quell’atteggiamento imponente che ci si aspetterebbe da una maga mentre prepara un incantesimo;
sembrava piuttosto una bambina che cerca di farsi rispettare. Ma nonostante questo, era bellissima.
Il ragazzo sentì la magia muoversi attorno alla piccola Elfa. Una tenue luce la stava avvolgendo. Adesso
veniva la parte più difficile. Talya sollevò con delicatezza un rametto da terra, scandendo diverse volte la
parola litdem, “luce”. Non successe niente.
Talya aprì gli occhi, mortalmente delusa. Quindi guardò sconsolata Vàlen.
—Dove ho sbagliato?— gli chiese.
Il mago le si fece più vicino.
—Ferma così.— le sussurrò piano, e Talya si immobilizzò con il braccio sollevato, colto nell’atto di
lasciare cadere il pezzettino di legno che stringeva in pugno. Il giovane le girò attorno e lei lo seguì con lo
sguardo, muovendo il collo il meno possibile, fino a che Vàlen non si trovò esattamente dietro di lei. Le
posò una mano sulla spalla destra, e stringendola delicatamente, ma con fermezza, le disse
piano: — Riprova ora.—
Talya cercò di concentrarsi, provando ad escludere dalla propria coscienza il contatto con l’umano; ma non
ebbe molto successo. Allora, tentò di pronunciare la parola litdem, ma come aprì bocca si accorse che il
suono della sua voce era perfettamente doppiato da quello del mago.
Un lampo l’accecò. Strinse il ramo con entrambe le mani, mentre le gambe le tremavano. Vàlen l’afferrò
per la vita, e senza quel sostegno sarebbe caduta; ma Talya non mollò la presa. Ed accadde: quella luce che
l’aveva accecata uscì dalla sua mente, attraversò il suo corpo, le sue braccia, le sue mani. E quando la
ragazza si riprese, vide la il ramo che stringeva splendere fulgido.
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ShtàrLàn - Capitolo 2
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Talya saltò letteralmente dalla gioia, emettendo un grido felice e girandosi di scatto ad abbracciare
l’imbarazzato mago.
—Ehm... direi che ti è piaciuto!—
La ragazza non gli diede neanche ascolto mentre lo abbracciava ridendo. Sapeva che Vàlen l’aveva aiutata;
non capiva come, né avrebbe potuto riuscirci da sola adesso, ma sapeva anche che il potere che aveva
compiuto l’incantesimo non era venuto da Vàlen. Era stata lei.
Poi si mise a ballare con la grazia che solo una principessa elfa può avere, a tempo di una musica che lei
stessa cantava, ammirando il fuscello che brillava nella sua mano. Quando ebbe fatto qualche giravolta, si
lasciò cadere sull’erba a occhi chiusi, riaprendoli dopo qualche istante per guardare con amore la propria
creazione. Vàlen si avvicinò tranquillamente, con un sorriso a metà tra il "suo" sorriso ed un sorriso
sincero, dicendo: —Sì... evidentemente sei contenta.—
La luce rossa del tramonto colorava la strada di terra battuta che si incuneava nella foresta sotto lo sguardo
attento del principe Trellin. Il colore del sole si confondeva con il bagliore rossastro che proveniva dall’aria
e dalla terra. Finalmente, vide due puntini rosso chiaro uscire dalla protezione del bosco ed immettersi sulla
strada. Dopo poco era già riuscito a riconoscere sua figlia ed il giovane mago umano.
Quando i due furono arrivati nei pressi della Porta della Sera, la principessa corse sorridente fra le braccia
di suo padre, saltandogli letteralmente addosso; l’espressione di Trellin era sorpresa almeno quanto lo era
stata quella di Vàlen quando la piccola Elfa gli aveva riservato lo stesso trattamento. I due si misero a
parlare a mezza voce nella loro lingua, e dopo poche concitate battute, la principessa tirò fuori dallo zaino
il fuscello che splendeva ancora. La scena aveva attirato l’attenzione di alcuni passanti, sorpresi nel vedere
degli Elfi fuori dal loro territorio; da lontano non riuscivano a scorgere la luminescenza del rametto,
altrimenti lo sarebbero stati ancora più. Trellin le sussurrava qualcosa, tentando di nascondere quel
legnetto e di contenere la gioia di Talya, ma lei non fece neanche caso agli umani che li stavano
osservando. La ragazza si buttò di slancio ad abbracciare il mago, che iniziava decisamente a simpatizzare
per le incontrollate effusioni dell’Elfa.
—Come posso ringraziarti?— chiese semplicemente. Sulle labbra di Vàlen si dipinse il suo sorriso più
sornione, ma stavolta il mago non rispose.
A salvarlo dall’imbarazzo di dover escogitare una battuta che non scandalizzasse i due elfi, arrivarono
Tòret ed Hellis, che erano stati fino ad allora in disparte. Dopo brevi saluti, i cinque si avviarono verso una
locanda scelta dal sacerdote.
—Come è andata con il Reggente, Hellis?— chiese subito Vàlen.
Mentre camminavano, il sacerdote si avvicinò con discrezione all’orecchio di Vàlen.
—Beh, dopo che sono riuscito a convincerlo a non farmi decapitare sul posto, abbiamo iniziato a parlare
con un poco di civiltà.— disse sottovoce.
Hellis si era preso la soddisfazione di vedere quasi materializzato un punto interrogativo sulla testa del
mago. —Cosa intendi?—
—Ti ricordi il trucchetto che hai usato per entrare in città?—
Vàlen annuì perplesso.
—Beh, le guardie che hai ingannato hanno fatto rapporto prima di mezzogiorno. Il Reggente StìcosTèl ha
capito che avevi usato un incantesimo ed ha chiesto le nostre descrizioni; inoltre, quando sono arrivato nel
salone, una guardia mi ha riconosciuto. Sono stato accusato di una decina di reati, come ad esempio l’uso
della magia contro guardie cittadine, l’inganno, la menzogna, l’ingresso illegale in città... Sai, per alcuni di
quei reati è generalmente previsto l’esilio?—
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Vàlen sbiancò. Sul momento non aveva pensato alle conseguenze del suo gesto, ma adesso si era reso
conto che non era il caso di rifarlo. Hellis scrutò con occhio clinico la reazione del ragazzo, poi continuò.
—Sono riuscito a spiegare che il nostro compito era urgente ed era necessaria un’azione celere, e che vista
la gravità di ciò che è successo, il tuo spirito era molto provato. Ed ho dato la mia parola che non userai
mai più la magia o qualsiasi altro inganno contro un abitante di questa città. La mia fede, come vedi, ci ha
salvato la vita... Inoltre sappi che intendo far rispettare il mio giuramento, figliolo.—
Era la prima volta che Vàlen infrangeva la legge, e lo aveva fatto senza neanche saperlo! Era come aver
bevuto ad una fontana senza sapere che questa si trovava in proprietà privata. La notizia era caduta su di
lui come un maglio, ed il giovane non parlò per il resto del tragitto.
Talya aveva finalmente accettato di dormire nell’ "umile stanzetta". Non riusciva assolutamente a capire
come suo padre potesse adattarsi allo squallore di quelle pareti vuote ed a quei letti che non avevano
lenzuola simili ad una carezza, ed al rumore che facevano gli umani nella sala comune... Insomma, alla
principessa pareva di essere precipitata nel fango, senza neanche che suo padre se ne accorgesse.
Nel buio della stanza, dopo alcuni minuti di silenzio, Talya non poté resistere alla tentazione di parlarne a
suo padre. Sdraiata ne suo letto, sussurrò timidamente: —Padre?...—, e si sentì rispondere nel regale elfico
del principe —Dimmi, Talya.—
—Sei sveglio?—
—Certo.—
La principessa si sorprese a pensare a quale risposta sarebbe stato capace di darle Vàlen. E si ritrovò un
inconscio sorriso sulle labbra. Poi si concentrò sul proprio problema.
—Perché siamo tra gli umani?— chiese semplicemente. La lingua elfa è molto elaborata nei fonemi ed
estremamente lineare nella grammatica. Questo rende difficile usare giri di parole... inoltre la mentalità
degli elfi è estremamente diretta.
—Perché Vàlen mi ha salvato la vita.—
La principessa spalancò gli occhi nella penombra.
—La prima volta che lo vidi, era ancora un apprendista. Stavamo pattugliando la foresta e Vàlen era lì per
raccogliere erbe per il suo maestro. Io gli dissi di andarsene, in maniera molto decisa, e lui si allontanò.
Dopo poco lo sentii pronunciare un incantesimo, e vidi cadere ai miei piedi un serpente che si contorceva.
Vàlen lo aveva visto mentre si stava gettando da un ramo per mordermi.—
Il principe fece una pausa, lasciando che sua figlia capisse a fondo il significato delle sue parole, e per
prendere il coraggio di dire ciò che pensava. Quindi continuò ancora più sottovoce, come per paura che
qualcuno, oltre a Talya, potesse sentirlo.
—Non mi sono mai sentito così ... perfido. Lo avevo scacciato, minacciato, offeso, e lui mi aveva salvato
la vita. Mi sono odiato.—
Ci fu una lunga pausa. Alla fine il principe continuò: —E c’è un altro motivo. Conoscendo Vàlen mi sono
accorto di quanto mi annoiassi. Tu sei ancora giovane, e puoi vivere guardando i fiori che crescono, ma io
no. E ho perso la cosa più importante che avevo tanto, tanto tempo fa.—
Talya scattò seduta, con i pugni serrati.
—E trovi tanto divertente uccidere?— disse sibilando.
—Tutto quello che ho ucciso avrebbe ucciso me.—
Le parole di suo padre colpirono Talya in maniera quasi fisica. Lei stessa non aveva avuto alcuna remora a
spegnere la vita della creatura che avrebbe potuto uccidere suo padre o i goblin che stavano saccheggiando
le rovine... Al limite aveva avuto paura. E l'emozione che aveva provato quel pomeriggio stesso, quando
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per la prima volta aveva usato la magia, era forse la più intensa emozione che avesse mai provato. Balbettò
qualcosa, cercando di dire che non era vero, che non era possibile, ma non riuscì a convincere nemmeno se
stessa.
Fu allora che i due elfi videro il lampo, un bagliore accecante che aveva rischiarato tutto l’orizzonte. Per un
breve istante, le pareti della stanza si erano tinte di rosso. Talya uscì dal letto e saettò verso la finestra, con
in cuore il terrore di sapere cosa avrebbe visto. La foresta bruciava a pochi chilometri di distanza, ed infatti
nel momento nel quale la principessa aveva aperto le ante per sporgersi, udì un suono sordo, come un
boato attutito. Prese alcuni punti di riferimento più volte, ed ogni volta era sempre più sicura: un villaggio
elfo era stato distrutto. Suo padre, ora in piedi dietro di lei, arrivò alla stessa conclusione alcuni istanti
dopo. La ragazza si proiettò fuori dalla camera, coperta da una lunga camicia che le arrivava appena sopra
le ginocchia. Pochi metri più in là si trovava la stanza nella quale dormivano Vàlen, Tòret ed Hellis. Talya
bussò pesantemente alla porta e, dopo alcuni istanti, un assonnato Vàlen era in piedi davanti a lei, come per
chiedere una spiegazione, ma il volto della ragazza valeva mille spiegazioni. La piccola Elfa entrò quasi
correndo nella stanza buia, afferrando il mago con tutte le forze che aveva e trascinandolo fino alla finestra.
Aprì prima gli scuri e poi le ante, indicando con un dito l’incendio.
—È Sàlliandém!— disse guardando il giovane mago. Vàlen afferrò per le spalle la principessa dicendo
allarmato: —Vai a vestirti; sbrighiamoci!—
Meno di mezz’ora dopo erano già ai bordi del villaggio devastato. Alcune guardie cittadine di SàiVòd li
avevano preceduti, ed altri uomini stavano arrivando. Lo spettacolo era tremendo; del villaggio era rimasto
ben poco, e quel poco stava bruciando. Ed una cosa era sicura: FòrKép e Sàlliandém erano stati distrutti
nello stesso modo.
Forse gli alberi numerosi all’interno dell’abitato avevano attutito l’onda d’urto, o forse l’impatto era stato
meno violento; comunque, Sàlliandém non era stata completamente rasa al suolo. Molte abitazioni erano
cadute, altre ai limiti del paese erano state danneggiate, mentre alcune erano in preda ad un incendio che
divampava nella zona sud. Alcuni Elfi erano già sul posto e sarebbero potuti benissimo essere i superstiti.
Le guardie cittadine stavano soccorrendo gli Elfi feriti, anche se Sàlliandém si trovava completamente in
territorio elfo e le guardie erano ben fuori dalla loro giurisdizione.
Talya scese da cavallo e mosse alcuni passi in direzione del centro dell’abitato, ma si fermò quasi subito,
con un’espressione mista di incredulità e di disperazione. La stessa espressione che era dipinta sul volto di
suo padre, pietrificato sulla sella. Tòret sembrava semplicemente non credere ai propri occhi, mentre Hellis
era atterrito; vedere un villaggio che muore è quasi peggio che vederlo già ucciso.
Vàlen si sentì morire dentro mentre gli tornavano alla mente le immagini del suo villaggio distrutto, e della
sua casa... di sua madre... Ma il dolore si trasformò in rabbia, una rabbia smisurata. Gridò: —Cosa stiamo
qui impalati? Ci potrebbe essere qualcuno che ha bisogno di aiuto! Muoviamoci.—
Il grido del ragazzo risvegliò gli altri riportandoli alla realtà. I tre uomini si mossero verso le macerie, dove
sembrava che ci fosse maggiore movimento. Trellin seguì gli umani dopo poco. Ai bordi delle macerie,
vicino a dove Talya si era fermata, comparve la figura di una donna elfa che teneva stretto al petto un
fagottino di stracci. La donna si avvicinò lentamente a Talya e presto la principessa poté vedere negli
stracci riposava un bambino. Le vesti della donna erano strappate ed il suo corpo era segnato da vistose
ferite. Diceva piccole frasi sciocche rivolte al bimbo sorridendo, come tutte le mamme sanno fare bene.
Arrivata accanto alla principessa, la sconosciuta le mostrò il bambino, come una madre orgogliosa. Ma
quello che Talya vide le strappò il cuore: gli stracci erano macchiati di sangue e lo sguardo del bimbo era
sbarrato.
—Non è bello il mio bambino? Non è bello, mia signora?— ripeteva all’infinito, ed ogni volta il suo sorriso
si tramutava sempre di più in una smorfia di disperazione fino a che non divenne un pianto inarrestabile.
Talya non poté fare a meno di piangere a sua volta; si avvicinò all’Elfa e le mise un braccio intorno alla
vita, cercando di consolarla, facendola sedere lì vicino.
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Alcuni Elfi stavano tentando di alzare una pesante pietra, sotto la quale era stato schiacciato più di metà
del corpo di un loro parente. Le sue grida nella lingua sconosciuta attirarono l’attenzione di Tòret, che
arrivò quando i due soccorritori stavano tentando senza successo di sollevare la grossa pietra. L’uomo si
abbassò ed afferrò la lastra, quindi iniziò a tirare assieme agli Elfi. Lentamente, molto lentamente, la pietra
si sollevava, ed il collo di Tòret si gonfiava per lo sforzo. Digrignando i denti e tremando, Tòret diede un
ultimo strattone alla pietra; Hellis, che era giunto in quell’istante, afferrò l’Elfo rimasto ferito e lo estrasse
con delicatezza. Era leggero, ma Hellis non era più giovane come un tempo; dovette trascinare il ferito,
che urlava di dolore: la sua gamba era rimasta schiacciata. Gli elfi ed il guerriero lasciarono cadere il
masso, e accorsero ad assistere il sacerdote. Con un coltello, tagliò le vesti insanguinate del ferito, quindi
tirò fuori una boccetta di terracotta da una tasca e ne versò il contenuto sulla gamba, un liquido denso ed
oleoso. Con una benda che aveva preso da un’altra tasca, spalmò la pozione su tutta la parte inferiore
dell’arto, mentre l’elfo stringeva i denti per il forte dolore. Alla fine, Hellis chiuse gli occhi, si concentrò e
venne avvolto da una luce delicata. L’olio sulla gamba iniziò a brillare come in simpatia con l’aura del
sacerdote, e la gamba tornò lentamente alle sue proporzioni naturali. I profondi solchi rimanevano nella
carne dell’elfo, ma almeno la gamba era salva.
I due umani si allontanarono velocemente; c’era ancora molto da fare.
Al piano superiore di una casa nella zona vicino all’incendio alcuni elfi urlavano disperatamente; il piano
terra aveva preso fuoco. Altri stavano buttando terra sulle fiamme; si poteva sentire ogni tanto il potere di
qualche debole incantesimo, vano tentativo di soffocare il fuoco. Vàlen si trovava lì vicino; ebbe solo un
attimo di esitazione nel vedere i volti disperati delle persone che chiamavano aiuto, prima di decidere cosa
fare. Preparò un incantesimo molto potente e la luce lo illuminò come una torcia. Rapidamente, ai piedi
della casa si stava formando una nube di vapore che presto divenne così densa da poter essere tagliata con
un coltello; le fiamme soffocarono in pochi istanti.
Era passato pochissimo tempo quando iniziarono a giungere da SàiVòd alcuni sacerdoti e vasenìt, gli
alchimisti specializzati nella scienza medica; dalla direzione opposta affluivano elfi provenienti dai villaggi
circostanti. Fino all’alba si continuò a combattere l’incendio ed a scavare nelle macerie; nel villaggio
c’erano ora almeno duemila persone, e presto tutti i feriti vennero soccorsi.
La mattina stava nascendo sul crepuscolo di Sàlliandém; nessuno si mise a contare i superstiti o le vittime.
Nessun numero avrebbe mai potuto descrivere la tragedia di quella notte. Il capo di uno dei villaggi elfi che
avevano soccorso Sàlliandém aveva ringraziato il comandante delle guardie, ed in questo momento, mentre
le guardie ed i medici aiutavano i feriti, sembrava che a nessuno importasse chi era Elfo e chi umano.
Hellis era spossato. Il suo volto mostrava una barba ancora più lunga del solito, una capigliatura
disordinata e l’espressione degli occhi blu passata dalla pace alla stanchezza. Trovato Vàlen, che stava
discutendo stancamente con Tòret nella zona nella quale erano stati portati i feriti, gli chiese con sincero
interesse: —Hai una spiegazione per questo, Vàlen?—
Il giovane mago era addirittura stordito dalla tragedia, che per lui era ancora più toccante. Sapeva che
stavolta il suo sarcasmo non lo avrebbe aiutato; adesso era chiaro quello che era successo, ma proprio per
questo era ancora peggio.
—Qualcuno ha distrutto volontariamente FòrKép e Sàlliandém. Qualcuno molto potente e veramente
crudele.—
—Nessuno può volere tanto male!— cercò di apostrofare.
—Tu credi?— Chiese con un amarissimo sorriso Vàlen.
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—Pensa; ogni volta che un re vuole una guerra, il minimo che ci si possa aspettare è una scena come
questa.— Tra le fumanti macerie della città si potevano sentire i lamenti dei feriti ed i pianti di coloro che
avevano perso affetti più cari della propria vita.
—Di quanta malvagità hanno bisogno i re?—
Proprio in quel momento, sopra al centro del villaggio si materializzò una gigantesca figura umana, alta
come un palazzo. Aveva sorriso beffardo, il volto scarno, gli occhi un poco incavati e pochi capelli bianchi.
Vestiva una tunica lunga, ma si poteva capire anche attraverso il semplice abito che l’uomo era molto
magro. L’ immagine parlò.
—Io sono Romus TorBài, il grande incantatore, signore delle stelle e maestro infernale. Quello che è
successo ai vostri due villaggi è opera mia.—
La figura si fermò a guardare compiaciuta l’effetto delle proprie parole. Il gelo assoluto della rabbia
esplose nell’animo di tutti i presenti; lo shock della perdita delle cose più care, l’orrore per il massacro, il
terrore per la propria vita... ed un vecchio pazzo che con quelle poche, semplici parole aveva dichiarato
quanto poco, per lui, valesse la vita. L’enorme immagine contemplava sorridendo la sua opera, felice di
aver distrutto quello splendido luogo.
L’imponente capitano delle guardie cittadine di SàiVòd estrasse la spada e la puntò contro l’immagine,
gridando: —Lurido assassino, non hai il fegato di venire qui! E fai bene, perché se ti avessi tra le mie mani
ti taglierei la lingua e ti farei affogare nel tuo stesso sangue!—
La figura sorrise di scherno, mentre rispondeva: —Quanta foga, mio audace nemico. La prossima stella
cadrà sulla tua casa, sorprendendo nel sonno tua moglie Màran, tuo figlio Vanél, tua figlia Talét...—
L'immagine ridacchiò nel vedere la guardia che sbiancava.
Allora si fece avanti un nobile elfo, che con una pronuncia stentata chiese alla figura: —Cosa vuoi da noi?
Perché hai fatto questo?—
—Io voglio ciò che mi spetta. Io voglio il comando. Andate a dirlo ai vostri re; è ora che si facciano da
parte, perché c’è qualcuno più degno di loro.—
Così dicendo Romus TorBài scomparve accompagnata dal silenzio della desolazione.
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Capitolo 3
—Vàlen!—
Era la voce di Tòret che chiamava il giovane mago, mentre questi si accingeva a salire a cavallo per tornare
a SàiVòd. Il ragazzo era in preda ad un furore a cui non era abituato, e la sua collera chiedeva di essere
nutrita col sangue di quel lurido animale che aveva ucciso sua madre ed i suoi amici, e che aveva ridotto
Sàlliandém ad un cumulo di macerie fumanti. Non sentì neanche l’amico che lo chiamava, ed il calore
emanato dal disco di cristallo nascosto in una tasca era solo una lontana presenza.
Trott si avvicinò a Vàlen, afferrandolo per entrambe le spalle, delicatamente ma con decisione. Il mago
scattò come per divincolarsi senza riuscirvi, e sentì affiorare sulla pelle la sensazione quasi fisica delle
scariche di adrenalina. Per un istante smise di pensare coerentemente, ed il grosso guerriero se ne accorse.
Disse con tutta la delicatezza che gli era possibile —Calmati!—
Fu solo un momento, che passò quasi subito. Quando la tensione lasciò la presa sui suoi nervi, Vàlen
riprese il controllo.
—Scusami... è stato un attimo. Adesso sono calmo...—
—Sì, ora sì. Ma per quanto?—
Vàlen non capiva cosa intendesse l’amico che lo teneva ancora fermo. Trott continuò.
—A volte ammiro la calma che riesci a mantenere; sei incredibile quando liquidi con un sorriso il pensiero
più triste, ma non puoi andare avanti così all’infinito. A volte dai l’impressione che nulla ti tocchi, ma
questo è troppo anche per te.—
Vàlen guardò con calma l’amico, dando fondo a tutto il suo autocontrollo per "diventare" assolutamente
calmo, e con calma assoluta disse: —E cosa dovrei fare, secondo te?—
Il gigante estrasse la sua spada e la porse dalla parte dell’elsa al giovane mago, che la guardò dubbioso. —
Sfogati.— disse con decisione Trott.
Vàlen si lasciò andare; sentì riaffiorare tutta la rabbia che aveva dentro, non più repressa o vinta, ma come
una parte integrante di se’. Prese fra le mani la poderosa spada e corse fendendo l’aria contro nemici
immaginari, lanciando, ogni tanto, gridi di rabbia. Colpiva e distruggeva qualsiasi cosa; rami secchi, tronchi
bruciati, qualunque cosa gli capitasse a tiro. Dopo qualche minuto, il mago si accasciò a terra, ansante e
grondante di sudore. Trott si avvicinò a lui, e lo sollevò delicatamente, riprendendosi la spada.
—Val, so che soffri per quello che é successo...— La voce di Trott era profonda e delicata, pur nella sua
forza, ma Vàlen avvertì una forte stretta al cuore.
—Ma vedi... Questa non é tutta la vita. Voglio dire, questa é la vita, ma non é tutto. É solo un momento,
un breve attimo di eternità nel quale ci dimentichiamo di quello che é successo prima, e non capiamo quello
che ci sarà dopo.—
—Parli come un prete, Tòret. L’ho già sentita altre volte questa storia.—
—Non é una storia. É la verità—
—Ne sei sicuro?—
—No... lo so!—
—Lo sai? Ma se lo sai come fai a dire che non sappiamo nulla del prima e del dopo? O lo sai o no!—
—Ma... Val! Ti conosco, sai? É inutile che tu faccia finta di incastrarmi, sai cosa voglio dire. Non
disperarti, Val. Tua madre se n’é andata solo per un momento; la incontrerai ancora, come tutti gli altri.—
Vàlen guardò negli occhi il grande guerriero che torreggiava su di lui. Il suo sguardo puro avrebbe
convinto anche il marmo che lui diceva la verità, o che pensava quello che diceva. Ma il giovane mago non
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era certo che le cose stessero in quel modo. Gli sembrava che fosse un modo troppo facile di vedere il
mondo. Trott capì di non aver convinto il suo amico e continuò.
—Non avere paura, Val, non sei solo!—
Il mago accennò un sorriso e strinse forte il guerriero.
—Su questo hai ragione, amico mio.— disse con gli occhi lucidi. Trott ricambiò la delicata stretta
abbracciando le spalle del mago e sorridendogli.
Poco distante Trellin e Talya stavano parlando con un Elfo dall’aria molto importante. Quando ebbero
finito si diressero verso Trott, che nel frattempo era stato raggiunto da Hellis; Vàlen si era seduto poco
distante, ed era immerso nei propri pensieri, isolato dal resto del mondo.
Il principe esordì. —Ho appena finito di discutere con mio padre.—
Hellis inarcò un sopracciglio.
—Abbiamo parlato di quello che è successo. Secondo la nostra legge, dobbiamo trovare Romus TòrBài e
portarlo al cospetto del Consiglio Elfico, che lo punirà adeguatamente per il male che ha compiuto. Mio
padre mi ha personalmente incaricato di questo compito. Stiamo cercando un umano, quindi dovremo stare
tra umani; sarà indispensabile avere una scorta umana, e dato che fino ad ora siete gli umani più affidabili
che conosca, ho pensato che potreste accompagnarci. Dietro un adeguato compenso, naturalmente.—
Hellis notò come gli elfi fossero bravi a trasformare in negativo aggettivi positivi come "affidabili" e
"umani", e notò l’enfasi con la quale aveva sottolineato la parola "compenso". Pensò che in fondo Vàlen
non aveva tutti i torti a cercare di cambiare gli elfi, anche se era un’impresa disperata. Rispose Trott: —
Come ricompensa mi basta che lasciate a me il compito di "punire" quel mostro.—
Trellin sorrise in maniera discreta: —Credo che si possa fare.— affermò.
Hellis si congedò ed andò a raggiungere il mago. Quando fu su di lui, gli posò una mano sulla spalla e
strinse leggermente per richiamare l’attenzione del ragazzo. —Come stai, Vàlen?— chiese.
—Ora va bene... grazie.—
—Figliolo, il principe Trellin ci ha chiesto di accompagnarlo nella ricerca di TòrBài. Il consiglio degli elfi
ha deciso di punire lo stregone adeguatamente, e penso che tu vorrai venire con noi...—
Vàlen sorrise, un ghigno insolito per il ragazzo, e nei suoi occhi apparve la sua determinazione. —Puoi
giurarlo al tuo dio, Hellis.—
Dopo aver riposato alcune ore al mattino, una volta tornati a SàiVòd gli elfi e gli umani avevano passato
tutto il giorno a fare i preparativi per partire; nessuno di loro sapeva con precisione dove sarebbero andati
e quanto avrebbero dovuto stare lontani dalla civiltà. Vàlen aveva "consigliato" di fare tutti i preparativi del
caso; facendo finta di dividere il gruppo per risparmiare tempo sugli acquisti, il mago aveva mandato gli
altri a comprare suppellettili mentre lui era andato a loro insaputa alla ricerca di una qualsiasi traccia dello
stregone. Non voleva trascinarsi dietro nessuno; se avesse spiegato le sue intenzioni, gli elfi avrebbero
insistito per venire con lui, e probabilmente Trott non avrebbe mai accettato di andare a fare compere
mentre gli altri "agivano". Presenze un po’ troppo ingombranti per quello che aveva intenzione di fare.
La città era molto diversa da quella del giorno prima. Nulla di particolarmente vistoso, solo che le persone
avevano un atteggiamento diverso. Notizie di quanto era accaduto avevano ormai raggiunto anche gli
abitanti meno socievoli: nell’aria si respirava una sottile, impalpabile tensione, carica di paura, che aveva
reso molto più vigili del normale i cittadini di SàiVòd. Da dietro le tende, Vàlen vedeva donne anziane
additarlo, e parlare animatamente a comari nascoste. Per strada, le conversazioni si fermavano non solo al
suo passaggio, ma ogni qual volta si avvicinava un estraneo. La gente aveva un passo svelto, e di bambini
intenti a giocare o ad imparare se ne vedevano davvero pochi. Il destino terribile di FòrKép e di Sàlliandém
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aveva evocato negli animi di tutti un timore taciuto, ma troppo lampante per non essere esplicito: SàiVòd
era l’ultimo centro abitato di una certa dimensione della zona. Gli abitanti avevano paura di essere i
prossimi della lista. Ancora non si capiva chi avesse distrutto i villaggi vicini, non si conoscevano le
ragioni, ma una cosa era certa: la gente di SàiVòd si sentiva indifesa contro un nemico invisibile e potente.
I coloni del Kalédion del Nord avevano da sempre lottato contro nemici insidiosi, contro forze immani in
lotte impari, ed avevano sempre vinto. Ma stavolta era diverso. Non si poteva combattere l’aria, non si
poteva lottare contro il cielo, che avrebbe potuto precipitare sulla città un’arma micidiale. I Kalédionìt
ridevano delle sfide impossibili, ma questa non era una sfida: fare la parte del bersaglio inerme non era nel
loro stile, ma non potevano fare altro; questa era la parte peggiore.
Vàlen dovette sforzarsi di isolare il proprio pensiero da queste considerazioni, e dalla tristezza che lo
attanagliava; concentrarsi sul problema di come neutralizzare Romus sarebbe stato comunque un buon
modo per distrarsi.
Innanzitutto, Romus voleva che i signori di Kaléidon abdicassero in suo favore, ma non aveva
impressionato loro, bensì aveva tentato di dimostrare il suo potere nella zona più periferica del regno; ed
aveva attaccato un villaggio umano ed uno elfo. C’erano diverse ipotesi valide sul comportamento dello
stregone; primo, TòrBài era totalmente pazzo e non aveva minimamente pensato a quello che faceva;
aveva distrutto i primi villaggi che gli erano venuti in mente cercando di fare più impressione possibile.
Vàlen aveva scartato questa ipotesi: uno stregone che non è sano di mente non può riuscire a controllare
degli spiriti così potenti; sarebbe stato distrutto dal suo stesso incantesimo. La seconda ipotesi era che il
potere di TòrBài fosse limitato. Lo stregone aveva tentato azioni al limite delle proprie forze, sperando che
la cosa impressionasse il sovrano. Se questo fosse stato vero, il luogo da dove Romus aveva lanciato i suoi
incantesimi sarebbe dovuto essere equidistante da FòrKép e Sàlliandém. Ma anche così restava il problema
della richiesta: decisamente troppo alta per un potere così piccolo. Il sovrano avrebbe lanciato una sfida a
Romus e magari avrebbe portato un esercito con se’. Lo stregone avrebbe potuto sperare di fare un po’ di
danni, ma non avrebbe mai potuto conquistare il Kàlédion scagliando una meteora ogni notte.
Non quadrava, c’era qualcosa che gli sfuggiva. A Valenine venne in mente una terza ipotesi, ma proprio
mentre iniziava ad analizzarla, arrivò a destinazione.
Si trovava di fronte ad una casa che non avrebbe suscitato l’interesse di nessun osservatore. Una semplice
e normale casetta, con i soliti balconi in legno, i gerani sulle ringhiere, le tegole grigie ed il piano terra in
pietra. Una simpatica casetta, come tutte quelle di SàiVòd. Vàlen salì alcuni gradini che conducevano alla
porta d’ingresso, quindi bussò. Si affacciò dopo diversi istanti un uomo maturo, con una folta barba nera e
pochi capelli corti e ben ordinati sulla testa calva. Sorrise con una falsità incredibile, e chiese: —Cosa ti
porta qui giovanotto?—.
—Un amico comune— rispose il mago con un mezzo sorriso, —Dan Séndovan—.
Dan era stato il maestro di Vàlen, e gli aveva raccontato degli stregoni della zona. Lo stregone che aveva
davanti era Tàlmon Dàrini, il più potente di SàiVòd (anche perché l’unico...). Tàlmon divenne serio.
—E’ da molto che non vedo Séndovan—
—Deve essere più o meno da quando lui ha visto te per l’ultima volta.—
—Sì, credo che sia da allora...—
Lo stregone non dava cenni di voler far accomodare il mago, così Vàlen si fece avanti.
—Potrei parlarti in privato per qualche minuto?—
—Se proprio ci tieni...— fece lo stregone, aprendo la porta.
—Sono Vàlen EmelFèl, allievo del Grande Dan Séndovan.—
—E tu sai chi sono io.—
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—...Sì...—
—Bene, allora fai una cosa rapida.—
A Vàlen non piaceva quel tipo. Comunque chiese: —Siete stato messo al corrente di quanto è successo a
Sàlliandém stamattina?—
—Nò. Cosa è successo?—
Vàlen raccontò brevemente l’incontro con TòrBài. Quel tizio gli piaceva sempre di meno, e il mago decise
di tralasciare qualche particolare.
—... E quindi il mago è sparito. Sono venuto da voi per chiedervi se conoscete qualche mago in questa
zona in grado di eseguire un tale incantesimo.—
—Mah, a me non pare di ricordare nessuno tanto potente. Uno stregone dovrebbe aver raggiunto il pieno
controllo delle sfere demoniache per raggiungere simili risultati, e fino ad ora non c’è mai riuscito nessuno.
—
—Quindi questo Romus è una persona al di fuori del comune, una che voi non conoscete minimamente...
—
—Non mi pare di conoscere nessun TòrBài, sinceramente. Spero di aver fugato i tuoi dubbi, giovane
EmelFél.— e così dicendo spalancò la porta che conduceva all’esterno.
—Oh, certamente, Vostra Sapienza...— disse con calma Vàlen, uscendo senza salutare. Sentì la porta che
si chiudeva con molta energia.
Vàlen sapeva di essere seguito. Non c’era bisogno di vedere gli inseguitori, era certo che Dàrini non lo
avrebbe lasciato andare così facilmente. "Il posto migliore per nasconderti", gli aveva detto il suo maestro
"è quello dove tutti ti possono vedere". Avrebbero aspettato che si allontanasse dalla strada principale o
che entrasse nella sua taverna, cosa che avrebbe accuratamente evitato.
Aveva decisamente bisogno di un aiuto. Una mezz’oretta prima aveva detto a Trott di andare a comprare
alcune coperte per accamparsi all’addiaccio e costruire un rifugio di emergenza, nel caso ce ne fosse stato
bisogno; se Trott non si era attardato troppo, in questo momento avrebbe dovuto essere nei dintorni della
bottega alla quale lo aveva indirizzato. Quindi si diresse in quella zona. Guardandosi intorno furtivamente,
aveva più volte scorto le stesse persone; in una città come SàiVòd vedere sempre i soliti volti quando ti
guardi intorno è una cosa quanto mento sospetta... E Vàlen cominciava ad avere paura!
“Uhm... queste coperte sono troppo sgargianti.” pensava Tòret. “Abbiamo bisogno di qualcosa di colore
più scuro, che si confonda con le foglie e gli alberi.”
—Ehi, tu.— chiamò il guerriero.
—Dimmi giovanotto.—
Il commerciante aveva circa sessant’anni, di corporatura robusta, abbigliato sobriamente con pesanti drappi
di velluto, e parlava da dietro un banco piazzato per strada, davanti alla sua bottega, coperto da una
pesante tenda a righe bianche e rosse.
—Non avresti qualcosa di più scuro?—
—Noo, le coperte scure non vanno quest’anno. Si dice che siano tristi e maleauguranti. La gente vuole
colori caldi, come il rosso, il giallo, o al limite pastello come l’indaco...—
—Ah. E non ti è rimasto qualcosa dell’anno scorso?—
—Vedo che stare al passo con i tempi non ti interessa... Dovrei avere qualcosa che mi è avanzato in
magazzino. Aspetta qui.—
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Il padrone della bottega si inoltrò all’interno, sparendo nell’oscurità. Nel frattempo il guerriero si guardò
preoccupato intorno. Era molto triste per tutto quello che era successo, ma era ancora più triste al pensiero
che una cittadina graziosa come SàiVòd era in pericolo. Non aveva saputo salvare i suoi genitori; almeno
avrebbe cercato di salvare questa gente.
—Ecco qua, giovane.— disse, posando una dozzina di panni scuri, dai disegni a grandi quadrati marroni,
rossi scuri e neri, oppure a bande ruggine e grigie.
Dopo aver passato la mano sui panni, e aver controllato che questi fossero spessi e morbidi, Trott si rivolse
al venditore: —Li prendo tutti. Quanto fa?—
—Ottimo! Beh se li prendi tutti ti devo fare uno sconto! Bene, diciamo allora che te li faccio pagare in
tutto trenta soldi.—
Tòret si rabbuiò. —Amico,— disse minaccioso, —questo fa due soldi e sei scellini a panno.—
Il negoziante sorrise conciliante —Oh, scusa... deve essere l’età, hai ragione... dunque, ti faccio pagare
solo due soldi l’uno, che ne pensi?—
Ma Tòret aveva appena visto allontanarsi una signora che aveva pagato un panno nuovo di zecca solo due
soldi e uno scellino.
—Facciamo così—, disse calmo, —io ti do quindici soldi, e tu ti liberi il magazzino da questi panni vecchi.
—
Ora era il negoziante, a rabbuiarsi. Rifletté un istante; in effetti, sarebbe stato difficile per lui piazzare
questa roba. Guardò il guerriero dritto negli occhi. Era giovane, grande e grosso, ma il suo sguardo era
serio, penetrante e fermo su di lui; non era un tipo con cui trattare il prezzo. Si rilassò e sorrise.
—Se fai sedici, ti do anche un grosso sacco di iuta per portarli via.—
Tòret sorrise a sua volta. —Andata.—
Si era appena messo in spalla il sacco, contento di aver fatto un buon affare, e aveva mosso qualche passo
quando vide Vàlen avvicinarsi. Aveva un’espressione tesa.
—Ciao, Val. Qualcosa non va?—
Il mago lo salutò molto calorosamente, mettendogli un braccio sulla spalla. Poi disse piano: —Trott, siamo
seguiti—. I muscoli del collo del guerriero si erano tesi e Vàlen lo aveva avvisato fermamente —Non ti
girare! Facciamo finta di niente... vieni, infiliamoci in questo vicolo...—
Appena furono fuori dalla vista di chi passava per la strada principale, si schiacciarono sui muri opposti del
vicolo.
—Ma che cosa...— stava chiedendo il guerriero, e Vàlen rispose: —Ho fatto una sciocchezza. Ti spiego
dopo.—
Vàlen iniziò a respirare profondamente, cercando di rilassare i muscoli per preparare la concentrazione, e
visto il suo amico pronto a combattere, Tòret sguainò lentamente la spada, senza far rumore.
—Trott,— disse a mezza voce il mago, —stanza buia—
Il guerriero annuì serio, tenendo lo sguardo fisso all’imboccatura del vicolo e la lama di fianco al suo
corpo.
Non dovettero aspettare molto. I due tipi che Vàlen aveva scorto si gettarono presto nella viuzza.
Indossavano una cappa lunga dotata di cappuccio e sotto avevano una specie di uniforme; si poteva
intravederla solo perché correndo, la cappa tendeva ad aprirsi. Trott caricò il colpo, urlando. I due non si
aspettavano certo di essere scoperti e rimasero sorpresi quel tanto che bastava per consentire a Vàlen di
lanciare l’incantesimo che aveva preparato. Gli assalitori si trovarono improvvisamente all’interno di una
densa massa di oscurità che non lasciava intravedere assolutamente niente. Il guerriero si avvicinò al punto
nel quale sarebbe dovuto essere il primo dei malviventi e vibrò il colpo con tutta la sua forza. Dall’oscurità
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venne un terribile urlo che seguì di poco il rumore di carne lacerata e ossa rotte. L’urlo non fu né lungo né
forte. L’altro assassino ebbe il tempo di riprendersi dalla sorpresa ed uscì dall’oscurità rotolando per terra.
Trott vibrò un secondo colpo, ma il sicario era già scattato in piedi. Deviò con difficoltà, e fu costretto ad
indietreggiare fino al muro accanto al quale si trovava anche Vàlen. L’avversario parò un secondo colpo,
mentre il mago si accingeva ad usare un altro incantesimo. Ma Tòret descrisse un ampio cerchio con la
spada sulla destra; il sicario tentò di parare, ma si accorse troppo tardi che quella era una finta. Il
movimento del guerriero divenne fulmineamente una stoccata, non potente ma veloce, e la punta della sua
spada si conficcò nella parte alta del petto dell’avversario, subito sotto la gola.
Il mago cancellò con un gesto l’oscurità che aveva evocato, ed il cadavere dell’altro assassino divenne
visibile.
Vàlen andò a congratularsi con il suo amico, ancora teso e spaventato, ma felice che la cosa si fosse risolta
rapidamente.
—Siamo una coppia formidabile...— disse con un sorriso tirato, per spezzare la tensione. Ma il suo sorriso
si spense quasi subito. Dall’altra parte del vicolo erano comparsi altri sei uomini ammantati, e sotto il
manto di alcuni di intravedeva un luccichio metallico...
—Cosa sta succedendo!— Gridò una guardia che dalla strada principale aveva visto i corpi morti e le
persone ammantate che avevano estratto le spade. I sicari si dileguarono tanto rapidamente che neanche un
incantesimo avrebbe potuto fare meglio.
Vàlen ebbe un attimo di stordimento, dovuto alla doppia sorpresa dei nuovi avversari e della guardia che
urlava, seguita da almeno tre uomini armati. Boccheggiò un attimo, in cerca di qualcosa da dire ma, fuori
dal suo controllo, la sua mente aveva già escogitato un piano.
Si girò e rendendo ancora più esasperata la sua agitazione, gridò stridulo: —Ma che razza di città è
questa? E che razza di guardie siete voi? Bella sicurezza che garantite ai cittadini in cambio delle tasse.
Dove eravate quando quelli ci hanno assaliti? Ancora un po’ e ci avrebbero ammazzati...— Il capo della
pattuglia era piuttosto confuso, e vedendo che il suo discorso accorato aveva effetto, il mago continuò. —
Farò rapporto al reggente ShtìkosTél. Come è possibile che delle canaglie come queste girino libere in una
città civile?—
—Ehmm... voi avete ragione, ma siamo comunque arrivati in tempo per salvarvi, non è così?—
—Sì, perché abbiamo fortunatamente resistito fino ad ora...— al suono della parola “fortunatamente” il
comandante diede un’occhiata prima agli esili sicari morti e poi al gigante che stava rinfoderando con
calma la spada —...ma pensate a cosa sarebbe potuto accadere a cittadini solo un tantino più sfortunati...—
—Mi scuso personalmente signore... stiamo facendo tutto il possibile perché queste cose non accadano
più...—
—Lo vedo...— ed a sua volta il mago guardò i cadaveri. —Cercate almeno di liberare in fretta la strada da
questa immondizia, la gente per bene potrebbe esserne turbata.— E così dicendo si allontanò seguito dal
guerriero, mentre la guardia gridava irritata secchi ordini ai suoi sottoposti.
Trott si avvicinò al mago e sussurrò. —Bella mossa, amico.—
—Sono stato fortunato, Tòret. Con quello che c’è successo, un po’ di fortuna ci voleva. Ma penso che con
questo abbiamo esaurito la nostra riserva.—
Dopo una breve pausa il guerriero chiese —Ma chi erano quelli?—
—Non sarei dovuto andare da solo da Dàrini.—
—Cosa?! Cosa c’entra quello stregone da strapazzo? E perché non mi hai portato con te?—
—Hai ragione, Tòret. Ho fatto una sciocchezza, ma non pensavo che...—
—Sì, hai fatto una sciocchezza. Quei due potevano ammazzarti; se ci fossi stato io, avrei potuto
difenderti...—
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—Beh, lo hai fatto.—
—Mi hai trovato solo per fortuna.—
—...se Dàrini ti avesse visto, credo che non avrebbe parlato con me.—
—Perché, ti ha detto qualcosa di importante?— chiese Tòret, e sospirò. —Comunque, non farlo più.
Qualsiasi cosa ti abbia detto, hai rischiato di non poterla dire a nessuno.—
E non parlarono più per il resto del tragitto.
Vàlen aveva aspettato con una certa impazienza l’arrivo di tutti i membri del gruppetto. Tòret era più
calmo, almeno esteriormente, ma il fatto che il suo amico non gli avesse voluto dire qualcosa sugli assassini
che avevano cercato di eliminarli lo faceva sentire a disagio. Unito all’agitazione di Vàlen, tutto questo
faceva sentire il guerriero piuttosto irrequieto.
Hellis era tornato presto, avendo solo da comprare il cibo; quando lo videro entrare, i ragazzi si
calmarono. Si guardarono e, senza sapere perché, tirarono un sospiro di sollievo.
Vàlen doveva occupare la mente, in attesa che arrivassero gli elfi. Era certo che gli assassini avevano
seguito lui, e non sapevano nulla dei compagni con i quali viaggiava, quindi non era preoccupato per
Trellin e Talya, ma aveva comunque fretta di andare via. Per distrarsi, prese in mano un mazzo di carte e
chiese:
—Hai voglia di una partitina, Hellis?—
—Sai bene che non me la cavo un gran che’ con le carte. Soprattutto quando il mio avversario nasconde le
carte migliori nelle proprie tasche...—
—Io?!?— aveva esclamato innocente il ragazzo. —Io sono il giocatore più onesto del mondo.—
—Di quale mondo?—
—Stai imparando!— replicò ridendo il mago.
—Andando con lo zoppo...— era intervenuto il guerriero.
—A volte si riesce a farlo camminare bene.— aveva asceticamente concluso il prete, sedendosi al tavolo.
—Solo una partita amichevole... e do io le carte.—
—Come vuoi, saggio padre...—
—A cosa volete giocare?—
Trott propose la sua idea: —Perché non giochiamo agli Arcani?—
—Per me va bene, tu che ne pensi Hellis, è un gioco abbastanza innocente?—
—Sì, credo che non ci siano forti controindicazioni morali.—
—Vedi Trott, il padre sta imparando a zoppicare!—
Sorrisero mentre Hellis distribuiva le carte.
Dopo diverse partite, nelle quali la fortuna aveva premiato tutti i giocatori, fu necessario ricorrere alla
partita di spareggio. Proprio all’ultima mano entrarono nella taverna i due Elfi, visibilmente frustrati.
—Molto bene!— esclamò Trellin che doveva aver avuto troppi contatti con gli umani per quel giorno. —
Noi lavoriamo e loro sono qui a giocare!—
—Vàlen,— tuonò Trott, —tocca a te.—
—Sedetevi.— fu la secca risposta del ragazzo, che aveva appoggiato le carte sul tavolo, col dorso rivolto
verso l’alto. —Ho qualcosa di molto importante da dire a voi tutti.—
Talya era visibilmente seccata, ed il comportamento autoritario dell’umano l’aveva veramente esasperata.
Prima aveva mandato lei, una principessa Elfa, a fare sciocche compere, assieme a suo padre, il principe
ereditario. Ed ora la trattava come una sgualdrina ai suoi comandi. Lei non voleva sedersi. Voleva salire
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nella sua camera, chiudersi in bagno, farsi portare dell’acqua calda e lavarsi di dosso tutta l’umanità che era
stata costretta a subire. Stava già girandosi per salire sulle scale, quando si sentì afferrare delicatamente per
un polso. Suo padre la guidò alla prima sedia libera e la fece sedere; Trellin conosceva abbastanza bene
Vàlen da capire che i suoi motivi erano veramente importanti; altrimenti non si sarebbe mai permesso di
trattarlo così.
Dopo che gli Elfi si furono seduti, Vàlen fece una soppesata attesa, e quindi esordì. —Ho scoperto dov’è
TòrBài.—
Sul tavolo calò un silenzio gelido; la locanda, eccetto loro, era vuota a quell’ora del pomeriggio. Dopo
una pausa che parve eterna Vàlen prese fiato e continuò —TòrBài non esiste.—
Lo sguardo freddo dei presenti colpiva Vàlen con intensità maggiore di quanto si fosse aspettato. Il
principe Elfo tratteneva a stento il proprio furore. —Ti avverto Vàlen, se è un’altra delle tue battute...—
—Non lo è, Vostra Altezza. Eccovi quello che è realmente successo. Un gruppo ben organizzato di
persone potenti tenta di avere il controllo di uno dei regni del Sòllan, diciamo il Kalédion. Non è
abbastanza potente da agire allo scoperto, e non è in grado di infiltrare uomini nei centri di potere. Quale è
il momento nel quale uno Stato allenta il proprio controllo e perde parte della propria forza?—
Trott accennò a rispondere —Quando il re non c’è?—
—Non esattamente; nei momenti di crisi; quando il popolo ha paura, e magari... il re non c’è...—
—Non ti sembra di volare troppo con la fantasia figliolo?— Chiese severo Hellis.
—Sai chi è Tàlmon Dàrini?—
—Uno stregone di ambigua fama.—
—Poco fa sono stato da lui. Quello che mi ha insospettito è stato il comportamento del nostro TòrBài; non
vi è sembrato un pazzo squilibrato?—
Gli altri annuirono con fermezza.
—Sapete cosa succede quando la mente di uno stregone vacilla? I demoni vengono a prendere la sua
anima. TòrBài non poteva essere pazzo, o non avrebbe mai evocato spiriti tanto potenti senza essere
distrutto. Quindi mi sono recato dal nostro amico Dàrini e gli ho chiesto se sapeva nulla di ciò che era
accaduto e lui ha detto di no. Però sono riuscito a farlo tradire, e mi ha detto il nome dello stregone senza
che io lo accennassi minimamente. Mi ha fatto seguire mentre tornavo qui. Fortunatamente ho incontrato
Trott, altrimenti mi sarei trovato in seri guai.—
Talya intervenne in un umano un po’ incerto. —Ma non può essere che TòrBài è il capo di quelle persone?
—
—Intendi quelli che mi hanno seguito, oltre a Dàrini? Se fosse uno stregone tanto potente, che bisogno
avrebbe di avere dei tirapiedi del calibro di quelli che abbiamo incontrato? E se si è presentato in modo
spettacolare, perché avrebbe bisogno di mantenere l’anonimato? Perché i suoi tirapiedi negano che esista,
se egli stesso ha affermato così spettacolarmente davanti a tutti chi egli sia? Secondo me TòrBài è solo un
fantasma al quale dare la caccia, preparato ad arte per distrarre qualcuno.—
—E creare così quel disordine e quel caos di cui hanno bisogno...— rifletté il sacerdote.
Trellin intervenne —Ma allora perché hanno distrutto anche Sàlliandém?—
—Gli elfi che oggi erano a Salliandem facilmente cambieranno opinione su di noi. Ma cosa penserà il resto
del vostro popolo quando verrà a sapere che una comunità elfa é stata distrutta da un folle stregone
umano?—
Il volto di Trellin si rabbuiò. —Se mio padre non si fosse trovato lì, penso che avremmo dichiarato
immediatamente guerra al Kalédion.—
—Il popolo pacifico.— commentò sarcasticamente il mago.
—Ma mio padre c’era...—
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—Ma i nostri amici non lo sapevano. Comunque, anche se il vostro Re ha potuto vedere come sono andate
realmente le cose, adesso un’eventuale alleanza tra gli Elfi e gli umani, anche di fronte a questo pericolo
comune, è decisamente improbabile...—
—...Perché molti del mio popolo non capiranno...— commentò serio il principe.
—Tutto questo è solo un’ipotesi, ma al momento non vedo altro motivo per nascondersi dietro ad un
fantasma.— Concluse Vàlen.
Il principe fece un sorriso amaro. —E così non abbiamo neanche bisogno delle provviste che abbiamo
comprato.—
—Al contrario. Qui siamo in pericolo; ogni persona che incontriamo potrebbe aprirci il ventre prima che ce
ne accorgiamo.—
—Nel mio regno saremo al sicuro.—
—Dalle coltellate. Ma nella mia prossima vita non voglio avere sulla coscienza un’intera città di Elfi...—
—Potrebbero arrivare a tanto?—
—E perché no? Eliminerebbero delle persone che sanno troppo e compierebbero un’altra azione
spettacolare.—
—Vàlen,— disse il possente guerriero —io non ho nessuna intenzione di nascondermi.—
—Neanche io. Abbiamo solo bisogno di tempo per studiare le mosse del nemico ed elaborare un piano.—
Hellis disse pensieroso: —Sono dell’opinione di dire subito qualcosa alle autorità.—
—Per fare cadere una stella sul palazzo del reggente o sulla tua cattedrale madre? E’ meglio agire come
loro e cercare di non farci scoprire. Se ci accorgessimo che non siamo in grado di sventare il loro piano,
potremo avvertire qualcuno.—
—Potrebbe essere troppo tardi.—
—Non abbiamo altra scelta; se mobilitassimo adesso le forze della città probabilmente i nostri amici
farebbero un’altra strage. E non ho voglia di perdere il controllo della situazione adesso ed andare ad
informare il Re. A quello ci starà già pensando il reggente, con un’autorità ed un’efficienza sicuramente
superiore a quella che possiamo offrire noi. Qualcuno ha altre osservazioni?—
Tutti tacquero.
—Bene. Partiamo immediatamente; qui siamo un bersaglio troppo facile.—
Alzandosi, Vàlen scoprì le carte che aveva abbassato quando erano entrati gli elfi, mostrando una mano
eccezionale. Mentre si muoveva per allontanarsi dalla sedia, disse con fermezza:
—Ho vinto.—
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ShtàrLàn - Intermezzo
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Intermezzo
La ShtàrLàn era ormai arrivata sopra Tàndar, la capitale del TàndarLàn. La città era molto piccola per
essere una capitale. Era anzi un grosso paesello aggrappato ad una montagna dai declivi non troppo aspri,
con strade strette ed irregolari e protetto da una bassa cinta di mura. La montagna e la foresta avrebbero
impedito a qualsiasi esercito di arrivare in formazione serrata alle porte della città, quindi mura poderose
non erano necessarie. In realtà, Tàndar, pur essendo la capitale e la residenza del Duca, non aveva uffici
amministrativi, che erano stanziati a Nàkaram, trenta miglia più a valle, nel mezzo della pianura.
Evidentemente, un regno di maghi aveva modi molto efficaci di gestire il potere, e riusciva a farlo anche da
un eremo così sperduto.
Il tensìt Denel portò dolcemente la nave ad una quota più bassa, quindi le fece sorvolare la città fino ad
arrivare sopra alla cima della basa montagna. Là, svettava un grande palazzo di marmo, simile ad un
castello bianco con dieci torri rotonde, che affiancavano un grande edificio centrale. Era l’Accademia, il
luogo dove i giovani maghi venivano da tutto il mondo per studiare i segreti della magia e delle altre arti
arcane.
–Vostra Sapienza,– disse l’anziano alchimista, –fateci tornare visibili.–
Con un lieve tremito, la ShtàrLàn comparve proprio sopra l’Accademia. Sùbito, una folla si radunò nel
cortile interno, dove era stato preparato un lungo tappeto rosso. Alcuni maghi pronunciarono dei semplici
incantesimi, e cespugli fioriti dai mille colori sgargianti spuntarono improvvisamente intorno ad una piccola
piazzola; splendenti esplosioni di luce inondarono il cielo della montagna, ben visibili anche in pieno
giorno.
–Ci aspettavano...– concluse a bassa voce il re del Kalédion. Era sorpreso dal tipo di accoglienza
riservatagli. Pensava che la cosa sarebbe stata tenuta segreta, o almeno riservata.
La nave si appoggiò delicatamente al suolo; Denel si alzò dalla propria poltrona ed aprì il portellone, quindi
si spostò e fece posto al re, al sacerdote ed al mago che avevano viaggiato con lui. Uscirono in
quest’ordine. Davanti a loro, alcuni anziani maghi li attendevano.
–Salute a voi, Zorand III del Kalédion.– disse uno di loro. –Spero che questa visita sia l’inizio di un eterna
amicizia tra i nostri due popoli.–
Poco dopo, il Re del Kalédion e lo ShtràtSén Baldén Tàlan, duca di TàndarLàn, erano a colloquio privato.
Il Re era seduto in una piccola saletta, lussuosa ma sobria; era stato lasciato solo per qualche minuto,
un’indelicatezza leggera ma non certo casuale. Zorand III osservò il morbido divano di raso e legno
laccato sul quale era seduto, che formava un insieme con la ricca poltrona che aveva di fronte ed il piccolo
tavolino intarsiato che stava nel mezzo. La stanzetta era calda ed accogliente; un perfetto luogo per
l’incontro informale che avrebbe proprio desiderato avere con il Duca di TàndarLàn.
Il fatto che il duca fosse un mago, o meglio, fosse il più potente mago dell’Impero di Thàris, e tra i più
potenti del mondo, tanto da potersi fregiare del titolo di ShtràtSén, lo metteva assai a disagio.
I Kalédionìt avevano sviluppato la scienza alchemica e tecniche differenti; forse era stato proprio grazie
all’isolamento dai maghi dopo la Guerra di Indipendenza che la gente del Kalédion aveva imparato ad
“arrangiarsi” in qualche altro modo. Così, avevano scoperto che la magia poteva essere usata senza
bisogno di persone con un particolare potere, almeno in certi casi. Ed ora, invece, era lì a chiedere aiuto ad
un mago. Ma forse la cosa non era poi tanto strana: senza l’aiuto che l’Accademia aveva fornito, il
progetto delle ShtàrLàn si sarebbe arrestato quasi subito dopo l’inizio.
Finalmente, una porta smaltata di bianco e decorata con semplici intarsi si aprì, ed entrò Baldén Tàlan: il
Duca, il Maestro, lo ShtràtSén.
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Vestiva una comoda e larga tunica rossa; probabilmente era tessuta in raso o in seta, ma da come questa
seguiva i movimenti del Duca, era chiaro che sotto al raso c’era una stoffa molto più pesante.
L’allacciatura era sulla parte anteriore, composta da quattro o cinque grandi bottoni dorati. Non si trattava
certo di un capo squisitamente elegante; era più o meno dello stesso tenore degli abiti ricchi ma comodi e
semplici che il re aveva indossato per passare inosservato a BaiVil, e che portava ancora. Il volto del mago
era rilassato e sorridente; era certamente un uomo anziano, con i capelli molto corti e completamente grigi,
il volto aperto e profondi, intensi occhi neri.
–Vi porgo i miei omaggi, Vostra Maestà. Perdonatemi se vi ho fatto attendere, ma non sono riuscito a
liberarmi prima.–
–Capisco, Duca.– disse il re freddamente, ignorando il caldo sorriso del mago.
–Conoscendo il vostro amore per le occasioni informali ho fatto preparare questa stanza, dove potremo
parlare serenamente e senza troppi occhi puntati su di noi.– replicò il Duca sedendosi sulla poltrona
lasciata libera. Zorand non aveva nemmeno accennato ad alzarsi, ma Baldén non fu scosso da questo. Era
chiaramente un modo per vendicarsi dell’attesa.
–Apprezzabile.– fu il secco commento del re.
Il mago osservò Zorand molto intensamente, e questi gli restituì lo sguardo. Il re era ancora giovane, ed
aveva nell’anima e negli occhi il vigore degli anni che il mago aveva perso da tempo. Ma il Maestro
possedeva una profonda conoscenza della vita e dei misteri, e presto il sovrano ebbe la forte sensazione di
trovarsi di fronte ad un uomo per il quale il suo rango nobiliare non significava nulla: il suo concetto di
potere era un altro... ed era molto più reale. Zorand distolse lo sguardo sentendosi a disagio ed a questo
punto, il mago continuò a parlare.
–Vostra Maestà, i nostri due regni si accingono a lavorare insieme su di un progetto assai delicato, nel
quale possiamo riuscire solo se c’è aperta collaborazione tra di noi.–
–Comprendo benissimo.–
–Allora vi prego di abbandonare quel comportamento pregiudizievole che avete nei nostri confronti,
Vostra Maestà. Prima di essere Duca, sono solo un uomo... come voi.–
Probabilmente questa affermazione avrebbe scatenato l’ira di qualsiasi pomposo nobile Thàrisìt; ma i
nobili, nel Kalédion, erano continuamente sottoposti al severo giudizio del popolo: lì, la nobiltà doveva
essere sempre dimostrata, e non dipendere unicamente un cartiglio ingiallito. Quindi, ogni nobile
Kalédionìt, incluso il Re, fin dalla nascita era educato ad essere “prima Uomo, e poi Signore”. La frase del
Maestro aveva un chiaro riferimento proprio a questo passo del codice d’onore Kalédionìt, ed il Re non
poté fare a meno di stupirsi del fatto che una persona così impegnata avesse avuto il tempo di studiare il
Codice! Fino ad allora pensava che gli unici ad averlo letto fossero i nobili del suo regno.
–Voi avete ragione, Vostra Sapienza. Tutto quello che si racconta sulla vostra saggezza non è allora fiato
sprecato...–
–Un tempo sono stato avventato anche io, Vostra Maestà.– Era un sottile rimprovero, ma che faceva
sempre leva sul senso di umiltà dei Kalédionìt. Il Re capì che oltre ad un rimprovero, il messaggio
conteneva anche una ... benedizione... come se il mago avesse voluto sottintendere che sì, Zorand era
avventato, ma era giusto ed i giusti trovano sempre la strada per la saggezza: non si può pretendere di
essere davvero saggi a trent’anni.
–Vostra Sapienza, so che la nostra collaborazione darà frutti importanti... ed io sono venuto qui per
questo.–
–Molto bene, Vostra Maestà. Allora immagino che vi chiederete perché sia necessario portare qui le
ShtàrLàn, dopo che sono state interamente ultimate.–
– Sì; sarei curioso di saperlo.–
–Dunque: per quanti sforzi i vostri alchimisti abbiano compiuto, senza la magia le ShtàrLàn non sono in
grado di funzionare.–
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ShtàrLàn - Intermezzo
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–Certamente.–
–Principalmente: l’incantesimo che annulla il loro peso può essere facilmente cancellato da un mago
abbastanza potente.–
–Perdonate se la domanda è ingenua, ma sapete bene che sono un profano. Non sarebbe sufficiente rendere
più forte l’incantesimo?–
–Non fatevi scrupoli di domandare tutto quello che desiderate: vorrei che alla fine del nostro incontro non
restassero dubbi. Per quanto riguarda la vostra domanda, purtroppo questo non è sufficiente: se rendiamo
semplicemente più forte l’incantesimo, un mago che abbia a disposizione abbastanza energia, oppure molti
maghi che uniscano le loro forze, saranno facilmente in grado di dissiparlo. In secondo luogo vi sono altre
risorse magiche delle navi che devono essere protette: gli incantesimi del Portale, contenuti negli
accumulatori che hanno inventato i vostri alchimisti... ed anche gli stessi incantesimi che permettono agli
accumulatori di funzionare: tutto sarebbe reso vano da un semplice incantesimo di cancellazione della
magia.–
–E cosa potete fare per impedirlo, allora?–
–Per prima cosa avvolgiamo la nave con una magia che impedisce a qualsiasi mago di “trovarla”. Diviene
impossibile focalizzarsi su di essa per lanciare un incantesimo. Ma questo non basta, perché un abile mago
potrebbe prima distruggere la nostra magia accecante e poi fare il resto. Quindi proteggiamo
quell’incantesimo con altri, tutti diversi ed uno sopra l’altro; principalmente, ogni volta che si tenta di
cancellare un incantesimo di protezione, un altro che sta sotto di esso reagisce attaccando chi ha cancellato
quello sopra, con una magia ogni volta di tipo diverso.–
–E suppongo che sia impossibile proteggersi da tutti quanti gli attacchi magici che la vostra magia scatena
su chi tenta di scioglierla.–
–Nulla è impossibile, Vostra Maestà. Queste precauzioni però scoraggeranno chiunque, e renderanno
molto più facili, quindi probabili, altri tentativi da pare di eventuali nemici.–
–Cosa intendete?–
–Intendo dire che nessun mago rischierà mai la propria vita solo per tentare di scoprire quale incantesimo
difendeva un dato livello di protezione. A questo punto sarà preferibile usare mezzi non magici per
affrontare le ShtàrLàn.–
–Ed immagino che abbiate pensato anche a questo.–
–Certamente. Innanzi tutto rendiamo invulnerabile lo scafo agli attacchi fisici. Un tiro di catapulta, per
quanto forte possa essere forte, non potrà minimamente danneggiare la nave. Anzi... anche se una
montagna piombasse sulla ShtàrLàn, essa non subirebbe un graffio.–
–Come è possibile?–
–È possibile perché la nostra magia non si occupa delle dimensioni; è lo scopo, l’essenza della realtà che è
importante.–
–Quindi le ShtàrLàn sono invulnerabili!–
–Purtroppo, anche se siamo in grado di difendere lo scafo, un impatto particolarmente violento potrebbe
uccidere i passeggeri. Inoltre, esistono altri tipi di attacchi possibili, e non possiamo rendere lo scafo sicuro
contro tutti essi: il calore, il fulmine, la luce e la magia sono tutte forme di energia tali da evadere questa
protezione.–
–Ma avevate detto che la ShtàrLàn era protetta dalla magia.–
–Non esattamente: non può essere resa bersaglio di un incantesimo. Ma chiunque può lanciare un
incantesimo verso di essa, senza per questo riuscire necessariamente a colpirla. Non possiamo proteggere
la nave contemporaneamente da tutte le forme di attacco, quindi l’abbiamo dotata di un’armatura magica
in grado di difenderla. Il problema è che l’armatura può assorbire solo una quantità limitata di energia.–
–Quanto limitata?–
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ShtàrLàn - Intermezzo
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–Prima che lo scafo possa essere colpito, sarebbe necessario attaccare l’armatura con più di cinquanta
colpi delle vostre più potenti lame di luce.–
–...Come conoscete la potenza delle nostre armi?–
–Una lama di luce è installata a bordo della ShtàrLàn.–
–E voi non avete perso tempo a studiarla.–
–Esattamente. Non dovevamo?–
Il re stava per ribattere, ma si accorse che sarebbe stato un atto abbastanza sciocco: era necessario che i
maghi conoscessero perfettamente tutto ciò che avrebbe potuto danneggiare le ShtàrLàn.
Il Maestro continuò: – Anche se l’armatura si “consuma”, in un certo senso, possiamo reintegrarla una
volta che le ShtàrLàn tornano qui all’Accademia.–
–Non è possibile, per il mago di bordo, ripararla in volo?–
Il Maestro sorrise sentendo l’espressione “mago di bordo”. Aveva un che’ di ...evocativo...
–In teoria sì, ma deve essere molto abile e deve conoscere lo schema degli incantesimi di protezione, visto
che l’armatura giace sotto di essi. Per attraversarli tutti è necessario comunque molto tempo.–
–Capisco. Sembrerebbe un’arma invincibile.–
–In effetti si tratta di un insieme molto potente di magie. Tuttavia non dobbiamo credere che il potere della
ShtàrLàn sia assoluto.–
–Sarebbe comunque un grosso guaio se finisse in mani sbagliate.–
–Abbiamo pensato anche a questo: esiste un incantesimo molto potente che ci permette di fare sì che le
ShtàrLàn possano essere rese inoffensive con un semplice gesto. Se il Re del Kalédion o il Maestro
dell’Accademia, in qualsiasi momento, pronunceranno una parola, tutte le ShtàrLàn verranno private di
tutti i loro incantesimi.–
–Divenendo praticamente bare di latta per i loro occupanti...–
–Esattamente. Con un’altra parola, seguita dal nome usato per battezzare una certa nave, si rende
inoffensiva solo quella.–
–Così se una nave cade nelle mani del nemico, la possiamo neutralizzare solo pronunciando una parola?
Anche se non sono un mago?–
–Certamente; chiunque sia il Re del Kalédion, egli ha questo potere.–
–Ed anche il Maestro dell’Accademia.–
–Una precauzione: in questo modo se il Re del Kalédion o lo ShtràtSén dovesse venire catturato o dovesse
essere impossibilitato ad agire, l’altro potrà provvedere.–
La conversazione continuò per alcune ore, nelle quali il Re ed il Duca discussero i dettagli dell’accordo:
sarebbe stato fondato un ordine di cavalieri, gli ShtàrLànél, preposti alla guida delle navi, dotati di armi ed
oggetti magici formidabili, formati da uomini scelti da entrambi i regni. Sarebbero stati creati dei portali
permanenti tra i due regni, in modo da rendere più agevoli le comunicazioni e gli spostamenti delle truppe.
L’apertura e la chiusura dei portali sarebbe stata sottoposta ad un ordine particolare di ShtàrLanél.
Zorand III uscì dalla sala rasserenato. L’incontro con il Duca di Tàndar era stato foriero di buone notizie e
buoni propositi. Era molto felice di avere a che fare con un interlocutore evidentemente saggio e benevolo,
e le sue preoccupazioni nei confronti dei maghi, almeno quelle, erano state dissipate. Ma non era sereno.
L’idea di creare un’arma così potente non era stata sua, e l’idea che il suo piccolo, pacifico regno fosse
destinato ad esserne il custode era ancora più tremenda.
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ShtàrLàn - Capitolo 4
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Capitolo 4
Abbandonare SàiVòd non era stato difficile, anzi, Talya e Trellin erano decisamente entusiasti all’idea.
Prima di sera avevano già percorso almeno cinque miglia, che nel folto della foresta non sono poche.
Il sole stava calando, ed i delicati raggi filtravano fra le foglie, rischiarando il sottobosco pulito di una
piccola radura. Trellin fermò il cavallo e la osservò con aria professionale; dopo averne accuratamente
abbracciato ogni angolo con lo sguardo sentenziò: —Mi sembra un posto ideale per accamparci.—
Anche agli altri il posto piaceva, soprattutto a Talya che corse giù dal cavallo appena sentito il responso
del padre.
Le operazioni per montare il campo non furono lunghe: la stagione era clemente e dormire all’addiaccio
non era affatto spiacevole. Presto, Trott accese un allegro fuoco che ardeva scoppiettando e riscaldando
l’aria.
Mentre gli altri si preparavano a cenare, Hellis si appartò ai bordi della radura, fuori dalla vista dei suoi
amici, per meditare e pregare. La concentrazione era come una marea di dolce ed appiccicosa melassa, che
ondeggiava e riempiva la mente in meditazione. Hellis perse velocemente coscienza del proprio corpo, ed
iniziò a vedere con gli occhi della propria anima ciò che lo circondava. La sua essenza saliva sempre più in
alto nel cielo, si muoveva ad una velocità impensabile verso il Monte Sacro, dove soggiornava lo spirito di
ShtàrRésel. Ma sugli infiniti oceani delle anime, prima di arrivare in quel luogo inesistente, una luce
sfolgorante lo accecò. La potenza delle parole del suo dio era inconfondibile e tremenda. Disse
semplicemente, con un tono insolitamente allarmato:—Sei in pericolo!—
Le mani immateriali di ShtàrRésel avvolsero la sua anima; anche se Hellis aveva parlato spesso con il suo
dio, non aveva mai avuto un rapporto così intimo con lui; l’emozione e la sensazione gli riempivano ogni
angolo della mente, impedendogli anche solo di pensare. Il dio lo fece tornare indietro, con delicatezza ma
con decisione: in condizioni normali, il sacerdote avrebbe impiegato troppo tempo a svegliarsi dalla trance.
Hellis sobbalzò, mentre la sua mente scossa lottava per controllarsi. Dopo un lungo istante di smarrimento,
il maturo chierico iniziò a concentrarsi di nuovo per usare i rari poteri della mente che il suo dio gli aveva
donato. Centinaia di pensieri lo bombardarono; quelli della felicità di Talya, del dubbio di Vàlen, della gioia
di un predatore notturno; ma soprattutto quelli malvagi di persone pronte ad assaltare, ed uno molto,
molto più forte. Un sapore bestiale di caccia.
—Vàlen!— urlò Hellis.
Poco distante, sentendo il grido, Tòret aveva già sguainato il suo terribile spadone, mentre il mago era
scattato in piedi, pallido in volto per la paura per la sorte del sacerdote. Ma non ebbe il tempo di muoversi
verso il suo amico: uomini armati stavano irrompendo nella piccola radura.
Il primo si gettò contro la figura torreggiante del guerriero, che gridando, calò la sua tremenda lama
sull’assalitore. Questi sollevò lo scudo, ma non era preparato a reggere la violenza dell'impatto.
Sbilanciato, incespicò all'indietro facendo del suo fianco un facile bersaglio per Tòret, che si liberò di lui
con un affondo rapido e silenzioso.
Un secondo nemico si stava dirigendo verso Vàlen, che non aveva ancora avuto il tempo di capire cosa
fare. Quasi paralizzato per l’indecisione e la sorpresa, il ragazzo era inerme di fronte al grosso sicario, che
aveva già sollevato la spada. Ma il suo ghigno di soddisfazione si trasformò istantaneamente in una smorfia
di dolore e sorpresa, quando una freccia scagliata dall’arco di Talya gli passò attraverso il centro del petto,
fermando per sempre il suo cuore. Trellin aveva sfoderato la spada, mentre sei robusti uomini si
avventavano contro l’elfo ed il guerriero umano.
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ShtàrLàn - Capitolo 4
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Intanto, Hellis si era alzato e stava tornando di corsa verso la radura. All’improvviso due guerrieri gli si
pararono innanzi, con le spade in pugno e l’espressione guardinga. Hellis sorrise, un sorriso pieno di
ironica compassione, e pronunciando a bassa voce alcune parole, alzò una mano. Una tenue luce lo avvolse
per un istante, ed i due guerrieri furono immobili come statue. Arrivò in vista degli altri in tempo per
vedere cadere l’uomo trafitto dalla freccia di Talya, mentre altri entravano urlando nella radura.
Tòret, fronteggiato da tre nemici, roteò lo spadone per poi calarlo su quello che aveva davanti, mentre
schivava un fendente dell’avversario che aveva sulla destra per poi estrarre la spada dal corpo del nemico e
parare con rapidità il colpo proveniente da sinistra. Dall’altra parte, Trellin aveva alzato lo scudo per
coprirsi da un fendente di un robusto avversario, mentre affondava su di un secondo nemico colpendolo a
morte. Fra di loro Talya aveva incoccato un’altra freccia, colpendo il maniera seria un guerriero che era
entrato nella radura solo adesso. Vàlen si trovava fra gli altri compagni ed Hellis, che stava iniziando a
raccogliere la concentrazione per un nuovo incantesimo. Vedendo il suo amico, il mago si era ripreso dallo
shock e aveva iniziato a concentrarsi a sua volta. Altri due avversari si erano gettati nella mischia, mentre
Hellis scagliava due dardi infuocati, che andarono a colpire le spade dei due assalitori. Le lame divennero
incandescenti e si sciolsero nelle mani dei loro padroni, mentre questi urlavano e si gettavano a terra per il
dolore. Vàlen scagliò una scintilla di luce verso il guerriero che stava affrontando Trellin. Il terreno sotto i
piedi del nemico si spaccò, generando una piccola crepa che sbilanciò l’avversario; il principe sfruttò il
vantaggio e affondò nel suo petto indifeso.
Fu allora che, dal folto della foresta, provenne un urlo che poco aveva di umano. Mentre Tòret si liberava
con un affondo di uno dei suoi due avversari e l’altro veniva reso inoffensivo dalla freccia di Talya, due
guerrieri ricoperti da un’armatura molto pesante entrarono nella radura, a sei metri l’uno dall’altro. Il loro
volto era nero, come la pelle delle loro mani, e reggevano entrambi una lunga spada ed uno scudo con una
testa di leone per emblema. Le loro spade brillavano debolmente: erano intrise di magia.
Mentre Tòret e Trellin si stavano dirigendo verso i nuovi avversari, un arbusto ai confini della radura cadde
con un tonfo frusciante, rivelando dietro di se’ una figura alta almeno tre metri. Un uomo lucertola
gigantesco avanzò ponendosi tra i due guerrieri, rivelando il suo corpo incredibilmente possente. Vàlen
aveva ultimato la sua concentrazione, mentre l’aria brillava intorno a lui, ed un lampo azzurro attraversò la
radura, andando a colpire il mostro. Il tuono era fragoroso, e l’erba bruciava sotto ai piedi della creatura.
Questa emise un urlo stridulo, ma si fermò solo per un istante, quindi si diresse verso lo sconcertato mago,
che iniziava a preparare un nuovo incantesimo. Ma anche Hellis stava meditando, ed il boato della magia
che stava accumulando assordava, tanto che anche il mostro dette segno di sentire quel rombo, portandosi
le mani alla testa. Il mostro non sapeva che non erano le orecchie ad udire il suono della magia.
Talya, disperata, incoccava e tirava una freccia dietro l’altra, nel tentativo di fermare l’essere. Un paio di
frecce riuscirono a penetrare la pelle del gigante, ma questi non diede segno di rendersene conto più di
tanto: continuava ad avanzare verso Vàlen. Trellin e Tòret volevano gettarsi all’inseguimento della bestia,
ma erano troppo vicini ai guerrieri, che li avevano già impegnati in combattimento.
La minacciosa ombra del mostro gravava sull’esile mago, che aveva smesso di concentrarsi, terrorizzato
dalla creatura e conscio della propria impotenza. Ma mentre l’essere guardava con divertito odio il ragazzo
pallido, Hellis pronunciò la sua parola. Le menti dei duellanti udirono come un impatto, uno schianto
terribile, e poi, silenzio. La bestia guardò con curiosità il chierico, poi la sua espressione si mutò in stupore
e quindi in terrore, e dolore, mentre le gambe gli tremavano e cedevano facendolo cadere in ginocchio con
un grido strozzato. Vàlen fu molto rapido a fuggire, ed un istante dopo, il mostro cadde pesantemente
dove prima si trovava il mago.
Il duello dall’altra parte del campo era furioso: i due nemici erano molto forti, e Trellin era notevolmente
più esile del proprio avversario. Cominciava a fare fatica a parare i suoi colpi, tanto più che sembrava che il
suo nemico avesse risparmiato la sua forza per stancarlo. Anche Tòret si trovava in difficoltà; in quel
momento la sua lama batteva contro lo scudo del suo antagonista. L’avversario credette che Trott si fosse
sbilanciato, e caricò un rapido fendente. Ma il guerriero fu svelto ad alzare lo spadone per difendersi,
mentre il nemico stava abbassando il colpo. L’impatto fu violento, e la spada magica dell’altro spezzò il
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metallo dell’arma di Tòret, ma l’istinto di lotta salvò il guerriero, facendolo spostare di pochi centimetri di
fianco, mentre cadeva la parte spezzata della sua lama. Il nemico, credendo ormai di avere vinto ed ancora
guidato dalla forza del suo stesso colpo, continuò calare la spada, ma inutilmente. Trott non esitò un
istante nel vedere il fianco dell’avversario scoperto, ed infilò quello che restava della sua arma nel collo
della vittima. L’espressione del nemico divenne terrorizzata, mentre lottava per estrarre la lama dal collo;
nella foga e nella rabbia non aveva capito di avere ricevuto una ferita mortale ed ancora per qualche
istante, il guerriero scalciò nell’ultimo tentativo di fuggire alla morte ed al suo uccisore.
Trellin ricevette un colpo che il suo scudo non riuscì ad assorbire completamente; la violenza dell’impatto
ed il dolore al braccio lo fecero cadere. Il guerriero su di lui girò la spada, dirigendo la punta verso il basso,
pronto ad infilzare l’elfo, mostrando un perverso ghigno di soddisfazione. E fu in quell’istante che la voce
di Talya risuonò secca nell’aria, accompagnata dal rumore mentale della magia. Improvvisamente, la spada
del nemico, che era proprio davanti al suo volto, brillò con un’intensità così forte da accecarlo. In un batter
d’occhio Trellin sollevò la sua lama affondando con forza nell’addome del suo avversario. Il rumore del
metallo che strideva nell’armatura e nelle ossa fu disgustoso, come il sangue scuro che colò dalla spada
sulla mano dell’elfo. Il volto del guerriero mutò in una grottesca smorfia di stupore ed il suo corpo cadde
di fianco, privo di vita.
La battaglia era finita; i due guerrieri con le mani bruciate dall’incantesimo di Hellis fuggirono nella foresta,
e quelli bloccati lontano dal campo sarebbero stati fermi per molte ore ancora. Tòret non provò neanche ad
inseguire i fuggitivi, erano troppo agili per lui, mentre Trellin sapeva che da solo, e ferito, non sarebbe
riuscito a sopraffarli. Prima ancora che si fosse alzato, Hellis era sopra di lui e stava osservando con aria
esperta il profondo taglio al braccio.
—Sei fortunato: — disse, — è una brutta ferita, ma poteva andarti molto peggio.—
Trellin osservò l’immenso corpo dell’umano che gli giaceva accanto ed annuì cupamente.
Talya era ancora tremante per lo sforzo dell’incantesimo, ma era rincuorata nel vedere che suo padre non
aveva niente di grave. Subito, le tornò alla mente Vàlen. Si girò di scatto e vide il ragazzo seduto
scompostamente, mortalmente pallido mentre osservava scosso il corpo del mostro. D’un tratto le tornò in
mente la paura che aveva provato per la sorte del giovane, mentre il mostro lo stava per raggiungere.
Sembrava così terrorizzato, così impotente...
Talya corse verso di lui in lacrime, come per sfogare la tensione del combattimento alla quale non era
abituata. Vàlen non realizzò subito cosa stesse succedendo, ma si accorse di un tocco deciso e
rassicurante, di un abbraccio morbido ed affettuoso e di una cascata d’oro che gli cadeva sulla spalla. Talya
era inginocchiata dietro di lui e stava piangendo sommessamente. Il mago si assestò, girandosi di fianco,
abbracciandola a sua volta e sprofondando il volto nel suo corpo. Non capiva bene dove si trovasse il
proprio viso, ma riusciva a sentire che così si sentiva protetto. Una voce dolce, tremante e sommessa lo
raggiunse dall’alto. —Non farlo mai più, sciocco.— Vàlen non sapeva cosa non dovesse fare, ma non ci
pensò molto. Così dicendo la principessa elfa strinse più forte il ragazzo al suo seno e gli baciò i capelli
teneramente.
Tòret si sedette stancamente su una grossa pietra, vicino agli altri, osservando la carneficina. Aveva preso
la spada del suo avversario, come Trellin del resto, e ora la teneva per l'elsa, con la punta rivolta verso
terra, a mo' di bastone. Il suo sguardo era glaciale e i suoi occhi impenetrabili; sarebbe stato impossibile
capire cosa pensasse per chiunque, persino per Hellis che pure lo scrutava intensamente. Il giovane
guerriero emise un sospiro profondo e pesante, e poi, improvvisamente, come se si fosse rotta una
maschera, il suo volto si aprì in un largo sorrise.
—Stasera non abbiamo bisogno delle provviste.— disse con una punta di allegria.
—Cosa intendi, uomo?— replicò seccato Trellin, che ce l’aveva più per la stretta fasciatura al braccio
applicata dal sacerdote (sotto l'attenta supervisione di Talya) che per i modi del guerriero.
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—Carne di rettile!— disse a mezza voce il guerriero alzandosi e dirigendosi verso la carcassa del mostro.
Gli altri corpi giacevano ai margini dalla radura, ma qua e là erano rimaste vistose chiazze di sangue, che
Talya cercava di non guardare.
Dopo un attimo di esitazione la principessa protestò: —Io non ho nessuna intenzione di assaggiare
qualcosa che provenga da quel mostro!— ma nessuno la stava ascoltando, meno che mai Vàlen, che le era
seduto accanto e che era totalmente assorto nei suoi pensieri. Lei gli stava adesso insolitamente vicina.
Mentre Trott sguainava un lungo coltello affilato che brillava nella semioscurità, la ragazza continuò —...
E... e poi non sappiamo neanche se si può mangiare...—
—Temo proprio che si possa, principessa.— disse la voce calma ed un poco divertita del saggio sacerdote,
che la scrutava molto intensamente. Ciò metteva a disagio Talya. Quegli occhi di ghiaccio potevano
leggere nell’anima, e questa è una cosa che qualsiasi donna ha sempre odiato.
—Ma... è così brutto... è orribile!— disse proprio mentre Tòret iniziava il suo lavoro.
—Non è brutto, o meglio, lo è solo per te che non sai apprezzare la sua possenza e la sua grazia. Pensa a
come siamo brutti noi per lui, piccoli esseri dal sangue caldo e viscido, che emettono suoni sconvolgenti e
non hanno neanche la coda per bilanciarsi...—
L’idea entrò piano nella mente di Talya, accompagnata da un progressivo mutamento nella sua
espressione. Lentamente, cercava di analizzare quello che Hellis le aveva detto. In realtà non cercava di
capirlo, ma di contraddirlo, di trovare qualche appiglio che le potesse confermare che l’umano si sbagliava.
La cosa più tremenda per lei era che quell’appiglio non c’era. Hellis continuò: —E poi la carne di rettile è
la più saporita in assoluto. Non lo sapevi?—
Talya non lo sapeva. Guardò suo padre che annuì convinto.
—Vedi, principessina? Non tutte le cose sono quello che sembrano. Cominci ad accorgerti che bisogna
guardare oltre le apparenze, vero?— Lo sguardo di Hellis avrebbe perforato un muro di ferro, ma nei suoi
occhi non vi era malignità o severità, solo calma e certezza. Talya capì a cosa stesse alludendo il sacerdote,
ed abbassò gli occhi, arrossendo impercettibilmente. Il principe non riuscì ad afferrare cosa i due si stessero
dicendo, e la cosa lo innervosì.
Vàlen si destò pochi istanti dopo dai propri pensieri, mentre la principessa si copriva le orecchie per non
sentire il rumore della lama di Tòret che lavorava nella carne della bestia.
—Non ci avevi detto di essere tanto potente, Hellis...— Il suo sguardo era fermo e per niente divertito. Il
fulmine era l'incantesimo più distruttivo che conoscesse, ma non era bastato a fermare quella bestia. Hellis,
invece, l’aveva fermata apparentemente senza sforzo...
—Non lo sono.— rispose perplesso il sacerdote, che cercava di afferrare il filo dei pensieri del ragazzo per
poter seguire il suo discorso.
—Ma... Quello che hai fatto all’uomo lucertola non è affatto semplice... qualsiasi cosa tu abbia fatto.—
Hellis capì cosa il ragazzo intendesse dire. —Il potere non è mio.— rispose. —E’ difficile da spiegare,
Vàlen, ma è come... se il sommo ShtàrRésel mi avesse "prestato" questo potere. Lo controllo io, ma solo
perché ShtàrRésel me lo ha concesso e mi aiuta.—
—Deve essere bello avere un dio dalla propria parte...— disse Vàlen rapito dall’idea.
—No, Vàlen. Piuttosto é bello essere dalla parte di ShtàrRésel.— concluse sorridendo Hellis. I suoi occhi
saggi incontrarono quelli furbi ma inesperti del giovane mago, e vi colsero una scintilla di ammirazione che
non avevano mai scorto prima. L’attimo durò poco e lo sguardo ammirato del mago fu subito rimpiazzato
da un’espressione di curiosità così solita sul volto del ragazzo. —Hellis, tu non sei quel semplice prete che
volevi farci credere di essere.—
Hellis rise di cuore: —Ma io non ho mai voluto farvi credere niente, figliolo.—
—Però ci sei riuscito benissimo... Ma tu sei di certo più che un umile prete...—
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Hellis abbassò il volto; Vàlen lo conosceva abbastanza bene da poter stabilire con una certa precisione che
il suo amico era stato colto da un attacco di modestia.
—Sono solo uno dei servi di ShtàrRésel, Vàlen.—
Trott era appena tornato, carico di sanguinanti bistecche di dimensioni drammatiche. Il suo volto
soddisfatto riempiva la radura, e chiunque avrebbe potuto capire che era in estasi per il pensiero della
cenetta che si apprestava a degustare. Tòret stesso si impegnò a cucinare, visto che la piccola principessa
aveva cortesemente declinato il suo gentile invito ad aiutarlo. Non riusciva a capire bene come mai la
ragazza non volesse cucinare; aveva sempre pensato che le donne adorassero cucinare, e poi quella era
veramente una cena speciale, anzi unica! Boh, comunque le bistecche cuocevano bene sull’allegro fuoco, e
presto sarebbero state cotte. In effetti, a parte lui, nessuno sembrava poi così eccitato. Anzi, avevano tutti
un’espressione piuttosto cupa... Improvvisamente si sentì come uno che scherza ad un funerale. Rifletté.
Sapeva di essere l’unico, fra quelle persone, abituato a combattere. La tensione, la paura e lo sforzo
avevano snervato tutti, soprattutto Vàlen; lentamente, anche il robusto guerriero si rese conto della
situazione: delle persone avevano tentato di ucciderli, e tutto sommato non c’erano poi andati così lontani,
almeno con Trellin. E poi c’era quel mostro, che fino ad ora per lui era solo una squisita cenetta. Guardò
meglio la carcassa e riflettè. Gli vennero i brividi al pensiero di doverlo affrontare; prima era stato troppo
impegnato a combattere, ma adesso se lo stava immaginando enorme ed imponente, sopra di lui... Si
affrettò a girare le bistecche.
I compagni consumarono le loro porzioni in relativo silenzio. Talya si assicurò che tutti avessero
assaggiato l’immonda pietanza, prima di azzardarsi a toccare un bocconcino con la punta della lingua...
Strano... aveva un sapore... strano. Ma non era come si aspettava. Improvvisamente si accorse di avere una
fame immensa, ed al primo contatto con il cibo, la sua bocca si riempì di saliva. Mangiarono tutti di buon
gusto, e presto ebbero finito.
Vàlen disse: —Penso che sia saggio fare la guardia stanotte. Io potrei fare il primo turno, Hellis...—
—...Farà il primo.— lo interruppe il sacerdote. —Tu hai bisogno di dormire ragazzo, ed io ho lasciato in
sospeso una cosa molto importante.—
Vàlen fu spiazzato dall’autorità di Hellis; la sua voce aveva un tono che non ammetteva repliche.
—...Penso che tu abbia ragione, dormire non mi farà male...— si era accorto di avere avuto intenzione di
fare il primo turno di guardia unicamente per non dormire, per non sognare la bestia che stava per
ucciderlo, per non dover immaginare anche stanotte come era morta sua madre e per non dover vedere le
persone che bruciavano a Sàlliandem. Ma aveva bisogno di dormire, ed era grato al suo amico per
averglielo imposto.
Tòret e Trellin decisero di fare rispettivamente il secondo ed il terzo turno di guardia. I giacigli furono
disposti intorno al fuoco, in cerchio, con i piedi rivolti verso il calore. Vàlen faticò molto a trovare una
posizione comoda per dormire; si accorse di essere mortalmente stanco. Ma non era la stanchezza la cosa
peggiore: la tensione accumulata in questi giorni era diventata insopportabile. La metà delle cose che gli
erano capitate avrebbe fatto crollare un ragazzo qualsiasi, ma in fondo tutti i Kalédionìt hanno la pelle dura
ed i nervi di acciaio. Il Kalédion del Nord é una terra aspra, che non concede nulla a chi non lotta per avere
anche il minimo indispensabile per sopravvivere. E Vàlen era un ragazzo forte. Ma mentre si addormentava
desiderò di poter sentire sua madre che gli accarezzava i capelli e gli sistemava le coperte, almeno
un’ultima volta.
—Vàlen...— Era la voce flautata della principessa, inginocchiata davanti al mago che dormiva ancora. —
Vàlen, dobbiamo partire...—
—Adesso vengo, mamma...—
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ShtàrLàn - Capitolo 4
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Talya sentì come una lama che le attraversava il cuore al pensiero di quello che stava passando il ragazzo
ed al ricordo di quanto aveva sofferto lei. Quando gli occhi del mago si aprirono, riportandolo alla realtà
dal dormiveglia, l’elfa riuscì a scorgere in lui l’atteggiamento che le persone hanno quando si svegliano da
un sogno e cercano quello che hanno sognato; solo dopo si rendono conto di essere sveglie e maledicono i
bei sogni. Quell’attimo passò in fretta per Vàlen, ma gli lasciò un malumore che difficilmente si sarebbe
scrollato di dosso per il resto della giornata. —Avete già sistemato tutto; se mi aveste chiamato vi avrei
aiutati...—
—Hellis ci ha chiesto di lasciarti dormire.— Lo sguardo dell’elfa si addolcì. —Come ti senti.—
—Bene.— La ragazza aspettava una battuta umana, e Vàlen lo sapeva. Era di umore troppo nero per
inventarsene una, ma poi si accorse che Talya si stava offendendo, e l’ultima cosa di cui aveva bisogno
oggi era un’elfa offesa. —Per essere un bambino che ha bisogno di dormire direi proprio che va bene...—
Talya si alzò con un’aria a metà tra l’indignazione e la delusione; effettivamente era una brutta battuta, e
che non faceva ridere, per giunta.
Una volta in sella, il gruppo si mosse con calma verso sud. Hellis si avvicinò al mago e gli chiese: —Da che
parte andiamo, Vàlen?—
—In un posto dove non ci possano vedere.—
—Non ti seguo— Hellis era perplesso; il mago voleva prendersi la sua rivincita dopo la perdita di autorità
della sera prima.
—Nessuno ci ha seguiti fuori dalla città, giusto?—
—Almeno a noi è parso così.—
—Trellin, ti sei accorto per caso di qualcuno che ci seguiva ieri sera?—
La domanda offendeva velatamente l’Elfo, che risentito rispose: —Non ci ha seguiti nessuno. E non
chiedermi se ne sono sicuro.—
—Quindi, non ci ha seguito nessuno. Però sapevano che noi eravamo lì. Per scoprirlo non possono aver
usato un incantesimo, altrimenti ce ne saremmo accorti...—
Hellis stava riflettendo a sua volta: in effetti esistevano degli incantesimi o degli strumenti molto sofisticati
che avrebbero permesso di rintracciarli senza che loro potessero accorgersene, ma lui avrebbe percepito
qualcosa in ogni caso quando era entrato in contatto con ShtàrRésel.
—Noi abbiamo a che fare con stregoni, e per uno stregone il metodo migliore di reperire informazioni è
quello di inviare uno spirito o un demone familiare.— concluse Vàlen. —Quindi ci dirigiamo dove un
familiare non può seguirci; lì elaboreremo un piano.—
Intervenne Trellin: —E dove sarebbe questo posto miracoloso?—
—Ho degli amici ben organizzati, da queste parti. Seguitemi!— Fu la risposta del mago, che lanciò il
cavallo al galoppo.
Il viaggio fu breve e piacevole; la mattina era maturata ed il calore aveva sciolto le foschie, lasciando
un’aria limpida e fresca, gradevole da respirare. Il Kalédion del Nord è selvaggio e a volte mortale, ma é
bellissimo. Le sue ampie foreste giungono alle pendici degli alti monti, sui quali gli alberi si diradano e
vengono sostituiti dall’erba, che lascia spazio alla roccia grigia, ed ancora più in alto, ai candidi ghiacci. I
suoi prati regolari, le sue colline tondeggianti e le sue ampie e fertili valli... nulla farebbe pensare ad un
posto così pericoloso come in realtà il Kalédion è.
Era ormai mezzogiorno quando il gruppetto arrivò nei pressi di una costruzione isolata; una torre di grigia
pietra si innalzava nella foresta, a quasi un chilometro dal fiume. Alla base della torre c’erano alcune
piccole abitazioni, e quella che sembrava essere una stalla. Al rumore dei cavalli, un paio di giovani uomini
avevano interrotto le loro occupazioni: indossavano comodi abiti da lavoro e sporchi grembiuli di cuoio da
stallieri. Non erano molto robusti e dalla barba che avevano si poteva stimare che superassero appena i
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venti anni. Appena il mago uscì con il suo cavallo dal folto della foresta, i due ragazzi lo salutarono
sbracciandosi. Vàlen saltò letteralmente giù dal suo cavallo, e corse ad abbracciare i suoi amici.
—Jòrlen! Léndit! Cosa ci fate nelle stalle?! Dovete proprio averne combinata una delle vostre!—
—Vàlen, razza di mascalzone! Se fossi ancora con noi, oggi sarebbe stato il tuo turno!— era la voce
squillante di Jòrlen, un giovane gracile ma sveglio, dai corti capelli color sabbia, sempre ben pettinati e
dagli occhi celesti.
—Cosa ci fai da queste parti? Nostalgia, eh?— Chiese Léndit, un ragazzotto con un volto ordinario ed i
corti capelli neri ribelli. Aveva lo sguardo profondo, un grosso naso e la bocca carnosa.
—Non proprio, fratelli...— Vàlen, nonostante la presenza dei suoi più cari amici, non riusciva proprio a
cancellare quel malumore col quale si era svegliato.
Intanto il chiasso aveva attirato fuori una decina di giovani di differente età che si erano stretti attorno al
mago, come se fosse arrivato il guaritore in un accampamento pieno di feriti. Vàlen aveva lasciato la torre
da meno di sei mesi; praticamente, tutti quelli che erano ancora lì avevano appena iniziato ad apprendere le
arti magiche; tre o quattro volti erano nuovi, e stavano chiedendo ad altri ragazzi chi fosse questo mago.
Erano molto felici di sapere che era uno di loro, un mago come loro sarebbero potuti diventare fra qualche
tempo.
Vàlen sorrise a molti volti amici, e salutò i nuovi arrivati che non conosceva ancora, mentre le immagini
ancora vive di un passato allegro e vicino lo colpivano, emozionandolo fino quasi alle lacrime. Poche
parole di saluto ancora, e poi il mago disse:—Scusatemi, ma dopo avremo tutto il tempo per parlare.
Adesso devo andare dal Vecchio.—
Una voce che proveniva da uno dei molti volti che lo circondavano lo avvertì —Oggi il Maestro ha visite
importanti...— ma Vàlen rispose mentre già correva verso l’ingresso della torre del suo insegnante; —
Anch’io sono importante!—
Vàlen guidava il gruppetto mentre si arrampicava sui ripidi gradini di pietra che si avvitavano verso l’alto.
A Talya parve che la scalata non dovesse finire mai, e già a metà strada si accorse che la testa iniziava a
girarle in maniera appena accennata. Forse era per la velocità con la quale il ragazzo umano la stava
costringendo a salire... Ma la sensazione si faceva più forte e definita. Non erano le scale... c’era magia
nell’aria; molta magia. —Vàlen... — chiamò allarmata la principessa.
—Lo sento anch’io Talya. Non ti preoccupare, é normale da queste parti.—
Arrivarono in fine ad un pianerottolo angusto, chiuso da una vecchia porta di legno. Come una luce o un
suono, la magia filtrava dalla porta e riempiva l’aria, tanto che Hellis Talya e Vàlen avevano i brividi.
Anche Trellin e Tòret avvertivano un’insolita sensazione. Il mago prese la principessina delicatamente per
il braccio; la ragazza stavolta non sentì alcun disagio per il contatto con l’umano. Il giovane si avvicinò
cautamente ed in silenzio alla porta, guidando l’Elfa. —Talya, stai per vedere qualcosa di incredibile...— le
sussurrò piano. La ragazza rispose con un debole —Forse non dovremmo... disturbarlo, non credi?— ma
Vàlen stava già schiudendo la porta. Il ragazzo era più alto dell’elfa, tanto che entrambi potevano
comodamente vedere oltre la porta attraverso il piccolo spiraglio aperto.
Talya sgranò gli occhi per lo stupore. L’interno della stanza non era una stanza... Campi verdi, guglie
innevate, foreste tropicali e deserti artici convivevano tutti in quel luogo. Ad alcune decine di metri di
distanza l’uno dall’altro, due maghi circondati dalla loro aura di potere erano concentrati e si stavano
preparando a lottare l’uno contro l’altro, ma non con le armi: usando la loro magia. Vàlen sussurrò così
piano che un umano non avrebbe potuto sentirlo: —Quello a destra è Sendovan, il mio maestro. Non so
chi sia l’altro... A proposito, non ti preoccupare, stanno solo giocando.—
D’improvviso comparve una gigantesca rete che sarebbe presto caduta sullo sconosciuto. Questi estrasse
rapidamente dalla cintura una massiccia bacchetta d’argento lavorato e la agitò intorno a se’, fendendo
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bruscamente l’aria. Dei grotteschi esseri alati comparvero sopra la sua testa e volarono rapidamente fino ad
andare a sbattere nella rete magica, che li avvolse completamente tenendoli sospesi a mezz’aria.
—Uno stregone!—, commentò Vàlen sussurrando.
Nel frattempo, Séndovan aveva preparato un nuovo incantesimo: un poderoso fulmine stava prendendo
vita dalle sue mani, che erano circondate da uno sfrigolante campo elettrico; lo stregone frugò rapidamente
nelle sue tasche e prese un talismano dalla forma incomprensibile nella sinistra, disegnando uno strano
simbolo nell’aria. Subito dopo, iniziò ad agitare la bacchetta d’argento che aveva ancora nella mano destra;
nel mentre, il mago scagliò la poderosa scarica di energia verso il suo avversario. Il fulmine avrebbe dovuto
colpire lo stregone, ma il talismano lo attirò a se’. Tuttavia, la potenza dell’incantesimo era enorme, e
l’amuleto divenne incandescente; lo stregone lo gettò a terra, imprecando per il dolore, ed interrompendo il
sortilegio che stava completando. Con un gesto, Sendovan cancellò la rete che teneva prigionieri gli
orrendi spiriti evocati dallo straniero. Questi iniziarono a volare inferociti verso il mago, ma Sendovan era
pronto e pronunciò velocemente una nuova magia. Prima che lo stregone si fosse ripreso, i suoi spiriti
stavano avevano invertito direzione, e si dirigevano verso di lui. Turbato dall’idea di essere attaccato dalle
stesse creature che aveva evocato, lo sconosciuto agitò ancora la sua bacchetta per evocare altri spiriti, ma
il mago sollevò una mano, chiudendola a pugno. Al dito medio indossava un anello che splendeva di
un’intensa aura magica... un vettore. Una freccia infuocata comparve accanto al mago ed in un batter
d’occhio andò a colpire la bacchetta d’argento dello stregone. Il dolore lo fece urlare, mentre lasciava
cadere il suo prezioso oggetto magico e la sua mano fumava per l’intenso calore. Gli immondi esseri che
aveva evocato gli erano già addosso e si gettarono su di lui, strappandogli brandelli di carne sanguinante.
Talya era terrorizzata dalla macabra scena e si lasciò sfuggire un soffocato grido di paura; Vàlen le pose
una mano tra la spalla ed il collo, accarezzandole la pelle e sussurrando: —Stanno solo giocando!—. Ma
Talya non lo sentiva; il suo tocco era rassicurante, ma quegli esseri alati scavavano in profondità nel corpo
dello stregone; il rumore della carne strappata e le urla del poveretto l’avevano lasciata pietrificata. Mentre
le grida dello sconosciuto si tramutavano in soffocati rantoli, il mago, sorridente, pronunciò una semplice
parola, al suono della quale quell’ambiente sconfinato si restrinse velocemente, si contorse in maniera
irragionevole fino a che le sue forme ed i suoi colori non furono quelli del laboratorio di Séndovan; un
caotico insieme di libri, tavoli ed alambicchi. Lo sconosciuto giaceva a terra, scosso ma illeso. L’anziano
mago si avvicinò a lui e gli offrì un braccio, al quale questi si aggrappò per issarsi in piedi.
—Ho l’impressione di non essere ancora pronto per sfidarti...—
—Beh, almeno sei diventato più saggio.— rispose l’anziano mago. Indossava una lunga tunica blu molto
simile a quella che portava abitualmente Vàlen. La lunga barba ed i lunghi capelli bianchi erano pettinati
ordinatamente. Il suo volto era solcato da profonde rughe... ma era grazioso, nè scarno nè scavato. Aveva
due marcate guanciotte rosse, il naso un po’ a patata e le sopracciglia bianche. Proprio un simpatico
nonnino, pensò Talya che, seppure a fatica, aveva capito che il combattimento era stato solo un’illusione e
si era rapidamente calmata. Ma osservando meglio il suo volto, la principessa scorse i suoi occhi... Azzurri
e lontani come il cielo, tradivano un vigore, una forza interiore smisurata. L’altro invece era un bell’uomo
di mezza età. Indossava una veste di seta nera, stretta alla vita da una fusciacca bianca, aveva le spalle
larghe e la sua presenza fisica dominava su quella del vecchio mago. Aveva i capelli e gli occhi neri, ed era
di carnagione scura; doveva essere un Thàrisìt del sud. La cosa che colpì Vàlen era che, anche dopo aver
perso miseramente lo scontro, seppur nel suo sguardo non ci fosse la minima ombra di malvagità, la sua
espressione lo faceva assomigliare ad un rapace mentre si getta sulla preda.
Il vecchio mago diede un’occhiata alla porta. Sorridendo disse: —Vedo che non hai perso questa brutta
abitudine, Donnola.—
Vàlen arrossì tanto che parve che avesse passato troppo tempo al sole. Talya si girò verso di lui e lo
guardò con aria incuriosita. —Donnola?—
—Emh, é un soprannome, una sgradevole abitudine umana, principessa.— La ragazza lo osservò
penetrante, con gli occhi che le brillavano divertiti.
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Dan si schiarì la voce. —Vuoi un invito scritto, Vàlen?—
Il ragazzo aprì la porta —Maestro... Ho portato alcuni amici, possono entrare vero?— Sendovan sorrise e
spalancò gli occhi nel vedere la bionda ragazza Elfa che sorrideva ed agitava una manina in segno di saluto.
—Se i tuoi amici sono tutti così graziosi!—
—No!— giunse la voce di Trellin, seguita dalla sua apparizione dietro le spalle di sua figlia. —Non siamo
tutti così graziosi.—
—Beh,— disse sospriando il vecchio mago, —temo che questo sia un problema tuo...— Mentre suo padre
si rabbuiava, Talya scoppiò a ridere di cuore. Adesso capiva da chi aveva imparato Vàlen.
—Prego,— fece cenno il ragazzo agli altri. Entrarono Talya, Trellin ed Hellis. Tòret si fermò sulla soglia, e
disse: —Dopo di te!— e ridacchiando, dopo alcuni istanti, —...Donnola...—
Il mago presentò rapidamente il gruppetto al Maestro; questi non si stupì della presenza del principe Trellin
e di sua figlia. Vàlen gli aveva raccontato di avere fatto amicizia con degli Elfi, Elfi molto importanti.
Tuttavia, Dan trovava difficile capire cosa portasse gli Elfi tanto lontani dalla loro casa.
L’anziano mago presentò dunque il suo ospite: —Il suo nome é Ròndal Pérevit, Baronetto di Dànisìt.—
L’ostentazione del titolo nobiliare voleva essere una specie di rivincita sul titolo nobiliare degli Elfi, ma lo
stregone sorrise dicendo: —Sono solo un cadetto: diventerei barone solo nella malaugurata ipotesi che mio
fratello dovesse lasciarci... e temo che la mia sarebbe una disgrazia peggiore della sua.—
—Siete troppo libero per fare il Signore...— lo apostrofò amichevolmente Vàlen.
—É una vita che non mi si addice molto, temo.—
—Cosa vi porta da queste parti?—
—Mah, il Kalédion é una terra affascinante, e poi volevo salutare il mio vecchio amico...—
—Ehi!— intervenne risentito il mago, —Non sono affatto vecchio!—
Mentre Dan, Ròndal e Vàlen parlavano, Talya si guardava intorno, affascinata dai mille strumenti fantastici
che riempivano il laboratorio di Sèndovan. Su di un tavolo c’era una piccola sfera di vetro, nella quale si
intravedeva volare una farfalla. Avvicinandosi però, la principessa rimase stupita nello scorgere un corpo
umanoide portato da quelle piccole e delicate ali: una fanciulla in miniatura, molto aggraziata, la stava
guardando da dentro il vetro. Quando le due persero il reciproco interesse, lo sguardo di Talya cadde su di
un libro posato lì accanto. Era un grosso tomo rilegato in pregiata pelle, con finiture in oro zecchino e
ornato da disegni geometrici. Il libro era posato in modo che la copertina anteriore fosse appoggiata sul
tavolo. A prima vista, a parte la squisita fattura, il volume aveva un aspetto assolutamente normale, ma
guardandolo con una certa attenzione, Talya scorse un piccolo movimento. Si trattava di un moto ritmico e
regolare; se non si fosse trattato di un libro, la ragazzina avrebbe potuto giurare che quella cosa respirava!
Incuriosita, si avvicinò al tomo, prendendolo sospettosa e quindi sollevandolo lentamente. La sua
superficie era morbida e calda, come lasciata al sole per un giorno intero. Talya lo girò dalla parte della
copertina. Su quel lato, oltre ai disegni geometrici, si trovava una sorta di sigillo in pelle, grande come un
medaglione. Rappresentava un volto anziano, anzi decrepito, con ampie gote rugose, un grosso naso
rotondo e gli occhi chiusi, e la bocca appena aperta. Ancora una volta il libro si mosse; assieme, il volto nel
sigillo aprì la bocca, russando sonoramente. Talya, spaventata, gettò quel coso sul tavolo, guardandolo
inorridita. Per tutta risposta il libro si svegliò e protestò con voce stridula: —Ma che razza di modi sono
questi! Tu, mocciosa! Proprio tu! Non hai mai visto nessuno dormire? Beh, non stare lì impalata, rimettimi
a faccia in giù, tutta questa luce mi acceca.—
Con una certa titubanza, la principessa ruotò il libro e lo mise delicatamente dove lo aveva trovato,
allontanandosi con circospezione mentre lo strano volume bofonchiava qualcosa prima di rimettersi a
dormire.
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Quando ebbe finito le frasi di rito, Vàlen decise che era giunto il momento di spiegare a Dan il motivo della
sua visita.
—Maestro...— disse mentre il suo volto si incupiva. Fece una breve pausa e poi riprese —sono venuto qui
per una questione molto delicata.—
—Ti sei ficcato nei guai un’altra volta, vero Donnola?—
—No, maestro. Questa volta non sono nei guai, é una faccenda seria.—
L’anziano mago conosceva quel ragazzo come un figlio, e non lo aveva mai visto così teso. La cosa lo fece
preoccupare.
—Vai avanti, figliolo.—
—Non so come dirtelo ma... FòrKép non c’è più— disse mentre i suoi occhi diventavano lucidi, ed mago e
lo stregone lo guardarono stupiti ed ammutoliti.
—Qualcuno ha usato un’arma terribile, in grado di distruggere un’intera città, ed hanno voluto dare
un’altra prova del suo potere: hanno colpito anche Sàlliandém.—
—Hai idea di chi siano stati?—
—So di sicuro che c’entra Dàrini.—
—Quel maledetto! Non avrebbero mai dovuto lasciare che si annidasse a SàiVòd. Però non pensavo che
Darini fosse tanto potente, Vàlen. Come fai a dire che é stato lui?—
—Effettivamente non ho alcuna idea di come abbia fatto, però so che dietro c’è una grossa organizzazione,
maestro.—
Vàlen raccontò quindi di quello che era successo a Sàlliandém e quindi a SàiVòd, quando si era recato a
far visita allo stregone, e spiegò al maestro che il principe era stato incaricato di trovare ed arrestare quegli
assassini.
La discussione di protrasse per circa una mezz’oretta. Vàlen cercava di essere il più asettico possibile nel
fornire le notizie, e d’altra parte, sia il mago che lo stregone non potevano rendersi conto della tragedia che
si era consumata. L’espressione incredula e la reazione calma dei due interlocutori aiutò il ragazzo a
raccontare tutto senza dover provare ancora il dolore di quei momenti nei quali si era reso conto di aver
perso sua madre, e di questo era grato.
—Ho sentito parlare di qualcosa di simile...— rifletté ad un certo punto Ròndal. —Qualche tempo fa,
all’Accademia di Tàndar, si era parlato della possibilità di invocare alcuni spiriti molto potenti per attirare
una stella sulla terra, ma tutta la faccenda si era poi sgonfiata, rivelandosi uno sproposito.—
—O forse...— intervenne l’anziano mago, —é stata messa a tacere...—
—A quanto pare deve essere proprio così.— concluse lo stregone.
—C’è qualcos’altro, Maestro. Dopo aver lasciato SàiVòd, i nostri amici ci hanno assaliti mentre eravamo
accampati. Siamo sicuri di essere stati inseguiti da un demone familiare o da uno spirito segugio; avremo
bisogno di un riparo fino a che non avremo trovato un rifugio sicuro...—
—Non ti preoccupare, Donnola, qui c’è sempre un posto per te. Ed anche i tuoi amici sono benvenuti.
Purtroppo,— disse il mago rivolgendosi a Trellin, —non abbiamo alloggi degni di un principe...—
—Non è un problema!— disse sorridendo l’elfo, —Ultimamente io e mia figlia ci siamo abituati a dormire
dove capitava e qui non potrà essere certo peggio...—
Vàlen e Dan si guardarono sorridendo per qualche istante. L’elfo credeva davvero di essere stato cortese...
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Il resto del pomeriggio passò dialogando della questione. Il padrone di casa fece scendere gli ospiti nella
radura, che come ogni giorno, quando il tempo lo permetteva, veniva apparecchiata per il pranzo. Una
lunga tavola era stata preparata dagli allievi di Dan, sedici fra effettivi ed aspiranti; al tavolo erano stati
aggiunti sei piatti. Poco distante, uno stufato di carne dal profumo invitante bolliva allegramente in un
grande calderone. Vedendolo, Talya non riuscì a non pensare che, in tempi passati, quella stessa pentola
avesse avuto un impiego diverso, come, ad esempio, servire a preparare chissà quale intruglio magico... ma
l’idea l’abbandonò subito. Certamente quel mago dall’aria così esperta non aveva relegato un suo
strumento di lavoro ad un compito così umile. I ragazzi erano euforici per il ritorno del loro amico e per la
presenza di tutti quei nuovi ospiti, stranieri ed interessanti. Il Baronetto dagli occhi di falco raccontava
storie sulla magnificenza della corte di Thàris, sull’anziano Imperatore e sugli intrighi di palazzo; un
giovane si era avvicinato a Tòret e gli aveva chiesto di insegnargli ad usare la spada, visto che non era
molto dotato con la magia... ed il guerriero si era alzato e gli aveva mostrato qualche buon colpo. Molti
degli sguardi dei giovani allievi erano per la principessa elfa, ma erano occhiate furtive che tuttavia non
sfuggivano all’attento controllo di Trellin; ed i ragazzi umani si affrettavano a far finta di aver guardato
qualcos’altro. Gàloth ed un gruppo di aspiranti più giovani era riunito attorno a Vàlen; chiedevano notizie
provenienti dal mondo esterno, e volevano sapere se le loro famiglie erano al sicuro. Per la maggior parte,
gli allievi provenivano da SàiVòd; il più giovane veniva dal principato di Vangàred, uno dei sei regni del
Sòllan; nessuno, fortunatamente, era di FòrKèp.
Verso metà del pomeriggio, dopo aver assaggiato una marmellata ed un grappa di more prodotta dallo
stesso Séndovan, il Maestro, il barone, gli elfi, il sacerdote, il guerriero ed il giovane mago rimasero a
parlare fino al tramonto dei fatti accaduti, e di quali sarebbero state le loro mosse d’ora in poi. Dal canto
suo, Dan era certo che la sua torre e la radura fossero sufficientemente protetti contro gli incantesimi degli
stregoni; l’uomo dallo sguardo di falco non era del tutto sicuro.
—Per quanto siate un mago dalle notevoli capacità, ignorate alcuni aspetti della stregoneria, Maestro
Séndovan.—
—Eppure, stamane vi ho battuto, barone.—
—Stavamo solo giocando.—
La voce del giovane nobile era calma e sicura, ed il suo impenetrabile sguardo inchiodava Séndovan al suo
posto.
—Vi concedo che stessimo giocando, Barone. Ma vi assicuro che ho preso le mie precauzioni. Non mi
sono mai sentito molto sicuro con Dàrini nella stessa regione.—
Intervenne Vàlen: —Cosa sapete di lui, Maestro?—
—Viene dal Drenn. So che suo padre fu arrestato, e la sua famiglia fu venduta ai sacerdoti di Asémodes.
Credo che sia l’unico superstite; ha appreso la stregoneria dai sacerdoti del demone maledetto. Si dice che
in cambio della vita e di questi insegnamenti, abbia dovuto compiere crimini orribili per conto dei suoi
carcerieri. Alla fine è riuscito a fuggire, non prima di compiere una spietata vendetta e di seminare una
notevole scia di sangue.—
Lo stregone era incuriosito. —Come sapete tutte queste cose sul suo conto?— chiese.
—Ho le mie fonti, Barone Pérevit. Fatto sta che se ne erano perse le tracce fino a due anni fa, quando è
riapparso qui, nel Kalédion del Nord. La gente di SàiVòd gli ha permesso di insediarsi in città, credo per
tre motivi: primo, non c’erano maghi in città, ed una persona che sa usare la magia è sempre utile. La gente
di SàiVòd non ama i maghi... ma gli stregoni sono ritenuti meno pericolosi. Inoltre, Dàrini è un nemico del
Drenn, ed i nemici del Drenn sono ben accetti un po’ ovunque...—
Dan rimase pensieroso. Il barone lo esortò: —Ed il terzo motivo?—
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—Paura. Anche se Dàrini se ne era stato buono buono, e non aveva dato adito ad alcun sospetto, fino ad
oggi, la gente di SàiVòd deve aver pensato che non era opportuno avere come nemico una persona tanto
oscura come quello stregone. Credo che abbiano avuto troppa paura di rifiutargli ospitalità.—
Trellin, rimasto silenzioso, aveva lo sguardo distante che scrutava le fronde degli alberi che costeggiavano
la radura, ma era stato estremamente attento per tutta la durata della conversazione. Non poté trattenere
un sorriso amaro: gli umani avevano vilmente accettato in loro seno una serpe velenosa, che, sapevano,
presto o tardi avrebbe colpito. Troppo facile, per questo criminale umano, ferire anche Sàlliandém, per
seminare morte, dissidio e odio fra la comunità umana e quella elfa, che seppur fra molte incomprensioni e
difficoltà, avevano fino ad allora trovato un qualche equilibrio. Era stata una convivenza difficile, ma non
impossibile: la sua amicizia con Vàlen ne era un esempio. Ma per quanto si sforzasse, e per quanto sapesse
che gli umani sanno essere valorosi all’occorrenza, non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero che gli elfi
non sarebbero mai stati tanto vili.
Proseguirono così fino al tramonto, quando venne servita una cena leggera a base di pane, brodo e
prosciutto affumicato, il tutto chiuso da frutta fresca e verdura. In condizioni normali, quella sarebbe stata
una buona occasione per far festa, ed i ragazzi chiesero a gran voce di poter onorare in questo modo gli
ospiti, ma Séndovan fu categorico: erano successi dei fatti gravi, e tutti loro dovevano stare in guardia.
Quindi, tutti a letto presto, e sveglia all’alba! E senza dare troppo nell’occhio, il Maestro ordinò a Léndit di
organizzare dei turni di guardia... la magia avrebbe protetto la radura, ma un paio di occhi in più non
potevano guastare.
Vàlen, seguito da Hellis e Tòret, stava per entrare nella sua vecchia stanza, dopo aver scortato gli Elfi alla
camera degli ospiti. I ricordi di mille sere stanche si affollarono nella mente del ragazzo, mentre
appoggiava pesantemente la mano sulla maniglia.
Come era stato usuale quel gesto, che stava a significare la fine quotidiana degli allenamenti che lo avevano
spossato!
Vedendo che Vàlen si era momentaneamente bloccato, Trott lo chiamò.
—Tutto a posto, Val?—
—Sì...— fu la sua risposta mentre si svegliava dalla trance, —Solo vecchi ricordi.— aggiunse scrollando la
testa mentre apriva la porta.
Nella già piccola stanza erano state sistemate in tutta fretta altre due brande. Dopo brevi preparativi, i tre si
coricarono; quindi il mago spense la candela che illuminava fiocamente la stanza.
—Val?— chiese sussurrante la voce di Trott. Era strano sentire il tuonante guerriero sussurrare così.
—Dimmi, Tòret.—
—Io... ho come la sensazione che quelli siano troppo grandi per noi.—
—I nostri avversari? No... sono sicuro che ce la faremo. Ce la dobbiamo fare, e tu sai perché.— Il
guerriero vide come un lampo i volti dei suoi genitori.
—E poi... non siamo soli. Vero, Hellis?—
—Sì Vàlen. ShtàrRésel è dalla nostra parte.—
La voce del maturo sacerdote era così calma e decisa che per un attimo Vàlen vide davanti a sé l’immagine
del dio, come l’aveva vista raffigurata molte volte, nelle preziose vesti azzurre circondato da un’aura
splendente; e questo lo riempì di calore.
—Buonanotte ragazzi.— disse il giovane mago, sentendo così vicino il sacerdote, in quel momento, da
poterlo considerare un suo coetaneo.
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—Buonanotte, figlioli.—
—Buonanotte...— la voce di Trott era rotta da un lieve singhiozzo, che sarebbe potuto sembrare quasi un
pianto, all’inizio... Quindi il guerriero aggiunse ridacchiando: —Buonanotte... Donnola—
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ShtàrLàn - Intermezzo
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Intermezzo
DàganSén, dall'alto di una vetta innevata, ammirava il Kalédion. I suoi occhi scrutavano lontano, e
vedevano cose che un uomo non avrebbe mai potuto vedere. Cercava segni dei Creatori; ma non li
trovava. Tuttavia, il disegno degli dei era stato messo in moto, e stava procedendo nella giusta direzione.
Ma era così frustrante, così deprimente, non riuscire a vedere tutto, sapere che c’è qualcosa che sfugge...
In quel momento, una macchia oscura comparve improvvisamente davanti al dio. Sorpreso, DàganSén si
avvicinò all'oscurità, ma cautamente, timorosamente... Se ancora avesse avuto un cuore, si sarebbe
certamente fermato alla vista di quello che l'oscurità conteneva....
Una grande mano artigliata spuntò dal buio come se volesse strappare la carne del dio. Con l'orrore che
non pensava di poter ancora provare, DàganSén si ritrasse. Ma la mano non cercava lui: andò a posarsi su
di un bordo dell'oscurità, come se la realtà fosse un velo, e la mano volesse strapparla. Altri artigli si
posarono sull'altra estremità dell'oscurità, e con un colpo secco, le mani si allontanarono, squarciando la
luce per far posto al buio di quell'immateriale voragine. DàganSén osservò lo spettacolo, paralizzato
dall'indecisione.
Lentamente, la luce del giorno penetrò quell'oscurità, illuminando delle forme vagamente umane: muscoli
che guizzavano sotto la pelle, dita che annaspavano per cercare l'uscita, e due occhi; due occhi di serpente
che osservavano dritto DàganSén. Il dio provò una sensazione che aveva scordato da molto tempo: la
paura.
Lentamente, una figura disumana uscì dallo squarcio; posò con lentezza i piedi unghiati, le gambe
muscolose, per poi farle seguire dal possente petto. Le sue braccia erano come morse che avrebbero
potuto sbriciolare una montagna, ed i suoi artigli erano rasoi capaci di tagliare il diamante. Comparve
quindi il suo volto, terrificante ma, nel contempo, affascinante. Aveva gli ipnotici occhi gialli di serpente, la
sottile bocca ed il naso aggraziato, le gote muscolose e la mascella appuntita. E sulla calva testa due corte
corna, come quelle di una capra. La sua pelle era verde, lucida come il metallo, dura come la pietra. Alla
fine, dall'oscurità spuntarono le sue enormi ali, che sembravano fatte di tenebra e di dolore.
Mentre la voragine si richiudeva alle spalle del demone, il dio, che aveva assunto il suo aspetto umano,
guardò inorridito la creatura, sussurrando a mezza voce, con la gola chiusa dal terrore, —Arkànjel...—
Al suono di quella parola gli occhi del demone risplendettero di rosso, un bagliore oscuro, come il colore
del sangue. Tuonò la sua voce:—Quello non é più il mio nome!— Sembrava che il suono fosse
pronunciato da due gole insieme; un suono cupo, ma allo stesso tempo stridente.
Il demone si calmò subito, ricacciando indietro la sua parte bestiale; aveva uno scopo e doveva portarlo a
termine.
—E così, DàganSén, i nostri Creatori sono tornati...—
—Sì...—
—Ma il tuo piano non funzionerà.— disse il demone, con calma terrificante.
Il dio iniziava a rendersi conto che Arkànjel non era lì per lui, ed il suo ancestrale terrore si placò.
—Cosa intendi?—
—Credi davvero che quattro miseri esseri striscianti possano scovare i Creatori?— Tuonò il demonio. —
Io possono annientare te ed i tuoi amici nel tempo di un respiro, ma non posso liberarmi da questa
maledizione che mi hanno imposto!—
Il demone si disperava, gettandosi in ginocchio ed afferrando la calva testa con gli artigli, urlando di rabbia
e di dolore. Ma poco alla volta, la sua parte razionale, il suo ricordo di quando era ancora Arkànjel, lo
fecero placare.
—Il tuo piano é imperfetto DàganSén. Ti manca un dettaglio che voi non potete conoscere.—
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ShtàrLàn - Intermezzo
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—Cosa?—
—I Creatori non conoscono la magia.—
Arkànjel pronunciò con calma la frase, ed attese che il dio ne afferrasse appieno il significato. Dopo poco
continuò.
—Noi siamo un errore, DàganSén. Siamo un loro sbaglio. É per questo che hanno tentato di distruggere la
razza dei Giudici; ma noi avevamo un potere che loro non conoscevano: la magia. Grazie a questa,
riuscimmo a difenderci dai Creatori; ma questi ci presero di sorpresa, e ci rinchiusero dove ora dimora
Asemodès. Ogni giorno che nasce un nuovo mago, ogni volta che uno stregone invoca uno spirito, ogni
volta che un dio calpesta la terra, la magia diventa più forte. E se prima eravamo troppo deboli per
difenderci da soli contro i Creatori, adesso, tutti assieme, siamo invulnerabili.—
In quel momento DàganSén provò un enorme rispetto per quell'essere antico come il mondo, che aveva
vissuto di persona quello che per lui, da sempre, erano ancestrali leggende.
—Ho capito, Taldìt— disse DàganSén, usando il giusto nome per il Dio-Demone: Taldìt, il ritornato,
colui che é fuggito dagl'inferi.
Il demone sorrise; era un ghigno di soddisfazione, che pur sul volto dell'essere, era rassicurante per il dio.
—Molto bene. C'é un'altra cosa, DàganSén. Un mio inviato si unirà ai tuoi; senza di lui il tuo piano non
funzionerà.—
—Accetto volentieri il tuo aiuto, Taldìt.—
Il demone sorrise. Per un fuggente attimo al dio sembrò di scorgere negli occhi di Taldìt, e più in fondo,
nella sua anima, la sua antica natura di Giudice.
—Ci incontreremo ancora, prima di quanto tu possa immaginare, DàganSén.— Detto questo, il demone
spiegò le nere ali, spiccando un poderoso balzo e librandosi con grazia verso il cielo. Pochi istanti dopo,
una fessura nera si aprì davanti alla figura del demone, inghiottendolo.
Taldìt, come sempre, rifletteva, solitario nell'enorme sala fredda, rischiarata appena da qualche fioca torcia.
Era seduto sul suo trono di pietra, con lo sguardo perso nel vuoto, metre esaminava i dettagli del suo
progetto. Gli dispiaceva di non aver potuto dire a DàganSén tutta la verità, ma non poteva fare altrimenti:
non era proprio un uomo comune colui che si sarebbe unito al gruppo scelto dagli Dei. Tuttavia, se lo
avesse avvertito le probabilità a favore del successo sarebbero risultate leggermente inferiori.
Per un attimo, il demone si distrasse a pensare a cosa sarebbe successo se i Creatori del Male fossero
riusciti ad impadronirsi della magia. Immaginò il loro arrivo sulle enormi navi stellari, mentre mettevano in
schiavitù la gente di Pitermòs. La sua demoniaca mente si soffermò su alle scene di uomini inermi, e donne,
e bambini divorati dalle mascelle dei Creatori. Immaginò una ragazza legata da una ragnatela mentre si
divincolava sotto i morsi del ragno gigante; il Creatore le strappava le carni lontano dagli organi vitali: loro
si cibano solo di creature vive. L'urlo della ragazza, nella sua fantasia, era terrificante, ed il demone mise la
testa fra le mani.
L'immagine cambiò; adesso non era più la sua fantasia a dominarlo, ma era un ricordo. Un bambino, molto,
molto tempo prima, che correva disperatamente. Lui lo guardava da una altura, impotente contro i
Creatori del Male, bloccato da un campo di forza invalicabile, mentre questi si divertivano ad inseguire il
bimbo. Lo chiamava per nome, un nome antico, ma non poteva fare altro. Quando, dopo molto, gli esseri
repellenti si stancarono del gioco, un raggio di luce accecante colpì le gambe del piccolo, che cadde
urlando di dolore. Poi i ragni furono su di lui e poi...
Taldìt sollevò di scatto la testa, i pungi serrati, i poderosi muscoli del collo tesi, emettendo un urlo
disumano, bestiale, che fece tremare l'intera montagna.
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ShtàrLàn - Capitolo 5
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Capitolo 5
Hellis aveva atteso pazientemente che Vàlen e Trott si addormentassero. Non appena si fu accorto che il
respiro dei suoi amici si era fatto profondo e regolare, scostò le coperte, e senza il minimo rumore, uscì
dalla stanza. Fuori dalla torre, l’aria della notte primaverile era profumata e gradevole; il sacerdote si
allontanò dalla radura con passi svelti, e si immerse per qualche decina di metri nel folto della foresta.
Quando fu sicuro di non essere visto, sedette col dorso appoggiato ad una grande quercia, ed iniziò a
meditare. La sua mente si staccò dal corpo, e volò sulla foresta, sul mare, su continenti lontani sempre più
velocemente, fino a che la calda luce azzurra lo avvolse. Il Dio fu di fronte a lui.
—Mio Signore...—
—Benvenuto Hellis. Ho percepito che hai notizie importanti per Noi.—
La coscienza di Hellis si alzò, e mosse alcuni passi in quel luogo immateriale verso l’immagine di
ShtàrRésel.
—Ho trovato il traditore.—
Il Dio sorrise. —Ho sempre saputo che ne saresti stato capace.—
—Si tratta del Priore Kàlen Sémel di SàiVòd. Ne ho avuto la certezza in questi giorni, mio Signore, dal
momento che sono accaduti alcuni fatti straordinari e gravissimi.—
Il volto di ShtàrRésel, così umano seppure nella sua perfezione, si fece perplesso. —Racconta.—
—Il villaggio di FòrKép e la città Elfa di Sàlliandém sono stati colpiti distrutti da un’arma tremenda. Uno
stregone malvagio ha attratto sul mondo due stelle, scagliandole contro FòrKép e Sàlliandém, e
provocando una devastazione senza precedenti.—
—Ciò che tu dici mi rattrista...—
Stavolta fu Hellis a rimanere sorpreso. Seppure non esistessero dogmi riguardo l’onnipotenza di
ShtàrRésel, il sacerdote era da sempre certo del fatto che il suo Dio avesse un potere, ed una conoscenza,
praticamente illimitati. Quasi sussurrando, disse: —Mio Signore... Io ho creduto che Voi ne foste al
corrente.—
ShtàrRésel assunse un’espressione grave, distogliendo lo sguardo. Sospirò profondamente, poi parlò: —E’
giunto il momento che tu conosca la verità. So che in cuor tuo hai pensato che la missione che ti era stata
affidata fosse una specie di prova. Non ti biasimo: era la conclusione più ovvia, ma non é così. Il
tradimento del sacerdote che hai smascherato è un fatto molto grave, ma ancora più grave è il fatto che un
potere al di fuori del nostro controllo abbia protetto il traditore. È stato DàganSén stesso a chiedere il mio
aiuto, poiché non avrebbe potuto affidare il compito di individuare il sacerdote ribelle a nessuno dei suoi
fedeli. Ed io ho scelto il mio uomo migliore.—
—Ma... quale potere può avervi impedito di trovare un uomo?—
Il Dio fece una pausa carica di tensione.
—Il potere dei Creatori.—
La mente di Hellis, ed il suo corpo, sobbalzarono letteralmente. I Creatori. Gli esseri leggendari il cui
ricordo era quasi completamente scomparso da Pitermòs, tanto che in molti non credevano che fossero mai
esistiti.
—I Creatori del Male?—chiese con un filo di voce il sacerdote. ShtàrRésel alzò lo sguardo, ed inspirò
profondamente prima di parlare.
—Male, Bene... sono parole inutili, adesso.—
—...Cosa intendete?—
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ShtàrLàn - Capitolo 5
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—Dimmi, Hellis, cosa è Male, e cosa è Bene?—
—Il Bene è... è la benevolenza, è aiutare chi è in difficoltà, è l’insieme di amore, fede e fratellanza.—
—Vedo che hai studiato bene,—sorrise ShtàrRésel, riconoscendo un passo molto importante delle Sacre
Scritture, —ma non hai una tua idea in proposito?—
—...Questa... questa è la definizione migliore che si possa dare.—
—D’accordo. Allora dimmi cosa è il Male.—
—E’ tutto ciò che non è Bene.—
—Quindi?—
—Quindi... è la malevolenza, arrecare difficoltà, è l’odio, il dissidio, l’inimicizia.—
Hellis era perplesso. Chiaramente, il Dio aveva una risposta diversa.
—Possiamo allora dire, Hellis, che il bene è il principio creatore. Amore, fede, fratellanza: sono tutte anime
di un principio creativo. E, dunque, odio, dissidio e malvagità in generale sono guidati da forze distruttive.
Il bene è creazione, il male è distruzione...—
—Sì...—
Hellis aveva in mente molte immagini del Bene e del Male. Prime fra tutte, da una parte, le devastazioni
delle quali era stato testimone nei giorni precedenti, e dall’altra l’aiuto spontaneo e disinteressato della
gente di SàiVòd portato ai superstiti di Sàlliandém.
—Ma, allora, dimmi Hellis, come possiamo parlare di creazione del Male?—
Il chierico, confuso, rispose:—Il Male non può creare... si crea del Male quando si distrugge...—
—Forse, ma i Creatori del Male hanno creato qualcosa...—
—Esseri tenebrosi ed apportatori di morte!—
—Ma pur sempre esseri viventi. Come può un principio distruttivo creare la vita?—
—Ma è una vita malvagia!—
—Io non credo, Hellis. È solo una vita che ci è avversa.—
Il sacerdote rimase come pietrificato. Persino il suo corpo, distante migliaia di leghe, ebbe un sussulto.
Il dio proseguì: —Prima siamo giunti alla conclusione che il male è distruzione. Allora, Possiamo dire che
la distruzione è male, non trovi?—
Hellis non osava più rispondere. Ma guardando la sua anima, ShtàrRésel poté capire che era questo ciò che
egli credeva.
—Ma dimmi: cosa succederebbe se nulla morisse? Cosa succederebbe se nulla fosse mai distrutto? Cosa
succederebbe se l’universo continuasse a creare all’infinito senza mai fermarsi?—
Il capo dei fedeli del Dio delle Stelle non aveva una risposta.
—Presto o tardi, l’intero piano di esistenza che noi chiamiamo Universo sarebbe pieno; sarebbe una unica
massa di materia inerte, ed inutile. Sarebbe un tutto che vale quanto un nulla.—
—Io... non riesco a capire...—
—Lo so. Ed è per questo che ciò che ti sto dicendo non si trova sulle pagine del Libro delle Stelle. Tu sei il
primo dei miei devoti, e la tua anima già raggiunto vette elevatissime, che molti uomini non potranno mai
conoscere nell’arco di una sola vita. Ma nonostante questo, anche per te è difficile comprendere ciò che ti
dico, e che tu lo sappia, questa è la Verità: tutto ciò che è, che è stato e che sarà è frutto dal continuo
flusso di energia tra i principi creatori ed i principi distruttori che sono insiti nella natura dell’universo. La
vita, la stessa Esistenza è l’intervallo tra queste due forze: non solo dipende da entrambe, ma dipende
soprattutto dalla dinamica interazione fra di esse. La nostra Realtà è polvere alzata nella lotta tra creazione
distruzione. Senza questa eterna contesa, nulla esiste.—
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Dopo di questo rimasero a lungo in silenzio. Hellis si sforzò di meditare su questa nuova, aliena Verità.
Anzi, inizialmente cercò di confutarla. Ma perché il suo Dio lo confondeva in questo modo? A cosa era
servito?
La sua fede non tremò; ma più di una volta ebbe il dubbio che ShtàrRésel avesse voluto solo metterlo alla
prova. Il Dio lo osservava pazientemente, ed Hellis sapeva bene che ogni suo pensiero, anche il più intimo,
era come espresso ad alta voce di fronte al potere del Signore delle Stelle. Ma, pur guardandolo,
ShtàrRésel si era fatto da parte, lasciando l’uomo libero di pensare: ciò che aveva detto non era un dogma
dottrinale, ma una semplice osservazione sulla natura delle cose. Presto, Hellis se ne accorse, e sentendosi
più solo poté capire meglio le parole del Dio. Non gli si chiedeva un atto di fede: doveva solo aprire gli
occhi. Quante volte un eccesso di zelo in un intento benevolo aveva arrecato più danni del male che
intendeva curare? E cosa realmente lo distingueva dagli esseri che aveva combattuto? L’altezza? La
quantità di peli sul corpo? Il linguaggio? La coscienza?
Era una semplice differenza in termini di quantità, e non di "natura".
Non riuscì a trovare un essere, per quanto malvagio lo ritenesse, che non fosse in qualche modo simile a
lui: espressione della stessa forza vitale, della stessa energia, ora capiva, che nasce dal flusso eterno tra luce
e ombra: un mondo dove non esiste il giorno è gelido, ma non è più arido di un mondo senza notte. E che
senso avrebbe avere dei figli, creare nuova vita, o aiutare la vita a svolgere il suo corso, se questa fosse
eterna e immutabile?
—Grazie, Mio Signore. Ora è in me una nuova luce.—
Il Dio si avvicinò al sacerdote, e quando gli fu accanto posò una mano sulla sua spalla. Hellis provò
un’ondata di forza che colmava il suo spirito; la sua anima, per un istante brillò con la stessa intensità della
luce di ShtàrRésel.
—È così.—sentenziò il Dio; quindi abbassò il braccio, e l’attimo finì. Ma in Hellis qualcosa era cambiato;
ora nel suo animo albergava un vigore che non aveva mai posseduto nell’arco di tutta la sua vita.
Il Dio, ora al fianco di Hellis proseguì il discorso che era stato interrotto prima: —È per questo che parlare
di Creatori del Male non è giusto. Non è una semplice questione di termini; si tratta di un errore che nel
momento critico potrebbe esserci fatale. E’ più corretto distinguere fra "noi" e "loro". —
Il volto del di ShtàrRésel si fece grave; dopo un sospiro profondo, continuò, con lo sguardo perso di fronte
a se, lontano: —Essi sono tornati. Questo ci è noto, ma il loro fine ultimo ci sfugge. Assieme a DàganSén
li abbiamo cercati, ma inutilmente. Loro ci conoscono, e sanno come eludere il nostro potere.—
—Cosa possiamo fare?—
—Ascolta, mio Hellis. Nonostante la forza dei Creatori, abbiamo predisposto una contromisura che
riteniamo efficace.—
Il Dio si avvicinò ancora alla coscienza dell’uomo.
—Hai completato la missione che ti avevo affidato, — disse, —ma ora devo rinnovare il tuo impegno per
un compito ancora più importante, e molto più pericoloso. Lo accetterai?—
Hellis si erse sulla propria persona: —Con ogni goccia della mia vita.—
—Ne ero certo.—sorrise il Dio. —Il tuo compito è quello di trovare i Creatori. Sono vicini, da quanto
riesco a percepire e da quanto mi hai detto. E, se come pensiamo, hanno intenzioni ostili, dovrai fermarli.
—
—Ma... come potrò contrastare il loro potere?—
—La tua debolezza è la tua forza. Loro Ci conoscono, e Ci temono, ed è per questo che sono così attenti
nel difendersi da Noi. Ma nemmeno il loro potere è infinito; come noi non possiamo vedere loro, tu
riuscirai a passare inosservato. Non sono a caccia di uomini, e non sono preparati a fermare un uomo che
dà loro la caccia. Ed in più, non sarai solo... Mettere assieme la forza di uomini così diversi non è stato
facile, nemmeno per Noi... ma i tuoi compagni sono il nostro dono, e la nostra arma.—
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Quella stessa energia che aveva attraversato Hellis qualche istante prima, ora faceva battere il suo cuore, e
gli infondeva la certezza di essere invincibile.
—Adesso,—concluse il Dio, —vai.—
La visione si ritrasse rapidamente, mentre Hellis vedeva scorrere sotto di sé, all’indietro, le regioni brulle,
le foreste, gli oceani; ora volteggiava sopra al suo corpo che riposava in meditazione. Ancora un istante ed
aprì gli occhi. Normalmente, al risveglio si sentiva intorpidito e freddo: non poté fare a meno di notare che
stavolta non era così.
Senza pensare alle parole del Dio si alzò, ed in silenzio come ne era uscito, rientrò nella torre. Dischiuse la
porta della stanza in cui alloggiava, si spogliò rapidamente ed entrò nel letto; Vàlen e Tòret dormivano
profondamente e non si accorsero di nulla. Il sacerdote ben sapeva che se avesse anche minimamente
accennato a riflettere sull’accaduto non sarebbe riuscito a dormire; così, con la disciplina che gli era ben
familiare, lasciò libera la mente, e cadde subito addormentato.
Vàlen si svegliò di buon ora; la stanza che condivideva con Hellis e Tòret era immersa nella penombra.
Facendo attenzione a non svegliare i suoi compagni, si vestì con calma ed uscì sul pianerottolo, che
affacciava sulla scala a chiocciola che percorreva la torre in tutta la sua altezza. Anche se il grigio
dell’aurora filtrava ancora dalle strette finestre, sapeva bene che il suo Maestro era già al lavoro. Arrivato
alla sommità bussò discretamente.
—Vieni avanti, Vàlen.—
—Maestro...—si inchinò rispettosamente il giovane mago.
Dan era intento a studiare uno strumento che Vàlen non aveva mai visto; una specie di bilancia dalla quale
proveniva una debole radiazione di magia. Di una bilancia aveva tutto: la scala numerata, il contrappeso,
l’ago... mancava il piatto. O meglio, al posto del piatto c’era un globo di cristallo finemente sfaccettato.
Notando la curiosità di Vàlen, non appena questi fu seduto l’anziano maestro lo informò: —Sono
novecento sessanta tre facce. Ti dice nulla?—
—A parte il fatto che è un multiplo di tre, e che è formato da cifre multiple di tre, mi sembra un numero
comune.—
—Ed il fatto che dividendolo per tre si ottiene trecento vent’uno non ti dice ancora nulla?—
—Beh, forse è un numero particolare...—
—Molto particolare. La sua forma geometrica è tale per cui l’angolo di incidenza della magia causa una
riflessione completa, almeno per qualche istante.—
—Ah... quindi quella bilancia serve a misurare la forza degli incantesimi.—
—Una buona deduzione.—
—Ma non è corretta...—
—Già. Non del tutto. Comunque, ho qualcosa di più importante da dirti, oggi.—
Dan caricò la pausa guardando dritto negli occhi Vàlen. I due non si assomigliavano affatto, fisicamente,
ma la forza dello sguardo era la stessa, tanto che entrambi avevano come l’impressione di guardarsi in uno
specchio.
—Vàlen,—continuò il Maestro, —tu sei il mago più capace che io abbia mai visto. Potenzialmente,
almeno.—
Il ragazzo sobbalzò. Dan era molto diretto, per essere un mago, ma Vàlen non si aspettava un
complimento del genere, soprattutto dal suo Maestro, che ne era sempre stato parco. E sapeva bene che
ogni sua parola era abbondantemente pesata; conoscendolo, era certo che Séndovan aveva scelto
accuratamente il modo migliore per dirglielo... non poté fare a meno di pensare che, si diceva fra i ragazzi
della torre, Séndovan aveva conosciuto, fra gli altri, anche il grande TàndarRàisht.
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Dan interruppe i suoi pensieri: —Ma... non montarti la testa, figliolo. Ti dico questo perché so che sei
consapevole delle tue potenzialità, e non voglio che la magia abbia il sopravvento su di te. Hai un buon
istinto, ed una forza eccellente, ed in più sei anche piuttosto sveglio. Ma ti manca ancora la cosa più
importante: l’esperienza. Hai davvero ancora molto da imparare...—
—Questa è una delle mie poche certezze, Maestro. Ma so che mi insegnerai bene.—
Sendovan sorrise, ed il suo volto si illuminò di una calda gioia. —Speravo di sentirti parlare così, Vàlen.
Per questo motivo ho voluto incontrarti.—
Il Maestro si alzò, ed imitandolo, Valetine fece altrettanto. Posandogli la mano sulla spalla, Dan disse
piano: —Vuoi essere il mio discepolo?—
Il giovane ebbe un fremito: avrebbe ricevuto l’eredità spirituale del grande Dan Séndovan, l’uomo che era
stato un mentore, un insegnante, ed anche un padre per lui; l’uomo che aveva lottato contro l’Accademia
di Tàndar, e che, a modo suo, aveva vinto. L’uomo che aveva aperto strade tanto nuove alla magia che in
molti si erano rifiutati di credergli, e ancora in meno avevano raccolto i suoi insegnamenti: insegnamenti
troppo grandi per una generazione sola, insegnamenti che avrebbero cambiato il destino del mondo.
Pensando questo, disse: —Maestro, ... anche se non sono degno, accetto con onore.—usando l’antica
formula che i maghi di alto rango ripetevano da millenni.
In quell’attimo Vàlen e Dan aprirono le loro menti, ed il pensiero fluì liberamente tra i due. Per qualche
istante ebbero una sola vita, un solo ricordo, una sola anima. Vàlen vide la casa di Séndovan a Thàris, e
prima ancora vide la sua casa d’infanzia, nel villaggio di Dàlenìt. Vide le bianche mura dell’Accademia, le
guglie innevate dei monti del TàndarLàn, aule colme di studenti, i libri, la biblioteca...
Dan vide il recente dolore per la perdita della madre, il villaggio distrutto, l’incontro con Trott, il primo
giorno alla torre: sorrise vedendosi come era stato visto dal giovane mago.
Poi il laboratorio in cima alla torre tornò al suo posto. Dan guardò il ragazzo che aveva di fronte, che
aveva gli occhi e l’animo pieni di meraviglia per tutto ciò che aveva visto. Con la mano che prima era
appoggiata sulla spalla, gli diede un paterno buffetto sulla guancia e disse: —Adesso andiamo. Ho ancora
molte cose da insegnarti.—
Uscirono dal laboratorio per scendere fino ai sotterranei, dove si trovava la biblioteca di Sendovan;
riflettendo su questo, Vàlen chiese: —Maestro, c’è una cosa che non ho mai capito...—
—Una?—
—... Una, sì,... Beh, la mia domanda è: perché non hai mai messo la libreria vicino al laboratorio?—
—Ma è chiaro, Vàlen. Così ci penso due volte prima di prendere un libro che non mi serve.—
Talya dischiuse dolcemente gli occhi al sole del mattino. In una sottile lama dorata, danzavano miliardi di
minuscoli cristalli; la ragazza Elfa indugiò nel studiarne la traiettoria prima di muovere un singolo muscolo.
Poi, con fare per niente regale, stese le braccia in alto, incurvò la schiena e, strizzando forte le palpebre,
sbadigliò sonoramente. Quindi si sedette sul letto, sorridente, in cerca di suo padre. Il principe Trellin era
seduto a gambe conserte sul letto accanto al suo. Indossava una corta veste da notte che lasciava libere le
gambe ed i piedi; era così insolito vederli, per Talya. Questo la fece sorridere ancora di più, ma quando lo
sguardo della principessa si posò sul volto del padre, il sorriso scomparve.
Trellin aveva le mani congiunte, appoggiate al mento, e osservava con aria cupa la spada che aveva preso
al guerriero umano sconfitto la notte prima. La spada era appoggiata tra le sue gambe: l’elfo studiava ogni
intarsio della lama con estrema attenzione. Non l’aveva fatto prima. Si era incamminato con Vàlen senza
portare una attrezzatura particolarmente elaborata; le sue spade ed i suoi archi migliori erano ancora appesi
nella Sala delle Armi a Sénaliàndem, il cuore del suo regno. Ed ora, quell’arma estremamente potente
attirava tutta la sua attenzione.
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Non era di origine elfa, questo era chiaro. L’artefice che aveva creato la spada vi aveva infuso una volontà
di potenza ed una violenza devastatrice tipica della razza umana. La lama era larga e spessa, e terminava
allargandosi in una specie di punta di freccia: evidentemente, per imprimere maggiore potenza ai fendenti.
Gli elfi preferivano stoccare; meno spreco di energie, stesso risultato. E l’elsa... l’elsa riproduceva le
fattezze di due serpenti attorcigliati (l’impugnatura), con le teste che si protendevano in direzione opposte
(la guardia). Gli occhi dei serpenti erano piccole gemme rosse, rubini, ed il pomo in fondo all’impugnatura
era un cristallo trasparente. La punta della spada era finemente lavorata con un ricamo di edere, rovi e
rampicanti, che si inoltravano lungo il filo della lama, fino alla base.
Superfluo. Non riusciva a trovare parole diverse per uno qualsiasi di quei particolari. Ogni cosa di quella
spada era superflua, a partire dalla lama, troppo larga per essere veloce, all’impugnatura, troppo articolata
per essere comoda, alla guardia, troppo sottile per essere efficace. Eppure, quell’arma lo affascinava. Non
era la luce azzurrina che sprigionava, o il formicolio della magia, o il suono. Non era nemmeno la
maneggevolezza: seppur dotata di una qualche forma di potere magico, questo non donava alla spada una
particolare grazia nei movimenti.
Era la forza. La forza smisurata di quella spada. Da quando l’aveva impugnata, era assolutamente conscio
del fatto che, con un violento fendente, avrebbe potuto tagliare una roccia come un coltello caldo passa nel
burro. Sciocco, pensava: ogni spada, per quanto magica, è solo un arma; serve a parare i colpi degli
avversari, salvando la vita, o a colpire prima di loro, donando la morte. Ma non a tagliare pietre, o
abbattere muri. Questo pensava, ma le sue mani continuavano a bramare quella goffa impugnatura, che
proprio in quanto goffa faceva sembrare la spada più pesante: e questa, in quanto più pesante, faceva
sentire più forti nel manovrarla. E’ stupido, pensava; quest’arma è più lenta dell’ultima delle mie spade, ed
un battito di ali di farfalla è il tempo che serve per vivere o morire. Ma il suo cuore sentiva che sarebbe
valsa la pena di rischiare, pur di avere l’occasione di sferrare un colpo tanto potente.
Talya, dopo essere stata ignorata dal padre per troppo tempo, si decise a parlare:—Padre... leggi le
nuvole?—Un modo di dire elfo per indicare una persona assorta o distratta.
Trellin rispose senza distogliere lo sguardo, ma massaggiandosi il braccio bendato, che ancora gli faceva
molto male:—Questa spada poteva uccidermi. Ma adesso è mia.—
La principessa sussultò. Non aveva mai sentito suo padre parlare così; un elfo davvero pragmatico e
risoluto, che mai aveva indugiato su beni materiali di qualsiasi natura. E fra i beni materiali, ne era sicura,
quelli che attiravano meno la sua attenzione erano le armi. Li considerava alla stregua di utensili; mai aveva
dimostrato, fino ad allora, tanto interesse per una spada.
Talya scese dal letto, si avvicinò a suo padre e prese il suo braccio ferito. Le bende erano macchiate di
sangue scuro.
—Credo che sia ora di cambiare questa fasciatura, padre.—disse.
Trellin distolse lo sguardo dalla spada, ed annuì: —Penso che tu abbia ragione. Sarà meglio cercare Hellis.
—
Così dicendo, prese la spada per l’impugnatura, come per brandirla, e l’appoggiò con poco rispetto in
piedi, accanto alla testa del letto. Fu felice di pensare a qualcosa di diverso, ma fu felice anche di aver
stretto in pugno la spada ancora una volta.
Hellis era seduto su una panca di legno levigato, con la schiena appoggiata sul muro della torre, ed il caldo
sole del mattino in pieno volto. Aveva gli occhi chiusi, e rifletteva. Non era una pratica spirituale di nessun
genere, non stava meditando o pregando, semplicemente rifletteva su ciò che era accaduto la notte prima.
La gentile voce di Talya lo interruppe: —Salve, Hellis. Possiamo disturbarti?—
Il sacerdote sorrise. —Certo,—rispose, —cosa posso fare per te?—
—Puoi vedere come sta la ferita di mio padre?—
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—Sì...—disse, e fece accomodare l’elfo accanto a se. Con mani sapienti, gli slegò delicatamente le bende;
quando il braccio fu libero, poterono vedere che il taglio, seppur profondo, stava guarendo bene grazie alle
cure del chierico.
—Ti suggerisco di tenere la ferita all’aria almeno un’ora. Stai attento a non sporcarla, però. Dopo ti farò
una nuova fasciatura; guarirai in fretta.—
L’elfo chiese a bassa voce: —Secondo te... rimarrà la cicatrice?—
Il sacerdote rise piano, dicendo: —Non credevo che un prode guerriero come te si preoccupasse di questo.
—
—Invece mi preoccupo.—
—In effetti... è un taglio profondo. E’ probabile che un segno rimanga, ma non sarà molto visibile.—
Il principe elfo storse un poco la bocca, ma non aggiunse altro.
Nel frattempo, i giovani apprendisti della torre stavano apparecchiando per la colazione.
Per quanto le fosse ancora difficile avvicinare umani sconosciuti, Talya si diresse verso uno di quei giovani.
Senza salutare, chiese direttamente: —Tu... sai dov’è Vàlen?—
Il ragazzo sussultò nel sentire una voce femminile, ed in più dall’accento esotico, rivolgergli una domanda;
si girò verso la voce e deglutì a fatica quando vide la bella figura dai capelli dorati della principessa elfa.
Imbarazzato per questo, e per l’alto lignaggio che della ragazza, il giovane umano balbettò: —E’ ... credo
che sia con Séndovan, Vostra Altezza.—
—Ah!—fece lei girandosi. Era offesa dal fatto che il giovane mago non l’avesse neanche salutata. E poi le
aveva promesso una cosa a cui teneva molto...
Il giovane che la guardava allontanarsi fece per dire: —Ma che razza di...—, ma fu fermato da un
compagno che gli posò una mano sulla spalla e gli sussurrò: —Non dire cose di cui potresti pentirti. Si dice
che gli elfi abbiano un udito incredibile.—
Talya si girò e sorrise per un istante al secondo ragazzo, poi continuò il suo cammino.
—Visto?—concluse questi.
La tavola fuori della torre era stata imbandita con viveri adatti alla prima colazione: latte, uova, pane,
burro, marmellata e frutta in abbondanza. Prima ancora che venisse suonata la campanella che indicava
l’inizio della colazione, tutti gli ospiti della torre erano già seduti. Ed il primo di tutti era stato Trott che
elargiva sorrisi che trasparivano al di sotto della sua folta barba nera ad ogni pietanza che veniva
approntata. A capo tavola, in onore della regalità dell’ospite, sedeva Trellin. Alla sua destra c’era sua
figlia, ed alla sinistra il barone di Danisìt. Il guerriero umano era di fianco a lui e di fronte a questi sedeva
Hellis. Accanto, in ordine sparso, c’erano i ragazzi della torre, sedici in tutto, otto per parte. Al segnale
della campanella, suonata per tradizione dall’apprendista più giovane, la colazione ebbe inizio.
Lo sguardo rapace di Ròndal esplorava discretamente il volto dei nuovi arrivati, intenti a mangiare ed a
conversare. Ben raramente aveva avuto occasione di parlare con gli elfi. Aveva visto, ma da lontano, una
delegazione che si era recata alla corte di Thàris, una volta, ed in qualche modo, questi sembravano diversi.
Innanzi tutto, gli elfi che aveva visto avevano tutti i capelli castani mentre i due che aveva davanti erano
biondi. Inoltre, gli pareva che i tratti somatici degli elfi che aveva visto in precedenza fossero in qualche
modo più "alieni". In particolare, aveva notato che le loro mani erano molto più lunghe ed affusolate di
quelle degli umani, mentre le mani elfe che vedeva adesso avevano proporzioni più familiari: un aspetto
decisamente più forte. In particolare, notava le unghie di Talya: corte e ben curate, lucenti e dure, ma senza
alcun segno di pittura o belletto. Le unghie delle donne elfe che aveva visto a Tharis erano dipinte con
smalti azzurri o verde smeraldo, e decorate con ricchi disegni geometrici.
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—Posso avere l’onore di rivolgerVi la parola, Vostra altezza?—esordì il barone in direzione della
principessa, chinando discretamente il capo. Gli occhi azzurri di Trellin vigilavano attenti, ma il barone fece
finta di non accorgersene.
—Prego...—
—Scusate la mia curiosità, ma non capita spesso di essere onorati dalla presenza di nobili elfi.—
Talya sorrise discretamente. —Non ne dubito.—
—Spero che l’accoglienza che vi è stata riservata dalla gente del Kalèdion sia stata all’altezza della
situazione.—
La principessa rinunciò a finire la mela che aveva delicatamente sbucciato e tagliato, e rispose: —La gente
del Kalèdion è semplice, ma non posso lamentarmi.—
Ròndal faticava a capire se le risposte sintetiche della principessa fossero volute o piuttosto fossero frutto
della scarsa padronanza della lingua umana. Questo volle pensare, quindi continuò: —Perdonate la mia
impudenza...—
—Senza dubbio.—Talya aveva smesso di sorridere.
—... Ma cosa vi porta così lontano dalle vostre terre?—
Fu Trellin a rispondere freddamente: —Non è affar vostro.—
Ròndal erse la schiena, indietreggiando il capo e sollevando lo sguardo. I suoi occhi incontrarono quelli del
nobile elfo, per nulla intimoriti, e sebbene Trellin rimanesse impassibile, si accorse che quell’uomo era
molto, molto più pericoloso di quanto non sembrasse da una prima impressione, e dai suoi modi cortesi.
—Vostra Altezza,—rispose ancora più gelido l’umano, —non era certo mia intenzione dimostrarmi
irrispettoso, nei confronti Vostri o della principessa Vostra figlia. Prima di adesso, ovviamente.—
La forza d’animo dimostrata da quell’uomo dagli occhi temibili fece venire a Trellin, per la prima volta, un
nodo allo stomaco. Ed in più, l’elfo era conscio che non era stato l’umano a mancare di rispetto a loro; ma
non poteva sopportare l’idea di scusarsi, o di cedere, soprattutto di fronte ad un uomo dall’aspetto tanto
minaccioso, e per di più abile nell’arcana arte della stregoneria. Così continuò: —E non lo sarete nemmeno
ora, Barone.—
Anche se lo scambio di battute fra i due si era mantenuto a voce bassa, la tensione dei loro sguardi non era
passata inosservata, e sulla tavola era sceso un pesante silenzio. I commensali osservavano preoccupati i
due personaggi, ed il più preoccupato di tutti era Tòret, che conosceva bene il caratteraccio di Trellin ed
aveva capito al primo sguardo di che pasta fosse fatto quello straniero. Ed in più, era disarmato...
Dopo una pausa volutamente lunga, non per timore, ma per dare più peso alla propria voce, Ròndal ruppe
il silenzio.
—Altrimenti?—
Tòret pensò che raramente aveva udito una domanda più minacciosa di quella. Persino Hellis era rimasto
spiazzato; anche se aveva il potere di fermare una probabile sfida fra i due, non riusciva a focalizzare un
modo per farlo.
Trellin sostenne lo sguardo dello stregone, ma non rispose. Non riuscì a fare a meno di pensare all’effetto
che avrebbe avuto sul cranio di quell’uomo un buon fendente della sua nuova spada, ma non disse nulla.
Dopo un po’, Ròndal decise che il principe aveva avuto abbastanza tempo per reagire, quindi si alzò; Tòret
stava per fare altrettanto, ma il movimento dello stregone era stato talmente lento da presupporre che non
avesse intenzioni ostili. Infatti, l’uomo dagli occhi di falco parlò: —Bene. Capisco che Vostra Altezza non
gradisce la mia presenza, e per questo, mi ritiro. Ma sappiate che non è più possibile conoscere chi mi ha
mancato di rispetto una seconda volta.— ed il tono calmo con cui lo disse fece capire a tutti che ciò era
terribilmente vero. Quindi, lo stregone si allontanò con calma in direzione della torre.
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Dopo aver seguito con lo sguardo il barone fino a metà strada, Trellin tornò ad occuparsi di un arancio che
era rimasto nel suo piatto, e, non dopo aver lanciato un’occhiataccia a suo padre, Talya fece altrettanto
con la sua mela. Gli altri commensali ripresero in silenzio la colazione, ed assicuratasi di non essere
osservata, senza alzare gli occhi dal piatto, la ragazza elfa disse tanto piano da poter essere udita solo da
Trellin: —Era proprio necessario, Padre?—
L’incidente del mattino aveva messo tutti di cattivo umore. Alla fine della colazione, i giovani apprendisti
si erano congedati discretamente, ed avevano ripreso a compiere i loro lavori quotidiani; Tòret, un poco
imbarazzato, aveva salutato gli elfi ed era rientrato nella torre, con l’intenzione di schiacciare un sano
pisolino prima di mezzo giorno. Poi avrebbe fatto un giro in torno alla radura, così, per fare due passi, e
per godere di quel luogo tranquillo e grazioso, in mezzo ad un mite bosco primaverile. Ma anche per
assicurarsi che tutto fosse in ordine... erano stati trovati troppo facilmente l’ultima volta.
Hellis aveva ricordato a Trellin che era ora di coprire la ferita al braccio con una nuova fasciatura. Era
cortese come sempre, e, sebbene fosse un umano, il solo guardarlo riempiva Trellin di calma: un umano
eccezionale, pensava. Eppure, qualcosa nel suo sorriso non più così completo, o negli sguardi non più
tanto profondi, gli faceva capire che il sacerdote lo stava rimproverando. Era un rimprovero talmente
sottile ed educato che nemmeno il principe elfo riusciva ad offendersi. Non poté fare altro che pensare
debolmente “va bene, ho capito: non lo faccio più”.
Gli elfi passarono il resto della mattinata a riposare: Talya era meno loquace del solito, e presto sembrò si
fosse addormentata. Trellin era sveglio, e guardava il soffitto, pensando a ciò che era avvenuto al mattino.
Avrebbe trovato il modo di riparare... non che avesse la minima intenzione di scusarsi, e poi quell’inutile
stregone umano non gli era mai piaciuto. Ma era comunque meglio non crearsi nemici; sarebbero dovuti
stare lì per un po’, quindi era opportuno mantenere un rapporto quantomeno non conflittuale con i locali.
Questo lo pensava con la testa, ma un angolino del suo cuore diceva che si era semplicemente comportato
da stupido, e che stavolta aveva incontrato qualcuno che gli aveva dato una lezione, anche se solo a livello
verbale.
A pranzo, l’elfo si guardò intorno, con l’intenzione di parlare in privato al Barone Pèrevit, ma questi non si
vide. Peggio per lui, pensò.
Tòret aveva dormito più del previsto e non aveva fatto quel giro di perlustrazione a cui aveva pensato.
Poco male; un po’ di ristoro prima dell’azione non avrebbe guastato. I ragazzi della torre avevano
preparato la tavola con le stoviglie della festa: piatti in fine ceramica bordati di oro zecchino, posate
d’argento, bicchieri di cristallo ed una tovaglia di lino bianco riccamente ricamata. Trellin era sempre a
capo tavola, ma mancavano le posate che sarebbero dovute essere al posto di Pèrevit. Fu servito un
delizioso stufato di agnello, con ricchi intingoli speziati e vari contorni, dalle patate alle verdure bollite e
gratinate. Con sincerità, Talya ammise che quello era il migliore pranzo che aveva gustato da quando aveva
abbandonato le terre degli Elfi, alcuni giorni prima; anzi, batteva anche qualche pasto servito nel suo
palazzo. Così si rivolse al primo giovane vicino a lei, che sedeva subito oltre il possente Trott,
chiedendogli:
—I miei complimenti. Chi ha cucinato?—
—Sono lieto che sia di Vostro gradimento, Vostra altezza. Modestamente, devo confessarvi che sono
stato io.—
Ora Talya riconosceva il ragazzo che Vàlen aveva chiamato Jorlén, quando erano arrivati il giorno prima.
Un bel giovane dai capelli biondo cenere, con mani magre ma dall’aspetto forte.
—Non vantarti troppo,—intervenne il ragazzo di fronte a lui —Ho scelto io le spezie!— Era Bèlden,
un’altro degli amici che Vàlen aveva salutato calorosamente.
—Sai che forza!—rispose il primo, —Cosa ci vorrà a mettere un pizzico di origano nella salsa che io ho
preparato?—
Talya li guardava divertita; anche Trellin guardava, e si impose di rimanere silenzioso qualsiasi cosa fosse
successa.
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—La salsa è opera tua?— continuò scherzosamente Bèlden. —Non è piuttosto opera di quell’incantesimo
che ti ho insegnato il mese scorso?—
—Può darsi, ma a te non è mai venuta così bene.—
Intervenne Léndit, un terzo giovane: —Vi ho lasciato parlare abbastanza. Sono io che ho bollito l’agnello,
che sarebbe più o meno la parte fondamentale della ricetta.—
—Ma sono i dettagli che contano!—
E andarono avanti così a scherzare fino alla fine del pranzo, ed anche oltre.
Nel pomeriggio, Trott volle compiere quel giro di perlustrazione a cui aveva pensato al mattino. Stava per
salire in camera sua, per prendere la sua nuova spada (non si sa mai...), quando fu avvicinato da Trellin,
che si incamminò al suo fianco.
—Tòret?—chiamò piano l’elfo.
—Vostra altezza?—
—Posso farti una domanda un po’ particolare?—
—Certo...—
—Cosa ne pensi delle spade che abbiamo trovato la notte scorsa?—
—Mmm... se devo essere sincero, ho visto armi più eleganti.—
—Ne ero convinto anche io.—
—Tuttavia, le spade dotate di magia sono molto rare e preziose.—
—Anche fra noi Elfi è così.—
—Ma non mi sembra che quelle spade siano state forgiate con l’intento di renderle maneggevoli. Ho la
netta sensazione che non sarà facilissimo usarle.—
—E’ giusto quello che pensavo.— Nel frattempo, i due erano giunti alla base della torre. L’elfo si girò a
guardare il guerriero umano e continuò: —Non pensi che sarebbe meglio allenarsi un po’, con quelle
spade, prima di essere costretti ad usarle?—
Tòret era dubbioso. Gli allenamenti erano, quando possibile, svolti con armi spuntate e senza filo, o
possibilmente con armi finte con le stesse caratteristiche (peso e forma) di quelle vere. Se si era costretti ad
allenarsi con armi vere, si doveva fare molta attenzione, e bisognava avere piena fiducia nel proprio
compagno. In più, quelle erano spade magiche, i cui poteri non gli erano assolutamente chiari. Da un lato,
la logica avrebbe sconsigliato di provare le spade in un allenamento; ma dall’altro, il ragionamento di
Trellin gli pareva giusto: se c’erano delle particolarità nell’uso di quelle spade, e così sembrava, era meglio
scoprirle allenandosi, piuttosto che durante un pericoloso combattimento.
Alla fine, il gigante barbuto sorrise all’esile principe elfo ed assestandogli una pacca sulla spalla di media
entità, disse: —D’accordo; proviamole. Ma bisognerà fare attenzione.—
Per quanto Trellin non amasse i modi dell’umano, e anche se quella manata l’aveva spostato, sorrise a sua
volta. —Sarò attentissimo.— aggiunse.
Talya aveva assistito alla scena da lontano, ma aveva udito perfettamente quello che si erano detti suo
padre e Trott. La strana ossessione di suo padre per quella spada la preoccupava, così, mentre Trellin
saliva le scale, la ragazza fece cenno al giovane guerriero di fermarsi, e dopo averlo raggiunto gli disse: —
Scusa, Tòret, ma ti volevo avvertire che mio padre nutre uno strano fascino per quella spada.—
—Mi stupirei se non fosse così, principessa.—
—Ma non è da lui...—
—Può darsi, ma un guerriero, prima o poi, si affeziona alle sue armi.— E così dicendo, si congedò e andò
a prendere la sua spada.
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Tòret e Trellin erano l’uno di fronte all’altro, nell’ampio spiazzo verde di fronte alla torre, con le spade
alzate, sorridenti. Erano entrambi felici di potersi esercitare con un compagno degno delle proprie doti di
combattimento. Nel frattempo, si era radunata una piccola folla di ragazzi che guardavano da lontano,
incuriositi dall’evento. Il sole del pomeriggio batteva caldo sui loro capelli, e risplendeva in modo strano
sulle lame magiche che si fronteggiavano.
—Altezza, colpirò con un medio fendente da sinistra, e continuerò con una serie da destra.— Esordì
Tòret.
—Sono pronto.—
Il guerriero alzò la spada sopra la spalla sinistra e la calò in diagonale senza metterci troppa forza. Trellin
portò la guardia in alto a destra; quando la spada di Trott colpì, si udì un tintinnio metallico molto forte, e
piovvero numerose scintille. Eppure, Trellin si non si era accorto di aver ricevuto un colpo violento: la
vibrazione che gli era arrivata al polso era minima. Anche l’umano si era reso conto che il colpo era giunto
molto più forte di quanto volesse.
—Sembra quasi che la mia spada abbia resistito al posto mio.—disse l’elfo, ed il guerriero umano
continuò: —Ed io non ci avevo certo messo tutta quella forza...—
Continuarono a combattere per quasi un ora, scambiandosi il ruolo di attaccare o difendersi secondo un
ritmo dettato dall’esperienza. All’inizio, Trellin faticava ad usare i fendenti; era abituato a colpire con un
affondo, ma quando ci provava, si rendeva conto che il colpo era debole ed incerto. Con i fendenti, invece,
la spada danzava prendendo un proprio ritmo dettato dall’inerzia: destra, sinistra, destra e ancora sinistra,
come un pendolo. Anche Tòret si divertiva: doveva ammettere che il principe elfo aveva uno stile molto
elegante ma allo stesso tempo estremamente efficace. Quando questi ebbe appreso come gestire la spada, i
suoi attacchi divennero sempre più precisi. Raramente aveva avuto un avversario tanto valido. Dal canto
suo, Trellin era impressionato. I movimenti del pesante essere umano che aveva di fronte erano leggeri e
veloci, e la sua forza era notevole: dopo mezz’ora di allenamento, l’elfo ansimava ad ogni colpo vibrato
dall’uomo, ed invece Trott pareva perfettamente riposato.
Giunse in fine il momento di rinfoderare le armi.
—Complimenti...— si congratulò Trott stringendo la mano a Trellin. Anche se non era un’usanza elfa, il
principe la apprezzava, e strinse a sua volta la mano del guerriero.
—Non ti sapevo così veloce, Trott.—
—La velocità viene prima della forza.—
—Ma qualche volta non guasta neanche quella...—
—Allora, cosa ne dobbiamo pensare di queste spade.—
—Fantastiche. Ora che la so usare, sento di essere inarrestabile.—
—Andateci piano, principe. Questo genere di sensazioni vanno messe da parte in combattimento. La
battaglia va affrontata con determinazione, ma con umiltà.—
—Me ne ricorderò, amico mio.—
Così dicendo, si congedarono; il guerriero volle perlustrare la zona, come aveva in mente dal mattino, e
Trellin andò a riposarsi nella sua camera.
Giunse il tramonto. Finalmente Vàlen alzò la testa dal prezioso e raro libro che parlava della forma della
materia; era stanco ed affamato. Assieme a Dan, uscirono dai sotterranei della torre, mentre i ragazzi
imbandivano la tavola per la cena. Durante il giorno, aveva avuto un pensiero latente che lo aveva
disturbato non poco nello studio: la prima cosa che voleva fare appena finito l’insegnamento era parlare al
barone Pérevit. Voleva rivolgergli numerose domande sulla stregoneria, e su quali altre sorprese si
sarebbero dovuto aspettare da Dàrini. Fece appena in tempo ad organizzare le domande che voleva porre
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al barone: si accorse subito che Pérevit non era fra i presenti. Trott, Talya, Trellin ed Hellis... c’erano tutti
tranne Ròndal. Stava per avvicinarsi ai suoi amici e chiedere spiegazioni, quando un suo amico, di nome
Gàloth, gli corse incontro per salutarlo.
—Allora Vàlen, come è andata oggi?—
—Come sempre...—
—Non ti va di raccontarmi qualcosa? Un piccolo anticipo?—
—No, Gàloth, sai che non posso. Se il vecchio scopre che ti svelo i suoi misteri mi spella vivo.—
—Neanche un pochettino?—
—...Mah, non voglio rovinarti la sorpresa.—
—Sei odioso!—
—Eh, amico mio, è l’amaro destino di noi maghi. Piuttosto, sai dirmi che fine ha fatto lo stregone?—
—Mmm... non credo che si vedrà neanche stasera.—
—Cosa intendi?—
—Già, tu non sai nulla. Beh, stamattina il barone Pérevit ed il principe elfo hanno litigato.—
“Oh, no!”, pensò Vàlen, strofinandosi il volto, disperato. “Lo sapevo. Un giorno, un solo giorno da solo e
Trellin ha già combinato un guaio”.
—Raccontami come è andata...—
—Beh, non come sia iniziata... so solo che sono volate minacce, e per non complicare la situazione il
barone se n’è andato. Ha mangiato in camera sua, oggi, e non si è visto in giro.—
Vàlen ringraziò il suo amico, e si diresse dritto da Trellin. I suoi compagni lo salutarono calorosamente, ma
il mago li liquidò con un: —Sono un po’ stanco, grazie.—
Sbrigati i minimi convenevoli, chiese direttamente a Trellin: —Raccontami cosa è successo oggi a
colazione.—
Talya arrossì ed abbassò lo sguardo; Trott si mise a giocherellare con le stoviglie ed Hellis fece finta di
girarsi a guardare la pentola nella quale bolliva lo stufato.
Trellin rispose: —Vuoi sapere cosa è successo? Semplice: quel rozzo umano ha importunato Talya ... —,
nel frattempo, la ragazza si era messa ad imitare Trott, tentando di copiare la complicata struttura
composta da forchetta, coltello e cucchiaio che il guerriero aveva costruito e messo in equilibrio sul piatto,
—... e quando ha chiesto quale fosse la nostra missione sono dovuto intervenire.—
—A modo tuo, immagino.—
—Certo; non rubo i modi degli altri.—
—Ah. Fai bene; rubare è una pessima abitudine. Ma dimmi, l’hai per caso offeso?—
—Io? Ha fatto tutto da solo. Comunque, mi dispiace di aver dovuto impormi con un ospite del nostro
ospite; mi scuserò con Séndovan.—
In quel momento, un vago calore al petto segnalò a Vàlen che il disco di cristallo stava per comunicare con
lui. La voce inespressiva disse nella sua mente: Lo stregone ci serve. Vàlen stava per rispondere: “l’avevo
immaginato”, ma la presenza del disco se n’era già andata.
—Il problema non è questo, Trellin. O meglio, è anche questo, ma ... dimmi, quanti stregoni conosci?—
—Troppi.—
—Io credo siano due. Uno è Dàrini, e l’altro è Pérevit. Non ti è passato per la testa che l’aiuto di Pérevit
può essere fondamentale?—
—Non usare questo tono con me, mago.—
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—Smettila di fare il principe. Qui c’è in ballo qualcosa di più importante del tuo orgoglio.—
Trellin si alzò in piedi, ma Vàlen non lo lasciò parlare: —Bravo, vedo che hai preso la decisione giusta.
Andiamo da Pérevit, e cerchiamo di ricucire lo strappo.—
L’iniziativa del mago spiazzò il principe, che si trovò quasi involontariamente a seguire Vàlen verso la
torre. Tòret li seguì subito dicendo: —Meglio non lasciare quei tre da soli —, e dopo di loro si alzò Hellis
che disse: —Credo sia utile la mediazione di un sacerdote.—
Talya era riuscita a mettere in equilibrio le stoviglie, e voleva che i suoi amici ammirassero la sua
creazione, ma erano già andati via tutti; così si affrettò a correre dietro ad Hellis.
Vàlen bussò delicatamente alla porta della piccola camera che ospitava il Barone.
—E’ già pronta la cena?—
—Sono Vàlen, Barone. Posso entrare.—
—Avanti.—
Ròndal era seduto su di una piccola scrivania, ed una lampada ad olio illuminava un grande libro
proveniente dalla biblioteca di Séndovan; vide che Vàlen non era solo, ma non reagì violentemente: si alzò
con educazione dalla sedia, e salutò il mago con un cenno del capo. Poi fissò gli occhi sul principe elfo:
Trellin non poté sostenere quel terribile sguardo che per pochi istanti... Quando entrò anche Tòret, la
stanzetta era quasi piena, tanto che Hellis e Talya dovettero restare sul pianerottolo. Nonostante la
presenza dell’imponente guerriero, lo stregone non distolse gli occhi dal suo obiettivo per un solo istante.
—Barone,—esordì Vàlen, —siamo qui per porgere le nostre più sentite scuse per l’increscioso episodio
che è avvenuto questa mattina.—
—Non siete voi, che dovete scusarvi, Vàlen. Ed inoltre, non sono tipo da accettare scuse. Non mi
interessano le scaramucce di corte, né salvare un falso orgoglio. Semplicemente, non accetto l’ostilità
aprioristica ed immotivata.—
—Nobile Pérevit; la convivenza del nostro regno con quello degli Elfi ha causato molti malintesi, in
passato. Il principe ne è testimone; abbiamo rischiato spesso di causare sciocchi conflitti, quando una
semplice stretta di mano ha invece creato le basi per una convivenza pacifica e reciprocamente vantaggiosa
per entrambi i nostri popoli...—
—Bel discorso, Vostra Sapienza. Ma non siete voi che dovete stringermi la mano.—
Non visto da nessuno, Vàlen assestò un pizzicotto dritto sul sedere di Trellin; il principe si girò verso
l’amico umano, e dopo aver provato la spada per tutto il pomeriggio, gli riuscì ancora più facile
immaginarne l’effetto sul cranio di Vàlen. Ma il mago non lo guardava: sorrideva in direzione dello
stregone, così non poté vedere lo sguardo carico di odio che Trellin gli rivolse.
Comunque, il principe parlò a Ròndal, ed in tono piatto disse: —Barone Pérevit, inoltro formalmente le
mie scuse, ben sapendo che non le accetterete. E’ necessario mantenere il riserbo sulla nostra situazione
attuale, e siamo stati forzati dagli eventi ad essere scortesi con voi.—
—Avete ragione. Non accetto le vostre scuse, ma non le cerco nemmeno. Io intendo soggiornare qui per
tutto il tempo che mi sarà necessario a completare i miei studi, e Voi rimarrete qui per quanto tempo
riterrete opportuno. Quindi quello che chiedo è solo che Voi cessiate ogni ostilità preconcetta nei miei
confronti. Ed ovviamente, che mi garantiate il rispetto che mi è dovuto.—
Trellin si morse la lingua molte volte, mentre le impediva di ripetere quell’ “altrimenti” che si era sentito
dire al mattino.
—Bene, se non accettate le mie scuse, le ritiro. Ma se le vostre richieste si limitano a quanto avete detto,
posso garantirvi che sarete accontentato.—
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Vàlen, capendo che non avrebbe potuto ottenere di più da nessuno dei due, si intromise dicendo: —Bene,
in questo caso possiamo scendere tutti insieme e consumare la cena. E’ tutto il giorno che desidero
conferire con Voi, Barone, e penso che voi abbiate alcune risposte molto importanti per tutti noi.—
L’argomento fu chiuso così. Stavolta, i ragazzi della torre misero il Barone ad un capo della tavola, e
Trellin all’altro, giusto per evitare problemi. Talya ed Hellis rimasero accanto al principe, mentre Vàlen e
Tòret parlarono per tutta la cena con lo stregone. Il giovane mago aveva bisogno di risposte riguardo alla
potenzialità di Dàrini, e Ròndal si rivelò persino più esperto di quanto Vàlen si fosse aspettato.
Quando ebbero finito di mangiare e di parlare, il sole era sceso oltre l’orizzonte da quasi un’ora, ed anche
le ultime luci del tramonto avevano lasciato spazio al cielo stellato della primavera del Kalédion.
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Vàlen e i suoi compagni si allontanarono dopo poco dal tavolo; gli altri commensali erano già rientrati
nelle loro stanze. Chiacchierando serenamente tra di loro, si diressero verso la torre per andare a riposare.
Stavano salendo la prima rampa di scale, quando improvvisamente Hellis si arrestò. Tòret che era dietro di
lui non poté che fermarsi, chiamando Vàlen che era davanti e non se ne era accorto.
—Cosa c’è, Hellis?— aveva chiesto. Questi, in risposta aveva alzato una mano, senza perdere la
concentrazione che lo faceva sembrare come una persona che si sforzi di ascoltare voci appena udibili.
Le voci c’erano, ma solo Hellis poteva ascoltarle; la sua mente già vagava in cerca dei labili pensieri che lo
avevano colpito.
—C’è qualcuno qui fuori, Vàlen. Sono molti... non sono tutti umani...— Il volto di Hellis si dilatò in un
espressione quasi terrorizzata, mentre alzava gli occhi per guardare Vàlen.
—...E sono qui per noi.—
Un veloce scambio di sguardi, e Vàlen correva verso la sua stanza, seguito dagli altri; disse con calma, ma
allo stesso tempo in tono perentorio: —Presto, prendiamo le armi.— ma non ce n’era bisogno.
Pérevit, dal basso, disse a mezza voce: —Vi aspetto qui: sono già armato.— ed Hellis rimase dove si
trovava, continuando ad ascoltare le voci.
Arrivato al pianerottolo, Vàlen si fermò, e gli altri lo superarono. Il ragazzo aprì una porta, sorprendendo
Jòrlen mentre si stava svestendo per la notte.
—Ma che cosa...—
—Jòrlen, non c’è tempo di spiegare: corri ad avvertire Séndovan che deve scendere immediatamente, e
avvisa anche gli altri ragazzi.—
—Cosa succede?—
—Siamo nei guai. Sbrigati!—
Jòrlen sapeva, come tutti gli altri nella torre, che Vàlen era stato assalito la notte prima di arrivare, anche
se sul chi e sul perché di questo assalto si erano sviluppate le teorie più fantasiose. Così il ragazzo afferrò
subito la situazione, si rimise fulmineamente ciò che si era tolto e corse su per le scale.
Vàlen si armò del suo lungo stiletto e corse rapidamente alla base delle scale, mentre Tòret indossava
rapidamente la sua accozzaglia di metallo che fungeva da armatura. Quando raggiunse lo stregone ed il
sacerdote, Vàlen, ansimando, chiese.
—Dove sono, Hellis?—
—Tutt’intorno.—
—Non puoi essere più preciso?—
—Qualcuno li sta nascondendo bene, Vàlen.—
Il principe elfo e sua figlia giunsero in pochi istanti; lui armato della pesante spada magica, lei stringendo
l’arco di suo padre, e con una faretra colma di frecce a tracolla.
—Trellin, riesci a vederli?— chiese il mago all’elfo.
Il principe sbirciò da dietro una larga feritoia protetta da un vetro, una specie di finestra, che si trovava
subito dopo tre o quattro gradini dalla base della torre, vicino al portone.
—No... un momento, vedo del calore laggiù ma... Steldeminit!—
—Come?—
—Sono una massa di corpi, Val. Ce ne saranno almeno cento!—
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—Di che cosa?—
—Non ne ho idea!—
Vàlen sapeva che, insieme a Séndovan, avrebbe potuto fermare parecchie persone con la magia. Ròndal,
era sicuro, avrebbe potuto fare anche meglio di loro. Inoltre c’erano gli apprendisti. Solo Jòrlen, Léndit e
Galoth, avevano già studiato i primi incantesimi, ma non sapeva se, da quando aveva lasciato la torre,
avevano appreso qualche magia utile in combattimento; in genere Dan teneva questi insegnamenti per
ultimi. Gli altri non ne erano sicuramente in grado, ma avrebbero potuto aiutare i due maghi con la loro
stessa energia vitale.
Ma se là fuori c’era qualcosa di simile alla forza che li aveva sorpresi due notti prima, quando si erano
allontanati da Sàivod, la situazione sarebbe stata drammatica.
Lo scalpiccio che scendeva le scale interruppe i suoi pensieri. Era Dan, seguito da cinque apprendisti; gli
altri si sentivano correre giù, e sarebbero arrivati in pochi istanti.
—Cosa succede?— Aveva chiesto l’anziano mago.
—Siamo circondati.— rispose secco Vàlen.
—Chi sono?—
—I nostri amici assassini.—
—E sono tanti?—
—Parecchi. Come hai fatto a non accorgertene, Dan?—
Rispose Ròndal al suo posto: —L’unico modo per sfuggire all’incantesimo di rilevazione che Séndovan ha
apposto su questa zona è quello di farlo interrompere dagli spiriti dell’oblio.—
—Oppure con una potentissima "sospensione della magia"...— rifletté l’arcimago.
Trellin intervenne: — Beh, ora sono qui, e sono tanti.—
—Almeno non sanno che li stiamo osservando.— aveva commentato Vàlen.
Trott intervenne: —Non credo che la cosa li interessi molto. Guarda—
Alcune creature stavano uscendo allo scoperto, riempiendo la radura.
—Abbiamo bisogno di una macchina da guerra— disse Vàlen guardando il guerriero che indossava la sua
rudimentale armatura. Questi ricambiò lo sguardo, turbato dalle parole del mago. Ma prima che potesse
chiedere cosa intendesse, Vàlen e Séndovan stavano già raccogliendo le forze per lanciare un incantesimo.
Vàlen ultimò per primo la concentrazione, ed immediatamente toccò il guerriero, pronunciando la parola
Stérigh. Le braccia di Tòret si gonfiarono ed il suo petto divenne ancora più duro di quanto non fosse
prima. Il poderoso guerriero si sentì colmato da un’energia che gli filtrava in ogni poro. Improvvisamente
fu conscio della sua nuova, tremenda, magica forza.
Quindi fu Séndovan a lanciare il proprio incantesimo sul guerriero; disse semplicemente Léganed. Come lo
sfiorò, un’ondata di magia penetrò Tòret, che iniziò improvvisamente a crescere, diventando in brevissimo
tempo alto due metri e mezzo, poi tre, poi ancora più alto, fino a quando fu alto e largo come il portale
della torre.
—Impressionante!— esclamò lo stregone.
Trott si guardò intorno. —Accidenti! Avreste anche potuto avvertirmi prima!—
Lo spettacolo del gigantesco guerriero stupì i ragazzi che arrivarono in fondo alle scale in quel momento,
ma Vàlen attirò la loro attenzione sul problema più pressante.
La torre non era certo concepita come una costruzione difensiva, ma avrebbero dovuto fare del loro
meglio con quello che c’era a disposizione.
— Qual é il piano Vàlen?— aveva chiesto Trott.
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—Temo che non ci sia più tempo per i piani. Apriamo il protone e vediamo cosa succede.—
La calma del ragazzo fece gelare il sangue a tutti i presenti, tranne che a Trott; conosceva bene sia il suo
amico che il proprio dovere. Era già pronto a combattere.
—Jòrlen, dammi una mano; apriamo il portone. Siete tutti pronti?— aveva chiesto il giovane mago.
—Aspetta— Lo aveva fermato lo stregone. Aveva preso quindi una collana d’oro, tempestata di pietre
preziose. Un gesto rituale, una secca parola ed ecco che la collana brillava di luce propria. Ogni gemma si
staccava dalla propria sede, andando a ruotare attorno al gioiello per poi trasformassi rapidamente in un
piccolo globo di luce.
—Prendi, questa. Gli spiriti della guerra ti difenderanno.— disse l’uomo dagli occhi di falco rivolto
all’enorme guerriero.
—Grazie— aveva risposto Trott. Allungando l’enorme mano, aveva delicatamente preso la collana,
infilandola con fatica al polso, come se si trattasse di un bracciale. Le luci adesso danzavano velocemente
attorno a lui.
Tòret sguainò l’enorme spada proprio nel momento in cui si udì l’urlo della carica della massa che si era
concentrata fuori dalla torre.
Jòrlen aprì di colpo il portale, nascondendosi dietro di esso, ed il guerriero rapidamente sgusciò fuori dalla
torre, proteggendo con il corpo Vàlen, Dan, Trellin e Talya, che si stavano preparando a combattere.
Alla vista del gigante che caricava, e sentendo la terra che tremava sotto i suoi piedi, le creature che
stavano assaltando la torre dal lato della porta si bloccarono come un’onda ghiacciata. Adesso che Tòret si
era avvicinato, poteva vedere chiaramente chi erano i suoi nemici. Gridando ai compagni per avvertirli
disse —Sono Goblin!—
La spada magica di Tòret si abbatté sugli sfortunati esseri che si trovavano di fronte al portale. Un solo
colpo falciò molti goblin e ne ferì altri. Ai suoi fianchi, due di quelle creature che non gli arrivavano
all’altezza del ginocchio caddero freddate dalle precise frecce di Trellin e Talya, mentre Vàlen e Dan si
spostarono fuori dalla porta, pronti a lanciare un nuovo incantesimo. Davanti a Séndovan, si formò
improvvisamente una sfera che emanò una luce micidiale. Questa si abbatté sui goblin che stavano per
arrivare sul fianco destro della torre; grida disumane seguite dall’intenso odore di peli bruciati furono tutto
quello che rimase di quelle creature. Dall’altra parte Vàlen aveva pronunciato la sua magia. Lo schianto del
potere era perfettamente udibile, ma sulle prime non sembrò succedere nulla. Poi, proprio mentre il primo
goblin stava per raggiungerlo, con la spada levata pronta a sferrare il colpo, Vàlen scagliò un vento gelido
di fronte a sé. I mostri furono spazzati via, mentre gridavano per il dolore del ghiaccio che li uccideva.
Pochi colpi di spada e Tòret si liberò dei suoi avversari come un contadino che miete le messi. Ma quasi la
metà dei nemici era ormai giunta sul retro della torre. Il gigante corse verso i suoi amici all’ingresso,
mentre anche gli elfi erano usciti dal portale, assieme agli apprendisti più abili. Riuscirono a fermare i primi
goblin, ma non avrebbero mai potuto ricacciarli tutti indietro, protetti com’erano dal perimetro della
costruzione. Continuavano a sbucare da dietro la torre, e presto avrebbero sopraffatto i difensori.
Ma lo stregone, silenzioso come un rapace che si abbatte sulla preda, aveva completato il suo incantesimo.
Con una verga d’argento aveva disegnato nell’aria una stella a sette punte, che ora brillava minaccioso
sopra alla sua testa. Una luce diabolica illuminava il suo volto ed il suo corpo, ed un vento gelido si alzò
sulla radura. Era un vento glaciale, ma non freddava la pelle... arrivava in profondità, fino alle ossa, fino
all’anima. Le vesti ed i capelli del potente stregone erano scossi da un turbine di aria dannata che roteava
intorno alla figura ammantata di nero.
Improvvisamente, un lampo squarciò la magica immagine della stella a sette punte, e da sopra la testa dello
stregone filtrarono nel piano di esistenza degli esseri incarnati le anime perse, gli spettri, i fantasmi, ed altre
cose che la mente umana si rifiuta di concepire, sgorgando dallo squarcio ed accarezzando languidamente
il corpo del negromante; ad un suo secco ordine, gli spettri si moltiplicarono fuggendo in ogni direzione,
volteggiando con maligna grazia sulle teste dei nemici. I primi goblin erano ormai addosso a Dan quando si
accorsero degli spiriti sopra di loro.
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Il terrore li sconvolse, ma tentare la fuga era inutile: sorridendo, Pérevit abbassò il braccio, e gli spiriti
dannati li assalirono le loro prede, ed uno ad uno, divorarono la vita dei nemici superstiti. Nessuno trovò
scampo; le anime dannate si avventavano come falchi assassini, sotto lo sguardo attento e terribile del loro
Maestro, entrando nei corpi degli esseri viventi e nutrendosi della loro anima.
Quando anche l’ultimo goblin cadde, i fantasmi fuggirono dalla realtà attraverso il simbolo della stella a
sette punte; l’imponente figura di Ròndal richiuse con un secco ordine lo squarcio che egli stesso aveva
creato.
L’unico, poderoso incantesimo lanciato da Vàlen, il "Vento di Ghiaccio" che aveva sterminato moltissimi
nemici, lo aveva spossato quasi completamente. Passata la tensione nervosa del combattimento, le sue
gambe cedettero, facendolo cadere in ginocchio. L’immenso Tòret corse verso di lui, seguito da Talya e
dagli altri ragazzi nella zona, ma Vàlen si rialzò quasi subito. Anche Dan era visibilmente stanco, anche se
più esperto del giovane mago. Hellis che non aveva preso parte al combattimento era ancora nella torre, e
sembrava che fosse estremamente concentrato in qualcosa, come se stesse guardando lontano...
L’unico che manteneva una certa aria rilassata era lo stregone, che si era portato verso il giovane mago.
—State bene, Vàlen?— chiese Ròndal.
—Adesso sì... Grazie a voi stiamo tutti bene, Pérevit.—
—Ho fatto solo la mia parte. Se siamo ancora tutti qui lo dobbiamo l’uno all’altro.— Mentre parlava, il
negromante lanciava occhiate penetranti tutt’intorno, pronto a scorgere un nuovo pericolo.
—... Non sospettavo che foste tanto abile, Barone— replicò Vàlen.
Pérevit sorrise, sempre guardingo —In effetti ho usato un incantesimo impressionante, non trovate
Maestro Séndovan?—
L’anziano mago annuì guardando bieco lo stregone: era convinto che le anime dei trapassati dovessero
essere lasciate in pace e non usate come arma. Ma era anche conscio che questa sottigliezza filosofica fosse
fuori luogo in momenti come quello.
—Meno male che è finita presto...— disse fra se’ e se’ Vàlen, che era ancora un po’ malfermo sulle gambe.
—Vàlen!— chiamò il sacerdote da dentro la torre —Non è finita... è appena cominciata.—
Il ragazzo guardò disperato in direzione di Hellis, mentre Tòret sguainava nuovamente la spada magica.
Trellin lo imitò, posando a terra l’arco e le frecce, intimando a Talya di tornare nella torre e di tenersi
pronta. Il Barone, già pronto a combattere, afferrò una bacchetta di legno con intarsi d’oro e si allontanò
tanto furtivamente da sembrare egli stesso uno spettro.
—Jòrlen!— chiamò Vàlen.
—Eccomi.— Jòrlen corse verso il suo amico anche se sapeva di non poter essere di nessun aiuto la propria
arte magica.
—Come sei messo a incantesimi di attacco?— chiese il mago più esperto.
—Zero. E anche gli altri...—
—Jòrlen... puoi...—
—Per te, questo e altro, amico!—
Vàlen strinse le mani che Jòrlen aveva porto, sorridendo. Non sarebbe stata una cosa piacevole, lo
sapevano entrambi, ma era necessario. Anche Dan si stava preparando, estraendo dalle sue tasche due
bacchette luminescenti, dall’aspetto vagamente minaccioso.
Improvvisamente, un ululato risuonò alto nella radura, e dalla boscaglia, uscirono numerosissime figure
umanoidi. Le più piccole erano delle dimensioni di un robusto uomo, mentre quelle più grandi erano alte
più di due metri e mezzo; figure oscure, sicure nella loro inumanità, sicure di una forza bruta che avrebbe
dato loro la vittoria.
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Il più grosso si fece avanti, lasciando che la luce lunare lo illuminasse. Aveva il muscoloso corpo ricoperto
di peli; gli arti stavano in una posizione innaturale, e gli conferivano un aspetto bestiale. Le mani erano
sproporzionatamente grandi, e terminavano con lunghi artigli.
Tòret ringhiò fra i denti: —Licantropi...—
Un primordiale terrore si affacciò alle porte della sua coscienza, ma il guerriero si fece coraggio,
ricordandosi che dalla sua parte aveva tre incantesimi di esperti maghi. Ora avrebbe potuto stritolare quelle
creature oscure a mani nude.
Il loro capo alzò il braccio artigliato, per comandare l’attacco; i mostri si lanciarono contro la gigantesca
figura di Trott ululando in modo macabro.
In quel momento Vàlen scagliò il proprio incantesimo, tenendo con l’altra mano quella di Jòrlen; questi
strinse i denti quando l’incantesimo iniziò a prendere forma, e si aggrappò con entrambe le mani a quella
dell’amico. Un poderoso fulmine avviluppò il braccio di Vàlen, per poi squarciare la radura, colpendo
quindi il licantropo più alto. Questi emise un urlo stridente, balzando all’indietro per la potenza del colpo e
per il dolore, mentre la sua carne prendeva fuoco. Per lui non ci fu speranza.
Prima che i mostri fossero addosso a Tòret, che faceva da scudo agli altri, Trellin era già al suo fianco; uno
dei mostri fu colpito da una precisa freccia di Talya. Le bacchette di Dan lanciarono delle scintille di
energia che uccisero sul colpo altri due mostri. Anche Ròndal aveva ultimato un incantesimo: roteando il
braccio al ritmo di quattro terribili ordini impartiti agli spiriti del fuoco, aveva fatto comparire davanti a se
un cerchio infuocato, che subito iniziò a girare vorticosamente. Lo stregone dallo sguardo rapace lo afferrò
con le sue stesse mani, per poi scagliarlo contro un licantropo: il colpo staccò gli di netto la testa.
Quindi i mostri furono su Tòret e su Trellin; ben quattro impegnavano il gigante, mentre due si
avventarono sull’elfo. La spada di Trott trafisse mortalmente il più vicino dei suoi avversari; l’uomo schivò
quindi abilmente l’artiglio del mostro alla sua destra. Anche gli altri due licantropi lo attaccarono, e lo
avrebbero certamente colpito se non fossero stati fermati dagli spiriti della guerra che gli danzavano ancora
attorno.
Trellin se la cavava abbastanza bene, parando con la spada le mani feroci del primo avversario, per poi
abbattere mortalmente la lama sul fianco del secondo. Il cerchio di fuoco tornò nella mano dello stregone;
Ròndal roteò elegantemente su se stesso, così da imprimere maggiore forza al movimento: il destino
dell’altro avversario di Trellin, era segnato, ed il volo sicuro dell’arma magica non fece che portarlo a
compimento.
E fu allora che Hellis riuscì a percepire con chiarezza ciò che si nascondeva dietro all’orda che li aveva
attaccati: il vero nemico. La sua mente toccò per caso una creatura terrificante, l’aberrazione della natura.
Il corpo di un uomo, ormai privo di vita era l’involucro di un demone, di uno spirito maligno, bramoso di
cibarsi dell’anima e della carne dei vivi. Il nuovo potere che ShtàrRésel aveva donato ad Hellis pulsò
dentro di lui, accendendo l’aura del sacerdote come una torcia. Presto sarebbe stato il suo momento di
combattere.
Tòret si liberò con un fendente dell’ormai impaurito licantropo che aveva di fronte. Trellin, che aveva su di
sé gli ultimi due, parò abilmente gli artigli del primo mostro, abbassandosi per schivare il colpo del
secondo. Con la spada occupata a bloccare le mani del licantropo che aveva di fronte, l’elfo colpì con una
gomitata l’addome scoperto dell’altro; questi arretrò urlando di dolore, ed il principe sfilò la spada dalla
stretta dell’avversario per staccare di netto la testa al lupo urlante. La freccia di Talya uccise sul colpo la
bestia rimasta, ancora intenta a guardare sconcertata quello che restava delle proprie mani.
Tòret e Vàlen si guardarono intorno. Nonostante l’immensa forza, pure accresciuta dalla magia, il
guerriero si sedette sull’erba insanguinata, scansando i corpi delle sue vittime. Il cerchio di fuoco evocato
dallo stregone svanì, mentre Ròndal si muoveva agile verso Vàlen. Osservando la situazione disse: —Un
bel combattimento non è vero?—
Vàlen si chiese come avrebbero fatto a far tornare quel luogo sereno ed ordinato come lo era stato prima.
Era stato come profanare un tempio; non esisteva rimedio per ciò che era successo. Gli spensierati ragazzi
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che avevano trovato rifugio da Dan non avrebbero mai dimenticato le scene di morte che li avevano
travolti. Incurante della presenza del barone, il mago stava per andare a parlare con il suo amico Tòret, ma
con la coda dell’occhio vide Hellis splendere di energia. Allarmato, voleva chiedere cosa altro stesse per
succedere, ma non ne ebbe il tempo. Ancora una volta, ancora senza alcun preavviso, esseri armati
entrarono nel luogo stuprato.
Attorno ai nemici, l’aria notturna rischiarata dalla luna era tenebra, ed anche Talya, rimasta con gli
apprendisti dentro la torre, poté avvertire il gelo... —Non è possibile— sussurrò debolmente in nella
propria lingua. I guerrieri non-morti erano sedici, perfettamente allineati ad una distanza regolare di circa
un metro e mezzo gli uni dagli altri. Attendevano immobili. Tòret si alzò in piedi, mai grato come adesso di
avere una spada magica al proprio fianco: le leggende narravano che solo armi incantate potessero nuocere
alle creature tornate dal regno della morte. Trellin, che a malapena aveva sentito parlare di quegli abomini,
mosse alcuni passi indietro. Vàlen si guardò in giro, in cerca di un apprendista capace di trasmettergli la
sua energia, ma vide solo ragazzi stremati ed impauriti.
—Dannazione!— sussurrò Pérevit al giovane mago, —Non ero preparato per questi.— . Così dicendo, lo
stregone sparì nelle ombre notturne come un falco predatore, con una agilità che lasciò esterrefatto il
ragazzo: si era come dissolto. Nel frattempo, Hellis era uscito dalla torre, e camminava nel campo di
battaglia come attratto da una forza magnetica; quasi incurante del pericolo immediato, stava per superare
la linea di difesa costituita da Tòret, Trellin e Vàlen, che in questo momento erano al centro della radura.
Séndovan, un poco più indietro, iniziò e quasi istantaneamente portò a termine un possente incantesimo:
con un boato quasi assordante, nelle sue mani comparvero sedici dardi splendenti, che si gettarono come
lupi contro i mostri disumani; ma proprio in quel momento una tetra energia sollevò una barriera davanti ai
mostri e le magiche frecce di luce si dispersero nell’aria; ma la barriera parve prendere vita, e si formarono
increspature su di essa, come le onde irregolari di uno stagno nel quale viene tirato un sasso, nei sedici
punti che erano stati colpiti dalle frecce di Sénovan. Il mago ancora concentrato nel proprio incantesimo e
con il braccio teso sapeva: era caduto vittima di un incantesimo pericolosissimo. Dal suo braccio, sedici
sottili fili di luce si propagarono verso la barriera. Con una smorfia di dolore, Dan cercò di controllare la
vita che veniva risucchiata da quella forza oscura, ma era molto indebolito dalla magia che aveva usato.
Vàlen vide quei filamenti di vita e anche se aveva appena sentito parlare di incantesimi simili, capì subito.
—Mastro!— Gridò, precipitandosi verso Dan, il cui volto era distorto in una smorfia di dolore.
—Stai lontano!— Gridò Séndovan, con la voce carica di sofferenza, ma Vàlen non gli diede retta. Non
conosceva un incantesimo adeguato, e non c’era tempo per cercarne uno; doveva improvvisare. Iniziò a
concentrarsi; doveva spezzare l’incantesimo senza caderne vittima a sua volta. Il mago anziano si accorse
della magia che Vàlen stava accumulando, e cercò di gridare un “no”, ma non ne aveva più la forza. Vàlen
vedeva ora il fiume di vita che scorreva al di fuori dal suo Maestro. D’istinto, immaginò una pesante
ghigliottina di lucido metallo grigio cadere su quei fili, e senza pensarci, impresse forma alla sua idea, e la
fece cadere violentemente. Si udì un tonfo, e il terreno davanti a Séndovan venne segnato da un profondo
solco.
Funzionò.
L’anziano mago, stremato, cadde a terra, perdendo velocemente conoscenza.
—Jòrlen!— Chiamò Vàlen, ma vedendo che il suo amico faceva fatica a muoversi, stremato anch’esso,
cerco altro aiuto: —Léndit, Galoth, presto!— I due però stavano già correndo verso il Maestro, per
cercare di soccorerlo; non c’era bisogno di aggiungere altro.
Ancora qualche istante, e gli scheletri animati sollevarono all’unisono le spade, quindi si avventarono su
Tòret, Vàlen, Trellin ed Hellis. Il giovane mago corse verso la torre, conscio di non avere la forza di
lanciare un nuovo incantesimo, inseguito da quattro scheletri guerrieri. Talya scoccò una freccia per
coprire la sua fuga; questa trapassò l’elmo ed il vuoto cranio di una delle creature che lo inseguivano,
senza alcun risultato.
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Tòret, accecato dalla furia del terrore, abbassò due volte la lama splendente, disintegrando due mostri
prima che questi avessero a tiro il gigante. Gli altri due attaccarono contemporaneamente, ma
l’incantesimo di Pérevit bloccò le spade maledette.
Quattro mostri furono su Trellin, che per un istante si credette spacciato. Evitò il primo colpo, per poi
parare il secondo, spostando poi la spada per difendersi dal terzo. Trellin sapeva che il suo fianco era
scoperto, e lo sapeva anche il quarto scheletro, che affondò. Il colpo sarebbe stato fatale, ma la mano del
mostro si fermò: Ròndal gli riapparve accanto in maniera tanto improvvisa che, sebbene l’essere immondo
fosse insensibile, rimase sorpreso. In quell’istante, il possente stregone ruotò il busto, ed una daga saettò
nel buio; il cranio del mostro rotolo lontano, mentre le ossa dello scheletro si polverizzavano. Quattro
mostri furono su Hellis, e subito il primo calò la terribile sciabola. Ma appena questa venne in contatto con
l’aura del sacerdote, il guerriero dannato si irrigidì, emettendo quindi un urlo che avrebbe gelato un
vulcano. La luce si impossessò del corpo maledetto, avvolgendolo, divorandolo a poco a poco; alla fine, la
creatura sparì.
Tòret si liberò di un terzo essere, mentre Trellin, fattosi coraggio, affondava su di un nemico,
anticipandolo. Gli altri due scheletri si erano voltati per affrontare Ròndal, che adesso indietreggiava
guardingo, e pronto a massacrare il primo dei due che avesse osato attaccare. Ma all’ultimo momento, un
mostro si girò di scatto, colpendo silenziosamente Tòret ad una gamba, e riuscendo a passare oltre il suo
incantesimo di protezione. Il dolore fece cadere il gigante in ginocchio; l’altro scheletro tentò di
approfittarne, ma il guerriero fermò la sua arma, per poi roteare il polso, disarmando l’avversario e
trapassando quindi il suo cranio.
Vàlen era giunto alla soglia della torre, ed i non-morti erano poco distanti. —Talya!— gridò tendendo la
mano. La ragazza capì al volo; porse le proprie mani al mago. Vàlen le afferrò mentre frenava lo slancio; in
quell’istante le menti dei due maghi si fusero. Talya si sentì improvvisamente come in un sogno; le
sembrava di galleggiare in mare di miele, dove nessun suono giungeva. Il volto di Vàlen comparve
splendente nel suo sogno; ma quel volto affettuoso aprì di scatto la bocca, risucchiando il miele, e con
questo, la coscienza di Talya. Sentì dolore fisico, perché la sua stessa vita fuoriusciva dal suo corpo, ma
anche il dolore mentale: lottava per ritrovare la coscienza, ma sprofondava nel buio sempre di più. In fondo
alla sua anima, tuttavia, una voce rassicurante la calmava, e le diceva debolmente che sarebbe andato tutto
bene.
Talya gridò stridula quando il trasferimento iniziò. Il suo corpo si accasciava mentre le forze le mancavano,
ed il suo sguardo si perdeva nel nulla.
Gli apprendisti urlarono allarmati, quando il primo dei mostri sollevò la spada per uccidere Vàlen, ma
questi si girò e spalancando il palmo della mano, senza neanche pronunciare le parole, scagliò quattro dardi
splendenti. Questa volta nessun incantesimo protesse gli scheletri: le loro grida di disperazione rischiarono
di far impazzire Vàlen e gli altri ragazzi. Ma la luce li divorò presto, facendoli scomparire nell’aria.
I tre mostri che avevano assalito Hellis, pur non provando alcuna paura, erano consci di essere impotenti
contro il sacerdote, e si allontanarono per andare ad attaccare Trellin. Questa volta non se la sarebbe
cavata, ne era sicuro. Ancora una volta, la sua lama bloccò quella del primo assalitore, ed il suo corpo
schivò il secondo colpo; ma così dovette scoprire il fianco, ed il terzo colpo trovò il suo ventre. Trellin urlò
di dolore, ma raccolse la forza per contrattaccare: il mostro era sbilanciato, e fu un facile bersaglio per la
spada dell’elfo. La ferita al fianco era dolorosa, e sanguinava già copiosamente; gli occhi dell’elfo si
appannarono, e si accorse improvvisamente di essere molto pesante.
Tòret, costretto a combattere in ginocchio, riuscì ad avere la meglio sull’ultimo suo avversario. Ròndal
bloccò con la mano il braccio del mostro che aveva di fronte: il contatto con un non-morto sarebbe stato
traumatizzante per chiunque, ma Pérevit era un negromante, e la sensazione di morte che gli diede il tocco
non lo sorprese. Quindi, con i riflessi più rapidi di quelli perfetti dell’essere innaturale che aveva di fronte,
ruotò su se stesso, girò il polso della creatura e, facendo leva sulla propria spalla, lo spezzò. Lo scheletro
guerriero, senza la propria arma, non poteva combattere, e Pérevit spaccò con un pugno ben assestato il
cranio del mostro immobile.
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Rimanevano solo due scheletri, ma erano entrambi su Trellin, che era ferito seriamente. Non c’era tempo di
pensare; Tòret non riusciva a muoversi, così prese la mira rapidamente e scagliò la sua spada addosso ad
una creatura maledetta, colpendola e sbriciolandola un attimo prima che calasse la lama mortale sull’elfo.
Trellin, quasi incapace di muoversi, scansò debolmente il fendente del mostro rimasto, ma il suo stentato
contrattacco fu parato facilmente. L’ultimo scheletro guerriero sollevò la spada sull’elfo ormai in
ginocchio; Trellin guardò la creatura oscura che si preparava con calma ad ucciderlo, con tanta calma che il
principe ebbe il tempo di pensare “questa è la fine”. Inarcando la schiena, lo scheletro fu pronto per calare
il fendente, ma come un predatore notturno, Ròndal apparve dietro al mostro, e bloccò uno dei due polsi
che reggevano l’arma. Con un calcio preciso spezzò il suo braccio all’altezza della spalla; senza arma,
questi rimase immobile ad attendere il proprio destino. Seppur debole, Trellin riuscì a videre Ròndal sopra
di lui, mentre sconfiggeva la creatura che stava per ucciderlo.
Non rimaneva traccia degli esseri infernali che avevano assaltato la torre; Tòret era seduto, mentre l’effetto
dell’incantesimo di Pérevit iniziava a svanire. Trellin si accasciò indebolito dalla perdita di sangue e dal
tremendo dolore, e Vàlen dovette usare tutta la forza rimastagli per sostenere Talya. Solo Ròndal era
ancora fresco, oltre ad Hellis, che non aveva preso parte al combattimento. Ma l’aura del sacerdote
risplendeva forte, e la sua espressione distante era un chiaro segnale. La battaglia non era ancora finita.
I corpi dei goblin e dei licantropi si gonfiarono impercettibilmente. Come acqua che bolle, dalla distesa di
cadaveri si levarono sbuffi di vapore maledetto, che andava accumulandosi di fronte ad Hellis. Poi, di
scatto, il vapore prese forma. Un essere etereo, dalle fattezze umanoidi e bestiali, era di fronte al
sacerdote. Aveva enormi ali nere, grandi corna e braccia poderose. Il volto deforme era un folle incrocio
tra quello di un uomo ed il muso di un toro, e le gambe caprine calpestavano i cadaveri con gli zoccoli
scuri.
Tutti videro la bestia, e la riconobbero. Ogni uomo, ogni donna, ogni essere vivente aveva visto almeno
una volta nella vita l’immagine di Asemodès, il Signore della Morte.
L’essere, con i pugni sui fianchi, scoppiò in una fragorosa risata, quindi guardò con disprezzo l’uomo che
aveva di fronte. Spalancò le fauci e soffiò il fuoco dell’inferno su Hellis, che sollevò le mani, incrociando le
braccia davanti a se, avvolgendosi nella propria luce. Gridò quando il calore dannato lo investì, ma non si
mosse. Sembrò che il fiato maledetto fosse eterno. Il sacerdote si inginocchiò sotto il peso del potere
demoniaco che lo schiacciava. Le sue braccia si coprirono di ustioni, che divennero lentamente più
profonde. Eppure, forse perché credeva di avere già vinto, il demone fermò il suo soffio.
Hellis non esitò. — ShtàrRésel,— gridò rivolto al cielo, — scatena la tua ira!—
Non successe niente. Il demone guardò incuriosito il chierico, quindi iniziò una risatina soffocata, che
divenne presto un divertito ruggito.
Nella sua ilarità, il demone si piegò indietro e rivolse lo sguardo alle stelle; una di queste stava diventando
più grande... si stava avvicinando.
La risata gli morì fra le zanne, ma la sua sorpresa fu breve: la luce celeste lo investì con un lampo. Le sue
carni brillarono in ogni fibra, ed il suo urlo esplose nella radura, mentre il potere divino dissolveva la sua
sostanza. Un esplosione bluastra segnò la fine del mostro.
Hellis si alzò in piedi, guardando le ustioni sui suoi avambracci. Facevano male: le piaghe ricoprivano il
dorso degli arti e le maniche erano carbonizzate. Vàlen guardò gli amici, indeciso su chi soccorrere prima.
Talya invece scattò verso suo padre, divincolandosi con delicatezza dal sostegno fornitole dal mago;
Ròndal era già vicino a Tòret, quindi il ragazzo si diresse verso il sacerdote.
—Hellis... stai bene?— chiese Vàlen.
—Mai stato meglio figliolo.— rispose. Ma la sua voce tremante tradiva il dolore delle ferite.
—Dobbiamo disinfettare le ustioni e bendare le braccia—
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—Ho tutto il necessario nella tua stanza, Vàlen. Vai da Trellin, ha bisogno di aiuto...—
Talya, indebolita, non riusciva a sollevare il padre, così Vàlen si affiancò a lei e chiese al principe: — Come
stai?—
—Sto per morire, Vàlen.— disse piagnucolando Trellin, facendo scoppiare Talya in lacrime.
—Padre... no! — gridò lei.
—Avanti, Trellin, non essere sciocco. É solo un taglietto.— disse il mago. Nel mentre, il ragazzo si era
strappato la veste e ne aveva fatto una stretta benda per l’elfo; non ne sapeva moltissimo di ferite, ma
quella gli sembrava davvero profonda. E sanguinava davvero molto.
—Ti dico che sto morendo!— insisté il principe.
—Va bene! Se lo dite Voi, Vostra Altezza! E se per caso i vostri desideri non si avverano ci pensiamo
noi...— disse seccato il ragazzo mentre liberava Trellin dell’armatura.
—Vàlen!— lo apostrofò la principessa; —Risparimami le tue battute, non è il momento!—
—Sì, Mia Signora.—
Quando i lacci della cotta si sganciarono, Trellin sussultò. Il mago osservò con cura le ferite, quindi
sentenziò, mentendo: —Hai una costola rotta ed un bel taglio, ma niente di più. Adesso sdraiati con calma,
ecco così, bravo. Non posso spostarti fino a quando Hellis non ti avrà dato un occhiata.—
—Ahi! Dannazione Vàlen, fai piano con quella benda.— Gli occhi del principe erano sempre più vacui, e la
sua voce era meno squillante.
Vàlen si guardò in torno, cercando con qualcuno che lo potesse aiutare. Trellin era ancora vigile, e benché
non fosse molto esperto di ferite, gli parve che il suo amico stesse peggiorando troppo in fretta. Ròndal,
osservando la scena da poco distante, si fece vicino; quindi si chinò sull’elfo ed osservò la ferita, scostando
le vesti lacere. Si girò verso Vàlen, e la sua fu un’occhiata eloquente. Trellin guardò il volto dell’uomo che
era chino su di lui; ebbe il tempo di pensare che era stato molto scortese con lui, e come aveva fatto Vàlen
la prima volta che si erano incontrati, nonostante la scortesia subita l’uomo gli aveva salvato la vita. Poteva
lasciarlo morire, poteva lasciare che il mostro innaturale completasse la sua opera... ma invece l’aveva
fermato.
Ròndal si girò a guardare gli occhi di Trellin, e vi scorse la sua gratitudine. Poi guardò più a fondo; lo
stregone conosceva bene il confine tra la vita e la morte. Non gli fu difficile percepire che l’elfo vi si stata
avvicinando troppo rapidamente. Per quanto quell’elfo non gli piacesse, non avrebbe lasciato che una
persona che aveva combattuto al suo fianco morisse in quel modo. Si frugò in tasca; aveva preparato un
sacchetto di erbe e polveri rare proprio per far fronte ad un momento critico come quello. Prese un
abbondante pizzico di quella mistura e l’asperse fra il naso e le labbra dell’elfo. Trellin sussultò, risvegliato
immediatamente dal torpore che lo stava avvolgendo. Si accorse subito che, sebbene il dolore non fosse
diminuito, la ferita aveva smesso di sanguinare; la vita, che prima stava abbandonando lentamente, ma
inesorabilmente, il suo corpo, ora era stata imprigionata dentro di lui.
Senza dire una parola, l’oscuro stregone si alzò, tornando verso Tòret, che nel frattempo era rimasto solo.
Trellin, Talya e Vàlen lo osservarono allontanarsi, consci di ciò che aveva appena fatto, ma troppo grati
per parlare.
Qundi Vàlen chiamò Jòrlen, Gàloth e Lendìt, che si allontanarono da Séndovan privo di sensi, mentre altri
lo trasportavano verso la torre.
Il mago disse loro: —Fate la guardia al principe fino a quando Hellis non lo avrà visitato.—
I due annuirono, mentre Vàlen si allontanava in direzione di Tòret, seduto a terra. Si era già bendato la
ferita, ed aveva stretto la gamba con un laccio, per fermare l’emorragia.
—Come stai, Trott.— chiese il mago.
—La lama é penetrata fino all’osso. Mi ha tagliato i tendini.—
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—Dannazione...—
—Rischio di non camminare più.— Disse sospirando il guerriero.
—Sottovaluti la magia, Trott. Vedrai, ti rimetteremo a nuovo.— Quindi Vàlen pronunciò una parola, e
Trott tornò alle proprie dimensioni normali.
—Come sta Trellin?—
—Ha visto giorni migliori.—
—E’ grave?—
Vàlen non rispose; invece disse rivolto allo stregone: —Ce la fate ad a portarlo in camera.—
—Sì, se mi date una mano a sollevarlo.—
Il ragazzo aiutò lo Ròndal sollevare Trott; quindi, in tre, iniziarono a trascinarsi verso la torre. Vàlen
stringeva forte il corpo dell’amico. Adesso era lui a sorreggerlo, e sorrideva verso l’alto, verso il volto
sofferente di Trott. —Non ti preoccupare, fra qualche giorno starai bene.—
Anche se gli dispiaceva lasciare il suo amico, sapeva bene che il principe Elfo aveva bisogno di lui, così
chiamò uno dei ragazzi, affinché prendesse il suo posto.
Trott sorrise a Vàlen che si allontanava; poi si girò verso lo stregone e disse: —Vi devo dei ringraziamenti,
barone. Senza il vostro incantesimo, io non sarei qui.—
—Domani, Tòret. Ne parleremo domani.—
Sulle scale, i tre incrociarono Hellis, che stava scendendo armato di una larga borsa di pelle, con le braccia
già fasciate.
—Come stai, Trott.— chiese questi.
—Credo di avere perso il tendine.—
—Capisco... fammi dare un’occhiata.—
Il guerriero strinse i denti, mentre il sacerdote ispezionava la ferita con uno strano legnetto.
—Sei stato fortunato. La lama si é fermata appena prima del tendine; comunque il muscolo é
completamente reciso, e dovremo curarlo bene. Adesso vai in camera e sdraiati. Dov’é Trellin?—
—É fuori.— rispose il Barone. —Ha bisogno di cure immediate.—
Trott e gli altri due continuarono la difficile arrampicata sulle scale, mentre Hellis usciva per andare a
medicare le ferite del principe.
Nella radura chiese informazioni ad un apprendista che passava di lì sullo stato di salute di Séndovan, e
questi lo rassicurò: stava bene, era stremato, ma stava bene.
Giunto accanto al principe ed a sua figlia e a Vàlen, Hellis disse: —Avanti Trellin, fammi vedere.—
—Non morirò vero?— chiese l’elfo.
—Sei più duro di quanto tu creda... In tutti i sensi.— e dicendo questo il sacerdote spalmò con una spatola
una specie di fanghiglia verde sul taglio.
—La vicinanza di Vàlen non ti giova, prete. Ahi! Cos’é quella roba?—
—Anestetizza e rimargina. Ti farà stare meglio.—
—Ma davvero?— disse l’elfo borbottando qualcosa mentre stringeva i denti.
—Adesso, principe, devi stare tranquillo un secondo.—
—Sarò una statua.—
Vàlen, senza parlare, rivolse un’occhiata ad Hellis. Uno sguardo benevolo indicò che Trellin non era più in
pericolo; senza aggiungere altro, il mago si allontanò verso la torre.
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Talya stringeva preoccupata ed esausta le mani del padre, mentre il sacerdote fasciava stretto il suo petto.
Aveva ancora addosso quella strana sensazione di contatto intimo col mago umano, e si sentiva ancora
vuota... anzi svuotata. Vuota anche di ogni tensione nervosa e di ogni paura... Ma doveva essere stato
l’effetto dello stress del combattimento, non quello che le aveva fatto Vàlen. Qualsiasi cosa le avesse fatto.
Si trovarono tutti e sei nella stanza di Vàlen. Trellin avrebbe fatto meglio a riposare, ma nessuno era
riuscito a convincerlo; stava seduto su una piccola sedia, stringendo i denti per sopportare il dolore, ma
non voleva dormire prima di aver esorcizzato assieme ai suoi compagni la paura per lo scampato pericolo.
Osservavano tutti Hellis, mentre finiva di medicare la gamba del guerriero. —Questo unguento esce dalle
cantine dei nostri conventi. Rigenererà il muscolo reciso in pochi giorni, ma dovrai stare a riposo.—
Quindi vi fu un caldo ed intimo silenzio. Il quel momento quelle persone si sentirono più vicine che mai,
consci che la propria sorte era dipesa da quella di ognuno degli altri: anche lo stregone sembrava meno
imponente e più disteso. Dopo poco, Trellin parlò: —Questo era un luogo sicuro, vero Vàlen?— C’era
una punta di nervosismo nella sua voce, ma il mago, che lo conosceva bene, sapeva che era dovuta più che
altro alla tensione per quanto era accaduto.
—Mettila così: pensa cosa sarebbe successo se non fossimo venuti qui. Niente Séndovan, niente Pérevit,
niente ragazzi e nessun luogo dove difenderci. E gli stessi nemici.—
Lo sguardo di Trellin si incupì mortalmente: ci stava pensando. Erano tutti vivi per miracolo; erano riusciti
a superare di poco la forza dei nemici, e solo grazie agli incantesimi di Séndovan e di Pérevit.
Probabilmente, senza di loro, non sarebbero sopravvissuti alla prima ondata. E quell’uomo oscuro, che
aveva volontariamente offeso solo il mattino prima, gli aveva salvato la vita da morte certa. Due volte.
Come Vàlen... ci doveva essere un senso in tutto questo.
Tòret guardò Hellis, che era seduto sul letto del guerriero, ma aveva già finito di curare la sua gamba.
Quindi gli chiese: —Era Asemodès quello che hai sconfitto?—
Hellis scoppiò in una risata fragorosa, tanto forte che nessuno ne aveva mai udita provenire una simile dal
compassato sacerdote. Hellis era stato sottoposto ad una pressione notevole quella sera; aveva combattuto
contro forze che gli altri non potevano neanche concepire. La tensione aveva spossato anche lui... Quindi
Hellis si calmò e sorridendo disse: —No figliolo; Asemodès è rinchiuso nell’inferno e, se piace ai Creatori,
non ne uscirà mai. Quella era solo una proiezione, una parte minima della sua essenza, evocata da un
incantesimo.—
—Un incantesimo imponente,— sottolineò Pérevit —sconfitto da un altro incantesimo veramente
notevole, Santità.— Hellis sollevò sorpreso il volto verso lo stregone dallo sguardo di falco. Gli occhi degli
altri guardarono a turno i due. Dopo poco Ròndal continuò.
—Voi siete Hellis Bonnìt, Vescovo di Thàris, e Patriarca della Costellazione. Non assomigliate molto alla
descrizione che si fa di Voi. Nonostante il vostro nome, avevo ancora dei dubbi, ma il miracolo che avete
compiuto stasera ne è la prova.—
Ròndal si inchinò discretamente in direzione di Hellis. Quindi disse: —Sia luce nei cieli ed in terra.—
—Così sia.— rispose Hellis, sorridendo e benedicendo il barone con un gesto della mano.
Lo stupore aveva colto gli altri; uno degli uomini più santi del mondo era di fronte a loro, e lo era stato per
mesi senza che nessuno di loro se ne accorgesse.
Vàlen parlò, indeciso se arrabbiarsi o inchinarsi: —Perché non me lo hai mai detto?—
—Perché tu non me lo hai mai chiesto.— disse il Patriarca sorridendo, e usando saggiamente la stessa
logica che il ragazzo avrebbe usato contro di lui.
Quindi, il chierico si alzò in piedi, e sembrò la figura più possente nella stanza.
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—In realtà la mia missione era segreta fino a ieri sera, ed avevo intenzione di rivelarvi alla prima occasione
la verità, anche perché é importante che sappiate ciò che sto per dirvi... Purtroppo siamo stati sorpresi
prima che potessi mettervi al corrente di ciò che so.—
Quindi Hellis fece una pausa, prese fiato ed organizzò le parole.
—Inizialmente, la mia missione era quella di trovare un sacerdote di DàganSén che aveva tradito il suo
ordine. Ero convinto che fosse una specie di prova; un dio non doveva avere difficoltà nel trovare un
uomo... Ma non era così: questo sacerdote rinnegato era stato nascosto alla vista degli dei da un potere
grande quanto il loro.—
—Asemodès?— era timidamente intervenuta la principessa.
—No, figliola. ShtàrRésel mi ha detto che non sapeva nulla della distruzione che queste persone hanno
portato qui nel Kalédion, e come lui anche gli altri dei ne sono all’oscuro. Ma quello che gli dei sanno... è
che i Creatori sono tornati.—
Sulla stanza piombò un tetro silenzio, che sembrava provenire dai corpi dei mostri che giacevano nella
violata radura.
—É stato il loro potere a fermare la vista dei nostri dei, amici miei. Noi abbiamo il compito di fermarli.—
—Un momento.— disse il principe, terrorizzato dall’idea. —Perché noi?—
— Perché questo é il volere di ShtàrRésel.—A queste parole, lo scuro barone Pérevit chinò discretamente
il capo, rialzandolo immediatamente e annunciando: —Sono pronto a seguire il volere del mio dio, Santità.
—
Trellin disse seccamente: —Io non adoro il vostro dio umano, ed i miei doveri sono diversi. Ho il compito
di trovare Dàrini e nulla più.—
Hellis guardò intensamente il principe elfo. —Il tuo compito è quello di proteggere il tuo popolo.—
Non c’era bisogno di aggiungere altro: l’elfo comprendeva perfettamente quale era il pericolo che
incombeva su tutte le genti di Pitermòs.
Vàlen aveva un’espressione un poco incerta; non che il mago volesse tirarsi indietro, ma la sorpresa lo
aveva ammutolito. Tòret era rimasto impassibile. Hellis, rivolgendosi a loro, chiese: —E voi, figlioli miei?
Sappiate che questo é anche il volere del vostro dio DàganSén.—
—Per me non cambia nulla.— disse tranquillo Trott. —Non mi importa chi c’è dietro a tutto questo,
uomini, dei o Creatori. Vendicherò i miei genitori, ed i miei amici.—
Hellis guardò Vàlen, che non si era ancora pronunciato.
—Io ci sto... — disse —...ma come faremo a vincere una forza più grande degli dei?—
—ShtàrRésel mi ha illuminato: i Creatori possono fermare gli dei, ma noi uomini siamo troppo piccoli per
loro. Non potranno fermarci, perché non ci vedranno...—
—Mi sembra che ci vedano molto bene invece...— azzardò a dire Vàlen. Quella fu la prima volta che il
ragazzo vide l’ira sul volto del sacerdote: stava mettendo in discussione le parole di un dio. Questo era il
peccato di presunzione maggiore che un uomo potesse commettere. Vàlen sembrò diventare più piccolo
sotto il terribile sguardo del Patriarca, ma quella domanda era anche nei cuori degli altri.
—Non sono stati i Creatori del Male a cercare di fermarci, bensì Dàrini e Sémel.—
Trott, sdraiato sul letto, schioccò le dita. —Lo sapevo! C’era qualcosa di strano in quell’uomo! Era lui il
prete rinnegato che ha tradito il nostro dio, vero Hellis... Santità?—
Il sacerdote sorrise, guardando il giovane uomo. Quindi annuì e disse: —Sì, Tòret, i tuoi sospetti erano
fondati. Anzi, io ti devo infiniti ringraziamenti, figliolo, perché è stato il tuo cuore ad indicarmi la soluzione
della mia ricerca. Sei stato tu a farmi capire che era Sémel il rinnegato.—
A Trott brillavano gli occhi dalla gioia. —...Santità...—
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—No, figliolo. Io sono solo Hellis, come lo sono stato fino ad ora. Ma veniamo al dunque, figli miei.
Dàrini e Sémel sono più pericolosi di quanto avessimo immaginato inizialmente, e dovremo agire con
molta cautela d’ora in poi. Eliminati quei due, saremo in grado di snidare i Creatori del Male tornati sul
mondo.—
Vàlen, visibilmente scosso, concluse: —Allora mi sbagliavo. Non volevano il regno, non è un tentativo di
usurpare il trono.— L’amarezza nella sua voce era profonda.
—No, Vàlen. Questo è quello che i Creatori ci vogliono far credere. ShtàrRésel non sa cosa vogliano da
noi, ma sappiamo che non sono venuti in pace, e dovremo cacciarli, prima che compiano altro male.—
Trott parlò timidamente. — Ma dove sono i Creatori del Bene?—
—Non ci sono, Tòret. Non sappiamo dove siano e dovremo agire senza di loro.— Dopo un lungo silenzio,
Hellis suggerì a tutti di andarsi a riposare. Gli elfi e lo stregone si congedarono e si diressero verso le loro
stanze. Trott si addormentò subito. Vàlen si spogliò e si mise a letto, mentre Hellis si avvicinò alla finestra.
Un raggio di luna lo illuminava d’argento; il sacerdote guardò triste la radura colma di corpi senza vita.
Quanti avrebbero ancora dovuto pagare il prezzo di quella lotta?
Hellis credette che Vàlen si fosse addormentato, e si inginocchiò di fronte alla finestra per iniziare a
pregare. Quasi subito però si accorse di un sommesso singhiozzo che proveniva dal letto del giovane
mago. Il sacerdote si avvicinò silenzioso per non svegliare Trott, quindi si sedette sul letto di Vàlen, vicino
al suo viso e gli sussurrò piano. —Cosa ti tormenta, figliolo.—
—Io... ho commesso un grave errore, Hellis. Ho creduto che quella fosse solo una manica di furfanti, ben
organizzati, certo, ma mai avrei pensato... che potessero... assalirci e...—
—Figliolo, Vàlen,— disse chinandosi su di lui e prendendolo per le spalle. Istintivamente il ragazzo si
coricò su un fianco, rannicchiandosi contro la calda figura di Hellis.
—Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che dietro a Dàrini c’erano i Creatori del Male, ed io l’ho
scoperto ieri sera, solo perché ShtàrRésel me lo ha rivelato! Invece tu hai fatto la scelta migliore, quella di
rifugiarci qui, dove sapevi che avremmo trovato l’aiuto che ci serviva. Se non fosse stato per te, stanotte
non saremmo qui, figliolo, ma da qualche altra parte. Sono convinto che se ci fossimo rifugiati in una città,
avrebbero usato il loro terribile incantesimo per distruggerci ed il nostro sacrificio sarebbe stato vano. Hai
fatto la scelta migliore. La tua mente svelta ci ha salvati.—
I singhiozzi del ragazzo si quietarono un poco.
—Padre...—
—Dimmi.—
—Io non credo più di farcela. Ogni minuto del giorno ho davanti ai miei occhi i resti di FòrKép... e di mia
madre... la gente che urla a Sàlliandém... e poi... quelle creature maledette! Potevo sentire il loro freddo... è
orribile.— Vàlen scoppiò in lacrime, aggrappandosi disperato al sacerdote.
Il sacerdote accarezzò la testa del ragazzo, attendendo con pazienza che il pianto si facesse più sommesso.
Poi parlò con voce rassicurante: —Vàlen... Gli dei ci hanno fatto incontrare affinché possiamo cacciare i
Creatori. Ognuno di noi é una chiave, un perno fondamentale senza il quale non potremo avere successo. E
tu, ragazzo mio, sarai la nostra guida. Tu hai la capacità di trovare il modo migliore di fare le cose. Sarai tu
a guidarci, ragazzo, perché tu sei nato per questo. La vita di molte persone dipende da te...—
I singhiozzi di Vàlen si acquietarono dopo poco; si girò a guardare Hellis nella penombra. Tenendogli
teneramente la mano gli chiese: —Padre... benedicimi.—
Nella lingua di Pitermòs, padre ha due significati: sacerdote e genitore; l’intonazione che usò Vàlen era tale
che quella parola assunse entrambi i significati.
—Io ti benedico, figlio, nel nome di ShtàrRésel... e nel nome di DàganSén.—
Così dicendo, fece il segno di ShtàrRésel sulla fronte del ragazzo.
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—Grazie, padre.—
Hellis sorrise ed accarezzò la fronte del ragazzo. —Dormi, figlio mio.—
Poco dopo Vàlen cadde in un sonno tranquillo e senza sogni. Hellis che era ancora seduto sul letto del
ragazzo piegato in modo da poterlo guardare, sedette compostamente, unì le mani e pregò a bassa voce.
—ShtàrRésel, Mio Signore, proteggi questo ragazzo, e proteggi tutti gli altri, perché possano portare a
termine il loro compito. Veglia il suo sonno, e fa sì che anche il suo dio DàganSén lo benedica.—
Ancora qualche parola rituale, ed Hellis si alzò lentamente, per poi spogliarsi e coricarsi in silenzio.
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ShtàrLàn - Capitolo 7
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Capitolo 7
Un essere si muoveva silenziosamente nei meandri di una piccola grotta. Aveva sei lunghe zampe, ed il
goffo corpo ricordava un po’ quello di una formica ed un po’ quello di un ragno. Al posto della testa, però,
aveva una strana caricatura di un torso umano, sormontata da un cranio di ragno dalle grandi mandibole.
Altre due zampe servivano da braccia.
Il ragno si fermò davanti ad una sorta di parete metallica, al di sotto della quale si vedevano brillare mille
strane forme luminose. Il lungo braccio della creatura ne sfiorò una, ed in risposta, sullo schermo metallico
comparve l’immagine di un altro essere come lui.
Parlavano una lingua fatta sibili e fischi, ma anche di gesti e di ticchettii emessi grazie alle loro mandibole
cornee.
—Inviato...— disse l’immagine sullo schermo.
—Dominatore...— salutò umilmente la creatura nella grotta.
—Ho atteso a lungo il vostro rapporto. —
—Inizio adesso a capire la loro struttura mentale, signore.—
—Ditemi, dunque, cosa avete scoperto sul loro sistema distorsivo?—
—Ben poco, purtroppo. Usano delle creature che si trovavano già su questo mondo quando lo abbiamo
modificato, e le comandano. Questi esseri, che loro chiamano spiriti, possono controllare la struttura della
materia e dell’energia, usando un sistema distorsivo simile a quello che abbiamo visto usare ai Federali
Siriani, Dominatore.—
—E questi spiriti usano qualche apparecchiatura per controllare le distorsioni?—
—No, signore. Si tratta di una loro dote naturale. Ho cercato di leggere nella loro mente, Dominatore, ma
sono creature dalla duplice natura.—
—Si spieghi.—
—Sono sia biologiche che energetiche. Sembrano ammassi di energia pensante, collegati qualche volta ad
un corpo. Avrò bisogno di più tempo per riuscire a capire la loro forma di pensiero.—
—Purtroppo il tempo ci manca, Inviato. La nave ammiraglia Federale si sta muovendo verso il sistema
Bandar; temo che abbiano scoperto che siamo scesi sul pianeta.—
Vi fu un breve silenzio, nel quale i due esseri si osservarono reciprocamente attraverso i loro occhi
compositi. Quindi, l’Inviato proseguì.
—Dominatore, forse esiste una possibilità.—
—Di cosa si tratta?—
—Ho sentito parlare gli indigeni di umani in grado di usare lo stesso potere degli spiriti. Loro lo chiamano
“magia” e dicono di poter trovare un “mago”. Forse potrei convincere gli indigeni a portarmi il mago; gli
umani hanno una struttura biologica più semplice.—
Un altro lungo silenzio pesò nella grotta: il Dominatore stava prendendo la sua decisione. Mosse la
mandibola destra verso l’alto ripetutamente, un segno di nervosismo che l’Inviato non si aspettava. Quindi
si rivolse al sottoposto in tono concitato: —Sembra la strada migliore. Ma siate prudente, Inviato. Se non
riusciremo a capire le distorsioni, i Federali ci schiacceranno.—
Detto questo, l’immagine sullo schermo metallico scomparve.
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ShtàrLàn - Capitolo 7
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Sémel Kàlen non dormiva un sonno agitato, quella notte. Sognava di essere in una profonda grotta, ancora
più profonda e buia della tana di goblin nella quale si era rifugiato dopo essere fuggito da SàiVòd. Dàrini
aveva pensato che fosse troppo pericoloso rimanere allo scoperto, adesso che il suo piano entrava nella
fase più delicata; ma a Sémel non era mai piaciuto rimanere rinchiuso in un luogo buio. Ed al contrario del
suo compare, non amava la compagnia di quegli esseri immondi.
Nel sogno, il sacerdote vide l’antro nel quale si trovava allargarsi: procedeva a passi lenti, ma attorno a lui,
le pareti continuavano a diventare sempre più distanti, e la volta sempre più alta. Ora non aveva più dubbi:
era nella tana di un drago.
Improvvisamente fu colto dal panico: voleva tornare sui suoi passi, mettersi a correre, ma quando si girò il
sentiero che aveva percorso era scomparso. Cercò con gli occhi un’altra via di fuga, senza trovarla; così fu
costretto a proseguire, ancora più guardingo di prima.
Un rumore. Come un sordo rombo distante, riempì la grotta. Sebbene non riuscisse a capire cosa lo avesse
provocato, il rumore gli gelò le vene. Il tempo di tre respiri affannati, ed ecco che il suono si fece più forte,
più vicino. Sémel si lasciò sfuggire un grido soffocato quando si rese conto che ciò che aveva udito erano i
passi ed il calmo ruggito di un drago. Lentamente, la creatura avanzava verso di lui, ancora invisibile, ma
non c’era bisogno di vederla per capire che presto sarebbe arrivata.
Allora il sacerdote invocò il Creatore, e il Creatore comparve: il ragno gigante, nelle splendide vesti
iridescenti e portando con se' macchinari sconosciuti, scese dal soffitto calandosi su di un robusto filo, e
raggiunse il fondo della grotta proprio di fronte a Sémel. E fu in quel momento che la testa del drago
apparve da dietro una curva, a non più di trenta metri da loro.
Il Creatore puntò le sue armi misteriose contro il gigantesco rettile, ma il drago aveva spalancato le sue
fauci: avrebbe potuto inghiottire cinque uomini in un solo boccone. Dalle armi aliene provenne un sinistro
ronzio, ma era tardi: un’ondata di fuoco spazzò la grotta. Il drago aveva soffiato.
Sémel si svegliò di scatto, gridando, sudato e tremante.
Si levò seduto, quindi mise i piedi in terra e si alzò, ancora scosso per il sogno. Si guardò intorno, ma era
tutto a posto. La piccola stanza sistemata dai goblin era sudicia come sempre, e scarsamente illuminata.
Ma era sicura. L’uomo si calmò; respirò profondamente, ma l’aria calda e viziata delle profondità della
terra gli impediva di aprire del tutto i polmoni. Aveva la gola riarsa... almeno ci fosse stata dell’acqua
fresca...
Dai muri della stanza provenne una voce quasi inespressiva.
—Cosa c’é Sémel? Qualche rimorso di coscienza?—
Il sacerdote si girò allarmato, e non vedendo niente, iniziò a tremare.
—Chi... Chi ha parlato?—
—Ma come, Sémel,— chiese calma e suadente la profonda voce maschile, —non ricordi il suono della
voce del tuo Dio?—
Kàlen avvertì la spiacevole sensazione di una goccia di sudore che scendeva fredda dalla fronte. —Và Via!
— gridò.
Invece, un globo di luce si accese al centro della piccola stanzetta. Rapidamente la sfera si plasmò fino ad
assumere le forme di DàganSén.—
—Vattene! Vattene o il Creatore...—
—Il Creatore non c’è, Sémel. Ci sono io. E sono qui per te.—
Il volto affabile del dio si accese di energia, trasformando la sua espressione in un ghigno malvagio e
terrorizzante. Kàlen si coprì il volto con le braccia, ma già sentiva che la sua carne si stava vaporizzando, e
con essa la sua vita. Urlò di terrore e di disperazione, ma il suo grido si spense presto, mentre l’oblio
accoglieva in eterno la sua anima.
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Dàrini si allontanò a passi lenti dalla sfera di cristallo, nella sala in penombra. Un goblin che sembrava più
alto del normale lo osservò con i suoi occhi rossi. Parlò con voce gutturale: —Sono stati sconfitti, vero?—
Lo stregone abbassò lo sguardo: —Fino all’ultimo.—
Il piccolo essere peloso inspirò profondamente.
—Questa sera due tribù piangeranno i migliori guerrieri.— disse.
—Sono morti nel nome del nostro Creatore e per vendicare la tribù di RocciaFonda.— disse piano Dàrini.
—Saranno onorati come degli eroi.... Ma RocciaFonda non é stata ancora vendicata, Tàlmon. Gli uomini
dormono ancora sulle nostre terre, ed ogni giorno una tribù viene sterminata per fare spazio alle loro case.
Quando finirà tutto questo? Quando si deciderà il Creatore a fermare gli uomini?—
—Non essere impaziente, Ughju. Ricordati che la vendetta é dolce quando é improvvisa.—
Il goblin, si toccò le labbra con la punta del pollice in segno di saluto; quindi si congedò, ed i suoi passi
lunghi e stentati mostravano il suo dolore per la sorte dei suoi fratelli.
Dàrini rimase in silenzio a pensare per diverso tempo. Aveva sottovalutato già due volte gli uomini
sopravvissuti all’attacco di FòrKép: costituivano un pericolo troppo grande. Quel giovane mago che lo
aveva interrogato a SàiVòd, e che era sfuggito ai suoi sicari, aveva capito molto bene che era lui l’artefice
di quanto stava accadendo nel Kalédion; ed assieme a lui c’erano persone dalle capacità veramente
notevoli.
I suoi piani non stavano andando per il verso giusto. La gente del Kalédion non si era lasciata
impressionare dalla dimostrazione del suo potere, e gli elfi non avevano dichiarato guerra agli umani, come
aveva sperato, anzi, di fronte al comune pericolo si erano coalizzati con loro. Cacciare gli uomini dalle
terre del Kalédion del Nord non sarebbe stato facile, nemmeno con l’aiuto del Creatore.
Lo stregone si accorse di un lieve rumore dietro alle sue spalle.
—Esci fuori, Brandin.—
Una figura prima invisibile uscì dall’ombra come se si fosse materializzata dall’etere.
—Mi stupisci, vecchio pazzo.—
Dàrini sorrise. —Non sottovalutarmi, ragazzo. So sempre dove sei.—
Brandin era un bel giovane, anche se un po’ basso e magro. Aveva i capelli biondi lunghi fino alle spalle, e
gli occhi azzurro cielo. Il suo corpo era snello ed aggraziato; anche senza vederlo in azione, non era
difficile capire che aveva un’agilità fuori dal comune.
—Come posso servirti, potente stregone?— si inchinò beffardamente il giovane.
—Intanto, smettila di spiarmi; mi rendi nervoso.—
—Sono spiacente, Vostra Sapienza, ma la tentazione è troppo forte. E poi quegli esseri puzzolenti sono
così buffi...—
—Davvero?— domandò calmo Dàrini. —Uno di questi giorni ti venderò ad una qualche tribù. Penso che
cambierai idea su di loro: sanno essere molto fantasiosi.—
Brandin si irrigidì: quello stregone lo inquietava, ed era sicuro che non stesse scherzando.
—Inoltre, ragazzo, sappi che quegli esseri che tu dici “puzzolenti” mancano dei difetti che invece hai tu,
come tutti gli altri uomini.—
—Parli come se tu fossi uno di loro.—
Gli occhi scuri di Dàrini si persero nel vuoto. —Sono uomo solo nel corpo che odio, Brandin.— La gelida
e tagliente voce dello stregone pietrificò il ragazzo. Aveva sentito parlare del passato dello stregone, ed era
certo che il prezzo che aveva pagato per essere libero dalla schiavitù dei sacerdoti di Asemodès doveva
essere stato molto alto.
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Quindi Dàrini perforò Brandin con lo sguardo. —Fino ad ora, tutti i miei tentativi di eliminare i seccatori
che hanno scoperto il nostro gioco sono andati a vuoto. Forse un’azione di forza non è la strada giusta...—
—Così me ne devo occupare io... Come vuoi che lo faccia?—
—Dipendesse da me, non avrebbe molta importanza, ma... Il Creatore mi ha ordinato di trovare un mago;
vuole esaminarlo. E fra di loro c’è un abile mago.—
—Capisco... E degli altri cosa ne devo fare? —
—Falli sparire.—
—Agli ordini, capo!—
Quando Dàrini ebbe finito di dare al sicario tutte le istruzioni su come trovare e riconoscere Vàlen, Brandin
si allontanò dalla stanza; atteso qualche istante, lo stregone uscì a sua volta. Qualche decina di metri più
avanti, in un lungo corridoio, si affacciava una piccola porta. Dàrini bussò. Dopo una breve attesa, bussò
ancora, ma non ottenne nessuna risposta. Girò la maniglia; la porta era aperta, e Tàlmon entrò nella cella
buia. La luce che entrava dal corridoio gli permetteva di vedere a malapena il letto, che sembrava vuoto.
—Kàlen!— chiamò a mezza voce. —Kàlen!— ripeté più forte. Ancora nessuna risposta. Guardandosi in
torno, sussurrò: —Ma dove si sarà cacciato?—
Era giorno da diverse ore quando Vàlen si svegliò. Doveva essere stato Hellis a destarlo: usando un rasoio
ed una bacinella d’acqua, si stava radendo davanti ad un piccolo specchio. Il rumore che faceva era appena
udibile, ed il ragazzo emerse dal sonno delicatamente. Nel letto accanto al suo, Trott leggeva un piccolo
libro. Il nome del libretto, scritto a mano sulla copertina, era "La leggenda di SàlBer". Vàlen sorrise, al
ricordo della storia che aveva udito tante volte durante la sua infanzia...
Tòret si accorse quasi subito del risveglio dell’amico.
—Buongiorno Val.— Vàlen rispose con un largo sorriso. Anche Hellis salutò col volto insaponato il
ragazzo, poi si girò di nuovo per finire il proprio lavoro.
—Come stai, gigante?—
—Meglio...— rispose toccandosi la gamba. —Puoi venire un secondo?—
—Certo.— Il ragazzo si alzò in vestaglia, e si sedette di fianco all’amico. Trott girò alcune pagine
all’indietro, ed indicò un simbolo. Poi, sotto voce per non essere udito da Hellis, chiese —Cosa significa
questo?—
Hellis, che aveva sentito benissimo, sorrise non visto.
—Mi sembra... Sì, é un modo di scrivere “viaggio”.— Trott rilesse la frase per intero, quindi annuì. —
Già... Grazie Val.—
—Come mai leggi questo libro? Hai sentito la leggenda di SàlBer tante volte quanto me! La conoscerai a
memoria!—
—Sì, ma ogni volta che l’ascoltavo era leggermente diversa... Così mi é venuta la curiosità di sapere quale
fosse la storia vera.—
Vàlen inarcò un sopracciglio; Tòret aveva ragione, ed era un dubbio che non aveva mai colto il mago.
Quello che era successo la notte prima sembrava un sogno lontano. Il sole filtrava dorato dalla finestra, e
l’aria del mattino era fresca; tutto era come sempre, nella radura. Ma proprio allora un acre odore di
bruciato giunse alle narici di Vàlen. Il ragazzo si alzò e si mosse verso la finestra; nella radura, gli
apprendisti erano impegnati ad accatastare i corpi dei mostri in alti mucchi, per poi dar loro fuoco. Una
pesante tristezza calò su di lui, di fronte a quella macabra vista.
Come se non bastasse, una tenue nebbiolina si stava alzando dall’erba ed a Vàlen vennero i brividi:
sembrava proprio come quella che era apparsa la notte prima...
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Ma non era una presenza malefica: era solo l’avviso di un mattino nebbioso. Nel Kalédion del Nord, spesso
la nebbia si alza dopo l’alba: sarebbe stata una giornata grigia.
Comunque, lui non l’avrebbe vista. Doveva continuare ad allenarsi con Sendovan.
Hellis terminò la sua rasatura, quindi si alzò per avvicinarsi al ragazzo.
—Giornata tetra, non ti pare?—
Il fumo denso saliva da una pira appena accesa, rinnovando l’acre odore.
—Già...—
—Andiamo a dare una mano?—
—Vengo.— Sendovan aveva bisogno di riposare; questa mattina i suoi allenamenti sarebbero iniziati più
tardi.
Mentre si vestiva, Vàlen salutò Trott, imitato dal sacerdote. Furono presto ai piedi della torre, e chiesero
subito a Jòrlen come potevano aiutare.
Vàlen si trovò davanti ad un albero, ai confini della radura, davanti al corpo esangue di un goblin. Il volto
era gelato in un ghigno di disperazione, gli occhi, sbarrati, guardavano lontano, come se cercassero uno
scampo, una via di fuga che non era riuscito a trovare. Era uno dei goblin che Vàlen aveva ucciso con il
“Vento di Ghiaccio”.
Il giovane aveva già usato la magia, in caso di estrema difesa, per uccidere; tuttavia quella era la prima
volta che si trovava faccia a faccia con una propria vittima. Quel mostro, in quell’ultima disperata ricerca
di salvezza, pareva avere incisa sul volto un’espressione talmente umana...
Hellis si avvicinò al ragazzo, che era diventato pallido, con lo sguardo fisso sull’essere.
—Qualche cosa non va, figliolo?—
Vàlen inspirò profondamente, e si sforzò di distogliere lo sguardo.
—No... tutto a posto.—
—Bene!— disse Hellis battendo la mano sulla spalla del giovane —Diamoci da fare—
Il mago si sforzò di non guardare più in volto quelli che la notte prima avevano tentato di ucciderlo.
Eppure non riusciva a togliersi dalla testa che se avesse ucciso un uomo sarebbe stato un assassino, mentre
per aver compiuto quel massacro avrebbe potuto essere considerato un eroe...
Talya si era asserragliata sotto coperte. Era sveglia da un pezzo, ed il suo sottile olfatto aveva distinto
perfettamente i primi sentori di peli e carne bruciata. Trellin dormiva profondamente, seppure ogni tanto
avesse qualche sussulto. Pensò debolmente sarebbero dovuta scendere per aiutare gli altri... Ma ricacciò
quel pensiero nei meandri della sua mente. Poteva sentire lo sfrigolare del legno divorato dalle fiamme, e
cercò di avvolgersi nel cuscino, ma la situazione non migliorò molto. Allora cercò di pensare a
qualcos’altro, qualcosa che le riempisse la mente.
Vàlen. Il giovane mago correva verso di lei, inseguito dai morti, con le mani tese. Chiedeva il suo aiuto.
Era entrato in contatto con lei, un contatto intimo e profondo, caldo, riservato, avvolgente. Le venne in
mente una serata intorno al fuoco, in una casa sicura, con suo padre che suonava il liuto elfico, e Linetal
che cantava, mentre tutti ridevano felici: il calore del giallo fuoco era come il volto di Vàlen nella sua
mente. Si ricordò del momento in cui il mago aveva preso da lei la sua vita, la sua forza.
Udì una voce che chiedeva altra legna.
Era stato un momento terribile, nel quale aveva sentito la propria coscienza scivolare come sabbia tra le
dita. In quell’istante, aveva sentito la forza di Vàlen; mai avrebbe sospettato un simile potere nel ragazzo
umano.
Le giunse un’imprecazione: qualcosa era caduto addosso a qualcuno.
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La sua mente era appena riuscita ad intravedere una briciola del potere di Vàlen... Ma era stato come
trovarsi di fronte ad una immensa parete di pietra, senza poter scorgere la vetta.
In quel momento un bussare delicato la interruppe. Trellin aprì gli occhi assonnato e chiese nella propria
lingua: —Chi è?—
Dopo una breve pausa rispose la voce di Vàlen, sempre in lingua elfa. —Posso entrare?—
—Vieni pure.— rispose il principe, non prima di essersi assicurato che Talya fosse ben coperta.
Il mago entrò e chiuse con calma la porta. —È sveglia tua figlia, Trellin?— chiese.
—Non direi...—
—Sono sveglia, padre.— rispose, tirando fuori la testa. Quindi continuò rivolta a Vàlen. —Avete finito là
fuori?—
—Sì...— rispose il ragazzo cercando di non storpiare i complessi fonemi elfi. —Potresti venire con me?—
La ragazza lo guardò incuriosita, e Vàlen continuò, con grande sollievo, parlando nella propria lingua. —
Ieri sera, quando abbiamo finito l’allenamento, ho parlato a Sendovan di te. Desidera vederti, e credo che
la cosa ti interessi.—
Talya si mise seduta, sorridendo al mago. —Grazie, Val.— Il soprannome che gli aveva dato Trott non
suonava bene sulle labbra della ragazza, ma poco importava. —Mi vesto in un lampo!— Fece lei,
afferrando poi la coperta con la mano come per scansarla di scatto. Sebbene indossasse la sua lunga
camicia da notte, Trellin la fulminò e lei si bloccò all’istante. Quindi l’elfo guardò il ragazzo.
—Emm... credo che ti aspetterò fuori Talya.— disse lui sorridendo.
Mentre la principessa si vestiva, suo padre le disse preoccupato: —Stai attenta, figlia mia.—
Talya andò ad abbracciare suo padre. —Ma cosa vuoi che mi succeda?—
—Non lo so, ma... la magia é così strana, Talya... Stai attenta e basta.—
—Ma non c’è nulla da temere, padre!—
—Lo so ma... Talya, tu sei tutto quello che ho. Stai attenta.—
Gli occhi della ragazza brillarono di gioia, mentre osservavano quelli apprensivi del padre. Quindi la
principessa abbracciò forte Trellin, commossa.
Non erano passati due minuti e i due giovani stavano già salendo fianco a fianco le scale della torre.
—Come starà Sendovan?— chiese l’elfa.
—Benone! É più robusto di quello che sembra... Anzi sarà infuriato perché stamattina nessuno lo ha
svegliato presto.—
—Vàlen...—
—Sì?—
—...Pensi che... che mi insegnerà qualcosa?—
Il mago sorrise e guardò la ragazza. —No... c’è una gran polvere nella libreria, era proprio ora di
ingaggiare qualcuno per ripulirla...—
Lei si imbronciò. —Dài, smettila... Sei sempre il solito.—
Il giovane mago ridacchiava ancora quando arrivarono davanti alla porta di Sendovan. Un ragazzo con un
vassoio in mano aveva appena chiuso la porta delicatamente.
—Béldet...— lo fermò Vàlen. —Come sta il vecchio?—
—Dorme, ma si sta per svegliare.—
—Si è fatto male, cadendo?—
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—No, sembra che non si sia fatto neanche un bernoccolo.—
Il mago si sfiorò la fronte, dove poteva sentire ancora i ruvidi graffi che l’elfa aveva medicato solo qualche
giorno prima.
Salutato l’apprendista, Vàlen aprì piano la porta, quindi entrò nella piccola stanza da letto del mago.
—Maestro...— sussurrò toccandogli delicatamente la spalla.
—Maestro!— ripeté più forte un paio di volte.
Questi aprì gli occhi lentamente, quindi si guardò intorno. Voleva essere sicuro di non stare sognando.
Quando si fu ripreso afferrò la mano del giovane.
—Vàlen!— gidò.
—È tutto a posto, Maestro.—
—State tutti bene?—
—Sì, qualcuno si è ammaccato un po’, ma stiamo tutti bene.—
—Sia ringraziato ShtàrRésel!—
Vàlen sorrise guardando Talya. — Già...—
Poi i pensieri dell'anziano mago si focalizzarono; l'ultima immagine che ricordava era quella della vita che
usciva inesorabilmente dal proprio corpo. Aveva sentito la presenza di Vàlen accanto a lui, la sua magia, e
gli aveva ordinato di non fare niente; ma per fortuna, il suo discepolo non lo aveva ascoltato. E gli aveva
salvato la vita.
—Vàlen... ragazzo mio...— disse con gli occhi pieni di gratidudine e di orgoglio, dando un buffetto sulla
guancia del giovane, —ti devo la vita. Avevo paura che saresti morto anche tu... come hai fatto?—
Tàlia sbigottì, ma impercettibilmente, con un cambiamento di espressione tanto sottile che solo un elfo, ed
un elfo molto attento, avrebbe potuto notarlo. Lei aveva visto solo che Séndovan giaceva a terra; non
aveva idea di cosa gli fosse successo.
—Ho spezzato il flusso con una spece di pensiero a forma di lama. Non avendo diretto la magia contro la
barriera che ti stava attaccando, essa non ha potuto risucchiare il mio potere; semplicemente, il flusso si è
interrotto.—
—Davvero bravo, Vàlen. Sono fiero di te.—
—Ho solo appreso i tuoi insegnamenti, Maestro.— sorrise.
Dopo qualche istante, il vecchio mago si mise seduto. Aveva ancora addosso la veste sporca di erba e di
terra. Dopo aver osservato attentamente la giovane elfa che stava in piedi vicino al letto, un passo dietro a
Vàlen, si rivolse a lei: —Perdonatemi, principessa... Sono impresentabile!—
—No, Vostra Sapienza, vi prego... fra noi Elfi si usa dire Èlentemalàasa, fèratenlès... combattendo
insieme, si diventa fratelli. Come dite voi Umani? L'abbiamo vista cattiva?—
Vàlen sorrise: —Ce la siamo vista brutta, Talya.—
La ragazza sorrise a sua volta. —Sì, ce la siamo vista brutta davvero, tutti quanti. E quando si combatte a
fianco di compagni valorosi come Voi, non si può rimanere indifferenti.—
—Talya!— esclamò sorpreso il giovane mago, —Inizi a parlare come tuo padre!—
E lei, con un sorriso innocente —È un complimento, vero?—
—Diciamo di sì... solo, penso che una settimana fa non avresti mai detto niente di simile.—
Talya assunse un tono solenne, pur senza abbandonare un sorriso appena accennato: —Sono successe
molte cose in una settimana, Vàlen.—
Poi, con con lo stesso tono si rivolse a Séndovan. —Vostra Sapienza,— esordì, —Io non so quali siano le
vostre usanze, ma ... vorrei che voi foste il mio Maestro.—
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Dan osservò intensamente la ragazza. Il suo volto bonario si rifletteva nei piccoli occhi di Talya, che per un
attimo si sentì come sondata. In lei, il mago non lesse cupidigia per il potere, nulla di simile. Solo curiosità
per un mistero più grande di lei.
—Va bene. Allora stringiamo un patto, principessa.—
Il vecchio mago tese la mano. Una volta Talya aveva visto Vàlen che stringeva la mano a suo padre, e si
era chiesta il senso di quel gesto. Adesso cominciava a capire: il contatto fisico e quella forte stretta
avevano qualcosa di ancestrale, qualcosa di sacro.
—Mi ubbidirete senza esitazione e sarete come un libro aperto.—
—Sì, Maestro!—
Solo in quel momento il mago lasciò la mano della ragazza.
—Bene. È già abbastanza tardi; muoviamoci.—
Talya sedeva su una sedia molto alta, al punto che i suoi piedi non toccavano terra. La libreria di Sendovan
era notevole; ricavata nel sottosuolo della torre, vi erano lunghe file di scaffali colmi di ogni genere di libri.
Libri di magia, principalmente, ma anche di storia, di filosofia, di alchimia, di poesia. Per la maggior parte
erano grossi tomi scritti e rilegati a mano; altri erano più piccoli e Talya non riusciva ad immaginarne né la
provenienza, né il metodo di costruzione. Fra gli scaffali erano stati ricavati degli spazi occupati con piccoli
tavoli e sedie; ai capi della sala erano stati posizionati due tavoli più grandi, che potevano ospitare ognuno
dodici persone; per ogni posto era presente un leggio che aiutava a sostenere i pesanti tomi in una
posizione agevole per la lettura.
Sebbene non ci fossero finestre, il tutto era rischiarato a giorno da grandi lampade pendenti da catene
agganciate sul soffitto, ove brillava eternamente una luce magica. Anche l’aria era fresca e piacevole:
doveva esserci da qualche parte un sistema invisibile di areazione.
La principessina si sentiva un poco imbarazzata; teneva le mani conserte in grembo, stringendosele
vicendevolmente. Accanto a lei il Maestro e Vàlen parlavano sommessamente con termini che non riusciva
a decifrare; per un momento le venne il dubbio che avrebbe potuto non essere capace di apprendere le
lezioni dell’anziano mago. Girò la testa e si strinse le mani ancora di più.
Dopo qualche lungo minuto, Vàlen prese un volume indicatogli da Sendovan, quindi tornò verso i due e
disse —Buon lavoro.— A questo punto, si appartò e la ragazzina elfa restò sola con il maestro.
—Molto bene, principessa. Per prima cosa... Dimmi cos’è la magia.—
Talya si sentì rincuorata; conosceva la risposta. —È credere in se stessi!— rispose sorridente.
—Sì, é proprio così. Vàlen ti ha insegnato bene. Ed ora dimmi: perché studiamo la magia?—
Il volto della ragazza si rabbuiò. Era forse per il potere? No, non poteva essere per quello, o solo per
quello. Vàlen e Dan erano maghi molto potenti, ma nessuno dei due, era certa, aveva manie di grandezza o
cose simili. E non erano nemmeno ricchi. Era forse per... per...
—Ascoltate, principessa. Noi studiamo la magia per sopravvivere.—
Talya sgranò gli occhi. Tutto si sarebbe aspettata, ma non questa risposta.
—La studiamo per sopravvivere due volte. La prima é per sopravvivere nel mondo. Forse per voi é
diverso, forse non avreste bisogno della magia per momenti critici come quelli che abbiamo attraversato
stanotte...— parole difficili per Talya —...ma la vostra vita e quella di chi vi é caro sarà certo salvata più di
una volta dalla vostra magia.—
Séndovan attese che il concetto mettesse radici nella ragazza. Il suo volto era cambiato, notò lei. Adesso
sprigionava tutta la sua sapienza, ed anche tutta la sua autorità. Passato qualche momento, continuò.
—Ma questa non é la vera ragione. Noi studiamo la magia per sopravvivere a noi stessi.—
—...come...?—
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—Ogni mattina d’ora in poi, quando vi sveglierete, dovrete ricordare queste parole, e recitarle se
necessario: il potere vive da solo, non ha bisogno di noi. Se non lo dominiamo, sarà lui a dominare noi.
Studiamo la magia per dominarla. Ricorda: studiamo la magia per dominarla, o lei ci dominerà.—
Talya sentì un brivido gelido quando i penetranti occhi di Sendovan scavarono nella sua anima. Ma come
era possibile? Lei aveva usato la magia, ed era stato facile, anzi divertente. Era come muovere una mano,
come poteva la magia avere una vita propria, come poteva essere una nemica?
Lo sguardo del mago la trafisse: non doveva avere dubbi. Séndovan era il Maestro, e lei la scolara. Talya
ripeté.
—Studiamo la magia per dominarla, o lei ci dominerà...—
Le parole avevano uno strano suono, un qualcosa di antico, ma soprattutto erano inquietanti. In quel
momento la principessa si rese conto di dover convivere con una forza nemica e di dover lottare ogni
giorno della sua vita contro di essa.
—Bene; sappi che non mi piace insegnare per dogmi, quindi facciamo subito un esempio. La notte scorsa
andrà benissimo. Quando ho visto i cadaveri camminare e venirci addosso non mi sono fermato a pensare;
ho agito. Ho scatenato tutto il mio potere contro di loro. Ma questo è stato un duplice errore. Prima di
tutto non ho pensato che si potesse nascondere da qualche parte una forza in grado di difenderli. Ed inoltre
ho rischiato seriamente di morire.—
Talya rimase pietrificata. Anche a Vàlen era capitata una cosa simile.
—Vedi,— proseguì il Maestro, —la magia è la nostra stessa Vita, e come tutte le cose preziose che
abbiamo, non ci accorgiamo di quanto è importante fino a che non l’abbiamo persa. Quando prepariamo un
incantesimo, non è sempre facile rendersi conto di quanto questo potrà nuocere alla nostra salute fino a che
l’energia non abbandona il nostro corpo. Anzi, più potere raccogliamo, più ci sentiamo invincibili.—
Il mago attese che Talya comprendesse a pieno, e quando la vide sufficientemente preoccupata, proseguì:
—Non è facile capire quando dobbiamo fermarci; possiamo rinunciare in qualsiasi momento, ma una volta
che ci decidiamo a scagliare il potere, è troppo tardi per tornare indietro. E se abbiamo usato troppa
energia...—
Dan scrutò in profondità Talya, per sincerarsi che le sue parole facessero davvero presa. Poi finì il
discorso: —È la morte. La morte più orribile che possa esistere, poiché l’anima si disperde. È l’oblio
eterno.—
La ragazza, atterrita, degluttì a fatica, ed il mago concluse: —Ma ...non abbiate paura: se seguirete i miei
insegnamenti, dominare la magia sarà facile, anzi sarà il gesto più naturale. Ma non dovrete mai
dimenticare, nemmeno per un istante, che voi siete padrona del potere, e che dovete usarlo con
saggezza. —
—Sì, Maestro.—
—Bene; Vàlen mi ha detto che avete imparato l’incantesimo della luce. Fatemi vedere cosa sapete
fare... —
Trellin aveva finito da un pezzo di pranzare, e presto si stancò di guardare gli apprendisti che finivano di
pulire la radura; tanto più che la nebbia si era fatta tanto fitta da rendere quasi invisibili gli alberi della
foresta!
Aprì la porta ed uscì, diretto verso la stanza di Vàlen. I primi passi furono accompagnati da altrettante fitte
al fianco, ma poi l’elfo capì come si doveva muovere. Avrebbe trovato, di sicuro, almeno Tòret.
E infatti, Tòret era solo nella stanza, e proprio in quel momento stava finendo di leggere il suo libro.
—Buongiorno, Vostra Altezza. Per fortuna siete arrivato: speravo che questo libro mi tenesse occupato
per almeno una settimana.—
—Tòret... lascia stare le formalità. Chiamami Trellin e basta.—
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Il gigante sorrise. —Grazie!—
—Sono preoccupato per mia figlia.—
—Perché?—
Trellin si sedette sul letto del guerriero, cercando di non fare movimenti bruschi. —Stamattina é andata
con Vàlen da Sendovan. Sta imparando la magia... chissà cosa sta facendo adesso.—
—E siete preoccupato per questo?—
—...Molti elfi, nel mio regno, sono convinti che la magia sia un’arma a doppio taglio.—
—Come?—
—Vedi, Tòret, qualche tempo addietro, il mio clan, che viveva a Sylvania con gli altri elfi, decise di
andarsene. La famiglia reale era stata scelta per la purezza del suo sangue e per la sua magia: erano i più
potenti maghi di tutta Sylvania, e per qualche motivo, ai miei padri parve naturale che i più dotati fossero
anche i più adatti a governare.—
—E non era così, vero?—
Trellin sorrise. Il rude guerriero umano riusciva spesso a capire al volo pensieri che un brillante studioso
avrebbe impiegato giorni per apprendere.
—Già. La seconda generazione iniziò a mostrarsi più interessata alla magia che al suo popolo. Usavano la
loro nobiltà per accumulare ricchezze e per studiare come rendere più forte la loro magia. Il padre di mio
padre, che era il capo del nostro clan, sentì allora che i Vilàndisnét avevano scelto di perseguire il loro
bene, non quello della loro gente. Quando ne parlò al consiglio, tuttavia, fu messo in minoranza. Molte
altre famiglie avevano ceduto alla tentazione del potere ed avevano dimenticato i loro obblighi. Mio nonno
fu esiliato, e con questo i Silvanesi pensarono di aver eliminato il problema. Ma non era così. Tutto il mio
clan decise di seguire il suo capo, e con esso, altri clan stanchi dell’incuria della famiglia reale si unirono al
mio. Attraversammo le pianure centrali prima che nascesse l’impero di Thàris, e facemmo delle terre che tu
conosci la nostra casa...—
Eppure, si accorse Tòret, il principe aveva un’espressione assorta, come di chi dice qualcosa
meccanicamente, senza pensarci. I suoi occhi erano persi nel vuoto della nebbia, mentre si appoggiava
stancamente al muro accanto alla finestra. Dopo poco Tòret parlò.
—Però questo non é tutto.—
Trellin abbassò lo sguardo e sospirò profondamente.
—Hai ragione.— Dopo una lunga pausa, il principe continuò. —É un segreto che tengo chiuso in me da
tanto tempo, e sento che se non lo dico a nessuno, prima o poi scoppierò.—
Si avvicinò al letto del guerriero e si sedette di fianco a lui. Quindi continuò.
—...E, per qualche motivo, sento che tu sei la persona più adatta a cui parlarne.—
Trellin prese fiato. —Mia moglie, DassalaLìisa, era un’ambasciatrice di Sylvania. Un’Elfa eccezionale... La
sua bellezza era già cantata in tutti i regni quando ancora non era matura. Ma la mia storia é un’altra...
—Era una maga. Forse la più potente maga di Sylvania. Tutto iniziò quel giorno che un drago del fuoco,
Darok, devastò il villaggio di Sàllinasit, per permettere alle tribù di orchetti di insediarsi in quella zona. Era
chiaro che dovevamo liberarcene, o presto un altro villaggio elfo sarebbe stato distrutto, e forse la
sicurezza dell’intero regno sarebbe stata messa a repentaglio. Così organizzammo una spedizione alla tana
di Darok; io ne ero a capo. Avevamo con noi alcuni oggetti magici, ma mi ero rifiutato di portare anche un
solo mago; pensavo che contro un drago i nostri maghi avrebbero potuto ben poco, e per di più, sarebbero
stati indifesi; non avevo neanche lontanamente pensato a DassalaLìisa. Se l’avessi persa io...—
Trellin sospirò profondamente e strinse gli occhi, mentre Trott ascoltava mesto: sapeva già come andava a
finire questa storia, ed era già triste.
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—Era un’elfa decisa e testarda! Era convinta che il suo potere ci avrebbe aiutati, e forse era vero; diceva
che avrebbe messo a repentaglio la sua vita per salvare il regno, ma... Io non ero disposto a questo. Le
ordinai di restare a palazzo, ma lei si infuriò. Quelle immagini mi rimarranno impresse come un marchio a
fuoco, in eterno: mi disse che ero uno stolto ignorante, che non capivo quanto grande fosse il suo potere!
E volle dimostrarmelo. Mi disse che avrebbe sconfitto Darok da sola. Era sicura di essere invincibile.— Il
principe sorrise amaramente.
—Pronunciò velocemente un incantesimo mentre le gridavo di non farlo; sparì davanti ai miei occhi. Non
so cosa sia successo dopo, Tòret. Partimmo subito e sconfiggemmo il drago, ma tre dei miei guerrieri più
valorosi morirono.—
Trellin si fermò alcuni istanti, perso nel ricordo.
Dopo un po’, Trott lo incitò: —E DassalaLìisa?—
La voce di Trellin si spezzò. —La trovai nel profondo della tana del drago... Aveva usato il suo corpo per
il suo diletto a lungo prima di... ucciderla.—
Lacrime dense caddero dalle guance del principe. —Credevo che sarebbe rimasta per sempre con me, ma
se n’era andata. Ed io non ho neanche avuto la possibilità di dirle per l’ultima volta quanto l’amassi...—
La grande mano di Trott si posò sulla spalla del principe elfo. —Adesso hai Talya. E non avere paura che il
potere l’accechi; hai visto Vàlen, questi ragazzi e Dan stesso. É un grande maestro, ed insegnerà a Talya
ad convivere con il suo potere.—
—Io lo spero, amico mio.— disse Trellin stringendo la mano del grande guerriero. —Spero che tu abbia
ragione.—
—Sai, Trellin... Vostra Altezza...—
L’elfo sorrise un po’ malinconico. —Trellin va benissimo.—
—Quando Vàlen decise che avrebbe seguito la Strada Arcana, io avevo le tue stesse paure. Non aveva
compiuto sedici anni, quando si accorse di essere in grado di muovere gli oggetti senza toccarli. Si trasferì
qui alla torre. Vedi, per me Vàlen è più di un amico: siamo cresciuti insieme. A casa, non avevo molti
amici; ero troppo grande, e troppo forte, e gli altri erano invidiosi, così mi cacciavano. Vàlen era diverso:
era un ragazzo molto intelligente. Poi leggeva molto: è lui che mi ha insegnato a leggere. Insomma, quando
decise di venire qui da Séndovan, io mi sentii come abbandonato.—
—...E cosa hai fatto?—
—FòrKép è... era una specie di avamposto. Il capo delle guardie, il capitano Valdèt, mi aveva chiesto più
di una volta se volevo imparare ad usare le armi. Non poteva arruolarmi nella milizia, perché era una
decisione che spettava al reggente di SàiVòd, ma avrei potuto dare una mano, e mi avrebbe anche pagato.
Allora decisi di prendere Valdèt come mio maestro. Vàlen tornava a casa una volta al mese, e decisi di
fargli una sorpresa: fu orgoglioso di me. Quando era a casa, eravamo inseparabili, ancora più di prima.
Tutte le mie paure che cambiasse se n’erano andate via.—
—E tu hai imparato a combattere.—
—Proprio così. Non ti devi preoccupare, la magia è già in tua figlia: non sarà diversa dopo aver imparato
ad usarla.—
Trellin sorrise alzandosi, e mise una mano sulla spalla dell’umano.
—Grazie, Tòret.—
—Grazie? Perché “grazie”?—
Hellis e Pérevit si erano già visti quella mattina. Adesso, i due erano fermi, osservando il fuoco della pira
più alta che si stava spegnendo.
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Uno dei giovani che accudivano il rogo disse loro: —Grazie per il vostro aiuto. Il lavoro é quasi finito.—
—Bisogna ancora togliere la cenere.— rispose Hellis.
—Grazie, ma non sarà necessario. Spargeremo la polvere nella radura; il vento farà il resto.—
Pérevit si fregò le mani, soffiandoci dentro e strofinandosi il naso. —Quando è così,— disse —io vorrei
sistemare una piccola questione. Santità, vorreste seguirmi?—
Il giovane vicino a loro sgranò gli occhi nell’udire l’appellativo usato dallo stregone. Hellis si chiese cosa
intendesse il suo compagno, e prima che potesse parlare, Rondal si spiegò meglio: —Sono una persona alla
quale le sorprese non piacciono molto...—
—Quindi?—
—Ho intenzione mettere "sotto controllo" la zona.—
—Come?—
—Seguitemi, Santità.—
Mentre i due si allontanavano in direzione della foresta, il barone si fece molto vicino ad Hellis. — Voglio
chiamare uno spirito, ed ordinargli di controllare che nessuno si avvicini alla torre.—
—E... come mai tanto segreto?—
—Sendovan non é molto favorevole a questi metodi... inoltre non mi fido di nessuno.—
—Ma di me sì...—
Arrivati davanti ai primi alberi, Pérevit infilò una mano nelle pieghe della sua tunica, facendo uscire un
medaglione lavorato di argento finissimo. Prendendolo nella mano destra e spalancando davanti a se’ il
palmo della mano sinistra, pronunciò alcune secche parole dal significato oscuro. L’aria davanti a lui iniziò
a tremare, e come se la nebbia venisse succhiata da una spugna, si formò l’immagine di un busto umano
deforme, innaturalmente magro, dalle lunghe braccia dinoccolate e con il volto stravolto da una smorfia
storta.
Ròndal gonfiò il petto e disse: —Spirito dell’aria, io ti ordino di andare in cerchio partendo dalla torre fino
alla foresta e oltre, e di tornare da me se vedi una persona o altra creatura pericolosa che cerca di entrare.
—
Lo spirito emise un lamento, come se le parole fossero una frusta violenta, quindi si dileguò fra gli alberi.
Da quando era nel Kalédion, Hellis aveva visto molte cose che aveva trovato difficile da concepire. Thàris,
la sua città, era un luogo sicuro, dove le influenze del male erano state cacciate da migliaia di anni, e così
era anche per tutto il cuore dell’impero Tharisìt. Trovava difficile capire come fosse possibile che un
Tharisìt come Pérevit usasse quelle arti arcane ed antiche, rimasugli di una cultura oscura, nella quale non
esisteva ancora la luce degli dei.
—Barone...—
—Sì?—
—Come fa lo spirito a capirvi?—
—Vedete... non é tanto importante quello che ho detto, quanto quello che ho pensato; e lo spirito lo ha
capito benissimo.—
Hellis annuì pensoso, mentre assimilava l’idea. Quindi i due si volsero in direzione della Torre, ormai
immersa nella nebbia.
—Ditemi, Barone Pérevit, come avete deciso di diventare stregone.—
—Nello stesso modo nel quale voi avete deciso di diventare sacerdote.— La vita di Hellis Bònnit era di
dominio pubblico nell’impero, e alcune delle sue parti erano diventate leggenda, come ad esempio, il modo
nel quale Hellis aveva deciso di prendere i voti. Spesso i preti e gli altri sacerdoti che celebravano le
cerimonie sacre, portavano la sua storia come esempio.
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Hellis era stato chiamato. I segni della chiamata erano evidenti: gli animali feroci si allontanavano da lui
come dal fuoco, e quelli delicati, come i pettirossi, correvano da lui, cantando estasiati. A volte vedeva il
futuro con chiarezza incredibile. Spesso gli capitava di dire ai suoi familiari o agli amici cose come — Cosa
aspetti? Va’ ad aprire.— pochi istanti prima che bussassero alla porta.
I sacerdoti del suo quartiere gli avevano spesso chiesto di studiare da novizio, almeno di provare a seguire
la strada di ShtàrRésel, ma Hellis li aveva sempre ignorati. Fino a quando, un giorno, il dio si presentò a lui
in sogno, chiedendogli perché ancora esitava.
Hellis si scosse dopo qualche istante dai suoi ricordi, levando lo sguardo verso il sorridente volto
incorniciato di nero di Ròndal, che lo osservava rispettoso. Eppure, nonostante il rispetto, quegli occhi
profondi avevano sempre qualcosa di terribilmente inquietante. Distogliendo lo sguardo, Hellis chiese: —
Vi ho visto combattere, ieri notte.—
—Davvero?—
—Non parlo dei vostri incantesimi, notevoli, per altro. Intendo: dove avete imparato a combattere a mani
nude?—
—All’età di sei anni sono stato mandato a studiare in un convento DàiKan.—
Hellis inarcò la schiena e si girò sorpreso a guardare il Barone. Ora capiva da dove veniva quella forza
interiore che possedeva lo stregone. I monaci DàiKan sono mistici dediti all’affinamento dell’anima,
attraverso la meditazione, la purificazione interiore ed esteriore. Parte fondamentale di questa purificazione
è costituita dalla pratica delle arti marziali, che i DàiKan ritengono essere veicolo tra il mondo interiore, lo
spirito, ed il mondo esteriore, la materia. Hellis aveva visto molte volte i monaci esercitarsi, durante le
visite che, come patriarca della chiesa di ShtàrRésel, era tenuto a compiere; era rimasto affascinato dalla
perfezione dei loro movimenti. Ogni loro gesto era espressione di una forza interiore che veniva da millenni
di sapienza; ma non era il gesto in se’ ad essere impressionate. I gesti erano solo un mezzo che permetteva
allo spirito dei monaci di penetrare la realtà, e l’immensa forza e la purezza dello spirito dei DàiKan
sembrava quasi solidificarsi nei loro corpi.
Il barone continuò: —Poi, su suggerimento del mio Maestro, ho studiato l’arte dell’invocazione degli
spiriti presso l’accademia di Tàndar. L’insegnamento DàiKan è stato molto importante per me.—
—In quale senso?—
—La disciplina della meditazione, e la forza del mio spirito, sono un grande aiuto nella stregoneria. La mia
arte consiste nel piegare le forze della natura e le energie primordiali degli esseri viventi al mio volere,
usando a questo scopo il mio stesso spirito.—
—Capisco...— Concluse Hellis. Una parola che non rendeva onore all’ammirazione che provava per
quell’uomo dallo sguardo di falco.
Il giorno passò pigro, avvolto nel grigiore della nebbia, ma nei sotterranei della torre, dove Talya stava
imparando a capire la magia, la luce del giorno non arrivava, e le ore sembravano infinite. Ad un certo
punto, la ragazza si accorse di avere fame, ma non disse nulla a Séndovan, che le stava parlando.
—...quindi usiamo le parole per focalizzare i concetti, ma volendo puoi indirizzare la tua energia usando
qualsiasi immagine tu abbia in mente. Se vuoi fare qualcosa, puoi, basta immaginarlo.—
—Ma... fino ad ora abbiamo detto che dobbiamo studiare a fondo ogni immagine per imparare un
incantesimo...—
—Molto brava, e sai perché?—
Talya scosse la testa timidamente.
—Ho appena detto che puoi fare tutto quello che vuoi, basta che tu lo immagini. Ma fare questo può
costarti la vita: la magia è la tua forza vitale. Una volta che hai iniziato il processo di focalizzazione è
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troppo tardi per tornare indietro: ormai hai speso la tua energia. Se hai immaginato qualcosa di troppo
grande per te... muori.—
Talya deglutì a fatica.
—E non solo: anche se l’incantesimo “improvvisato” fosse alla tua portata, potresti sbagliarti ad
immaginare.—
—Non capisco... come si può sbagliare ad immaginare?—
—Ti faccio un esempio: immagina il vento e descrivimi cosa pensi.—
La ragazza chiuse gli occhi e si concentrò. —Vedo degli alberi che si muovono, foglie sollevate...—
—Basta così. Se tu avessi dovuto lanciare l’incantesimo del “vento”, avresti immaginato le foglie che si
alzano. L’effetto non sarebbe stato quello che volevi: avresti soltanto alzato delle foglie, o piegato degli
alberi.—
La principessa abbassò lo sguardo.
—Per creare il vento devi immaginare l’aria che si muove, e ti assicuro che é molto difficile.—
—Allora é per questo che si studiano le parole... Serve per imparare ad immaginare.—
—Bravissima! Sei quasi più in gamba di Vàlen...—
Talya sorrise e lanciò un’occhiata furtiva al suo amico, che stava studiando un voluminoso libro ad una
certa distanza dai due.
Era ormai sera, e la cena era servita su di un ampio tavolo nella radura, quando i tre maghi emersero dai
sotterranei. Sendovan e Vàlen erano abbastanza stanchi, e Talya era addirittura distrutta. Non camminava
con l’incedere regale che la contraddistingueva, ma sembrava trascinarsi verso il tavolo. Trellin la guardò
con apprensione, come se temesse che la sua bambina non lo riconoscesse più. Si alzò in piedi, e la
ragazza, notando un movimento al limite del suo campo visivo, alzò lo sguardo. Il sorriso le aprì il volto
come il fiorire di una rosa; si mise a correre verso il padre, che pareva ringiovanito di colpo di mille anni.
Quindi lo abbracciò di slancio, sprofondando nelle braccia del principe, desiderosa di farsi coccolare. Si
scambiarono sommessamente qualche frase in elfico, parole che quasi si perdevano nel chiasso degli umani
a tavola.
Vàlen cercò con lo sguardo il poderoso guerriero, come se questi potesse nascondersi tra i ragazzi. Quindi
si avvicinò a Pérevit ed Hellis, che interruppero la loro conversazione per salutarlo. Dopo aver ricambiato
il saluto, il mago chiese —Dov’é Trott?—
—Gli ho ordinato di non muoversi.— rispose Hellis.
—Avrà fame...—
—Gli ho ordinato anche di mangiare poco.—
—Sciocchezze. Se non gli diamo da mangiare, potrebbe camminare nel sonno stanotte, ed addentare quello
che gli capita.—
Quindi il mago si fece dare da un allievo la pentola con quello che rimaneva della zuppa, e si avviò verso la
torre.
—Vàlen!— lo chiamò il sacerdote, ma il ragazzo lo ignorò. —Vàlen!— chiamò più forte.
—Guarda, Hellis, che lo faccio per te...—
—Per me?—
—Sei molto più paffuto di quanto tu creda, vecchio mio, e Trott ti preferirà certamente...—
Ròndal aveva percepito l’irriverente frase del giovane come un sacrilegio. Non ci si può rivolgere al
massimo grado della Chiesa di ShtàrRésel in questo modo... Ma vedendo Hellis che rideva fragorosamente
si calmò: quell’uomo non era solo un grado della Chiesa...
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Tòret guardava malinconicamente la finestra, tenendo fra le mani un minuscolo piatto vuoto, così asciutto
che era difficile capire se non fosse stato appena lavato, quando Vàlen entrò nella stanza.
—Resisti, Trott, arrivano i rinforzi!—
Il grande volto del guerriero si illuminò nel vedere il suo amico portare la pentola, che sembrava ancora
pesante. I due risero assieme, e Vàlen raccontò all’amico come era andata la giornata. Tòret non riusciva a
seguire tutto, anche perché era intento ad osservare la minestra che cadeva nel piatto, con un delicato
suono che già allietava la sua grande pancia. Finalmente un piatto abbondante era davanti ai due ragazzi,
che iniziarono a mangiare nei rispettivi letti, uno di fronte all’altro.
—Sai, Val? Oggi ho parlato con Trellin...—
—Davvero?— rispose Vàlen. —Conoscendolo doveva essere molto preoccupato per Talya.—
—Già...—
—La magia mette molto a disagio quell’elfo.— rifletté il giovane mago.
—Eppure gli elfi sono creature magiche, non è così Val?—
—Sì e no. La loro natura è parzialmente magica, ma questo non vuol dire che siano necessariamente ottimi
maghi, vuole solo dire che la magia fa parte di loro. Inoltre, gli Elfi delle Foreste sono una razza un po’
meno "pura" di elfi. Non lo ricordare a nessuno di loro, ma il loro sangue ha subito più di una
contaminazione...—
—Capisco... Trellin mi ha raccontato la sua storia. Però mi ha chiesto di non dirla a nessuno, perché è un
segreto.—
—E tu non me lo dirai, vero?—
—Non posso... si è fidato di me...—
—Va bene, sentimentalone. Non te la chiederò.—
I due avevano già finito l’intero contenuto della pentola, quando qualcuno bussò alla porta.
—Avanti— risposero in coro i ragazzi. La porta si spalancò di quel tanto che bastava per lasciar
intravedere il volto di Séndovan.
—Salve, Tòret. Come stai?—
—Sdraiato, Vostra Sapienza.— sorrisero tutti.
—Vàlen,— chiamò quindi il maestro —ho bisogno di te.—
—Arrivo. Riguardati, Trott.—
Fatto un gesto all’amico, il giovane mago si alzò ed uscì dalla stanza, affiancando il maestro.
Tutti i discepoli, oltre a Talya, erano in piedi, in cerchio, proprio davanti alla porta della torre. Hellis e
Ròndal stavano ancora seduti al tavolo, poco distante ed osservavano incuriositi, mentre Trellin era già
rientrato nella sua camera. Il barone aveva assistito a qualche lezione di magia all’accademia di Tàndar ed
aveva sentito parlare della capacità dei maghi di lanciare un incantesimo congiuntamente, ma non aveva
mai visto una dimostrazione pratica. Quando Vàlen e Dan arrivarono, il cerchio fece loro spazio.
—Molto bene,— esordì il maestro, —per alcuni di voi questo è il primo vero incantesimo. Vi ho chiamati
tutti perché dobbiamo creare un campo di forza attorno alla torre, un campo che protegga anche da
eventuali attacchi dal cielo e dalla terra. L’incantesimo é complesso, inoltre richiede anche molta energia,
più di quanta un singolo mago possa usare. Voglio che chi di voi non conosce le parole "Feldét" e
"Sterigtém" non provi neanche a modulare l’incantesimo: ci deve procurare solo la sua energia. Tutto
chiaro?—
Gli allievi annuirono e si sedettero sull’erba; nel mentre Talya sussurrò a Vàlen —Ho paura, Val.—
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—Tranquilla, principessina. Lascia solo aperta la tua mente, al resto ci penseremo noi.—
Il ragazzo strinse la mano dell’elfa un po’ più forte del necessario, per farle sentire la sua presenza
rassicurante. La ragazza trovò però inizialmente ripugnante il contatto con l’altra mano sconosciuta, e
soprattutto umana, ma si dovette adeguare.
Sendovan pronunciò le parole magiche, concentrandosi sull’immagine di un campo di forza. Jòrlen e
Vàlen, oltre ad altri due allievi ripeterono a bassa voce le stesse parole. Il cerchio vivente iniziò a
risplendere, prima debolmente, poi di luce sempre più intensa. Talya vedeva nella propria mente la torre e
la foresta. Le sembrava come di librarsi a cento e più metri di altezza, e vedeva se stessa lontana, assieme
agli altri, brillare come una stella. Sentiva un formicolio diffuso diventare brivido intenso, mentre la sua
coscienza si affievoliva. La ragazza lottava per restare sveglia contro un sonno immenso, una forza che la
privava della vita, quando la calda voce di Vàlen esplose nella sua mente. "Rilassati" fu il suo ordine
imperativo, e Talya si lasciò andare, avvertendo la terribile sensazione della propria vita che usciva dal suo
corpo come un fiume che rompe gli argini.
La luce nella radura divenne talmente forte che Hellis e Rondal dovettero distogliere lo sguardo. Poi,
esplose un lampo, seguita da un tuono assordante, e si propagò fino ad inglobare la torre e la radura,
lasciando nell’aria un tenue luccichio.
Sendovan aprì gli occhi e divincolò le mani. Gli altri lo imitarono, anche se i più deboli dovettero faticare
non poco per riprendersi. I volti prima distesi dei ragazzi adesso erano stanchi, sfiniti. Talya si accasciò
addosso a Vàlen, cercando inutilmente di sostenersi da sola.
—Siete stati bravissimi, figli miei.— esordì il grande mago. —Dovremo rinnovare l’incantesimo tutte le
sere, fino a quando non troveremo il modo di risolvere la situazione. So che sarà pesante per voi, ma sarà
anche un ottimo allenamento.—
Detto questo, i ragazzi si allontanarono l’uno dopo l’altro.
Trellin aveva visto dalla sua camera il lampo, ed aveva udito il tuono della magia; si era precipitato giù
dalle scale, ed era giunto solo adesso. Non vide altro che sua figlia in piedi per miracolo, e solo grazie al
sostegno di Vàlen. Corse da lei, trattenendo a stento un’imprecazione ed astenendosi dal gridare “Cosa le
avete fatto!?”
La prese per la vita, e dicendole in elfico: —Va tutto bene, bambina mia. Ci sono qui io...— la sorresse,
strappandola dalle braccia del giovane mago e portandola verso la torre.
Hellis, Ròndal e Vàlen, dopo aver chiamato Trellin, si diressero verso la stanza del mago, dove Tòret era
sdraiato ed incuriosito dal lampo di prima. Vàlen gli raccontò dell’incantesimo che avevano lanciato per
proteggere la torre, quindi i cinque presero posto sedendosi sui letti.
—Non possiamo stare qui in eterno.— esordì il mago.
—Dobbiamo almeno attendere di essere guariti.— disse Tòret, guardando Trellin.
—... e che Talya sia pronta.— continuò Vàlen.
—Cosa c’entra Talya?— chiese l’elfo.
—Avremo bisogno di lei, Trellin, e della sua magia. É bene che tu te ne faccia una ragione, perché da lei,
come da tutti noi, potrebbe dipendere la nostra sopravvivenza.—
L’elfo abbassò lo sguardo, cercando di trattenere l’acida replica che aveva in mente.
—Abbiamo bisogno di un piano di azione. Dobbiamo scovare Dàrini, Kàlen ed il Creatore.—
Hellis intervenne: —Ho la sensazione che DàganSén si sia occupato di Kàlen direttamente.—
—Cosa intendi?—
—Non ci dovrebbe dare più fastidio: penso che dopo essere stato scoperto, Kàlen sia stato trovato da
DàganSén...—
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—Già... Se DàganSén ha trovato Kàlen, può anche dirci dov’è Dàrini.—
—Temo che non sia così facile, Vàlen. Il potere degli dei è strano, ed a volte funziona in modo diverso da
come lo possiamo concepire. Non è come la magia.—
—Intendi che è possibile che DàganSén abbia trovato Kàlen, ma non abbia neanche visto Dàrini, anche se
era lì vicino?—
—Anche se era abbracciato a lui, e questo è ancora più vero se il Creatore lo sta proteggendo.—
—Andiamo bene...—
—Vàlen... la nostra vita è, come sempre, nelle mani degli dei. Troveranno un modo per aiutarci, vedrai.—
—Già... solo che stavolta la nostra vita è nelle loro mani più del solito...—
Hellis guardò torvo Vàlen. Ancora? Osava ancora mettere in discussione la parola di ShtàrRésel? No...
stavolta aveva ragione. ShtàrRésel non aveva ancora parlato in proposito, ma Hellis sapeva che gli dei li
avrebbero guidati.
Eppure, non era per lo sguardo raggelante del sacerdote che Vàlen sentiva quell’opprimente sensazione sul
petto... e poi, subito dopo, si accorse di quel sommesso pulsare che aveva già sentito: il disco lo stava
chiamando. Improvvisamente, e solo per un fugace istante, Vàlen vide il volto di DàganSén. Era un
immagine troppo effimera per poter essere afferrata, eppure, Vàlen era sicuro di averla vista. Ed il disco
era tornato di nuovo inanimato.
—Hai ragione, Hellis...— disse Vàlen deglutendo a fatica. —Gli dei sono con noi, e ci guideranno. Per ora
pensiamo a riposare; ci muoveremo quando sarà il momento.—
Così detto, il compagni si salutarono e Trellin e Rondal andarono nelle loro stanze.
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ShtàrLàn - Capitolo 8
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Capitolo 8
Edgard Rayan stava in piedi, accanto alla postazione di comando. La grande poltrona era occupata
dall’ammiraglio, intento ad osservare le luci di uno strumento. Davanti a lui si stendeva la sala di controllo,
il cuore pulsante della Quazar, la gigantesca nave ammiraglia della Flotta Federale Siriana. Decine di
persone, sedute davanti alla loro strumentazione, controllavano il funzionamento dei sistemi, immersi in
una soffusa penombra. In fondo alla sala c’era un enorme schermo; scie di luce infinita lo coprivano,
formando un caleidoscopio quasi ipnotico.
Una voce maschile che non proveniva da nessun luogo annunciò: —Quazar sta uscendo dalla
distorsione. —
Le scie si fermarono, stringendosi fino a collassare in piccoli puntini di luce bianca. Nel mentre, una piccola
stella blu si ingigantiva rapidamente, contorcendosi e deformandosi. Ora lo schermo era immobile, ed al
centro c’era l’immagine di un pianeta.
—Siamo arrivati, Presidente.— disse l’ammiraglio. In quel momento, dalla piattaforma di teletrasporto
posta accanto alla console di controllo, uscì il direttore del centro scientifico.
—Presidente, Ammiraglio...—
—Direttore...— risposero in coro.
L’ometto prese fiato, e prima che potesse parlare, Edgard, sorridendo, disse: —Ancora una volta non
approvate le mie decisioni?—
—Decisamente no, ma se ci tenete tanto, potete pure andare laggiù. Comunque non è per questo che sono
venuto. Ecco, siamo riusciti a fare arrivare la navetta Antariana. Per le armi, i miei ragazzi le stanno
costruendo usando i dati del nostro archivio. Abbiamo fatto arrivare anche un sistema di comunicazione da
Antares. Vi abbiamo preparato l’attrezzatura completa senza strumenti alle distorsioni.—
—Bene. Allora cos’è che la tormenta?—
—... Presidente... gli unionisti sono già laggiù, e non hanno avuto bisogno di mettere insieme dei pezzi da
museo: la loro tecnologia funziona benissimo anche nei campi distorsivi. Non mi pare il caso di fornire loro
un modo semplice di eliminare il nostro Presidente.—
Edgard trattenne un antico gesto scaramantico e rispose: —Spero di non dare loro questa gioia.—
—Insomma, perché volete scendere sul pianeta? Non siete certamente un esperto in sistemi di
combattimento, e probabilmente ci saranno degli scontri. Inoltre il territorio è decisamente ostile e gli
indigeni sono primitivi e probabilmente aggressivi...—
—La risposta è semplice: da quello che succederà laggiù dipendono le sorti della Federazione, e delle sue
genti. Io ho giurato di proteggerle fino alla mia morte, ed intendo mantenere la mia promessa. Non c’è
altro, Direttore.—
L’ometto sbuffò. —Siete voi il capo, signor Presidente.—
—Infatti. Quando potremo scendere sul pianeta?—
—Domani al massimo. Dobbiamo ancora mettere a punto le armi.—
—Molto bene. Buona giornata, signor Direttore.—
Lo scienziato si incupì. —Buona giornata anche a voi, signori.— disse, quindi si girò e tornò sui suoi passi,
sparendo in mille scintille.
L’ammiraglio sorrise all’amico. —Vuole proprio prendere le decisioni per te, non è vero Edgard?—
—Già; ma in realtà è un ottimo collaboratore, e poi è un uomo onesto. Mi fido molto più di lui di alcune
persone che non mi contraddicono mai. Passiamo ad altro: ci pensi tu a procurarmi una squadra?—
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ShtàrLàn - Capitolo 8
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—Avrai i miei uomini migliori.—
—Molto bene. Visto che dobbiamo stare qui un giorno, ne approfitto per studiare i rapporti sull’attività
degli unionisti in questo settore. Non vorrei dover setacciare palmo a palmo il pianeta per trovarli. Nel
frattempo, restiamo in distorsione; non voglio che tutta la galassia sappia che siamo qui.—
Il maturo ufficiale si girò verso la console ed accarezzò una luce. In risposta un punto bianco che emetteva
strane onde di luce colorata comparve nell’aria, davanti alla sua bocca.
—Tenente Powell, entriamo in distorsione dissimulativa.—
—Agli ordini.— rispose dall’aria una voce femminile; subito, lo schermo cambiò di nuovo: il pianeta si
deformò ancora una volta, diventando quell’assurda figura geometrica piena di punte e di spigoli che il
Direttore aveva mostrato.
Era trascorsa una settimana dalla notte dell’assalto alla torre, e tutto era tranquillo. Ogni sera Séndovan
riuniva gli allievi per ripristinare lo scudo magico che proteggeva la torre. Anche se Talya si allenava tutti i
giorni ed arrivava a sera molto stanca, aveva trovato che quell’ulteriore esercizio era sempre più facile,
sempre più naturale. L’ultima volta era addirittura riuscita a fornire lei l’energia necessaria per
l’incantesimo, senza aspettare che fossero i maghi a prenderla.
Le ferite al braccio ed al fianco di Trellin, grazie alle cure di Hellis, erano guarite perfettamente; anche
Tòret si era quasi completamente ristabilito.
Quella mattina, Hellis gli aveva tolto le fasciature.
—Sembra che sia guarita bene.— disse l’alto prelato.
—Già...— In effetti non era rimasta nemmeno la cicatrice del profondo taglio che gli aveva lacerato la
gamba... e la cosa lo aveva stupito molto.
—Come hai fatto a farmi guarire?—
—Ho usato un poco di questo, un tantino di quello...—
—È un segreto?—
—È una ricetta che gira per i nostri conventi... ed effettivamente conosco molti medici che farebbero carte
false per averla.—
—E perché non gliela date?—
—Perché la userebbero a scopo di lucro.—
—Sì, ma potrebbero guarire molte altre persone...—
Hellis guardò fisso il guerriero. Aveva ragione: lo scopo della religione di ShtàrRésel è diffondere il bene...
ed insegnare agli altri a fare altrettanto. Eppure ci doveva essere un motivo per il quale alcune formule
scoperte dai sacerdoti erano state tenute segrete, e doveva essere un buon motivo... Hellis aveva trovato
qualcosa su cui riflettere, per quel giorno.
—Cerca di muoverti un po’. All’inizio ti sentirai intirizzito, ma non farci caso, è normale.— Quindi Hellis
sollevò da terra una pesantissima verga di legno.
—Ecco, ti ho portato questa; ti servrà. Cammina un po’ oggi; stasera ti applicherò un unguento che ti
scioglierà i muscoli, ma non funzionerà se non ti muovi.—
—Grazie, Padre.—
—Un’altra cosa, ragazzo.—
—Sì?—
—Lavati.—
—Come?—
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—Dopo una settimana che sudi a letto, l’odore nella stanza comincia ad essere, diciamo, caratteristico.
Inoltre non fa bene alla tua pelle.—
—La mia pelle non si è mai preoccupata per un po’ di sporco.—
—Ma io non voglio che ti venga da grattarti proprio mentre devi usare la spada. Inoltre odio i pidocchi, ma
loro non lo sanno. Quindi: lavati.—
—Va bene, Hellis.—
Il prelato salutò il guerriero, ed uscì dalla stanza. Tòret si alzò lentamente da letto, appoggiandosi sul
bastone e sulla gamba sana, quindi mosse i primi passi stentati verso la porta, ed uscì a sua volta.
Effettivamente, adesso che aveva fatto un bagno, Trott si sentiva meglio. L’aria tiepida del mezzogiorno di
primavera gli aveva asciugato in fretta i capelli; camminava nella radura felice di poter assaporare quegli
istanti di tranquillità. Si appoggiava sempre meno sul bastone; i suoi passi erano già più sicuri, e si sentiva
di nuovo forte come un toro! Lo scudo di energia che Séndovan aveva generato attorno alla torre la notte
prima si era ormai dissolto, così Trott decise di farsi una passeggiata in mezzo al bosco. Non era armato,
ma qualcosa gli diceva che non avrebbe corso alcun pericolo, se non si fosse allontanato troppo.
L’aria selvatica era fresca e profumata; la delicata brezza accarezzava le fronde, emettendo un fruscio che
era musica, gioia di vivere. Un pettirosso cantava una melodia magica, ed un cuculo rispondeva con i suoi
ritmici bassi. Era una giornata splendida. Improvvisamente, passato un cespuglio, Tòret sentì abbaiare
furiosamente. Istintivamente, il guerriero sollevò di scatto il bastone, brandendolo come un arma a due
mani. Si girò intorno più volte nervosamente, ma non vide nulla. Poi, sentì ancora una volta abbaiare; era
proprio davanti a lui! Ma il sentiero era sgombro e vuoto. Così Trott guardò i propri piedi: un piccolissimo
cucciolo di lupo lo guardava come se fosse una montagna, scodinzolando preoccupato. Tòret sorrise,
appoggiò a terra il bastone e si chinò, trattenendo una smorfia per il dolore alla gamba.
—Cucciolo... cosa c’è?—
Il lupacchiotto non poteva avere più di tre settimane di vita, o forse quattro, ed era poco più grande della
mano del guerriero; era un batuffolo di pelo bianco. Abbaiò ancora, poi si girò scodinzolando, e guardando
indietro per vedere l’ uomo.
—Vuoi che ti segua, vero?—
Tòret si alzò di nuovo, reggendosi sul bastone; il cucciolo saettò nella boscaglia.
—Ehi! Piano... mi fa male la gamba!—
L’uomo si affrettò zoppicando. Non dovette fare più dieci metri: il lupacchiotto guaiva fermo, davanti alla
figura di un lupo accasciato a terra, immobile.
Tòret si precipitò verso l’animale, lasciando cadere il bastone e chinandosi sul corpo esanime del lupo.
Aveva la testa incastrata in una tagliola, gli occhi sbarrati e la zampa serrata in un ultimo tentativo di aprire
la trappola mortale. Era una femmina.
Il lupacchiotto guaiva ed abbaiava a sua madre, chiedendole di alzarsi, leccandole il volto; il grande cuore
di Tòret si gonfiò, come i suoi occhi. Per lui fu un gioco separare le ganasce della tagliola, ma non servì;
era troppo tardi, ormai.
Seldén stava mungendo con fare professionale una delle due mucche che fornivano il latte ai ragazzi della
torre. Improvvisamente la porta della stalla si aprì, abbagliandolo un po’: in controluce vedeva l’enorme
figura del guerriero. Per un attimo, il giovane non si ricordò dell’imponente ospite, ed il suo cuore ebbe un
sobbalzo, ma poi il guerriero avanzò zoppicando, e Seldén lo riconobbe. Certo che la figura incuteva
comunque un vago timore. Arrivò presto davanti a lui, gettandogli addosso una pesante ombra; Seldén
poteva vedere il suo scuro volto, la folta capigliatura corvina e la bocca carnosa incorniciata nella barba del
colore della notte. Ma vide soprattutto i suoi occhi neri, profondi e seri.
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—C... Cosa posso fare per te?—
—Hai del latte?—
Seldén trattenne troppo tardi la sua risata, soffocandola maldestramente sotto un —Come?—
Trott si accorse della curiosità della sua richiesta. Sorridendo, appoggiò il bastone e scoprì la mano destra,
che aveva tenuto fino ad allora nascosta sotto il manto che la copriva. Il lupacchiotto era accucciato nella
mano del gigante, con la testa appoggiata sul suo braccio, e dormiva tranquillamente. —È per lui.— disse
piano.
Il cucciolo, disturbato da tutto quel rumore alzò la testa e sbadigliò, spalancando la bocca più che poteva.
Seldén sorrise mentre si alzava, ed accarezzò il lupetto.
Talya era china su di un enorme libro. La luce che filtrava dalla finestra in alto illuminava le pagine,
lasciando nella penombra il resto dello studio di Séndovan. L’anziano mago la stava osservando, ed era lì
da un’ora, o forse due, che la scrutava immobile. Talya girò la pagina.
“Iniziate immaginando un filo lungo. Il filo appiccica: toccatelo con le dita. Adesso guardate più in alto:
un ragno lo fa scendere, accarezzandolo con le zampe. Allontanatevi: vedete un lunghissimo filo con un
puntino ad un’estremità: è il ragno. Adesso il filo si attorciglia, girando come una spirale, come un
vortice. La spirale assume la forma di una tela di ragno, ed il puntino scompare.”
—Maestro?—
—Ditemi, principessa.—
— Mi chiedevo come faccio a “toccare” il filo.—
—Immaginate la sensazione appiccicosa sulle dita.—
Talya voleva chiedere se era proprio necessario, ma si trattenne; conosceva la risposta. Chiuse gli occhi e si
toccò la punta del pollice con l’indice. Cercò di immaginare che le dita fossero appiccicose: si accorse che
non era difficile!
—Maestro?—
—Sì?—
—Posso fare dei ... gesti quando mi concentro?—
Séndovan sorrise: —Non è molto elegante, ma non c’è niente di male.—
Talya impiegò ancora qualche minuto a memorizzare il procedimento per immaginare una ragnatela.
Quindi aprì gli occhi e si girò verso Séndovan.
—Maestro... Siete stato tutto questo tempo ad osservarmi?—
—Principessa, è un privilegio che molti uomini pagherebbero oro.— disse Séndovan; sembrava un
complimento sincero, e Talya sorrise timidamente; eppure era chiaro che il mago l’aveva osservata perché
voleva analizzare il suo metodo di studio. La ragazza aveva la sensazione di essere di fronte ad un tipico
umorismo da mago, e cercò di memorizzare l’esempio per usarlo in seguito: anche lei era una maga ormai,
e doveva esserlo in tutto!
—Questo libro di magia in lingua elfa è eccezionale. Non riuscivo proprio a leggere quei simboli umani. —
—Già, ma si tratta di una rarità. Inoltre non troverai mai libri molto importanti scritti nella tua lingua; devi
imparare la nostra. Valenitne dovrebbe essere felice di aiutarti.—
Quindi Séndovan si avvicinò all’enorme tomo e pronunciò alcune parole magiche, accompagnate
dall’ormai familiare “rumore della magia”. Sopra di esso, comparve un libro più piccolo, ma per il resto
identico al primo. Il grande mago lo chiuse e lo porse alla ragazza, dicendo —...Ma per cominciare, questo
va benissimo.—
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Il volto di Talya si illuminò più del sole mentre prendeva il libro dalle mani del mago. Se lo strinse al petto
coccolandolo, poi ne guardò la copertina.
—Grazie, Maestro.—
Dan sorrise a sua volta. —Se ti mando in giro per il mondo senza sapere nulla, che figura ci faccio davanti
agli altri maghi?— e le scompigliò un po’ i capelli, un gesto che fece piacere a Talya; quella coccola era un
gesto che Talya non aveva mai ricevuto (non era un’usanza elfa), ma sentiva che era una carezza tenera.
Dan continuò: —Bene, adesso è arrivato il momento dell’esame, principessa.—
—Esame? Quale esame?— chiese la ragazza allarmata.
—Non preoccuparti, a me non devi dimostrare niente, serve solo per te; seguimi.—
Talya invece si era preoccupata eccome! Vàlen, al loro passaggio vicino al suo scrittoio, si alzò dicendo —
Vengo anch’io!—
—No!— rispose secca Talya. Se sbagliava davanti al suo maestro non importava; era lì per imparare. Ma
davanti a Vàlen... non voleva fare una brutta figura davanti a lui.
—Lascialo venire, principessa. Quando dovrai usare il tuo potere, non sarai sola.—
—Ah, ma se non vuoi che venga...— disse Vàlen facendo il gesto di girarsi.
—No!— ripetè allora Talya afferrandolo per un braccio. —Dove credi di andare?— continuò tirandolo su
per le scale.
Il cortile della torre era affollato a quell’ora: il pranzo stava per essere servito. Quando Trellin vide sua
figlia sbucare dal portale, allungò il collo come una giraffa.
La principessa elfa si guardò in torno. —Maestro...— disse sussurando.
—Ditemi...— rispose Dan piano più di lei.
—C’è troppa gente...—
—Non ci guardano mica...— replicò l’anziano mago, mentre Seldén imprecava forte per aver versato
troppa zuppa nella ciotola di un suo compagno; stava guardando i tre maghi, come tutti gli altri.
—A me non sembra...— disse piano la ragazza.
—A me sì. È un ordine.—
—Sì, maestro... non ci stanno guardando.— disse ignorando suo padre che la salutava.
Séndovan si frugò in tasca, prendendo due ghiande fra le dita. Quindi ne consegnò una ragazza.
—Adesso misuriamo la tua precisione. Lancia sopra a questa ghianda una “Tela di fuoco elettrico”.
Voglio che tu usi meno energia possibile, e che tu faccia meno rumore che puoi.—
Talya degluttì a fatica. “Tela” era la parola che aveva appena finito di studiare, e non aveva ancora avuto il
tempo di provare né il fuoco né la parola “scintilla”, che doveva fornire l’elettricità...
Iniziò a concentrarsi. Immaginò la tela, come aveva studiato; poi il fuoco, e quindi la scintilla. Mentre
accumulava la magia, sebbene avesse gli occhi chiusi, vedeva tutto quello che la circondava. Si concentrò
sulla ghianda che teneva in mano e vi proiettò la tela, il fuoco e la scintilla, cercando di trattenersi, di
diminuire al minimo la sua forza. Aprì gli occhi: un reticolo di sottili filamenti rossicci, attraversato da
scintille colorate, aveva avvolto la piccola ghianda: dopo pochi istanti, questa prese il fuoco, ma Talya non
la lasciò cadere: la magia stava ancora proteggendo la sua mano.
La ragazza guardò il maestro, e questi annuì piano. — Niente male. Si può fare qualcosa per ridurre tutto
quel fracasso, ma nel complesso niente male.—
Talya sorrise, gettando a terra la cenere della ghianda.
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—Bene, principessa. Adesso vediamo come sapete usare la vostra potenza.— Dan si allontanò di una
decina di passi, tenendo in mano l’altra ghianda. Il mago parlò quindi ad alta voce: —Dovete centrarla con
una freccia di fuoco. La lancerò in aria: dovete colpirla più forte che potete, quando si trova all’apice della
sua parabola. Ma state attenta a non usare troppa forza: potreste farvi del male... Tutto chiaro?—
—Sì, Maestro.—
La platea era adesso immobile, mentre attendeva l’esito della prova. Talya li ignorò tutti, divaricò
leggermente le gambe e inspirò profondamente. Vàlen, che era di fianco a lei, notò che la ragazza, al
contrario di quando aveva provato il suo primo incantesimo vicino a SàiVòd, adesso aveva un’aria sicura.
E soprattutto, aveva tutto l’aspetto di una vera maga.
Talya si concentrò; l’energia scorreva dentro di lei, facendo brillare l’aria. Non fu difficile comporre
l’immagine di una “Freccia di Fuoco”. La sua mente adesso vedeva chiaramente Séndovan, e la ghianda
che teneva in mano; il mago, finalmente, la lanciò in alto.
Era il momento. Talya sollevò di scatto la mano, e gridò le parole “Raistìs Ferdém”. L’energia defluì
violentemente dal suo corpo, e la maga sentì la sua vita scorrere dal suo dito indice alla ghianda,
distruggendola.
Una scheggia infuocata volò in un istante tra Talya ed il suo piccolo bersaglio: l’impatto fu fragoroso, e fu
seguito da un’esplosione di scintille e di fuoco.
Il mondo iniziò a girare intorno alla ragazza, e le sue gambe, per un istante, furono tanto deboli da non
sorreggerla. Vàlen se ne accorse e la trattenne, sostenendola; i ragazzi applaudirono, imitati da Trott,
Hellis e Rondal, mentre Talya si riprendeva e si rimetteva in equilibrio.
Trellin invece era in piedi, impallidito ed immobile, che osservava la sua bambina, che adesso si era girata
verso Vàlen, abbracciandolo con gioia. Istintivamente gli aveva appioppato un euforico bacio sulla
guancia, facendo arrossire violentemente il giovane... Il principe elfo si allontanò dalla tavola, non visto da
nessuno, o quasi...
—Trellin, dove vai?— Chiamò Tòret.
—Mi è passato l’appetito.—
Dan si avvicinò alla ragazza, che aveva ancora un braccio appoggiato intorno al collo del giovane mago.
—Niente male,— sentenziò, —anche questo si può migliorare, ma niente male... Ci meritiamo un po’ di
riposo, questo pomeriggio, non trovi?—
—Sì, Maestro... il capo sei tu!—
—Impari in fretta, ragazza!—
Risero tutti.
Vàlen, Dan e Talya sedettero vicini. La principessina chiese ad alta voce. —Dov’è mio padre?—
Rispose Trott: —Ha detto che gli era passato l’appetito.—
L’elfa fece una smorfia di disappunto, ed il giovane mago le disse piano: —Faresti meglio ad andare a
parlargli.—
—Sì, ma dopo. Non voglio rovinarmi questo momento, Val.—
Vàlen guardò tristemente Séndovan. —È giunto il momento di partire, Maestro.—
Seduti su due sedie di legno, Vàlen e Séndovan si guardavano negli occhi, alla luce fioca di due lumi ad
olio. Fuori dalla finestra del laboratorio di Séndovan, che occupava quasi tutta la cima della torre, si
potevano intravedere le stelle della limpida notte.
— Talya ormai è pronta figliolo. Almeno lo è per quel poco che ho potuto insegnarle fino ad oggi. Ma
tu? —
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—So di non essere pronto come vorresti, Maestro, ma ormai non possiamo più aspettare. Tòret è guarito,
e Trellin lo era già da un pezzo. Non possiamo indugiare oltre.—
Séndovan guardò intensamente Vàlen; il ragazzo aveva la sensazione che la mente dell’anziano mago
stesse scandagliando la sua, in cerca di qualche cosa, qualche pensiero. Lo sguardo del maestro era
insostenibile, ma Vàlen non riusciva a distogliere gli occhi.
—Figliolo,— disse dopo un lungo attimo, —con quello che sto per dirti non vorrei portarti sfortuna, ma...
è possibile che questa sia l’ultima volta che ci vediamo. Ed ho un segreto che deve essere trasmesso al mio
discepolo.—
Il ragazzo era rimasto bloccato sulla sedia, stordito dalle parole del Maestro. Attese muto che Séndovan
continuasse.
—Non sono in molti a sapere perché mi sono allontanato dall’accademia. Vedi, io sono uno dei discepoli
di TàndarRàisht; gli altri sono tutti ministri di TàndarLàn...—
—Ma tu hai preferito allontanarti...—
—Sì, figliolo. Sai perfettamente cosa ha fatto TàndarRàisht per la magia...—
—Ha codificato il sistema delle parole. Prima era molto più difficile usare la magia; era necessario un
grande sforzo per riprodurre ogni volta l’immagine mentale da applicare all’incantesimo...—
—Mentre le parole sono un modo assai comodo per collegare concetti semplici in modo da costruirne altri
più articolati.—
—...E questo ha qualcosa a che vedere con il tuo allontanamento?—
—Sì... ma non è di questo che ti devo parlare.—
Lo sguardo del mago si abbassò, e si perse nei ricordi, forse dolorosi, di una lontana gioventù ricca di
esperienze. Vàlen era impaziente di conoscere il segreto di Séndovan, ma non osava interromperlo, anche
se la pausa si faceva sempre più lunga. Finalmente, il Maestro parlò.
—Hai notato come la nostra mente si allarga quando lanciamo un incantesimo?—
—...Certamente...—
—Allora ti sei anche accorto di poter toccare gli oggetti con la mente, di poterli addirittura sfiorare, di
poter entrare dentro altre cose, di poter vedere con gli occhi di un gatto, di una pietra, di un fiore...—
—...È un effetto collaterale della potenza della magia...— disse timidamente Vàlen, ma il Maestro distolse
lo sguardo e sorrise. —È solo quello che vogliono credere coloro che sono venuti prima di noi. In realtà
quella è la nostra vera natura. Noi siamo esseri in grado di manipolare la stessa essenza dell’universo.—
—Temo di non seguirti ancora...—
—Ascolta: esiste un luogo nel quale tutto il tempo e tutto lo spazio convergono. Ogni cosa, dal più piccolo
granello di sabbia alla più grande montagna, ogni vita esiste in questo punto immenso, ogni essere che è
stato, è e sarà esiste in quel luogo. Quel luogo è il SénTum.—
Vàlen non riusciva a liberarsi della spiacevole sensazione che Séndovan stesse vaneggiando. Un punto che
contiene tutto l’universo?
—Ogni volta che usi la magia, in realtà la tua mente attraversa il SénTum. Vedi, la nostra vera natura è nel
SénTum; questo corpo di carne ci nasconde la nostra vera natura di esseri eterni, che vivono in ogni luogo
ed in ogni tempo. È come se il corpo fisico fosse una finestra sull’universo che a noi sembra reale, ma è
solo un’illusione, una finzione, un modo per esistere nel SénTum. Una volta che si arriva a percepire
l’immensità eterna, la nostra anima si libera dall’oblio, rinasce; come un bruco che non sa cosa possa essere
una farfalla, la nostra vita misera cessa e si trasforma in qualcosa di diverso, che i maghi possono
intravedere quando “usano la magia”. In realtà non usiamo niente, Vàlen; in realtà quelli che crediamo
essere “incantesimi” sono solo le nostre capacità naturali, che trovano modo di riemergere in questa vita
che acceca la nostra vera entità.—
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—Maestro... temo di non capire...—
—Non si può capire. Se si potesse spiegare con le parole, se si potesse capire sentendo il racconto degli
altri, allora saremmo già tutti risvegliati e coscienti della nostra natura. Bisogna... provare. Seguimi.—
Il grande mago si alzò, seguito dal suo discepolo. Scesero i tortuosi gradini fino alla libreria. La sala che
aveva ospitato gli studi di Vàlen, e poi di Talya, era sempre illuminata a giorno da potenti incantesimi.
Attraversarono i corridoi riempiti di scaffali colmi di libri di ogni dimensione, e giunsero davanti a quella
che sembrava una solida parete di roccia. Eppure, sostando in quel luogo, Vàlen avvertiva una sgradevole
sensazione. I suoi occhi mostravano la pietra, ma... per qualche motivo, gli sembrava che quel corridoio
non dovesse finire in quel punto. Séndovan parlò: —Questa è pietra.— e bussò sul muro; invitò il ragazzo
a fare altrettanto. Vàlen si sarebbe aspettato per qualche motivo che la sua mano passasse attraverso quella
barriera, ma quando la toccò le sue mani trovarono solo la fredda ed umida pietra. Eppure, la sua mente
gridava che le mani si erano sbagliate.
—Adesso, mio discepolo, faremo un piccolo esperimento.—
—Sono pronto, Maestro.—
—Siediti qui per terra. Trova una posizione comoda... Va bene così. Chiudi gli occhi. Respira
profondamente.—
Vàlen fece come gli era stato detto, e Séndovan attese almeno un paio di minuti prima di continuare.
—Bene. Adesso concentrati sul tuo respiro. Non pensare ad altro... Inspira... Espira. Non pensare.—
Non pensare? Tutto ciò che era necessario fare per essere mago era pensare, pensare tanto forte da
cambiare la realtà. Vàlen non era abituato a non pensare. Come era possibile non pensare?
—Non è difficile.— disse il Maestro, leggendo il suo pensiero. —Prova a concentrarti sul respiro. Pensa al
movimento del tuo petto, pensa al movimento dell’aria nelle tue narici.—
Pensare all’aria? Ma questo è pensare a qualcosa...
—Fidati di me.— Disse Séndovan, sempre avvertendo ciò che il ragazzo aveva pensato.
“Va bene...” si disse Vàlen. “Allora... Inspiro, Espiro... Inspiro... ...” e continuò a concentrarsi sul
movimento del proprio petto, e sulla sensazione di freddo provocata dall’aria che attraversava le sue narici,
la sua trachea, i suoi polmoni. Visualizzò pure il flusso dell’aria... era così facile per lui immaginare scene
visive, faceva parte dei suoi talenti naturali. La cosa andò avanti per alcuni minuti, e Vàlen iniziò a provare
un profondo stato di rilassamento. Quindi Séndovan parlò a bassissima voce.
—Non fermarti. Adesso facciamo un altro passo. Smetti di vedere il respiro. Prova a sentirlo e basta.—
All’inizio non fu facile. Vàlen dovette immaginare il buio, e non il buio scuro che aveva imparato ad
immaginare per l’incantesimo dell’oscurità, ma il buio normale che vedeva dietro ai suoi occhi chiusi. Dopo
alcuni minuti ci riuscì. E dopo altro tempo, Séndovan parlò ancora.
—Adesso dovrai essere più bravo. Non pensare più all’aria che esce. Pensa solo quando entra. Non
pensare mentre espiri...—
"Inspira... vuoto... Inspira vuoto...". Adesso, dopo quasi mezz’ora, non era più così difficile non pensare,
per brevi istanti. Séndovan non parlò a lungo, e dopo molto tempo, Vàlen si accorse che i vuoti tra un
respiro e l’altro si riempivano di sensazioni... pensieri forse, ma non era lui a pensare. Erano cose che
venivano da tutt’intorno. Dopo molto, il maestro disse:
—È il momento. Adesso non pensare più. Lascia che sia il mondo a pensare per te.—
Così fece. Ci volle un po’: ma poi un lampo, ed il mondo entrò nella sua mente come mai era stato
possibile prima. Vide Séndovan, il pavimento su cui sedeva e la parete di pietra che gli era parsa tanto
strana: con la sua nuova vista, si accorse che, infatti, quella parete non esisteva. La attraversò. Si trovò in
un turbine di luci, colori e suoni; riuscì a fermarsi davanti ad un’immagine: era un contadino che stava
dissodando una terra arida, che beveva il suo sudore. Non era più un immagine: era lì. E poi volò sulle ali
di un falco. Era un falco. Era la sua preda, e sentì il dolore degli artigli. E dopo gridò un ordine sul ponte di
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una nave, ed un tuono squarciò il silenzio del mare, mentre il fumo si levava dai cannoni. E poi vide se
stesso, seduto davanti a Séndovan, ma lui non era più lui; era luce, e così il suo Maestro, che era luce
immensa.
Vàlen aprì gli occhi, spaventato e senza parole. —Cosa ho visto? Maestro, cos’è che ho visto?—
—Hai visto altri luoghi, altri tempi, altri te stessi. Perché noi siamo nel SénTum, e nel SénTum tutto il
tempo e lo spazio è uno solo. E poi, prima di spaventarti, hai intravisto la vera natura del SénTum, non più
tempi e spazi, ma luce in un istante eterno. Noi siamo pensieri in un universo di pensieri: questi muri,
questi libri, questi corpi che crediamo di avere, sono solo un immagine dei nostri pensieri. Proprio come
quando immagini l’effetto di un incantesimo, e l’incantesimo accade: così, ancora più fortemente, immagini
il tuo mondo, ed il tuo mondo è.—
—È... fantastico...—
—Figlio mio, stasera hai iniziato la lunga strada del risveglio. Ogni giorno ripeti l’esercizio che ti ho
insegnato stasera, ed esplora il SénTum più a fondo. Quando conoscerai la tua vera natura, non con le
parole ma con la tua anima, sarai cresciuto. Sarai... nato.—
Il Presidente Rayan era appena giunto dove il suo equipaggio lo attendeva. Aveva abbandonato l’uniforme
di alto comandante delle forze armate per indossare una semplicissima tenuta di ordinanza da pilota. La
tuta grigio-metallica risplendeva nella luce diffusa dello spazioporto numero quattro della Quazar. Alzò la
mano destra aperta per salutare i membri della squadra di sbarco che lo avrebbero accompagnato: due
donne, tre uomini, e due alieni. Uno era di razza sauriana, proveniente da Antares, ed avrebbe fornito le
conoscenze indispensabili per maneggiare la navetta antariana e le altre attrezzature non basate sulle
distorsioni.
La squadra era stata selezionata dall’ammiraglio, e i membri erano altamente specializzati nello spionaggio
e nelle azioni di infiltrazione. Del resto lo scopo della missione era quello di intercettare e vanificare
qualsiasi tentativo unionista di impadronirsi della strana conoscenza che avevano acquisito gli abitanti di
Pitermòs sulle distorsioni.
I convenevoli furono brevi, anche se nessuno dei componenti della squadra conosceva personalmente il
Presidente, e nonostante fossero ansiosi di poter parlare con l’uomo che avevano eletto.
Presero posto sulla navetta.
—Molto bene, signori. Portiamo questa vecchia bagnarola fuori di qui.—
La lingua biforcuta del sauriano originario di Antares saettò nervosamente. Il traduttore collegato al suo
apparato vocale disse: —Questa è una navetta di classe Dynavac, il miglior mezzo da sbarco della flotta
Antariana.—
—Appunto,— disse il presidente sorridendo —è una vecchia bagnarola...—
Gli altri sorrisero con lui, tranne il sauriano: gli Antariani non sono famosi per il loro senso dell’umorismo.
—Ancelle a Quazar.— disse il presidente attivando i sistemi di comunicazione. —Chiedo il permesso di
decollare.—
—Permesso accordato sulla pista quarantatré.— rispose la familiare voce femminile dell’addetta alle
comunicazioni, —E ...In bocca al lupo, presidente.—
—Crepi, tenente Retchel.—
L’Ancelle si mosse lentamente sganciandosi dal pontile di attracco, attraverso un ambiente enorme. Dopo
poco, si trovò davanti ad una parete immensa, che scomparve in una nuvola di scintille, scoprendo
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Pitermòs alla vista dell’equipaggio. I motori di spinta principali della nave Antariana si accesero,
scagliando l’Ancelle lontano dalla nave ammiraglia federale.
—Quazar ad Ancelle. Da questo momento entriamo in distorsione.—
—Molto bene, tenente.—
Il cuore pensante della flotta federale, inquadrato nello schermo retrovisore davanti ad Edgard, si
allontanava rapidamente; all’improvviso, la figura della nave si contorse fino ad assumere le sembianze di
un vortice, avvolgendosi e facendosi piccola fino a sparire.
L’ammiraglio ed il direttore del centro scientifico erano in piedi, davanti alla postazione di comando nella
plancia della Quazar, ed osservavano la navicella che diventava pian piano un punto.
Il pianeta, da quando la nave era rientrata in distorsione, aveva assunto di nuovo la sua forma assurda,
eppure l’ammiraglio aveva la sensazione che qualche cosa fosse cambiata... forse...
—Direttore, non le sembra che il pianeta sia diverso?—
—La dimensione della distorsione è aumentata dell’uno punto trentacinque per mille da quando siamo qui.
E continuerà a crescere.—
Basher osservò cupo la punta del mondo che era molto vicina alla sua nave.
In quel momento una voce maschile ruppe il silenzio della sala.
—Ammiraglio: i sensori a lungo raggio hanno captato un campo iperspaziale molto vasto.—
Il militare guardò allarmato lo scienziato, che gli restituì la stessa espressione. Pochi istanti dopo, sullo
schermo, comparve dal nulla la prima nave dell’Unione Intergalattica. Sembrava una specie di enorme
cassa toracica di un qualche rettile ormai estinto. In rapida sequenza, apparvero altre navi di dimensioni
sempre maggiori.
L’ammiraglio saettò verso la propria postazione, attivando l’allarme rosso; Quazar era al sicuro nel suo
spazio impenetrabile, ma il Presidente era là fuori.
L’ammiraglio Basher chiamò negli spazioporti tutti i piloti, quindi diede ordine di uscire dalla distorsione
per far decollare gli intercettori. Nel mentre, le navi unioniste avevano fatto altrettanto.
—Abbiamo compagnia, Presidente.— Chiamò il capitano Vandal.
—Dove? Chi?—
—Navi unioniste, classe da beta a delta, proprio a ore nove.—
Edgard non si curò neanche di attivare il rilevatore per individuare il nemico: gli bastò sporgersi un attimo
dalla sua postazione per vedere le enormi navi sulla sinistra dell’Ancelle. Erano come scheletri spettrali. Un
piccolo luccichio vicino alla punta delle navi più grandi indicava che gli unionisti avevano inviato i loro
caccia.
—Cerchiamo di raggiungere la superficie del pianeta prima possibile. Quanto ci vorrà, Xis?—
—Ancora venti minuti.— rispose l’Antariano.
—Occhio e croce i caccia unionisti ci raggiungeranno prima.—
—Il contatto avverà tra sedici minuti e venti secondi.—
Anche se la disciplina manteneva saldo l’equipaggio, la tensione era altissima.
—Quazar ad Ancelle.— disse la voce del tenente Retcel che usciva dal comunicatore. —Siamo usciti dalla
distorsione. Rientrate immediatamente, Presidente.—
—Non ci penso neanche.—
Dopo una breve pausa la voce dell’ammiraglio irruppe dal comunicatore.
—Che diavolo ti prende Edgard! Torna subito indietro!—
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—No, ammiraglio. Se non scendiamo adesso sul pianeta saremo costretti a rintanarci nella distorsione, e
gli unionisti avranno campo libero. Allontanatevi e chiamate rinforzi, ammiraglio. È un ordine.—
—Non fare sciocchezze, non ce la farai mai. Ti faranno a pezzi!—
—Ancelle chiude.— Così dicendo il presidente chiuse la comunicazione.
—Qualcuno vuole essere teletrasportato indietro prima che entriamo nel campo di distorsione?— chiese
poi. Nessuno rispose.
—Molto bene, allora prepariamoci a combattere. Xis, come siamo messi?—
—La navetta è pesantemente armata; abbiamo probabilità totale di vittoria contro tre intercettori
unionisti. —
Il presidente pensò amaramente che se avessero avuto a disposizione un caccia di classe "nova" della flotta
Siriana, la vittoria sarebbe stata certa con una disparità di forze di sei a uno...
—Non me ne vado, dannazione— disse l’ammiraglio imprecando. Quindi sintonizzò il comunicatore in
modo da impartire gli ordini alle squadriglie di caccia.
—Quazar a pattuglie Nova. Nova “A”: scortate l’Ancelle fino al limite del campo distorsivo, quindi cercate
di impedire il passaggio agli unionisiti. Dobbiamo dare al presidente il tempo di atterrare. Tutte le altre
attacchino gli intercettori unionisti.—
Una serie di voci comunicarono all’ammiraglio di aver ricevuto gli ordini. Questi osservò i punti luminosi
disegnati nell’aria davanti a lui per alcuni secondi; le Nova della pattuglia “A” si erano ormai affiancate alla
lenta navetta Antariana, e le altre erano molto vicine alle navi unioniste, ormai a contatto di fuoco con gli
intercettori alieni. Alcune squadriglie di intercettori nemici erano però lontani dal combattimento, e si
dirigevano rapidamente verso l’Ancelle e la sua scorta. Ma adesso non c’era più tempo di stare a guardare;
l’ammiraglio doveva combattere la sua battaglia.
—Tenente Retchel, invii una richiesta di rinforzi al comando di flotta. Kaar, inserisca l’assetto di
combattimento.—
Quazar si stava trasformando; placche di solido metallo comparivano davanti ai cristalli polarizzati di tutta
la nave; pesanti portelli venivano calati nei corridoi e nelle stanze, mentre l’equipaggio correva nelle
postazioni di controllo degli armamenti. Alla fine, una specie di bolla comparve attorno alla gigantesca
nave, ma si trattava solo di un’illusione ottica: anche la luce del lontano sole di Pitermòs veniva deviata
dagli impenetrabili scudi a distorsione della Quazar.
La giovane voce femminile del tenente Retchel risuonò nell’ambiente: — Hanno bloccato le nostre
trasmissioni signore. Siamo isolati.—
L’ammiraglio pensò amaramente che la cosa non lo sorprendeva.
Un’avanguardia formata da una decina di piccole navi unioniste si mosse in direzione della Quazar,
assumendo la caratteristica formazione a "tela di ragno", così cara agli alieni. Presto lo spazio vuoto tra il
corpo principale delle navi e quelle che sembravano come delle "costole" di un’animale immenso iniziò ad
illuminarsi di un chiarore giallastro. Le costole vennero avvolte da scariche elettriche bluastre, ed
improvvisamente, da quelle voragini di luce gialla partì il primo raggio. Il fascio fu riflesso dagli scudi della
Quazar come se avesse incontrato uno specchio, ma al primo attacco seguirono altri lampi di luce
provenienti dalle altre navi.
A bordo della Quazar si poteva avvertire l’impatto delle scariche sugli scudi, e l’ammiraglio osservava
l’energia dei generatori che diminuiva un poco ad ogni colpo. Una voce maschile che proveniva dall’aria
chiese: —Ammiraglio... attendiamo un suo ordine...—
—Non ancora, Romanov. Ancora un po’ più vicini...—
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L’attesa sembrava eterna, ma il raggio di fuoco delle navi unioniste era maggiore di quello della Quazar.
Dovevano aspettare che i nemici si avvicinassero abbastanza da non poter fuggire quando la nave avesse
aperto l’inferno su di loro. Ancora un po’... ancora più vicino... L’impatto di un altro colpo fece tremare il
pavimento della sala comandi. Ecco, ci siamo quasi...
—Adesso, Romanov!—
La bolla trasparente attorno alla Quazar divenne rapidamente rosso— sangue, poi gialla e subito bianca.
Undici raggi sgorgarono dalla sua superfice colpendo tutte le navi unioniste contemporaneamente; l’istante
segnò la fine dell’avanguardia nemica: tutte quante insieme, le navi si polverizzarono nello spazio.
A bordo dell’Ancelle, il Presidente poteva vedere in faccia i piloti dei caccia di classe Nova che li avevano
già raggiunti. Imprecò sottovoce “maledetto zuccone...” pensando al suo amico, che aveva messo a
repentaglio la vita di tutta quella gente solo per dare una speranza di sopravvivenza alla navetta.
Gli intercettori unionisti non si fecero attendere troppo. Dei sei caccia di scorta, tre virarono per accogliere
la prima ondata, costituita da circa una ventina di nemici. La lotta era quasi pari; i piloti federali erano
molto più abili di quelli unionisti, ed i caccia nova erano assai superiori a quelli avversari. Il primo caccia
nova entrò nel cuore del gruppo nemico, eseguendo una manovra evasiva chiamata "il cavatappi", per la
forma a spirale che disegnava la navetta, pur mantenendo la stessa direzione. Nessuno dei caccia unionisti
riuscì a colpire l’abile capitano federale. La seconda navetta si portò dietro alle linee nemiche, usando il
propulsore a distorsione per ruotare intorno al gruppo avversario, mentre la terza faceva da "lepre",
attendendo i nemici. Quando la loro attenzione si fu focalizzata sulla lepre, il comandante iniziò a colpire
uno dietro l’altro i caccia unionisti dal centro della loro formazione, mentre la nova inseguitrice faceva
altrettanto con la retroguardia nemica.
—Nova A3 a Nova A1. Sono in troppi comandante, non riesco ad evadere.—
—Prova con una manovra a gancio.—
—Nova A2 a Nova A1. Qui dietro si sono accorti che ci sono anch’io.—
—Calma, Nova A2, vengo a darti una mano.—
—Capitano, non riesco a sganciarmi!—
—Devia sulla destra, Nova A3, sulla destra!—
—Capit...—
—Dannazione. Nova A4, Nova A5. Abbiamo bisogno di aiuto, Presto.—
Due caccia si sganciarono dalla scorta dell’Ancelle per andare ad aiutare i loro compagni.
—Ancelle a Nova A1. State attenti, arriva una seconda ondata, contatto tra sessantatré secondi.—
—Roger. Nova A1 a Quazar, siamo in pochi, abbiamo bisogno di aiuto!—
—Qui Nova B1, cerchiamo di sganciarci e di venire a darvi una mano, Nova A1.—
—Roger, ma presto, per Dio, presto!—
Il capitano puntò un missile a ricerca su di un nemico, inseguendo poi un secondo intercettore ed
abbattendolo. Il caccia A2, che aveva assaltato la retroguardia era inseguito da tre unionisti, ma con una
manovra a vite seguita da un gancio si portò dietro ai nemici, abbattendone uno ed entrando nella scia di
un altro. Intanto, la seconda pattuglia Nova aveva assaltato il gruppo di intercettori che stava
sopraggiungendo, e lo scontro era furibondo.
—Nova A1 a Nova A6; state attenti, hanno capito tutto e stanno cercando di sganciarsi per venire da
voi. —
—Roger, capitano. Sono pronto. Presidente, non potete andare più forte di così?—
—No, Nova A6, questo è il massimo.—
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—Roger. Tra un minuto e venti secondi entrerete nel campo distorsivo, e sarete soli.—
—Cercate di coprirci, tenente.—
—Ci proveremo. Arrivano, signore; vado a dar loro il benvenuto.—
Sette intercettori unionisti erano riusciti a passare, anche se i Nova stavano abbattendo i loro compagni.
L’ultimo caccia Nova che scortava l’Ancelle si sganciò, virando con grazia, e lanciò due missili a ricerca
automatica prima di arrivare a contatto col nemico, abbattendo altrettanti intercettori unionisti; quindi
ingaggiò una lotta difficile, anche se non impossibile, con i cinque rimasti.
—Presidente,— disse Xis, — stiamo entrando nel campo distorsivo del pianeta.—
—Bene.— rispose piano Edgard. —Da adesso siamo soli.—
—Nova A1 ad Ancelle. Non riusciamo a tenerli tutti, signore, arrivano da tutte le parti.—
—Ancelle a Nova A1. Non mettete a repentaglio le vostre vite, se si mette male, tornate indietro.—
—Roger, signore.—
—Nova A6 ad Ancelle. Mi sono liberato della compagnia, ma vicino a voi vedo arrivare altri intercettori.
Mi getto all’inseguimento.—
—Negativo, Nova A6. Siamo già nel campo distorsivo, non potete venire quaggiù.—
—Ormai sono a contatto, vengo ad aiutarvi, Presidente.—
—Torna indietro, è un ordine!—
Il caccia federale sembrò come impazzito. I delicati computer che avevano circuiti basati su piccolissime
distorsioni persero i loro dati, e la loro struttura funzionale; il caccia Nova disegnò alcuni cerchi nell’aria
sottile dell’atmosfera esterna, e la radio trasmise il lunghissimo urlo del suo pilota. Improvvisamente, il
caccia esplose riversando l’energia contenuta nei suoi accumulatori nello spazio.
Xis, che da buon sauriano era rimasto impassibile, disse: —Siamo inseguiti a distanza ravvicinata, signor
Presidente. Cinque caccia unionisti a ore sei.—
—Attivate i cannoni di coda, cerchiamo di tenerli lontani. Vandal, vada ad occuparsene...—
Un raggio di luce colpì lo scafo della navetta, facendo sobbalzare il suo equipaggio.
—Gli scudi non reggeranno a lungo, Presidente.— avvertì Xis.
—Lo so, dannazione... deviate l’energia dal circuito di gravità e da quello di sostentamento vita agli scudi.
—
Un ronzio ed un fremito nello scafo segnalò che gli scudi erano stati rinforzati.
—Manca poco...— disse fra se e se il Presidente, mentre cercava di compiere delle manovre che
mettessero fuori tiro l’Ancelle.
Sulla Quazar, l’ammiraglio seguiva la discesa della navetta antariana sul pianeta, ed osservava i suoi
inseguitori nell’ologramma proiettato dai sensori a medio raggio, ma l’immagine era disturbata dal campo
distorsivo. Era molto più di aiuto il sistema di comunicazione, che inviava le voci dell’equipaggio
dell’Ancelle.
—Un altro colpo così ed andiamo al creatore...—
—Vandal, cosa state facendo con quei cannoni?—
—Ne ho preso uno! Ne ho...—
—Signore, hanno colpito la torretta... Vandal è...—
—Quanto manca?—
—Trentasei secondi...—
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—Dirigi verso quelle montagne...—
—Dannazione, hanno colpito gli stabilizzatori.—
—Tira su il muso, Tira su il muso!—
—Perdiamo energia dai motori!—
—Rallenta, Rallenta!—
Silenzio...
La voce di Retcel si inserì nella comunicazione: —Quazar ad Ancelle. Quazar ad Ancelle, rispondete.
Presidente...— Quindi Retchel chiuse il canale ed inserì il collegamento con la postazione dell’ammiraglio.
—Ammiraglio... Abbiamo perso contatto con l’Ancelle.— La sua voce era tesa, anche se la disciplina la
costringeva a mantenere la calma. Ma silenziosamente, dagli occhi a mandorla della graziosa ragazza,
scesero due lacrime che caddero sugli strumenti, ed altre due ancora.
Basher era rimasto ammutolito, ed accanto a lui, Danis aveva la stessa espressione. Schiarendosi la voce, il
militare attivò la comunicazione e ordinò: —Qui è l’Ammiraglio Basher. A tutte le pattuglie Nova: rientro
immediato.—
I caccia Nova erano molto più veloci degli intercettori unionisti, e fuggire non sarebbe stato un problema,
ma per permettere il loro rientro, Quazar avrebbe dovuto abbassare gli scudi distorsivi. E la flotta unionista
non attendeva altro.
Il grosso delle navi iniziò a muoversi verso la Quazar, facendo rientrare nel frattempo i propri intercettori.
Per fortuna i velocissimi Nova erano in posizione di atterraggio molto prima che la Quazar fosse a tiro
degli unionisti. La bolla scomparve, ed i Nova superstiti rientrarono velocemente nell’enorme spazioporto.
Dopo neanche quindici secondi, gli scudi vennero alzati nuovamente, lasciando a bocca asciutta le
corazzate nemiche.
—Molto bene.— disse l’ammiraglio. —Ed ora schiacciamo questi scarafaggi...— Stava per ordinare di
muoversi verso il nemico ed aprire il fuoco a volontà, quando una voce dalla sala di comando avvisò —
Ammiraglio, un altro varco iperspaziale è stato aperto.—
Sullo schermo comparvero altre navi, molte, e tutte grandi. Certo non come la Quazar, ma grandi. Quelle
più pesanti e più lente arrivavano alcuni secondi dopo le altre; arrivarono gli incrociatori, armati di lunghi
tubi che ricordavano la pelle degli insetti durante la metamorfosi, dai quali potevano essere lanciati ordigni
letali. Arrivarono le corazzate, che invece di avere un solo cannone ne avevano tre, montati tutti intorno al
corpo centrale. Per ultima, arrivò una nave gigantesca, che sembrava un’orribile accozzaglia di ossa
bizzarre; pareva che le gabbie toraciche di sei mostri fossero state legate insieme, in modo da formare una
struttura a forma di esagono. Ed era grande come la Quazar.
—Stirix...— sibilò sottovoce Basher. Quella era la nave ammiraglia della flotta unionista.
La Stirix ruotò lentamente su se stessa, fino a fronteggiare la punta della Quazar. Nelle cavità tra le
"costole" dei sei cannoni comparve una minacciosa luce giallastra; era troppo lontana per colpire, ma
sembrava che Stirix volesse sfidare Quazar ad avvicinarsi; in uno scontro testa a testa, la nave unionista
non avrebbe avuto speranza, ma Stirix non era sola...
L’ufficiale di rotta della nave federale fece risuonare la propria voce nella sala di comando. —Programmo
una rotta verso la base stellare sei?—
—No... Entriamo in distorsione.—
Nella plancia corse un brivido di indecisione, mentre, dalle loro postazioni, gli uomini e le donne si
guardavano confusi.
—Entriamo in distorsione; il Presidente potrebbe essere ancora vivo.—
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Immediatamente, il suo ordine fu eseguito; Quazar scomparve davanti agli occhi ed ai sensori degli
unionisti, diventando un vortice che si contraeva velocemente fino ad assumere le dimensioni di un punto,
per poi sparire.
Ancora una volta, il pianeta assunse la sua assurda forma piena di punte smisurate.
Il Direttore del centro scientifico, che fino ad allora era rimasto in silenzio, si avvicinò all’ammiraglio.
—Credi davvero che sia ancora vivo, Basher?—
—Non lo so, Danis. Non lo so... però non possiamo andarcene e lasciare campo libero ai Krix.—
—Allora è questo il vero motivo...—
L’ammiraglio non rispose.
Le navi unioniste si avvicinarono al punto nel quale la Quazar era sparita, e si disposero intorno ad esso.
Sapevano che la nave federale sarebbe dovuta prima o poi riemergere dal suo spazio protetto proprio in
quel punto. L’ammiraglio ebbe per la prima volta in vita sua la sensazione di essere un topo invitato in una
pensione per gatti... e non era piacevole.
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Capitolo 9
Fra quelle statue di pietra che raffiguravano demoni appollaiati, Taldìt assiso sul trono scavato nella roccia
sembrava solo uno di loro. Guardava lontano, dove solo i suoi occhi divini, o demoniaci, potevano vedere.
Scrutava oltre le pareti grigie e rozze della tetra sala del trono, avvolta nella montagna, oltre le nuvole,
oltre la luce del sole.
Le sottili labbra del demone si tesero, lasciando intravedere le corte zanne bianche. Taldìt non sorrideva da
quasi diecimila anni, e con tutta la sua essenza desiderò che nessuno entrasse a disturbarlo in quel
momento; voleva assaporare l’emozione fino in fondo.
I suoi Creatori erano tornati.
Non era felice per questo; era solo che le probabilità di riuscita del suo piano erano cambiate, un poco, in
meglio. E poi, per una volta, sarebbe stato divertente essere più forte dei Creatori...
Edgard aprì gli occhi. Non che ne fosse sicuro, ma gli pareva decisamente di vedere, e di sentire il proprio
corpo. Come era possibile? L’ultima cosa che ricordava era la terra che si avvicinava minacciosa, e poi
l’impatto. La schiena si era spezzata, ne era sicuro: aveva sentito il dolore, ed il rumore che proveniva da
dentro il suo corpo. E la luce, il calore, il fuoco che entrava nei suoi polmoni. Era morto.
Eppure, aprì gli occhi.
Una femmina dai capelli biondi, di corporatura minuta era sopra di lui, e scattò all’indietro terrorizzata da
quel piccolo movimento.
Il primo suono che gli giunse fu una voce baritonale, dal tono tuttavia tagliente.
—Non muoverti. Non so chi tu sia, ma sono sicuro che qualsiasi cosa tu faccia, io sarò molto più veloce di
te...—
Edgard non capì una parola. Tuttavia, girò la testa verso quella voce, e seduto al suo fianco vide un uomo
corpulento che impugnava una pesante spada e lo guardava con calma, come per studiarlo a fondo. Di
colpo, il senso delle parole sconosciute gli fu chiaro.
La ragazza bionda chiamò qualcuno, e si alzò, allontanandosi in fretta.
Edgard era sdraiato. Si guardò le mani; non era legato, poteva muoversi liberamente, tuttavia si sentiva
troppo intorpidito per tentare. Provò anche a muovere la punta dei piedi, e con suo grande sollievo, si
accorse che ci riusciva, anche se a fatica. Rigettò la testa all’indietro, esausto per averla tenuta sollevata
tanto a lungo. Guardò in alto: sopra di lui c’erano enormi alberi, forse querce, ma non poteva esserne
sicuro; non ne aveva mai vista una vera. La sua mente si rese conto che il proprio corpo era appoggiato su
un tessuto morbido, ma sotto di esso c’era terra, forse terriccio.
Dov’era? Cosa ci faceva lì? Cercava di ricordare, ma ancora le idee ed i pensieri scivolavano come su un
fiume ghiacciato. Una nave. Erano inseguiti, ed erano stati colpiti. Perché?
Il nemico... un orribile ragno gigante. Edgard, Torna indietro!. Ancelle chiude.
Vàlen ed Hellis erano poco distanti, quando lo straniero si era svegliato, e Talya era corsa a chiamarli.
Erano partiti di buon’ora dalla torre di Séndovan; non avevano nemmeno fatto colazione, nonostante le
insistenze di Seldén e di Jorlén. Erano andati in direzione del Lago Bianco, o Bandasét come lo
chiamavano gli Elfi; dopo una breve discussione, erano giunti alla conclusione che Dàrini si nascondesse
fra i monti che separavano SàiVòd e Lùnasit, una città elfa sulle rive del lago, quindi quella sarebbe stata
una buona base di partenza per le ricerche. Inoltre, avrebbero trovato una guarnigione elfa disposta a
scortarli, ed a aiutarli se ci fosse stato pericolo.
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Quanto al rischio che Dàrini tentasse di usare nuovamente la sua arma, Pérevit era certo che questo non
fosse possibile. Già invocare spiriti tanto potenti a distanza di un solo giorno era stato rischioso; secondo
il barone, Darini avrebbe dovuto attendere ora almeno un mese prima di agire. Ma per sicurezza, avrebbe
anche usato un amuleto che impediva a qualsiasi familiare di rilevarli; in questo modo, avrebbero evitato di
indicare al nemico un nuovo bersaglio.
Verso la fine della mattinata, avevano pensato di fermarsi per il pranzo. Proprio allora, una scia nel cielo,
seguita da un forte boato aveva attirato la loro attenzione. Cosa poteva essere stato? Erano corsi a vedere;
molti alberi erano morti, spazzati come dalla mano di un gigante o dalle zampe di un drago; ma non
avevano trovato il solito cratere, bensì una specie di grande cassa di metallo sfasciata. I rottami erano
tutt’intorno, e fra di essi, avevano trovato lo straniero; un bell’uomo di circa trent’anni, dai capelli biondi
tagliati corti ed i baffi ben curati. Aveva addosso uno strano vestito, lucido e liscio come un’armatura, ma
morbido come pelle di camoscio. Hellis lo aveva soccorso, e si era reso conto che quell’uomo era ancora
vivo, e che poteva essere mosso senza pericolo. Si erano quindi accampati.
Hellis e Vàlen, con Talya dietro a loro, erano adesso accanto allo straniero, che aveva chiuso gli occhi
nuovamente, anche se era sveglio. La luce doveva ferirlo.
—Chi sei?— chiese semplicemente il mago.
Edgard alzò le palpebre, e cercò la fonte di quel nuovo suono. Le forze cominciavano lentamente a
tornare, e tentò di sollevare il petto per vedere meglio, ma la lama del guerriero si fermò davanti al suo
volto. Brillava di una luce azzurrina che al presidente sembrò più minacciosa della spada stessa.
Vàlen sollevò la mano, dicendo —Tienilo d’occhio, ma lascia che si alzi.—
Senza distogliere lo sguardo, Tòret allontanò un poco la spada dalla gola dello straniero.
Edgard si sedette, anche se dovette impiegare una certa forza di volontà.
—Io... dov’è la mia nave?—
Vàlen aveva già sentito quei suoni, eppure la frase, per lui, era totalmente priva di senso. Hellis, invece,
aveva capito, e rispose alla domanda; le parole erano stentate, come di una persona che parla per la prima
volta una lingua nuova.
—Parli una lingua molto antica, straniero.—
—Antica?—
—Qual è il tuo nome?—
Io sono il Presidente Edgard Rayan, delle Federazioni Siriane avrebbe voluto rispondere, come era
abituato a fare. Poi si fermò. Nessuna delle persone che aveva davanti avrebbe capito cosa quelle parole
significassero.
—Mi chiamo Edgard Rayan.—
Senza sapere perché, Hellis provò un brivido lungo la spina dorsale, e con lui gli altri tre; il nome dello
straniero era l’unica cosa che avevano capito chiaramente.
Nel frattempo, giunsero Trellin e Ròndal, che avevano appena ultimato un giro di perlustrazione. Edgard
parlò di nuovo, rivolto al sacerdote.
—La prego, mi dica dov’è la mia nave.—
—La nave? Non capisco... non c’era nessuna nave dove vi abbiamo trovato.—
—Non è una nave... è...— Edgard lottò per trovare le parole — ... una scatola di metallo.—
—Ho capito... è poco distante da qui.— Hellis pensò che fosse meglio tacere che, qualsiasi cosa fosse
stata, adesso quella scatola di metallo era distrutta.
—Ed il mio equipaggio?— Hellis scosse la testa, facendo segno di non aver capito.
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—Altri uomini vestiti come me. Ne avete trovati?—
Non ne avevano trovati; ma chiunque fosse quella persona, e qualsiasi cosa gli fosse accaduta, era ancora
visibilmente sotto shock, e non aveva bisogno di ulteriori preoccupazioni.
—Adesso, riposatevi, Edgard Rayan. La vostra salute in questo momento è precaria.—
—Ho chiesto dov’è il mio equipaggio.— disse sibilante e carico di odio lo straniero. Talya non capì le
parole, ma comprese perfettamente il dolore che era celato dietro di esse. Si portò davanti a Vàlen ed
Hellis, e si avvicinò alla figura seduta. Suo padre stava per muoversi; voleva bloccarla, ma Talya lo fulminò
con uno sguardo. Quindi, si inginocchiò su Edgard, e parlò con calma.
—Straniero, devi assolutamente riposarti.— Quindi posò delicatamente una mano sulla sua spalla. Edgard
non aveva capito le parole, ma il tono era chiarissimo. Adesso poteva vederla da vicino: una ragazza dalla
bellezza veramente notevole, ma non era questo a colpirlo: aveva gli occhi piccoli e tagliati a mandorla, e
le orecchie appuntite.
—Ma tu sei un’Elfa!—
Ma la ragazza non rispose e spinse con delicatezza Edgard, fino a che questi si coricò. Quindi pronunciò
una parola, e la luce della magia l’avvolse.
Per un brevissimo istante, il presidente fu colto dal panico. L’aria intorno a lui risuonava e la sua pelle
rabbrividiva. Ma la sensazione era molto più che fisica; qualcosa lo aveva toccato e sconvolto nell’intimo,
ma non ebbe il tempo di capire davvero cosa fosse stato. Un oblio senza sogni cadde su di lui.
—Cosa ti ha detto?— chiese Vàlen ad Hellis. Tutti si girarono verso di lui.
—Mi ha detto che voleva vedere la sua nave... Chiama così quel sarcofago là dietro. Poi mi ha chiesto se
abbiamo trovato altri uomini, oltre a lui...—
—Ma come fai a capire quello che dice?—
—Parla la Lingua Antica, Vàlen.—
La Lingua Antica... Le ultime testimonianze risalivano a seimila anni prima, un tempo lontano anche per gli
dei come ShtàrRésel. Da quei tempi remoti, la lingua di Pitermòs si era evoluta notevolmente; solo alcuni
sacerdoti la studiavano ancora per tradurre gli antichi testi; era per questo che Hellis la conosceva.
Il gruppo pranzò di lì a poco. Tòret, prima di servirsi, aveva nutrito il suo lupacchiotto con del latte che gli
aveva dato Seldèn. Latte nella bisaccia di un guerriero!
In qualche modo, Talya era invidiosa dell’affetto che quell’animale già provava per l’umano. Le sarebbe
sembrato più giusto che una creatura della foresta seguisse un’altra creatura della foresta, come un elfo (o
un’elfa) ad esempio... Ma il cucciolo sembrava non preoccuparsene più di tanto.
L’incantesimo che Talya aveva gettato su Edgard sarebbe durato ancora per qualche ora, e nel frattempo,
avrebbero avuto la possibilità di discutere.
—Ha detto di chiamarsi Edgard Rayan...— rifletteva Hellis, rivolto sia a se stesso che agli altri.
Ròndal replicò —Eppure anche a me questo nome non suona sconosciuto. Ma non riesco a ricordare
dove...—
—Famoso o non famoso, resta il problema di cosa farne.— intervenne Vàlen.
—Non possiamo portarlo con noi.— disse calmo Trellin. —E non possiamo neanche lasciarlo a Lunasìt. È
un umano...—
—Capisco... Potremmo tornare indietro e lasciarlo alla torre. Ci saremo prima di sera.—
—E rimanderemmo di un altro giorno la missione...—
—Non possiamo certo lasciarlo qui.—
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Trellin tacque, e con lui tutti gli altri. Le persone sono facilmente affascinate dai misteri, ma quando vi si
trovano davanti, cambiano spesso idea. Improvvisamente, il mistero è l’ultima cosa davanti alla quale
vorrebbero trovarsi. E loro erano di fronte ad un mistero vivente.
Il lupacchiotto si raggomitolò per trovare una posizione più comoda tra le braccia di Trott, ed il grande
guerriero lo osservò con calma. Quindi guardò lo straniero per qualche istante, ed alla fine ruppe il
silenzio.
—Non lo lasceremo qui. Verrà con noi.—
La presa di decisione di Tòret stupì tutti, anche Vàlen. Mai prima di allora il guerriero si era mostrato
autoritario. Trellin guardò l’umano con astio. — Come...?—
—Come oso, Trellin?— Trott sollevò le braccia, alzando il cucciolo in modo che il principe lo potesse
vedere bene. Poi lo posò in terra, delicatamente. Il lupacchiotto, sentendosi privato del calore e della
protezione fornitagli dall’uomo piagnucolò e si guardò in giro; i suoi occhi incrociarono quelli dell’elfo.
Tòret disse secco: —Lasceremo il cucciolo qui. Va bene?—
Talya stava per gettarsi sulla piccola creatura e gridare che l’umano era un mostro insensibile... ma mentre
iniziava a tendere i muscoli per alzarsi, si fermò. Era esattamente quello che suo padre avrebbe voluto fare,
e lo sguardo smarrito di quello straniero, d’improvviso, non le sembrò così diverso da quello del cucciolo
che aveva di fronte.
Anche Trellin capì, ed improvvisamente la sua espressione mutò e divenne come quella di un bambino che
si accorge di aver fatto del male per gioco, senza volerlo. Tòret raccolse il lupacchiotto, che si rannicchiò
felice tra le sue braccia.
—Hai ragione, Trott...— ammise l’elfo.
Trellin si alzò e si allontanò un poco, seguito da Hellis; per esperienza, il sacerdote sentiva che il principe
avrebbe avuto presto bisogno di qualcuno con cui parlare.
Vàlen si alzò per poi sedersi a fianco del guerriero, e gli sorrise. Quindi continuò: —Non avrei saputo fare
meglio.— Il volto barbuto di Tòret si aprì in un sorriso di sole verso l’amico.
—Posso accarezzarlo?— chiese il mago.
—Certo!—
Vàlen mosse timidamente la mano verso la creaturina, e la lisciò piano. Questa, se possibile, si assestò
ancora meglio per poter godere del rinnovato calore e della carezza.
—Come lo hai chiamato?—
—Non gli ho ancora dato un nome. E poi non penso che ne abbia bisogno.—
—Tutti ne abbiamo bisogno. Perché non lo chiami Belém.—
—Belém... Ha un bel suono... Ti piace Belém?— Chiese Trott al cucciolo, che alzò la testa sbadigliando,
per guardare il suo protettore.
—Allora è deciso: ti chiamerai Belém—
Talya osservò tutta la scena, insieme a Pérevit, ma mentre lui sorrideva, l’elfa era scura in volto. Per
qualche motivo, le pareva le fosse stato usurpato qualcosa, che qualcuno le avesse fatto una mancanza.
Forse il cucciolo, che si era fatto mettere un nome tanto stupido da uno stupido mago umano? O forse era
per suo padre?
Edgard si svegliò nuovamente, e questa volta gli parve di aver dormito una nottata intera. La sua mente era
fresca e riposata, e si accorse che anche i suoi muscoli non erano più intorpiditi come prima. Iniziò a
ricordare; la prima cosa che gli venne in mente fu la ragazza elfa, e quella sensazione che aveva provato
prima di addormentarsi. Rabbrividì.
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Si guardò intorno. Accanto a lui c’era quella specie di montagna umana che gli aveva detto qualcosa
quando si era svegliato, ma stavolta il massiccio uomo barbuto gli sorrise. Edgard ricambiò debolmente la
sua espressione.
Si mise seduto. Alla sua destra, invece, c’era l’uomo di mezza età con il quale aveva parlato, ed anch’egli
gli sorrise. La sua mente riportò alla luce una frase sbiadita: Gli indigeni sono primitivi e probabilmente
aggressivi... Non gli era parso così.
—Prima le ho fatto una domanda alla quale non ha risposto, signor...?—
Hellis sobbalzò. Signore? Era un termine usato per gli dei...
—Mi chiamo Hellis Bonnìt, e questi è Tòret Vàrgas.— Edgard chinò il capo per salutare il guerriero.
—Allora, che fine ha fatto il mio equipaggio? E la mia nave?—
Hellis si fece serio. —Siete in grado di camminare Edgard Rayan?—
—Sì...—
—Allora,— disse il sacerdote alzandosi, —venite con noi.—
Fece quindi un cenno a Tòret, e parlando nella propria lingua disse: —Vuole vedere dove lo abbiamo
trovato. Vieni?—
—Certo!—
Hellis gridò a Vàlen che avrebbero accompagnato lo straniero.
Edgard notò che il guerriero teneva in mano un piccolo animale, una specie di palla di pelo bianca, che
sonnecchiava appoggiata al suo corpo.
La passeggiata non fu lunga, e durante il tragitto nessuno parlò.
Lo spiazzo si aprì improvvisamente davanti a loro. Il relitto dell’Ancelle era sbattuto contro una fila di
alberi, che ne avevano frenato la corsa. In fondo, Edgard se lo aspettava. Camminò in direzione del relitto,
e girò intorno alla grande carcassa. Enormi squarci si aprivano verso l’interno, ed il presidente entrò da
uno di essi, seguito dai due indigeni. Si trovarono di fronte alla porta della sala comando, ancora al suo
posto ma quasi scardinata. Con un violento calcio, Edgard finì il lavoro. Una ragazza, il tenente Anderson,
guardava dalla sua postazione il presidente, con gli occhi vitrei, immobile. Una scheggia di ferro le aveva
perforato il petto inchiodandola alla poltroncina.
Edgard sbiancò, ed Hellis, dietro di lui, lo sostenne.
—Erano i vostri compagni?— chiese, ed il presidente annuì debolmente.
Anche gli altri erano morti, ognuno al proprio posto. Il sauro Xis, con la pelle dura come il cuoio, era
immobile, il corpo piegato in una posizione innaturale ed il cranio fracassato. Tòret ed Hellis spalancarono
gli occhi nel vedere la creatura morta; assomigliava terribilmente all’uomo lucertola gigantesco che
avevano affrontato qualche sera prima. Il presidente si avvicinò al corpo dell’Antariano, e lo sollevò,
lasciandolo in posizione seduta, quindi prese le sue braccia e le appoggiò sulla console. Rimase a guardare
il corpo alieno in quella posizione per quasi un minuto, ed alla fine Hellis chiese: — Vi sentite bene?—
No, non si sentiva bene. Aveva mandato quella gente al massacro, persone che si erano fidate di lui. Ed il
loro sacrificio era stato vano: senza la navetta non aveva alcuna possibilità di portare a termine la propria
missione, e non avrebbe potuto neanche chiamare la Quazar. Era bloccato lì. Forse... per sempre.
Tornarono all’accampamento, ma prima Edgard prese alcuni oggetti dalla nave. Erano scatole metalliche,
alcune sottili coperte, ed anche delle armi. Il presidente si sedette sulla pelliccia sulla quale si era svegliato.
Hellis si avvicinò e disse: —Se avete bisogno di qualcosa...— ma lo straniero scosse scuro il capo.
Il sacerdote allora si sedette al suo fianco, e parlò con tono caldo.
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—Ascoltatemi. Il dolore adesso vi acceca, ma non potete permettergli di uccidervi. Dovevate avere un
ottimo motivo per essere qui, vero?—
Edgard guardò fisso il sacerdote, stupito dalla sua acutezza.
—Dovete portare a termine la vostra missione.— continuò. —Non dovete permettere al dolore di
corrompervi, di accecarvi. Siete ancora vivo: è un segno della volontà degli dei. Fatevi coraggio, gli dei
sono con voi.—
Edgard sorrise amaramente.
Hellis avrebbe voluto fare mille domande allo straniero, ma sapeva che quello non era il momento. Si alzò
salutando con un cenno del capo, e lo lasciò a riflettere.
Qualche istante dopo, la ragazza elfa si avvicinò. Edgard sentì un subdolo brivido percorrergli la schiena al
ricordo ancora ben vivo di quella sensazione che aveva accompagnato il suo primo incontro con lei... ma
l’elfa sorrideva e portava una ciotola fumante. Talya disse qualcosa di incomprensibile, e porse la ciotola
con garbo; Edgard rispose sorridendo e chinando il capo in segno di ringraziamento, quindi la ragazza si
allontanò. Zuppa calda; Edgard non si ricordava di aver mai mangiato nulla che non fosse uscito dai
sintetizzatori di cibo, ma l’odore era buono ed il suo stomaco reclamava già da un po’.
Mangiò di buon grado e quella zuppa gli parve il piatto più saporito che avesse mai assaggiato.
Si erano fatte le tre del pomeriggio, o forse ancora più tardi, ed il presidente osservava già da tempo i
componenti del gruppo che stavano smontando il campo. Impacchettavano con ordine le poche cose che
avevano usato, eliminavano ogni traccia del fuoco e mettevano tutto sui cavalli... Cavalli? Chiarissimo, era
quello il loro mezzo di trasporto. Ma Edgard non sapeva cavalcare...
Hellis si avvicinò allo straniero. —Dobbiamo andare via, e penso che vogliate venire con noi.— disse.
—Sì... ma credo che ci sia un problema.—
—E quale sarebbe?—
—Io non credo di essere capace di viaggiare sui cavalli.—
Hellis sorrise debolmente, come per rassicurarlo, ma nella mente di Edgard quello parve proprio un sorriso
di scherno...
—Non dovete preoccuparvi Edgard Rayan...—
—Può chiamarmi solo Edgard...—
—Non c’è problema, Edgard. Monterete in sella con Vàlen, inoltre, qui nella foresta non possiamo correre
troppo.—
—Ma... io non mi sono mai avvicinato ad una di quelle bestie...—
—Rimediamo subito.—
Il sacerdote fece alzare lo straniero, e lo accompagnò davanti ad un cavallo, che lo guardò con stanca
curiosità. Quindi, l’animale mosse qualche passo verso di lui. Edgard fece come per ritrarsi, ma si ricordò
che gli animali selvaggi diventano pericolosi quando si accorgono della paura di chi si trova vicino a loro.
Arrivato davanti ad Edgard, il cavallo chinò il capo verso di lui.
—Gli siete simpatico.— disse Hellis. —Vuole che lo accarezziate.—
—Io?—
—Certo!—
—Come devo fare?—
—Avvicinate lentamente la mano aperta al suo naso ed accarezzatelo!—
—Quanto lentamente?—
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Hellis, spazientito, prese il braccio del presidente e lo posò sul muso dell’animale. La prima impressione
che provò Edgard fu ribrezzo: quella bestia puzzava, e chissà quali parassiti si nascondevano sotto il suo
pelo corto. Ma il cavallo guardò negli occhi il presidente, e questi ebbe la netta sensazione che l’animale
fosse contento! Edgard accarezzò il muso del cavallo, senza più alcun timore, anzi dopo poco trovò
naturale parlargli.
—Sei proprio un bel cavallo!—
Questi nitrì nervosamente guardandolo fisso.
—C’è qualcosa che non va?— chiese rivolto ad Hellis.
—Sì. Questa è una cavalla...—
—Ah... Scusami, non me ne intendo molto.—
La cavalla nitrì più basso ed chinò il muso per farsi accarezzare meglio.
Vàlen scaricò tutto il peso dalla propria cavalcatura, per distribuirlo sulle altre. Quindi fece sedere Edgard
dietro di lui. Tòret dovette aiutarlo a salire, ed a dire il vero, lo straniero era più pesante di quel che
sembrava.
Trellin, come sempre, guidava la fila che si snodava dietro di lui, e Tòret era in retroguardia. Ogni tanto,
l’elfo guardava fisso in una direzione, ammiccando quasi impercettibilmente; la foresta era ben sorvegliata
dai suoi uomini. In segno di rispetto, al suo passaggio, agitavano alcuni rami germogliati, senza farsi
vedere; un umano che fosse passato di lì avrebbe senz’altro creduto che quei movimenti fossero dovuti al
vento. Percorsero un lungo tratto di strada senza parlare, ma alla fine Vàlen non resistette alla tentazione di
fare qualche domanda al suo compagno di sella. Girò il busto riuscendo a guardare di sbieco Edgard, e
chiese:
—Voi venite dalle stelle?— la Lingua Antica del giovane mago era quasi improvvisata; aveva letto
qualcosa nella libreria di Séndovan, ma non aveva mai pronunciato una parola prima di allora. Comunque
Edgard capì.
—Sì... Beh non proprio. È una storia complicata.—
Vàlen riconobbe le parole “sì” e “storia”, e per lui fu facile capire il senso della frase.
—Vorrei che la dite.—
Edgard sorrise; apprezzava lo sforzo del giovane.
—Le stelle che vedi sono proprio come il vostro sole, solo che sono più lontane. E vicino a quei soli ci
sono altri mondi come questo, ed altra gente vive su quei mondi. Alcuni hanno imparato a viaggiare tra le
stelle... ed eccomi qui.—
—Sei un viaggiatore delle stelle...— disse il giovane spalancando gli occhi, rapito dall’idea e dalla poesia
del pensiero; lo straniero gli sorrise.
—Sì...—
—E perché parli la Lingua Antica?—
—Questa... questa è davvero una storia troppo lunga. Sarà meglio che te la racconti quando avrò imparato
la tua lingua.—
Vàlen voleva continuare a fare delle domande allo straniero, ma Trellin, davanti a loro fermò bruscamente
il cavallo.
—Che succede?— chiese Vàlen. Tòret, sempre vigile, aveva già la mano sulla spada.
Trellin si girò indietro. —Non c’è nessuno!—
—Intendi che non c’è nessuna guardia?—
Trellin annuì ed estrasse la spada, imitato subito da Tòret. Ròndal scese da cavallo, impugnando una
minacciosa bacchetta di argento massiccio.
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Edgard capì che qualcosa non andava; aveva lasciato le sue armi in un fagotto caricato su un altro cavallo,
ma aveva tenuto con se’ un disintegratore antariano, e lo impugnò, guardandosi nervosamente attorno.
Un fruscio. Solo un elfo avrebbe potuto distinguerlo nel suono della foresta, e Talya scagliò una freccia
con precisione mortale. Qualcosa, da dietro il cespuglio che aveva colpito, emise un suono strozzato: una
bestia dalle sembianze di una iena eretta cadde uscendo dal proprio rifugio.
Da tutte le parti spuntarono le creature, che si avventarono quasi all’unisono sul gruppo. Ròndal, l’unico
che fosse già sceso da cavallo, fu il loro primo bersaglio. Due mostri saettarono volando verso lo stregone;
questi spostò il proprio busto, facendo cadere a terra il primo, mentre assestava un tremendo colpo a mani
nude sul collo del secondo, spezzandogli la trachea. Prima che il mostro a terra si potesse alzare, Ròndal lo
colpì con un calcio ben piazzato sulla spina dorsale, ed il suo piede affondò tra le vertebre, lasciando il
mostro urlante paralizzato.
Altri due erano su Trott, uno da destra ed uno da sinistra; quello di destra non finì mai la sua carica,
fermato da un fendente del guerriero che gli aprì il cranio; l’altro cercò di affondare i suoi artigli nella
gamba dell’uomo, ma le sue unghie graffiarono il metallo della sua armatura. Con un poderoso pugno,
Tòret spezzò la mandibola della bestia, quindi lo finì affondando nel suo petto.
Quattro iene presero di mira Talya; Vàlen le vide ed iniziò a concentrarsi per lanciare un incantesimo, ma il
dolore gli scoppiò in testa; gli artigli di una di quelle bestie erano conficcati profondamente nel suo fianco.
Talya eliminò uno dei mostri con una freccia precisa, ed il cavallo di Hellis si interpose tra lei e gli altri due
che stavano arrivando; Il sacerdote si tramutò in un enorme piovra, ed i suoi tentacoli avvinghiarono i
mostri. Il terrore si impossessò delle loro menti, facendoli crollare al suolo tremanti ed inermi, mentre
l’illusione del vescovo spariva.
La quarta iena gigante era ormai su Talya, ma la giovane principessa era già pronta. Il suo incantesimo
risuonò nella mente della vittima: i suoi occhi presero fuoco. La bestia indietreggiò urlando di dolore, e
Talya la finì con una freccia precisa.
Edgard era rimasto paralizzato dalla vista delle creature aliene, ma il suo smarrimento durò poco: quando
gli artigli della bestia affondarono nella carne di Vàlen, istintivamente afferrò con la mano libera il polso del
mostro, e strinse con tutte le proprie forze: sentì le ossa sbriciolarsi sotto le sue dita. Quindi spinse via il
nemico urlante, e lo puntò con la sua arma. Con un lampo di luce, l’arma fece fuoco, colpendo la creatura
all’addome; le gambe ed il torso caddero a terra, distanti.
Trellin stava tenendo a bada tre nemici, ma non a lungo: il raggio di Edgard mutilò mortalmente due dei
suoi avversari, mentre il terzo veniva ucciso dalla precisa lama del principe elfo.
Tutto era immobile. La battaglia era finita.
Vàlen portò una mano al graffio che aveva sul fianco sinistro; non era una ferita profonda, sanguinava
appena, ma il ragazzo divenne mortalmente pallido, e si accasciò sulla sella. Edgard se ne accorse e lo
sorresse; sarebbe sicuramente caduto, altrimenti. Talya lo vide, e corse giù da cavallo gridando disperata:
—Vàlen!—
Tòret era dietro di lei, e dopo arrivarono gli altri. Edgard passò il corpo inerte del ragazzo al guerriero, che
lo adagiò a terra, quindi scese a sua volta. Hellis era già sul mago, ed esaminava la ferita. Impallidì: i graffi
erano superficiali, ma attorno c’era un liquido verde e denso.
—Erano TàlGor. Il loro veleno...—
Trott sbiancò e continuò: —...È mortale...—
Edgard riconobbe la parola morte celata nei fonemi indigeni, e scostò delicatamente il sacerdote.
Talya scoppiò a piangere, e sorresse la testa del ragazzo, accarezzandogli le guance. —No, ti prego, Val,
non morire...— ma la pelle del ragazzo era sudata e fredda, ed il suo corpo era percorso da brividi e
tremiti.
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Edgard scattò in piedi, e gridò: —Dov’è il MediKit?—
Hellis lo guardò: —Cosa?—
—Dove avete messo quella scatola bianca, con il simbolo rosso sopra?—
Hellis saettò e si diresse verso il proprio cavallo; trovò subito la valigetta e la passò ad Edgard che era già
dietro di lui.
Il presidente si sedette accanto al corpo del ragazzo ed aprì il medikit. Inserì una minuscola fiala di vetro
dentro ad un arnese, quindi sollevò il braccio del ragazzo e scansò la tunica che lo copriva. Appoggiò sulla
pelle del mago l’attrezzatura, che emise un lungo sibilo; Vàlen ebbe un sussulto.
Quindi Edgard posò la siringa e prese un altro oggetto; strappò con le mani la tunica, dove il giovane era
stato graffiato e vi diresse la punta di quello strumento; un raggio di luce colpì la pelle del ragazzo, e
quando toccava la sostanza verde, questa evaporava sfrigolando; quando invece il raggio passava sui
graffi, il sangue si fermava, coagulandosi e trasformandosi rapidamente in pelle.
Gli altri guardavano con un misto di stupore e di speranza il lavoro dello straniero. Ancora una volta,
Edgard usò la siringa, e quindi prese un altro strumento: emetteva un suono ritmico, e per gli altri non fu
difficile capire che il suono rappresentava il battito del cuore di Vàlen. Il presidente osservò per qualche
secondo delle luci, forse delle indicazioni, che erano brillavano su quell’arnese. Hellis gli chiese con un
nodo in gola: —Ce la farà?—
Edgard non rispose.
Dopo qualche istante il suono ritmico dello strumento si fermò. I membri del gruppo si guardarono l’un
l’altro: se quel suono batteva col cuore di Vàlen...
—Allontanatevi!— gridò Edgard mentre prendeva un altro oggetto dalla sua valigia, ma solo Hellis si alzò.
— Via, Via!— ripeté Edgard, spingendo con forza la ragazza che ancora teneva la testa di Vàlen, e
facendola cadere in malo modo. Edgard afferrò la veste del mago e la strappò, lasciando scoperto il petto,
quindi avvicinò il nuovo arnese al cuore del ragazzo, e quando fu a contatto della pelle, il suo corpo si
inarcò. Il cuore rimaneva muto. Provò ancora una volta, e stavolta Vàlen si tese come una corda di liuto,
saltando letteralmente da terra.
Niente.
Edgard riprovò ancora, e ancora niente. Gli altri si guardarono l’un l’altro, increduli, storditi. Edgard prese
un attrezzo dotato di un lungo ago, e lo piantò con forza nel petto del ragazzo; dopo qualche istante lo
estrasse, e riprese in mano l’elettro-stimolatore. Lo avvicinò al petto di Vàlen, esitante. Tutti intuirono che
quello sarebbe stato l’ultimo tentativo. Il corpo del mago scattò ancora.
Un suono. Era stata la loro immaginazione? Un secondo suono seguì il primo, e poi un terzo; il cuore di
Vàlen aveva cominciato a battere di nuovo.
Talya scattò verso il ragazzo, imitata da Trott, ma Edgard li bloccò sollevando le mani nella loro direzione.
Dalla cassetta miracolosa prese l’ennesimo strumento, una mascherina che appoggiò davanti alla bocca del
mago; un sibilo accompagnò qualche sbuffo di fumo, e Vàlen iniziò a tossicchiare, prima debolmente, ma
poi sempre più forte. Ad un certo punto, Edgard tolse la mascherina dal suo volto, e girò il suo corpo sul
fianco.
Vàlen riprese conoscenza, e ruotò per sdraiarsi, stremato.
—Non stategli addosso, deve respirare.— disse Edgard, visibilmente più disteso. Il volto di Tòret si aprì
nel suo sorriso più grande, e si chinò su Vàlen; quindi lo prese in braccio e lo sollevò.
—Come stai Donnola?—
—Potrei svuotare tutti i pollai del Kalédion.— disse con un filo di voce il ragazzo.
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Trott strinse l’amico e disse piano: —Se muori un’altra volta ti ammazzo.—
Vàlen sorrise, anche se non capì cosa intendesse il guerriero per morire un’altra volta. Forse aveva perso
conoscenza, ma non se n’era reso conto.
Talya si avvicinò a sua volta, ed abbracciò il volto del ragazzo: —Grazie ad Egarràin sei salvo!—
Quindi si strinsero tutti attorno al mago ed al guerriero che lo sorreggeva, ed assicuratisi che stesse bene, si
rivolsero allo straniero. Non dissero una parola, perché non esisteva una parola adatta a spiegare la loro
gratitudine, ma ad Edgard bastarono i loro sguardi.
Vàlen iniziava a rendersi conto che era successo qualcosa di grave, e che l’unica figura che aveva visto
attorno a lui quando si era svegliato era quella dello straniero. Debolmente, ma con voce ferma, disse
semplicemente: —Grazie.—
Edgard si avvicinò sorridendo e chiese: —Come ti senti, ragazzo?—
—Mai stato meglio.—
Lo straniero allargò il sorriso, e chiamò Hellis. —Sarà un problema trasportarlo...—
—Forse, no. Adesso posso essere di qualche aiuto io...—
Quindi il sacerdote si avvicinò a Vàlen, e pronunciò a bassa voce una preghiera; la sua aura si accese
intensamente, e avvolse anche il corpo di Vàlen. Edgard provò quella tremenda sensazione che lo fece
stare quasi male; era incredibile. Anche se lo vedeva, non riusciva a capacitarsi di trovarsi di fronte alla
magia.
—Puoi, posarlo a terra adesso, Tòret.— disse Hellis.
Vàlen riuscì, stentando un poco, a stare in piedi da solo.
—Ma cosa mi è successo.— chiese, ed Hellis rispose: —Sei stato ferito da un TàlGor— .
—Ma il loro veleno è mortale...— quindi guardò lo straniero, che stava sistemando nella valigetta i suoi
strumenti.
—...Mi hai salvato la vita...— disse ad Edgard nella lingua antica.
—...Non è niente... sono sicuro che tu avresti fatto la stessa cosa per me.—
—Ma come hai fatto? Il veleno dei TàlGor non lascia scampo!—
Edgard rispose sorridendo: —... È uno strano tipo di magia...—
L’imbrunire era sceso troppo presto: Trellin sperava di essere a Lunasìt prima del tramonto, ma la sosta
per il pranzo era stata più lunga del previsto, e l’incontro con i TàlGor aveva ulteriormente rallentato la
marcia. Ma non era questo a preoccupare il principe, in quel momento. Da quando erano stati assaltati,
Trellin non aveva scorto nessuna sentinella elfa. Certo, quel sentiero non era molto importante, quindi era
possibile che la guardia fosse stata allentata in quella zona per pattugliare meglio i confini, soprattutto
adesso che i Goblin stavano fuggendo dall’invasione umana. Ma il fatto di non aver trovato neanche una
misera sentinella lo fece sentire a disagio. Inoltre, aveva la forte sensazione di non essere solo... come di
essere osservato, e la cosa non gli piaceva. Almeno, sperava, con l’oscurità il suo osservatore sarebbe stato
meno pericoloso: gli elfi vedono perfettamente al buio.
Dal momento dell’incidente, nessuno aveva parlato. I cavalli si muovevano a trotto spedito, sotto l’esperta
guida del principe, ed il gruppo era decisamente impegnato nell’arduo compito di schivare rami, arbusti,
rovi e quant’altro.
Il trotto era un’andatura che metteva Edgard profondamente a disagio. Il dover balzellare sulla groppa di
quell’animale gli sembrava una specie di antica danza tribale... comunque era un modo per andare da un
luogo ad un altro, doveva ammettere, ed aveva i suoi vantaggi: in quell’intrico di alberi ed arbusti nessun
altro mezzo di trasporto sarebbe stato di alcun aiuto. Comunque, si teneva stretto a Vàlen, e cercava di
seguire i movimenti della bestia... ma era sicuro che per sera avrebbe avuto un mal di schiena da record.
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Ad un certo punto, Vàlen, il cui cavallo seguiva da vicino quello del principe, lo chiamò: —Ehi, Trellin!
Quando arriveremo? Inizia a fare buio...—
—Di questo passo ancora un’ora, ma fra duecento metri la foresta diventa più rada: potremo andare al
galoppo.—
—Dunque?—
—Mezz’ora al massimo.—
—Sarà notte quando saremo lì...—
—Non essere così pessimista, Vàlen, abbiamo ancora un po’ di luce.—
Il mago pensò per un istante di trovarsi ancora di fronte a quelle bestie, ma stavolta di notte... e ricacciò il
pensiero nei meandri della propria mente.
Come previsto dall’elfo, il sentiero divenne abbastanza largo e dritto da poter essere percorso al galoppo.
Trellin spronò il cavallo, seguito dagli altri. Nella foga, Vàlen si dimenticò di avvertire il suo ospite, che per
poco non cadde malamente al suolo. Si dovette reggere con tutte le proprie forze, ma fu comunque difficile
mantenere una posizione stabile, e rischiò di cadere altre volte.
All’improvviso, gli alberi finirono, e con essi il sentiero: Trellin conosceva la strada e rallentò prima di
arrivare davanti al dirupo.
Lo spettacolo che si aprì davanti a loro era incomparabile: erano sulle alte rive del Lago Bianco.
A Nord e ad Est si alzavano le candide vette della "Spina del Drago", che erano state erette dal Creatore in
marmo scintillante. Il Fiume d’Argento scendeva da quei monti, portando polveri e ciottoli che parevano
neve, e che avevano tinto le spiagge ed il fondo di quel lago di un delicato colore albino. La tenue luce
dell’imbrunire era come amplificata nella valle; pareva ancora che fosse giorno.
Un lampo attirò l’attenzione del gruppo: alla loro destra, circa due chilometri più a valle splendeva Lunasìt.
La città elfa non era grande, ma sembrava imponente per la luce che rifletteva: marmi bianchi e lucidi
specchiavano il rosa del tramonto, esaltando svariate migliaia di fiori che decoravano le mura dei palazzi.
Alte torri di cristallo rosa emergevano dalla cima degli alberi, ed ammiccavano al lago ed alla foresta con
grandi e ricche vetrate dai mille colori. Lunasìt sembrava sorgere dalle sponde del lago, dalla roccia dei
monti e dalle foglie degli alberi, come se questi elementi fossero stati mescolati da una potente magia. E
forse, pensava Edgard, era proprio così. Per alcuni istanti, Edgard non riuscì a scacciare dalla propria
mente il pensiero di un antico libro di fiabe che aveva letto da bambino; gli sembrò di essere nel paese delle
fate. Scosse la testa... quante cose strane aveva visto in migliaia di mondi diversi... ma questo... maghi,
stregoni, mostri... sembrava una fiaba. Solo che al contrario dei mondi delle fiabe era terribilmente vero. E
pericoloso.
Il principe Trellin era atteso: le vedette elfe erano già tornate alla loro base ed avevano avvisato la città
dell’arrivo del nobile. Avevano però avvertito anche che con lui viaggiavano degli umani, e la voce si era
sparsa in ogni angolo della piccola città.
Lunasìt non iniziò come un qualsiasi borgo: sarebbe stato impossibile stabilirne il confine; abitazioni
scavate in enormi sequoie, o appoggiate delicatamente sulle loro cime, erano ovunque, attorno ai palazzi
lucenti che si vedevano in lontananza.
Ròndal, abituato alla possente architettura di Thàris, osservava meravigliato quella vista insolita: mai
avrebbe pensato che gli alberi avessero potuto ricevere un trattamento simile crescendo addirittura più
rigogliosi del normale. Talya osservò il nero stregone dagli occhi di falco caduto in un lago, ed avvicinò il
suo cavallo. —Siete stato accontentato, barone Pérevit. Ecco una città elfa. Come la trovate?—
—Bellissima, Vostra Altezza. Semplicemente bellissima.—
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Eppure, anche se gli Elfi erano lì, da qualche parte, ancora nessuno era sui sentieri, per dare il benvenuto al
principe.
Tra i tronchi e le foglie iniziavano a comparire i primi edifici in marmo; prima piccoli, quasi capanne di
pietra, poi di dimensioni sempre maggiori. Eppure, anche se quelle pietre non erano vive, sembravano una
parte integrante della foresta, come le rocce che giacciono da sempre accanto alle radici.
Come un lampo, Edgard vide guizzare il primo elfo, che si dispose sul fianco del largo sentiero. Un
movimento al limite del suo campo visivo gli fece girare la testa per guardare il luogo dove era apparso un
altro elfo. Comparve così, in brevissimo tempo, tutta la gente di Lunasìt, che sorrideva silenziosamente con
profondo rispetto verso il proprio principe. Trellin guidava la fila di cavalli verso il cuore della città, con
incedere regale, come in una marcia di trionfo; da qualche parte, una musica dolce di strumenti a corda e la
voce pura di un flauto intonarono una melodia delicata e solenne, che accompagnò i passi del cavallo del
principe. Gli elfi intonarono un canto antico, e salutarono la comitiva gettando petali di rosa al loro
passaggio.
Poco dopo, quasi improvvisamente, dietro una curva del sentiero apparve un grande portale dorato,
montato su una parete di pietra rosa traslucida: forse quarzo. Trellin fermò la fila e scese con calma da
cavallo, muovendo alcuni passi verso la porta; questa si aprì silenziosamente, mentre la musica ed il canto
aumentavano e si facevano onnipresenti; il portale si spalancò completamente, rivelando, oltre di essa gli
elfi signori di Lunasìt.
Tre figure eleganti stavano di fronte al principe; una era quella di un elfo anziano, con i capelli grigi, che
sembravano rispecchiarsi nel grigio dei suoi occhi, vestito di un abito ricco nei dettagli, ma allo stesso
tempo semplice nelle forme. Alla sua destra, stava in piedi una donna matura, con lunghi capelli neri
raccolti in forme armoniose, quasi a voler giocare di contrappunto con la semplice e lunga veste verde che
indossava. I suoi occhi neri fissarono ad uno ad uno tutti gli elementi del gruppo, ma così rapidamente che
nessuno se ne accorse.
Alla sinistra del signore c’era una ragazza minuta; se fosse stata umana, avrebbe dimostrato non più di
quattordici anni; ma essendo elfa doveva averne almeno dieci volte tanto. Aveva lunghi capelli biondi
raccolti in due trecce che le scendevano sul petto, accarezzando una veste di seta azzurra, semplice come
quella della madre. Azzurri erano anche i suoi occhi, fissi sul volto di Trellin. Quando questi fu fermo
davanti a loro, la ragazza aprì il volto in un grande sorriso, e chinò leggermente il capo quando gli occhi
del principe si posarono su di lei.
Il principe parlò un raffinato linguaggio riservato ai nobili.
—Piccola signora, i miei omaggi.—
—Mio principe, i vostri omaggi colmano il mio cuore di gioia.—
—Signore, vedo che avete allevato bene il vostro Fiore. E’ forte e bello.—
L’elfo chinò il capo, sorridendo discretamente. —Il merito è della mia compagna. Suo è il frutto, sua la
carne, sua la mente.— Si trattava di una antica formula rituale elfa per onorare la propria moglie per il
lavoro svolto nell’allevare i figli.
—Padre,— disse intervenendo discretamente la ragazza, —Il nostro Principe e Signore sarà sicuramente
stanco per il lungo viaggio, e deve riposare.—
—Certo, figlia.— E così dicendo, chiamò i servitori.
Mentre per gli umani suona naturale presentarsi immediatamente, gli elfi preferiscono riservare la
presentazione ad una situazione formale, una specie di cerimonia. Vàlen conosceva bene gli usi degli elfi,
ma gli altri rimasero un poco disorientati quando alcuni servitori, accorsi di gran lena, fecero loro cenno di
scendere da cavallo e seguirli. Non aver scambiato il proprio nome con quello del padrone di casa li
metteva a disagio, in qualche modo. Vàlen fece loro cenno che era tutto a posto. Non si trattava di una
scortesia, ma anzi di un segno di rispetto. Accettare nella propria casa sconosciuti, attendendo che questi si
accomodino e si preparino prima di rivolgere loro la parola, è per gli elfi un trattamento riservato agli
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ospiti più importanti. In questo modo gli ospiti avrebbero potuto riposarsi dal viaggio, pulirsi ed indossare
abiti adeguati, così da poter incontrare il Signore in condizioni di parità, senza doversi vergognare. La
vergogna ha infatti per gli elfi un senso particolare, come per gli umani può avere l’onore. Loro la indicano
con il termine "velmenél", ed uno dei fulcri della loro esistenza è quella di condurre una vita priva di
vergogna, o meglio, velmenélnèt.
Gli umani, separati da Trellin e Talya, seguirono alcuni elfi lungo i tortuosi sentieri del palazzo. Non
esistevano angoli squadrati, ma complessi di archi, passaggi arrotondati e persino gallerie. Non c’erano
scale, ma solo passaggi leggermente inclinati. Anche se il palazzo fosse stato costruito, non sembrava:
pareva che l’intero complesso fosse stato scavato in un enorme blocco di marmo rosa, con al suo interno
venature di pietre colorate dello spessore di diversi metri.
La porta del loro appartamento era anch’essa rotonda, quasi come il tappo di una botte. Ci volle un poco
agli umani per abituarsi alla strana forma della camera, ovale in ogni suo punto.
—Sembra che odino gli spigoli...— disse Ròndal, osservando criticamente ogni dettaglio della camera.
Persino i mobili, costruiti con legni preziosamente intarsiati, erano stati modellati in modo da essere privi di
qualsiasi angolo tagliente. —...Eppure mi sembra che alcuni tratti del loro carattere siano decisamente
spigolosi.— continuò, facendo sorridere gli altri.
Nel frattempo, l’ammiraglio Joseph Basher osservava cupo le navi unioniste immobili, seduto nella propria
postazione davanti allo schermo gigante della sala di comando della Quazar. Erano quasi cento,
novantasette per essere precisi, molte delle quali di dimensioni più che rispettabili. I loro cannoni pulsavano
di energia, pronti a colpire come un mortale pungiglione la Quazar, quando questa fosse riemersa dal suo
nascondiglio. L’ammiraglio sapeva bene che la distorsione non poteva essere mantenuta in eterno; ad ogni
istante, piegare lo spazio intorno alla nave richiedeva una quantità di energia maggiore, e presto neanche i
potenti generatori di Quazar avrebbero potuto sostenere quello sforzo immane di piegare la struttura
dell’universo, sopportandone l’intero peso.
Lo sapevano anche i Krix. Ed erano lì ad aspettarli.
Dietro di lui, una parte del pavimento si illuminò, facendo comparire due umani sopra di essa.
—Eccoci, ammiraglio.— annunciò uno dei due. Avevano entrambi l’uniforme di capitano comandante
della flotta Siriana, ed erano accigliati come il loro superiore. Questi fece ruotare la sua poltrona per
guardarli in volto. Erano tesi, stanchi, ed anche se lo nascondevano bene, Bàsher sapeva che erano
spaventati. Non credevano che sarebbero riusciti ad uscire vivi da quella trappola, era evidente.
—Signori; avete i dati che ho chiesto?—
—Sì ammiraglio.— rispose l’ufficiale di destra. —Abbiamo compiuto alcune analisi strutturali sui cannoni
unionisti. Anche se sono costituiti da una sorta di metallo organico dalle proprietà sconosciute, siamo
riusciti a rilevare il movimento atomico dovuto al surriscaldamento.—
—Bene, capitano. Per quanto tempo possono mantenere le loro armi cariche?—
—Non possiamo essere molto precisi, ma...— il comandante osservò uno strumento che teneva nel palmo
della mano —...circa quindici ore e cinque minuti, a partire da adesso.—
—Noi possiamo restare nascosti per altre ventisei ore.— riflettè l’ammiraglio. — Ad un certo punto loro
saranno costretti ad abbassare la guardia; noi sbucheremo dalla distorsione e colpiremo alcune navi; lì...—
disse indicando un punto dello schieramento avversario, su di una mappa olografica, —... dove sono più
deboli. Quindi fuggiremo da quel punto prima che possano reagire.—
I due ufficiali si guardarono l’un l’altro. Era chiaro che non condividevano l’idea di Basher.
—Qualcosa non va, signori?—
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—Ammiraglio... è presumibile che quando saranno arrivati vicini alla soglia di temperatura massima per le
loro apparecchiature, facciano a turno; metà delle loro navi manterrà le armi cariche, e l’altra metà le
lascerà raffreddare.—
—Sì, ma siamo piuttosto vicini al sole. Le loro strutture non si raffredderanno tanto velocemente da
permettere loro di continuare questo gioco a lungo.—
—Non ne possiamo essere sicuri, ammiraglio. Potrebbero avere dei sistemi di raffreddamento
sconosciuti. —
Basher meditò per un lungo istante, appoggiando il mento sul palmo della mano, l’indice, il medio ed il
pollice stesi e le altre due dita chiuse.
—Avete qualche elemento a conferma alla vostra ipotesi?—
—...No...—
—Bene. Allora il nostro piano rimane quello stabilito. Continuate ad analizzare le strutture delle loro navi;
se emerge qualche nuovo elemento, fatemelo sapere.—
I due ufficiali sparirono nuovamente in un’esplosione di scintille.
L’ammiraglio, rimasto solo, ruotò di nuovo la sua poltrona per osservare lo schermo in fondo alla sala di
controllo. Le loro comunicazioni erano state interrotte dagli unionisti, ed era impossibile comunicare con la
base federale di Yoth, la più vicina.
Tuttavia, sia il Centro di Difesa di Sirio che il Comando di Flotta delle Federazioni dovevano ormai aver
notato l’assenza di Quazar dai sensori. Potevano pensare che si fosse nascosta in distorsione... oppure che
fosse stata distrutta.
Il Centro di Difesa Siriano, o il Comando di Flotta, avrebbero rischiato di provocare una guerra solo per
vendicare una nave stellare?
No... non lo avrebbero fatto. Avrebbero preferito attendere l’assalto degli unionisti, ed avere una scusa
davanti all’opinione pubblica, e davanti agli altri Stati, per spazzare via dall’universo quei ragni troppo
cresciuti. Se solo avessero potuto comunicare... dimostrare che Quazar esisteva ancora... chiedere aiuto...
Ma non potevano. Avrebbero dovuto contare solo su loro stessi.
E poi, c’era il Presidente. Joseph non poteva credere che fosse morto, era impossibile. Anzi no, era
possibile, anzi probabile, ma... c’era qualcosa... qualcosa che nella sua mente, in un angolo buio e lontano,
continuava a gridargli che Edgard non era morto; era ancora laggiù, da qualche parte, che aspettava di
essere salvato.
Dannato pianeta! Gli strumenti a distorsione non sarebbero riusciti a distinguere un oceano da un vulcano
su quel mondo dimenticato da Dio.
Mentre fissava lo schermo, l’ammiraglio si strofinò gli occhi; non si ricordava più da quanto tempo non
dormiva, e si sentiva come se fosse sull’orlo di crollare. Era troppo vecchio per queste cose, pensò
amaramente.
Il tempo passava lento, ma inesorabile; il momento di lottare per la sopravvivenza sarebbe giunto presto.
Il salone dei ricevimenti del palazzo di Lunasìt non era enorme, anche se avrebbe potuto ospitare forse
cinquanta invitati, più la servitù. Quello che stupì gli umani furono le decorazioni. Si aspettavano stucchi,
drappi, affreschi, cristalli ed arredi superbi, come nei palazzi dei nobili umani, che Ròndal ed Hellis
conoscevano bene. Tòret non aveva mai visto un castello dall’interno, se non la rude rocca di FòrKép, e
Vàlen nemmeno quella. Ma il mago aveva già visitato la capitale del regno Elfo, e non era sorpreso. E lo
straniero sembrava perfettamente a suo agio.
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Come il resto del palazzo, la camera sembrava scavata nel quarzo di sfumatura variabile tra il rosa e
l’ametista. Non era facile distinguere un soffitto a causa della struttura a volta dell’ambiente; persino il
pavimento sfumava nelle pareti, tracciando un confine appena accennato. Ogni parte della struttura pulsava
di una delicata luce cristallina. Sui muri decine di cristalli colorati, tutti identici e disposti in file ordinate,
emettevano bagliori multiformi; eppure le prismatiche luci erano tali che la loro mescolanza, nell’ambiente,
formava una tenue luminosità riposante, sempre della stessa tonalità, come se tutta la sala fosse illuminata
da un caldo fuoco da campo.
Il tavolo, che si adattava alla forma ovale della sala, era gremito fino alla sua massima capacità (non è cosa
da tutti i giorni festeggiare l’arrivo del principe). Trellin entrò per primo, seguito da Talya e dagli altri
umani. Edgard, istintivamente, si mise in fondo alla fila.
Il principe parlò per primo, nella propria lingua, presentando i vari membri. Prima sua figlia, che non si
mosse ed accennò solo un saluto col capo; lei era di rango superiore a qualsiasi altro nella sala, tranne suo
padre. Quindi venne il turno di Vàlen. Era infatti l’unico umano del gruppo che conoscesse il rito delle
presentazioni, e Trellin sperava vivamente che gli altri umani fossero in grado di afferrare al volo il
comportamento da tenere. Dopo una lunga serie di parole sconosciute, il principe pronunciò ad alta voce il
nome del mago, che uscì dalla fila fermandosi vicino a Talya, ma dietro di essa, ed in modo che anche gli
altri del gruppo potessero vederlo bene, per imitarlo. Quindi chinò il capo e portò la mano destra sul cuore,
stringendo la veste nel pungo. Era un gesto d’umiltà dovuto da parte di un umano nei confronti di una
corte elfa. Quindi Trellin chiamò il Barone Pérevit, che essendo avvezzo alle formalità aveva
immediatamente assimilato il comportamento del mago, e lo aveva riprodotto alla perfezione. Fu il turno di
Hellis; il sacerdote si sarebbe inchinato solo di fronte al proprio dio, così portò la mano al petto e strinse la
veste, ma non chinò il capo. Tuttavia abbassò lo sguardo, e questo fu appena sufficiente per non urtare la
sensibilità degli ospiti.
Fu quindi la volta di Tòret. Il guerriero aveva deciso di indossare la sua cotta di maglia (la corazza di
piastre gli era sembrata troppo grezza e minacciosa). Voleva sottolineare il proprio status di guerriero, ma
per non creare malintesi, aveva lasciato qualsiasi arma nella propria stanza. Adesso però, si presumeva che
l’umano prendesse con una certa forza la propria veste in pugno, e questo era fisicamente impossibile.
Tuttavia, per equiparare la sua presentazione a quella degli altri membri del gruppo, Trellin aveva
annunciato che il guerriero gli aveva salvato la vita. Questo gli conferiva il diritto di guardare anche negli
occhi il padrone di casa, proprio come aveva fatto Talya, ma l’umano non poteva saperlo. Quindi si mosse
imbarazzato ed un po’ goffo fino ad affiancare gli altri, e rivolgendo uno sguardo supplichevole a Vàlen ma
solo con la coda dell’occhio, si portò la mano al petto. Il mago non lo vide (era ancora impegnato nel suo
inchino), e Trott cercò un paio di volte di afferrare la propria armatura, senza successo. Al terzo tentativo
si chinò tenendo stretto il pugno vuoto, mentre una goccia di sudore gli scendeva sulla guancia. Trellin fu
costretto ad esercitare tutto il proprio autocontrollo per non sorridere, intenerito dal possente umano colto
in imbarazzo. Comunque, al salvatore del principe era consentito quasi tutto, e gli elfi apprezzarono la
buona volontà del guerriero.
Trellin non sapeva proprio come presentare l’ultimo componente del gruppo, lo Straniero venuto dalle
Stelle. Tuttavia, già la presenza di umani alla corte di un nobile elfo era un evento assai inusuale, quindi il
Principe si prese la libertà di uscire un poco dagli schemi della cerimonia.
—L’ultimo dei miei compagni viene da una landa straniera.— la parola assume nella lingua elfa connotati
differenti. “Selmanilem”, la parola usata dal principe, vuol dire praticamente “ignoto” o “non conosciuto”.
— Il nostro incontro è stato voluto da Egarràin...— un’espressione per indicare che si era trattato di un
evento casuale, — ma il suo valore ci ha aiutati in battaglia. Per questo ora è qui con noi. Il suo nome è
Edgard Rayan...—
Le parole del principe gelarono la sala. L’effetto fu lo stesso di quando lo straniero aveva pronunciato per
la prima volta il suo nome, rivelandolo alle persone che lo avevano soccorso. Eppure questa volta c’era
qualcosa d’altro. Trellin per primo non poté non notare l’incredibile somiglianza col nome del Creatore.
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Edgard Rayan... Egarràin... Strano che non ci avesse pensato prima. Una coincidenza, certo... anzi, da
parte dell’uomo, uno scherzo di pessimo gusto. Comunque, lo straniero si accodò agli altri, ed eseguì
diligentemente il gesto, spezzando la tensione che si era venuta a creare.
Il principe e sua figlia si diressero verso i troni riservati loro a capo tavola, mentre gli umani furono scortati
nel punto più lontano dai nobili più importanti. Per tutta la durata del banchetto, nessuno rivolse loro la
parola, e del resto, nessuno avrebbe potuto parlare con gli elfi, tranne forse il mago.
Una cena frugale a base di frutta e verdura lasciò Vàlen discretamente affamato. Del resto, Tòret se l’era
già svignata da un pezzo, inosservato nonostante la sua mole, ed era uscito dal palazzo dei loro ospiti.
Vàlen avrebbe voluto ammirare le meraviglie di quella grande casa, ma in quel momento gli premeva di più
trovare il suo amico. Lo trovò, come pensava, dietro ad un albero proprio fuori dal palazzo.
—Ciao Trott...—
Il suo amico gli rispose mugugnando... aveva una grande fetta di pane in una mano, ed un grosso pezzo di
formaggio pecorino nell’altra. Il piccolo lupo che era ormai la mascotte del guerriero stava tra le gambe
incrociate del suo padrone, e leccava allegramente un pezzo di formaggio che gli era stato dato per cena.
—Dì un po’ , Val, non è che il formaggio, al cucciolo, farà male? In fondo è fatto con il latte...—
—Non credo che leccare un po’ di formaggio possa fargli male. Senti Trott...—
—Dimmi, Val.—
—Emm... sai questa faccenda del veleno mi ha lasciato un po’ debole...—
—Non dire altro amico!— e così dicendo, Trott estrasse da una sacca una pagnotta nuova. Con un coltello
ne porse una generosa dose al giovane mago, che si sedette accanto a lui, sorridente.
Mangiò alcuni bocconi in silenzio, mentre il guerriero gli tagliava anche una copiosa fetta di formaggio, e
poi disse: —Ne abbiamo passate tante insieme, vero Trott?—
—Sì, amico...—
—L’avresti mai detto quando...— e si bloccò. Voleva dire quando erano solo due ragazzini “strani” in un
piccolo paese, ma la voce gli morì in gola al ricordo della casa perduta. Tòret capì lo stesso, ed interruppe i
suoi pensieri.
—No, Val. E sai una cosa?—
—Cosa?—
—Penso che ne passeremo ancora molte insieme. Sento che vivremo un’avventura come non si racconta
nemmeno nelle canzoni dei bardi.— E così dicendo finì l’ultimo boccone di pane. Proprio in quel momento
la voce di una giovane elfa li raggiunse. Era Talya, che si era accorta della scomparsa dei due.
—Vàlen? Tòret? Dove siete andati?—
I due amici si guardarono con aria complice... il mago sussurrò: —Non vogliamo tornare in quella noiosa
sala piena di elfi, vero? —
Trott sorrise e, raccogliendo con delicatezza il cucciolo, si alzò assieme al mago senza far rumore; i due si
addentrarono nella macchia che circondava il palazzo. Ma per quanto piano potessero fare, Talya li aveva
sentiti.
—Avanti, amici, sapete che vi vedo benissimo al buio...—
—Stai giù!— disse divertito Trott all’amico.
—Su’, Val... se si accorgono che ve ne siete andati si potrebbero offendere...—
I due umani si allontanarono un poco dalla loro postazione, per nascondersi dietro un cespuglio più fitto.
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—Val? Trott?— Talya era divertita dall’idea di dare la caccia ai due umani. —Avanti, è inutile che vi
nascon...date.— era difficile coniugare quel verbo, e la pronuncia esotica dell’elfa per poco non fece
scappare una risata al mago.
Talya vide il calore dei corpi dei due uomini che saliva da dietro il cespuglio. —Allora è così, vero Vàlen?
E va bene, cocciuto umano. Resta pure qui a ghiacciare! darò ordine che ti chiudano la porta in faccia, se ti
vedono.— Quindi se ne andò, fingendo di essere indispettita.
Vàlen ridacchiò sotto voce: —L’abbiamo proprio fatta arrabbiare...—
—Già.—
—Te l’ho già detto, Trott, ma te lo ripeto. Io e te siamo una coppia formidabile.— disse con un sussurro
appena udibile Vàlen. Ma la voce dell’elfa fece trasalire i due ragazzi: —Vorrai dire un trio!—
Vàlen si girò di scatto come un gatto impaurito, e Trott, per istinto, portò la mano alla spada, senza
trovarla, dato che l’aveva lasciata nella propria stanza.
Talya era in piedi dietro di loro, trionfante, con le gambe leggermente divaricate ed i pugni sui fianchi. —
Spero che non abbiate pensato di poter sfuggire ad un elfo in una foresta.—
—Ma è solo un boschetto...— disse Vàlen.
—Non importa! Ho comunque vinto io!—
—E va bene, principessa...— Vàlen fece per alzarsi, ma Talya si sedette a gambe incrociate di fronte ai due
umani. —Allora, che si mangia?—
Tòret rise di cuore e tagliò altre tre fette di pane, farcendole abbondantemente di formaggio.
—Talya...— disse Vàlen piano —Qui fa più buio di dove eravamo prima.—
—Non per me.— rispose la ragazza mentre Trott cercava di sbucciare la crosta del pecorino procedendo
per tentativi.
—Ma per noi sì... quasi non riesco a vederti, e non voglio perdermi questa scena...—
—Ho capito, ...donnola...— disse ridacchiando la piccola elfa. Quindi si concentrò e con estrema facilità
scaricò la propria magia su di una pietra che giaceva vicino a lei; così illuminò quella parte del boschetto.
Trott sorrise nel tagliare con più facilità il formaggio e disse: — Grazie, Talya, va molto meglio, così.— La
ragazza notò che era la prima volta che il guerriero la chiamava per nome, e stranamente la cosa le fece
piacere. Quindi l’uomo distribuì un panino ad ognuno di loro, ed i tre iniziarono a mangiare di buona lena.
Talya aveva un’aria strana con la bocca piena di mollica; lei stessa se ne rendeva conto e non riusciva a non
sorridere per l’imbarazzo.
Poco lontano, gli occhi gialli di un serpente avevano osservato la scena. La sua lingua di rettile saettò in
risposta al bagliore emesso dalla magia della principessa, quindi, girando le proprie spire, il serpente si
allontanò talmente silenzioso da sfuggire anche alla più esperta guardia elfa.
Era stata una giornata molto lunga per il Presidente. Quando si visita un Paese straniero, la distanza da
casa non pesa durante il viaggio: ci sono tante cose nuove da vedere, così tante cose a cui pensare. Lo
sguardo non si posa mai per troppo tempo su una casa, o su un albero, o su un volto, perché ogni angolo è
alieno e richiama nuova attenzione, oscurando lo stupore per ciò che si è appena visto.
Solo la notte, nella calma di una stanza, sdraiati su di un letto "diverso", si inizia a pensare al giorno
passato. Centinaia di immagini si affollano alla mente, come nitide fotografie ricche di suoni e di profumi,
ed è in quel momento, e solo allora, che ci si rende conto realmente di tutto quello che è successo, e di
quanto questo sia straordinario. Ma la sensazione di nuovo dura solo un istante, perché la mente viene
catturata nuovamente da nuove immagini colorate.
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Questo successe ad Edgard, quella sera. Sdraiato nel letto più morbido di quanto non fosse abituato, sotto
una pesante coperta che sembrava volerlo avvolgere e proteggere, cullato dal dolce profumo di bucato,
così distante dagli sterili odori dei tessuti sintetici, Edgard rivide la giornata. Era troppo stanco per provare
nuovamente la paura per l’assalto delle belve sconosciute, o il dolore per la morte dei suoi uomini; nel
piacevole abbraccio del letto, che lo difendeva dal freddo notturno, ricordò queste cose solo per un fugace
istante, come tutto quello che era avvenuto quel giorno, e la preoccupazione per quello che sarebbe
successo domani, e di come tornare a casa, lo abbandonarono presto. Edgard si addormentò sognando gli
alberi veri, che era riuscito finalmente a vedere da vicino...
...Il sogno...
Edgard era in una foresta. Così verde che pareva che le foglie fossero di smeraldo, ed il muschio, dipinto
sui tronchi. Si guardò intorno, cercando dove poter andare, o fuggire, ma mentre si girava, vide che ogni
luogo di quel luogo era identico ad ogni altro luogo. Decise allora di camminare dritto davanti a se’, ma
non aveva mosso ancora alcuni passi quando si aprì una falla di tenebra. Dal vuoto oscuro, sgusciò fuori
una creatura, saettando le proprie membra nella luce del giorno. Era un demone, alto più di due metri e
mezzo, con i muscoli di acciaio e le grandi ali nere di pipistrello. Era Taldìt.
Lo sguardo del mostro era fisso su Edgard, e dalle sue pupille gialle usciva un fiume di odio e di dolore che
travolse l’uomo. Ma assorbita la sorpresa e lo sgomento, il presidente si ricordò dove aveva visto quella
creatura. Era l’essere che il suo amico Danis gli aveva mostrato nella sala riunioni della Quazar. Sussurrò:
—Arkànjel...—
L’espressione tesa del mostro si trasformo in un ringhio infernale. Le sue braccia scattarono in avanti, e le
ali si aprirono un poco. Sembrava che il demone volesse balzare addosso ad Edgard, per divorare la sua
carne. Ma per la prima volta in migliaia di anni, Taldìt si controllò. Chiuse, gli occhi, chinò il capo e quindi
si inginocchiò.
—Sì, Egarràin, io sono il Giudice Arkànjel.—
—Perché mi chiami con quel nome?—
Il demone atteggiò il proprio volto in una smorfia divertita. —Tutti noi abbiamo molti nomi...—
—Cosa intendi? Non capisco...—
—Adesso non puoi capire.—
Così dicendo, Taldìt si avviò verso l’uomo, ed arrivato davanti a lui, si inchinò di nuovo, e rialzandosi lo
prese in braccio. L’uomo restò profondamente turbato dal contatto con il demone. Davanti a loro si
spalancò un vortice di oscurità che li inghiottì entrambi.
—Dove siamo?— chiese Edgard. Gli pareva di essere sospeso nel vuoto, immerso nella tenebra assoluta.
Soltanto la sua figura e quella del demone erano visibili.
—Non ha importanza. Non ho molto tempo, Egarràin, e devo spiegarti molte cose.—
—...Sei stato tu a salvarmi, vero? Non sarei mai potuto sopravvivere alla distruzione dell’Ancelle,
altrimenti.—
—Sì. Ti ho ridato la vita.—
—Perché non hai salvato anche gli altri?—
—Perché non avevo alcun motivo per farlo. Tu mi servi, loro no. È chiaro?—
Edgard guardò quell’essere con odio.
—No, Presidente, risparmiatemi la vostra etica. Non l’avevate quando gli unionisti sterminarono la mia
famiglia, e molta della mia gente. E certo che doveva essere molto profonda, e guidare ogni vostro
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gesto... — il tono della voce saliva rapidamente — ...quando avete deciso di rinchiudermi nell’Inferno e di
farmi questo!— Gridò il demone mostrando le proprie braccia artigliate ad Edgard.
—Non sapevamo che gli unionisti erano intervenuti direttamente... E non vi abbiamo trasformati noi in
demoni, ma è successo qualcosa che...—
—Che non sarebbe successo se ci aveste lasciati in pace.—
Edgard dovette ammettere a se stesso che Arkànjel aveva ragione. Provò a dire, come per scusarsi: — ...Il
vostro sacrificio ha permesso di salvare miliardi di vite.—
—Non essere sciocco, Edgard.— La voce di Taldìt divenne suadente, per quanto la sua gola potesse
pronunciare suoni dolci. —Sai anche tu che le tue navi stanno combattendo proprio adesso; è l’inizio di
una guerra, signor Presidente, la guerra che avreste voluto evitare.—
Sibilando, il demone concluse: —Il nostro sacrificio non è servito a niente.—
Edgard si rese improvvisamente conto di dover sopportare una responsabilità che non credeva di avere.
Quello che era successo a quel mondo era stata esclusivamente colpa sua.
—Se mi odi così tanto perché mi hai salvato?— chiese.
—Gli unionisti vogliono qualcosa che noi abbiamo: la magia, e sono disposti a tutto pur di averla. Credono
che sia una specie di tecnologia delle distorsioni a buon mercato.— Rispose il demone
—Non è così?— chiese ancora Edgard.
—Sarà necessario che ti spieghi alcune cose, Egarràin. L’universo esiste su due piani; chiamiamoli per
convenzione "esistenza" e "realtà".— Il demone tracciò due cerchi luminescenti nell’aria con il dito, l’uno
dentro l’altro. — L’esistenza è ciò che esiste, quello che è nella struttura dell’universo; la realtà è invece la
parte esteriore, quello che può avere effetto sulle nostre vite, e sulla nostra realtà.—
—È una definizione ricorsiva...— notò il presidente.
—È la realtà ad avere una natura ricorsiva. Anzi, la realtà è definita dalla ricorsività stessa. Ciò che è
ricorsivo è reale e ciò che è reale e ricorsivo; persino quelle che voi chiamate particelle elementari... ma
questo ci porta lontano, e ora non ho tempo.—
Edgard era abituato a pensare per tesi discendenti da ipotesi, per teoremi che richiedno dimostrazioni, e
non comprese quello che Taldìt intendeva. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni ma il demone proseguì: —
Dunque, in condizioni normali i due livelli coincidono...— I due cerchi divennero uno più grande e l’altro
più piccolo, fino a sovrapporsi. —...Grazie alle distorsioni voi potete agire sull’esistenza dell’universo, e la
realtà seguirà di pari passo.—I cerchi si allungarono fino ad assumere la forma di un uovo. —La magia,
invece, agisce sulla realtà, senza modificare l’esistenza.— uno dei due cerchi ritornò alla propria forma
rotonda; l’altro rimase di forma ovale. —La magia è un’alterazione temporanea della realtà, ma l’esistenza
che c’è dietro rimane immutata. Per questo i vostri esperimenti sono falliti: la magia era stata usata
ovunque, prima che voi interveniste. Le vostre modifiche all’esistenza non cambiavano la realtà quanto
volevate. Ogni volta che un incantesimo modificava il mondo, la distanza tra realtà ed esistenza aumentava,
rendendo sempre più inefficaci i vostri interventi...—
Il presidente riflettè. Quello che aveva di fronte era un concetto totalmente nuovo dell’universo, e gli fu
necessario un certo sforzo per comprendere. Ammesso che quello che Arkànjel gli stava raccontando fosse
vero.
Se fosse stato come il demone diceva, era chiaro perché nel rilevamento alle distorsioni il pianeta aveva
una forma assurda: quella era la forma che i federali stessi gli avevano dato. Quella era l’esistenza del
pianeta, mentre la realtà, tenuta insieme dalla magia, lo faceva apparire normale.
—Esattamente,— rispose Taldìt che aveva letto il suo pensiero, —e prima che ve ne andiate, sarà meglio
che rimettiate le cose a posto: comincia ad essere faticoso contrastare i vostri... "interventi..."—
Edgard si accorse di essere vuoto di pensieri, incapace di riflettere coerentemente: poteva solo accettare la
realtà... che strano termine, adesso... che gli veniva proposta.
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ShtàrLàn - Capitolo 9
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—Cosa posso fare io...?—
—Puoi salvare il nostro mondo. È il minimo che tu possa fare, dopo aver più volte tentato di distruggerlo,
non trovi? Inoltre, porteresti a termine la tua missione.—
—Ho con me un fucile mitragliatore, ed alcune armi che potrei definire preistoriche. Cosa posso fare?—
—Sei monotono. Le possibilità della magia ti stupiranno, Edgard, sappile cogliere quando sarà il momento.
Fino ad allora, lasciati guidare dai tuoi nuovi compagni, e dagli eventi. Ho un piano, Edgard, e tu sai
quanto io sia bravo a fare piani...—
La mente di Arkànjel era stata progettata più come un computer biologico che come un cervello.
—E ricorda: tu sei Egarràin, il Creatore, e che tu lo creda o no, su questo mondo hai il pieno controllo
sulla realtà che ti circonda.—
Queste furono le ultime parole del Dio-Demone; il Presidente aprì gli occhi nella penombra. Aveva un
ronzio assordante nelle orecchie, e cercò di scuotere la testa per scacciarlo, senza molto successo.
Comunque, non c’era niente da fare: la stanchezza era grande, ed il ronzio non accennava a diminuire,
quindi Edgard si arrese all’idea e si coricò su di un fianco, chiudendo gli occhi e sperando di prendere
sonno molto in fretta. Ed in fretta, si addormentò di nuovo.
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ShtàrLàn - Intermezzo
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Intermezzo
—Ma perché no?!—
Era la voce del vigoroso re del Kalédion, Zòrand III. Indossava un ricco ma semplice abito nero, una
specie di tunica con pantaloni molto larghi al posto della gonna. Il suo volto arrossato esaltava la corta
barbetta nera, mentre discuteva con l'alto prelato che gli stava di fronte: Dòren Pavél. Sebbene la religione
di DàganSén non fosse organizzata secondo gerarchie rigide, Pavél era considerato il più vicino degli
uomini al dio, ed il capo spirituale della Chiesa. Aveva un'espressione serena e ferma, anche se il suo volto
lasciava trasparire la sua tarda età.
—Questo è il volere di DàganSén.—
—Non capisco. Uno stregone che guida una banda di mostri distrugge le nostre colonie, e noi abbiamo
l'arma più potente che si sia mai...—
—Basta così.— Lo sguardo forte del sacerdote bloccò il giovane re. Il tono più duro di suo padre, negli
anni del vigore, non avrebbe potuto incutergli maggior timore. Il sacerdote continuò, con voce tranquilla,
ma sicuro che le sue parole avrebbero avuto un peso ben diverso da quello che il loro tono formale avrebbe
conferito.
—Forse sua maestà, oppresso da mille impegni, ha dovuto fare luogo in mente per altre questioni, ed ora
non può ricordare che la ShtàrLàn non è un arma, ma è solo uno strumento della volontà di DàganSén.—
La forza delle parole del gran sacerdote bloccò per un attimo il giovane re; eppure, non poteva permettere
che la sua autorità fosse calpestata in questo modo. Che diamine, quello era pur sempre un suo suddito!
—Io sono il re! Voi ed il vostro dio potete dannarmi, ma io devo proteggere e difendere il mio popolo,
anche a costo dell'ira di DàganSén.—
Pavél sorrise. —Il “mio” Dio?— chiese. —Pensavo fosse anche il vostro... e lo pensava anche DàganSén...
—
Zorand non si lasciò intimidire. —Sapete cosa intendo. La ShtàrLàn è stata pagata con il lavoro delle
braccia dei contadini e dei marinai di tutto il Kalédion, ed è loro di diritto.—
—La ShtàrLàn, appartiene a DàganSén. Ma vedo che questo argomento non vi convince. Allora ve ne
propongo uno più interessante. Il tensìt Dénel vi potrà confermare che per essere operativa, la nave delle
stelle avrà bisogno di un completo equipaggio di valorosi uomini.—
—Ho uomini molto valorosi al mio comando...—
—Serviranno quattro guerrieri, che voi avete sicuramente, ma servono anche un mago ed uno stregone.—
—Possiamo trovarli.—
—Dove? Qui a BàiVil? Quei due maghi rimbambiti che abitano qui non si muoverebbero dalla loro
poltrona neanche se crollasse il pavimento sotto ai loro piedi. E anche se si muovessero, non sarebbero
capaci di fare molto a bordo della ShtàrLàn.—
—Quindi?—
—DàganSén ha già trovato i valorosi che guideranno la nave, e li sta portando qui.—
La cosa, al re, non piaceva. La ShtàrLàn era una fonte di potere notevole; non solo non avrebbe potuto
disporne a sua volontà, ma gli uomini a bordo non sarebbero stati suoi comandanti, ma uomini fedeli alla
Chiesa. Il fatto che questo potere non fosse sotto il suo controllo, ma alle dipendenze di un prete...
—Maestà,— disse allora Pavél, interpretando i pensieri del re, —il potere della ShtàrLàn è stato portato in
questo mondo solo per salvarci da una minaccia tremenda. Non può essere messo al servizio di una
nazione, altrimenti l'equilibrio del nostro mondo verrà spezzato, causandone la distruzione.—
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ShtàrLàn - Intermezzo
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—No...— disse piano il re. —No! — ripeté più forte. —Voi volete dirmi che se spazzassi via dai mari per
sempre i pirati del Drenn, con il potere delle ShtàrLàn, questo sarebbe male? Sapete che gli altri principi
del Solland stanno progettando di invadere il Kalédion, come tre secoli fa? Sapete che la nave che Dénel ha
costruito potrebbe anche fermare una guerra che significherebbe sofferenze immani per il nostro popolo?
Non vi credo. Non credo né a voi, né a DàganSén. Non gli crederei se si presentasse in persona qui davanti
a me. Acconsentirò di attendere due giorni l'arrivo dei vostri "predestinati", ma se all'alba di DémainDàl
prossimo non saranno arrivati, la ShtàrLàn partirà. E questo sia con la vostra benedizione che con la vostra
maledizione, Pavél.—
Così detto, Zorand III si girò, e senza congedarsi, uscì dalla piccola sala dei colloqui del palazzo reale.
Dòren Pavél rimase calmo, in piedi, ancora qualche istante. Anzi, sulle labbra aveva un sorriso enigmatico,
come se il re si fosse comportato proprio secondo le aspettative. Ed in effetti, era proprio accaduto quello
che sarebbe dovuto accadere. A parte il fatto che le parole usate da Zorand erano state forse troppo dure;
conscio di questo, Dòren si concentrò e disse piano:—Perdonatelo, Mio Signore. —
La calma voce di DàganSén, che spesso gli parlava, lo raggiunse ancora una volta. Ma stavolta vi era una
sfumatura di irritazione. —Perdonarlo?—
—Sì mio signore. Lui non comprende ciò che ha detto.—
—Davvero? Eppure a me è sembrato che lo comprendesse benissimo...—
Nel frattempo, Tàlmon Dàrini osservava un grande specchio incorniciato in un elaborato intaglio dorato.
La superficie dello specchio era offuscata da nubi di fumo... era il segno che Brandin, la sua fidata spia,
voleva parlare con lui. Quindi con una secca parola di potere, comparve l'immagine appena visibile del
giovane servo immerso in una foresta buia.
—Vedo con piacere che sei ancora sveglio, vecchio pazzo.—
—Mi chiedo per quanto tempo dovrò sopportarti.— rispose sospirando Dàrini.
—Ho pensato che...—
—Non sei pagato per pensare, Brandin.—
—Lo so, ma se avessi avuto bisogno di una creatura incapace di pensare, avresti inviato un familiare.—
Dàrini sollevò un sopracciglio: —A volte mi stupisci, spia.—
Brandin eseguì un beffardo inchino.
—Dicevamo, ho pensato che se hai bisogno di un mago non c'è alcun bisogno di rapire questo EmelFèl. —
—I miei ordini non sono in discussione. Se pensi che sia troppo difficile sparisci, e fallo bene se non vuoi
che ti trovi.—
—Niente di più facile, per me, ma vedi: ho pensato che un mago meno esperto di quel Valentine potrebbe
essere più malleabile.—
Dàrini non era uno stupido, e nemmeno Brandin. Evidentemente il furfante aveva spiato il proprio padrone,
scoprendo come mai lo stregone avesse bisogno di un mago. In realtà serviva al Creatore, che voleva
scoprire l'uso della magia: gli spiriti si erano rivelati troppo diversi ed alieni per essere soggetti al suo
studio, quindi sarebbe servito un mago; uno qualsiasi.
Più di una volta aveva sottovalutato quel giovane che aveva avuto il coraggio di presentarsi in casa sua.
Portare una persona così pericolosa nel suo quartier generale sarebbe stato avventato. Infatti, un mago, al
contrario di uno stregone, può sempre riuscire ad usare la propria magia, in qualsiasi condizione si trovi.
Un mago esperto, per quante precauzioni venissero prese, avrebbe potuto avere qualche sorpresa in serbo,
e Dàrini non voleva avere altre sorprese. Brandin aveva avuto un ottimo spunto... Un mago bastava, e se
fosse stato meno potente di EmelFèl non ne poteva venire che bene.
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ShtàrLàn - Intermezzo
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—Vai avanti, spia.—
—La ragazza elfa sa usare la magia, e da come parla con gli altri ho capito che è molto meno esperta del
mago umano. Sta imparando.—
—Bene. Fai come credi meglio. E vedi di liberarti degli altri.—
—Certo, stregone.—
Così dicendo, l'immagine scomparve.
Dàrini si allontanò dallo specchio, unico arredamento della spoglia sala nera, riflettendo. Adesso che Sèmel
era scomparso, i sacerdoti di SàiVòd avrebbero iniziato a dargli la caccia. Male. Anzi, sempre peggio.
Stava crollando tutto... ma nel momento in cui il Creatore avesse messo le mani su di un mago sarebbero
potuti uscire allo scoperto, e niente avrebbe potuto fermarli. Eppure era così strano che Kàlen fosse
scappato...
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ShtàrLàn - Capitolo 10
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Capitolo 10
Talya percepiva una strana sensazione tra le nebbie del dormiveglia. Le coperte erano troppo pesanti... ed
in particolare sul collo; era difficile respirare. Talya le scansò con la mano. Eppure non ne veniva alcun
sollievo... Cosa aveva sul collo? Mentre usciva dal torpore, si toccò la gola, accarezzando non la propria
pelle, ma lisce scaglie. Spalancò gli occhi per essere sicura di non sognare e strinse con la destra il serpente
che le strisciava addosso, e come se ne rese conto, cercò di urlare. Ma una mano forte le serrò le labbra.
—Se urli o fai qualche altro scherzo, il mio amichetto si metterà a giocare con il tuo bel visino...— La voce
le giunse dall’alto come un coltello. Sentiva il freddo respiro del serpente accanto al suo orecchio, e la
lingua biforcuta che colpiva la sua pelle le dava i brividi di orrore. La mano che le chiudeva la bocca si
allontanò. Su di se’, la ragazza vide un giovane umano snello, di media statura, con i capelli color sabbia
che gli ricadevano sulla fronte; appollaiato sulla sua spalla c’era un demonietto poco più grande di un
grosso pipistrello, con il volto e gli arti deformi e le ali ripiegate attorno al corpo.
Il suono della voce sconosciuta fece scattare Trellin, che dormiva in un letto vicino, ma come aprì gli
occhi, il demone che lo sconosciuto aveva sulla spalla spiccò il volo e fu in un istante sulla testa del
principe. Infilò un suo braccio artigliato dentro il cranio dell’elfo, e lo mosse come se stesse cercando
qualcosa. Quindi lo sguardo di Trellin si fece più vacuo; scosse la testa e si addormentò ancora,
borbottando che doveva aver avuto un incubo. Il demone, fedele, tornò sulla spalla del suo padrone.
Lo sconosciuto parlò: —Come vedi, anche se urli non avrai alcun aiuto. Ti conviene stare buona e zitta.
Alzati!— le ordinò, porgendole una mano per sveltire l’operazione; la ragazza si alzò da sola, ignorando il
gesto dell’umano. Nel mentre, il serpente si assestò meglio attorno al suo collo, cingendolo interamente e
rendendole difficile il respiro.
Come fu in piedi, il sicario le girò attorno, afferrandole le braccia ed incrociandole i polsi dietro la schiena;
quindi disse: — Zed, tienila ferma!—
In risposta, il serpente le serrò le mani tanto stretto che subito l’elfa le sentì gelare.
Quindi, le dita forti del sicario le cinsero un braccio all’altezza del gomito.
—Siccome ripetere non fa mai male,— disse, —niente scherzi. Fai qualsiasi cosa che non sia camminare e
Zed si occuperà di te. Ed ora, vieni!—
Quindi uscì dalla stanza attraversando i corridoi del palazzo. Talya sentiva il freddo cristallo sotto i suoi
piedi nudi, e la sensazione dell’aria che colpiva le sue gambe. La camicia da notte che era il suo unico
indumento era una protezione assai blanda per il freddo, ed il serpente era gelido. Mossero rapidamente
alcuni passi, mentre il rapitore la trascinava di peso. Poco più avanti, dietro la curva, una guardia elfa
armata di una lunga alabarda sorvegliava il corridoio. Gli occhi di Talya si riempirono di speranza... ma il
demone appollaiato sulla spalla del suo carceriere volò dritto verso l’elfo, infilando le sue braccia nere
dentro la testa della sua vittima. L’uomo sorrise e si fermò guardando la sentinella inerme. Quindi le diede
un buffetto sulla guancia e ridacchiò.
—He, he... Fantastico, mi vedono ma non mi notano! Quando Dàrini si impegna fa delle cose incredibili...
non trovi, ragazza?—
L’elfo osservò Talya mentre veniva trascinata via, come se si trattasse di uno spettacolo di burattini, non di
una cosa reale. La ragazza venne colta dal terrore nella consapevolezza che le guardie del palazzo li
avrebbero fatti uscire senza opporre alcuna resistenza. Ed infatti, presto furono fuori dall’edificio. Il freddo
della notte colpì Talya come una frusta, e l’erba del giardino ferì la pelle dei suoi piedi. Ma l’aguzzino
continuava a trascinarla senza pietà. Furono presto lontani, dal paese ed arrivarono ad una radura dove
erano attesi da due uomini a cavallo. Un terzo cavallo era stato legato ad un carretto con due ruote, privo
di ogni sistemazione interna. Senza troppe cerimonie, Talya venne spinta dentro il carro.
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—Mettiti in ginocchio.— Le ingiunse il rapitore, ma Talya lo ignorò, sistemandosi seduta come meglio
poteva. Un poderoso schiaffo le raggiunse il volto, tagliandole il palato che aveva battuto contro i denti,
riempiendo la sua bocca con il sapore del sangue.
—Ho detto in ginocchio!—
La principessa fece come le era stato ordinato, appoggiando le mani bloccate dal serpente sopra i piedi.
L’uomo ordinò semplicemente:— Zed...— ed il serpente incuneò il proprio corpo attorno alle caviglie
dell’elfa, stringendole tanto forte che questa si lasciò sfuggire un soffocato grido di dolore.
—Zed... non così forte. Non vogliamo che la nostra graziosa ospite si faccia male, non è vero?— La
sudicia mano del sicario strinse il mento della principessina, sul quale stava scorrendo un piccolo rivolo di
sangue. Talya trovò la forza di divincolarsi dal viscido tocco, provocando l’ilarità dell’umano. Comunque,
Zed obbedì e la tensione sulle caviglie si allentò un poco.
Talya parlò: —Non riuscirai a fuggire alla vendetta di mio padre, maiale umano.—
—Davvero? Tuo padre ed i tuoi amici in questo momento sono tutti morti, piccola. Ed ora chiudi quella
bocca, la tua voce mi irrita.— Quindi il sicario estrasse una lunga striscia di velluto nero, e cinse la testa
della principessa, così da bendarla. —Una piccola precauzione. Non mi piace avere gli occhi di una strega
puntati addosso...—
—Non sono una strega...— sibilò con rabbia la ragazza.
L’aguzzino strinse nella mano il volto della giovane elfa tanto forte da farle male, e le disse: —Se ti sento
pronunciare un’altra parola, ti strapperò la lingua a morsi, strega.—
Talya ebbe la forte sensazione che l’umano non stesse usando un eufemismo.
Così dicendo, Brandin l’assassino scaraventò la ragazza ancora in ginocchio sul fondo del carro, quindi
saltò sul cavallo che lo trainava ed iniziò la marcia, dando ordine ai due uomini di scorta di cancellare ogni
traccia.
Tòret era abituato a dormire solo con parte della mente; si tratta di una particolare abilità che completa
l’addestramento dei guerrieri dell’esercito Kalédionìt. Anche se non era stato inserito nei ranghi, era stato
preparato come un guerriero regolare; ma quella notte, sentendosi protetto dalle mura del palazzo di
Lunasìt, non aveva usato quell’abilità.
Un ringhio sommesso esplose nella mente del guerriero. Belém gli stava mordendo un orecchio, cercando
di svegliarlo; fu così che Tòret poté sentire un movimento nella stanza, un fruscio, che non poteva essere il
goffo incedere di chi cerca di muoversi a tentoni senza svegliare gli altri. Il suo risveglio fu totale ed
immediato; tenendo gli occhi chiusi infilò la mano di fianco al materasso, dove aveva nascosto la sua spada
magica prima di dormire. Quando il fruscio si fece molto vicino, socchiuse gli occhi quel tanto che bastava
per vedere chiaramente, ma in modo da sembrare completamente addormentato. Un ombra sottile era di
fronte a lui, le braccia alzate, pronta a calare un colpo mortale.
Tòret urlò, per svegliare i compagni, e contemporaneamente gettò la coperta sul volto dell’assalitore.
Paralizzato dalla sorpresa, l’assassino non poté fare altro che ricevere il mortale stocco della spada del
guerriero.
Vàlen, sprofondato nel sonno non riuscì a svegliarsi istantaneamente, ed il coltello di un assassino si
abbassò su di lui mentre ancora tentava lottava per svegliarsi. Ma il mago aveva pensato di tenere sempre
con sé il disco di vetro, anche mentre dormiva, così che questo, se avesse voluto, avrebbe potuto parlargli
nei sogni. Il coltello avrebbe trapassato sicuramente il cuore del ragazzo, non fosse stato per il medaglione:
come la lama lo colpì, il disco si illuminò, diventando incandescente ed investendo con una luce accecante
il volto del sicario. Vàlen urlò di dolore per la forte bruciatura al petto, ma l’assalitore cadde morto, con la
faccia e le mani fumanti.
Gli altri sicari erano ancora intenti ad appostarsi, e vennero colti di sorpresa; la stanza era buia, ma la luce
della spada magica di Trott era più che sufficiente per illuminarli tutti. Ròndal, Hellis ed Edgard si
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destarono proprio allora. Il barone fu il primo ad afferrare la situazione: il suo rigoroso allenamento
DàiKan gli permise di essere immediatamente lucido. Il falco scattò verso il più vicino degli intrusi; la lama
avvelenata dell’assassino saettò contro lo stregone, ma questi bloccò prontamente il braccio avversario,
quindi roteò su se stesso e facendo leva sulla propria spalla spaccò il gomito del nemico. Il suo urlo, come
il suo respiro, fu interrotto da un preciso calcio alla gola; l’assassino cadde morto.
La reazione delle vittime aveva confuso i sicari. Ne rimanevano solo tre, che cercarono rapidamente una
via di fuga; ma Ròndal e Trott li spinsero contro una parete di solido cristallo; intanto Hellis si era alzato,
dirigendosi con calma verso i nemici, ed Edgard aveva impugnato il disintegratore antariano. Vedendosi
accerchiati e senza via di fuga, i sicari compirono il loro ultimo dovere. Uno dopo l’altro, prima di poter
essere fermati, immersero le lame nelle proprie carni; il veleno fece effetto in pochi secondi, prima che
Edgard potesse neutralizzarlo, o che Hellis potesse ridurne gli effetti con la magia.
Gli uomini raggiunsero il letto di Vàlen, che si stava lamentando per il dolore della bruciatura al petto.
—Tutto bene, Val?— chiese il grande guerriero.
—Poteva andare peggio...— rispose il mago osservando l’assassino mutilato dal calore che giaceva ai piedi
del letto. Hellis scostò la camicia da notte del giovane, sollevando il medaglione e controllando la ferita.
—Fa male, ma non è grave, ragazzo. Va disinfettata e bendata; domattina quasi non sentirai più dolore, e
guarirà in un paio di settimane.— Quindi si diresse verso il proprio bagaglio cercando bende ed unguenti.
Notò con disappunto che in pochi giorni aveva quasi dato fondo alla propria scorta.
Ròndal si avvicinò ai cadaveri per esaminarli. —Sono sicari Bastén. Provengono dal Drenn e generalmente
non sbagliano. Siamo stati fortunati...— aggiunse guardando Tòret. Il barone sapeva che erano tutti vivi
solo per merito dell’istinto del guerriero, e nel suo intenso sguardo di falco vi era una seria gratitudine.
Tòret, non trovando nulla da dire al riguardo, annuì ed osservò serio il piccolo cucciolo di lupo che stava
seduto sulle zampe posteriori guardandosi intorno impaurito. Non fosse stato per lui...
Giunsero quasi subito due guardie elfe, che spalancarono la porta entrando a spade sguainate nella stanza.
I corpi ammantati di nero lasciati sul pavimento spiegarono l’accaduto più di qualsiasi parola... Quindi si
rivolsero agli umani chiedendo nella loro lingua: —State tutti bene?—
—Sì— disse Vàlen ansimando, mentre Hellis rimuoveva la vestaglia bruciata. Quindi il suo sguardo si fece
rapidamente allarmato; girandosi verso le guardie domandò: —Dove sono il Principe e sua figlia?—
—Nei loro appartamenti.—
Vàlen ebbe un presentimento atroce, che lo costrinse ad alzarsi di scatto mentre Hellis stava per bendarlo,
ed a correre seminudo per tutto il palazzo. Fu subito inseguito da Ròndal e Trott, e subito dietro, dalle
guardie.
Edgard non aveva capito assolutamente niente di quello che era successo, se non che qualcuno aveva
tentato di ucciderli nel sonno; guardò Hellis che era rimasto sorpreso dallo scatto del ragazzo, e gli disse
nella lingua antica: —Sarebbe meglio andare con loro.—
—Certo...— convenne il sacerdote, quindi i due si incamminarono svelti dietro agli altri.
Vàlen sapeva dove erano stati alloggiati i principi: bastava salire in alto. L’appartamento più alto era il
loro. Qualche guardia attirata dal trambusto cercò di fermare Vàlen, ma questi disse loro che il Principe
avrebbe potuto essere in pericolo, ed ingiunse di seguirlo.
Presto Vàlen giunse davanti all’appartamento reale, e tutto il gruppo che si era formato dietro a lui poté
vedere che la porta era spalancata. Il mago entrò senza cerimonie, e vide che uno dei due letti era vuoto.
—Talya...— sussurrò. Trellin si svegliò quasi subito, destato da tutti quei visitatori.
—Che succede?... come...— cercò di dire ancora insonnolito.
—Trellin,— chiese Vàlen avvicinandosi, —dov’è Talya?—
Il principe elfo guardò il vuoto letto di sua figlia, e poi esclamò: —Santo Egarràin, non era un incubo! L’ha
portata via!—
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—Cosa!?—
Ma l’elfo non rispose e si alzò impartendo ordini concitati alle guardie del palazzo. Vàlen lo strattonò per
un braccio.
—Mi vuoi spiegare cosa è successo?—
Nel frattempo la sala era stata abbandonata dalle guardie, ed erano giunti attorno al principe tutti gli umani.
—Un sicario è entrato nella stanza ed ha rapito Talya...— rispose l’elfo indossando in fretta i propri vestiti
e preparando le armi.
—Ma... perché non glielo hai impedito?—
—Non lo so. L’ho visto ma non sono riuscito a fare niente.—
Ròndal intervenne: —Si tratta di un complesso incantesimo ad opera degli spiriti dell’oblio. Il suo nome è
Invisibilità Fittizia. Questo sicario si è aggirato indisturbato nel palazzo assieme a Talya.—
Vàlen non riusciva a decifrare le proprie emozioni, miste di rabbia, paura, disperazione e frenesia di agire.
Paralizzata dall’indecisione, la mente del ragazzo fu contattata ancora una volta dalla voce del disco di
vetro.
—Vàlen, ascolta. Non lasciare che la furia ti accechi. Devi raggiungere BàiVil al più presto.—
—Ma... Talya è in pericolo.—
—Non puoi fare niente per lei adesso. Cerca di salvarla e morirete tutti. Lasciati guidare; devi
raggiungere BàiVil entro domani all'alba, altrimenti sarà la fine di tutto.—
—Ma ci vuole un giorno di fiume solo per arrivare a KalédionSàl, e da lì ci sono due giorni di mare per
il Sòllan...—
—Ti dirò io come fare. L’importante è che ti faccia dare una barca veloce.—
La voce lo abbandonò. In tutto, il suo intervento non era durato più di un secondo, tanto che nessuno se ne
accorse.
Per alcuni istanti Vàlen cercò di capire. La voce aveva detto che se avesse tentato di salvare Talya,
sarebbero morti entrambi. E se attendeva? Talya era ormai condannata? Non poteva permetterlo, doveva
almeno tentare. E poi chi era che comunicava con lui? Se fosse stato un trucco di Dàrini, o dei Creatori,
per allontanarlo? E se invece fosse stato tutto vero?
Esisteva un’unica soluzione: tentare entrambe le strade.
—Trellin,— disse il mago mentre il principe sistemava la spada, —dovrai fidarti di me ancora una volta. —
L’elfo guardò truce il ragazzo. —Non mi piace quando dici così.—
—Dobbiamo separarci, Trellin. Tu dovrai inseguire i rapitori di Talya fino al nascondiglio di Dàrini, mentre
noi dobbiamo raggiungere al più presto BàiVil.—
—Perché?— chiese il principe, anticipando tutti gli altri.
—Ci aspettano laggiù per qualcosa di molto importante. Non posso dirti di più. Devi fidarti di me, e basta.
—
—Vàlen...— stava iniziando Trellin, con la chiara intenzione di scaricare sul ragazzo tutta la sua rabbia
sotto forma di insulti, —Vàlen... Come osi abbandonare Talya adesso?—
Il mago prese in mano il disco di vetro che portava al collo, mostrandolo a tutti. Improvvisamente una
grande luce bianca squarciò la penombra della stanza. Vàlen si rivolse al Vescovo di Thàris.
—Hellis... sei certo che questa sia davvero un disco degli dei.—
—Adesso non ho dubbi, figliolo.—
—Bene; allora fidatevi di me.—
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Trellin non credeva né in DàganSén né in ShtàrRésel, né alcun altro dio Umano. Tutto ciò che sapeva era
che la sua bambina era stata rapita davanti ai suoi occhi e che lui non aveva potuto impedirlo; e che adesso
questi... umani... lo stavano abbandonando...
—Trellin; credo di sapere perché hanno rapito Talya.—
—Sentiamo. Hai un minuto.—
—I Creatori del Male cercano di scoprire come funziona la Magia. Mandano qui uno di loro, che per caso
incontra uno stregone, diciamo Dàrini. Il Creatore cerca di apprendere da lui l’uso della magia ma non ci
riesce, perché gli stregoni usano gli spiriti per compiere incantesimi...—
—Il tuo tempo sta per finire, umano...— Trellin era decisamente minaccioso.
—... Quindi si mette a cercare un mago.—
—Ed allora?—
—In sostanza, primo: hanno bisogno di Talya e se hanno fatto tanta fatica per portarla via, vuol dire che il
loro bisogno è disperato. Secondo: ovunque sia Dàrini troverai anche un esercito di goblin, e forse di
orchi. Oltre, ovviamente ad un nutrito stuolo di combattenti... umani...—
—Non mi fermeranno.—
—Ed oltre a loro troverai ad attenderti i Creatori del Male.—
Non importava aggiungere altro. Trellin sarebbe andato incontro alla morte felicemente, pur di salvare sua
figlia, ma Vàlen, come sempre, aveva ragione. Il suo gesto sarebbe stato inutile.
—La nostra unica speranza è di raggiungere BàiVil entro domani all'alba. Così mi è stato detto.—
—Dovrei stare qui ad aspettare che torniate?— Chiese acido il principe.
—Assolutamente no! Devi inseguire quei bastardi e trovare la loro tana, altrimenti siamo perduti. E non
devi farti scoprire; la tua vita e quella di Talya varrebbero meno di uno scellino.—
—Ho capito... Come faremo a tenerci in contatto?—
Vàlen si avvicinò al principe. Avevano più o meno la stessa altezza, anche se l’elfo era leggermente più
basso. Trellin aveva il sospetto di sapere ciò che il mago stava per fare, e non gli piaceva. Ma non c’era
altro modo.
Il ragazzo appoggiò la mano destra sopra alla fronte dell’elfo, chiuse gli occhi e si concentrò. Dopo alcuni
istanti pronunciò le parole magiche di un incantesimo molto lungo ed articolato; il principe elfo sentì fluire
in lui la forza della magia. Tutti i suoi ricordi, anche quelli più segreti, affiorarono insieme nella superficie
dei suoi pensieri. Sapeva che Vàlen stava unendo le loro menti; i pochi ricordi della breve vita del ragazzo
furono come un lampo in confronto a quelli accumulati in otto secoli dal principe.
L’impatto della mente dell’elfo su quella del giovane umano fu immane, e Vàlen dovette impiegare tutta la
propria forza per resistere: avrebbe facilmente potuto subire danni irreparabili, e anche morire, sommerso
dalla grande energia di così tanti pensieri. Ma Vàlen era un mago abile, e seppur con estrema fatica, riuscì
a dominare il flusso mentale che lo stava sommergendo.
Quando tutto fu finito, il mago si accasciò a terra, subito soccorso da Tòret. Trellin rimase impassibile e
chiese: —Cosa hai fatto, mago?—
—Adesso, ti basterà pensare a me per farmi sentire i tuoi pensieri. Saprò sempre dove sei, e potrò aiutarti
anche da lontano. È la prima volta che ci provo...— disse con un filo di voce il ragazzo, mentre Tòret lo
aiutava a rimettersi in piedi.
—Bene. Adesso che ci conosciamo meglio, io vado. Vi farò dare una barca per raggiungere BàiVil; io
prenderò alcuni elfi e seguirò le tracce dei rapitori.—
Così detto, Trellin uscì rapidamente dalla stanza. Vàlen si rialzò e disse, ancora tremante: —Prepariamo le
nostre cose. Dovremo lasciare qui i cavalli e buona parte della nostra attrezzatura; dobbiamo portare il
minimo indispensabile.—
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Hellis chiese: —Come faremo ad arrivare così presto a BàiVil?—
—Non lo so ancora Hellis... non l’avrei mai detto ma... confido negli dei.—
In meno di cinque minuti, il principe montava il cavallo più veloce della scuderia di Lunasìt, e con lui
c’erano quattro suoi fedeli sudditi. Vàlen era rimasto a palazzo, e Trellin aveva dato ordine che gli venisse
procurata una barca veloce e sicura, in grado di affrontare anche il mare aperto. Da quando Talya era
sparita non poteva essere passato molto, anche se non si poteva avere un’idea precisa del lasso intercorso;
era probabile che, prima di attaccare, i sicari sistemati dagli umani avessero atteso a lungo. A dire il vero
era quasi impossibile il contrario.
Trellin ricordava vagamente di aver già intravisto i suoi nuovi compagni, nella sua lunga vita, ed era certo
che fossero elfi di grande valore. I saluti furono brevi, e non ci fu tempo per presentarsi; loro sapevano chi
fosse Trellin, e questo era più che sufficiente. Sapevano anche che dovevano inseguire l’uomo che aveva
rapito sua figlia.
—In marcia!— fu il primo ordine del principe.
Il sicario non si era preoccupato di non lasciare impronte o altre tracce. Non fu difficile individuare il
percorso che aveva seguito; aveva praticamente trascinato Talya. La pista terminava in una radura, dove
due piccoli solchi paralleli nel terriccio indicavano la presenza di un carro. Vi erano inoltre le tracce di altri
due cavalli... Erano in pochi.
Ad una prima analisi, sembrava che il carretto non si fosse mosso; sembrava fosse letteralmente sparito.
Poi uno degli elfi della scorta notò un rampicante reciso da non più di un ora. Smuovendo le foglie che
sembravano depositate da molto tempo, riaffiorarono i solchi lasciati dalle ruote e dai ferri di cavallo.
Erano passati di lì, e si erano dati un gran daffare per coprire il tutto; erano molto in gamba per essere
umani. Comunque, l’inseguimento ebbe inizio seguendo un sentiero che si allontanava da Lunasìt,
dirigendo verso nord-ovest.
Vàlen stava controllato di aver preso tutto l’indispensabile. Avevano dovuto lasciare molte cose lì, ma non
c’era tempo adesso di preoccuparsi dei sacchi a pelo o dell’attrezzatura per cucinare. La barca lunga quasi
dieci metri e dotata di una grande vela triangolare era pronta, ed il mago era l’unico umano ancora a terra.
Il padrone di casa non si era presentato per salutarli; anche se sapeva benissimo cosa fosse successo, il
nobile elfo si era rifugiato nel tempio del palazzo, ritiratosi in preghiera.
Troppa infatti per lui era la vergogna, il velmenél, per aver tradito la fiducia del suo principe: la protezione
offerta si era rivelata inadeguata... e questo avrebbe segnato la sua vita per sempre. Probabilmente, quando
tutto fosse finito, sarebbe stato destituito dal suo rango, nonostante i mezzi di trasporto donati al principe
ed ai suoi compagni.
Tòret era l’unico che sapesse manovrare una barca a vela. La scialuppa elfa era un vero gioiello, sia dal
punto di vista estetico che da quello tecnico. Era realizzata in legno cavo, rinforzato unicamente con uno
smalto magico che lo rendeva molto robusto; era talmente leggera che due o tre uomini forti avrebbero
potuto sollevarla e trasportarla sulla terra. La vela era molto ampia; ad una prima vista sarebbe sembrato
impossibile che la barca potesse sostenerne il peso, ma questa era realizzata in sottilissimo filato di seta, e
l’intera struttura dell’albero, tela e corde incluse, potevano pesare al massimo sei o sette chili.
La barca era progettata per trasportare sei persone (la coperta conteneva sei comode cuccette, un ampio
tavolo ed una specie di ripostiglio). Tuttavia queste sei persone sarebbero dovute essere elfi: Tòret e
Ròndal da soli sembravano riempire tutti gli spazi del mezzo, e Vàlen era più alto di un elfo di taglia
rispettabile.
Era ancora notte fonda quando il guerriero levò gli ormeggi. Diede alcune rapide istruzioni su operazioni
da eseguire (ad esempio come issare la vela) ma la barca era pienamente governabile da un solo uomo.
Quindi il guerriero chiese a Ròndal di occuparsi del timone. La corrente del Fiume d’Argento, dal lago di
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Lunasìt in poi, era assai placida, e quella notte il vento spirava dalle montagne; fino al mare la navigazione
sarebbe stata veloce e priva di sorprese.
Vàlen guardava le sponde del lago illuminate pallidamente dalla luna, mentre si allontanavano svelte.
Placide onde urtavano contro la chiglia, e la barca lasciava una scia argentea dietro di se. Lunasìt, con il
suo palazzo di quarzo, diventava distante, fin quasi a scomparire. Il ragazzo sentì un immenso dolore
quando pensò che quello splendido spettacolo avrebbe illuminato di gioia gli occhi di Talya. Istintivamente
si concentrò, raccogliendo la propria energia, e librando la propria mente toccò una corda invisibile che si
perdeva nella foresta davanti a lui; la sua coscienza venne risucchiata verso l’altro capo. In trance, gli parve
di cavalcare un purosangue che galoppava su un ampio sentiero. Vedeva il calore che si propagava dai
muscoli della bestia.
—Trellin— pensò piano... La sua visione ebbe un sussulto. —Sono io, Vàlen. Volevo solo assicurarmi
che l’incantesimo funzionasse.—
—Funziona.— fu la seccata risposta del principe.
—... li avete trovati?—
—Lo sapresti!—
—...Già, scusa...—
—Adesso ti prego di lasciarmi in pace. Non mi piace la sensazione che dà la magia.—
—Va bene. Ma ricorda, se ci sono guai pensa intensamente a me. Posso aiutarti anche da qui.—
La visione si offuscò. Vàlen osservò il disco di vetro che aveva appeso al collo... la barca elfa era veloce,
ma non sarebbero mai riusciti a raggiungere BàiVil, nel Kalédion del Sud, entro la sera successiva. Quel
messaggero degli dei stava spedendo il mago a trecento miglia da dove sarebbe voluto andare: verso la
tana di quei maledetti. Doveva esserci un motivo... un buon motivo.
Edgard era preso dallo spettacolo che gli si presentava. Non aveva mai viaggiato su di una barca, prima di
allora. L’aria fresca che gli sferzava il viso era come la magia che lo aveva investito quando era giunto su
quel mondo. Era un brivido continuo, un sogno reale. Nessuno si era preso la briga di spiegargli cosa
stesse succedendo; i sicari nella loro stanza e l’urgenza nelle voci dei suoi nuovi compagni l’avevano
convinto che era importante seguire gli altri senza importunarli; adesso però, decise di farsi spiegare cosa
stavano facendo in piena notte su di una barca a vela. Hellis, come lui, contemplava il paesaggio; il
Presidente si avvicinò e chiese al sacerdote: —Cosa è successo esattamente?—
—Talya è stata rapita.— rispose il sacerdote. Edgard non poté fare a meno di notare che Hellis si
esprimeva molto bene in quella lingua che doveva essergli aliena. Lo ammirò: quell’uomo doveva essere un
brillante studioso.
—La ragazza Elfa?— Il presidente era sinceramente sorpreso.
—Sì, lei.—
—Ma perché? A qualcosa a che vedere con la vostra missione?—
La domanda sconcertò Hellis; nessuno aveva parlato con Edgard di quello che stava succedendo sul loro
mondo, e di cosa stavano cercando di fare.
—La nostra missione? E tu cosa ne sai?—
—È una storia lunga.—
—Abbiamo tutta la notte—
Lo sguardo forte del sacerdote era inequivocabile. Da lui non avrebbe ottenuto altro che diffidenza se la
sua risposta non fosse stata più che soddisfacente. Edgard non aveva scelta; se voleva che quelle persone si
fidassero di lui, avrebbe dovuto spiegare loro qualcosa prima di affrontare la spia dei Krix.
—Hellis... visto che abbiamo molto tempo, perdona se parto da lontano.—
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—Ti ascolto.—
—Tu mi sembri una persona molto colta, rispetto alla media della popolazione di questo mondo.—
Hellis non si sentì lusingato. Era troppo sulla difensiva per permettersi di rilassarsi. Non stava
conversando, stava indagando.
—Ho letto qualcosa.— rispose il sacerdote guardingo.
—Sai che questo non è l’unico mondo nell’universo sul quale si trova la vita?—
—L’ho sempre sospettato.— La risposta era fredda, ed avrebbe potuto benissimo nascondere una bugia.
—Io vengo da un altro mondo.—
—Ce lo avevi già detto.—
—Ma non vi ho spiegato il motivo per cui sono qui.—
—Già—
—Vedi, da qualche anno, il mio mondo ha rapporti diplomatici molto tesi con un altro mondo, distante dal
nostro. Capisci le mie parole?—
—Perfettamente.— Rispose ancora più freddo il sacerdote.
—Dunque, sembra che i nostri nemici, i Krix, si siano decisi ad rompere gli indugi: ci dichiareranno guerra
a giorni.—
—Mi dispiace.—
—Il problema è che le nostre forze sono equilibrate. Noi abbiamo armi molto migliori, ma loro sono
numericamente superiori.—
—Capisco.—
Il presidente prese un ampio respiro. —Qui viene il bello. I Krix hanno intravisto una possibilità di rompere
l’equilibrio. Sperano di ottenere armi migliori studiando la forma di potere che avete messo a punto su
questo mondo.—
Hellis sgranò appena percettibilmente gli occhi. Lo straniero parlava forse della Magia? Questa razza
aliena, che lo straniero chiamava Krix, voleva la magia per usarla come arma. Era proprio ciò che volevano
i Creatori del Male; era chiaro...
—I Krix sono i Creatori del Male.— Disse Hellis.
—Sì, voi li chiamate così. La mia missione, come la vostra, è di impedire loro di studiare la magia.—
Hellis non lo ascoltava più. Se due più due fa quattro, altrettanto automaticamente... —Se loro sono i
Creatori del Male, voi non potete essere che i Creatori del Bene...— Hellis espanse la propria mente, fino a
raggiungere lo straniero. E non trovò nulla. Come se l’uomo che aveva davanti non esistesse... Il potere
divino del quale era stato investito era cieco di fronte a quello straniero, proprio come gli dei non avevano
potuto vedere i Creatori.
—Edgard Rayan... Egarraìn...— Sussurrò, stupefatto.
—Ti prego, Hellis. Non farne parola con nessuno, non è necessario. Non posso spiegarti tutto adesso, ma
molte delle vostre leggende sono solo favole. Non siamo degli dei, né noi, né loro. E non lo sono certo io.
Considerami solo un compagno come gli altri; nulla di più. Non posso far spuntare un drago dall’aria, e
neanche incenerire i miei nemici con un fulmine. Non posso volare e non so come riusciate a farlo voi. E
non mi interessa. Tutto quello che voglio è impedire ai Krix di impossessarsi della magia... sempre che sia
possibile. Ed i Krix non sono stupidi.—
Hellis faticò ad assorbire l’idea che l’uomo che aveva di fronte fosse uno di quegli esseri mitici che
avevano dato origine al loro mondo. Non se lo aspettava certo così.
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—Hellis, ti prego...— continuò il presidente, —se torniamo a casa tutti quanti ti racconterò la storia
completa. Adesso non ho intenzione di spiegarti tutto; ti chiedo solo di fare finta di niente. Sono un uomo
come te, davvero! Non devi fingere, è la verità!—
—Io... non riesco a crederci...—
—Meglio così.—
Hellis aveva ancora gli occhi sgranati; la sua espressione era molto eloquente, ma per fortuna, sotto la
pallida luna solo Edgard era abbastanza vicino da vedere il sacerdote in volto. Il presidente toccò una
manica della tunica del maturo uomo che aveva di fronte, scrollandola leggermente. —Allora?—
Il patriarca di Thàris si ricompose. —Per ora, farò come dici. Ma non aspettarti collaborazione se il mio
Dio parlerà contro di te.—
—Non chiedo altro...— disse Edgard, ma ci volle tutta la sua abilità di uomo politico per mantenersi saldo.
Fino a poche ore prima non avrebbe mai creduto all’esistenza di esseri divini, ma poi aveva incontrato
Taldìt... e non c’era alcun motivo di credere che il dio di cui parlava Hellis fosse meno reale del demone
che lo aveva salvato. Non sapeva quali erano i limiti degli esseri che governavano quel mondo, ma era
certo che non avessero un buon ricordo dei loro... creatori. Forse sapevano, come Taldìt, che erano stati
creati per essere sacrificati, in nome di una pace che non avrebbe salvato nessuno. E avrebbero potuto non
essere d’accordo con il demone sull’utilità della sua presenza su Pitermòs... Non gli sarebbe piaciuto
trovarsi di fronte una creatura come quella che lo aveva accolto, e, questa volta, ostile...
Hellis si allontano, fingendo di dimenticare ciò che aveva appreso. Quando il Presidente fu sicuro di non
essere visto, eseguì un antico gesto, una sorta di saluto che era stato dimenticato tanto tempo addietro.
Una preghiera. Nel buio della sua anima pregò di non trovarsi mai faccia a faccia con uno di quegli... dei.
Talya non aveva nemmeno tentato di divincolarsi dalla forte presa del viscido rettile che l’aveva
intrappolata. Avrebbe potuto bruciarlo con un incantesimo, ma il suo carceriere se ne sarebbe accorto. Non
era tanto brava da nascondere il rumore della magia; per ora era meglio attendere. Ed anche se avesse
potuto colpire il serpente e l’umano contemporaneamente, la scorta dei due umani l’avrebbe... uccisa... Il
terrore, come una belva in procinto di sbranarla, era seduto attento in un angolo della sua mente; ma Talya
era faticosamente riuscita a tenerlo a bada. Non sarebbe servito a nulla lasciarsi prendere dal panico. Non
c’era altro da fare che aspettare che il viaggio finisse; ma i suoi polsi e le sue caviglie erano completamente
atrofizzati, e le vibrazioni che le ruote trasmettevano dalla strada le avevano procurato diversi lividi. Il
palato bruciava dove era stato ferito dal colpo dell’umano, e la bocca era amara. Desiderò di essere brava
come Vàlen, nell’uso della magia; a quest’ora si sarebbe già liberata di tutti quegli insignificanti... umani.
Eppure, non c’era altro da fare se non attendere...
Trellin stava esaminando una traccia nel terreno: foglie più umide di quelle che le circondavano.
Sicuramente qualcuno le aveva spostate, per nascondere una traccia più evidente... Doveva ammettere di
aver trovato la pista con molta difficoltà, almeno fino ad ora. Chiamò la propria scorta, mostrando la sua
scoperta; gli altri elfi ammirarono la bravura del loro principe... se egli stesso non avesse mostrato loro le
foglie, non le avrebbero mai trovate.
—Sono passati di qua. Andiamo...— disse rimontando a cavallo.
—Vostra Altezza...— lo fermò il più giovane degli elfi che lo seguivano. Trellin si voltò nervosamente, ed
il ragazzo continuò. —...stiamo entrando nel territorio dei Goblin...—
—Lo so perfettamente. Se vuoi, puoi restare.—
—Io intendevo solo che dovremo essere cauti.—
—Grazie del consiglio. Senza di te saremmo stati sopraffatti...— così dicendo spronò il cavallo al galoppo
lungo la pista appena trovata, seguito dagli altri. Con tutte le soste che avevano dovuto fare per trovare il
percorso seguito dagli umani, pensava, avevano perso almeno una mezz’ora, che sommato al tempo
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impiegato per accorgersi dell’accaduto, faceva circa un’ora. Tuttavia, nel fitto del bosco il carro usato
dagli umani doveva procedere lentamente; forse avevano recuperato quasi tutto lo svantaggio. Rallentò un
poco per consentire ai propri compagni di raggiungerlo, e proprio grazie a questo riuscì ad accorgersi della
presenza di alcune fonti di calore nella boscaglia. Erano poche, e molto distanti. Impossibile stabilire con
certezza di che cosa si trattasse, ma non erano certo animali selvatici: sarebbero fuggiti, spaventati dal
frastuono degli zoccoli dei cavalli. Invece, le sagome rimanevano ferme... osservavano. Fece finta di non
aver visto, ma con la mano nascosta agli estranei, fece cenno ai suoi compagni di guardare verso le
presenze. Gli altri elfi ricevettero il messaggio e si prepararono ad affrontare qualunque cosa si stesse
nascondendo.
Nel frattempo, la barca che ospitava Vàlen e gli altri procedeva placidamente discendendo il Fiume
d’Argento. Tòret si avvicinò al giovane mago, ed osservò le sponde del fiume che scorrevano placide,
cullate dalla pallida luce lunare. La vela della lunga barca era alzata, ma non c’era un filo di brezza a
gonfiarla. Il Kalédion del Nord, protetto da tutti i lati da alte montagne, non era quasi mai spazzato da forti
venti, ed il canale di mare che separava la colonia del nord dalla madre patria sull’isola del Sòllan era quasi
sempre interessato da venti provenienti da est. Sarebbe stata una navigazione lenta. Trott guardò il mago e
disse — Vàlen... se continua così domattina non saremo arrivati neanche a KalédionSàl.—
—Lo so, amico mio...—
Come in risposta ai loro pensieri, un lieve venticello sfiorò la loro pelle; spirava esattamente in direzione
del fiume, verso la foce. Tòret trattenne il fiato, e si mosse pronto a scattare per manovrare la piccola
imbarcazione, in modo da sfruttare quest’alito di vento, se fosse durato. Ma non solo sembrava che il
vento non volesse cessare; continuò a crescere di intensità, tanto che il guerriero si dovette precipitare a
controllare la vela, gridando ordini agli altri su come manovrare le altre parti della barca. Vàlen notò che il
vento non era accompagnato dal rumore del fogliame smosso: la foresta che circondava il fiume era
immobile.
Anche l’acqua del fiume pareva muoversi molto più rapidamente, tanto che sulla superficie prima placida,
si andavano formando delle piccole increspature bianche. Eppure sia la nuova forte corrente che il vento
teso erano così costanti da non strattonare mai la barca, e presto Trott si rilassò. In vita sua non aveva mai
visto niente di simile: un vento con quella costanza aveva un che’ di innaturale.
Fu allora che Vàlen avvertì la sensazione ormai usuale del calore proveniente dal disco di vetro. Il piccolo
oggetto comunicò al mago: —...Scusa se ci ho messo un po’, ma non hai idea di quanto pesi l’aria...—
Il ragazzo rimase a bocca aperta. Quale potere era in grado di smuovere il vento in quel modo se non
quello di un dio?
Trellin continuava a vedere il calore emanato dalle figure che si avvicinavano. Erano veloci, ma
rimanevano indietro rispetto ai cavalli degli elfi; se avessero voluto inseguirli, avrebbero dovuto scendere
sul sentiero, uscendo allo scoperto, e così fecero. Erano goblin, in groppa a grossi lupi neri; quando i
cavalli percepirono l’odore dei lupi, scalpitarono per correre ancora più veloce. Erano quasi terrorizzati;
solo la coscienza della forza dei loro cavalieri, e del fatto che il avrebbero protetti, li teneva calmi.
In ogni caso i Goblin perdevano rapidamente terreno; eppure non sembrava che spingessero i lupi alla
massima velocità; non sembrava che fossero intenzionati a raggiungerli. Forse si erano resi conto
dell’inferiorità delle loro cavalcature... o forse... era una trappola!
Infatti, da una curva poche decine di metri più avanti spuntarono altri goblin; alcuni cavalcavano lupi, altri
invece erano appiedati, e portavano un piccolo arco. I cavalli, vedendo i lupi che correvano loro in contro,
furono come impazziti. Si arrestarono di botto, rischiando di far cadere i loro cavalieri, e si alzarono sulle
zampe posteriori nitrendo furiosamente. Così era impossibile organizzare un qualsiasi tipo di
contrattacco... Sarebbero stati sconfitti.
Trellin, disperatamente, gridò a voce alta: —Vàlen!—
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A molte miglia di distanza, il mago alzò lo sguardo; quindi chiuse gli occhi e si concentrò sulla figura del
principe elfo. La sua mente volò come uno sparviero attraverso la foresta, ed in un lampo fu negli occhi di
Trellin. Non c’era molto tempo: ancora pochi passi ed i lupi, da entrambi i lati, sarebbero balzati addosso
agli elfi. Erano almeno dieci, forse di più; non poteva fermarli con un incantesimo; a meno che... era
difficile... ed avrebbe richiesto tutta la sua forza. Ma non poteva esitare. Un muro di fuoco, posto sia
davanti che dietro gli elfi, avrebbe fermato i lupi; ma il muro doveva essere reso invisibile, o i lupi lo
avrebbero aggirato, invece di cadere in trappola... E così Vàlen si concentrò rapidamente sull’immagine del
muro infuocato, senza nemmeno pronunciare le parole: non c’era tempo. Così in fretta avrebbe potuto
sbagliare qualcosa; ma ormai era fatta. Il rombo della magia frastornò l’elfo, proprio un istante prima che i
lupi spiccassero il balzo. I goblin in sella sogghignavano con le spade sguainate: sarebbe stato tutto molto
facile.
Ma proprio a mezz’aria, gli assalitori furono colpiti da una forza invisibile; le fiamme avvolsero i corpi dei
lupi e dei loro cavalieri; l’aria fu piena delle loro urla, e del puzzo dei loro peli, mentre ciò che cadeva a
terra era un ammasso infuocato di corpi agonizzanti. I goblin arcieri avevano assistito impotenti allo
spettacolo, e terrorizzati dalla forza magica che aveva colpito i loro compari, fuggirono nel folto della
foresta urlando e gettando le armi.
Trellin e gli altri elfi riuscirono a calmare le loro cavalcature, ed a girarli in direzione del sentiero. Prima
che si rimettessero in marcia, Vàlen cancellò con un ultimo sforzo di volontà il muro invisibile che aveva
creato; i cavalli si lanciarono al galoppo pieni di bava per la paura appena provata, calpestando i corpi
ormai fumanti dei loro assalitori.
Talya si accorse che il carro si stava fermando. L’asse delle ruote emetteva uno spiacevolissimo cigolio,
simile al grattare di un gesso sulla lavagna, e l’intensità del suono stava diminuendo. Con un piccolo
sobbalzo, il carro si arrestò completamente, e Talya avvertì i movimenti del suo sequestratore, che stava
scendendo. Stavano sopraggiungendo anche i due cavalli che componevano la scorta, e quando questi
furono vicini, scesero due uomini a terra. Solo allora Brandin tolse la benda alla ragazza; Talya poté così
vedere che era ormai l’alba.
—Eccoci arrivati, strega. Zed, sciogli le caviglie.— disse l’assassino, ed il serpente obbedì. I piedini della
principessa erano gelidi e macchiati di sangue, per le spine conficcatesi quando era stata rapida. Le gambe
erano anchilosate ed incapaci di muoversi, ma Brandin sollevò l’esile elfa e le fece appoggiare i piedi sul
terreno. Le gambe della ragazza non risposero, anzi, la percossero con un violentissimo dolore; Talya
sarebbe certamente caduta, se non fosse stata sorretta dalla spia di Dàrini, e da uno dei suoi uomini.
Brandin la esortò: —Niente scene. Cammina.— e così dicendo, il furfante ed il suo compare trascinarono
la ragazza. Eppure la principessa tentò lo stesso di camminare, senza troppo successo, come per cercare di
dimostrare che non aveva bisogno del supporto degli umani, come ultima difesa del proprio orgoglio.
Fatta qualche decina di passi, il gruppetto si ritrovò in una radura improvvisa, che era chiusa da un lato da
una grande parete rocciosa, alta almeno sessanta metri. Brandin si diresse proprio verso il centro del muro
di roccia, e quando i quattro furono vicini alla rupe, il sicario pronunciò una parola senza senso. Si aprì
davanti agli occhi increduli di Talya un grande foro, che penetrava la parete per quasi quattro metri. Gli
umani costrinsero la ragazza elfa ad entrare nella montagna, ed il passaggio si sigillò dietro di loro.
Oltre il passaggio, Talya venne spinta in una piccola saletta rozzamente ricavata ampliando una grotta
naturale; torce di resina bruciavano fornendo alla caverna una fioca illuminazione. Cinque o sei guardie
goblin, capeggiate da un robusto orco sorvegliavano l’ingresso, e, riconoscendo gli uomini loro alleati, si
scansarono lasciando loro spazio per passare. Il luogo puzzava del fetido odore dei mostriciattoli, e di
molte altre cose che Talya non riusciva ad individuare, ma che le fecero venire un urto di vomito. Adesso
poteva camminare, e la pressione sulle sue braccia era diminuita. I suoi piedi erano a contatto con il sudicio
e viscido pavimento del rifugio dei goblin, e spesso fu sul punto di scivolare. Brandin spinse Talya lungo
un percorso di intricati cunicoli e di stanze, a volte naturali ed a volte rozzamente adattati alle necessità dei
Goblin. In meno di cinque minuti, lungo quel tortuoso percorso, Talya aveva contato almeno cento mostri.
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Giunsero dunque in una parte della grande tana che sembrava lavorata con maggiore cura. I cunicoli erano
adesso a sezione quadrata, ed avevano rozze porte di legno. In fondo ad uno di questi cunicoli vi era una
porta particolarmente robusta, con una feritoia chiusa da una piccola grata di ferro. Il sicario di Dàrini
gridò un secco ordine attraverso la grata, e la porta fu aperta da un orco coperto con una rudimentale
accozzaglia di metallo, che doveva svolgere la funzione di armatura.
Oltre la porta vi era un regno di terrore: un lungo corridoio maleodorante conteneva una ventina di celle, o
meglio, buchi scavati nell’umida pietra, non abbastanza grandi per permettere ad un umano di stare in una
qualsiasi posizione: in piedi, seduti o sdraiati. Le nicchie erano chiuse da griglie arrugginite, oltre le quali
sporgevano gli arti dei condannati; qualche goblin colpevole, ma soprattutto relitti urlanti che un tempo
erano stati umani. Al passaggio di Talya e dei suoi carcerieri, le magre braccia si agitavano, e dalle fosse
giungevano urla laceranti, suoni disarticolati che avrebbero dovuto essere parole, ma che non erano altro
che versi, tentativi di usare una lingua cancellata dagli orrori. Se prima Talya era riuscita a mantenere un
comportamento dignitoso, adesso i suoi nervi erano crollati. Puntava i piedi, tentando di divincolarsi, ma la
presa dei due umani era come una morsa di acciaio. Quando Brandin si stancò dell’inutile resistenza
dell’esile elfa, la sollevò da terra, e Talya smise di lottare. Ormai aveva realizzato qual’era la meta ultima
del loro tragitto.
La parete che chiudeva il corridoio era dotata di una piccola porta malandata; quando Brandin la spalancò,
Talya fu raggiunta da un brivido gelido. La grande sala che si trovava oltre il corridoio dei dannati era
dotata di ogni genere di strumento di morte: bracieri ardenti erano disposti un po’ ovunque, e sopra di essi
c’erano lunghi ferri rossi di calore. Catene e corde pendevano dal soffitto; tavoli dotati di grandi ruote
erano ai bordi della sala, ed altri attrezzi crudeli, tanti da non poterli contare, erano ben disposti su
rastrelliere o appesi alle pareti. La piccola principessa elfa non poté fare altro che lasciarsi sfuggire un esile
grido, stordita dalla paura. Brandin le sorrise beffardamente, e chiese: —Ti piace? Questo è il mio piccolo
regno.—
Quindi Talya venne trascinata al centro della sala, dove pendeva una catena dotata di due bracciali di
acciaio. Il sicario ordinò al suo serpente di lasciare libere le mani della ragazza, quindi assicurò i suoi polsi
ai bracciali. La catena era bassa, tanto che le mani di Talya erano poco al di sopra del suo volto, ma un
meccanismo poco distante lasciava intuire che l’altezza poteva essere regolata a piacere. Brandin ordinò
alle guardie di lasciare la stanza, e mentre queste stavano uscendo Talya chiese con un filo di voce —
Cosa... cosa hai intenzione di fare?—
Brandin scoppiò in una fragorosa risata. —Se dipendesse da me— rispose —avrei un bel progettino per
te... ma devo attendere gli ordini del capo.—
—... Tàlmon Dàrini?—
—Certo. Dovrebbe arrivare a momenti.—
Ed infatti, l’attesa non fu lunga. Poco dopo la porta si aprì lasciando entrare lo stregone dall’aria cupa.
Indossava una semplice tunica grigia, ed un amuleto dalla strana foggia. I capelli, dove ne aveva ancora, e
la barba erano in disordine, come se non avesse avuto il tempo di prepararsi dopo il suo risveglio;
l’aspetto, nel complesso era molto trasandato, ma gli occhi erano lucidi e fermi. Come fu arrivato davanti
alla principessa, Tàlmon esordì.
—Hai fatto un buon lavoro, Brandin.—
—Ne dubitavi forse?—
—Sì. Ma nonostante tutto non mi hai deluso.—
Talya gridò rabbiosa: —Steldemenìt! Perché mi hai rapita? Cosa vuoi fare? Che tu sia...— ma non poté
finire la frase, perché lo stregone appoggiò delicatamente una mano sulle sue labbra.
—No, principessa... non dite cose delle quali dovreste pentirvi. Innanzitutto permettetemi di scusarmi per il
mio aspetto. Non sono certo in condizioni di accogliere una principessa elfa, ma vista la gravità della
situazione converrete con me che dobbiamo tralasciare i convenevoli. Permettetemi inoltre di rispondere
alle vostre domande. Primo: vi ho fatta rapire perché ho bisogno di un piccolo favore da voi...—
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ShtàrLàn - Capitolo 10
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—Maledetto! Brucerai all’inferno prima di ottenere qualcosa da me!—
—... Secondo: non ho intenzione di farvi alcun male, a patto che collaboriate pienamente.—
—Cosa vuoi da me?—
—Solamente un incantesimo, vostra altezza.—
—Se è solo questo quello che vuoi... posso incenerirti subito.—
Dàrini sorrise discretamente, dicendo piano: —No, mia signora... non è a me che dovete mostrare la vostra
magia... ma al Creatore.—
E così dicendo, Dàrini fece un ampio gesto con la mano, come per mostrare un oggetto alla ragazza, e dal
punto indicato comparve una luce intensa. L’ energia si concentrò in una piccola sfera a mezz’aria, e subito
si espanse fino a creare la perfetta immagine di un essere, o meglio, un incubo. Il Creatore del Male, con il
suo corpo di enorme ragno, era comparso di fronte a Talya. Aveva il busto eretto, e due grandi mandibole;
le sue zampe si muovevano senza sosta, ticchettando stridenti contro il terreno di pietra, senza che il
mostro si spostasse di un millimetro. Gran parte della bestia era coperta da un tessuto sconosciuto, ed al
suo corpo erano collegati strani apparecchi che emettevano luci lampeggianti.
Brandin e Dàrini si inginocchiarono, e lo stregone parlò: —Mio Signore e Padrone, ecco ciò che mi avevi
chiesto. Costei è una maga. Grazie ad essa potrai apprendere il segreto della magia, e la tua forza sarà così
moltiplicata. Nulla potrà più opporsi al tuo volere, mio Signore, e questo mondo ti apparterrà.—
Una voce metallica, proveniente da uno degli strumenti collegati al corpo del mostro, rispose: —Mi hai
servito bene, mio fedele. Lasciate che io studi la mente di questa donna.—
L’essere si avvicinò quindi alla ragazza, con passi rapidi che ricordarono a Talya l’incedere di un insetto.
Una zampa che fungeva da braccio si mosse verso il volto della ragazza, molto lentamente. Talya
osservava inorridita quella mostruosità che presto avrebbe toccato il suo viso; si ritrasse più che poteva,
fino a che l’estensione della catena non le impedì di andare oltre, ma l’arto del mostro continuava
inesorabilmente ad avvicinarsi. La ragazza elfa, non potendo fare altro, tremava, e piccole gocce di sudore
apparvero sul suo volto. Finalmente, la viscida creatura toccò il volto di Talya; i suoi occhi ebbero un
sussulto, mentre la sua coscienza le veniva strappata via.
La principessa ebbe la sensazione di sognare. Erano immagini confuse, troppo rapide per essere comprese.
Dopo poco, Talya si accorse di essere in grado di distinguere alcune di quelle immagini; forse la sua mente
si stava riprendendo dallo stordimento. Erano ricordi che provenivano dalla sua infanzia: il Creatore stava
esaminando la sua memoria in cerca del segreto della magia; Talya non poteva permettere che quell’essere
entrasse in possesso del potere... ma la sua mente era ancora troppo debole per reagire. Ora sua madre
rideva su di un prato, mentre la prendeva in braccio raccontandole una favola. La sua prima cerimonia... La
visita del Re, padre di suo padre...
Finalmente riusciva a percepire distintamente ogni ricordo che il mostro riportava alla luce. Adesso Talya
sentiva la presenza dell’essere; i pensieri della cosa filtravano dentro di lei, pensieri mostruosi ed alieni.
Eppure la ragazza era in grado di percepire che il Creatore era sorpreso. Non si aspettava di dover
analizzare quasi duecento anni di ricordi... Sì... Talya seppe con certezza che il mostro stava provando un
sentimento simile alla frustrazione. Forse quell’essere non aveva il potere di un dio; forse il Creatore
poteva essere battuto. Ma come?
Il mostro cercava ricordi, pensieri... Talya tentò di concentrarsi su una forte immagine: l’Albero della Vita
che sorgeva al centro di ElvinRelan, la città elfa dove era ospitata l’Arca del Potere. La luce emessa
dall’immensa quercia era quasi accecante, ed attorno ad essa tutto era pace ed armonia...
Un pensiero freddo come una lama si materializzò nella sua coscienza: —Non opporre resistenza; non sei
in grado di vincere.—
A Talya parve che la sua mente venisse stretta da una morsa invisibile, e la sua consapevolezza ripiombò
indietro, lasciando scorrere le immagini della sua vita rapide come prima. Il corpo dell’elfa sussultò, ma
presto la ragazza riprese il controllo. Poteva distinguere bene i ricordi che il Creatore stava analizzando:
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era ormai arrivato alla "Festa dell’età Adulta", un avvenimento molto importante nella vita di un elfo,
soprattutto se di sangue nobile come il suo. Il mostro esaminò quel ricordo per qualche tempo, poi passò
oltre.
Un giovane... Evanlim era il suo nome... era il primo che le aveva rivolto uno sguardo diverso. Non era il
modo di guardare una principessa... ma una donna...
Talya sapeva che il mostro si stava avvicinando ai ricordi che lo interessavano. Non rimaneva molto
tempo: la ragazza percepiva l’eccitazione dell’essere, mentre sfogliava i suoi ricordi come se fossero stati
un libro ingiallito, in cerca della pagina che bramava leggere...
Doveva tentare ancora. Provò a confondere il Creatore: proiettò nella sua mente rapide immagini; volti dei
suoi più cari amici, luoghi della sua remota infanzia, sua madre, suo padre; le immagini e le voci correvano
sempre più veloci, fino a diventare quasi un caleidoscopio indistinguibile. I ricordi smisero di affiorare; il
Creatore doveva essere sorpreso dalla reazione di quell’essere inferiore. Talya lo sentì indietreggiare;
percepì la sua frustrazione ed il suo disappunto. Era felice: il mostro non avrebbe avuto quello che
desiderava tanto facilmente.
Stavolta, la giovane elfa fu investita da un dolore lancinante. Fu come se uno schiaffo secco avesse colpito
la sua anima. La stessa voce senza suono di prima le urlò: —Smettila di lottare. È inutile, non puoi
resistermi; stattene buona e zitta, o te ne pentirai.—
Lo stordimento fece ripiombare indietro la coscienza di Talya. Ancora una volta, le immagini si mossero
troppo velocemente per essere distinte. O forse era la sua mente, che intontita dal dolore e dalla forza del
mostro, non era abbastanza veloce. Ma mano a mano che Talya si riprendeva, poteva percepire il Creatore
all’opera: riusciva a sentire il disappunto per la resistenza che aveva dimostrato; l’ansia del mostro
cresceva, mentre leggeva i ricordi della giovane elfa. Adesso comparve nella mente della principessa il
volto di Vàlen... Presto il Creatore avrebbe trovato ciò che cercava. Le immagini si focalizzarono su di una
foresta; accanto a Talya c’era Vàlen... era il giorno del suo primo incantesimo...
No! Doveva impedirlo. Doveva fermare il mostro. Talya raccolse tutte le proprie forze, come se si stesse
preparando ad usare la magia. Quindi immaginò una immensa tempesta; fulmini accecanti e tuoni fragorosi
squarciavano le tenebre più scure, ed al fragore dell’uragano si aggiunse un urlo —Vattene mostro: non
avrai mai quello che cerchi!—
Talya ripeté l’urlo ancora più forte. La mente del Creatore tentò di rimanere aggrappata a quella dell’elfa,
ma era come un piccolo insetto sballottato dalla tempesta. Disorientato, il mostro cercò di reagire, di
inghiottire l’uragano immaginando un’immensa tromba d’aria: ma il vento furioso della tempesta di Talya
dissolse il tornado immaginato dall’alieno. Il pensiero della ragazza era penetrato nella mente del mostro
come prima il mostro era entrato nella sua, e l’elfa colpì con furia cieca usando tutta la forza della propria
anima.
Il corpo del mostro indietreggiò di scatto. Anche se il Creatore era alieno, per Brandin e Dàrini non fu
difficile capire che l’essere era furioso. Eppure lo stregone, speranzoso, chiese —Mio signore, avete
trovato l’oggetto della vostra ricerca?—
Il Creatore, ancora tremante, esitò per qualche secondo; in quel momento, Talya riprese i sensi, e guardò
l’umano. Con un sorriso sprezzante disse: —Il tuo Creatore ha fallito, uomo. Non ha trovato il segreto
della magia... e non lo troverà mai.— Seppure legata e ferita, in quel momento Talya sembrò dominare gli
altri presenti: il suo sorriso sicuro gelò lo stregone.
Ma il mostro alieno si ricompose; fece qualche altro passo indietro, quindi la voce metallica disse: —Fate sì
che usi la magia.—
Dàrini, rincuorato, chinò il capo verso il proprio Dio, e si diresse verso la ragazza.
—Non costringerci a rendere le cose spiacevoli, principessa. Sai che ti faremo cedere, prima o poi;
risparmiaci quest’attesa, e fai come ha ordinato il creatore: usa la tua magia. Potresti illuminare questa
stanza ad esempio...—
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Talya era adesso molto più sicura di se. Aveva battuto un Creatore, e niente al mondo l’avrebbe piegata.
—Tu sai invece che io non cederò mai. Puoi anche uccidermi ma...—
—Vedi,— la interruppe lo stregone —possiamo fare molto più che ucciderti.—
Talya sorrise. —Da me non otterrai niente.—
Dàrini sospirò tristemente. Quindi disse con aria grave: —Quando deciderai di collaborare, basta che tu
faccia un cenno.— Quindi si rivolse a Brandin, il suo sicario. —Brandin... è tua. Ma sta attento a non
provocarle danni troppo seri: deve essere in grado di usare la magia.—
Il furfante guardò fisso negli occhi la giovane elfa; quindi sulle labbra dell’umano nacque un sorriso gelido
e perverso, e mentre la sua smorfia si trasformava in una risata perfida, l’espressione di lei mutava
facendosi seria. Finalmente Brandin esplose in un riso fragoroso che fece rabbrividire Talya.
L’umano recuperò un lungo spezzone di corda da un tavolo poco distante, quindi si diresse verso la
ragazza, e si chinò dicendo beffardamente —Vostra Grazia...— come se si fosse trattato di un inchino
formale. Dunque il sicario le legò strettamente i piedi; Talya rimase impassibile, mentre sentiva la pressione
della corda serrarle le caviglie. Dopo aver completato la sua opera, l’umano si alzò e si diresse verso il
meccanismo che, tramite una carrucola, era in grado di sollevare la catena alla quale erano legati i polsi
della principessa. Brandin girò la manovella che azionava il meccanismo, e la catena iniziò a sollevarsi
lentamente; Talya tentò di resistere, ma poi si arrese e presto fu completamente sollevata da terra. Le
braccia iniziarono a dolerle.
Brandin si allontanò di nuovo, raccogliendo da terra un sacchetto dall’aria molto pesante, al quale era stato
fissato un gancio di ferro. L’umano lo trascinò con non poca difficoltà, ed arrivato accanto alla prigioniera,
lo sollevò con una smorfia, agganciandolo alla corda che legava le sue caviglie. Quando l’umano lasciò la
presa, lo strappo tolse il fiato alla ragazza elfa; il dolore che le trasmisero tutte le giunture l’avrebbero fatta
urlare se ne fosse ancora stata capace: invece non poté fare altro che boccheggiare.
—Fa male, vero?— chiese mellifluo il sicario.
Quindi l’umano estrasse un coltello dalla cintura, e girò in torno all’elfa in modo da starle di fronte;
Brandin allungò il braccio armato verso il viso della principessa, che non poté fare altro che muovere gli
occhi per guardare il coltellaccio.
Quando l’arma toccò la pelle del volto di Talya, il sicario disse sibilando: —Dimmi, strega: sai cosa
potrebbe fare questa lama al tuo bel visino?— Quindi fece scendere il coltello sul collo di lei,
punzecchiandone la base con la punta della lama. Il petto di Talya smise di muoversi mentre il coltello
scendeva ancora più in giù; presto la lama raggiunse il primo bottone della sua camicia da notte. Con un
colpo secco, l’assassino abbassò la lama ridendo: il movimento fece sussultare la ragazza, ma lo scopo di
Brandin era solo quello di strappare la camicia della principessa. Infatti, la sua unica veste si aprì, lasciando
il suo corpo nudo di fronte al sicario, allo stregone ed all’alieno.
Talya non credeva di poter percepire la sensazione dell’aria che sfiora la pelle nuda mentre il suo corpo
provava tanto dolore. Non credeva che in un momento come quello avrebbe potuto provare vergogna...
eppure, Talya si sentì terribilmente umiliata da quel gesto; il suo corpo era stato stuprato dalla vista di
quegli sporchi umani, e di quel terribile mostro.
La ragazza trattenne le lacrime, mentre il sicario completava la sua opera liberandola della camicia con
tagli sicuri. Quindi si allontanò, dirigendosi verso una rastrelliera nella quale erano sistemate con ordine
diverse fruste dall’aspetto sinistro. In quel mentre, Talya poté chiaramente percepire la presenza del
Creatore nella sua mente: era lì, come seduto in attesa che lei cedesse. Sapeva di non poterlo scacciare
stavolta.
La principessa Talya chiuse gli occhi. Nel profondo del suo animo, pregò che suo padre ed i suoi amici
potessero salvarla, sperò di resistere abbastanza a lungo... ed urlò quando la frusta la colpì, squarciando la
sua pelle.
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ShtàrLàn - Capitolo 11
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Capitolo 11
Dòren Pavél, Primo dei Discepoli di DàganSén, attendeva sopra ad un piccolo molo del porto di BàiVil. Il
cielo era limpido; ad occidente era ancora buio, ma ad oriente l’aurora lo aveva reso splendente. Il manto
della notte si stava lentamente dissipando; la vigorosa brezza di mare che spirava quasi tutti i mattini sulla
città, colpiva il volto dell’anziano sacerdote, ed agitava le sue vesti. Il suo sguardo si perdeva a nord, verso
il mare, verso le lontane colonie, verso una speranza che, sapeva, lo stava raggiungendo.
Il porto era ancora deserto: nel fragore del mare e nel delicato fischio del vento, Pavél ritrovò una pace
profonda come quella di un abisso. Aveva fatto come gli era stato ordinato: era riuscito a strappare
qualche giorno di attesa all’impaziente re Zorand. Ora il Signore dei Draghi doveva rispettare la propria
parte, e far giungere i suo Campioni entro l’alba. Dòren non aveva timore, né impazienza; era solo curioso
di vedere quali persone avesse scelto il suo dio per combattere i Creatori, l’orrore ancestrale che albergava
nel cuore di tutti gli esseri viventi di Pitermòs.
Ad est, un lucente punto di fuoco si affacciò oltre il la linea indefinita che separa il mare dal cielo,
segnando il primo istante del giorno.
—È l’alba...— disse piano il sacerdote, come se volesse avvertire il proprio dio che il momento era giunto.
Ed infatti, proprio nel punto che Pavél guardava, comparve distante una nuvola di spruzzi; una vela si fece
sempre più vicina, talmente in fretta da sembrare come trasportata dal vento. Presto il sole fu tutto in vista,
ed in quel momento l’agile barca si accostò al molo, dopo aver rallentato dolcemente la sua corsa.
Dòren osservò i volti dei naviganti; erano ancora rossi per la sferza del gelido vento del mare notturno;
ovviamente erano ignari della forza che aveva spinto la loro imbarcazione. I loro arti erano rigidamente
aggrappati ai sedili, all’albero ed ai boccaporti della barca, ed il sacerdote poté distinguere chiaramente che
le dita delle loro mani erano bianche per lo sforzo di trattenere corpo all’interno dello scafo.
C’era un giovane dalle dimensioni gigantesche che stringeva il timone; un ragazzo snello gli stava accanto,
aggrappato al suo braccio. Poi c’era un uomo scuro, dalla folta barba nera e dai profondi occhi, che era
seduto sul sedile di poppa, con le braccia allargate attorno allo schienale. Accanto a lui c’era una singolare
persona dai capelli biondi, con i baffi ben ordinati e lo sguardo distante: era pallido ed il suo corpo era
completamente rigido. In fine, da una piccola porta che conduceva sotto coperta, uscì un uomo molto
maturo, quasi anziano, dai folti capelli grigi e dagli occhi di ghiaccio. Immediatamente, Pavél lo riconobbe
come un importante sacerdote della chiesa di ShtàrRésel, ed ebbe un attimo di turbamento nel vedere che il
proprio dio aveva scelto un seguace di un altro Supremo, ma il momento fu breve: le vie degli dei sono
misteriose.
Il sacerdote disse ad alta voce: —Benvenuti a BàiVil, voi che siete scelti da DàganSén. Io sono Dòren
Pavél, Discepolo del Signore dei Draghi; seguitemi, dunque, e presto conoscerete il vostro destino.—
Mentre, di buon grado, tutti abbandonavano il vascello elfo, Tòret accarezzava piano il suo piccolo
lupacchiotto, spaventato ed infreddolito per il viaggio avventuroso che aveva appena compiuto.
BàiVil era una città sconosciuta per tutti loro, ma per Edgard era semplicemente aliena. Già a quell’ora era
piena di vita; i pescatori tornavano dai loro viaggi, e robusti uomini dalla pelle segnata dal mare e dal sole
scaricavano grandi ceste colme di pesce. Le case erano come le aveva viste negli antichi testi di storia; in
fondo lo stesso senso estetico degli antenati del popolo di Sirio era stato donato anche a quegli uomini.
Eppure, vedere quelle casupole che sembravano grandi balocchi gli diede un senso di meraviglia che
raramente aveva provato. La città degli elfi era stata una visione assai più bizzarra, ma era discreta, quasi
taciturna. Questa chiassosa città si estendeva a perdita d’occhio, ed ogni pietra del selciato, ogni fiore
colorato pendente dai piccoli davanzali, ogni tegola grigia sembrava voler urlare: “sono qui!”. Era più di
una città: era un monumento alla vittoria dell’animo umano contro la furia selvaggia della natura.
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Poco oltre il molo, il gruppo era atteso da una nutrita scorta di cavalieri in armatura ed uniforme, e due
carrozze. Non ci furono saluti o convenevoli, e Pavél divise in due il gruppetto, in modo che potessero
trovare comodamente posto nei cocchi. Quindi impartì l’ordine di recarsi verso la Cittadella dalle Otto
Torri, e di essere celeri.
Vàlen, che insieme a Ròndal e ad Hellis aveva trovato posto nella carrozza di Pavél esordì dicendo: —
Non sapevamo di essere attesi, Santità.—
Pavél sorrise e rispose: —Invece vi attendiamo da lungo tempo. Zorand stava proprio per perdere la sua
poca pazienza.—
—Intendete Re Zorand Terzo?— chiese sbalordito Vàlen.
—Certo.— rispose calmo l’altro. Il tono era conclusivo, ma la mente di Vàlen aveva bisogno di altre
risposte. Così continuò: —Non voglio essere scortese, ma sarebbe bello sapere perché siamo qui.—Vàlen
tacque la sua più grande preoccupazione: Talya. Il pensiero della ragazza elfa nelle mani di Dàrini era
molto doloroso, e quasi gli faceva scordare che, grazie a Tàlya, i Creatori avrebbero potuto trovare ciò che
cercavano.
Pavél non era prodigo di parole, ed il suo sforzo nel rispondere era evidente.
—Siete stati scelti per usare l’unica arma, potremmo dire, che sia in grado di sconfiggere i Creatori.—
Hellis si raggelò. Solo lui sapeva che in mezzo a loro si nascondeva Egarràin, il Creatore del Bene. Forse.
Di certo, era un Creatore; chi poteva dire adesso quale fosse il nemico? Se lo straniero avesse mentito,
avrebbero consegnato l’unica speranza che avevano nelle mani dei loro assassini.
In tutta la sua vita Hellis non aveva mai dovuto prendere una decisione così grave da solo; la sua fede era
stata la sua guida, il suo dio era stato il suo rifugio. Ma adesso non poteva chiedere aiuto a ShtàrRésel; non
aveva modo di mettersi in contatto con lui. Cosa avrebbe dovuto fare?
Domandò al suo cuore. L’uomo che avevano trovato quasi privo di vita vicino a quel relitto era un
mostro? L’uomo che aveva pianto per la sorte dei suoi compagni era forse il loro nemico? L’uomo che
aveva salvato la vita di Vàlen avrebbe portato tutti loro alla rovina? L’uomo che era lì, per sua ammissione,
per combattere i Signori delle Tenebre avrebbe poi tradito i suoi nuovi alleati? O forse tutto ciò che era
successo era stato solo un inganno, un modo per indurli in errore?
No. Non era così; una scintilla nel suo animo si accese, in difesa di quell’essere dagli occhi timorosi che
avevano raccolto nella foresta. Qualcosa più della ragione gli disse di fidarsi. E così fece, tacendo.
Pochi minuti accompagnati dal rumore degli zoccoli e delle ruote, ed ecco apparire la Cittadella dalle Otto
Torri. Un ottagono equilatero perfetto, dalle mura alte più di quaranta metri, e le torri alte il doppio; al suo
centro la più possente costruzione che l’uomo avesse mai realizzato: Kaledìt Tovél , la Torre della Libertà,
un torrione conico interamente costruito in uno strano metallo nero, alto più di cento metri. Aveva la
forma di un cono arrotondato: alla base misurava circa trenta metri di diametro, ed alla sommità non più di
sei. La struttura sorreggeva una grande sala rotonda dal diametro di quaranta metri, alta dieci e coperta da
un tetto conico, e sulla punta si ergeva un enorme pennone di oro lucente.
Anche le mura esterne della cittadella erano lastricate con lo stesso metallo nero; un lavoro talmente
perfetto che era impossibile distinguere le linee che univano i pannelli. Edgard osservando quella struttura
ebbe l’impressione che una razza aliena avesse installato lì la propria base: il contrasto con le casette
graziose in legno e pietra era fantastico. Secondo le sue informazioni, i Pitermòssiani non erano ancora in
grado di costruire simili edifici, ma evidentemente i suoi dati erano incompleti.
Anche gli altri furono assai stupiti nel vedere la Fortezza. Non l’avevano mai vista prima, ed i racconti del
suo splendore non potevano renderle il giusto onore.
Presto furono davanti agli enormi cancelli, ornati da disegni geometrici assai inusuali: chiunque si sarebbe
aspettato intarsi raffiguranti una qualche scena di guerra, o motivi decorativi più diffusi. Presto i portali si
aprirono, lasciando passare il gruppo, e si chiusero rapidi e silenziosi dietro di esso.
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L’interno della cittadella, più che un’installazione militare, sembrava un giardino, una ricca corte che
ospitava alti edifici di pietra ordinatamente disposti, ma il gruppo non ebbe il tempo di ammirare quella
meraviglia; come furono scesi, un paffuto ometto abbigliato con abiti sgargianti ed un vistoso cappello con
una lunga e morbida piuma bianca si fece loro incontro.
—Finalmente!— disse visibilmente eccitato. —Temevo che non arrivaste più! Io sono il Tensìt Artàn
Dénel; seguitemi, presto; non c’è molto tempo.—
Nonostante la figura di Dénel fosse singolare, la seria gravità del suo tono di voce costrinse i membri del
gruppetto, incluso Pavél, a seguirlo senza perdere altro tempo.
Alcuni passi li condussero in uno stanzino vuoto non distante dal portale; Denel attese che tutti fossero
entrati, quindi chiuse la porta. Mentre tutti, tranne il sacerdote del Signore dei Draghi, osservavano la
camera spoglia con aria interrogativa, il tensìt disse in fretta: —Non preoccupatevi per quello che sta per
succedere.—
Quindi strinse la propria mano attorno al medaglione dorato che portava al collo, e la camera fu invasa dal
rumore della magia. Le mura scomparvero intorno agli occupanti, sostituite da una sensazione tanto
avvolgente da sembrare un morbido manto luminoso. Quando questo iniziò a dissolversi, comparve di
fronte ai loro occhi un altro luogo.
Prima ancora di guardarsi intorno, Vàlen non poté trattenersi dall’esclamare: —Fantastico!—
Era certo che quell’ometto non avesse lanciato nessun incantesimo: il suo medaglione non era un vettore, e
non poteva immagazzinare la magia, ed anche se fosse stato così ci sarebbero stati molti altri problemi da
risolvere. Eppure, un incantesimo li aveva trasportati da un luogo ad un altro, senza che un mago avesse
usato la propria volontà. Era incredibile.
Edgard era abituato ad usare il teletrasporto, anzi, conosceva diversi modelli: la vita degli esseri trasportati
veniva sospesa prima del processo e riattivata al suo completamento. In pratica, le immagini del luogo di
partenza e del luogo di arrivo si sostituivano come due fotogrammi, e non era possibile percepire
nessun’altra sensazione. Questa volta, invece, gli sembrava di aver percorso una strada immaginaria, un
sentiero non tracciato nella realtà che però in qualche modo aveva riconosciuto, e gli pareva aver
impiegato un tempo indefinito nel viaggio: forse un secondo, forse un’eternità. La cosa che più lo
sconvolgeva era la completa consapevolezza di ciò che era successo; quasi come se, girando
semplicemente le spalle, avesse potuto tornare sui suoi passi, verso quello stanzino deserto.
Dopo il primo istante, si guardarono tutti intorno. Erano in una grande sala, piena di strani tavoli colmi di
gemme incastonate in lastre di metallo. Qua e là alcuni specchi ingombravano i muri. Ed oltre a questo,
poterono vedere un grande carro di metallo sospeso a mezz’aria. Era la cosa più strana che avessero mai
visto, ma Edgard non ebbe difficoltà a riconoscerla come un veicolo aereo, o forse una piccola navicella
stellare.
Trellin si guardò intorno. Le tracce del carro scomparivano definitivamente in quella radura, proprio
davanti all’alto picco di roccia; nulla permetteva di capire quale direzione avesse preso il veicolo. Il
principe elfo stava iniziando a sospettare che il carro si fosse volatilizzato per chissà quale magia. Ma non
aveva senso: se i rapitori di sua figlia avessero posseduto un tale potere, sarebbe stato molto più logico
usarlo prima, invece di rischiare fuggendo nella foresta degli elfi.
Un giovane guerriero che faceva parte della sua scorta stava esaminando con cura le tracce sul terreno;
così poté stabilire che il carro non era svanito. I solchi lasciati dal carro non si interrompevano in un punto
preciso, bensì continuavano fin dentro la roccia.
Questo era il motivo per cui i goblin e gli orchi erano riusciti a nascondersi per tanto tempo nel dominio
degli elfi: si rintanavano nella profondità della terra sigillando le loro basi con un incantesimo.
—Cosa dobbiamo fare, Vostra Altezza?— chiese un giovane del suo gruppo.
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—Lasciate che elabori un piano.— rispose il principe; quindi si concentrò su Vàlen e cercò di chiamarlo.
Subito, da oltre trecento miglia di distanza, Vàlen captò il suo pensiero, e rispose al richiamo del suo amico
chiedendo: —Ci sono novità?—
—Sì. Abbiamo trovato il luogo dove hanno portato Talya.—
Vàlen ebbe la sensazione quasi fisica del dolore di Trellin, e si fece mentalmente più vicino all’amico, come
per abbracciarlo, nascondendo la sua preoccupazione.
—Forza, Trellin! Non possono averle fatto del male. È troppo preziosa per loro. Comunque non
commettere azioni avventate; stiamo per arrivare.—
—Posso fare ben poco. Ho trovato il loro rifugio, ma si trova sotto una montagna ed è protetto da un
incantesimo. Quello che sembra essere l’ingresso è chiuso da una parete di roccia. Mi chiedevo se tu
potessi...—
—No, Trellin. È troppo rischioso lasciarti andare da solo.—
—Ma Talya è laggiù, dannazione! Devi fare qualcosa!—
—Lo sto già facendo. Non posso spiegarti adesso, ma tra poco saremo lì.—
—Poco quanto?—
—Poco e basta. Nasconditi bene ed allontanati: quando arriveremo faremo un po’ di rumore. E non farti
scoprire; tutto dipende da te adesso. Se ti trovano prima che arriviamo noi, per Talya è finita.—
Così dicendo Vàlen interruppe il contatto. Il tutto era durato un attimo impercettibile, e quando gli elfi che
erano con Trellin udirono il proprio principe imprecare, rimasero un poco confusi.
Comunque, Trellin ordinò agli altri quattro componenti della spedizione di nascondersi nella boscaglia e di
prendere posizione in modo da accerchiare quell’ingresso.
Mentre Vàlen ritirava la propria mente dal contatto con l’elfo, fu bruscamente risvegliato da una profonda
voce maschile.
—Benvenuti.—
L’uomo vigoroso, sui trent’anni, vestiva una uniforme militare nera, coperta da un mantello di velluto
porpora scuro; tutti, tranne Edgard, riconobbero immediatamente Zorand Terzo, Re del Kalédion.
La sorpresa aveva spiazzato tutti, ma prima che qualcuno potesse perdersi in formalismi, Zorand alzò una
mano guantata a metà altezza, dicendo: —Vi prego, non è il momento per i saluti. So chi siete voi, e voi
sapete chi sono io.—
Pavél si irrigidì. L’apparizione del re non era prevista, e dal suo tono, il prelato poté immaginare che non
era venuto lì unicamente spinto dalla curiosità. Decise di tacere, e vedere cosa sarebbe successo.
—Bene.— continuò il Re, assumendo un atteggiamento più rilassato. —Vedo che fra di voi c’è un
sacerdote di SthàrRésel; questo mi rincuora...— concluse osservando Pavél, che senza lasciar trasparire
alcuna espressione si congratulò con il suo dio per quella soluzione, che aveva avuto un buon effetto.
—... Ma nonostante ciò sono ancora preoccupato. Non è il momento di raccontarvi tutto ciò che abbiamo
passato nei mesi scorsi, ma prima di concedervi la mia autorizzazione ad usare questa meravigliosa arma,
devo chiedervi un voto di assoluta fedeltà. So che siete uomini scelti da DàganSén, e per questo accetto la
vostra parola: giuratemi di non usare il potere della ShtàrLàn contro il Kalédion, e di riportarla qui quando
avrete adempiuto al vostro compito, e vi concederò di procedere.—
Il Primo dei Discepoli di DàganSén non parlò, ma non riuscì a trattenere un sorriso. Il giovane re doveva
aver passato una notte insonne, al pensiero che il suo nuovo giocattolo gli venisse strappato via.
Come sempre, fu Vàlen il primo a prendere l’iniziativa.
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—Vostra Maestà, noi siamo vostri fedeli sudditi dalla nascita; onoriamo il vostro saggio regnare, e fino a
quando rimarrà tale, vi saremo fedeli.—
Una fedeltà condizionata avrebbe indispettito qualunque regnante, ma la formula usata da Vàlen era un
passaggio del Codice, e Zorand apprezzò molto che quel giovane lo conoscesse. Riconobbe parole sincere,
e seppure il ragazzo fosse un mago, le apprezzò.
Dalla gruppo, uscì Ròndal con un passo deciso; la scura figura dello stregone, arricchita di medaglioni e
pendagli dall’aspetto poco rassicurante mise molto a disagio il re, che evidentemente considerava gli
stregoni assai peggio dei maghi.
Un breve ma formale inchino precedette le parole dello stregone: —Vostra maestà, io sono il Barone
Cadetto Ròndal Pérevit di Dànisìt; come tale, ho giurato fedeltà all’Iperatore di Thàris, e ora non posso
giurarla a Voi. Ma riconosco la vostra autorità come Vassallo dell’Imperatore, e la rispetto. Avete la mia
parola d’onore che non leveremo mai mano contro il vostro regno, e che useremo saggiamente il vostro
dono, solo per il tempo che ci sarà necessario.—
Zorand fu colpito dalle parole di Ròndal. Aveva visto uno stregone, ma era un Nobile ad aver parlato.
Avrebbe potuto tacere, accettando il giuramento che il giovane mago aveva pronunciato per tutti loro; ma
l’onore gli imponeva di dire la verità, e così aveva fatto. Un uomo eccezionale.
Pavél si fece avanti: —Se Vostra Maestà è soddisfatta, l’urgenza è grande: i prescelti devono partire.—
—Sì, siamo soddisfatti. Attenderemo il Vostro ritorno.—
Dénel l’alchimista si inchinò brevemente verso il re, quindi ruotò una leva che si trovava sul fianco della
navicella; fece poi cenno agli altri di salire. Uno alla volta, Vàlen, Ròndal, Hellis ed Edgard entrarono;
Tòret esitò un attimo, poi si girò in direzione del sacerdote di DàganSén e gli chiese:
—Santità, voi rimarrete qui?—
—Questo è il volere di DàganSén.—
—Allora, devo chiedervi un favore.—
—Se posso...—
Tòret tirò fuori dalla propria giubba Belèm. Il cucciolo guardò curioso intorno, ed annusò l’aria in
direzione del chierico. Quel profumo gli doveva ispirare fiducia, perché istintivamente si protendeva verso
la sua fonte.
—Sarà un viaggio pericoloso, e lui non c’entra niente. Potreste...—
Pavél, intenerito, sorrise. —Ma certo,— disse —staremo insieme fino al vostro ritorno. Come si chiama?
— chiese mentre prendeva il cucciolo.
—Belèm.—
Il piccolo lupo guaì in direzione di Tòret, che si chinò ad accarezzarlo. —Adesso non posso portarti con
me,— gli sussurò piano, —perché stiamo andando in un posto pericoloso. Questo signore buono ti terrà
fino a quando sarò di ritorno. Fai il bravo.—
Qualcosa Belèm doveva aver capito, perché guardò triste il suo salvatore, mentre entrava nella ShtàrLàn,
ma non guaì più.
A bordo, Dénel stava spiegando molto sinteticamente quale fosse il funzionamento di tutte quelle leve e
pulsanti che si trovavano all’interno della FàrDàn. Tòret, Vàlen, Ròndal ed Hellis pensavano oramai di
essere persone incapaci di tanto stupore quanto gliene aveva procurato quella strana cosa, che il tensìt
indicava come una ShtàrVésel, una nave delle stelle. Edgard osservò per prima cosa la mancanza di una
strumentazione adeguata non solo alla navigazione interstellare, ma anche a quella planetaria. Inoltre gli
sembrò strano che vi fossero così pochi comandi: il più semplice veicolo stellare che avesse mai visto era
estremamente più complesso di questa cosa.
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Dénel continuava a parlare: —...e questi sono i comandi del timone; di questi dovrò occuparmene io, ora
non c’è tempo per spiegarvi. Questa postazione controlla la lama di luce, e alcuni incantesimi offensivi; sul
visore compare il bersaglio, e premendo questa gemma la lama colpisce. Con queste due leve è possibile
regolare l’angolazione del raggio. Voi, Vàrgas, siete il più adatto per questo lavoro; siete un guerriero
quindi avete riflessi e precisione.—
Tòret annuì e si sedette su di una comoda poltrona, proprio in cima alla sala, accanto al posto di guida.
—Qui invece abbiamo la postazione degli incantesimi. Vi abbiamo sistemato dieci accumulatori; ognuno di
essi può essere caricato con dieci incantesimi differenti. La semplice pressione di una di queste dieci
gemme attiva un accumulatore, e rilascia un incantesimo. Un mago sarebbe la persona più adatta a sedere
in questa postazione, ma EmelFèl mi serve altrove.—
Intervenne Hellis: —Conosco alcuni incantesimi usati dai maghi. Forse posso essere utile.—
—Perfetto. Prendete pure posto, Santità.—
Il sacerdote si accomodò sulla poltrona alla sinistra del posto di guida, e Denel continuò: —Se avete un
attimo di pazienza, Santità, vi spiegherò il funzionamento della postazione tra breve. Bene; Barone Pérevit,
come avrete già notato, quella sfera di cristallo è stata studiata per essere usata dagli stregoni.—
—Sì; ed ho anche notato altri strumenti divinatori. Suppongo che servano tutti per consentire di conoscere
in anticipo ciò a cui andiamo incontro. Penso che quello sia il mio posto, non è così?— chiese Ròndal
dirigendosi verso la postazione centrale destra.
Denel rispose: —Precisamente, Barone. Per quanto riguarda voi— disse rivolgendosi ad Edgard, che fece
cenno di non capire, —sedete qui.— continuò indicando poltrona che si trovava al centro della stanza,
spostata sulla sinistra; davanti a questa c’era una complessa console, dotata di uno specchio ornato e di
numerose pietre preziose disposte come pulsanti.
Vàlen osservò il trono che si trovava più arretrato rispetto alle altre postazioni, montato su di una cupola
che risplendeva di magia. —...E quello è il mio posto.— affermò.
Dénel gli rispose avvicinandosi. —Giusto. Il vostro, EmelFèl, è il compito più complesso. Da soli siamo
perfettamente in grado di manovrare la FàrDàn, ma voi potrete interagire con essa come nessun altro.
Questa nave diventerà il vostro corpo, ed attraverso di essa potrete lanciare incantesimi molto potenti.
Però fate attenzione: non ci sono problemi se rivolgete un incantesimo verso un bersaglio esterno, ma la
nave e protetta dalla magia, e non potrete lanciare facilmente un incantesimo su di essa o su qualcosa che si
trovi al suo interno.—
Dubbioso, il ragazzo chiese: —E cosa succede se ciò si rende necessario?—
—Conoscete i reticoli magici?— chiese in risposta il tensìt.
—Certo.— rispose il giovane mago, ma degluttì a fatica. I reticoli magici sono un disegno che rappresenta
l’ordine con il quale vengono lanciati numerosi incantesimi su di un oggetto. Evidentemente, comprese
Vàlen, per difendere la FàrDàn da attacchi magici, i suoi progettisti non si erano accontentati di un
generico incantesimo di protezione, bensì avevano scelto di coprire la nave con una fitta rete di
incantesimi. Solo che, l’ultima volta che aveva visto uno di quei disegni, Vàlen si era accorto di dover
studiare ancora molto per capire come funzionavano, e gli era mancata la voglia, preferendo studiare altri
aspetti della magia.
Denel porse a Vàlen un foglio di carta molto ampio, pieno di quadrati che circondavano i complessi nomi
degli incantesimi e segni che collegavano i quadrati. C’erano poi dei cerchi per simboleggiare gli oggetti
fisici; il più grande era al centro del foglio e rappresentava la FàrDàn. Era sicuramente il reticolo più
intricato che avesse mai visto. Il ragazzo esplorò il grafico, ma riuscì appena a capire che qualsiasi mago
che avesse anche solo tentato di scoprire quale forza circondasse la nave, sarebbe stato colpito
contemporaneamente da diversi tremendi incantesimi, ai quali nessuno poteva sperare di sopravvivere.
Inoltre, gli incantesimi posti a guardia della nave avrebbero ingannato qualsiasi tentativo di essere
conosciuti tramite la magia.
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Denel attese quasi un minuto, poi disse al giovane mago: —Uno dei vostri compiti più importanti è quello
di assicurarsi che il reticolo protettivo resti integro.—
Andiamo bene, pensò il ragazzo, ma annuì senza dire nulla, sperando che l’occasione non si presentasse.
Vàlen restituì il foglio a Denel e salì sui gradini che portavano al trono; dunque si sedette lentamente. Si
aspettava di provare qualcosa di quanto meno inconsueto ed appena ebbe appoggiato le mani sul braccioli,
un’ondata di sensazioni piombò su di lui fino quasi a stordirlo. Il suo corpo si espanse rapidamente, fino ad
includere ogni millimetro dello scafo della FàrDàn. La sua vista divenne tale da mostrargli tutto ciò che
circondava la nave. Quando il ragazzo ebbe assorbito l’effetto dello stordimento, si rese conto dell’enorme
potere conferitogli: una fonte di energia quasi inesauribile era sotto il suo diretto controllo, e da essa
avrebbe potuto attingere a volontà per lanciare incantesimi con una potenza che neanche osava
immaginare.
Il giovane mago proiettò allora la sua mente fino a raggiungere il principe, elfo, ma silenziosamente, solo
per verificare che Trellin avesse seguito il suo consiglio di trovare un nascondiglio adeguato.
Effettivamente, l’elfo teneva a freno la propria tensione come un cavallo che morde le briglie, ma era ben
rintanato nella boscaglia. Vàlen cercò nella mente del proprio amico il riferimento al luogo ove si trovava,
per poterlo raggiungere. La strada per arrivare alla tana dei mostri si formò nitidamente nella memoria del
giovane, come se fosse stato lui a trovarla.
Nel frattempo, Dénel impartiva le ultime istruzioni ai suoi nuovi compagni. Si era aspettato di avere a che
fare con delle persone eccezionali quando Pavél lo aveva informato che DàganSén stesso le aveva scelte,
ma nonostante questo fu sorpreso dalla loro capacità di comprendere il funzionamento della nave, almeno
quel poco che poteva spiegare loro. Dal canto loro, Trott, Hellis e Ròndal avevano avuto tutta la notte per
prepararsi a qualcosa di inatteso; la forza divina che li aveva guidati era quasi tangibile. Mentre Dénel
spiegava gli ultimi dettagli a Ròndal, Vàlen parlò; la sua voce era profonda e potente, inondata di
un’energia innaturale.
—Amici, miei; Trellin ha trovato la tana dei Creatori. Temo che ormai non ci sia rimasto molto tempo,
dobbiamo immediatamente raggiungerlo.—
Dénel rispose: —Sapevo che la nostra missione era urgente, ma non pensavo che lo fosse così tanto... non
penso che siate ancora in grado di governare la FàrDàn.—
—Non abbiamo scelta, tensìt.— rispose il mago. Se non interveniamo immediatamente, sarà troppo tardi.
Forse è già troppo tardi.
—In questo caso...— disse Dénel a bassa voce dirigendosi verso la postazione di comando. Una volta
seduto, sfiorò con la propria mano una delle gemme che ornavano il suo medaglione, e la parete della
Torre della Libertà si mosse, lasciando filtrare la luce del mattino di BàiVil. L’alchimista continuò: —
EmelFél, conoscete la strada per raggiungere la nostra destinazione?—
—Certo, Vostra Sapienza.—
—Bene; allora seguite le mie istruzioni. Trovate, tra gli incantesimi conservati negli accumulatori di fronte
a Sua Santità, l’incantesimo del Portale, e completalo.—
La mente del ragazzo, che ora penetrava ogni angolo della nave, si concentrò sulla figura di Hellis. Di
fronte a lui poteva percepire distintamente il rumore degli incantesimi imprigionati negli accumulatori. La
propria vista divenne ancor più selettiva, e poté percepire l’incantesimo del Portale. Ne aveva sentito
parlare una volta, da un ospite del suo maestro; un incantesimo talmente potente da spostare una qualsiasi
entità in un qualunque luogo dello spazio. Accarezzò con le sue dita immateriali quella sfera di luce che era
l’incantesimo, e vi proiettò la sua memoria. Adesso il Portale sapeva quale era la destinazione voluta, ed
era pronto per essere usato.
Una delle gemme di fronte ad Hellis si illuminò di una luce bluastra. Dénel gli disse: —Santità, quando ve
ne farò richiesta, premete con decisione quella gemma blu. Attiverà il portale.—
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Il sacerdote annuì e posò una mano sopra la gemma. Quindi, il tensìt, manovrò alcune leve di fronte a se, e
senza alcun rumore o vibrazione avvertibile, la FàrDàn si mosse lentamente, uscendo dalla posizione di
ancoraggio per affrontare il cielo aperto.
Trott provò un brivido nel vedere i tetti delle case muoversi sotto i propri piedi, ed anche Hellis, che
poteva volare con la propria anima, ammise a se stesso che la sensazione di volare col corpo era
assolutamente diversa.
Vàlen raggiunse di nuovo la mente di Trellin. —Tieniti pronto; stiamo arrivando.—
Trellin sorpreso chiese col pensiero: —Arrivando!? Dove? Come?— , ma Vàlen se ne era già andato. Il
principe si guardò nervosamente in torno, e fece cenno ai propri compagni più vicini di prepararsi a
combattere. Questi ripeterono il gesto per avvertire i compagni più lontani, e prepararono il loro arco.
Allontanati un chilometro dalla torre, Artàn Dénel esclamò: —Adesso, Santità!—
Hellis toccò il pulsante, non senza un certo timore. Sotto la sua mano sentì scorrere un immenso potere,
che rapidamente si diffuse in tutto lo scafo ed esplose all’esterno. Davanti alla FarDan si aprì uno squarcio
nel cielo, luminoso come un sole, e la nave vi entrò nell’istante seguente.
Un boato sopra alle teste degli elfi fece trasalire Trellin ed i suoi compagni. Sembrava come se un piccolo
sole si fosse acceso; era forse una nuova arma dello stregone rinnegato?
Il bagliore presto scomparve, ed al suo posto rimase una scura massa di metallo nero, che si muoveva
rapida verso la radura. Subito, Vàlen contattò il principe Elfo.
—Calma, Trellin. Siamo noi...—
—Vàlen? Ma come diavolo hai fatto?— chiese mentalmente il sorpreso elfo.
—Lascia stare. Preparati a combattere, amico mio; andiamo a riprendere Talya.—
Trellin fece allora cenno ai suoi compagni di prepararsi a tirare, ed anche se questi erano rimasti sbalorditi
dall’apparizione, seguirono diligentemente l’ordine del loro principe.
A bordo della FàrDàn, Dénel chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare: —Bene, siamo arrivati. Ora
cosa facciamo?—
Vàlen disse ad alta voce: —Quella roccia che si intravede alla base della collinetta. È lì che dobbiamo
entrare. Abbiamo qualche modo per farlo, tensìt?—
—Credo di sì.— rispose l’alchimista. —Barone Perevit, è in grado di sapere quanto è spessa quella parete
di roccia?—
—Subito, Tensìt.— Ròndal usò un pendolo che si trovava nella sua postazione, e facendogli compiere
oscillazioni scomposte sopra la sfera di vetro che aveva davanti, gridò due secche parole di comando. Il
pendolo oscillò tre volte, cambiando direzione, e quindi si bloccò, attirato verso il basso come da una forza
magnetica.
—Circa tre braccia.— concluse lo stregone.
Denel sorrise. Certo che ce la poteva fare; la sua FàrDàn poteva fare questo e altro.
—Vàrgas, puntate la lama di luce verso la base della parete, e disegnate un cerchio largo almeno un metro
nella roccia. Barone, cercate di scoprire che tipo di resistenza troveremo all’interno. Santità, puntate un
incantesimo di Esplosione sul foro praticato da Vàrgas.—
Torèt si mise al lavoro, e seguendo le istruzioni dategli dall’alchimista prima della partenza, usò la lama di
luce per fare come gli era stato detto. Un sottile raggio di magia squarciò il cielo, vaporizzando tutto ciò
che era sul suo cammino.
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La porta che chiudeva la tana era sorvegliata da due orchi, seduti lungo il corridoio che conduceva
all’uscita. Un rumore simile al sibilo di un serpente attirò la loro attenzione verso il la pietra magica. La
roccia si stava sciogliendo, in un punto a circa due metri di altezza. Incuriositi, gli orchi si avvicinarono, e
poterono notare che la luce scendeva, disegnando un arco. La calda lama di luce passò vicino ad uno dei
due mostri, che saltò di lato per scansarla, grugnendo. Il suo compagno grugnì per solidarietà. Poi fu il
turno dell’altro orco allontanarsi. Poco dopo, sulla roccia era stato inciso un cerchio completo, dal quale
filtrava la luce del giorno. Gli orchi si avvicinarono di nuovo al portale, chiedendosi con dei grugniti
istruzioni sul da farsi. Proprio mentre stavano scegliendo chi doveva andare ad avvertire il capo, i loro
timpani scoppiarono. Il loro corpo fu investito prima da una spaventosa onda d’urto, poi da una miriade di
schegge di pietra che li crivellò.
—Tensìt Dénel,— chiamò Ròndal, —li abbiamo colti di sorpresa. Molti di loro dormono di giorno; alcuni
stanno correndo a vedere cosa è successo ed entro un minuto dovrebbero costituire una seria resistenza.
Stanno arrivando anche degli orchi dalla foresta.—
L’alchimista rispose: —Grazie, Barone. Adesso scendiamo; cercherò di coprire il vostro ingresso.—
Mentre la FàrDàn scendeva lentamente sulla radura, alcuni goblin si riversarono fuori dalla loro tana, per
tentare di cacciare l’intruso, ma non si aspettavano di vedere un mostro di metallo venire giù dal cielo.
Così non si accorsero nemmeno degli elfi che li tenevano sotto tiro, e le loro vite terminarono prima che si
fossero resi conto del pericolo.
Edgard comprese perfettamente ciò che stava succedendo, e preparò il proprio equipaggiamento da
battaglia. Inserì lo scudo di potenza, caricò il mitragliatore antariano ed armò il disintegratore. Quindi si
infilò la piccola arma nella cintura, ed imbracciò il pesante fucile. Solo ora notava che l’ingombrante arma
sembrava quasi senza peso, ma forse era solo una sensazione dovuta all’adrenalina, o forse la gravità di
Pitermòs era molto più bassa di quella a cui era abituato.
Si alzarono tutti dai propri posti, per raggiungere il portello, mentre la nave stava per toccare terra. Edgard
si fece spazio prendendo il posto di capofila, seguito da Trott, Ròndal, Vàlen ed Hellis; il guerriero avrebbe
voluto scendere per primo, ma un’occhiata allo straniero, ed alle sue armi sconosciute, lo persuasero a
cedergli il posto.
Quando la FàrDàn toccò terra, Dénel manovrò una leva dalla sua postazione, ed il portellone si aprì.
Edgard saltò fuori dall’abitacolo, sparando in direzione della grotta. Qualche grido sommesso rivelò che
qualcuno li stava attendendo nell’oscurità. Una freccia saettò verso di lui, rimbalzando sul suo scudo di
forza. Pensando ai suoi compagni, che erano sprotetti, gridò: — State dietro di me! —
Purtroppo, gli altri non lo compresero, ma istintivamente rimasero in posizione arretrata. Prima di
scendere, Vàlen gridò a Dénel: —Copriteci le spalle, e state basso. Quando usciremo avremo bisogno di
una comoda via di fuga.—
Una volta fuori, chiamò Trellin: —Vieni con noi,— gli urlò, —ma lascia di guardia gli altri: avremo presto
visite dalla foresta.—
Il principe non volle sapere come il ragazzo era giunto a questa decisione; con una smorfia di disappunto
corse verso gli umani, e fece cenno agli altri di tenere la posizione e coprire le spalle.
Presto, Trellin fu accanto a Vàlen, che avanzava verso la grotta, mentre Edgard apriva la strada con una
pioggia di proiettili mortali. Mentre si apprestava ad entrare, il Presidente imbracciò il mitragliatore
antariano nella sinistra, ed estrasse con la destra il disintegratore. Nel momento in cui entrò nella tana, una
pioggia di frecce lo colpì, ma nessuna arma di quel mondo poteva nulla contro il suo scudo di forza.
Individuati i goblin tiratori, li centrò con il disintegratore, per consentire ai suoi compagni un ingresso
senza rischi.
Trott e Trellin si buttarono nella grotta, che dopo un breve corridoio stretto si allargava in una camera più
ampia, dalle quale partivano altri tre cunicoli. Seguivano Ròndal, Hellis e Vàlen, che chiese agli altri: — Da
che parte andiamo?—
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Lo stregone dagli occhi di falco tirò fuori da una tasca un pendolo raffigurante un demone attorcigliato su
se stesso, legato con una lunga catenella d’oro. Raggiunse Trellin e lo prese per mano; la cosa lasciò l’elfo
interdetto, ma la presa dell’uomo era micidiale. Quindi, Ròndal lasciò il pendolo libero di oscillare.
Esaminò i cunicoli osservando le vibrazioni del suo strumento divinatorio; dopo meno di un minuto riprese
il pendolo il mano e lasciò la presa su Trellin. Indicando il passaggio a destra disse: —Da quella parte.—
Edgard seguì il dito del suo compagno e si avvio per primo nel nuovo tunnel; mentre abbandonavano la
sala, dall’ingresso di sinistra sbucarono i mostri del sottosuolo. Ròndal si trovò ad affrontare un orco;
mentre questi vibrava un tremendo fendente, lo stregone schivò il colpo e si mosse un poco avanti; assestò
poi un calcio all’interno del ginocchio del mostro: l’osso scricchiolò, e mentre il mostro cadeva lo stregone
lo colpì violentemente con il gomito alla nuca. Il suo collo si spezzò, e l’orco giacque morto senza
emettere un grido. Trellin e Tòret rimasero in retroguardia per contenere gli aggressori, mentre Hellis e
Vàlen avanzavano protetti da Ròndal ed Edgard. Il raggio mortale dello straniero aveva l’effetto di
abbagliare i sensibili occhi delle creature notturne che si trovavano sulla loro strada, lasciandoli inermi per
l’assalto di Ròndal. I corpi dei mostri si accumulavano lungo i fianchi dei corridoi e delle stanze che il
gruppo attraversava compatto, lasciandosi alle spalle solo devastazione.
Ad un certo punto, però, in una stanza particolarmente larga e ricca di ingressi, l’afflusso costante di
mostri li stava mettendo in difficoltà. All’inizio i raggi di luce ed i proiettili del Presidente furono sufficienti
per tenere a bada l’orda. Poi qualcuno riuscì a passare, ma fu fermato dalle lame dei due guerrieri. Ròndal
dovette dunque portarsi in aiuto dei due. Ma per ogni due mostriciattoli caduti, altri tre spuntavano da ogni
lato. Il gruppo indietreggiò lentamente fino all’imboccatura del tunnel che avrebbe dovuto seguire. Trellin
e Trott si misero spalla a spalla davanti all’imboccatura del passaggio, riuscendo a tenere a bada i goblin.
Presto però i piccoli mostri furono rimpiazzati da robusti orchi, ed alcuni arcieri comparvero oltre lo
schieramento, pronti a colpire quando si fosse creato un varco.
Vàlen allora raccolse il proprio potere per creare un muro di fuoco. L’incantesimo colse gli orchi di
sorpresa; non poterono fare altro che arretrare di fronte al calore provocato dalla magia.
L’elfo, provato dalla fatica e grondante di sudore si girò verso il mago, ringraziandolo con lo sguardo.
Anche Tòret iniziava a dare segni di tensione inusuali per lui.
Vàlen si guardò intorno. —Troveranno un’altra strada, ma almeno avremo le spalle coperte per un po’.
Ròndal, quanto manca ancora?—
Ancora una volta, lo stregone usò il suo pendolo per determinare la distanza dalla meta. —Siamo vicini.—
rispose, —Seguitemi.—
Così il gruppo si incamminò, guidato dal barone e dal presidente, al suo fianco, verso l’altra uscita del
tunnel.
La frusta schioccò ancora una volta. Talya percepì il dolore, ma non riuscì ad urlare: ormai era troppo
debole. Si era aspettata che il dolore calasse, diminuisse in qualche modo dopo qualche tempo... non era
così. Ogni volta faceva più male.
La frusta raschiava il sudicio pavimento, per tornare nella posizione iniziale. Brandin alzava il braccio
caricando un nuovo colpo. Avrebbe atteso il nuovo dolore, rassegnata alla sofferenza.
Ma lo stregone umano alzò un braccio.
—Fermo, Brandin!— disse. Quindi si avvicinò alla piccola elfa. Prese il suo volto tra le sue sudicie dita, e
le disse: —Bene. Questo è l’inizio. Non penserai che tutto quello che sappiamo fare sia appendere
qualcuno e dargli qualche frustata vero? Hai solo iniziato a comprendere cosa sia il dolore. Vedi queste
macchine?— chiese, mostrando un’ampia ala dell’immonda sala colma di attrezzi crudeli, e senza attendere
la risposta continuò: —Sono tutti strumenti studiati per procurare il massimo dolore possibile. Questo ad
esempio è il cavalletto...—
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Talya non ascoltò il resto della descrizione. Non poteva andare avanti, la sua volontà stava crollando. Il
dolore... ogni fibra del suo corpo era dolore, ed ora aveva compreso che non esisteva alcun limite. Doveva
porre una fine a tutto ciò. Volevano la magia? L’avrebbero avuta. Avrebbe accumulato tutta la magia che
le era rimasta, e l’avrebbe liberata in un lampo di fuoco. Sarebbe morta, ma avrebbe portato con se quei
mostri. Iniziò a concentrarsi, cercando per un solo istante di escludere il dolore. Trovò in fondo alla sua
anima l’energia necessaria per l’incantesimo, ed iniziò il processo. Poteva avvertire l’essere alieno che la
spiava, nascondendosi in un angolo della propria mente. Sentiva l’esultanza del mostro nel successo del
suo piano: stava facendo ciò che il Creatore voleva, ma non le importava. Il suo incantesimo avrebbe posto
fine a tutto questo. Forse la sua magia non era abbastanza forte per distruggere quell’essere, ma almeno
l’avrebbe liberata dal dolore.
Adesso l’energia era raccolta; doveva solo essere incanalata. Ma... un momento! Non aveva forse udito
uno schianto? Ed il clangore che sentiva non era forse un rumore di spade? Era solo la sua fantasia?
Aprì gli occhi, dissipando l’energia che aveva accumulato. La frustrazione del mostro fu tale da farlo
gridare. Eppure anche lui si girò verso la porta della sala, richiamato dall’evidente rumore di una battaglia
che si stava svolgendo oltre di essa.
Forse... era possibile? Qualcuno era venuto a salvarla! Proprio allora, la porta della sala esplose; la polvere
sollevata dallo schianto cadde, ed il fumo si dissipò, lasciando intravedere dall’altra parte un giovane mago,
con le mani sollevate, ed ancora circondato dall’aura della magia che aveva abbattuto la porta.
—Vàlen!— esclamò raggiante la piccola elfa. Ma il dolore proveniente dal suo corpo, la fatica e la nuova
speranza furono più di quanto Talya potesse sopportare. In quel momento il mondo divenne freddo e buio,
e quella fu l’ultima immagine che vide la principessa prima che la vita le scivolasse via come sabbia tra le
dita.
Il giovane mago rimase pietrificato alla vista dell’orribile sala, al centro della quale era crudelmente appesa
Talya. Smise di respirare. Smise di pensare; ma il calore proveniente dal disco di vetro lo riportò alla realtà.
Si mosse per lasciar entrare gli altri, mentre studiava la situazione, e nel farlo vide l’abominio. Il Creatore
del Male. Si ergeva su sei zampe affilate, circondato da attrezzi di metallo, e lo stava osservando.
L’inviato Krix aveva percepito la presenza di un Siriano. Non aveva previsto di dover combattere,
soprattutto non contro qualcuno dotato di armi moderne, e molta della sua attrezzatura era lontana; lo
stesso valeva per gli uomini vicini a lui. Erano impreparati ed in evidente inferiorità numerica... Quindi
lanciò a Darini l’ordine mentale di fuggire; avrebbero colto i nemici alle spalle, mentre tentavano la fuga.
Fatto questo, il Creatore sparì in una nuvola di scintille. Darini, ricevuto l’ordine, afferrò per una manica
Brandin e con l’altra mano strinse il proprio medaglione, urlando parole di potere. La figura dei due fu
avvolta da spettri immateriali che, vorticando rapidamente intorno a loro, li portarono altrove.
Tutto era stato così rapido da non dare tempo né a Vàlen, né ad Edgard, che era subito dietro di lui, di
reagire. Il ragazzo scese le scale che immettevano al livello del pavimento, e quando Edgard lo seguì,
poterono entrare anche gli altri. Trellin era l’ultimo, e per ultimo vide sua figlia; cadde in ginocchio,
emettendo un breve gemito. Lasciò cadere la spada mentre chiamava sotto voce: —Talya ...—
Pensò che sua figlia fosse morta, ma era solo un incubo. Si sarebbe svegliato nel palazzo di Lunasìt, ed
avrebbe abbracciato la sua bambina. Questo pensò, mentre la vista si scuriva ed il respiro si faceva pesante.
Tòret si chinò su di lui, cercando di farlo alzare. Ròndal, sulle prime, voleva raggiungere gli altri, ma
sentendo il rumore dei mostri che si avvicinavano, e sapendo che Trellin non era in grado di combattere,
rimase di guardia sulla porta.
Vàlen fu in un lampo accanto al corpo della ragazza. Non si curò di accertarsi se Talya fosse ancora viva;
cercò immediatamente di liberare le caviglie dell’elfa dal peso che aveva sistemato Brandin, ma dovette
attendere l’arrivo di Edgard. Questi gettò lontano, senza sforzo, il sacco pieno di pietre e metallo. Vàlen
toccò poi le corde che legavano le caviglie di Talya, sciogliendole con un delicato incantesimo; nel
frattempo, Hellis la stava osservando. Raggiunse le sue mani, e si accorse che erano gelide: non sentiva il
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polso. Il sacerdote pensò immediatamente che la ragazza fosse vittima di un collasso cardiaco; sbiancò.
Non avrebbe potuto fare nulla fino a che non si fossero trovati in un posto più sicuro, ed allora sarebbe
stato troppo tardi. Forse era già troppo tardi. Poi si rese conto; “ma certo,” pensò, “non sento il polso
perché le catene hanno bloccato la circolazione”.
Con un filo di speranza accostò la mano alla gola della ragazza. Un fremito. Forse era una sua sensazione...
No! Eccone un altro. E poi un altro ancora.
Vàlen si accostò ad Hellis, e senza la forza di parlare lo toccò delicatamente su di una spalla.
—È viva.— rispose serio questi. —Ma è molto debole. È probabile che le articolazioni abbiano subito dei
danni; dovremo trasportarla con molta cautela.—
Il sacerdote si tolse il manto che indossava e lo usò per fasciare la schiena martoriata della giovane
principessa, mentre Edgard spezzava senza fatica i bracciali di metallo che le legavano i polsi. Vàlen la
raccolse tra le sue braccia; credeva che non sarebbe riuscito a sorreggerla, ma la rabbia e la furia gli
diedero la forza.
Il mago guardò il pallido volto di Talya. Non era più il felice volto della ragazza elfa che aveva conosciuto;
su di esso era scolpito il dolore che mai sarebbe stato cancellato. Il ragazzo sentì montare una rabbia
incontrollabile, e proprio in quel momento si accorse che Ròndal e Trott stavano combattendo sulla porta
della sala. Scagliò la sua furia verso quei nemici; la sua mente volò verso questi, e senza parole di magia,
ma solo con un grido, Vàlen scagliò un vento assassino su di loro. Sei grossi orchi e molti goblin che si
affollavano nel corridoio furono spazzati via dal potente incantesimo.
Hellis ed Edgard guardarono il ragazzo che teneva in braccio Talya, tremante di rabbia, teso per lo sforzo
della magia, e determinato come un drago che piomba sulla vittima.
—Usciamo di qui.— disse il mago, e gli altri lo seguirono. Quando il gruppo si riunì in cima alle scale, il
principe elfo chiese: —Vàlen... come sta?—
—È viva, Trellin. E se vogliamo che lo rimanga, dobbiamo continuare a combattere.—
Lo sguardo del principe elfo divenne duro come il diamante; afferrò la sua spada ed alzò la guardia,
incamminandosi verso l’uscita per coprire gli altri.
Stavano incontrando meno resistenza adesso. Strano, pensava Vàlen, era plausibile il contrario. Forse,
mentre erano scesi nella tana, avevano assottigliato le difese nemiche, ma non gli sembrava possibile.
Proprio all’imboccatura di un tunnel, ebbe un presentimento e fece fermare gli altri. — Barone,— chiese,
—ci sono altre uscite?—
—Sospetti una trappola?—
—Sì... anzi, ne sono sicuro. La sala oltre questo tunnel è la più grande che abbiamo incontrato, un posto
ideale per tendere un agguato.—
—Purtroppo non ci sono altre strade.— , rifletté lo stregone, —Ma possiamo fare qualcosa. Posso fare
qualcosa. Rimanete qui.— disse avviandosi verso il cunicolo.
—State attento barone!— disse Vàlen.
Questi, in risposta si girò mostrando la bacchetta di argento grazie alla quale aveva scatenato le forze degli
inferi sugli aggressori della torre di Séndovan. Quindi sorrise e si incamminò.
Ughju, il capo dei goblin, aveva ammassato tutti i suoi guerrieri in quel grande salone. Decine di arcieri
erano nascosti sui terrazzi delle pareti, ed i guerrieri più abili si erano mimetizzati tra i cadaveri dei loro
compagni. Presto gli invasori avrebbero incontrato il loro destino.
Ma dal tunnel sorvegliato non giunsero gli umani; una cantilena solenne invase la sala dai cento terrazzi;
sulle prime Ughju pensò che si trattasse di Darini, che stesse intessendo un incantesimo per migliorare la
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trappola. Presto un orda di spiriti si riversò nel salone. I coraggiosi orchi fuggirono di fronte a quella
mostruosità assassina, e chi non fuggì, come Ughju, trovò la morte.
Mentre il gruppo degli umani, ora riunito, procedeva lungo i tetri corridoi, un lampo di luce squarciò il
buio, abbattendosi su Edgard. Il colpo lo raggiunse alle gambe, dal basso, facendogli perdere l’equilibrio e
facendolo cadere in una specie di buco che fiancheggiava il tunnel. Per fortuna, gli scudi di forza avevano
assorbito l’energia, ma un segnale di allarme avvisava che il loro livello di efficienza era stato notevolmente
intaccato. Steso a terra e stordito, Edgard si guardò intorno rapidamente; quindi rotolò cercando di
appiattirsi contro un lato del nuovo corridoio. Hellis e Ròndal stavano per scendere per dare aiuto allo
straniero, ma questi urlò sbracciando: —Via, andate via! Ci penso io!—
La magia di quelle persone non avrebbe potuto salvarli dall’arma del Krix, che evidentemente gli aveva
teso un agguato. Vedendo però che Hellis e Ròndal non capivano, e stavano pericolosamente entrando
nell’antro nel quale era caduto, Edgard si infuriò.
—No. Non dovete venire qui. Andate via, uscite fuori, vi raggiungerò dopo che avrò sistemato questo
mostro.— Disse piano. Sperava che Hellis capisse; ma successe di più: tutto il gruppo, ordinatamente, si
mosse all’unisono verso l’uscita, come spinto da una forza ipnotica. Edgard rimase sbalordito, ma non
ebbe tempo di concentrarsi su questo fatto: una scarica di luce mortale colpì le rocce vicino al suo corpo.
Edgard imbracciò il fucile, e cercò di vedere dove si fosse nascosto il Krix: le armi ad energia erano inutili
contro gli scudi usati dagli alieni: sperava che le armi a proiettile fossero più efficaci. Non dovette faticare
molto per trovare il suo avversario: questi si era tranquillamente avvicinato, con la sicurezza di chi ha già
vinto.
La voce del sintetizzatore, che traduceva i sibili del mostro, disse: —Fantastico. Una fortuna insperata, per
me. Adesso, qualunque esito avrà la mia missione, sarò acclamato come un eroe: l’eroe che ha eliminato il
Presidente delle Federazioni Siriane.—
Non c’era modo di fuggire, né di trovare una postazione più coperta. Era alla completa mercé del mostro.
Il livello di energia dei suoi scudi era appena sufficiente a sopportare un colpo di striscio, ed era rimasto
anche quasi senza munizioni. Sentì montare una furia incontenibile; scattò in piedi come il balzo di una
tigre, urlando e schiacciando il grilletto del mitragliatore con tanta forza che credette di sentire il metallo
cedere sotto la sua morsa.
Una nuvola di schegge infuocate volò verso il mostro; ogni colpo veniva deviato dagli scudi invisibili,
emettendo una scia di scintille ed uno stridente rumore metallico. Presto, il fucile sputò il suo ultimo
proiettile, mentre Edgard gridava ancora.
Non successe nulla. Evidentemente lo scudo di quel mostro era stato potenziato, visto che il suo livello di
energia era inalterato. Più di cento proiettili esplosivi. Gli avevano fatto il solletico. Anzi, neanche quello.
Edgard smise di urlare; davanti a lui, l’imponente ragno gigante, alto quasi due metri e lungo tre, rideva.
Sì, rideva, o meglio il suo corpo mostrava tutta l’ilarità di cui la sua razza era capace, e come ulteriore
beffa, il sintetizzatore collegato alla testa del mostro emanava dei rochi suoni di risa.
Quindi l’alieno, improvvisamente serio, osservò con i suoi occhi compositi l’uomo di fronte a lui.
—Addio, grande Presidente delle Federazioni Siriane!— furono le parole uscite dal sintetizzatore. Quindi
un piccolo cannone montato dietro la schiena del mostro puntò Edgard, illuminandosi di una malsana luce
giallastra.
Era finita. Un attimo ancora e ogni molecola del suo corpo sarebbe stata vaporizzata. La sua vita sarebbe
finita così. Non avrebbe più potuto aiutare la sua gente, non avrebbe più salvato il suo popolo, e
soprattutto non avrebbe più potuto porre rimedio al più grande errore della sua vita: creare quel mondo.
Creare il mondo. Lui aveva creato quel mondo. Improvvisamente il volto del demone Taldìt, che una volta
era stato Arkànjel, gli apparve nitido come nel sogno. Le parole che il demone aveva pronunciato si
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formarono chiare nella sua mente: tu sei Egarràin, il Creatore, e che tu lo creda o no, hai il pieno
controllo sulla realtà che ti circonda, su questo mondo.
Il cannone del Krix emise un roco ronzio. Ma adesso Edgard sapeva; il fascio di energia si propagò verso
di lui lentamente. La luce era infinitamente più lenta del suo pensiero. Il presidente sollevò la propria mano
proprio di fronte al raggio, molto prima che questo lo raggiungesse.
Il Krix non vide nulla di tutto ciò. Pensò semplicemente che il Presidente Siriano avesse in serbo un
qualche tipo di difesa sconosciuta, un nuovo modello di campi di potenza personali; lui vide solo che il
fascio si spegneva improvvisamente di fronte all’umano. Quindi Edgard iniziò a camminare verso il mostro,
e questi indietreggiò lentamente. Quando l’alieno comprese che le sue armi erano inutili, lasciò fluire il suo
istinto di sopravvivenza. Attaccò come i suoi antenati avevano fatto per millenni, gettandosi sulla preda
con un balzo poderoso, per poi stringere il corpo della vittima con le grandi zampe dure come tubi di
acciaio, ed iniettare il veleno mortale. Così il gigantesco discendente dei ragni spiccò il balzo, sicuro di
afferrare l’umano; invece, con suo grande disappunto, il mostro atterrò malamente stringendo solo l’aria.
L’uomo non era più dove si era trovato fino ad un istante prima; adesso era di fronte a lui. Era immobile, e
lo stava osservando mentre tentava di rimettersi goffamente in piedi. Era più grande; adesso era grande
quanto lui.
Il Krix capì. Non era un’arma misteriosa che aveva salvato l’umano. In fondo, lo aveva sempre percepito
che quel dannato pianeta aveva qualcosa di sbagliato. Non funzionava come tutti gli altri posti. In questo
luogo le regole erano differenti, e l’umano che aveva di fronte le aveva comprese. L’alieno, per quanto
avesse tentato, aveva fallito; in quel momento seppe che la sua vita era terminata.
Edgard colpì il mostro allungando un braccio. O meglio, non vi fu alcun movimento; semplicemente un
momento prima la sua mano era appoggiata tranquillamente lungo il fianco. Un attimo dopo era conficcata
nel corpo dell’alieno.
—Hai sentito?— Chiese Ròndal a Tòret, che era accanto a lui, in avanguarida.
—Avrebbe svegliato un morto.—
—Cosa può essere stato?—
—Non lo so. Forse un terremoto—
—No, troppo secco, troppo sordo. Sembrava un’esplosione.—
—Pensate che sia stato Darini?—
—Non lo so, Tòret.—
—Perché vi siete fermati?— era la voce secca di Vàlen.
—Il barone ed io abbiamo sentito uno scoppio.— rispose il guerriero.
—Io non ho sentito niente. E anche se fosse, non risolveremo niente stando qui a...—
Ma proprio in quel momento, da una intersezione che interrompeva il corridoio pochi metri più avanti,
sbucò silenziosamente la figura ammantata di uno smilzo umano. Il manto cadde, rivelando un sorriso
beffardo rivolto al gruppo fermo. Dopo alcune fulminee occhiate, lo smilzo posò il suo gelido ghigno sul
corpo inerme dell’elfa, ancora portata in braccio da Vàlen.
—Bene,— esordì con voce tagliente l’estraneo davanti al gruppo, sottolineando le sue parole con il rumore
della lama sguainata dal fodero, —finiamo il nostro lavoro.—
La spavalderia con la quale Brandin si era presentato aveva lasciato tutti impietriti, eccetto Vàlen, che
stava già raccogliendo le proprie energie, e Trellin; il principe elfo si portò avanti e fermò il mago
posandogli una mano sulla spalla.
—E’ mio.— disse in modo sinistro. Trellin aveva visto il volto di quell’uomo mentre rapiva sua figlia.
Anche se non era stato in grado di fermarlo, ora poteva ricordare tutto perfettamente.
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—Trellin,— rispose il mago, —questo non è il momento...—
—Ho detto: è mio.— Nulla avrebbe potuto fermare la calma furia del principe elfo, Vàlen lo sapeva bene;
così Trellin continuò:—Andate, vi raggiungo dopo.—
Sapendo che era inutile discutere la decisione dell’elfo, e preoccupato per Talya, Vàlen si mosse in
direzione di Brandin, seguito dagli altri. Osservando bene coloro che avanzavano verso di lui, la sipa di
Darini si fece da parte, senza neanche mostrare segno di voler attaccare i nemici che gli sfilavano accanto.
Si concentrò unicamente sull’elfo che lo aveva implicitamente sfidato.
—Perfetto.— disse Brandin, —Sono proprio curioso di sentire se urli come la ragazza.—
Quella dell’umano non era vana cattiveria, bensì una tattica che mirava ad indebolire l’avversario; ma non
funzionò. Come se non avesse assolutamente sentito, Trellin posò la propria spada a terra, rapidamente ma
con immenso rispetto. Quindi, sguainò due lunghi stiletti, nascosti in precedenza sui fianchi, all’altezza dei
reni. L’elfo si mise in equilibrio su una gamba sola, appoggiando il piede sinistro di fianco al ginocchio
della gamba destra, ed allargò le braccia come ali di gabbiano, lasciando pendere gli stiletti verso il basso,
tenendoli per l’elsa con la punta delle dita. Rimase immobile per alcuni secondi, mentre Brandin,
impaziente, sollevava la spada in guardia.
—Fatti avanti!— gridò l’umano, innervosito dalla calma del nemico. E Trellin si mosse, ma Brandin
percepì chiaramente che il suo avversario non lo aveva ascoltato: aveva semplicemente deciso di iniziare.
Il principe elfo roteò su se stesso, avvicinandosi rapidamente al suo avversario. Con gli stiletti descriveva
ampi cerchi nell’aria, attorno al suo corpo; la prima lama fendeva l’aria, e la seconda la seguiva la prima
come l’acqua segue un solco. L’umano avrebbe voluto sbeffeggiare l’elfo ed il suo strano modo di
combattere, ma sebbene fosse ben abituato a deridere gli avversari, stavolta non poté fare altro che
osservare il nemico con un sorriso maligno.
Quando Trellin fu a tiro di Brandin, questi attese che, nella propria danza, l’elfo fosse girato di spalle, e
quindi affondò. Ma proprio in quel momento il principe cambiò ritmo, allargando rapidamente la sinistra e
colpendo la punta della spada dell’uomo; il primo colpo, sufficiente a mettere fuori misura l’affondo di
Brandin, fu seguito dal secondo stiletto, che andò a impattare al centro della spada, sbilanciando l’umano.
Anche se questi era ormai privo di guardia, Trellin non approfittò dell’attimo di defiance del suo
avversario e si portò appena fuori tiro. Brandin si rimproverò mentalmente di essere stato così ingenuo e
partì di nuovo all’attacco, ma questa volta più prudente; una stoccata per saggiare il terreno, alla quale
Trellin rispose di nuovo con due colpi sull’arma avversaria. Allora Brandin tentò una finta seguita da un
mezzo affondo, ed il risultato fu lo stesso; riprovò con un mezzo fendente all’altezza della spalla, ma
Trellin colpì due volte con violenza, facendo roteare l’uomo su se stesso. Brandin, spazientito iniziò una
sequenza di piccole stoccate, tutte bloccate da due delicati tocchi degli stiletti; per quanto fosse veloce,
ogni volta che affondava, trovava l’elfo pronto. Continuò così per diversi colpi, fino a che il rumore del
metallo divenne perfettamente ritmico: un tempo ternario scandito da due battiti ed una pausa. Qualsiasi
attacco portasse, non riusciva a rompere questa sequenza, e quando se ne accorse, comprese che stavolta
non avrebbe potuto vincere.
Quasi ipnotizzato dal ritmo, non aveva visto il fulmineo scatto di Trellin, che nel tempo di una pausa si era
catapultato all’interno della guardia di Brandin; gli stiletti del principe erano balenati nella fioca
illuminazione del corridoio, e subito Trellin aveva terminato la manovra con un poderoso salto all’indietro,
portandosi fuori tiro e rimanendo immobile.
Sbalordito, Brandin osservò l’avversario mentre gettava le armi in direzioni opposte, e si girava voltandogli
le spalle per andare a raccogliere la spada. La danza era finita.
Brandin, credendo al momento che Trellin volesse continuare il combattimento con la spada, sollevò la sua
arma, preparandosi a correre verso il nemico per sferrare un fendente; ma come ebbe portato la lama al di
sopra della propria testa, sentì un’irrefrenabile impulso di tossire. Un brivido glaciale accompagnò la tosse;
prima un colpo, poi un altro, quindi Brandin iniziò a tossire sul serio. Si dovette appoggiare alla propria
spada, servendosene come un bastone per impedire al proprio corpo scosso dai brividi e dalla tosse di
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crollare a terra. Portandosi la mano libera sulla bocca, si accorse che tossiva sangue. Solo allora vide il
proprio petto: due ferite che a mala pena sanguinavano si erano aperte in alto, perfettamente simmetriche
rispetto allo sterno. Il sicario capì: quel maledetto gli aveva perforato i bronchi; una piccolissima ferita
dalla quale il sangue sarebbe affluito nei polmoni, lentamente, ma inesorabilmente. La consapevolezza gli
fece tremare le gambe, e la forza di reggersi in piedi gli venne meno. Brandin si accasciò aggrappandosi
alla spada, mentre il suo respiro si faceva pesante e la tosse più flebile. Vide il suo uccisore passargli
accanto, senza degnarlo neanche di uno sguardo; stranamente, in quel momento si ricordò che, quando
aveva pensato alla sua morte, si era immaginato un maggior rispetto da parte di chi, prima o poi, lo
avrebbe sconfitto.
Invece, quell’elfo lo aveva lasciato lì, a morire da solo, mentre la vita se ne andava, e lui non poteva
fermarla. Non provava dolore, le ferite erano così piccole, si rendeva solo conto che tutto si faceva
sfumato, bianco. Cosa sarebbe successo? Lui, Brandin, che aveva deriso tutto e tutti, ora aveva forse
paura? Cosa c’era dietro a quel velo bianco che gli si parava sempre più nitidamente innanzi? Qualcuno lo
avrebbe giudicato? Sorrise nell’agonia: speriamo di no. Non basterebbe l’eternità per raccontare il male
che ho fatto. Morirei di noia.
Il sorriso beffardo si spense all’improvviso: seppe che il fremito che lo stava percorrendo era l’ultimo.
—Ecco l’uscita.— disse piano Tòret agli altri. Il giovane guerriero si era imbarcato in quell’avventura
pericolosa per due motivi: il primo era vendicare i suoi genitori. Trovare Darini, e fargliela pagare cara, in
un modo pulito, come si era fatto promettere da Trellin il giorno dell’attacco a Salliandem, era un buon
motivo per ficcarsi in un buco pieno di orchi e altre creature pericolose. Ora che stava per uscire, senza
aver trovato quello che cercava, provava uno strano senso di frustrazione. Il secondo motivo era: seguire
Vàlen. Lo avrebbe seguito ovunque e comunque; ed ora il suo amico stava uscendo da lì. E poi c’era
Talya; era ferita gravemente, lo sapeva bene. Il sapore amaro della vendetta non vale quanto il pericolo di
perdere un amico, e non c’era tempo per giocare al gatto col topo. Ci sarebbe stata un’altra occasione, ne
era certo. Avrebbe scovato quel maledetto ovunque si nascondesse; la sua determinazione sarebbe stata la
sua arma. Sarebbe stato l’incubo di Darini... e perché no? Sarebbe stato l’incubo di tutti quelli come lui.
Vàlen interruppe il suo pensiero: —Vai avanti, Trott. Ma sta attento: lo straniero ci ha coperti fino ad ora;
adesso siamo soli.—
Tòret procedette guardingo lungo il corridoio, schiacciandosi contro la parete. L’allenamento lo
costringeva a controllare eventuali pericoli ad ogni passo, ma il suo istinto gli diceva che non avrebbe
trovato alcuna resistenza lungo la strada: se non avevano sgominato tutte le creature all’interno di quella
tana, comunque erano vincitori. E i loro avversari lo avevano capito.
Il guerriero fece cenno agli altri che la via era libera; fuori dalla grotta gli elfi lasciati di guardia vicino alla
ShtàrLàn avevano ingaggiato un combattimento a distanza con gli orchi che, rientrando dalla foresta,
cercavano di guadagnare la loro tana. Molte frecce letali erano già volate dai nascondigli sicuri fra gli
alberi, dove gli orchi non avrebbero potuto individuare gli elfi. Fra la boscaglia rimaneva solo uno sparuto
gruppo di grossi bestioni impauriti, intenti a cercare di capire da dove giungessero i letali attacchi. Alla
vista minacciosa degli ulteriori nemici, gli orchi già scoraggiati non esitarono a fuggire, inoltrandosi
nuovamente nella foresta.
Vedendo la loro principessa portata a braccia da un giovane umano, i quattro guerrieri elfi uscirono allo
scoperto, dirigendosi rapidamente verso il gruppo; Vàlen, che aveva ancora Talya in braccio, procedeva
dritto verso la navicella, al centro della radura. Anche se aveva pronunciato un incantesimo di forza, le
articolazioni gli dolevano; ma oramai era arrivato ed avrebbe sorretto la ragazza per tutto il tempo che era
necessario. Nella loro lingua, il mago avvertì i guerrieri elfi che il principe stava arrivando, e chiese loro di
salire a bordo; gli elfi non esitarono.
Il portello della FàrDan si aprì, e Denel gridò verso il gruppo: —Salite, presto! Penso che fra poco avremo
visite.—
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Trellin trovò facilmente l’uscita, pochi istanti dopo che gli altri erano a bordo. Anche se strana, quella
scatoletta era pur sempre un mezzo di trasporto, e la sua bambina era lì. Dall’interno, Ròndal gli fece un
ampio segno, chiamandolo energicamente, e l’elfo corse rapido verso lo scafo. Appena salito, senza darsi il
tempo di guardarsi intorno, chiese a Ròndal: —Dov’è mia figlia?—
—Da quella parte.— rispose il barone, indicando un corridoio che si inoltrava in direzione opposta rispetto
al grande schermo panoramico. Anche se il suo cuore di padre voleva andare subito a vedere come stava la
sua bambina, il suo dovere di Principe gli imponeva un ultimo compito. Chiamò due dei quattro elfi che
componevano la sua scorta, i due che riteneva più valorosi, ed ordinò loro di tornare a Lunasìt, per
avvertire del pericolo costituito da quella tana. Obbedienti, gli elfi scesero dalla navicella, ed andarono a
recuperare i cavalli.
Nel frattempo, anche Edgard era uscito. Dénel, seduto davanti alla postazione di guida, lo vedeva
avvicinarsi: l’alchimista era un buon osservatore, e si accorse subito che qualcosa in quello straniero era
molto diverso da prima. I suoi passi sembravano lenti e calmi, possenti e maestosi, ma in un attimo fu
accanto alla nave; come se il tempo si fosse piegato al volere dell’uomo, per non costringerlo ad una
scomposta corsa. Nulla, nel suo aspetto, era differente: nessun segno di cambiamento. Eppure, l’anima del
Tensìt gli gridava che i suoi occhi lo ingannavano. Guardare Edgard era come osservare un vortice che
attraeva ogni suo pensiero.
Vàlen e Tòret avevano sistemato Talya su un letto comodo, all’interno della prima cabina disponibile. Il
guerriero, assieme a Ròndal era poi tornato al proprio posto, sapendo che dovevano allontanarsi da lì;
Trellin stava per entrare, ma Vàlen, uscendo, lo bloccò.
—Lasciami passare.— sibilò Trellin nella propria lingua.
—Non adesso, Vostra Altezza.—
—Non puoi impedirmelo.—
—Trellin... Credimi. Hellis la sta curando. Ha detto che non c’è pericolo; e Talya ha bisogno di riposo.
Fidati... aspetta ancora un po’.—
—D’accordo mago.— Ringhiò l’elfo.
Mentre i due tornavano nella sala comandi, la ShtàrLàn si sollevava delicatamente da terra, abbandonando
il teatro di quello scontro che aveva cambiato le sorti di Pitermòs.
Lontano, in un cunicolo segreto che si snodava sotto la montagna, Tàlmon Darini fuggiva. Non era
furioso. Non meditava vendetta: era una guerra, e lui aveva solo perso una battaglia. Una battaglia molto
importante, certo. Ma era ancora vivo. Molti compagni erano caduti. Avrebbe sentito anche la mancanza di
Kàlen e di Brandìn... Ma sarebbe tornato. Non per vendicarsi, ma per combattere di nuovo.
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ShtàrLàn - Capitolo 12
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Capitolo 12
"Non è finita"
Era l’inquietante voce di Arkànjel che risuonava nella mente di Edgard; ma il Presidente non aveva bisogno
di quel suggerimento: era perfettamente conscio del fatto che, se non era già troppo tardi, decine di
migliaia di persone, i suoi Uomini, erano assediati in una trappola mortale, che si sarebbe presto chiusa per
sempre.
“Non è finita”
Ma Edgard era impotente. Lontano, e senza alcun mezzo per raggiungere la Quazar; ma anche
riuscendovi, non avrebbe potuto cambiare la situazione in alcun modo. Quella sensazione di onnipotenza
che aveva provato poco prima se ne era completamente andata; anzi, dubitava persino di averla mai
provata. Era stato tutto un sogno? un incubo? una allucinazione dovuta a quello strano mondo?
“Non è finita”
“Silenzio!” urlò Edgard nella sua mente.
“Non è finita” disse un’ultima volta il Dio-Demone. Ma questa volta Edgard capì: non era un
avvertimento, ma un’esortazione. Taldìt non stava semplicemente chiamando Egarràin; la sua era una
parola di speranza. C’era ancora qualcosa da fare. E la speranza era nel potere di quel mondo, che aveva in
qualche modo già battuto il suo terribile invasore. Adesso, Egarràin il Creatore poteva nuovamente sentir
fluire quella forza assoluta nei suoi pensieri.
Edgard si alzò in piedi, camminando verso il pannello di controllo, dove il Tensìt Dénel stava manovrando
la navicella. Quindi si appoggiò ad esso, assicurandosi che tutti i presenti potessero vederlo, e parlò nella
lingua di Pitermòs; gli bastò volerlo per esserne in grado.
—Io sono colui che voi chiamate Egarràin.— esordì il Presidente.
Gli astanti raggelarono. Gli occhi erano incollati alla figura di quell’uomo così normale e straordinario allo
stesso tempo. Vàlen, Tòret, Dènel, Trellin, Ròndal e i due elfi che accompagnavano il loro principe erano
travolti dall’immane potenza che era loro innanzi. Persino Hellis, che stava curando Talya in una saletta
poco distante, si accorse di una forza nuova che scorreva vicino a lui, e seppe: Egarràin si era rivelato. E in
quel momento ebbe la conferma che la sua scelta di tacere quanto sapeva era stata giusta: nulla di quella
forza che percepiva era minaccioso. Sentiva che era un potere beningo.
Ma pur senza saperlo coscentemente, anche Vàlen se lo aspettava; quell’uomo strano venuto dalle stelle
non era lì per caso, ne era certo. E quel nome, Edgard Rayan, dava i brividi al solo pensarlo. Egarràin era
con loro... In quell’attimo tutti loro si sentirono immortali.
Il Creatore proseguì: —In qualche modo, sono io che ho dato inizio a tutto questo. Ora mi è data
l’opportunità di porre rimedio ad alcune imperfezioni, che purtroppo sono costate molto care a tutti noi.
—Adesso, dovete ascoltarmi. Anche se abbiamo battuto il Creatore, non è finita.— Quindi si fermò,
caricando la pausa di tensione.
—Sopra al vostro cielo, talmente lontano che è impossibile vederne traccia, è in atto una battaglia tra la
nostra razza e la loro. E noi stiamo perdendo.—
Trellin trovò il coraggio di proferire parola; e l’idea di essere a contatto con Egarràin, e che questi non era
quell’essere spirituale che si sarebbe aspettato, gli diede l’impeto di reagire con forza:
—Non so cosa tu voglia,— disse acidamente, —ma questo non ci riguarda...— ma prima che il principe
potesse completare il suo pensiero, Vàlen lo interruppe rendendo esplicita l’ovvietà:
—Ci riguarda eccome. Credo che il motivo per il quale non siamo ancora sopraffatti da un orda di ragni
giganti sia solo in quella battaglia.—
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Trellin sbiancò e tacque, ma per poco. Quindi continuò: —In ogni caso, le nostre spade non saranno di
nessun aiuto.—
Seguì un gelido silenzio. Su questo, tutti sapevano, l’elfo aveva ragione. Fu Vàlen a rompere l’atmosfera
pesante che si era creata.
—Le nostre armi sono inutili, ma la nostra magia non lo è.—
—Cosa intendi?— chiese Trellin.
—I Creatori sono venuti per impossessarsi della nostra magia. Questo significa che per loro è importante.
Ma significa anche, quasi certamente, che la temono.—
—Quasi certamente ?—
—Quasi... ma credo che dobbiamo rischiare. Lasciare che la gente di Egarràin sia sconfitta significa
lasciare che i Creatori arrivino in massa sul nostro mondo.—
Il volto del principe Elfo si fece tirato. Aveva un’ultima obiezione, che premeva sulle sue labbra; ma si
trattava di un suo problema personale, che, si rendeva perfettamente conto, avrebbe comunque dovuto
mettere in secondo piano. —Talya ...— disse a bassa voce, —... non può venire con noi.—
Rispose il Presidente: —Talya ha bisogno di cure, e noi possiamo fornirle.—
—In questo caso...— sentenziò l’elfo dopo una breve riflessione, —non mi rimane nulla da dire.—
Dénel sollevò l’apparecchio simile ad una piccola coroncina, che serviva per completare l’incantesimo del
portale e fece cenno a Edgard di avvicinarsi: —Bene; Voi sapete dove dobbiamo andare. Quindi, questo
tocca a Voi.—
Vàlen scese dalla sua postazione. —Meglio avvertire Hellis. Fate pure senza di me.—
Edgard si avvicinò alla postazione di Dénel. —Cosa devo fare?—
—E’ piuttosto semplice: avvicinate il controllo alla vostra fronte e pensate intensamente al luogo dove
volete arrivare.—
Non era difficile. Per molto tempo aveva avuto a che fare con console a controllo mentale; non sarebbe
stato molto diverso, pensò. Quindi, fece come il Tensìt gli aveva detto: avvicinò la fronte a quella bizzarra
coroncina, ma al primo contatto sussultò. Il suo corpo era pervaso da un brivido violento, e la sua mente
era un vortice di suoni e di colori. Una mano invisibile penetrava la sua consapevolezza.
Piano, riuscì a controllare il turbine di pensieri, focalizzando la sua attenzione su un luogo preciso...
l’hangar di deposito sulla Quazar, un luogo semplice da ricordare e relativamente poco sorvegliato. Se
fossero sbucati da qualche altra parte avrebbero causato sicuramente la reazione dei sistemi di allarme.
Ecco, il ponteggio di sollevamento, i vari ordini di balaustre, gli elevatori; e ancora, il personale, i robot per
movimentazione, i generatori di campo. Ma anche le luci a irradiazione, le navicelle parcheggiate, i lampi
dei saldatori laser, le operazioni di riparazione. E soprattutto la strada: non una via, un percorso, ma una
strada mentale, il modo per arrivarci. Dal suo appartamento, un complesso di teletrasporti interni; e per
arrivare all’appartamento, un lungo viaggio dallo spazioporto, e da lì a casa, e da casa...
In qualche modo, ora conosceva la posizione di quel luogo perfettamente: ma non una posizione
esprimibile con coordinate tridimensionali; un luogo della sua coscienza, del suo universo.
E la gemma del Portale si accese.
—Stiamo per fare un viaggio interessante.— disse piano Vàlen ad Hellis, seduto al capezzale della
principessina elfa, intento a curare le profonde ferite sulla sua schiena. Lei era inerte, sdraiata sul piccolo
letto della prima cabina della ShtàrLàn; respirava appena e non aveva ripreso conoscenza. Hellis non
rispose, e diede appena cenno di aver notato la presenza del mago.
—Come sta?— chiese il ragazzo con tono ancora più sommesso di prima.
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Hellis finì di spennellare una sostanza oleosa su una lunga abrasione ancora sanguinante prima di
rispondere debolmente —Non bene.— e dopo aver preso fiato —Ma non è lo stato del suo corpo a
preoccuparmi maggiormente. Temo che il suo animo sia mortalmente provato.—
—Egarràin ha detto che loro la cureranno.— disse Vàlen con un debole sorriso; Hellis interruppe il proprio
lavoro, appoggiando stancamente la schiena alla spalliera della sua scomoda sedia. Respirò profondamente,
e disse in tono grave —Non so cosa potranno fare per la sua mente. L’orrore che ha provato non passerà
presto.—
—Tu lo sapevi, vero? Intendo... il Creatore.—
—Sì. Si era confidato con me; ShtàrRésel mi ha assegnato il compito di scoprire quali fossero le intenzioni
dei Creatori, e di fermarli, se fosse stato necessario. Quando Egarràin mi ha detto chi era, ho capito che
non era un pericolo per noi.—
—Ma perché non ce lo hai detto?—
—In realtà lo sapevamo tutti. Non è così?—
Vàlen si accorse che, anche stavolta, Hellis era riuscito a vedere oltre le apparenze. Sì, adesso si rendeva
conto, in un remoto angolo della sua coscienza la presenza di Egarràin gli era stata chiara fin dal momento
in cui lo avevano trovato privo di sensi nella foresta.
In quel momento, il tremito della magia scosse lo scafo della nave, accompagnato dal familiare suono
vibrante e dalla luce azzurrina che avvolgeva tutto. Erano passati attraverso il Portale.
—Devo andare,— disse Vàlen. —Prepara Talya; dovremo trasportarla in un luogo più adeguato.—
Hellis poté appena udire le parole del mago; il ragazzo non vide l’espressione sconcertata del suo volto, un
misto di sorpresa e paura: per la prima volta da quando aveva ricevuto la Chiamata, aveva perso il contatto
con ShtàrRésel. Il filo invisibile che li univa non c’era più; il suo dio era scomparso. Era solo.
Mentre Vàlen tornava nella sala di comando, seppur preoccupato per la salute della sua amica, non poteva
fare a meno di essere emozionato per ciò che stava per succedere. Stava per mettere piede del mondo dei
Creatori; un mondo di magia, poteri e conoscenze inimmaginabili. Non riusciva a concepire quali
meraviglie sarebbero apparse oltre il grande cristallo della piccola plancia. Ma qualsiasi cosa avesse
immaginato, nulla lo aveva preparato per quello che gli si parò di fronte pochi passi più avanti. L’unica
fonte di luce era la sfera accumulatrice sotto alla sua postazione; oltre il cristallo, c’era solo buio.
Edgard degluttì a fatica. Devo aver sbagliato qualcosa, si disse.
—Dove siamo finiti?— chiese Tòret a mezza voce. Vàlen si avvicinò alla postazione di comando, senza
parlare.
Edgard rispose: —Ovunque siamo, una cosa è certa: non si vedono le stelle, quindi non siamo nello spazio
aperto.—
Il presidente sapeva bene che quella navicella non avrebbe sopportato che per qualche secondo l’ambiente
ostile dello spazio siderale. Quindi, era evidente che erano in un luogo chiuso.
Il Tensìt Dénel trasalì: —Guardate!—
Improvvisamente, una piccola luce; poco più di una lanterna. Si muoveva lontana, forse a cento e più passi,
anche se nell’oscurità totale non era facile calcolare la distanza.
Un’intuizione folgorò Edgard: era chiaro! Non si era sbagliato! Tutta l’energia della nave era stata
convogliata ai generatori di distorsione, che stavano sopportando uno sforzo immane. Prima ancora di
finire il pensiero, Edgard corse verso il portello della sala di controllo, tentando di aprirlo; ma non ne
conosceva il meccanismo. —Aprite, presto!— gridò rivolto principalmente al Tensìt. Questi scattò e con
poche mosse spalancò la pesante porta.
Fuori era freddo; la totale oscurità era ormai rotta dal fascio di luce che riusciva a rischiarare blandamente
solo una parte della navicella.
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—Ehi!— gridò Edgard sporgendosi (non sapeva quanto alto fosse il salto). Il fiato si condensava in pesanti
nuvole che rimanevano immobili.
—Ehi!— ripeté, —Sono il Presidente Rayan.—
La luce, a quel richiamo, si diresse verso il volto di Edgard. Vicina, una voce maschile risposte: —
Rimanete immobili! Siete sotto tiro.—
Adesso si potevano udire distintamente i pesantissimi passi di quella che Edgard riconobbe come una suite
mobile da combattimento in dotazione alla flotta Siriana; l’armamento indossato da quell’uomo che si stava
avvicinando era sufficiente a disintegrare la ShtàrLàn... e molto di più. Quindi il Presidente rimase
immobile, e fece cenno agli altri di fare altrettanto.
La lanterna divenne un faro, che rischiarò a giorno il volto di Edgard.
—Non è possibile...— disse piano il militare. Quindi disattivò il sistema di difesa e ridusse la suite da
combattimento che aveva addosso a poco più di una uniforme: un miscuglio di scatti meccanici e di suoni
dovuti alla materia atomizzata dai distorsori riempì le sue orecchie. Della sua attrezzatura rimase visibile
solo una torcia elettrica.
—Presidente...— disse correndo incontro alla navetta straniera. —Presidente! E’ un’immensa gioia
conoscerla!—
Adesso, con abbastanza luce, Edgard scese dalla navicella, sollevata di appena qualche centimetro dal
suolo. —Mi creda, sergente,— disse riconoscendo l’uniforme, —il piacere è davvero mio...—
Il militare scattò sull’attenti. —Sergente Semiour Donegan, ai suoi ordini!—
Poi, senza attendere risposta, continuò —La situazione è critica, signor Presidente. Ci restano circa cinque
ore di autonomia. Dopo di che, i generatori collasseranno...—
—La ringrazio, sergente Donegan. Possiamo raggiungere la sala comandi?—
—Tutti i sistemi di teletrasporto interno sono disabilitati. Ma c’è un intercom a non più di centocinquanta
metri da qui; possiamo segnalare la nostra presenza e fare riattivare il sistema di questa sezione... Signore?
—
—Dica, sergente.—
—Dove avete preso questo vascello?—
—...Lasciamo perdere. Comunque, ho degli ospiti.— E così dicendo fece cenno agli altri di avanzare.
Vàlen fu il primo a sporgersi: a parte il volto del sergente, non vide molto. Edgard si rivolse a lui usando la
lingua di Pitermòs: —Andate a prendere Talya. Dobbiamo portarla con noi.—
Vàlen Annuì; Trellin e gli altri elfi avevano sentito perfettamente, pur essendo rimasti all’interno della sala
comandi, lontano dal portello. Vàlen lo sapeva, e senza parlare si diresse verso la cabina dove Hellis stava
curando la principessa. Gli elfi lo seguirono; sulle prime Trellin avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma
intuiva che sarebbe stato inutile.
Presto, furono tutti fuori. Il sergente Donegan non si scompose per la bizzarra varietà della compagnia che
aveva di fronte, ma alla vista della ragazza aliena priva di sensi, trasporata dai vassalli di Trellin, disse ad
Edgard: —L’ospedale centrale funziona ancora, signor Presidente.—
—Grazie, sergente. Ci speravo...—
Il gruppetto seguì in silenzio il militare siriano. Non c’era tempo di meravigliarsi, e comunque non ci
sarebbe stato molto da vedere. Presto furono presso una piccola nicchia in una parete di metallo
perfettamente regolare. Edgard si avvicinò ad una sporgenza del muro segnalata da un pannello colorato e
parlò: —Presidente Rayan a Sala Comandi.— Alcune spie si accesero dopo pochi istanti, ed una strana
luminescenza apparve vicino alla sua bocca.
—Qui è il Presidente Rayan. Mi ricevete?—
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Dall’altra parte della nave, i sottili occhi neri del tenente Retchel si spalancarono. La sorpresa si dipinse sul
suo volto grazioso, mentre le dita affusolate della sua mano destra si avvicinavano all’orecchio, scostando
il caschetto di capelli neri, come per voler catturare quel debole segnale. Era una allucinazione dovuta alla
tensione, alla paura?
—Qui è il Presidente. Sala comandi, siete in ascolto?—
—Sì... Signorsì! Tenente Retchell all’ascolto.— Gli ufficiali delle postazioni vicine osservarono la giovane
donna con il fiato sospeso.
Quindi il tenente continuò: —Dove vi trovate, signor Presidente?—
L’euforia si diffuse rapidamente su tutto il ponte; l’attesa della probabile fine era terribile. Mantenere il
controllo e la disciplina, in tali frangenti, era stata una prova molto dura. Anche se il Presidente delle
Federazioni Siriane era soltanto un uomo, per qualche motivo, riaverlo a bordo aveva infuso nuovo
coraggio a tutti. Edgard era diventato Presidente perché in ogni occasione, anche nelle più difficili, era
riuscito a trasmettere la sensazione che con la sua sola presenza ogni problema si sarebbe risolto. E
l’equipaggio della Quazar, un milione di persone in grave pericolo di vita, aveva bisogno di crederci.
Il presidente sedeva nella sua poltrona a capotavola nella semplice sala del consiglio; vicino a lui si
trovavano l’ammiraglio Basher, Danis Kandal, direttore del Centro Scientifico, e i due capitani che
avevano studiato a lungo la struttura della flotta Unionista, e le loro possibilità di fuga.
Dall’altra parte del tavolo, sedevano gli strani membri del gruppetto che aveva riportato Edgard sulla nave:
Vàlen, Tòret, Hellis, Dénel, Ròndal e Trellin. Talya era stata ricoverata presso l’ospedale centrale, ed il
principe elfo aveva lasciato la sua scorta a sorvegliarla. Questo non perché non si fidasse della gente del
Creatore Egarràin (anche se così fosse stato, non avrebbe potuto nulla), ma principalmente per far vedere
alla sua bambina un volto familiare quando fosse rinvenuta. L’avevano lasciata nelle mani di un uomo dalla
pelle di colore nero e ad un essere simile ad una grande lucertola, alto quasi quanto Tòret; e per quanto ne
sapeva, non c’era nulla che assomigliasse ad un Elfo in quel luogo. Loro avevano detto (ad Hellis, che era
l’unico in grado di capirli abbastanza bene) che la ragazza sarebbe guarita completamente. Avrebbero
anche tentato di lenire il dolore psicologico che aveva subito. Trellin era stato rincuorato: anche sul volto
del Sauro, dal quale sembrava non poter trasparire alcuna emozione, gli pareva di aver colto un cenno di
compassione; era talmente sottile che, si rendeva conto, solo un elfo avrebbe potuto notarlo, ma era pur
sempre compassione.
—Bene. Signori, voglio un rapporto rapido e completo.— Esordì il Presidente.
—Capitano Elmer Rostov, Signore. Abbiamo esattamente quattro ore e quarantatrè minuti di autonomia.
Le trasmissioni sono schermate e dall’esterno dello schieramento è impossibile rilevare la flotta unionista, o
la Quazar. Questo significa che il comando della Flotta Stellare ci crede morti, signore; anche se stessero
studiando una contro offensiva, non possiamo contare su un loro intervento.—
—Capitano Alexander Malcom, Signor Presidente. Siamo circondati da novantadue navi da assalto, dalla
classe alfa alla classe psi; le navi di classe superiore alla gamma, ossia le navi madri, sono trentadue, e
stimiamo che abbiano a disposizione circa millenovecento vascelli leggeri. Attualmente, tutte le navi hanno
attivato gli armamenti principali; per evitare il surriscaldamento effettuano dei truni di quindici minuti
durante i quali la metà dei vascelli spegne gli armamenti, mentre l’altra metà li mantiene alla massima
potenza. Stimiamo che la potenza generata dalle loro armi, in queste condizioni sia attorno alle
trecentomila ergotonnellate al secondo.—
—In altre parole,— intervenne l’ammiraglio, —i nostri deflettori possono resistere tra i dieci ed i quindici
secondi. Altri due secondi per lo scafo, e poi non rimarrebbe più niente della Quazar.—
Edgard riflettè immobile per quasi un minuto. La gente di Pitermòs poté capire dalle espressioni dei Siriani
che la situazione era critica. Dopo aver preso un lungo respiro, il Presidente ruppe il silenzio: —
Ammettiamo di poter fuggire, e di bilanciare l’energia tra motori, dissipatori di inerzia, armi e deflettori.
Quanto tempo impiegheremmo per essere fuori tiro?—
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La domanda lasciò un poco interdetti gli altri ufficiali.
—Qualcosa non va, signori?—
Risposte il direttore del centro scientifico. —Non crede, signor Presidente, che dovremmo pensare prima a
come fuggire?—
—Vede, Direttore,— rispose il Presidente, —abbiamo qui un problema molto complesso. Fortunatamente,
non siamo costretti ad affrontarlo in maniera sequenziale; cerchiamo di chiarire gli aspetti semplici. Ai nodi
più difficili dedicheremo più energia se prima risolviamo i dettagli meno importanti.—
Il comandante Malcom si mise al lavoro, disegnando dei geroglifici nell’aria di fronte a se, che nel
frattempo si era colorata diventando una specie di superficie tridimensionale di calcolo. La formula non era
complessa, ed i parametri erano pochi, in meno di un minuto ebbero la soluzione.
—Alla spinta ottimale, con abbastanza energia sui dissipatori, possiamo raggiungere una accellerazione di
ottantacinque chilometri al secondo quadro; quindi copriremo centocinquantamila chilometri in
quarantadue secondi.—
—Va bene. Adesso aggiungiamo una complicazione. Se riuscissimo a creare un diversivo, tale da ridurre di
circa la metà il potenziale di attacco delle navi unioniste, quanto potremmo guadagnare, in termini di
durata degli scudi?—
Malcom ripetè velocemente il calcolo. —Con i dati che ho impostato, si tratterebbe di un aumento del
sessanta per cento circa. Passeremmo da venti secondi massimi a circa trenta, massimo trentadue
secondi. —
—Bene. Ha considerato che parte delle navi che ora ci tengono sotto tiro, diciamo il cinquanta per cento,
saranno messe fuori mira una volta che usciremo dallo schieramento? Dovranno effettuare una rotazione
completa, e questo porterà via tra i 10 ed i 20 secondi per ogni nave che si deve orientare.—
Malcom non ci aveva pensato. Sorridendo, compì quest’ultimo calcolo. —Cinquantaquattro secondi circa,
nell’ipotesi peggiore. —
—Molto bene,— proseguì Edgard, —adesso sappiamo che è possibile fuggire, se siamo in grado di creare
un diversivo...—
L’ammiraglio, che conosceva da tempo Edgard, sapeva che lui era già arrivato ad una sua conclusione. Ed
in genere era una conclusione corretta. Sorridendo chiese: —... cosa hai in mente?—
—Vede, ammiraglio, sappiamo che gli unionisti hanno un sistema di comunicazione centralizzato. La nave
più "alta in grado", se così possiamo dire, prende il controllo delle comunicazioni, e le distribuisce a tutte le
altre. Se questa viene a mancare, la seconda in carica assume il controllo, ma la riconfigurazione richiede
alcuni secondi. Non sappiamo esattamente quanti, ma sappiamo che è un tempo abbastanza importante, tra
i quattro e i dieci secondi. Quindi, abbastanza per uscire dal loro schieramento...—
—E portarci fuori tiro dalla metà delle loro armi...—
—Un piano brillante, Presidente. — asserì il Direttore, —Ma come facciamo a mettere fuori uso la Stirix
senza esporci?—
—Per questo ho bisogno dell’aiuto dei comandanti Rostov e Malcom. Cosa sappiamo della Stirix?—
—E’ la nave ammiraglia della flotta Unionista, — rispose il comandante Rostov, mentre uno schema
dell’oggetto scheletrico compariva di fronte a loro,— ha una massa di venti milioni di tonnellate, ed un
equipaggio di centoventimila addetti. Ha sei cannoni principali, in grado di emettere una potenza
complessiva di seimila ergotonnellate al secondo. Ha un complemento di cinquanta caccia stellari e trenta
siluratori pesanti; è predisposta per l’assalto terra, anche se non ne conosciamo perfettamente il numero di
truppe che può trasportare...—
—Va bene, capitano. Abbiamo qualche dato che ci possa aiutare?—
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—Dunque... sappiamo che utilizzano generatori a fusione nucleare in grado di trasformare atomi di elio in
carbonio. Dalle termografie e dai sensori alle distorsioni risulta che utilizzano numerosi accumulatori per
stabilizzare l’energia generata.—
—E... quanti generatori hanno?—
L’immagine inquietante della Stirix si fece trasparente, e una sezione del corpo centrale assunse un tenue
colore rossiccio. — Si direbbe che ne abbiano uno solo.—
—Tipico dei Krix,— disse quasi sovrappensiero Edgard, —tendono ad accentrare tutto il possibile. Bene,
signori, abbiamo uno schema dettagliato dei loro generatori?—
—Non proprio, ma ci sono dei modelli in miniatura sui caccia che abbiamo catturato in passato. Il principio
di funzionamento dovrebbe essere analogo.—
Intervenne l’ammiraglio: —Ma anche se mettiamo fuori uso il generatore, restano gli accumulatori, che
ragionevolmente daranno alla Stirix una autonomia sufficiente almeno per qualche secondo. Che sarebbe
quanto basta...—
—Per fermarci...— Edgard ultimò la frase. Si immersero allora tutti in un silenzio profondo, carico di
riflessioni, ma anche di tensione. Pur trovando una soluzione, ancora non era chiaro come poterla mettere
in pratica. E i minuti scivolavano inesorabilmente via.
Dall’altra parte del tavolo, i variegati ospiti di Pitermòs avevano osservato in silenzio l’alternarsi delle
espressioni dei loro Creatori. L’effetto di trovarsi faccia a faccia con esseri mitici, prima fatti di magia e
leggenda e adesso fatti di carne e sangue, e di umanissimi sentimenti, non era confortante. Il discorso che
Edgard aveva fatto loro subito dopo aver lasciato la tana di Dàrini era stato chiaro e diretto; quelle persone
stavano organizzando l’ultima difesa, l’ultimo baluardo eretto contro i Creatori del Male. Essi si erano
avvicinati al loro mondo in silenzio, nascosti, ed ora erano pronti ad appestare la terra con il loro orribile
morbo. L’immagine del ragno vicino a Talya tormentava Vàlen, Hellis, Ròndal, Tòret e Trellin. Non
l’avrebbero potuta scordare. Era un terribile monito di ciò che sarebbe potuto succedere a tutti loro, ai loro
cari, alla loro gente. Mostri inarrestabili che si sarebbero nutriti delle loro carni e delle loro anime,
depredando il mondo della sua conoscenza, della sua vita; esseri davanti ai quali persino gli Dei ed i
Demoni si erano già dovuti arrendere. E l’ultima difesa erano quelle persone che discutevano pacatamente;
in maniera non dissimile da scene familiari di rudi generali che si preparavano per una battaglia. E la
sensazione che si impossessava di loro all’incedere di ogni secondo era che quella calma ricca di amarezza
fosse segno di rassegnazione, come quella del condottiero che guida l’ultimo assalto fuori dalle mura
assediate. Le luci spente ovunque, le poche persone taciturne che avevano incontrato, i pochi fonemi che
erano riusciti ad afferrare; era l’aria che si sarebbe respirata in un forte pronto a capitolare.
—Sei riuscito a capire qualcosa di quello che stanno dicendo?— Chiese sussurrando Vàlen ad Hellis, che
sembrò non aver sentito. Allora il ragazzo afferrò delicatamente il braccio del Patriarca, e questi trasalì. —
Che cos’hai?— domandò piano il mago. —Sei piuttosto teso. Non ti avevo mai visto così...—
Hellis avrebbe voluto tacere; avrebbe fatto meglio a tacere, lo sapeva bene. Ma invece aveva bisogno di
parlare, e disse ancora più piano: —Lui non c’è...—
—Lui chi?—
—ShtàrRésel. Non c’è. Non lo sento più.—
Anche Vàlen si irrigidì. Non aveva mai contato molto sull’aiuto degli dei, in vita sua, ma la vicinanza
dell’alto chierico gli aveva fatto intravedere nuove possibilità. Sapere di dover rinunciare a quel potente
aiuto, in un momento come quello, era piuttosto spiacevole.
All’improvviso il Direttore del Centro Scientifico ruppe il silenzio. —Ma scusate, cerchiamo di ragionare.
Perché i Krix avrebbero scelto di piazzare sulla Stirix un solo generatore? Non penserete che sia davvero
una questione di mentalità?—
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Vedendo che aveva catturato l’attenzione degli altri, continuò: —Quando si tratta di soluzioni
ingegneristiche, le questioni filosofiche sono raramente determinanti. Io credo che l’unico motivo per cui
hanno un solo generatore è che sia effettivamente meglio averne uno.—
L’ammiraglio cercò di interloquire: —Ma la scelta di avere una sola fonte di energia è piuttosto rischiosa;
nessun altro modello di nave stellare, che io sappia, si appoggia su un solo generatore.—
—Io invece credo che abbiano un validissimo motivo per non installare più di un reattore a fusione
nucleare: evidentemente i loro reattori sono altamente instabili. Averne due significherebbe raddoppiare il
rischio di incidenti, o rendere più difficili i controlli.—
Edgard sgranò gli occhi: —Sembra ragionevole, Danis... Fatemi rivedere lo schema della Stirix.—
Il capitano Rostov gesticolò sul pannello di luce di fronte a lui, e subito comparve la figura possente
dell’ammiraglia Krix. Il Direttore si alzò per raggiungere l’immagine, ed indicò la sezione della nave
marcata di rosso.
—Ingrandisca qui, capitano.—
Il dettaglio divenne maggiore, quindi proseguì: —Vedete? Il generatore è isolato dal resto della nave da
spesse corazzature e sale vuote. Si rileva una intensa attività elettronica proprio in questo punto, e ciò
significa che molte delle loro risorse di calcolo sono impiegate per controllare il ciclo di retroazione sulla
fusione degli atomi.—
—Quindi,— concluse Edgard, —se distruggiamo i loro computer, il reattore potrebbe esplodere... più o
meno come un ordigno a fusione nucleare.—
—Esattamente.—
—Dopo quanto tempo?—
—Dipende. Se non esiste un sistema di allarme o di raffreddamento automatico del nucleo, l’esplosione
sarebbe quasi immediata. La durata massima di un reattore a fusione di atomi pesanti è al di sotto del
minuto.—
—Avrebbero il tempo per trasferire il controllo della flotta ad un’altra nave?—
—Forse.—
—Scusate se vi interrompo, signori,— interloquì l’ammiraglio, —ma come pensate di distruggere il loro
reattore se siamo bloccati in questo dannato buco spaziale?—
Edgard sorrise. —Come credi che sia arrivato qui?—
—Abbiamo un piano.— disse Edgard ai pitermossiani, nella loro lingua. Gli altri Siriani avevano lasciato la
sala, ognuno con il suo compito.
—Ma?...— chisese Vàlen, che era riuscito a cogliere qualche parola della conversazione che si era appena
conclusa.
—Ma abbiamo bisogno del vostro aiuto.—
Hellis si risquoté dal proprio stato di smarrimento, ed intervenne dicendo: —E’ il motivo che ha spinto gli
Dei a farci incontrare, Egarràin. Siamo pronti.—
Gli altri assentirono con sguardi determinati.
—Molto bene. Il piano è semplice. Dobbiamo introdurci nella loro nave madre, e distruggere il sistema che
da loro energia. Possiamo entrare nella loro nave?—
Vàlen rispose: —Devo vederla almeno una volta. E deve essere un contatto diretto: un disegno non mi
sarebbe di alcun aiuto. Devo sapere dove si trova rispetto a me.—
—Questo può essere un problema... In questo momento siamo nascosti in un luogo dello spazio che non
permette alla luce di passare. L’unico collegamento con l’universo è costituito da un sottile filo di
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struttura. Attraverso quello, siamo in grado di conoscere cosa succede fuori, come un ragno che avverte le
vibrazioni della sua tela. Ma credo di poterti dare la conoscenza di cui hai bisogno.—
Con un gesto, Edgard fece comparire dei quadrati luminosi di fronte ad ogni sedia del tavolo.
— Appoggia le tue mani qui sopra;— disse rivolto al mago; —ti metterò in contatto con i nostri sensori.—
Vàlen non poté nascondere la propria eccitazione: sarebbe stato il primo del suo mondo, e forse l’unico, a
sperimentare il Potere dei Creatori!
Avvicinò le mani tremanti alla superficie luminescente del tavolo, lentamente, catturato dall’estasi di ciò
che avrebbe potuto provare. E presto il contatto avvenne.
Inizialmente, Vàlen non percepì alcuna differenza, se non una sensazione insolita sulle mani: gli pareva di
sprofondarle in un morbido cuscino di piume, ma i suoi occhi gli dicevano che stava spingendo contro una
solida superficie.
Anche Edgard si collegò alla console a controllo mentale, ordinando al computer di riportare i dati visivi
sull’universo esterno al giovane mago.
E così, Vàlen vide per la prima volta il mondo dall’alto. Anzi, da fuori. La sua visione era strana: poteva
vedere contemporaneamente in ogni direzione; ci era abituato: qualcosa di molto simile lo provava ogni
volta che raccoglieva le forze per lanciare un incantesimo. Focalizzò la sua attenzione sulla palla bianca e
blu che doveva essere il suo mondo, e subito il computer assecondò la sua volontà, ingrandendo
l’immagine ed escludendo gli altri segnali. Sapeva che il suo mondo era una sfera; lo aveva studiato sui libri
di Séndovan, e se ne era reso conto quando dalla cima di una montagna della “Spina del Drago” potè
apprezzare la curvatura dell'orizzonte; ma non se la sarebbe mai immaginata così piccola. La voce di
Edgard raggiunse i suoi sensi: in parte l’udito, ed in parte il pensiero. "Il nostro bersaglio è là", disse, ed
accompagnata alla voce giunse una sensazione, una attrazione che descriveva una direzione precisa. Vàlen
rivolse lo sguardo dove gli era stato indicato; e rimase pietrificato. L’enorme mostro giaceva languido nel
nulla, con il suo corpo scheletrico, composto da sei gabbie di spire avvolte attorno al filiforme corpo
centrale. Ogni metro della superficie era ricoperto da irregolarità, rientranze, sporgenze, luci lampeggianti
e minuscole braccia che si protendevano come peli di insetto nel vuoto dello spazio. Mentre la mente del
mago si abituava alla sua nuova vista, nuovi dettagli gli apparvero chiari, e poté distinguere chiaramente la
nave dei Creatori del Male in ogni minuscolo elemento. Poi, nuove sensazioni lo colpirono. Alla vista si
aggiunsero altri sensi ai quali non sapeva dare un nome: un calore localizzato gli segnalava che parte di
quella forma, all’interno delle gabbie che ricordavano il torace dello scheletro di un drago, si trovava una
grande energia. Un formicolio diffuso, o una resistenza simile ad un vento avverso, lo avvisavano di forze
in grado di proteggere il mostro. Edgard sussurrò nei pensieri del mago "Questa è la Stirix, la nave
ammiraglia dei Krix. Sei pronto a portarci dentro di lei?".
"Sì. Ora so dov’è." disse il mago. Ma prima di staccarsi dall’apparecchio, non volle perdere l’occasione
unica per vedere le stelle come mai più le avrebbe viste, ed allargò il suo sguardo. Le stelle, le vide; ma
oltre alle stelle vide lo stormo di mostri in attesa che era tutto intorno. Decine di astronavi lo circondavano,
con un pallido, famelico chiarore giallastro carico di odio che esplodeva da quelle spettrali ossa di metallo.
Ognuna era un’arma letale, Vàlen lo poteva percepire attraverso il suo pensiero, e ognuna di esse era un
pericolo mortale per il suo mondo.
Il contatto svanì, e Vàlen poté guardare i suoi compagni. Avevano visto l’improvviso mutamento della sua
espressione, e ora lo guardavano preoccupati.
—Ho visto... il pericolo che incombe su di noi.— disse rivolto a tutti loro. Non ci fu bisogno di aggiungere
altro.
Erano sul ponte della FàrDàn. Non c’era un posto per Edgard, che rimase in piedi al centro della sala.
Ròndal si era seduto di fronte al Globo della Sapienza, Dénel era ai comandi, Trott stava già accarezzando
il puntatore della lama di luce, Hellis osservava distaccato gli altri dalla posizione alla destra del Tensìt,
Trellin era nervosamente seduto alla sinistra della sala, con le spalle rivolte al grande specchio e Vàlen era
in piedi, con il controllo dell’incantesimo del portale appoggiato alla fronte.
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La terza gemma della fila di perle bianche si illuminò, segnalando così di essere pronta. Il mago si diresse
subito sul suo trono, entrando in simbiosi con la navicella.
Appena si fu seduto, Edgard si rivolse a lui: —Non abbiamo una esatta idea dei sistemi di protezione che
troveremo all’interno della Stirix. Non basterà essere invisibili, perché probabilmente saremmo individuati
ugualmente.—
—So quello che faccio, Egarràin.— rispose in tono sicuro Vàlen, già in parte assorbito dalla
concentrazione. Raccolse le energie; non serviva un incantesimo molto potente: i loro nemici non
avrebbero potuto sciogliere neanche l’incantesimo di un principiante. Serviva piuttosto qualcosa di molto
scaltro. Vàlen cominciò.
Il primo incantesimo fu la protezione; avrebbe protetto lo scafo della nave rendendolo più robusto. La nave
vibrò come se un dito immenso avesse pizzicato una corda, e quando la vibrazione terminò, ogni parte
dello scafo emetteva una tenue luce bianco latte, visibile solo nella totale oscurità dell’Hangar di Deposito
della Quazar.
Poi fu il turno della barriera di ferro che avrebbe fermato attacchi fisici. Lo stridio del metallo sul metallo
aveva accompagnato questo incantesimo, che aveva circondato la navetta con una sottile pellicola di ferro,
fisico e magico allo stesso tempo. Dall’esterno, la FàrDàn era adesso una scatola di metallo uniforme, ma
dall’interno la barriera era quasi completamente trasparente.
Adesso il mago doveva rendere invisibile la ShtàrLàn. Una semplice invisibilità non avrebbe funzionato:
l’incantesimo avrebbe solo mascherato alla vista di occhi umani la luce riflessa dall’oggetto incantato. Più
adeguatamente, Vàlen scelse avvicinare le parole protezione e visione in un unico incantesimo; ciò avrebbe
dovuto impedire a qualsiasi metodo di rilevazione non magico di scoprire la FàrDàn. La Protezione dalla
visione non manifestò nessun effetto, per coloro che si trovavano a bordo. Chi fosse stato in quel momento
nell’hangar, invece, avrebbe visto la navicella sparire.
In qualche modo, Vàlen non si sentiva tranquillo. Decise quindi di rincarare la dose, e attinse nuovamente
al globo carico di magia che si trovava sotto la sua postazione per lanciare un incantesimo di Illusione di
Invisibilità. Questo, almeno in teoria, avrebbe dovuto alterare le menti di qualsiasi essere che avesse avuto
modo di vedere il vascello, nonostante gli altri incantesimi. Fu una trovata dell’ultimo minuto, che (a suo
avviso) nessuno aveva mai provato; ma il ragazzo si sentì comunque soddisfatto della sua idea, ed
osservando dall’esterno la nave con l’incantesimo della Visione, vide ciò che si sarebbe aspettato: nulla.
Era come se, perfino agli occhi della magia, la FàrDàn non fosse mai stata lì, dove si trovava in quel
momento. Il mago era soddisfatto del proprio lavoro; la tensione del suo volto si allentò in un sorriso
appena accennato, e aprendo gli occhi disse, rivolto in direzione del Tensìt alla guida: —Adesso possiamo
andare. —
E così fu. Dénel chiese a Hellis di usare la pietra del portale che si trovava davanti a lui, e attivando i
propulsori, proiettò la FàrDan nel cuore della Stirix; in un attimo scandito dal rumore della magia, furono
nel ventre del nemico.
L’interno della nave Krix era un intrico di fili e tubi di varie dimensioni che si stendeva tutt’intorno a loro.
Non c’era un’idea di alto e basso, né sembrava esserci un inizio o una fine ben precisa. Ovunque, il colore
dominante era il verde, in varie sfumature e tonalità: un verde che lambiva malignamente l’interno della
ShtàrLàn rendendo le poche tappezzerie rosse che arricchivano l’ambiente di un malsano colore scuro. Ma
l’equipaggio della FàrDàn non ebbe tempo di preoccuparsi per il sinistro spettacolo, poiché pochi istanti
dopo il loro arrivo, gli umani avvertirono un malessere pesante, diffuso a tutto il corpo. Il primo sintomo fu
lo sconvolgimento dello stomaco che fece impallidire tutti, incluso Trellin. Solo il Barone mantenne un filo
di colorito; Edgard, che era in piedi, si accorse prima degli altri che il suo corpo iniziava a fluttuare, e
gridò:—Siamo senza gravità; tenetevi stretti alle sedie.—
Per Tòret, fu una delle esperienze più traumatizzanti. L’assenza di peso lo privò di quella sensazione di
forza fisica che poteva percepire ogni volta che un suo muscolo si sollevava. Il guerriero strabuzzò gli
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occhi, tentando di nuotare nell’aria per appoggiare nuovamente il suo corpo alla sedia, ma come in
insidiose sabbie mobili, più si agitava e più l’inerzia delle sue braccia lo portava in alto. Edgard cercava di
raggiungerlo, ma nemmeno lui era abituato all’assenza di peso: l’aveva provata nel corso di pilotaggio, e
solo qualche volta, più che per un vero allenamento, per pura curiosità. Fu più agile Trellin, che nonostante
si trovasse sorpreso come gli altri, riuscì a muoversi nel modo giusto; ma non fece in tempo a raggiungere
il guerriero: questi era ormai un metro sopra la sedia, ed il suo agitarsi (che adesso includeva anche i
movimenti delle gambe) gli diede un irregolare moto di rotazione. Unito al già forte disagio del suo
stomaco ed alla paura, causò l’inevitabile: il corpulento guerriero rigettò violentemente. Si formarono
subito delle maleodoranti bolle di vomito che fluttuavano in ogni direzione, e Trellin, che aveva quasi
raggiunto Trott ne trovò una sulla sua strada, che fortunosamente si adagiò sulla sua spalla. Alla vista di
quello spettacolo, Hellis e Dénel trattennero a stento, a loro volta, un violento conato, mentre Vàlen
fluttuava inerte e sorpreso sopra alla sua sedia; Ròndal (grazie anche alla forma della sua postazione) era
riuscito a incastrarsi tra la poltrona e la sfera.
—Questa me la paghi, brutto umano puzzolente.— fu l’acido commento di Trellin mentre bloccava l’uomo
e lo riportava sul sedile. Imparata la lezione e con i sensi resi più lucidi dall’aver rigettato, Tòret riuscì a
bloccarsi sulla poltrona avvinghiandone le zampe con i suoi piedi.
Nel frattempo, la FàrDàn stava fluttuando fuori di ogni controllo, lentamente, ma inesorabilmente verso
l’esterno della nave, attratta dalla debole massa dello scafo. Gli incantesimi che ne annullavano il peso in
presenza di gravità adesso la rendevano instabile e le imprimevano movimenti incontrollati. Dénel, stordito
dal malessere e dalla sorpresa era incapace di riprendere il controllo nell’ambiente ostile. Edgard si
rimproverò numerose volte: la gravità non è mai stato un fattore molto rilevante per gli aracnidi. Inoltre, la
loro struttura fisica basata su un esoscheletro di cheratina e su tendini estremamente potenti non avrebbe
sofferto l’intorpidimento dopo lunghi periodi di inattività, come accade agli umani; infine, i loro apparati
digerenti, circolatori e respiratori erano adatti a svolgere il loro compito in qualsiasi posizione, e questo
permetteva loro di non risentire di alcun fastidio per l’assenza di peso. Semplicemente, a nessuno, e tanto
meno ad Edgard, era venuto in mente che i Krix potessero navigare lo spazio senza la gravità artificiale.
Mentre guadagnava una parete alla quale assicurarsi, il Presidente prese in esame il fatto che quella
scatoletta di latta sulla quale si trovava era stata pensata per viaggi planetari; sperava che i suoi semplici
comandi sarebbero stati sufficienti per stabilizzarla, ma aveva una gran paura che ciò non fosse possibile.
Tòret aveva avuto il tempo di osservare con attenzione i movimenti del Tensìt alla postazione di comando,
anche in prospettiva del fatto che, presto o tardi, il timone sarebbe passato nelle sue mani. Mentre Dénel
ancora lottava per riprendere il controllo del proprio corpo, il guerriero si sporse verso la postazione
centrale, ben attento a non lasciare la salda presa dei suoi piedi, e, seppur con qualche difficoltà, maneggiò
i controlli del mulinelli laterali. Ora la FarDan continuava il suo lento precipitare, ma almeno il moto
rotatorio si era fermato; questo diede al Tensìt un punto di riferimento e gli permise di riprendere
completamente il controllo. Dénel si girò verso il guerriero e gli sorrise, ringraziandolo: — Ben fatto,
Vàrgas. I miei complimenti.—
Trott gli sorrise di rimando.
Vàlen era fluttuato fino al soffitto, ma nel frattempo aveva imparato a muovere il suo corpo: con un
delicato tocco delle dita si era riportato nella sua postazione, e adesso stringeva saldamente i braccioli della
sua poltrona. Dénel, riconqustato il controllo della nave disse a mezza voce: —Bisogna proprio che
aggiunga delle cinghie di sicurezza.—
—Buona idea.— rispose il guerriero.
Quando tutto sembrò essere tornato in ordine, Edgard disse: —Bene. Almeno pare che non ci abbiano
scoperti. Adesso però viene il difficile: non conosciamo la nostra posizione esatta, e non abbiamo idea di
dove sia il reattore. E questa nave è maledettamente grande.—
—Forse,— disse Ròndal, —posso esservi d’aiuto. Cercate di spiegarmi cosa stiamo cercando.—
—Il loro generatore.— rispose asciutto Edgard.
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—Ho bisogno di un concetto che posso spiegare con facilità.—
—Dunque... stiamo cercando la macchina che controlla l’origine del potere, della vita di questa nave.—
—Macchina è un termine troppo articolato.—
—Allora diciamo che cerco il luogo nel quale si trova il controllo del potere.—
—Credo che sia abbastanza buono. Proviamo così.—
Lo stregone raccolse dalle tasche che circondavano la sfera un ciondolo di pietra verde trasparente, simile
ad uno smeraldo grezzo, ed una sottile bacchetta di argento, lunga trenta centimetri. Mentre la pietra
fluttuava libera nell’aria, lo stregone rese conto che non era in grado di far oscillare il pendolo, dato che
non c’era gravità.
—Purtroppo,— sospirò, —dovremo fare a meno di questo.—
Quindi, con il solo aiuto della bacchetta tracciò dei simboli sulla superficie della grande sfera di vetro che
dominava la sua postazione, accompagnando ogni gesto con secchi suoni gutturali che avevano senso per
lui solo. Presto, l’asticella di argento vibrò come un diapason, emettendo un suono sordo risonante con le
dure sillabe pronunciate dallo stregone.
L’interno del globo esplose in un turbine di colori sfavillanti e di zone d’ombra fitta. Adesso, Ròndal
percuoteva di tanto in tanto il globo con rintocchi sempre più decisi e sillabe sempre più brusche. Una
goccia di sudore imperlò la sua fronte corrucciata e presto ne seguirono altre. L’uomo pareva un domatore
sul punto di rendersi conto della forza delle sue belve.
Passò più di qualche minuto, prima che lo stregone si decidesse a compiere la mossa finale. Teso e
tremante, Ròndal sollevò il braccio sopra la testa, lentamente, e quindi lo calò con tutta la sua forza
gridando un secco ordine. Quando l’asta colpì, non emise un suono metallico come sarebbe sembrato
ovvio, ma un colpo sordo, come quello di pugno che arriva nel segno. La sfera divenne subito chiara, ad
eccezione di un singolo puntino luminoso e di qualche altra piccola macchia di colore. Lo stregone si
sedette stremato sulla sedia e commentò rivolto agli altri. —Sono spiriti che non conosco. Non li avevo
mai incontrati prima, ed hanno una forza fuori dal comune. Comunque, ci stanno dicendo che dobbiamo
ruotare di un quarto di giro verso destra e di un terzo verso il basso.—
Dénel si mise al lavoro, ma Edgard, che non era abituato a navigare a “quarti di giro” non si sentiva molto
tranquillo.
—Vado bene così?— chiese l’alchimista.
—Ancora un po’ a destra. Ecco, ora dobbiamo passare sotto quel grande tubo verde.—
Quando furono abbastanza vicini a quel condotto traslucido, poterono vedere strane ombre agitarsi al suo
interno. Come in un formicaio, si muovevano file ordinate di ragni giganti, intenti a percorrere ognuno la
propria strada. I sinuosi movimenti delle zampe erano inquietanti. All’improvviso, Dénel si accorse di un
mostro che si trovava all’esterno del passaggio, a testa in giù. Era intento a scrutare qualcosa sulla
superficie sulla quale camminava. Anche Tòret se ne accorse, e subito lo inquadrò nel visore di puntamento
della lama di luce, con l’altra mano che si agitava nervosamente sulla piccola sfera bianca che avrebbe
aperto il fuoco. Ma la ShtàrLàn passò proprio sopra di lui senza che questi desse segno di accorgersene.
Invece, all’interno del canale verde due Krix che stavano discutendo sul turno di guardia si fermarono
improvvisamente.
—Hai sentito?— chiese il primo.
—Cosa?— chiese il secondo.
—Una vibrazione... Sotto questa gamba.—
—Veramente... credo di no.— Ma l’altro agitava nervosamente la chela che gli spuntava dalle fauci. Si
arrampicò dall’altra parte del tubo, con le sei zampe allargate. Appoggiò anche le zampe anteriori per
sentire meglio... ma non riusciva a percepire altro che il familiare ticchettio provocato dagli altri Krix che
stavano passando.
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—Cosa fai?— Chiese il suo amico.
—Devo essermi sbagliato.— Disse il primo, mentre tornava in fila. —Forse sono stanco.—
—Non c’è bisogno di fare storie. Lo faccio io il turno.—
—Grazie...— Ma mentre si allontanavano si girò di nuovo, e vide attraverso la superficie traslucida del
tubo una sfuggente ombra, che scomparve subito. Si fermò alcuni istanti per cercare di vederla, e poi
proseguì, commentando all’amico: —Devo essere davvero stanco...—
Il tempo scorreva inesorabile. Alla Quazar restavano tre ore e quattordici minuti prima che i reattori
collassassero. L’ammiraglio era seduto in plancia, sulla torretta di comando, e guardava dall’alto gli
ufficiali che, come lui, tenevano il fiato sospeso, e gli occhi puntati verso l’immagine della Stirix che
campeggiava sull’enorme schermo panoramico. L’ammiraglio aveva due comandi pronti ad essere attivati.
Uno avrebbe dato il via alla sequenza che era stata concordata con il Presidente; non appena la nave
ammiraglia dell’Unione Intergalattica fosse esplosa, la Quazar sarebbe uscita dalla distorsione, l’energia
sarebbe stata ripartita tra le armi, i motori, i deflettori e i dissipatori inerziali. La nave sarebbe schizzata via
con una accelerazione che non aveva mai raggiunto prima; probabilmente, i laghi e i corsi d’acqua della
zona centrale, che riproduceva la superficie di un pianeta abitabile, sarebbero straripati, e le città avrebbero
subito dei danni. Tutto l’equipaggio era pronto.
L’altro controllo che lampeggiava era un grande pulsante rosso, collegato ai sistemi di retroazione dei
generatori. Premendolo, il controllo gravitazionale sarebbe stato interrotto, ed in pochi istanti una quantità
di energia paragonabile all’esplosione di una piccola supernova sarebbe scaturita dalle profonde fosse
gravitazionali che i generatori avevano creato. Nulla, in quell’angolo di universo, avrebbe resistito. Il
sacrificio della Quazar sarebbe stato un duro colpo per le Federazioni Siriane, ma anche la perdita della più
imponente flotta d’assalto dei Krix sarebbe stato un danno terribile per l’unione. Lui ed il suo equipaggio
erano preparati anche a questo.
La cosa più terribile era la cieca attesa. Le sottili speranze del milione di persone che stavano contando i
minuti erano legate a quello strano giocattolo che Edgard aveva trovato sul nuovo mondo di Pitermòs. Era
passata quasi un’ora da quando quella bizzarra compagnia ed il Presidente erano partiti; l’ammiraglio
sapeva che non avrebbero avuto alcun mezzo per comunicare, e non gli piaceva.
—Dritto davanti a noi, ad un tiro di freccia.— Annunciò Ròndal, con la voce carica di emozione. Edgard si
avvicinò fluttuando alla postazione di comando; attraverso il cristallo anteriore poteva vedere un groviglio
di sottili cavi che brillavano con lampi di varia intensità. —Un computer a base biologica.— mormorò.
Ancora pochi istanti, e dietro ad un ennesimo condotto apparve il generatore: il ganglio si trovava sulla
sommità di una specie di enorme uovo lucente, avvolto in spire di conduttori che trasportavano l’energia in
ogni direzione.
Dénel si rivolse al Creatore che era delicatamente appoggiato accanto a lui. —Cosa dobbiamo fare adesso,
Egarràin?—
—Il nostro obiettivo è distruggere quel centro di controllo.—
—E dopo cosa succede.—
—La nave nella quale ci troviamo dovrebbe esplodere.—
Il Tensìt sollevò la coroncina del controllo del Portale.
—Se è così, ritengo che sia meglio completare il Portale di ritorno subito...— disse rivolto verso Edgard.
Questi si avvicinò alla postazione di Dénel e ripeté la procedura che aveva già effettuato. La quarta perla
sulla fila degli incantesimi del Portale si illuminò.
—Bene,— concluse l’alchimista —Possiamo procedere. Tòret Vàrgas, puntate l’incantesimo della Freccia
di Frattura.—
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Tòret aveva a disposizione, oltre al controllo della lama di luce, tre file di gemme; ogni fila era
caratterizzata da una gemma diversa, e da una scritta che indicava quale incantesimo controllasse. Tutte e
trenta le gemme emettevano una luce intensa, segno che erano tutte pronte per essere usate. Il guerriero
inquadrò quello che sembrava essere un cuore pulsante nel groviglio che avevano di fronte. Avvicinò
quindi la mano sinistra al primo degli opali che si trovavano sulla fila centrale; ancora un attimo di
esitazione, e poi via! Il potere prima intrappolato nella gemma fluì lungo il percorso che i maghi avevano
preparato, e si materializzò di fronte alla FàrDàn. La freccia di magia si proiettò nella direzione che il
guerriero aveva stabilito ed in un istante raggiunse il bersaglio; ma non colpì. Una barriera di energia prima
invisibile ondeggiò come uno specchio d’acqua colpito da un sasso. Subito, ogni singolo filamento, ogni
canale, ogni struttura della nave si mise a vibrare, emettendo un suono greve e profondo.
Il Krix che si era fermato nel corridoio per cercare di scoprire il pericolo stava riposando. Il tremore di
emergenza lo svegliò all’istante; come ebbe il tempo di riprendersi dal sonno non poté fare a meno di
pensare: —Allora avevo davvero sentito qualcosa...—
Edgard si guardò intorno, e imprecò. Tòret si girò verso il mago e gli gridò: —Vàlen!—
Il ragazzo proiettò la sua mente attorno allo scafo della ShtàrLàn; veloce, lanciò un incantesimo di visione,
con il quale raggiunse il ganglio di controllo. Attorno c’era una forza in grado di bloccare il suo potere, ma
non si trattava di magia: doveva essere una forma di energia che non conosceva. Cercò di penetrarla, ma
una resistenza terribile si opponeva ad ogni suo tentativo.
—Vàlen!— chiamò ancora Tòret. Nel frattempo, al di fuori dei condotti attorno al generatore si stavano
formando assembramenti di Krix. Come in un orrendo formicaio, macchie brulicanti andavano
espandendosi. Edgard sapeva che ognuno di loro stava scandagliando l’area circostante con il proprio
pensiero, in cerca di estranei. Non sapeva quanto la magia di Vàlen avrebbe potuto schermare il potere
psionico dei mostri, ma aveva come la sensazione che qualcuno lo stesse osservando.
E infatti, un pungente suono metallico rimbombò nella FàrDàn. Subito, un secondo, e poi un terzo; un
quarto mostro atterrò proprio sopra il cristallo panoramico. Altri ticchettii segnalavano nuovi movimenti
sullo scafo della nave.
Edgard gridò: —Siamo stati scoperti!—
—Geniale!— Commentò a mezza voce il mago. I Krix non vedevano la nave intrusa, ma riuscivano a
percepirne la presenza, in qualche modo. Anche la potente barriera magica era invisibile, ed i Krix
cercarono una forma di ingresso. Qualcuno caricò la propria arma personale e sparò alcune cariche di
fotoni dirette verso quella superficie invisibile. Vàlen sentiva il potere della Barriera di Ferro cedere;
avrebbe resistito ancora un po’, ma non sapeva esattamente quanto. Non c’era tempo di scegliere, né per
fare dei tentativi: avrebbe scagliato un incantesimo di Apertura, con tutta l’energia disponibile nella sfera
accumulatrice, contro quella difesa che proteggeva il controllo del generatore.
Modulò il proprio pensiero, e lo impresse sulla magia pura che poteva attingere dal globo. Serrò i denti per
lo sforzo di controllare un potere così grande: i maghi di Tàndar avevano compiuto un ottimo lavoro. Poi,
proiettò la sua mente fuori dal vascello, che adesso era il suo corpo, verso lo scudo di energia che aveva di
fronte. Il globo accumulatore divenne quasi inerte ed un fascio di luce azzurra si protese di fronte alla
ShtàrLàn, accompagnato da un suono assordante. Il rumore mentale stordì tutti i Krix che stavano
osservando la scena, mentre il raggio magico colpiva con violenza il deflettore; il potere travolse quelli che
si trovavano sul suo percorso, uccidendoli. Ora Vàlen aveva due mani invisibili ben salde sullo scudo che si
opponeva al suo attacco. Con l’immensa forza della magia che aveva a disposizione, tirò in due direzioni
opposte. Sentì che il suo bersaglio cedeva: come la magia aveva ordinato, si stava aprendo.
—Adesso, Tortt!— gridò il mago, con la voce rotta dallo sforzo terribile.
Di nuovo, il guerriero premette uno degli opali carichi di magia che aveva di fronte; la freccia saettò nello
spazio di fronte a loro. Il suo volo durò un attimo, ma a tutti loro parve un’eternità: sapevano che non ci
sarebbe stata un’altra occasione.
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La Freccia di Frattura colpì. Il potere della magia illuminò il ganglio di circuiti e filamenti biologici e
subito, come la magia ordinava, una lunga frattura lo divise in due. Vàlen cedette, e lo scudo si richiuse,
ma era ormai troppo tardi: le luci che prima attraversavano il controllo e viaggiavano in direzione del
generatore si fermarono all’istante. I Krix, prima agitati, si immobilizzarono, consci di ciò che stava per
succedere: l’uovo che conteneva il reattore a fusione divenne incandescente, quindi la luce si fece
accecante.
—Hellis!— Gridò il Presidente, —Il Portale! Subito!—
Mentre le radiazioni bruciavano gli esseri che si erano raggruppati lì vicino, Hellis scattò verso la perla
bianca.
L’ammiraglio era quasi rassegnato, quando la linea affusolata della Stirix, percorsa da un tremito di luce, si
spaccò in due.
—E’ il momento!— disse, e senza un istante di esitazione, premette il pulsante che dava avvio alla
sequenza programmata. Mentre la nave ammiraglia della flotta unionista stava esplodendo, la Quazar
riapparve nell’universo, uscendo dal suo manto protettivo. Come avevano previsto i Siriani, l’ordine di
attaccare sarebbe dovuto arrivare dalla Stirix, un ordine che non sarebbe mai giunto. Qualche comandante
decise comunque di aprire il fuoco, ma furono una minoranza. E la gigantesca nave madre Siriana si stava
già allontanando.
A bordo, l’equipaggio soffriva per la prima volta gli effetti dell’accelerazione. Decine di migliaia di persone
erano aggrappate lungo i corridoi, sulle pareti, alle poltrone ed agli oggetti fissati allo scafo; gli altri
scivolavano lungo i pavimenti. L’ammiraglio osservava l’energia dei deflettori che veniva intaccata dai
raggi delle navi Krix. Anche la Quazar aveva aperto il fuoco, ma il raggio delle armi unioniste era circa il
doppio delle loro. Dopo pochi secondi raggiunsero il relitto della Stirix, che stava esplodendo, e
sfuggirono allo schieramento. L’accelerazione aumentava, e per gli ufficiali in plancia diventava sempre più
difficile controllare la nave. La voce del tenente Retchel, anch’essa affaticata dallo sforzo di resistere
all’accelerazione, raggiunse l’ammiraglio:— Abbiamo un segnale portante. Possiamo comunicare.—
I deflettori erano attorno al cinquanta per cento della potenza, ma le navi Krix non erano in grado di
inseguire la Quazar.
—Ancora un po’, Retchel.—
Trenta secondi. La nave stava scivolando verso l’esterno del sistema solare, e la velocità si faceva sempre
più elevata. Trentacinque secondi. I deflettori scendevano ancora. Quaranta secondi: la luce delle stelle
immobili si fece vibrante. Stavano per superare la velocità della luce nello spazio lineare.
L’ammiraglio gridò l’ordine:— Aprite la distorsione, adesso!—
La Quazar proiettò la sua massa nello spazio curvo, allungandosi all’infinito e raggiungendo all’istante una
velocità impensabile per i nemici. Di colpo, gli effetti dell’accelerazione finirono, sballottando quelli che
ancora lottavano contro la sua forza. Non ci fu bisogno di dare nessuna comunicazione: l’equipaggio
sapeva che se l’accelerazione era scomparsa, voleva dire che ce l’avevano fatta: erano salvi.
Dal ponte di comando si sollevò un grido liberatorio: fu un tripudio di risa e abbracci, mentre l’ammiraglio,
sopra la sua torretta, sorrideva esausto. Disattivò la sequenza di autodistruzione, e subito si chiese se
Edgard ce l’avesse fatta.
—Tenente Retchel,— chiamò all’interfono, —comunicate al comando di flotta la nostra posizione.
Avranno sentito la nostra mancanza.—
La giovane donna, con gli occhi colmi di lacrime di gioia, tornò al suo posto e fece come gli era stato
ordinato. Nel mentre, una voce profonda risuonò nella sala.
—Presidente Rayan a Sala Comandi.—
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—Bentornato Presidente!— Salutò Retchel radiosa.
—Mettetemi in comunicazione con tutti i ponti.—
L’addetta alle telecomunicazioni commutò la voce del presidente su ogni dispositivo audio.
—All’equipaggio della corazzata d’assalto Quazar, è il Presidente Rayan che vi parla.—
La voce di Edgard bloccò i festeggiamenti dei novecentoventottomila ascoltatori, quindi continuò.
—Abbiamo superato insieme la minaccia più grave che questa nave e questo equipaggio, e tutte le
Federazioni Siriane, abbiano mai fronteggiato. Voglio solo ringraziare ognuno di voi, per il vostro
coraggio, per la vostra disciplina, e perché ogni singolo essere che viaggia su questa nave ha dato un
contributo determinante alla nostra salvezza.—
L’equipaggio era in piedi, muto, e ascoltava. —Abbiamo scritto la storia, oggi, tutti insieme. Abbiamo
fermato la minaccia dell’Unione Intergalattica; le sorti della crisi che ha coinvolto le Federazioni sono ora
in nostro favore grazie a tutti voi.—
Con senso goliardico, gli umani di Sirio davano pacche sulle spalle dei grandi sauri di Antaria, degli
Uomini Blu di Deneb, dei piccoli scienziati di Mizar; ma i sauri, inorgogliti dall’elogio, non se ne curavano.
—La storia ricorderà questo giorno. Gente della Quazar, domani i mille mondi delle Federazioni di Sirio vi
acclameranno come eroi, e voi potrete gridare con orgoglio “Io c’ero!”—
Il boato dell’urlo dell’equipaggio vibrò nelle enormi sale del vascello, mentre la comunicazione veniva
chiusa. Suo malgrado, il Direttore Kandal, si trovò a sorridere, circondato dai suoi colleghi esultanti. In
plancia, gli ufficiali stavano già intonando l’inno della marina militare; l’unico che non cantava era
l’ammiraglio, che stancamente sorrise e scosse il capo.
—Non cambia mai...—
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ShtàrLàn - Epilogo
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Epilogo
1.
Lo schermo panoramico della Xorix, la nave adesso al comando della flotta Krix, era occupato dal corpo
massiccio del Primo Dominatore.
—Comandante Rixshis, la resa non è del nostro mondo. —
—Non parlo di resa, Dominatore.— Il comandante della nave e della flotta non guardava il Primo
Dominatore dritto in volto, ma teneva la testa piegata verso l’alto. In tempi meno "agitati", questo sarebbe
potuto costargli un processo per insubordinazione.
—Parlo di buon pensiero. I Siriani hanno vinto su ogni aspetto; hanno abbattuto Stirix con una arma
sconosciuta. Sicuramente è l’arma che stavamo cercando. I Siriani non attaccano mai per primi.
Suggerisco solo di non combattere.—
Dall’altra parte dello schermo il Primo Dominatore sollevò vistosamente la mandibola. —Siamo quasi
riusciti a sconfiggerli. Forse dobbiamo cambiare comandanti.—
Il ragno accovacciato nella postazione di morbida tela sintetica guardò ancora più in alto.
—Non siamo riusciti a sconfiggerli. Cambieremo il Primo Dominatore.—
Il Dominatore sapeva che il comandante aveva ragione. Il fallimento della missione su quel pianeta per
impossessarsi del potere degli indigeni ed il fallimento dell’attacco alla Quazar potevano decretare la sua
deposizione, soprattutto se i comandanti fossero stati contro di lui.
—Bene— concluse il Dominatore, —riferirò che disdegnate il combattimento.— E così dicendo, chiuse il
contatto.
—Non ci sarà nessuna guerra.— rifletté il comandante. —Meglio far parte di un branco di scimmie mutate
che di uno sciame di insetti morti.—
2.
Re Zorand III era su un’ampia balaustra rivolta verso l’interno della grande fabbrica nella quale potevano
essere prodotte quattro ShtàrLàn contemporaneamente; il ciclo di produzione sarebbe durato sei mesi.
Aveva fatto preparare quegli spazi sulle indicazioni del Tensìt Artàn Dénel, mentre il prototipo veniva
assemblato sulla torre al centro dell’Ottagono. Un nutrito staff di alchimisti del Kalédion, maghi del
TàndarLàn e tecnici provenienti da tutto il mondo lavorava alacremente sui progetti del maestro Tensìt.
Accanto al Re, Dénel verificava lo stato di avanzamento.
—Vostra Maestà, avete anticipato l’inizio della produzione.— osservò.
—Sì.—
—...Sapevate che il progetto non era completo.—
—Ho corso il rischio. Ho sempre riposto un’estrema fiducia in voi.—
—Questo mi lusinga, ma...—
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ShtàrLàn - Epilogo
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—In realtà non ho avuto molta scelta. La ShtàrLàn è certo un’arma meravigliosa, ma è anche un
incombente pericolo.—
—Vi garantisco che i criteri di sicurezza sono totalmente affidabili!— disse risentito e sorpreso
l’alchimista. Le sue rubiconde gote divennero rosee, e i grandi occhi si fecero ancora più dilatati.
Il giovane ed energico Re sorrise stancamente. —No, caro Dénel, non dipende dal vostro lavoro. Quello è
eccezionale; e se fosse vera anche solo la metà di quello che ci avete raccontato, il risultato è va molto al di
là delle mie aspettative, e vi assicuro che erano alte. Avete sconfitto i Creatori: questa è la più eroica
impresa che sia mai stata compiuta.—
Denel non ci aveva pensato. Dal suo ritorno era stato completamente preso dal migliorare il sistema di
guida, perfezionare le armi ed il supporto al mago di bordo, ed altri dettagli tecnici (come le cinghie per le
poltrone in plancia). E poi, vivere l’impresa e raccontarla erano due cose diverse: mentre pilotava la
FàrDàn nel ventre della mostruosità aliena, non aveva certo pensato ai canti che i bardi stavano già
intessendo.
—No, amico mio,— continuò il re —non è per Voi. La notizia della vostra impresa ha già fatto il giro del
mondo. Thàris e Drénnton lo sanno già, per non parlare degli altri principati del Sòllan. Tre secoli fa,
abbiamo conquistato la pace con l’onore delle nostre armi, Tensìt, ma l’abbiamo mantenuta per un solo
motivo: eravamo troppo piccoli e troppo poveri per le mire dei grandi.—
Denel rimase immobile, mentre il re sospirava. —Ma adesso tutti i regni del mondo hanno una buona
ragione per invidiarci o temerci; e l’invidia e la paura non sono buoni consiglieri. Anche se i miei
ambasciatori sono già in viaggio, non riuscirò mai a convincere gli altri potenti che non intendo usare
questa arma contro di loro. E anche se ci credessero, sarebbero molti, forse tutti, a volere questo immenso
potere per se’.
—In più, abbiamo un grave svantaggio tattico. Abbiamo l’arma, ma ne abbiamo una sola; e per quanto
segreto sia stato il nostro lavoro, temo che questo fatto non sia passato inosservato. Se domattina la flotta
dei Drenn si presentasse alle porte di BàiVil, sarebbe la fine.—
—Ma la ShtàrLàn è imbattibile! non basteranno tutti gli armigeri di Tharis, né tutti i suoi Maghi Guerrieri,
per fermarla.— obiettò orgoglioso il Ténsit.
—Ne sono più che convinto. Ma la ShtàrLàn non servirà a nulla se dovrà difendere una terra bruciata.—
Dénel ammutolì. La sua meravigliosa creazione non poteva fermare l’avanzata di un fiume di uomini,
neanche se fossero stati nudi e armati di fionde. In compenso, avrebbe attratto ogni esercito del mondo.
Non ci aveva mai pensato.
Zorand parlò in tono conclusivo: —La nostra unica speranza è riuscire a creare un contingente abbastanza
forte prima che i potenziali attaccanti abbiano il tempo di organizzarsi. Ma tutti loro sanno bene che se non
colpiscono ora che siamo indifesi, non avranno un’altra possibilità.—
L’alchimista osservò turbato il suo re, come se avesse una domanda che non osava esprimere.
—So cosa state pensando, mio buon Dénel. Vi state chiedendo perché, se ero al corrente di tutto questo,
ho messo a repentaglio la stessa esistenza del mio popolo. “Prima uomo, poi Signore, poi Re”, recita il
giuramento che siamo tenuti a pronunciare prima di indossare la corona. La salvezza del nostro mondo è
più importante della salvezza di un popolo... anche se il popolo in questione è il nostro.—
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3.
—Bentornato, Santità!— il saluto estatico di un anziano chierico accolse nel cuore della notte il solitario
rientro di Hellis. Silenziosamente, come si era allontanato per unirsi a coloro che gli erano stati indicati dal
suo Dio, così era tornato; non i trionfi, non gli onori, ma solo un’entrata di servizio nascosta nel complesso
della grande Cattedrale della Stella della Sera di Thàris; ed il vecchio Janas ad attenderlo.
—Amico,— gli sorrise il Patriarca stanco e coperto dalla polvere di molte strade, —non sai come sono
contento di vederti!—
—Raccontate Santità, cosa avete fatto? Potete rompere ora il vostro voto di silenzio, e raccontare a questo
povero vecchio, o dovrò morire con la curiosità che mi attanaglia l’anima?—
Hellis rise di cuore. —Caro Janas, qualcosa te lo posso dire. Ma non adesso; dovrai attendere fino a
domattina, perché ora sono troppo stanco.—
—Sarà una notte insonne! Ma non volete neanche lavarvi la terra di dosso?—
—Domani all’alba, Janas. Non ora.—
Sebbene Hellis non fosse ancora giunto ai sessant’anni, e Janas sfiorasse gli ottanta, l’anziano chierico
aiutò con energia il suo Patriarca a raggiungere la sua cella; il letto era fresco e profumato, e un tozzo di
pane con le olive e una brocca piena d’acqua aspettavano pazienti sul comodino. Assicuratosi che Hellis
non avesse bisogno di altro, Janas si ritirò. L’alto sacerdote si tolse la veste malconcia, gettandola
distrattamente sul tavolo sgombro; mangiò con gusto il pane e bevve avidamente l’acqua. Poi, si sdraiò sul
letto e pregò ShtàrRésel. Anche se quella era una posizione insolita per pregare, non c’era una legge
precisa che indicasse come farlo; e poi, ShtàrRésel avrebbe capito: era già uno sforzo immenso non cadere
immediatamente addormentato. Il viaggio fu breve: Hellis si accorse che il Dio lo stava aspettando.
—Sono felice di avervi ritrovato, mio Signore.—
—Io sono felice che tuo sia tornato salvo. Fra i Creatori, non potevo proteggerti.—
—Devo ammettere che questo mi ha preoccupato un po’.—
ShtàrRésel, in quel luogo immateriale che faceva da contorno ai loro incontri, abbassò il suo sguardo e girò
le spalle.
—Hellis; sono enormemente fiero di te.—
Hellis, sempre nello stesso luogo, si alzò in piedi: una calda sensazione gli fece comprendere che il Dio
voleva che si avvicinasse.
—Anzi,— continuò in tono soave il Dio —fiero non è abbastanza. Tu mi hai sorpreso. Hai compiuto un
opera epica, Hellis. Hai salvato il nostro mondo. Hai salvato persino me!—
Lo sguardo di ShtàrRésel si posò sull’alto prelato; a sua memoria, il dio non aveva mai avuto
un’espressione così umana. Per un attimo, ad Hellis parve di trovarsi di fronte ad un suo pari.
ShtàrRésel proseguì: —Il nostro popolo ha appena iniziato ad incamminarsi su una strada della quale
neanche noi riusciamo a scorgere la fine, Hellis, ma una cosa è certa: “Il primo passo è verso le stelle”—
—Non è mai stato così vero, mio Signore.—
L’immagine del Dio divenne splendente nella sua aura azzurra. —Tu hai un compito, buon Hellis. Tu sarai
la guida del nostro popolo. E’ un compito doppiamente difficile, poiché ove in genere una guida ha una
bussola ed una mappa, e viaggia in terreni noti, tu non hai nulla di tutto ciò: hai solo la tua Fede e la tua
Forza.—
Gli occhi di Hellis, fermi e decisi, sostennero lo sguardo di ShtàrRésel.
—Ma, adesso, hai i mezzi per affrontare questa prova.—
—Cosa intendete?—
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—Lo scoprirai da solo, Hellis, come lo abbiamo scoperto tutti noi. Ma ora è presto. Dormi; ne hai ancora
bisogno.—
Il Patriarca di Thàris, nella sua accogliente celletta, si addormentò profondamente.
4.
TérellinSélandaset osservava Talya in piedi sul balcone, che a sua volta aveva lo sguardo perso tra le
fronde della foresta, appena velate dall’argentea luce della luna piena.
Appena sceso dalla ShtàrLàn, dopo essere tornato dal viaggio nel ventre del Mostro dei Creatori, si era
fatto accompagnare da lei. Egarràin lo aveva scortato, insieme a Hellis e Vàlen. Buffo, si trovava spesso a
pensare: Egarràin, l’unica entità ultraterrena che aveva in qualche modo fatto breccia nella mitologia degli
Elfi, era in realtà nient’altro che un umano. Questo doveva avere un qualche significato, ma Trellin non
riusciva a capire quale...
Talya era sveglia, e fisicamente in perfetta forma; sulle prime, aveva raccontato un Elfo della sua scorta, si
era spaventata, ma loro l’avevano tranquillizzata subito: adesso era al sicuro.
Quando il principe aveva riabbracciato sua figlia, si aspettava di dover consolare una bambina terrorizzata.
Non era stato così: Talya era felice di vederlo, era felice di rivedere tutti loro ma... in qualche modo,
Trellin capì che sua figlia era cambiata per sempre. L’unica emozione che aveva percepito in lei era stata
quella di un tirato sorriso di cortesia.
Da allora, sua figlia aveva parlato poco e sorriso ancora meno. Un umano dalla pelle completamente nera
aveva detto a Trellin, parlando a Hellis che traduceva la Lingua Antica, che loro avevano fatto tutto il
possibile per curare il trauma che Talya aveva subito, ma una guarigione completa avrebbe richiesto tempo,
e, soprattutto, molto amore.
Erano rimasti a bordo della incredibile nave stellare dei Creatori per un giorno ed una notte; il tempo,
aveva detto Egarràin, di far giungere una flotta numerosa e di garantire una protezione adeguata per il loro
pianeta, almeno fin quando la situazione diplomatica fra loro e i Krix non si fosse risolta.
La nave era colma di meraviglie, come gli splendidi giardini di quello che, aveva giurato Egarràin, era una
“simulazione planetaria”, una creazione artificiale in cui si potevano trovare boschi, laghi, fiumi, montagne
città, e persino un cielo azzurro e velato di soffici cirri... del resto, erano pur sempre i Creatori. Anche se
molte aree erano in fase di riparazione, a causa dei danni subiti durante la fuga dall'accerchiamento dei
Krix, Trellin si poté fare un idea piuttosto precisa di come dovevano essere in condizioni normali.
Vàlen e Tòret avevano fatto di tutto per far divertire sua figlia. In quel momento, nel grande alloggio del
Palazzo Reale, si trovò a desiderare che fossero ancora lì, con la loro allegria, con quella forza vitale che
era l’unica cosa che un Elfo avrebbe mai potuto invidiare in un umano.
Talya non aveva più riso. Sì, ogni tanto aveva accennato qualche sorriso, come quando Tòret si era fatto
piccolo piccolo per entrare in una minuscola alcova sotto le fronde di un boschetto, e Vàlen aveva dovuto
usare un incantesimo per tirarlo fuori. Ma il Principe aveva avuto la netta sensazione che si fosse trattato
sempre di sorrisi di cortesia, di un favore fatto per ricompensare chi si prodigava tanto per lei.
Ed in più, non aveva nemmeno accennato una volta a nessun argomento che riguardasse la magia. Certo,
Trellin non era mai stato entusiasta all’idea che Talya potesse essere soggiogata dal potere della magia, ma
era certo che scoprire il proprio potere doveva essere stata una fase molto importante della vita di sua
figlia. Adesso, di quella forza che tanto gli ricordava la donna che aveva amato, non sembrava restare
traccia.
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Qualcuno bussò, interrompendo i suoi pensieri; Trellin, felice di accantonarli per un po’, andò ad aprire.
Erano Tillàndasém e Médaralìsa, suo padre e sua madre. Con un cenno, Trellin li invitò ad entrare; senza
pronunciare una parola, ma con un delicato gioco di sguardi e di gesti, gli ospiti chiesero come stava Talya,
e Trellin rispose che era immobile da chissà quanto tempo, accarezzata dalla brezza di fine primavera, ad
osservare l’orizzonte.
L’anziano Re degli Elfi uscì dal balcone e raggiunse sua nipote. Il suo passo era talmente leggero che lei
non se ne accorse fino a che suo nonno non le fu accanto; ma anche allora, non diede segno di volerlo
salutare.
Tillàndasém rimase fermo, accanto a lei, per molto tempo. Quando i loro respiri furono sincroni, ed i loro
cuori batterono assieme, allora il Re chiuse gli occhi e vide il profondo dolore di Talya. In quel momento,
le anziane spalle del Re si curvarono, e come sostenuta da una forza misteriosa, la principessina si sentì più
leggera; allora, sorpresa, si voltò a guardare suo nonno, che l’aveva appena liberata di metà del suo
fardello. L’anziano Elfo chiuse gli occhi, sospirò malinconico, e si rivolse alla ragazza.
—Il tuo dolore è il mio dolore, bambina mia.—
Poi, si girò verso di lei, e le accarezzò una guancia teneramente. Come una diga che, piena di crepe, alla
fine cede inevitabilmente alla marea che la opprime, così Talya ruppe in pianto, rifugiandosi tra le braccia
di suo nonno e singhiozzando sommessamente.
—Non so dirti quando ti sentirai meglio,— le sussurrò piano il Re, accarezzandole i capelli, —ma tu ora
sai già che quando lo farai, sarai più forte. Il fuoco peggiore forgia il ferro migliore. Ma ora, piangi, e non
aver paura di avere paura. Lascia che il tuo dolore sia anche il mio.—
Così, quella notte, Il Re e la Principessa, il nonno e la nipote, l’anziano e la bambina, l’uomo e la donna
condivisero i loro ricordi, la loro vita, il loro fardello, ora più leggero per entrambi.
5.
—Vedo che l’Uomo Falco è tornato.—
Seduto in posa contemplativa, il Grande Maestro del tempio DàiKan di KinDànar, arroccato sul picco della
montagna di LamenDém, dischiuse gli occhi sottili. Aveva la testa rasata, la carnagione olivastra ed
indossava una semplice tunica, costituita da un panno giallo che girava diverse volte attorno al suo corpo.
Sedeva in cima ad una gradinata alta almeno cinque metri; ogni gradino era tanto largo da ospitare due
monaci, uno a destra e l’altro a sinistra, seduti in meditazione. Alte colonne dipinte di rosso reggevano un
soffitto ricco di intricati intarsi; ovunque, bracieri ardenti diffondevano calore e luci danzanti; alle spalle del
Grande Maestro, su un disco d’oro di due metri di diametro, era stata incisa la storia della creazione
eterna, del ciclo infinito del tempo che ritorna alle sue origini.
Ròndal sollevò il proprio sguardo verso il Maestro; quindi iniziò a salire i gradini. La sua veste nera di
stregone assorbiva tutti i colori sgargianti che caratterizzavano il tempio. Era come un pozzo, nel quale
cadevano tutte le energie catalizzate in quel luogo dai sapienti che vi avevano vissuto.
Ad ogni gradino che Ròndal saliva, i monaci seduti alla destra ed alla sinistra si destavano dalla
meditazione e lo osservavano passare. Non procedeva solo nello spazio fisico, ma soprattutto in un mondo
fatto di pensieri, intessuto attorno a lui.
Arrivò alla sommità; quando fu fermo di fronte al Grande Maestro, Ròndal parlò.
—Ho fatto come mi hai detto. Ho percorso le vie degli spiriti per trovare il mio spirito. Ho combattuto le
tenebre per sconfiggere le mie tenebre. Ho affrontato la paura per esserne padrone.—
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—E cosa hai trovato.—
—Ciò che ho trovato non ha importanza. Ha importanza la strada che ho percorso.—
Il Grande Maestro osservò quello straniero che era stato accolto fra i monaci del tempio tanti anni prima.
Lo guardò dritto negli occhi, per un istante che parve eterno.
—Ora tu non sei più l’Uomo Falco. In te è la forza del Drago.—
6.
—Se lo cantasse un bardo, non gli crederei.— disse a voce alta Tòret, ridendo rumorosamente e
sbattendo sul tavolo l’ennesimo enorme boccale di sidro. Di fronte a lui anche Vàlen, che seppure armato
di un boccale più piccolo aveva le gote rosse, rise. Belém, sbadigliando, si accovacciò meglio sul tavolo;
era offeso dal fatto che il guerriero non lo tenesse sotto alla giacca: sentiva freddo. Ma era tornato, ed il
cucciolo era felice per questo.
Lo spaccio della Fortezza Ottagonale era quasi deserto a quell’ora: normalmente sarebbe stato chiuso, ma
quella era una serata speciale, ed il Comandante della guarnigione aveva dato ordine di tenere aperto fino
all’alba.
Gli occhi del mago si fermarono ad ammirare la nuova uniforme di Tòret, che aveva le stesse
caratteristiche della sua: era un completo di giacca e brache di morbido cotone bianco, con ricchi bottoni
dorati. Il taglio era molto marziale: un colletto rigido, foderato sia all’interno che all’esterno di seta rossa,
arrivava fin sotto alla gola. Simmetrici ricami dorati lo ornavano, incastonando una stella d’argento che
rappresentava il loro nuovo status di comandanti. Le maniche, anch’esse bordate di rosso, erano arricchite
da una mostrina in seta azzurro scuro, ripresa identica su entrambe le spalle di ognuno di loro.
—Mi sento scomodo, con questa addosso— disse il mago slacciandosi il colletto e la cintura.
Tòret era decisamente imponente, rifletteva il mago, e il taglio di barba e capelli gli aveva giovato. Era un
uomo possente, anche se non arrivava al quarto di secolo, e la piega seria che avevano imposto ai suoi
capelli corvini prima ribelli gli dava una inconsueta aria di autorità. O forse, erano i gradi.
—Siamo Cavalieri, Vàlen, Cavalieri! Ma ci pensi?— rideva Tòret.
Del gruppo, i due erano gli unici che avrebbero potuto accettare quella nomina, e lo fecero senza esitare un
momento: era molto più di quello che Tòret avesse mai desiderato per il proprio futuro; e a Vàlen non
dispiaceva fare una nuova esperienza, e, soprattutto, avere una nuova casa. Aveva pensato di tornare alla
Torre di Séndovan, ma per il momento sapeva che il Maestro non aveva bisogno di lui. Anzi, a BàiVil
avrebbe potuto diffondere i suoi insegnamenti e, in un certo senso, fargli una buona pubblicità.
La cerimonia era stata molto semplice, in perfetto stile Kalédionìt. Il Re aveva consegnato loro, uno alla
volta, la spada e la lancia. Poi li aveva abbracciati per ricordare la fratellanza che univa i guerrieri che
liberarono il Kalédion. Quindi, prima Tòret e poi Vàlen, si erano inginocchiati, ma non di fronte al Re,
bensì al suo fianco, rivolti alla folla che assisteva nella piazza antistante la Fortezza. Il Re, allora, aveva
pronunciato le parole di rito: —Gente del Kalèdiòn: ecco i vostri paladini!— e la folla aveva urlato i nomi
di Tòret e Vàlen.
—E’ stato grande!— esclamò il mago ripensando a quel momento.
Il guerriero posò il boccale e parlò in tono calmo: —Siamo i Capitani più giovani che il Sòllan abbia mai
visto...—
Il mago si rivolse al suo amico: —Beh... credo che dovrai insegnarmi qualcosa su come si combatte!—
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—Sai cosa pensavo?— chiese Trott, e continuò: —Siamo i comandanti del nuovo ordine appena nato...—
—I Cavalieri delle Stelle.— si esaltò Vàlen.
—Già... vedi, non credo che ci lasceranno insieme.— Il mago lo guardò con fare interrogativo. — Siamo
gli unici ad aver vissuto un’esperienza simile, e credo che vorranno utilizzarci per guidare contingenti
diversi, ShtàrLàn diverse. Tenerci assieme sarebbe, credo, una specie di spreco per loro.—
Valentine già lo sapeva, solo che non voleva pensarci.
—E ora ...— si chiese il mago, —chissà quali avventure ci aspettano.—
—Non ci voglio pensare, Val. Non ora.—
Ci fu una lunga pausa, e fu il guerriero a romperla: —A cosa pensi, Val.—
—Pensavo a Talya.—
—Non preoccuparti. E’ una ragazza eccezionale; credo che se la caverà.—
—Sì...—
—Ma non è questo il punto?— chiese con gli occhi sottili Trott.
—Già... chissà se la rivedremo.—
—Ma certo che la rivedrai!— rise il guerriero assestando una vigorosa pacca all’amico, che letteralmente
sobbalzò.
Risero ancora a lungo, ricordando i momenti più divertenti, quelli più paurosi, quelli più tristi e quelli più
felici dell’avventura che li aveva appena resi i più grandi guerrieri del mondo.
Dopo un po’, Tòret si alzò. —Sarà meglio andare.— disse, e Vàlen annuì.
Con l’uniforme addosso, sembrava che i ruoli tra il guerriero ed il mago si fossero invertiti: quello militare
era il mondo di Tòret. Vàlen era disorientato non poco, persino dai suoi abiti nuovi, così diversi dalla
comoda tunica.
—Trott...— disse il mago mentre si allontanavano in direzione dei loro appartamenti.
—Che c’è, Val?—
—Credo... credo di avere un po’ di paura.—
Tòret rise squarciando il silenzio della base militare. —Dopo quello che abbiamo passato?—
—Intendo... non sono adatto alla vita da soldato. Questa volta non credo di essere all’altezza, la disciplina
non è mai stata il mio forte.—
Il giovane guerriero rise più piano. —Ti capisco. I primi giorni che mi arruolai mi tremavano le gambe.
Avevo sempre paura di fare una figuraccia.—
—Tu?—
—Sì, io. Ma sei fortunato, amico mio. Non credo che dovrai lavare le latrine come ho dovuto fare io...—
Quando, spogliatosi e coricatosi, Vàlen si distese nel comodo letto del suo nuovo appartamento,
finalmente poté chiudere gli occhi. Dietro alla stanchezza, al sidro, all’emozione, comparve la fugace
immagine di sua madre, del suo villaggio distrutto, di Hellis che lo accarezzava, di Egarràin e delle
meraviglie della sua gente; ed infine, il volto serio di Talya, che lo aveva salutato con un distratto cenno
della mano.
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7.
L’ammiraglio Basher sedeva su una comoda poltrona, fatta comparire per l’occasione, nell’appartamento
di Edgard. Sorseggiava un ottimo tè nero, con gli occhi persi nello schermo sul quale le stelle passavano
lente. Oltre un basso tavolino, su una poltrona gemella, il Presidente faceva altrettanto.
Ad un certo punto, Basher guardò dritto in faccia Edgard.
—Ti va di raccontarmi cosa è successo laggiù?—
—Non mi crederesti.—
—A questa storia ci ho creduto prima di te...—
—Colpito.—
Edgard, prendendosi un po’ di tempo per riflettere, bevve un generoso sorso di te, tirò il fiato e continuò:
—Dunque... per prima cosa, sono morto.—
—Cosa?!—
—... Assieme all’equipaggio della Ancelle. Vedi, la navetta si è schiantata al suolo, ma in qualche modo
Arkànjel mi ha salvato.—
—E perché non ha salvato gli altri?—
—Ha detto che io servivo al suo piano, ma il mio equipaggio no.—
Sebbene Basher fosse un militare, trovò penoso che un essere con tale potere fosse stato talmente crudele.
Edgard non volle soffermarsi sull’argomento e continuò: —Poi ho incontrato quelle persone che ci hanno
aiutati; anche questa era opera di Arkànjel. Con il loro aiuto abbiamo trovato la spia dei Krix... e qui è
successo qualcosa di fantastico.—
Edgard bevve ancora un sorso di tè.
—Dimmi Joseph, ... sai che cos’è il potere?—
L’ammiraglio annuì: pensava a varie forme di potere. Al potere politico, al potere tecnologico, al potere
economico...
—Io parlo del potere vero. Quando ho affrontato il Krix, qualcosa in me è cambiato. In qualche modo,
ogni mio pensiero si è tramutato in realtà.—
—Vuoi dire che sei entrato in possesso di quella forma di ... magia?—
—No, non è proprio andata così. Arkànjel mi ha detto che io sono colui che ha deciso la creazione di quel
mondo, e quindi, su Bandar III, su Pitermòs, in qualche modo ciò che io desidero è ciò che è.—
—Credo di non capire...—
—Nemmeno io. Ma è stata una sensazione fantastica. Per un attimo ho pensato che avrei potuto rinunciare
a tutto, pur di rimanere là.—
—Ma non lo hai fatto...—
—No,— sorrise Edgard, —il dovere che ho verso il popolo delle Federazioni è più importante.—
L’appartamento rimase silenzioso per molto tempo; poi, quando entrambi ebbero finito l’ultimo sorso di tè,
l’ammiraglio parlò: —Dev’essere stata un’esperienza molto intensa.—
—Sì, ma ora se n’è andato... il potere, intendo. Come se non fosse mai esistito.—
L’ammiraglio sfoderò una lunga pipa di legno ben lucido, mentre il computer materializzava sul tavolino
una ricca gamma di stuzzichini e alcuni bicchieri con un liquido rossiccio. Basher riempì la pipa con un
pizzico di erbe aromatiche (che sapeva trovare soltanto lui, nei più remoti spazioporti della galassia), e la
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ShtàrLàn - Epilogo
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accese. Mentre aspirava con gusto una densa boccata di fumo, Edgard mangiò una tartina e bevve un sorso
di aperitivo. Appena ebbe finito di assaporare l’amaro liquido, riprese a parlare in tono grave.
—C’è una cosa che non ti ho detto.—
—Cosa?—
—Loro verranno.—
Il militare siriano lasciò uscire dolcemente il fumo bluastro dalle sue narici prima di replicare.
—Loro chi?—
—I Pitermòssiani.—
Basher sorrise: —Abbiamo corso rischi peggiori.—
—Ma non capisci ...? Nessuno dei nostri strumenti potrà scoprire quando arriveranno qui, su questa nave;
per loro, sarà facile trovare qualcuno che li conduca ovunque, fino al palazzo del governo. E la nostra
scienza è completamente inutile contro di loro.—
—Forse... ma comunque non credo che costituiscano una minaccia. Non sanno nulla di noi, e noi sappiamo
tutto di loro. E poi cosa dovrebbero fare? Portare i loro trucchetti fino al Parlamento?—
—Dimentichi due fattori molto importanti. Primo, quei loro trucchetti hanno distrutto in pochi istanti la
minaccia più seria che i nostri più pericolosi nemici potessero dispiegare contro di noi: la Stirix.—
—Certo, ma loro hanno sfruttato una debolezza che noi abbiamo scoperto.—
—Già... ma noi quante debolezze abbiamo?—
La domanda colse di sorpresa l’ammiraglio; le controargomentazioni che gli venivano in mente erano
troppo deboli, adesso, per esprimerle ad alta voce.
—E non è finita qui. Tu hai detto che non sanno nulla di noi, ma ti sei dimenticato di dettaglio
importantissimo: Tàldit.—
—Chi?—
—Arkànjel. Ora si fa chiamare così; vuol dire “colui che è tornato”—
Basher sussultò; dopo una breve pausa, Edgard concluse: —Non so quali intenzioni abbia, ma ti posso
assicurare che il suo potere è immenso, e che ha completamente vinto il controllo che gli avevamo
imposto. Anzi, in qualche modo questo lo ha reso più forte. È impossibile sapere cosa stia architettando,
ma sono sicuro che questa è stata solo la sua mossa iniziale. E credimi, su Pitermòs ci sono altre forze che
noi abbiamo scatenato, e che un mondo solo non può contenere. Loro possono essere ovunque li porti il
loro pensiero. Fidati, Basher, è solo questione di tempo: loro verranno. E noi non potremo fermarli.—
FINE (per ora)
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ShtàrLàn - Alfabeto Pitermossiano.
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Alfabeto Pitermossiano.
Consonanti
b
k
c
d
f
g
h
j
l
m
n
p
r
s
w
x
t
y
v
z
q
( à ) ai esempio Raisht (freccia): ràw
( ^ ) io esempio Kaledion: kAled^yn
( à ) ia esempio Salliandem: salbàndem
Bosht (bastone).
Klad (nube).
Cindòr (Moneta).
Dagàn (Drago).
Segni grammaticali
Fer (fuoco).
Glich (ghiaccio).
D
R
T
W
V
X
K
M
L
F
J
N
E
_
P
S
C
G
Ger(Giorno).
Jakal (Giaguaro).
Lit (luce).
Misht (nebbia).
Nesht (albero).
Peg (pioggia).
Rev (Cascata).
Sar (Serpente).
Shticos (Ferro).
Shimar (Spada)
Tor (Fiera).
Tharis (nome di luogo).
Vat (acqua).
Zed (energia).
Lettera muta.
Vocali
dem (Soggetto della frase).
let (Oggetto dell’azione).
-it (Suffisso di specificazione)
ver (Suffisso di azione presente).
val (suffisso di azione futura).
vos (suffisso di azione passata).
kon (suffisso di azione continuata).
-am (Suffisso di modo).
lok (Suffisso di luogo).
fen (Suffisso di mezzo).
jet (Materia o accompagnamento).
bel (Origine).
len (Destinazione).
nit (Negazione).
-el (Personificatore).
sed (Riflessivo).
gon (Congiunzione).
-ot (Disgiunzione).
Punteggiatura
I suoni vocali si “aggiungono” alle consonanti
sotto forma di accenti e sono:
( a ) a esempio Dan (alba): dan
( e ) e esempio Desht (essere): dew
( i ) i esempio Fil (lama): fil
( o ) o esempio Sol (sole): sol
( u ) u esempio Mun (Erba): mun
.
,
?
;
208/246
shtop (punto).
kom (Virgola).
kan (Particella Interrogativa).
chen (virgola dura o punto e
ShtàrLàn - Alfabeto Pitermossiano.
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1
2
3
4
5
virgola).
Numeri
0
zir (zero).
209/246
ich (uno).
ton (due).
san (tre).
fal (qattro).
fir (cinque, usato raramente).
ShtàrLàn - Grammatica pitermossiana
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Grammatica pitermossiana
La lingua pitermossiana si è evoluta a partire da un idioma disceso da molte fra le lingue a noi note.
Presenta caratteristiche di alcuni linguaggi molto diffusi, ma ha evoluto caratteristiche fonetiche e
grammaticali uniche.
In particolare, il Pitermossiano presenta fonemi mutati sia dai ceppi anglosassoni che da quelli latini; più
rare (ma importanti) sono le declinazioni fonetiche derivate dalle lingue asiatiche, dalle quali ha però
ricevuto gran parte della grammatica.
Esistono due scritture, una fonetica e l'altra ideografica, che convivono nel Pitermossiano; qui
presenteremo solo esempi di scrittura fonetica, (si faccia riferimento al prossimo paragrafo).
Struttura fonetica e scrittura
Il Pitermossiano presenta un'alternanza di consonanti e vocali, che rendono la sua struttura piuttosto
ritmica. In generale, le parole iniziano e terminano per consonante, e presentano alternanze regolari; le
lettere dure (corrispondenti alle nostre doppie) sono piuttosto rare, e gli unici accostamenti di vocali
conosciuti sono lo iato “ai” e il dittongo “io” (pronunciato come in yo-yo); raramente viene usato il
dittongo “ia”. Sono però numerose le parole composte, che unendo una terminazione ed un inizio
consonantico, spezzano il ritmo della frase.
Le vocali sono scritte come segni aggiunti alle consonanti. Ad esempio:
senalìndem
(SenalianDem, nome di luogo), la prima “e” è un segno alla base della S. Si ha poi una “a”, come segno in
alto, accanto alla “n”. Si noti anche il dittongo “ia”, scritto come una “i” con sotto il segno di “a”.
Rare sono le parole che iniziano per vocale: vengono usate principalmente per la toponomastica o i nomi
propri, ed hanno spesso un corrispondente che inizia per consonante. In questo caso si pone il segno
“muto” prima della vocale:
qemel
lemel
(emel o lemel, pietra).
Alcuni dialetti locali abbandonano l'uso della consonante finale (soprattutto se dentale: t o d). Ad esempio,
nel Drenn quasi tutti i nomi di famiglia anticamente terminanti in -it (suffisso che indica un aggettivo o un
complemento di specificazione/provenienza, quindi molto diffuso nei cognomi) terminano in -i: Dàrinit
(proveniente da Dàrin), diventa Dàrini.
Si faccia riferimento all'alfabeto pitermossiano per una lista completa dei segni.
L'accento è generalmente neutro: ogni sillaba è pronunciata con la stessa velocità; al nostro orecchio le
parole suonano quindi tronche, oppure con l'accento sulla prima sillaba. Molte parole che contengono il
dittongo “io” e “ia” hanno l'accento sulla sillaba che lo precede, mentre le parole con lo iato “ai” hanno
l'accento sulla “a” dello iato.
Le consonanti dure sono indicate con un segno a forma di triangolo, che segue la consonante e precede la
vocale:
motBen
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(Motten, umidità); si trovano anche parole che terminano con consonanti dure (come mitt, mezzo), ma
molto raramente.
La punteggiatura è limitata al punto, alla virgola ed alla particella interrogativa (raramente è usata la
“virgola dura” con funzione di punto e virgola); esistono altri segni che hanno funzione di particelle
grammaticali, che sono indicate da un piccolo punto in basso a destra, che negli scritti informali viene
spesso tralasciato.
kItenD, kInulD.
(KitenDem, KinulDem. Il gatto, il cane).
Particolarità fonetiche
Le vocali sono generalmente pronunciate con tonalità aperta; l'apertura o la chiusura delle vocali dipende
dall'intonazione che si vuole dare alla frase. Un frase pronunciata con senso di tristezza o rammarico, avrà
le “a” e le “e” chiuse, mentre una frase pronunciata in tono minaccioso avrà le “o” e le “i” chiuse. “A” ed
“e” aperte indicano gioia, mentre “o” ed “i” aperte indicano simpatia, o vicinanza. La U è sempre
pronunciata come nell'italiano “ultimo”.
In alcuni casi, le parole terminano con lo stesso gruppo di lettere che compone la particella grammaticale
che le segue. In questo caso, per rendere più chiaro il gruppo ed evitare sgradevoli ripetizioni si usa
inserire -en- tra la parola e la particella; il suono -en- viene aggiunto dal lettore senza che sia scritto, ma
alle volte si predilige usare un segno indicatore (il punto grammaticale “Q”) alla fine della parola da
modificare.
La lettera s incontrata all'inizio di parola si pronuncia come “s” come in “suono”. Se si trova alla fine della
parola (anche se viene seguita da particelle grammaticali) si pronuncia come una zeta dolce (ad esempio
l'inglese “zero”). Fa eccezione la particella -it, davanti alla quale la S raddoppia. Esempio: pItermisT
si pronuncia PitermòssIt.
La lettera g è una “g” dura, e si pronuncia sempre come ghiaccio, mentre
pronuncia sempre come in giorno.
h
è una “g” tenera e si
Analogamente, la lettera k è sempre una c dura, anche accostata ad i o e, (come la k), e si pronuncia
come in “chilo”, mentre c è una c dolce, e si pronuncia come in “cibo” anche davanti ad “a”, “o” ed “u”.
La lettera w rappresenta il gruppo sht e si pronuncia come “sci” senza la i (gruppo inglese sh), seguito da
una “t” molto sonora. La x rappresenta il suono del gruppo sh inglese, e si pronuncia come sci o sce
qualunque vocale segua.
La lettera y ha un suono pressappoco simile al th inglese, ma più vicino ad una “t” italiana.
Completano le particolarità fonetiche la lettera z che si legge come in “zaino”, e la lettera
suono a metà fra la j francese (fr. je) e la g tenera italiana (come “già”).
j
che ha un
Struttura grammaticale
Il pitermossiano non presenta declinazioni, coniugazioni e numero. Non esistono articoli o preposizioni: la
funzione delle varie parti del discorso è espressa da particelle grammaticali postfisse, che distinguono
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soggetto, oggetto, aggettivi, complementi, avverbi e verbi. L'ordine con il quale questi appaiono, nella
maggior parte dei casi, non è rilevante (si presenta per primo l'elemento al quale si vuole dare maggior
risalto): solo il verbo ha posizione fissa in fondo alla frase, ma in alcuni casi è possibile che si presenti
all'interno.
Questa lingua predilige le forme nominali: sono pochissimi i verbi “puri” e rappresentano in genere azioni
che non possono essere espresse per mezzo di nomi. Quasi tutti i verbi sono nomi che, essendo posti come
ultima parola della frase, assumono la funzione di verbo; particelle grammaticali possono essere utilizzate
per declinare il tempo ed il modo del verbo. Questi sostantivi usati con funzione di verbo sono appunto
chiamate nome dell'azione (o del verbo).
Frasi enunciative e copulative
Il pitermossiano distingue due classi di frasi. Le frasi copulative accoppiano un soggetto con una qualità da
esso espressa o posseduta in qualche forma; quelle enunciative (molto più numerose) esprimono un
oggetto posseduto da un soggetto, o un'azione svolta da un agente.
La frase copulativa si forma con gli ausiliari “des”, “dest” o “desht” (essere) e “mas”, “mast” o “masht”
(possesso, simile ad avere, ma con connotazioni di essere) e “naris” che indica l'essere nell'atto del divenire.
Nella frase copulativa, il soggetto è segnalato dalla particella “dem” , che indica l'agire, mentre la qualità
espressa non è indicata da particolari particelle. La copula “des” indica che il soggetto ha una relazione con
la qualità in forma puramente positiva. “Dest” è una sfumatura più forte: indica che la caratteristica
principale del soggetto è quella indicata. “Desht” è ancora più forte: indica una totale unità fra il soggetto e
la caratteristica. Si confrontino
sesD jut des (SesDem jut des) Egli è buono
sesD jut dest (SesDem jut dest) Egli è davvero buono!, oppure: E' lui il buono!
sesD jut dew (SesDem jut desht) Egli è la bontà!
L'ausiliare “mas” indica possesso in forma di essenza. Ad esempio, anche in italiano (e in molte lingue)
esistono forme colloquiali del tipo: “Cosa abbiamo qui?” nel senso di “Cosa c'è qui?” o ancora “Oggi
abbiamo qui con noi...” nel senso di “Oggi è qui con noi...”
Si confrontino:
sesD jut mas (SesDem jut mas) Egli ha bontà, ha pietà.
sesD jut mast (SesDem jut mast) Egli ha davvero molta bontà!, La bontà è con lui.
sesD jut maw (SesDem jut masht) In lui la bontà trabocca, da lui si promana bontà.
Infine, l'ausiliare “naris” esprime il significato di “divenire”. Con questo verbo è possibile creare frasi
copulative che esprimono il fatto che il soggetto sta acquisendo, acquisirà gradualmente o ha acquisito nel
tempo una certa caratteristica. Esattamente come tutte le forme verbali che terminano per “s”, anche
“naris” può essere declinato con le forme in -st e -sht per indicare rispettivamente un passaggio
relativamente rapido o addirittura istantaneo:
sesD jut naris (SesDem jut naris) Egli diviene buono, acquisisce bontà
sesD jut narist (SesDem jut narist) Egli sta diventando buono (rapidamente, ora).
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sesD jut nariw
(SesDem jut narisht) E' appena diventato buono, diventa buono tanto
rapidamente che ora lo è già.
La prima frase indica un processo in atto, che è iniziato in un momento indefinito nel passato, e terminerà
in un momento indefinito nel futuro (oppure mai). La seconda frase indica un processo che è iniziato da
poco e/o produrrà i suoi effetti completi in breve tempo: si tratta di qualcosa che sta per completarsi. Nel
terzo caso si esprime una sorpresa, una forte connotazione di un fatto che è appena iniziato, ma sta già per
concludersi. Un esempio potrebbe essere il caso di un ferro che viene messo sulla fiamma, e che sta
diventando incandescente. Il mutamento è iniziato da poco, è in corso e prevedibilmente terminerà entro
brevissimo tempo, possiamo dire “a vista d'occhio”. Tuttavia, non occorre che il cambiamento sia tanto
repentino da essere visibile in pochi secondi; narisht indica un mutamento notevole, sbalorditivo nel lasso
di tempo dato, se questo è molto lungo, oppure rapido, visibile se il lasso di tempo è breve.
Gli elementi del discorso
Ogni unità semantica minima, in pitermossiano, viene detta elemento. Questa sezione identifica i vari tipi di
elementi presenti nel pitermossiano.
Nomi, verbi e pronomi
La lingua di Pitermòs è prettamente nominale. Praticamente, dispone solo di nomi, e di alcuni “nomi di
azione” che fanno le veci di verbi, oltre agli elementi copulativi. Sono molto importanti i pronomi personali
e dimostrativi:
mes
tes
ses
nos
vos
tes
dis
kel
mes
Io
tes
Tu
ses
Egli, Ella, Esso, Essa
nos
Noi
vos
Voi
ten
Essi, esse, loro.
dis
questo
kel
codesto, quello
Non c'è distinzione tra pronomi e aggettivi; vedremo in seguito che non esistono aggettivi possessivi, né
qualificativi; le loro funzioni sono espletate da forme grammaticali del Pitermossiano.
Il soggetto
Il soggetto, o meglio l'agente della frase, è determinato dalla particella postfissa “D” (pronuncia Dem).
Dem introduce solo ciò che compie un'azione, o che possiede una certa proprietà. Non può essere usato
con significato di soggetto passivo.
mesD miten (MesDem Miten) io vedo.
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L'oggetto
L'oggetto che subisce l'azione, o che ne riceve gli effetti, si indica con la particella Let (R).
kItenD mosR kep
(KitenDem MosLet Kep) il gatto prende il topo.
Se non è presente alcun elemento contrassegnato da Dem, l'oggetto designato da Let svolge funzione di
soggetto passivo:
mosR kep
(MosLet Kep) Il topo viene preso.
Una frase “passiva” viene costruita indicando prima l'oggetto, e poi l'agente:
mosR kItenD kep
(MosLet KitenDem Kep) il topo viene preso dal gatto
La particella Let può essere omessa nelle frasi attive (che contengono un soggetto) se l'oggetto della frase
precede il verbo. Quindi, nella prima frase di esempio, è possibile tralasciare “let”, ma non nella seconda né
nella terza.
Let svolge anche il ruolo di designare il complemento di termine; nelle frasi dove è presente un verbo che
regge il complemento di termine (a chi? a che cosa?), il complemento oggetto deve essere scritto come
ultimo elemento prima del verbo, e l'elemento contrassegnato da Let diventa il complemento di termine:
tesR mesD boken gad
(TesLet MesDem Boken gav) ti do il libro (a te io regalo il
libro).
Questa costruzione di base può essere abbandonata in casi particolari, in favore di una designazione più
precisa del “termine” dell'azione, come vedremo in seguito. La struttura appena vista è molto usata nel
linguaggio parlato, ma lascia spazio ad alcune ambiguità che possono sorgere in frasi complesse.
La particella Let ha anche altre funzioni. La possiamo trovare usata per specificare il complemento di moto
a luogo, di avvicinamento o di allontanamento, ed in generale quandunque ci possa essere un elemento
della frase sul quale l'azione manifesta i suoi effetti.
Il soggetto riflessivo
Una frase riflessiva può essere costruita a partire dalla particella
precede sia autore che termine dell'azione. In altre parole
tesS jut monus
S
(sed), che rende l'elemento che lo
(TesSed Jut nomus) ti senti bene (nel senso “stai bene”).
Attribuzione
Per indicare che un determinato elemento “appartiene” ad un altro, in senso molto simile al nostro
complemento di specificazione, si utilizza la particella “it” ( T ). “It” può essere usato sia nella frase
copualtiva (es. “Questo libro è di Jarod”) che nelle frasi positive (es. “Ti presto il libro di Jarod”):
dis bokenD jarodT des
jarodT bokenD tesR pàl
(Dis bokenDem JarodIt Des).
(JarodIt bokenDem TesLet Pail).
L'attribuzione può svolgere anche la funzione di complemento di provenienza (sia in frasi copulative che
enunciative):
mesD yarisT des
yarisT mesD dis kep
(MesDem TharisIt des) Sono di Tharis (vengo da Tharis)
(TharisIt MesDem Dis kep) Io, che sono di tharis, lo prendo.
In quest'ultima frase si noti anche l'assenza di Let accanto all'oggetto (si è preferito sottintenderlo).
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L'ultima funzione svolta dalla particella attributiva “it” è quella di formare i pronomi possessivi.
mesT mokenD tis des
(MesIt BokenDem dis des) Questo è il mio libro (il libro di
me).
L'attribuzione può essere cumulata:
mesT r^nT dorD kelen des
(MesIt RionIt DorDem Kelen des) la porta di casa mia (della casa di me) è aperta.
Genitivo pitermossiano
Come ulteriore forma abbreviata di attribuzione, si ha il genitivo pitermossiano. Tale struttura è simile alle
forme cumulate delle lingue orientali (cinese ma soprattutto giapponese), dove due o più parole vengono
accostate per formare un concetto comune, ma ricorda anche il genitivo sassone. Il genitivo pitermossiano
si limita a due o al massimo tre parole; spesso l'uso di un genitivo è tanto comune che il gruppo diventa nel
tempo una sola parola. Quindi, l'uso del genitivo è piuttosto raro (si preferisce -it) se non per la formazione
di nomi propri o come effetto della lingua comune. Ad esempio:
tandarlan
sollan
solfer
TandarLan – terra dei tuoni
SolLan – terra del sole
SolFer – calore solare, calura estiva
Un uso particolare del genitivo è l'accostamento dei pronomi dimostrativi ad un nome: “questa cosa” o
“quella cosa” si scrivono senza bisogno dell'ausilio di “-it”, in forma di genitivo pitermossiano.
disyinR miten
(disThinLet Miten) si vede questa cosa.
Personificatore
Esiste una particella ( P el) che rende il participio presente e l'espressione “colui che”:
mesD wudenP des (MesDem ShtudenEl des) Io sono studente (una persona che studia)
Espressioni cariche
Le particelle T -it e P -el possono essere seguite direttamente da altre particelle. Per esempio:
yarusTD jut des
yarusPD jut des
(TharisItDem Jut des) Ciò che è di Tharis è buono.
(TharisElDem Jut des) Il/i Tharisiano/i è/sono buono/i.
In queste forme, -it ed -el rimangono indefiniti, e gli elementi ai quali sono apposti possono essere tradotti
come aggettivi creati a partire dal nome al quale si riferiscono.
Quando -it ed -el si trovano in una espressione di questo tipo (detta carica), possono assumere anche
valore di pronome relativo:
balakR likel
balakTR likel
balakPR likel
(BalakLet likel) Preferisco il nero (il colore nero è preferito), ma:
(BalakItLet likel) Preferisco quello nero, e:
(BalakElLet likel) Preferisco colui che è nero.
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Modo dell'azione
In pitermossiano esiste una particella (M: am ) che permette di indicare in quale modo avviene un'azione. I
nomi caratterizzati da questa particella assumono la doppia funzione di avverbio e di complemento di
modo.
mesD fasM derem
(MesDem
FasAm
derem)
Mi
addormento
in
fretta,
velocemente.
Luogo dell'azione
Per indicare dove si svolge un'azione si usa la particella Llok. Tale particella non designa mai un
complemento di luogo in una frase che contiene un verbo di stato o di movimento, né indica la provenienza
o la destinazione del soggetto: questi sono tutti espressi grazie alla particella Let, o a espressioni che
vedremo in seguito. Lok ha il compito di indicare un luogo nel quale si svolge un'azione che ha un oggetto
ed un soggetto ben determinati:
bokenR mesD r^nL rid
(BokenLet MesDem RionLok Rid) leggo il libro in casa.
Se l'azione della frase è un verbo di movimento, il termine indicato da lok agisce come un complemento di
moto per luogo: indica il luogo “attraverso” il quale si svolge l'azione:
qostrodL yarisR kImas
(OstRodLok TharisLet kimas) Arrivo a Tharis passando per la Strada dell'Ovest
Mezzo dell'azione
Il mezzo con il quale un'azione è compiuta è indicato con la particella F fen. Fen indica il complemento di
mezzo o di strumento (grazie a chi/che cosa?); nelle frasi con verbi di movimento è molto comune usare
Fen per indicare il mezzo di trasporto utilizzato.
dis seripetF mesD pItermosT lanegR disek
(dis SeripetFen MesDem PitermòssIt lanegLet disek) Grazie a questo testo (con questo testo) imparo la
lingua di Pitermos.
Tempo dell'azione
Il tempo dell'azione si esplicita scrivendo direttamente nella frase una parola che indica un tempo, come
“oggi”, “ieri”, “domani”, “quinta ora” ecc. senza dover ricorrere a nessuna particella; è però necessario che
il nome del tempo sia inserito per primo o per ultimo (davanti al verbo, ed eventualmente prima
dell'oggetto se Let è sottinteso), in modo che non possa essere confuso con un genitivo legato al nome che
segue.
Ad esempio:
nesBol mesD ven (nessol MesDem ven) Domani vado, oppure:
mesD nesBol ven (MesDem Nessol ven) Vado domani, o ancora:
qaher jutR desX (Ager JutLet desVos) E' stato buono, una volta,
jutR qaher desX (JutLet Ager desVos)
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ma non:
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Materia o accompagnamento
Nella maggior parte dei casi, il complemento di materia si traduce con un semplice -it (riducendolo di fatto
ad un complemento di specificazione); ma in alcuni casi, quando si vuole dare particolare risalto al
materiale con il quale un certo elemento del discorso è costruito, si usa la particella J jet. Spesso, jet si
pronuncia jed, addolcendo moltissimo la “t” finale. Jet indica sia che due elementi sono accoppiati, si
accompagnano, e si usa per tradurre il complemento di accompagnamento o di materia. A jet si preferisce
usare forme dirette ( “io e te faremo...” si esprime con la congiunzione o addirittura replicando il Dem
dell'agente), a meno di voler indicare con chiarezza che esiste un elemento principale, al quale si accoppia
un secondario. Confrontate:
lemelT tovel des.
lemelJ tovel des.
mesC tesD venV.
mesJ tesD venV.
(LemelIt Tovel Des) È una torre di pietra
(LemelJet Tovel Des) È una torre (costruita) con pietra
(MesGon TesDem VenVal) Andremo tu ed io
(MesJet TesDem VenVal) Tu andrai con me.
Jet può essere utilizzato anche per sostituire Am, che indica il complemento di modo, quando questo crei
delle ambiguità. Confrontate:
zedM mesD venX.(ZedAm MesDem VenVos) Arrivai fulmineamente
zedJ mesD venX.(ZedJet MesDem VenVos) Arrivai con il fulmine (mentre tuonava)
Origine e destinazione
Il Pitermossiano permette di designare chiaramente l'origine e/o la destinazione di una azione. Entrambe
possono essere un luogo fisico (ed in questo caso abbiamo complementi di moto da luogo o modo a
luogo), sia un concetto (ed in questo caso possiamo avere da una parte il motivo che ha generato l'azione,
e dall'altra il suo scopo). Inoltre, l'origine e la destinazione possono indicare che l'azione si svolge a partire
da un certo tempo fino ad una fine.
In tutti i casi, la particella che indica l'origine è N bel, mentre la destinazione è indicata da E len.
Ecco alcuni esempi di origine e destinazione locativa:
manin mesD tandarlanN kImas
(Manin MesDem TandarLanBel Kimas) Arrivo adesso dal Tandarlan
tandarN yarisE venD defol dest
(TandarBel TharisLen VenDem Defol dest) Il viaggio (viaggiare) da Tandar a Tharis è davvero
difficile.
Si noti, in quest'ultima frase, come sia possibile scambiare la posizione di tutte le parti del discorso (incluso
Defol, se gli si aggiunge Let) e costruire 12 frasi con sfumature di significato diverse. Nella frase
precedente, Manin (adesso) può essere messo all'inizio o subito prima del verbo.
Un esempio di origine figurata:
mesN litenelD kImasX
(MesBel LitenelDem KimasVos) L'idea è partita da me.
La destinazione figurata può essere usata come complemento di termine quando la parte del discorso
designata da Let riceve l'azione come oggetto, e non può essere altrimenti impiegata.
mesE yinR dàsX
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(MesLen ThinLet daisVos) E' stata detta a me la (quella) cosa. L'hanno detto a me.
Per quanto riguarda il tempo:
qaherN disherE damR dew
(agerBel disGerLen SamLet desht) Dal passo fino ad oggi è sempre uguale. (Un'espressione idiomatica
simile a “non c'è niente di nuovo sotto il sole” ).
Bel e Len possono essere usati nella stessa frase per designare luoghi, origini o destinazioni figurate e
tempi.
Quando l'origine figurata è un concetto astratto, Bel designa un “motivo” che ha generato l'azione.
disseripetD likenN seripX
(disSeripetDem LikenBel seripetVos). Ho scritto questo testo per piacere (mosso dal piacere di farlo).
La destinazione figurata astratta assume il senso di motivo, obiettivo:
disseripetD likenE seripX
(disSeripetDem LikenLen seripitVos). Ho scritto questo testo per piacere (per trarne piacere).
Nell'esempio precedente, abbiamo una causa scatenante (è stato il piacere a farmi scrivere), mentre
nell'ultimo abbiamo un motivo (scrivo perché voglio averne piacere).
Si noti come Len usato come complemento di termine si confonda con lo scopo dell'azione:
disseripetD tesE seripX
(disSeripitDem tesLen seripitVos). Ho scritto questo testo a te (o per te).
Sarà il contesto a determinare il significato preciso.
Il verbo
Come già accennato, sono pochissime le parole Pitermossiane che possono essere usate solo in forma di
verbo; la maggior parte di verbi sono nomi usati come “nome dell'azione”. I verbi puri sono i copulativi
(des e mas) oltre a:
setas (setas) stare
dàs (dais) dire
fudes (fudes) fare
potes (potes) potere
veles (veles) volere
debes (debes) dovere
lenos (lenos) pensare, ritenere
nomus (nomus) sentire, percepire
Come des e mas, tutti i verbi puri possono essere declinati cambiando l'ultima lettera (s) in st o sht, dando
sfumature più forti di concetto.
Il verbo, o meglio, il nome dell'azione, si distingue da tutte le altre parti del discorso in quanto è l'ultima
parola della frase.
Quattro particelle consentono di “coniugare” le parole di azione:
W
Ver – suffisso di azione
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V
X
K
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Val – Azione futura
Vos – Azione passata
Kon – Azione continuata
Le particelle Ver, Val e Vos possono essere aggiunte ad ogni nome di azione senza particolari eccezioni,
ma in genere si usano solo se il tempo in cui si svolge l'azione non è esplicitato grazie ad un nome di
tempo. I nomi di tempo indicano un tempo preciso in cui si è svolto o si svolgerà l'azione.
La particella Kon si aggiunge quando l'azione si protrae nel tempo, e corrisponde alle forme costruite sul
gerundio, come “sto facendo”, “stavo facendo” o “starò facendo”. Quando è presente sia Kon che una
delle particelle Ver, Val o Vos, Kon si scrive prima. Alcuni esempi:
tandarL disekX
(TandarLok DisekVos) Ho imparato a Tandar
kenig mitenV
(Kenig MitenVal) Vedrò il re.
pItermosT lanegD disekKW
(PitermòssIt LanegDem DisekKonVer) sto imparando il pitermossiano (-Ver può essere omesso).
nesBol kenigR miten
(Nessol KenigLet Miten) Domani vedrò il re. In questa frase
manca la particella Val, che dovrebbe indicare il futuro, poiché l'uso della parola di tempo la rende
superflua.
A Vos può essere aggiunta una “t”, per indicare un fatto o un avvenimento che è accaduto in un passato
“relativamente” remoto, e che ora non ha alcuna conseguenza.
kenigR mitenKXt (kenigLet MitenKonVosT) “ero aduso a vedere il re” (ma ora non più)
kenigR mitenXt (kenigLet MitenVosT) Vidi il re (e non lo rividi più).
Un aspetto interessante dei verbi puri è che tutti quanti reggono la frase copulativa, dove abbiamo il
soggetto designato da Dem che possiede una caratteristica designata da Let (si può omettere la particella):
sesD bìnden des (sesDem Bianden des) egli è bello
sesD bìnden dàs (sesDem Bianden dais) egli dice bello (parla bene)
sesD bìnden fudes (sesDem Bianden fudes) egli fa bello (agisce bene)
sesD bìnden veles (sesDem Bianden veles) egli vuole bello (ha una volontà pura)
sesD bìnden nomus (sesDem Bianden nomus) egli sente bello (ha bei sentimenti, oppure “sente
bene” nel senso di “ha ragione, è nel giusto”)
Tutti i verbi puri possono essere coniugati con le forme in -st o -sht come gli ausiliari:
sesD bìnden dàw (sesDem Bianden daisht) Parla davvero molto bene, è un grande oratore.
E' da notare come i verbi nella forma in -s rappresentino una forma neutra, che esprime semplicemente una
caratteristica in forma positiva (cioè evidente) in generale; la forma in -st è usata principalmente per
indicare una caratteristica posseduta in un modo evidente ed in un momento particolare, mentre -sht viene
usata per indicare una caratteristica “unica”, e/o relativa ad un momento preciso. Così, nell'esempio
precedente, sesD bìnden dàs vuol semplicemente dire che la persona in oggetto è in generale una
persona che parla bene, o dice il giusto, mentre la frase con dàw indica che una persona è assolutamente
nel giusto adesso, o che le sue ragioni sono a questo proposito inattaccabili.
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Più avanti verranno introdotte le “comparazioni di proprietà”, che fanno le veci degli aggettivi comparativi:
queste sono particolari forme della frase copulativa, e quindi tutti i verbi puri possono permettere una
comparazione.
Modificatori di quantità
Si definiscono modificatori di quantità le parole “solamente”, “anche”, “tutto”, “troppo”, “molto”,
“qualche” e “nessuno”. In pitermossiano non esiste distinzione di numero, quindi “tutto” può essere
associato sia ad un oggetto singolare che può essere partizionato (ad esempio “tutta una torta”) che ad una
pluralità di oggetti (ad es. “ tutte le persone”).
I modificatori si uniscono come prefissi al nome al quale fanno riferimento, e possono essere apposti a
qualsiasi parte del discorso (anche ai nomi di azione, cioè ai verbi):
selQ
monQ
qalQ
nenQ
mucQ
besQ
vetQ
lotQ
somQ
samQ
sel-
solo, soltanto, solamente
mon-
anche, in più
al-
tutti, ogni, ognuno
nen-
nessuno, nulla, non questo.
much-
troppi, troppo
bes-
meglio
vet-
peggio
lot-
molti, molto, tanti.
som-
qualche, qualcuno, un pò.
sam-
la stessa quantità, uguale.
Come per tutte le particelle, anche questi prefissi sono seguiti dal punto grammaticale, che aiuta la lettura
del testo.
mesD qalQyarisPR liken
mesD selQyarisPR liken
mesD nenQyarisPR liken
(MesDem Al-TharisEl liken) Mi piaciono tutti i Tharisini
(MesDem Sel-TharisEl liken) Mi piaciono solo i Tharisini
(MesDem Nen-TharisEl liken) Non mi piace nessun Tharisino
Le particelle possono essere aggiunte anche in testa al verbo, modificando quindi il senso dell'azione. Si
confrontino:
monQmesD dis liken
mesD monQdis liken
mesD dis monQliken
(Mon-MesDem Dis liken) Questo piace anche a me.
(MesDem Mon-Dis liken) Mi piace anche questo.
(MesDem Dis Mon-liken) Questo mi piace, anche. (come dire
“Inoltre, questo mi piace”).
Sel, Al, Lot, Bes, Vet, Nen e Much, possono essere usati anche come sostantivi (ed in questo caso
compaiono senza il punto grammaticale). Seguite gli esempi:
sesD sel dest
(SesDem Sel dest) E' davvero solo!
nenD kel fudew (NenDem Kel fudesht) Quella cosa non è fatta da nessuno!
kenigD qal màlX(KenigDem Al mailVos) Il re salutò tutti.
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besE fudes (BesLen Fudes) “Agire per il meglio”
vetD vàtW (vetSem vaitVer) “Attender(si) il peggio”
I modificatori di numero Lot e Som consentono anche di creare le forme di aggettivo superlativo e
diminutivo (che non esiste in Italiano).
mesS lemen nomus (MesSed Lemen nomus) Mi sento bene
mesS lotQlemen nomus (MesSed Lot-Lemen nomus) Mi sento benissimo
mesS somQlemen nomus (MesSed Som-Lemen nomus) Mi sento un pò bene, benino
I modificatori Bes e Vet possono essere usati per formare un aggettivo relativo, o un superlativo relativo
usando la particella -it come specificatore, ma non per creare un comparativo (che si realizza tramite la
locuzione di comparazione). Quindi:
mesS besQlemen nomus (MesSed Bet-Lemen nomus) Mi sento meglio
mesS vetT lemen nomus (Mes VetIt Lemen nomus) Mi sento “il peggiore”
La particella negativa
La frase negativa, in pitermossiano, è costruita tramite la particella _ nit, che indica la negazione di un
singolo elemento della frase o dell'intera azione. Nit può essere presente davanti ad un nome, dopo un
nome ma prima della particella grammaticale e prima del verbo.
Confrontate:
mes_D desX
mesD _desX
Io non sono stato (non sono stato io, è stato qualcun altro).
non sono stato io (ma non è stato nessuno).
Più chiaramente, in una frase enunciativa:
kIten_D mosR municX
Non fu il gatto che mangiò il topo (che è però è stato
mangiato)
kItenD mosR _municX
Il gatto non mangiò il topo (che infatti è ancora vivo)
Quando Nit si trova davanti ad un nome che può avere un contrario (come una proprietà astratta), nega il
concetto trasformandolo nel suo contrario:
_litD des
(NitLitDem Des) è non luce, c'è buio.
Nit può essere usato davanti ai modificatori di quantità per trasformarli in “non solo, non soltanto”, “non
tutti”, “non troppo”, ecc.
mesR _mucQcindor gedX
(MesLet NitMuch-Cindor ghedVos) Mi fu dato non troppo denaro, non mi fu dato molto denaro.
Unione di elementi
Il pitermossiano predilige i nomi collettivi alle liste di elementi, ma alle volte si rende necessario individuare
più di un elemento con la stessa funzione nella frase.
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In questo caso, sono possibili due soluzioni. Nel caso la struttura della frase sia abbastanza semplice, si
preferisce ripetere la particella che designa l'elemento grammaticale comune per tutte le volte che è
necessario. Ad esempio:
mesD tesD sesD yarisR gorepM venV
(MesDem TesDem SesDem TharisLet GorepAm venVal) Io, tu ed egli andremo insieme a Tharis.
Se invece è presente un elemento legato a più di uno degli elementi ripetuti, allora si preferisce l'unione
attraverso la particella “Gon” C, che si aggiunge a tutti gli elementi che devono essere legati tranne che
all'ultimo. Gon ha una pronuncia molto dura e lievemente aspirata, tanto da assomigliare spesso ad una “C”
italiana (dissimile dunque dalla K inglese).
yarisT mesCtesD sesD r^nR kImasX
(TharisIt MesGon TesDem SesDem RionLet KimasVor) Io, te (che siamo del Tharis) e lui tornammo
a casa.
Alternativa tra elementi
Se è necessario individuare alcuni elementi fra cui si opera delle alternative, è necessario usare la particella
“G” -ot analogamente a come si usa la particella Gon appena vista.
mesG tesR cedunV
(MesOt TesLet cedunVal) Sarai scelto tu, o sarò scelto io.
Strutture sintattiche
In questa sezione sono studiate le modalità elementari attraverso le quali gli elementi del discorso sono
accostati per costruire unità autosufficienti che compongono il periodo dette “frasi”. Vedremo le
particolarità di alcune frasi, come la frase interrogativa e quella comparativa.
Nel discorso pitermossiano possono essere presenti un numero qualsiasi di frasi secondarie, ed una sola
frase principale. Le frasi secondarie si distinguono in vari tipi, che vedremo in questa sezione.
La frase interrogativa
Una richiesta, o una frase interrogativa si esprime attraverso la particella Kan, che si scrive dopo il verbo;
la sua pronuncia è opzionale (a scelta del lettore). La pronuncia di una frase che termina per Kan è molto
simile a quella di una frase interrogativa espressa in italiano. L'ordine dei termini all'interno della frase è
generalmente (ma non necessariamente) invertito:
tesD kenigR lasBol miten
(TesDem KenigDet lassol miten) Ieri hai visto il re
kenigR tesD lasBol miten?
(Keniglet TesDem Lassol miten kan) Hai visto il re ieri?
In questi esempi, il nome del tempo è stato messo accanto al verbo, invece che all'inizio della frase.
Quando sono presenti frasi subordinate (vedi sotto), solo la principale può essere posta in forma
interrogativa.
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I pronomi interrogativi
Nelle frasi interrogative è possibile usare alcune parole in funzione di pronomi interrogativi:
nan
tel
ken
verem
nazen
che cosa? quale?
chi?
quando?
dove?
perché?
Questi pronomi possono essere usati anche nelle frasi positive, ma assumono in questo caso una valenza
indefinita. Nel caso non vi siano ambiguità, e i pronomi interrogativi vengano usati come oggetto della
frase, “let” può essere tralasciato. Alcuni esempi:
nanR dewX?
(NanLet deshtVos kan) chi è stato ?
lasBol tesD verem ven? (Lassol TesDem Verem venKan) Dove sei andato ieri?
telR konelQdebes (TelLet konelEn debes ) Devo (o dobbiamo) sapere chi.
La prima frase è una semplice interrogativa. Nella seconda, abbiamo tralasciato sia il “Let” che avrebbe
dovuto essere apposto a “Verem” (dove?), sia il tempo del verbo ( “lassol”, ieri, è una parola di tempo; se
sono presenti parole di tempo, la coniugazione del verbo è opzionale). La terza frase è in forma positiva,
ed esprime un concetto indefinito.
Comparazione di proprietà
Similmente a quanto avviene nelle lingue conosciute, il Pitermossiano presenta una forma che permette la
comparazione di proprietà possedute dagli oggetti; tuttavia, il Pitermossiano ha una ricchezza espressiva
maggiore a qualsiasi lingua conosciuta, consentendo di usare tutti i verbi puri come copule, ed avendo
numerose sfumature. Nelle lingue dotate di aggettivi, si ha il comparativo di uguaglianza, di minoranza e di
maggioranza; in Pitermossiano abbiamo la comparazione di proprietà, che assume la forma di una
particolare frase copulativa, nella quale viene indicato che uno o più oggetti possiedono una determinata
caratteristica nella stessa misura, in misura minore o in misura maggiore di un oggetto pivot. Abbiamo
quindi il termine di paragone (il pivot), gli oggetti del paragone e la caratteristica confrontata.
Le frasi comparative sono particolari frasi copulative, nelle quali l'agente (Dem) è l'oggetto del paragone; il
termine (Let) viene paragonato ad esso in base alla caratteristica che precede la copula. I modificatori di
quantità Som e Much (o a volte Lot) servono ad indicare se l'oggetto ha meno o più caratteristica del
soggetto.
Lo schema è:
AD BR C des
/ mas A è / ha tanto C quanto B. B è C come A
AD BR somQC des / mas
A è / ha meno C di B.
AD BR mucQC des / mas
A è / ha più C di B.
Nelle comparative, la copula possessiva Mas assume un significato molto vicino a Des, ma indica
generalmente che chi parla intende comparare più una qualità che può essere posseduta che uno stato di
esistenza, indicato invece con Des. Le forme intensive dei verbi in -sh e -sht danno il senso di superlativi.
Ultima particolarità del comparativo pitermossiano è che il tempo del verbo va indicato rispetto alla
posizione temporale di chi parla o di chi ascolta, e non rispetto alla posizione temporale degli oggetti
espressi nella frase.
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Ad esempio
mesD tesR mucQqeron dew (mesDem tesLet MuchEron desht) Sono molto più grande di te
rondalD toretR dat desX (rondalDem ToretLet dat desVos) Rondal e Toret avevano
la stessa età (e non erano giovani).
lasBolD disBolR somQferel mas
(lassolDem dissolLet somFerel mas) ieri era meno freddo
di oggi.
Si noti come nelle ultime due frasi vengano usate delle perifrasi che differiscono dall'italiano (e dalle lingue
di origine europea) per esprimere i concetti: la seconda frase letteralmente si traduce “Rondal + agente,
Toret + oggeto , vecchiaia erano”. Per indicare che avevano la stessa età, si usa una comparazione di
“essenza”, come per dire “sono della stessa anzianità”. La terza frase si traduce “Ieri agente, oggi oggetto,
poco freddo ha”. Il freddo è qui considerato una qualità, qui posseduta in maniera diversa tra i due giorni.
Anche il tempo è differente: siccome viene fatta una comparazione valida per chi parla nel presente (oggi,
infatti, è presente!), sebbene il soggetto sia nel passato il tempo è al presente.
Ovviamente è possibile scambiare oggetto e soggetto e mantenere il prefisso di C per invertire il senso
paragone. Tendenzialmente, si preferisce esporre prima il pivot (espresso con Dem) per dare ad esso
maggiore enfasi, ma se si vuole dare particolare risalto all'oggetto del paragone, allora questo può essere
inserito per primo:
mesR nitBelD xerog mast (mesLet nittelDem sterog mast) “Nessuno è più forte di me!”
In questo caso, l'enfasi sull'oggetto è molto evidente.
Nelle frasi comparative è possibile sottintendere la copula se è presente Much o Som davanti alla qualità
comparata. E' da notare che senza il termine del paragone (B negli esempi), la frase diventa una normale
frase copulativa dove Much o Som indicano gradi superlativi o diminutivi della proprietà C, riferita al
soggetto A. Togliendo B, si può assegnare la particella Let a C, o sottintenderla.
Uno degli aspetti più interessanti della frase comparativa pitermossiana è che, essendo la comparazione un
caso particolare di frase copulativa, possono essere usati tutti i verbi puri per costruire la comparazione, ed
è possibile coniugare i verbi sostituendo -s con -st o -sht per dare sfumature più forti alla frase:
AD BR mucQC veles
A vuol essere più C di B
AD BR mucQC nomus
A sente di essere più C di B / A si sente più C di B
E' possibile costruire comparazioni di proprietà anche usando nomi di azione (verbi impuri), ma in questo
caso non si costruisce la frase copulativa e non si ha una comparazione relativa, ma assoluta. Ad esempio:
AD BR mucQC vIlemW
(vilemVer = volontà+verbo)
AD BR C vIlemW
A vuole che B sia più C (di quanto è ora)
A vuole che B sia C (e ora non lo è).
Frasi subordinate
La struttura delle frasi subordinate si ripete per diversi modelli di frase, dalla subordinata coordinata a
quella ipotetica, alla subordinata attributiva che non ha uguali in Italiano (trae origine da una struttura
molto comune in giapponese).
In generale, la frase principale segue tutte le subordinate, che sono espresse a partire dalla meno alla più
importante; il verbo chiude la frase subordinata. Dalla fine del verbo inizia una nuova subordinata o la
principale.
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Nella principale non è necessario indicare il verbo con la particella Ver dato che questo è l'ultimo elemento
della frase, ed è riconoscibile come verbo senza ausilio di particelle. Nelle subordinate, al contrario, Ver è
obbligatorio.
Le subordinate coordinate si collegano fra di loro (e con la principale) attraverso il segno , Kom, grosso
modo corrispondente alla nostra virgola. Il lettore può leggere “Kom” legandolo alla fine del verbo
precedente, o inserire una pausa prima di continuare. Altri tipi di subordinate vengono “chiuse” da elementi
grammaticali diversi.
Il tempo del verbo nella frase subordinata può essere presente (ed in questo caso si presume una
“concomitanza” di azioni, come indicato dall'uso del gerundio in Italiano), o avere lo stesso tempo della
principale (ed in questo caso si parla di frasi coordinate pure).
maketR venW, necitQT mucQyinR getunX
MaketLet venVer[Kom] Nechit[EN]It Much-ThinLet getunVos
Andando al mercato ho comprato molte cose utili.
maketR venX, necitQT mucQyinR getunX
MaketLet venVos[Kom] Nechit[EN]It Much-ThinLet getunVos
Sono andato al mercato e ho comprato molte cose utili.
Il Pitermossiano non conosce frasi coordinate sullo stesso piano di subordinazione; se abbiamo frasi
logicamente indipendenti, che in italiano potrebbero essere rese con “FRASE A e FRASE B”, in
Pitermossiano vanno creati due periodi separati da un punto.
Frasi alternative
E' possibile coordinare diversi periodi alternativi tra di loro aggiungendo la particella -ot in fondo al verbo
di tutte le frasi alternative tranne l'ultima:
mesD deremKWG tesD foltenKW
MesDem DemelKonVerOt TesDem FoltenKonVer.
O io sto sognando, o tu stai delirando. (Espressione idiomatica per manifestare incredulità di fronte a
notizie inaspettate; spesso le particelle KonVer vengono tralasciate).
Opzionalmente, si inserisce Kom (virgola) fra le varie frasi, ma in questo caso il Kom non viene mai letto.
Frasi avversative
Quando, nonostante una o più premesse, si arriva ad una conseguenza si ha una frase avversativa. La frase
avversativa è strutturata come una normale frase subordinata; è necessario premettere ad ogni subordinata
che presenta una premessa inattesa il termine “Nes” o “Nest” o “Nesht”, che avendo funzione
grammaticale presenta il solito puntino. Nes indica che la frase che segue è una semplice premessa, che
però viene disattesa nella principale. Può essere tradotto con “anche se...”. Nest è più forte, e segnala che
la frase che segue viene negata dalla principale; può essere tradotto con “nonostante ...”. In qualche modo,
Nes e Nest sono intercambiabili, avendo solo una maggiore sfumatura di “avversità” nei confronti della
principale. Nesht, invece, è ancora più forte e indica che la secondaria che segue non è una condizione
sufficiente alla realizzazione della primaria (può essere tradotto con “nemmeno”). Osservate gli esempi:
nesQ mesD jevil des, dekonen mas
(nes MesDem Jevel des, Dekonen mas). Anche se sono giovane, sono stanco (in me c'e stanchezza)
nestQ mesD jevil des, dekonen mas
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(nest MesDem Jevel des, Dekonen mas). Sono stanco, nonostante io sia giovane
newQ qelveqim ven, qelevR vored
(nesht Elveim ven, ElevLet vored). Nemmeno andando a Elveim (è possibile) parlare agli elfi.
Si nota come nes/nest siano due sfumature diverse dello stesso concetto (nes/nest A, B: sebbene A, accade
B) nesht è molto più forte:
nes A, B: anche se accade A, B è vero (non importa se A è vero; B lo sarà comunque).
nest A, B: B è vero, nonostante A sia accaduto
nesht A, B: B è impossibile, pur potendo essere A vero. Anche se A, B non accade
Nes può anche trovarsi nella principale, indicando in questo caso che la secondaria non è sufficiente a
comprendere la principale. Può essere assimilato al but inglese, in questo uso. Nest ha una connotazione
più forte, e può essere assimilato all'italiano eppure, mentre nesht indica che la principale è vera nonostante
la secondaria, e che la secondaria non ha alcun effetto sulla principale.
pelegKW, nesQ mesD venV.
(pelegKonVer, nes mesDem venVal). Sta piovendo, ma andrò.
pelegKW, nestQ mesD venV.
(pelegKonVer, nest mesDem venVal). Sta piovendo, eppure (potevi pensare il contrario, ma) andrò.
pelegKW, newQ mesD venV.
(pelegKonVer, nesht mesDem venVal). Sta piovendo, ma (non ha alcuna importanza, perché) andrò.
I tre gradi, in questo caso, si usano con sfumature crescenti di “avversità” della principale rispetto alla
secondaria. Nel caso di nes, si ha una avversità neutra, semplicemente una constatazione (che in alcune
situazioni, in italiano, può essere tradotta indifferentemente con “ma” o con “e”, ad. es. “piove, ma andrò”
o “piove e andrò”). Nest, traducendosi con “eppure” indica che probabilmente, quanto detto nella
secondaria potrebbe indurre l'ascoltatore a pensare che la conclusione sia diversa da quella che viene poi
indicata nella principale. Con nesht si afferma chiaramente che la secondaria è totalmente ininfluente.
Frasi motivazionali
La frase motivazionale pitermossiana traduce il nostro “poichè/siccome/dato che ... allora ...”. Esistono
due tipi di frasi motivazionali: una di causa ed una di scopo.
La frase di causa è una subordinata chiusa dalla particella di origine
motivo per cui si ha quanto enunciato nella principale.
N bel. Questo tipo di frase indica il
kelL mesD setastXN, qalR mitenX
(KelLok MesDem SetastVosBel, AlLet mitenVos) Siccome stavo là, ho visto tutto.
La frase di scopo è una subordinata chiusa dalla particella di destinazione
indica cosa si vuole ottenere tramite l'azione indicata dalla principale.
E len. Questo
pItermosT lanegR xerinWE, disseripetR seripetX
(PitermossIt LanegLet SherinVerLen, disSeripetLet SeripetVos)
Questo testo è stato scritto al fine di insegnare il pitermossiano.
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tipo di frase
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Frasi ipotetiche
Le frasi ipotetiche sono subordinate che indicano che quanto enunciato nella principale si realizza solo in
determinate condizioni.
In pitermossiano, le frasi ipotetiche indicano sempre una “possibilità condizionata”; l'impossibilità
condizionata è trattata dalle frasi avversative.
Esistono tre tipi di frasi ipotetiche: le consequenziali, le tentative e le condizionali.
Le frasi consequenziali indicano che un certo fatto o una certa condizione si è verificata, si verifica, si
verificherà o continuerà a sussistere se la premessa si verifica. Hanno un senso molto simile al nostro
costrutto “se... allora ...”. La frase consequenziale è introdotta dall'elemento grammaticale “efin”. I
seguenti esempi esplicitano quanto detto:
qefinQ plehV, _gonedV
(efin plegVal, nit-gonedVal) Se pioverà, non andrò
qefinQ plehKW, qalR vatemV
(efin plegKonVer, AlLet vatemVal) Se continua a piovere, si allagherà tutto
qefinQ vidisD _cenig, plehD suzenKV
(efin VindisDem nit-cenigh, PlegDem suzenKonVal) Se il vento non cambia, la pioggia continuerà
Le frasi tentative sono identiche alle consequenziali, tranne per il fatto che il verificarsi della tentativa non
causerà automaticamente il verificarsi della principale, similmente al costrutto italiano “forse se...
allora ...”. Le tentative sono introdotte dalla parola grammaticale “moshin”:
moxinQ plehV, _gonedV
(moshin plegVal, nit-vonedVal) Forse, se pioverà, non andrò. Se pioverà, forse non andrò.
Le frasi condizionali pongono una condizione necessaria al realizzarsi di quanto espresso nella principale,
ma il realizzarsi della condizionale non causa automaticamente il verificarsi della principale. Ciò che
espresso nella condizionale è necessario, ma può non essere sufficiente. Le condizionali sono introdotte
dalla parola grammaticale “mos”:
mosQ plehV, _gonedV
(mos plegVal, nit-gonedVal)
Solo se piovesse potrei non andare. Se pioverà, forse non andrò (altrimenti andrò sicuramente)
“Mos” può essere coniugato con le forme st e sht per dare sfumature più forti alla necessità che la
condizione espressa si verifichi:
mos A, B
A è importante affinché B accada
most A, B A è necessario per B
mow A, B
B non può realizzarsi senza A, perché A è parte
di B. Se A accade, B si
realizzerà in maniera molto probabile (ma non certa). Senza A, B è impossibile.
Le frasi che si basano su mos possono essere riscritte in forma meno diretta attraverso una locuzione simile
al nostro “a meno che...”:
gonedX. dis_D qefinQ peleg.
(gonedVal. DisNitDem Efin peleg)
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Letteralmente, la frase significa “Andrò. Questo non se piove” (si noti il punto fra le due preposizioni: la
pausa è molto marcata). DisNitDem, seguito da Efin può essere considerato assolutamente equivalente ad
“a meno che non”: Andrò, a meno che non piova.
Frasi attributive
La frase attributiva non ha un corrispondente diretto in italiano, se non una somiglianza con la subordinata
relativa: serve a indicare qualcosa di più preciso rispetto ad un oggetto che si trova nella frase principale.
La frase attributiva ha la stessa funzione espressa dalla particella -it: consente la specificazione di un
elemento della frase principale attraverso un approfondimento di significato.
Le frasi attributive si costruiscono legando alla chiusura della frase la particella T -it, e quindi
“applicando” l'intera frase alla sequenza cumulata di “it” che possono accompagnare un elemento della
principale:
torunR vIketXT kAld^nT melemD disL des
(TorunLet ViketVosIt KaledionIt MelemDem disLok des)
L'uomo del Kaledion che ha vinto il torneo è qui.
Nelle frasi attributive, l'elemento che segue la particella -it è considerato l'agente della frase (come se fosse
scritto al suo interno con -Dem) se l'attributiva contiene un oggetto esplicitato da Let. Si considera invece
oggetto dell'attributiva se questa non contiene alcun oggetto:
hedelXT melemD disL des
(GedelVosIt MelemDem DisLok des) L'uomo che è stato giudicato è qui.
Le frasi attributive hanno sempre come riferimento uno ed un solo elemento della frase principale. In altre
parole, al contrario del cumulo degli elementi attribuiti con -it, tutte le frasi attributive vicine (collegate da
-it) saranno da attribuire allo stesso elemento della principale: mentre è possibile eseguire una
specificazione di una specificazione, ad esempio “la porta di casa di Laura”, non è possibile creare una
frase attributiva di una frase attributiva; inoltre non è possibile caricare un elemento attribuito con -it di
frasi attributive: nemmeno in italiano è possibile dire “la porta di casa che è bella di Laura”.
Quindi, collegando più frasi attributive allo stesso elemento si ottiene una catena simile ad una struttura
“l'oggetto X che ... e che ... è fatto così”. I limiti e le possibilità delle frasi attributive e dell'attribuzione di
oggetti semplici fanno sì che tutte le frasi attributive debbano essere scritte prima della catena attributiva
relativa ad un certo oggetto:
yarisPR likenT wratR _likenT sollanT kAled^nT tànpIsT
pepolD sekAn marL goned
(TharisElLet LikenIT ShtratLet Nit-LikenIt SolLanIt KaledionIt TainpisIt PepolDem Soken MarLok
Goned)
Spesso, il pacifico popolo del Kaledion del Solland, che ama i Tharisiani e (ma) che non ama la magia,
viaggia per mare.
Una piccola analisi di questa frase, che pur non avendo frasi subordinate è il periodo più complesso che
abbiamo visto fino ad ora, si rende opportuna. Tutte le attributive, nella traduzione, possono essere legate
da un “e che...”, ma dove si esprime un concetto negativo è possibile optare anche per il “ma che...”.
Finite le attributive, andiamo a cercare l'elemento alle quali queste si riferiscono (il primo elemento nella
principale che non termina per -it), e scopriamo che queste si riferiscono a “popolo”; da lì, ritorniamo
indietro, individuando gli aggettivi o le specificazioni che lo precedono.
Abbiamo subito l'aggettivo “pacifico”; il pitermossiano non fa differenza tra attributo e specificazione, ma
il fatto che -it sia legato ad un concetto astratto può permetterci di tradurre l'attribuzione alla “pace” con
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un corrispondente aggettivo. Essendo il Kaledion un luogo che a sua volta si trova nel Sollan, la traduzione
del resto è facile.
La presenza di frasi attributive altera anche la libertà di scrivere gli elementi grammaticali con l'ordine che
si preferisce. In genere, infatti, si tende a definire meglio l'oggetto che si ritiene più importante, quindi una
o più frase attributiva denotano un maggiore interesse dello scrivente per l'elemento specificato. Scrivere
per primo l'elemento con frasi attributive ha anche la funzione di aiutare l'ascoltatore a decodificare la
sequenza frase-oggetto; ad esempio, spostando “MarLok” (per mare) all'inizio della frase, l'ascoltatore
avrebbe avuto il dubbio (fondato) che quel “per mare” fosse riferito alla preferenza dei Kaledioniani per i
Tharisiani. La prima attributiva avrebbe potuto suonare come “xxx ... che amano i Tharisiani incontrati in
mare”.
In quei casi in cui vi sono più elementi con frasi attributive, questi vanno tutti scritti all'inizio della frase,
con l'ordine che si preferisce (a seconda della loro importanza relativa). Infatti, facendo l'orecchio alla
lingua, in questo modo è molto facile determinare con precisione i confini delle attributive.
Vediamo infine una piccola eccezione alle regole: Soken, che vuol dire spesso, è una parola temporale e
dovrebbe essere messa all'inizio della frase o subito prima del verbo. Nel caso siano presenti numerose frasi
attributive relative ad un solo elemento, si preferisce scrivere tale elemento (con il suo carico di attributive)
per primo, e quindi è possibile anche scrivere le parole temporali subito dopo tale elemento. Se invece sono
presenti più elementi con frasi attributive, le parole temporali vanno scritte obbligatoriamente subito prima
del verbo.
Oltre alle parole temporali, all'inizio delle frasi subordinate spesso troviamo parole “grammaticali”, che
spiegano la funzione della subordinata, e vanno inserite prima di ogni altro elemento. Dato che le frasi
attributive non possono avere subordinate, le parole grammaticali possono restare all'inizio della frase: esse
saranno giustamente imputate all'intera frase subordinata, non alla frase attributiva.
Le attributive possono essere nidificate per un qualsiasi numero di livelli. In altre parole, è possibile
scrivere frasi attriubitive relative ad oggetti che si trovano all'interno di altre frasi attributive:
feros mucQdesXT torunR vIketXT kAld^nT melemD disL des
(Feros Much-desVosIt TorunLet ViketVosIt KaledionIt MelemDem disLok des)
L'uomo del Kaledion che ha vinto il torneo, che è stato molto cruento, è qui.
Ma a queste forme, che sono piuttosto pesanti, si preferisce, soprattutto nel linguaggio parlato, il “richiamo
relativo”, che vedremo in seguito.
Frase attributiva -it Thin
Thin, in pitermossiano, vuol dire “cosa”, e viene molto usato come oggetto di una frase attributiva.
Inserito nella principale, Thin carico della frase attributiva fa sì che il suo contenuto diventi un elemento
della principale. Si segua l'esempio:
marR venWT yinR mesD liken
(MarLet venVerIt ThinLet MesDem Liken)
Adoro andare al mare. Mi piace il fatto (la cosa) di andare al mare
Essendo la costruzione -it Thin molto comune, la sua pronuncia si avvicina molto ad una specie di -itthin,
dove la t di -it cade, e senza alcuna pausa si pronuncia una th dura.
Cumulo verbale
Il cumulo verbale è una struttura grammaticale che permette di accodare più verbi per formare un unico
concetto di azione; esempi in italiano sono “Voglio andare a comprare quel disco”, o “Cercherò di
realizzare un bel lavoro”
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In pitermossiano, il cumulo si realizza attraverso una semplice unione “grammaticale”: si tratta di una
sequenza di nomi di azione collegati fra di loro attraverso il punto grammaticale (che in questo caso si
pronuncia “en”):
yarisT kenpUnR tesD qager mitenQvenX
(TharisIt kenpunLet TesDem Ager mitenEn venVos)
una volta, sei andato a vedere il tempio di Tharis
L'ordine del cumulo è il contrario di quello che si può osservare sia in Italiano che in Inglese, Francese,
Spagnolo ed in generale tutte le lingue del ceppo indoeuropeo: prima si dispone il verbo “principale” e poi
quelli che hanno lo scopo di modificarlo. Ad esempio, nella frase precedente mitenEn venVos suona come
“vedere + andato”, che si traduce come “andato a vedere”.
Nel caso comune che il nome di azione termini per -en, per ridurre la cacofonia prodotta dalla ripetizione,
l'accento viene fatto cadere sulla prima sillaba. Ad esempio, normalmente “vedere” si pronuncia
“miténVer”, ma nel caso della frase di cui sopra, la pronuncia è “mìtenEn”. A volte, in questo caso, nel
linguaggio quotidiano il secondo “En” viene fatto cadere, ma viene mantenuta la retroversione dell'accento.
Strutture semantiche
In questo paragrafo studiamo le espressioni che servono per comunicare un significato particolare, di
livello superiore a quello che è possibile comunicare con le sole strutture sintattiche.
Espressione di pensiero e di volontà
Le espressioni come “penso che...”, “ritengo che...”, “secondo la mia opinione...” ecc. sono rese usando la
frase attributiva di tipo -it Thin:
F-A T
yinR V.
F-A è la frase della quale si enuncia di ritenere la veridicità, mentre V. è un verbo. Normalmente si usa il
verbo puro lenos (pensare), ed in questo caso abbiamo la così detta “espressione diretta”, ma sono
comuni anche locuzioni copulative des o mas (espressioni indirette).
Essendo la frase piuttosto comune, si sottintende l'agente della frase se questo è “io”, e si tralascia il Ver se
questo non è necessario.
Alcuni esempi (sostituite a “questo” la frase che desiderate):
disRlenos
(disLet
disRdesT yinR lenos
Lenos) Penso questo
(disLet DesIt ThinLet Lenos) Ciò che penso è questo, penso
che sia così
disRdesT yinR lenost
disRdesT yinR lenow
(disLet DesIt ThinLet Lenost) Ciò che penso è proprio questo
(disLet DesIt ThinLet Lenosht) Il mio pensiero è assolutamente questo
disRdesT yinR doten des
(disLet DesIt ThinLet Toten Des) Questo è il mio pensiero (è una frase indiretta, usa la copula)
disRdesT yinR doten mas
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(disLet DesIt ThinLet Toten Mas) Io ho questo pensiero (questa idea), sono di questo avviso
Nelle ultime due frasi, toten (pensiero, idea) può essere sostituito da termini come Bopitem
(supposizione) o in generale termini che indicano un atto di riflessione interiore che viene esplicitato, come
Dias (dire, in questo caso usato come “dico che ...” o “dice che ...”), e Vakerim (comprensione).
Per cambiare il soggetto (ad esempio, “questo è il tuo pensiero”) bisogna aggiungere un termine in Dem
dopo il gruppo attributivo in Let e prima del verbo; al verbo può essere dato tempo passato o futuro (es.
“questa era la mia idea”, “questa sarà la vostra idea” ecc.)
Esattamente come la locuzione “penso che...” si costruisce la locuzione “voglio che...” con espressioni di
volontà:
yarisLvenWT yinR velest
(TharisLok venVerIt ThinLet velest) Voglio davvero andare a Tharis
yarisLtesDvenWT yinR velest
(TharisLok TesDem venVerIt ThinLet velest) Voglio davvero che tu vada a Tharis
In quest'ultimo esempio, possiamo notare come la costruzione “voglio che tu faccia...”, che è resa con
strutture particolari in tutte le lingue indoeuropee, in Pitermossiano si costruisce sfruttando la ricchezza
espressiva delle frasi attributive.
Espressione di dovere
L'espressione di dovere si rende generalmente come un'accumulazione di verbi, ma non è inusuale una
costruzione copulativa come quelle viste per le espressioni di volontà:
tesR mesD mitenQdebes (TesLet MesDem mitenEnDebes) Io devo vederti
tesR mitenVT yinR debes (TesLet mitenEnValIt ThinLet Debes) Devo vederti (in futuro)
tesR mitenVT yinR qoten mas
(TesLet mitenEnValIt ThinLet Oten mas) Ho il dovere di vederti.
L'espressione di dovere pitermossiana non ha nulla a che vedere con una costruzione che indica la
sicurezza di qualcosa, comune in Italiano (es. “devo averti già visto da qualche parte”); questa forma è resa
con una espressione di pensiero qualsiasi (diretta o indiretta) coniugata con -sht finale.
Il richiamo relativo
Spesso, all'accumulo di frasi attributive si preferisce spezzare il periodo in due, e richiamare il soggetto,
l'oggetto o altri elementi della frase precedente attraverso Kel (quello) in funzione di pronome. Ad
esempio, alla frase:
feros mucQdesXT torunR vIketXT kAld^nT melemD disL des
(Feros Much-desVosIt TorunLet ViketVosIt KaledionIt MelemDem disLok des)
L'uomo del Kaledion che ha vinto il torneo, che è stato molto cruento, è qui.
Si preferisce:
torunD mucQferos desX. kelR vIketXT kAld^nT melemD disL des.
(TorunDem Much-Feros desVos. KelLet ViketVosIt KaledionIt MelemDem disLok des)
Il torneo è stato molto cruento. L'uomo del Kaledion che ha lo ha vinto è qui.
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Tendenzialmente, il richiamo relativo è il primo elemento che viene inserito nella seconda frase. Il soggetto
della frase precedente viene richiamato con KelDem o KelLet (a seconda della funzione svolta nella frase
successiva), mentre il modo, il tempo, il luogo, l'origine e la destinazione vengono richiamati attraverso le
stesse particelle della frase precedente. L'oggetto viene generalmente riportato con -Len (destinazione), ma
se la frase precedente non ha soggetto (è una frase passiva), allora l'oggetto può essere riportato con -Let
o -Dem a seconda della funzione svolta.
Periodo mediato (è che...)
Il periodo mediato, che in italiano si ha con “è che...” serve a rendere meno diretta una frase (ad esempio
“hai fatto i compiti?” “li avrei fatti, ma è che c'era un programma in TV...”). L'espressione è molto usata in
pitermossiano, soprattutto quando si sta usando un tono cortese, e si rende con -dem desht:
yinR mucQfUdesXD dew.
(thinLet much-fudesVosDem desht) è che ho avuto molto da fare.
In questo caso, -dem desht assume una intonazione sensibilmente più bassa rispetto al resto della frase, per
indicare la conclusione del discorso, e prima di esso c'è una minima pausa che, negli altri casi, non viene
mai inserita tra una parola e le sue particelle.
Impossibilità e certezza (periodo ipotetico del 3o tipo)
Per rendere quello che in Italiano è il periodo ipotetico del 3o tipo ( “se tu avessi... io avrei... [ma ciò non è
accaduto]”), si usa l'espressione -it nitDesht, “ciò non è”, oppure -it nitMasht, che significa più o meno
“ciò non si ha”, oppure ancora (ma raramente) -it nitNarisht “ciò non avviene”:
qefinQ plehW, mesD _ven.
(efin plegVer, MesDem nit-ven) se piove, non vado (non sappiamo se sta piovendo)
qefinQ plehW, mesD _venT _dew.
(efin plegVer, MesDem nit-venIt nit-desht) se piove, non vado; ma non piove...
qefinQ plehX, mesD _venX.
(efin plegVos, MesDem nit-venVos) se pioveva, non andavo (ma non sappiamo se ha piovuto); questa
struttura non esiste in Italiano, e la traduzione “letterale” sembra sintatticamente scorretta (non si dice
in Italiano “se pioveva, non andavo”!)
qefinQ plehX, mesD _venXT _dewX.
(efin plegVos, MesDem nit-venVosIt nit-deshtVos) se avesse piovuto, non sarei andato (ma non ha
piovuto...).
Analogamente, per stabilire che qualcosa di ipotetico accade o è davvero accaduto si usa -it masth o -it
desht.
qefinQ plehW, mesD _venT maw.
(efin plegVer, MesDem nit-venIt Masht) se piove, non vado (e sta proprio piovendo, quindi...)
Discorso indiretto
“ho pensato che...”, “dice che...” sono espressioni di discorso indiretto. In pitermossiano non si usa alterare
i tempi o le modalità delle azioni nei discorsi riportati. Semplicemente, si usa il discorso diretto, citando le
parole usate dal soggetto, quindi -it thinLet <sogg>Dem dais (o un altro verbo adeguato). Il discorso
indiretto può essere lungo diverse frasi; in questo caso, per evitare confusioni, si termina il periodo con un
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punto e lo si fa seguire con disLet <sogg>Dem dais. Alle volte, se il periodo è molto lungo, si preferisce
inserire all'inizio una piccola frase subordinata come disLet <sogg>Dem dais.
mesD bat nomus (mesDem Bat nomus) mi sento male
mesD bat nomusT yinR sesD dàsX
(mesDem Bat nomusIt thinLet SesDem daisVos) Egli disse che si sentiva male
disR sesD dàsX, mesD bat nomus
(disLet SesDem daisVos[KOM] MesDem Bat Nomus) Egli disse che si sentiva male
Questa particolare struttura riduce di molto la differenza tra discorso diretto (non introdotto, ma solo
riportato così com'è) ed indiretto (del quale si dice solo chi è l'agente). Nella traduzione si deve porre
attenzione a quelle sfumature che consentono di capire se l'autore intendeva riportare esattamente le parole
del parlatore (es. egli disse: “sto male”) o mediarle con proprie opinioni ( es. egli disse che stava male, ma
pareva...). Ad ogni modo questa è una distinzione quasi ininfluente in Pitermossiano.
Paragoni
Sono paragoni le figure retoriche come la metafora o la similitudine. Questa distinzione non esiste in
Pitermossiano; semplicemente ci sono due frasi, la prima delle quali è paragonata alla seconda. Si hanno
strutture di questo genere:
P1 Frase A, Frase B
P1 = così come, come, proprio come ecc. oppure
Frase A, P2 Frase B
P2 = allo stesso modo, similmente, ecc.
La “P” sta ad indicare una piccola locuzione di paragone, una struttura tipica del pitermossiano che
racchiude una “micro subordinata” in una o due parole. Ad esempio, locuzioni per la prima frase
subordinata (quella che introduce il paragone) si può usare:
sedes
konden
(SeDes) così è
(KonDen) come...
Mentre per introdurre la seconda subordinata (quella che spiega il paragone), si può usare:
semT foretmas
somdes
(SemIt Foretmas) Con la stessa “faccia”
(SomDes)
Ugualmente
E molti altri...
Per ottenere qualcosa di simile alla metafora, dove non abbiamo due subordinate distinte, ma un elemento
della principale che viene “brevemente” paragonato a qualcos'altro, possiamo usare il seguente schema:
A sedes
/ somdes / konden B+particella
A come B.
I seguenti esempi dovrebbero chiarire gli schemi:
zed sedes fasM dorR koperX
(Zed Sedes FasAm DorLet koperVos) Veloce come un fulmine, aprì la porta
vUnit somdes qortT dis lokAlD mesR ferel.
(Vunit SomDes OrtIt Dis LokalDem MesLet Ferel) Questa stanza, buia come la notte, mi fa paura.
Nel linguaggio parlato, però, si preferisce una forma molto più diretta. Le frasi appena viste possono
essere così riscritte:
zedM dorR koperX
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(ZedAm DorLet koperVos) Fulmineamente, aprii la porta
vUnitQT qrtT dis lokAlD mesR feres.
(VunitEnIt OrtIt Dis LokalDem MesLet Feres) Questa stanza “notturnamente buia” mi fa paura.
Nell'ultima frase, Vunit termina con -it, quindi l'accostamento della particella -it richiede l'aggiunta di En
per motivi fonetici; questo viene indicato in genere, ma non necessariamente con il punto prima di -it.
Per quanto riguarda le frasi con paragoni, ecco alcuni esempi:
sedes marT vAtD dest, mesD kAled dest.
(Sedes MarIt VatDem dest, MesDem Kaled Dest) Come (lo) è l'acqua del mare, così io sono libero.
mesD jut des, semT foretmas tesD bet dew.
(MesDem Jut Des, SemIt Foretmas TesDem bat Desht) Quanto io sono corretto, tu sei iniquo.
Esiste anche un così detto “paragone assoluto”: si tratta di una figura retorica che presenta un caso
iperbolico, come le locuzioni “a tal punto che...”, “così tanto che...”, “addirittura” ecc. Il paragone assoluto
si forma introducendo il verbo con la particella grammaticale sed.
kelD dedQkejalX, mesD savelR masX.
( KelDem Sed(em)kejalVos, MesDem SavelLet MasVos) Pianse così tanto che ne ebbi pietà
Persistenza
La persistenza consiste in quella caratteristica del discorso che indica che un'azione perdura o cessa di
essere: in italiano è espressa con “ancora/non più”. La persistenza può essere anche negativa, nel senso che
continua a persiste la situazione di non accadimento: in italiano “non ancora”. In pitermossiano si usa
generalmente la particella di tempo continuato “Kon” per indicare questo concetto:
liven desK.
liven _desKX
(Liven desKon) continuo ad essere vivo, sono ancora vivo.
(Liven nit-desKonVos) non era più vivo.
La locuzione non ancora, o anche “non proprio”, si rende negando la parola “adesso”, che è una parola di
tempo, e quindi viene prima di ogni altro elemento della frase:
_manin dis yinR mesD fudes
(nitManin DisThinLet MesDem Fudes) Non l'ho ancora fatto.
Relazioni di luogo
Per indicare dove si trova un oggetto rispetto ad un'altro (sopra a... sotto a..., fuori, dentro ecc.) si usa il
genitivo pitermossiano, applicandolo ai nomi di luogo:
tovel latN qalR miten
(Tovel LatBel AlLet Miten) Da sopra la torre si vede tutto.
Relazioni di tempo
“Prima di...”, “dopo di...” e “mentre” sono relazioni di tempo tra le subordinate e la principale. Abbiamo
già visto l'uso delle parole di tempo; abbiamo visto anche le parole ager (prima) e aten (dopo). Usate
all'inizio della frase, tutte le parole di tempo hanno senso assoluto, e non mettono in relazione la principale
e la secondaria; a questo scopo, la parola di tempo deve essere messa dopo il verbo della secondaria, prima
della “virgola”. Confrontate:
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qager jutR mas, disBol batR.
(ager JutLet mas, Dissol batLet). Prima avevamo giustizia, ora ingiustizia.
r^nR cerilW qager, disyinR mesD fudesQdebes.
(RionLet cerilVer Ager [Kom] disThinLet MesDem fudesEnDebes ). Prima di tornare a casa, devo
fare questa cosa.
La parola “mentre” è resa con manin che vuol dire “adesso”:
r^nR cerilW manin, disyinR mesD fudesQdebes.
(RionLet cerilVer Manin [Kom] disThinLet MesDem fudesEnDebes ). Mentre torno a casa, devo fare
questa cosa.
La particella Kom, che svolge la funzione della nostra virgola, può essere tralasciata in genere, ma quando
entrano in gioco le relazioni di tempo, si preferisce esprimerla ad alta voce per rendere chiaro il confine
della frase subordinata.
Il nome collettivo
Anche se il pitermossiano non presenta forme plurali, possiede un modo semplice per formare nomi
collettivi, che risultano singolari (come tutti i nomi del pitermossiano), ma sottintendono semanticamente
ad una moltitudine (come l'italiano “gregge” o “stormo” o “gente” ).
Il suffisso non grammaticale -dion viene aggiunto ad alcuni termini per formare i nomi collettivi. Non
trattandosi di un suffisso grammaticale è dotato di meno versatilità: si tratta di un aggiunta semantica che
in realtà si trova unita nel linguaggio comune a parole secondo regole ben codificate. Alcuni dei nomi
collettivi più comuni: melemd^n (umanità), tond^n (cittadinanza), bìwd^n (bestiame).
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Dizionario minimo pitermossiano-italiano
Pitermossiano
Italiano
dagan
drago
balak
nero
dàs
dire (v)
bamet
mano
dat
vecchiaia
bat
male
debes
dovere (v)
beg
piccolezza
decin
indicazione, evidenza
bejim
inizio
defer
protezione, barriera
bes
meglio
defol
difficoltà
betar
tradimento
dekAl
decorazione
bìnden
bellezza
dekonen
stanchezza
bìw
animale
delin
dietro
bìwd^n
bestiame
depIt
anima
bodel
corpo
derem
sonno, sogno
boken
libro
des
essere (v)
bolik
blocco
desin
disegno
bopItem
supposizione
devAs
avanti
borden
contorno
dew
essere (v)
bow
bastone
dex
essere (v)
burin
bruciatura
disBol
oggi (t)
buteg
forza
disek
apprendimento
cad
zona, regione, area
disel
deserto
càdes
intorno, dintorni,
vicinanze
disher
oggi (t)
cedan
dimenticanza, oblio
dit
fatto, atto, azione
cedun
scelta, preferenza
ditel
dettaglio
celad
riempimento
divAl
gioco, divertimento
cenig
cambio
divet
separazione
ceril
ritorno
diwam
luogo, spazio sconfinato
cised
attezione
don
sotto
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dor
porta
doregon
organizzazione
dubel
dubbio
dugon
sepoltura, cimitero
fàl
fallimento
fàn
amico
farer
fratello
fas
velocità
fer
fuoco
fored
freddo
ferel
paura
fides
fede
filet
ricamo
filìn
prcisione
finod
scoperta, ritrovamento,
trovata
fod
cibo
fol
foglio
folos
scorrimento, scivolo
folten
follia,delirio
foret
volto, faccia
forim
formica
fUdes
fare (v)
fulàn
volo
gad
dono, regalo
gerig
grigio
getun
acquisto, compera
gol
oro
gon
dio
goned
viaggio
gorep
gruppo, insieme, unione
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00.52.41 - 13/02/03
gosef
forma
hedel
giudizio
jader
prigione
jar
aria
jelod
caso (casistica, esempio)
jevil
giovinezza
jid
blu
jidev
giudice
jitBen
decisione
jIven
invio
jizen
delicatezza
juden
giudizio
jut
bontà, benevolenza
kAjil
sbadataggine
kAl
chiamata
kAlad
nube
kAn
quando?
kAnis
caccia, cacciata
kAvel
capello, capigliatura
kejal
pianto
kelen
apertura
kelet
inferno
kenig
re
kenpUn
Tempio
ker
prezioso, gioello
keric
culto, religione
kezal
incompletezza,
indeterminatezza
kImas
arrivo, venuta
kInBet
colpo
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kInul
cane
luder
altro, estraneo
kIten
gatto
maket
mercato
kobal
obbligo
màl
saluto
koled
invocazione
manet
manto, mantello
komepos
sostanza
manin
adesso, attimo
konel
conoscenza
map
mappa
konelan
verifica
mar
mare
kor
cuore
mas
avere, esserci (v)
korit
sinistra
maw
avere, esserci (v)
korunel
angolo, spigolo
max
avere, esserci (v)
kozed
completezza
mekAd
nutrimento
lahen
età
melem
uomo
laneg
linguaggio (parlare)
melemd^n
umaintà
las
prima
mes
io
lasBol
ieri (t)
metanel
trasformazione,
cambiamento
lat
sopra
metron
misura, paragone
lemel
roccia, pietra
mikAn
mela
lemen
Correttezza, benessere
mined
mente
lenos
pensare (v)
mitB
mezzo
lifum
nitidezza, precisione
miten
vista
lijel
lettura
mon
anche
likel
gusto, preferenza
mored
mandria
liken
piacere
moven
movimento
lisBen
ascolto
muc
troppo
lit
luce
munic
pasto, mangiare(v)
litev
altezza
nan
cosa ? quale ?
liven
vita
nazen
perché?
lok
posto, luogo
necit
utilità
lokAl
sala, stanza
ned
bisogno
lot
molto
nen
nulla
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nesBol
domani
recin
espansione
nesBol
domani (t)
remin
ricordo
nesìb
entità, essere
remiten
avviso, preavviso
nevel
notizia
reponed
nom
nome
sconcerto,
disorientamento
rev
fiume
nomus
sentire, percepire (v)
fiume
nos
rev
noi
revel
risposta
pàl
prestito, cosa da
restituire
ric
ricchezza
pAlen
normalità, norma
rited
destra
pArenil
sacerdote
rivel
ribellione
pArel
preghiera
rozed
ordine
pArul
perla
sakAn
parte
pepol
gente
sam
uguaglianza, stessa cosa
perevAl
profezia
sàv
cielo
pIket
bambino
savel
pietà
potes
potere (v)
sed
almeno, non meno
povel
potere (s)
sedes
così
qaher
tempo fa, una volta (t)
sekAr
quadro
qal
tutto
sel
solo, solamente
qàn
occhio
sempelim
facilità
qànes
occhi
seper
sparizione
qaregon
energia
seprin
apparizione
qaten
dopo
seripet
scritto, testo (scrivere)
qegarBen
creazione
seritel
romanzo
qelev
Elfo
ses
egli, ella
qeron
grandezza
setir
strada
qevAl
antichità
sibel
saggezza
qoten
Il dovere
sised
successo, riuscita
r^n
casa
sober
serietà
ras
razza
sodam
materia
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soken
spesso(t)
sol
sole
som
poco
sonev
Musica, canto, poesia
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sor
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brevità
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sores
causa, motivo
vAser
lavaggio, immersione
soset
sospetto
vAster
onda
soten
spegnimento
vAt
acqua
sotep
fermata, arresto
vAt
acqua
soved
mostra, disposizione
vAtem
allagamento
sukIn
luna
vàt
attesa
sures
sfera
vàlin
furto
suzen
seguito
veles
volere (v)
talit
aura
ven
andata, dipartita, viaggio
tandar
tuono
verem
dove?
tanet
testa
veset
vestito
tànpIs
pace
vet
peggio
tel
chi?
vezil
voce
telBen
storia, racconto
vIdem
immagine
ten
essi, esse
vIket
vittoria
tenat
padrone, possessore
vilem
volontà
tes
tu
vit
bianco
ton
città
vit
pausa
tond^n
cittadinanza
voder
vuoto, nulla
tor
fiera (animale feroce)
vordel
alfabeto
torun
torneo, gara
vored
Parola
toten
pensiero, idea
vos
voi
tovel
torre
vUnit
notte
tur
durezza
wireg
stretta, morsa
vàgon
peso, immane peso
wrat
magia
vàn
amore
xerin
Insegnamento
vAkerim
comprensione
xilog
scintillio
vAl
muro
ximel
sorriso
vArel
calore
xivel
sembianza, apparenza
vArkIm
battaglia
xivon
capelli
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yin
cosa, roba
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z^n
243/246
monte
ShtàrLàn - ferY
00.52.41 - 13/02/03
ferY
ferY mesT korL pànM burinK
ferY mesT vànR mesL litev
nesBolE disQmarL mesS vAserV
tesR sotenWN C nomus_W.
ferY mesT korL pànM burinK
ferY mesT vànR masL litev
nesBolE disQmarL mesS vAserV
tesR sotenWN C nomus_W.
ferY qaher mesT bodelR vArelX
manin turT vArkinN cerilKX
ferY mesT banetR qaher vArelX
kelD foredT ximarR wiregX
disBol mesR savel_M burinKX
vUnit fored dew C mesD sel liven
ferY mesT korL pànM burinK
ferY mesT vànR masL litev
nesBolE disQmarL mesS vAserV
tesR sotenWN C nomus_W.
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ShtàrLàn - bejimD
00.52.41 - 13/02/03
bejimD
lokAlD qortC disel dewX. lemelT vàgonT donL, disD dorR vIndelR
_masX. lokAlT tenatD qalQdisR _nedX.
sedes livenT yin boren,sedesR kelT livenD lit dew, somQlitD qeronT diwamL
kInBetM bejimKX. somQqaten qortT korunelD _desKX.
lokAlR litXT sures donL kel manin 2 suresD seprinX. gosefD mucQlifum
metanel, 2 melemT gosefR metanelX.
-jutven- losT 1D dàsX. sesT bodelR talitD bordenX.kor somdes gorepM
kelD xilogKX . nesQ kelR potesQjudenT yinD ludenT lihegon masX, sesT
lihegonD jut desX. ricT golT filetC kerT pArulF dekAlXT vàgonT manet R
vesetX. fulàn ditQT daganR kArulC filetD desinXT dew. sesT poretD pIket
sedes qànesR kerneletXQnes, gerig kAvekD datT lahenR betarKX. sed lahenT
gosef.
-dagansen, dis kAlT motenD nanR dew?- tanetM mucQgàlem desXT luderT
vezilD destXt. vUnitM jidJ vesetR kelD vesetX. filìnT rozedT xivonD
latT foretL jizenM lokKX. nestQ dagansen somdes jizenT telitD monQsesR
càdesKX, sesT mucQbuteg xivelX.
lokAlT sentrumL jarTmitBL pItermosT mapD xivelXt. latC zionC vAt^nC
latT marT vAsterR fIdesM sovedKX. begT cadD sekArT yin E ditelD fasM
vAtemKX. qalQtonC linR x imelWT setirC revR folosQ mitenQ potesX, nesQ
cisedT mitenPD forim sedes movenR mitenQ potesX.
-deremD fudewX- disR dagansenD revelX. luderT gotD ximelX. qaher, monQ
sesD melem desXt; cedan_D potesQ maw. new melemD derem, voder mas; nest
_melemD linegXt. dagansenD dewXt, melemd^nL dganT senC besT qevAlT got
mawN sesT derenD perevAl dewX. sedes somQqaten sesR lisBenQdebesVT voredT
vàgonD kobalX, warT melemD soberR venX.
disM dagansenD suzenX -mesT farer, somQqager mesT pArenilD kAled^nL mesT
nomR koled_KXT yin R vAkerimX. sosetR masXN konelanQ velesX- mapT
sakAnR decinXT yinF disR dàsXC -nestQ _yin _pAlen finodX.warreselD dubel naristXt. nestQ sesT kericD jutM doregonX, domQher
fidesR 1T sesT pArenilD _jIvenWG didesPT cerilD somQ soresN fàlWT yin
mastX.
-mesT fàn, mesT jelokR disD -maw- dagansenD dàsX, kelD luderT minedR
lijelKXN. - disM sempelim se _des. somdesQ mesD dàs, mesD kAjilT pArenilR
_finodQsisedXT yinD _pAlen dew. tesT minedR mitenX, nenD mas.luderT gonT foretmasT xivenD metanelQbejimX. qefinQ disD veles, gonD qalR
konelQpotes.dis_D qefinQ semT povelT somyinD disR bolik.
dagansenD vezilM suzenX – disyinR monQmesD totenX. disN deremQjitBenX -
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ShtàrLàn - bejimD
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dorT vit qatenQ gonD devasL gonedX. - mesD qegarBenPCsesT 2rasR deremX.
farT warN kImasXT pepolD sesT jidel desXT qarkAngelC qasemodesR
qegarBenX. qegarBenPT povelN jidelT rivelR deremXC, jidelT kAnisWC
kelerL jadelWE qegarBenPD gorepXT yinR mitenX. qalQdisR nosD konelXvordR vàgonWN gonD sotepX.
-mesD qegarBenPT kImasR DeremX. qasemodesT qegarBenD kImasV, pItermosR
mekAdV. sesT lanL voder mas, nosT bodelR nosT depItR nosE mekAdQ kImasV.
kelN nosR sesT D fodWT morad dew.sàvT senD reponedM lisBenX.
kezalM remiten_M gonT vIdemD seperX manin, sesT _sodamT komeposD
qalQlokAlR recinM celadKX. masQ 2 divetT nesìb des, 1yin narisXt. gorepM
jitBenD fasX. kelD qeronT desin masXT yinR melemT minedD konelWT yinD
_pevel.
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ShtàrLàn - Giancarlo Niccolai