Giovanni Guazzone
Melodrammi giocosi in maschera
Don Giovanni
Il Barbiere di Siviglia
Falstaff
Sul filo d’Arianna della Lirica
I personaggi
I luoghi
I libretti chiariti
Progetto grafico Emilio FM Guazzone
MUNARI edizioni
Ringraziamenti
Ringrazio nuovamente Chiara Guglielmi, mezzosoprano d’agilità e redattrice
editoriale esperta, per l’attento e preciso lavoro di revisione.
I disegni di copertina e del frontespizio sono di Emilio FM Guazzone
Copyright
Titolo del libro: Melodrammi giocosi in maschera
Autore: Giovanni Guazzone
© 2013, Giovanni Guazzone
[email protected]
isbn: 978889770145-3
TUTTI I DIRITTI RISERVATI. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi
mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta dell’Autore
Dedico questo libro al mio povero
figlio Stefano, innamorato della
musica di Mozart e dei suoi personaggi, come Don Giovanni e
Leporello, con i quali avrebbe voluto condividere le maschere; non
so se li avrà incontrati, ma certo
ha incontrato il Commendatore e
la sua dura mano di pietra che se
l’è portato via.
INDICE
9
Prime percezioni melodrammatiche
21
Nota sui libretti d’opera
25
Schema tipo per ogni melodramma
opere
27
67
Don Giovanni
Libretto del
Don Giovanni
musica
libretto/ testo
anno
W.A. Mozart L. Da Ponte 1787
165
189
Il Barbiere di Siviglia G. Rossini
Libretto del
Barbiere di Siviglia
C. Sterbini
1816
291
315
Falstaff
Libretto del Falstaff
A. Boito
1893
G. Verdi
PRIME PERCEZIONI MELODRAMMATICHE
Il Melodramma, cioè l’Opera, è il genere più divertente della
musica colta; forse perché all’arte musicale unisce quella teatrale e la poesia: c’è molto da sentire e molto da vedere. Il suo posto è il Teatro, come la pinacoteca lo è per la pittura.
Purtroppo i frequentatori del teatro possono essere solo pochi, troppo pochi, ed anche fra quei pochi sono in realtà pochissimi quelli che riescono a capire completamente tutto quello che succede sul palcoscenico: si godono le arie più famose,
ma spesso non si capiscono i “chi”, i “dove”, i “quando”, e i
“perché”.
Perfino gli orchestrali concentrati nel golfo mistico vedono
bene il direttore e le partiture (ci mancherebbe!) ma della vicenda che avviene sul palco, sulle loro teste, non percepiscono
molto; non l’ho scoperto da solo ma ne ho avuto conferma sicura da valenti professori d’orchestra, miei vecchi amici.
Quindi questo libro è diretto anche a loro, oltre che ai professori e agli studenti delle università e delle scuole superiori
dove si insegna di tutto ma quasi niente di musica, l’unica lingua veramente universale.
Finalmente, grazie a Internet, alle TV (quando mandano in
onda opere sottotitolate), ai DVD ai CD, e al prodigioso ritorno dei dischi in vinile, il pubblico del melodramma potrebbe
crescere molto.
Il mio modesto contributo, per ora di soli tre libri, riguarda i
libretti d’opera originali, faticosamente reperiti o riportati
all’originale, chiariti in tutti i punti dove sia opportuno; vi sono
descritti i personaggi, i luoghi, i tempi e le più verosimili intenzioni degli autori, nel quadro più semplice possibile della storia
sociale del loro mondo, comprese le curiosità più documentate.
9
Il mio lavoro si giustifica su due convinzioni di base:
1. Non si può capire e godere il melodramma se non si studia il Libretto d’Opera, meglio se recitando, leggendolo dentro
di sé.
2. Non esiste una forma di spettacolo migliore che nel tempo possa fare da “ponte” tra la musica più popolare e la musica
più colta.
Per coloro che si accostano per la prima volta al melodramma mi permetto di dare un modesto consiglio da autodidatta: iniziare con la Norma di Bellini, il Rigoletto di Verdi, Il Barbiere di Siviglia di Rossini: opere affascinanti e con musiche facili
da capire e bellissime (anche col solo ascolto) e poi tutti gli altri; finire magari con il Don Giovanni di Mozart, che ha un testo
facile e divertente e musiche bellissime, eccezionali, non facili.
A proposito del Don Giovanni viene a mente quello che disse
l’Imperatore d’Austria Giuseppe II (musicofilo acculturato):
“… l’Opera è divina; è forse più bella del Figaro…, ma non è
cibo pei denti de’ miei viennesi”. Riferita la frase a Mozart, lui
ribatté, senza scomporsi: “Lasciam loro tempo da masticarlo”.
Seguiamo anche questo consiglio.
Questo terzo libro si dedica a tre compositori, Mozart, Rossini, Verdi, i giganti più famosi in tutta la storia della musica lirica, che spazia dall’invenzione seicentesca di Claudio Monteverdi ai capolavori novecenteschi di Giacomo Puccini.
I tre melodrammi “giocosi” scelti, Don Giovanni, Il Barbiere di
Siviglia e Falstaff, sono senza ombra di dubbio i più importanti e
i più belli che siano mai stati composti in questo genere.
Sono opere molto diverse fra loro, per la musica, per la poesia dei versi, per l’epoca, per le scene, per i caratteri sociali e
morali, ma in tutte e tre giocano un grande ruolo i travestimenti e le maschere, per offendere o per difendere; ma anche per
noi: per farci impressione, per stupirci di cambiamenti repentini o inverosimili e per farci ridere.
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A me vien fatto di paragonare questi tre capolavori per tentare di rilevarne analogie e differenze. Per quanto riguarda la
musica, anche per un cultore amatoriale come me è chiaro che
più diverse di così le tre opere non avremmo potuto immaginarcele.
Ci lasciano a bocca aperta le trovate e le burrasche armoniche di Mozart, ripartite in scene e scenette chiuse, in tempestosi duetti, trii, etc. fino ai sestetti intercalati e concertati; invece,
di Rossini spiccano le melodie e le canzoni deliziose, con i suoi
“crescendo” entusiasmanti; e infine ci stupisce la modernità
inaspettata del Grande Vecchio Verdi, con ritorni ad arie e
duetti quasi vuoti, quasi deludenti, ed effetti strepitosi da carnevale immaginario; tutta questa differenza nasconde però
qualche somiglianza non trascurabile nei libretti, specialmente
nei sottintesi di Mozart e di Verdi. Il Grande Giovane e il
Grande Vecchio per ragioni diverse non erano ottimisti come il
Rossini del Barbiere; il mondo di Don Giovanni e di Falstaff è
un “vero” sostanzialmente falso; Mozart conclude: “… e noi tutti, buona gente,/ Ripetiam allegramente/ L’antichissima canzon./ Questo è il fin di chi fa mal; E de’ perfidi la morte/ Alla vita è sempre
ugual”.
Giuseppe Verdi chiude la sua opera buffa: “Tutto nel mondo è
burla./ L’uom è nato burlone,/… Tutti gabbati!”.
Entrambi questi uomini di teatro ci fanno vedere il mondo
come è esagerando gli aspetti morali e sociali: Mozart, con la
favola a colpi di scena da superba Commedia dell’Arte, Verdi,
con lo scherzo violento e la carnevalata. Probabilmente anche
Mozart avrebbe condiviso la frase di una famosa lettera di Verdi, con evidenti riferimenti critici ai contemporanei successi del
Verismo: “…Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il
vero è meglio, molto meglio.”
Dal punto di vista della storia sociale del melodramma Mozart e Rossini coinvolgono gli spettatori del loro Teatro
d’Opera in quel grande sviluppo dello spettacolo musicale che
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evolve dal secolo dei lumi, il ‘700 di Mozart, divertente ed elegante ma anche licenzioso, scettico, ambiguo e perfino cinico,
verso gli inizi del lontano romanticismo ottocentesco.
Rossini rappresenta per noi il più significativo passaggio fra
i due secoli, con la riscossa dei sentimenti veri, tesi alla vittoria
della felicità sulle miserie umane.
Verdi ha composto Falstaff alla fine della sua carriera, si potrebbe dire alla fine del romanticismo in musica; l’opera comica
nell’800 è andata declinando sempre di più. Verdi, dopo
l’insuccesso dei primi tentativi giovanili non si è mai dedicato al
comico nel melodramma, salvo varie mescolanze di generi come nel Rigoletto, nel Ballo in maschera e in qualche altro melodramma fondamentalmente serio. Ma col Falstaff il Grande
Vecchio ha colto con molto gusto l’occasione di prendere allegramente in giro l’umanità dei ceti dominanti, in fondo sulla
falsa riga di Shakespeare, ma accentuando l’inevitabile tolleranza delle burle e della risata: burle di cui i suoi personaggi sono
autori e vittime.
Mozart è il musicista insuperabile nell’arte dell’armonia, degli equilibri e degli squilibri armonici; l’armonia sempre più
complessa esalta le fantasie, raggiungendo atmosfere superlative, dove le cose umane sono viste dall’alto, oltre i sensi più
comuni; come nelle favole più famose l’amore si confonde con
il divertimento e con la morte; la morte e la vita sono sullo
stesso piano, come le trattano le maschere di un fantastico Teatro dei Burattini.
Per Mozart il padrone, il servo, il matrimonio, il tradimento,
l’amore, la gelosia e la morte, sono aspetti della vita umana che
lui guarda e racconta come un entomologo innamorato dei suoi
insetti; cioè descrive entusiasta quello che vede, senza condizionamenti morali, che ci sono ma che restano nello sfondo,
come la cattiveria e la gioia nelle favole più straordinarie. Anche il tragico finale del Don Giovanni colpisce più che altro per
la durezza della mano di pietra che ghermisce il protagonista
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senza scampo, ma poi si volatilizza nel fumo e nella nebbia
dell’inconscio.
La musica sublime e magica, e quell’ambiguità, dietro le maschere e i travestimenti, fra giusto e ingiusto, fra bello e brutto,
fra dolce e amaro, fra riso e pianto, rendono lo spettacolo del
più famoso melodramma di Mozart (e Da Ponte) ineguagliabile, non privo di discussioni, ma certamente lo pongono fra i
primi posti nell’arte dell’Opera Lirica di tutti i tempi.
Un bozzetto di scena per il film Don Giovanni di J. Losey, 1979. Nel film, la casa di
Don Giovanni è la Villa La Rotonda del Palladio
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Se Mozart è il mago dell’armonia, Rossini è piuttosto il mago della melodia, strumentale e soprattutto vocale, dove il sentimento emerge su tutto; naturalmente le scene del Barbiere, cioè i
recitativi, sono semplici come le narrazioni dei “cantastorie”, ma
le vicende si caricano di luce e di colore con i famosi “Crescendo Rossiniani” a scala dinamica, così tesi verso i momenti salienti delle vicende e concretizzati da arie molto note in tutto il
mondo.
Il melodramma di Rossini si stacca progressivamente dal
classicismo settecentesco, esaltando il valore dei sentimenti e
precedendo la travolgente rivoluzione romantica, ma senza le
voragini della tragedia. Anzi, pur eccellendo anche nella composizione di opere serie, degne del Grand-Opéra, Rossini ha
realizzato i massimi successi dell’Opera Buffa all’italiana.
Come i maggiori melodrammi di Mozart anche molti di
quelli di Rossini hanno nel titolo l’aggettivo “giocoso”, ma senza l’ambiguità del grande austriaco. Rossini adora la strada ottimistica dell’opera buffa, con la quale punta con destrezza alla
ricerca della gioia e della felicità, cioè all’obiettivo a cui dovrebbe tendere il genere umano. (Naturalmente non sono l’unico né
il primo a dirlo). Anche per lui le “maschere” sono importanti
ma le sue non sono né mutevoli né ambigue, assomigliano a
quelle della Commedia dell’Arte o di Goldoni, più o meno
sempre quelle: il ricco prepotente e burbero da infinocchiare, la
bella creatura femminile abile e amabile, il giovane ardimentoso
e brillante che si dimostra migliore del previsto, il servo astuto
capace di “miracoli” per ottenere un lauto premio, che ruota
sempre attorno alle solite monete d’oro, quell’oro che ha il rovescio nella capacità di corrompere chiunque, ma ha anche il
recto che sostiene la vittoria della felicità.
Qui Rossini è rappresentato dal suo massimo capolavoro
del 1816, quando era felice del suo mondo, della sua vita di
uomo di successo e di grande musicista fino agli anni 1820,
quando la storia sociale della musica viene invasa dai sentimenti
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di massa, sorti dopo la Rivoluzione Francese ed esacerbati dal
conservatorismo della Restaurazione Post-Napoleonica e quando
l’interesse del pubblico si sposta in Italia, ma non solo in Italia,
verso le passioni forti delle opere di Donizetti, Bellini e poi di
Verdi.
I personaggi del Barbiere di Siviglia, disegni di Emanuele Luzzati
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Verdi è un compositore capace di eccellere in molti generi,
ma nessuno come lui ha dimostrato l’arte del teatro in musica;
le sue opere sono composte con un’attenzione alle scene, alle
parti, alla regia teatrale dell’insieme e dei dettagli come nessun
altro nella storia della musica e come pochi altri nella storia del
teatro di prosa.
Il 9 Febbraio 1893, alla Scala di Milano si dette appunto il
Falstaff, l’ultimo capolavoro del grande musicista. Verdi aveva
ottant’anni ed era presente in teatro. Fu un successo clamoroso
esaltato da un gran numero di critici venuti da tutto il mondo e
da un pubblico vario, dove si fecero notare Puccini, pochi
giorni dopo l’acclamata Manon Lescaut, ma anche il giovane Mascagni, fresco del successo di Cavalleria rusticana, Leoncavallo,
sicuramente il giovanissimo Toscanini, e perfino grandi scrittori e poeti come la Serao e il Carducci, felice questo di essere
stato abbracciato e baciato dal Grande Vecchio. Insomma un
trionfo con ripetute chiamate al proscenio a cui Verdi fece partecipare anche Boito giustamente e generosamente. L’evento si
ripeté in varie sedi teatrali importanti e nello stesso modo il 15
Aprile a Roma, alla presenza dei reali di Savoia Umberto e
Margherita.
Sir John Falstaff,
disegno di Emanuele Luzzati
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Scrivere di Verdi non è semplice: come per Mozart anche
per lui la bibliografia è enorme, sia per la quantità degli scritti
sia per il livello degli autori. Mi guardo bene da tentarne una
sintesi e dò per scontato che tutti sappiano chi è Giuseppe
Verdi, il più grande musicista italiano ed uno dei migliori del
mondo, di tutti i tempi.
In questo libro mi limito a riferire notizie e curiosità del
Grande Vecchio del Falstaff come se si trattasse di un altro musicista, del tutto nuovo, diverso anche dal Verdi post-romantico dell’Aida.
Chiudo questa premessa aggiungendo poche parole sul rapporto che traspare evidente fra questi tre grandi musicisti, Mozart, Rossini e Verdi, e il ceto dell’aristocrazia, della nobiltà, dominante sul loro mondo, ben presente in questi melodrammi.
Ricordiamoci che Don Giovanni è un Hidalgo, cioè un nobile spagnolo di rango non inferiore a Cavaliere; Almaviva è un
Conte; Sir John Falstaff (veramente vissuto come Sir John Oldcastle) è un Lord di vecchia stirpe, assolutamente classificabile
come nobile.
Per Rossini Almaviva è un nobile perfetto, simile a quelli
che frequentava nella vita con reciproca soddisfazione; la classe, la ricchezza, il buon senso, lo individuano come un esempio
di nobiltà d’animo felice, finalmente ammirevole.
Sia Mozart che Verdi non credono invece alla “nobiltà” dei
nobili, cioè ad una loro perfezione formale e sostanziale; con le
dovute eccezioni questa constatazione è condivisa da vari scrittori famosi, in tutti i tempi (a casaccio mi vengono in mente
Victor Hugo e Alessandro Manzoni); ciò porta a confermare
quello che ormai ci appare ovvio, cioè che la “nobiltà” d’animo
e d’azione non può essere acquisita per nascita (e ne sappiamo
qualcosa proprio noi per recenti esperienze).
Come si è già detto, Mozart e Verdi, in modo indiretto il
primo e in modo manifesto il secondo, mettono la falsa nobiltà
in berlina. Don Giovanni mostra che la giovinezza elegante, la
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forza, la ricchezza e il coraggio (o la temerarietà) non bastano a
un libertino per testimoniare la sua appartenenza ad un ceto
nobile; perfino il suo cappello piumato diventa ridicolo.
Per Sir Falstaff, Verdi non si affatica a mettere in crisi la sua
nobiltà di Lord: il titolo aulico proprio non s’addice alla sua
obesità ingombrante e invadente, alle sue bugie e alle sue truffe,
alla sua diplomazia a dir poco sciocca e volgare, ma il Grande
Vecchio è abile a declamare il lato “goliardico” delle malefatte
del grassone, senza metterne in rilievo il dolo criminale e quindi
tragico (che invece ribolle nelle stanze di Don Giovanni). Peraltro, anche le maschere e i travestimenti, come i nomi falsi e i
nascondigli poco credibili che Boito propone all’allegra adozione del gran compositore, restano qui nel Falstaff al livello di
burla e di carnevalata.
Concludiamo queste osservazioni cercando di riassumerle
sinteticamente e paragonandole alle definizioni dichiarate o sottintese che i tre grandi compositori ci hanno trasmesso con i
titoli delle loro fantastiche Opere.
Quella di Mozart è una “novella capolavoro”; non si finirà
mai di sostenerne l’ambiguità nei contenuti e nella musica; quasi che lo stesso Mozart avesse immaginato di permettere piena
libertà di interpretazione a chi leggerà e racconterà la sua storia
in musica. Questo è di fatto avvenuto e sta ancora avvenendo:
regia, scene, costumi sono sempre diversi, figuriamoci le esecuzioni musicali, a cominciare dalla scelta delle voci di Giovanni e
di Leporello, per non parlare di Elvira e degli altri personaggi
più o meno infatuati; perfino libertà nei dettagli, come quello
non comune di marcare la chiusura delle scene e il passaggio
alle successive con arpeggi di accordi anche bitonali. A me piace molto la vecchia interpretazione di Fritz Busch del 1936, e
ringrazio Giuseppe Rossi di averla sottolineata, con lui trovo
valide anche altre versioni, come per me quella di Abbado del
1998, e quella di Muti del 2001 nello stile toscaniniano di Busseto del 1913.
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Quindi non ci è permesso altro che aggettivare la definizione
che Mozart stesso ha scelto: il Don Giovanni è un Dramma giocoso,
(né buffo né tragico, ma buffo e tragico).
Il capolavoro di Rossini è un’opera divertente, cristallina,
che deve essere letta e raccontata come la voleva Rossini, che
stigmatizza quello che deve essere rifiutato e esalta quello che
ogni cuore civile dovrebbe desiderare: la brillante conquista
dell’amore di due bellissimi giovani, nonostante le “inutili precauzioni” dei vecchi ignobili borghesucci.
La definizione sintetica del Barbiere di Siviglia di Rossini potrebbe essere: “la Vittoria della Felicità”, il massimo ottenibile
da una perfetta Commedia con musica.
Il Falstaff di Verdi dovrebbe soprattutto far ridere, come lui
voleva, anche se alcuni esperti, come scrive il massimo direttore verdiano Riccardo Muti nel suo ultimo libro, vi riconoscono
un vago specchio autobiografico: come se Verdi paragonasse se
stesso a Falstaff con autoironia, per aver perso anche lui la passata statura di prestante uomo di grande successo, suggerendolo però con molta eleganza; un’eleganza che maschera la sofferenza, e perfino un’auto-preparazione del Grande Vecchio alla
morte, come lo fu il Parsifal per Wagner.
È possibile; ma il capolavoro di Verdi, nonostante la sua
modernità che qualcuno ha battezzato “difficile”, deve far ridere, o sorridere, dall’inizio alla fine: perciò il grassone deve essere obeso, i personaggi, i costumi e le scene devono essere spinti
sul carattere moderatamente eccessivo; la critica sui falsi nobili,
sui falsi borghesi arricchiti, e sull’astuzia femminile, che accarezza una punta di femminismo (ridimensionata dalla solita destinazione della più giovane all’amore vincente) devono rimanere superati dalla conclusione bonaria e un po’ cinica, che invita ad una risata di adattamento consolatorio: Tutti gabbati! Tutto d’intorno è burla!”.
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La definizione sintetica del Falstaff è che Verdi fa di una storia umoristica e amara all’inglese un’opera buffa del tutto nuova, una Commedia Lirica fatta per tollerare, sorridere e ridere di
tutto e di tutti, senza altri aggettivi.
Copertina del libretto di Falstaff, edizioni Ricordi, 1893
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NOTA SUI LIBRETTI D’OPERA
(Le indicazioni che seguono sono tratte sommariamente dalla nota apparsa
con lo stesso titolo e con maggiori dettagli nei due volumi precedenti a cui si
può fare riferimento, con qualche considerazione in più nelle ultime pagine
di questa premessa).
Non tutti sanno che i libretti delle opere liriche sono quasi interamente scritti in versi.
Storicamente vi è stata una vera identificazione fra poesie e
canti monodici e polifonici, documentata da terminologia comune, come: sonetto, madrigale, canzone, etc…
Per i Libretti d’Opera si può aggiungere che mentre le Arie
cantate (con ripetizioni e varianti) sono generalmente versificate in strofe, i Recitativi sono costituiti da versi più o meno liberi.
Comunque i versi possono essere interi su unica riga di
scrittura oppure spezzati in più parti, disposte su righe diverse,
in successione da sinistra a destra, se le parti sono cantate da
personaggi diversi, o con pause e movimenti variati dello stesso
cantante.
Senza addentrarsi nel difficile campo della Metrica e della Stilistica, è forse interessante riportare alcuni esempi dei versi più
adottati in questi Libretti; fermo restando che i versi possono
essere irregolari per eccesso e per difetto. Non si può tralasciare di ricordare che nella poesia le sillabe metriche (ritmiche)
non coincidono sempre con quelle grammaticali; sicché in un
verso il numero delle sillabe m. è quasi sempre diverso da quello delle sillabe g.
Certamente i versi più comuni dei Libretti sono i settenari (7
sillabe m.), notoriamente i più cantabili:
“… Ma quando vien lo sgelo/ Il primo sole è mio…”
(La Bohème, Giacosa e Illica - Puccini)
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Anche gli ottonari (8 sillabe m.), più adatti alla declamazione
ed alla narrazione, sono molto usati:
“… Casta Diva, che inargenti/ Queste sacre antiche piante…”
(Norma, Romani - Bellini)
Gli endecasillabi (11 sillabe m.) sono molto elastici, si prestano a qualsiasi occasione:
“… Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro…”
(Don Giovanni, Da Ponte – Mozart)
I decasillabi (10 sillabe m.) nei Libretti sono molto impiegati
per occasioni drammatiche o invettive stentoree, ma anche per
sillabazioni ironiche od elencazioni ossessive:
“… Non più andrai farfallone amoroso,/ Notte e giorno d’intorno girando…”
(Le Nozze di Figaro, Da Ponte – Mozart)
Anche i dodecasillabi (12 sillabe m.) sono spesso presenti nei
colloqui o nelle invettive:
“Uccider quel gobbo!... che diavol dicesti!/ Un ladro son forse? Son forse
un bandito?”
(Rigoletto, Piave – Verdi)
A guardar bene però questi versi sono doppi senari (6 sillabe
m.), che uniti danno più forza alla declamazione.
Anche i doppi settenari sono usati (qui da Rossini e Verdi)
per facilitare una musica vocale fluida, variata, e talvolta danzante:
“Di sì felice innesto serbiam memoria eterna,
Io smorzo la lanterna, qui non ho più che far”
(Il Barbiere di Siviglia, Serbini - Rossini)
“So che se andiam di notte
Quel tuo naso ardentissimo
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di taverna in taverna
mi serve da lanterna”
(Falstaff, Boito – Verdi)
Un altro capitolo della metrica riguarderebbe la posizione
delle “sillabe” accentate (ictus), che cambiano il ritmo e l’effetto
dei versi, ma che i cantanti lirici, per esigenze tecniche o per
esibizioni virtuosistiche, spesso non rispettano.
Seguire sul libretto il melodramma durante la manifestazione diventa difficile quando più di due personaggi cantano insieme versi differenti che la poesia del librettista articola su pagine diverse, così come le ripetizioni espressive introdotte dal
compositore, ripropongono anche più volte testi già letti perché già cantati. Per non confondersi è consigliabile anticipare
una prima lettura del libretto a casa propria in modo da appropriarsi della vicenda e dei suoi contenuti.
Il modo di leggere un libretto d’opera dovrebbe essere lo stesso
che si usa per una poesia: recitarla in silenzio fra sé e sé; non
importa se bene o male, importa recitarla. Poi vedendo l’opera
o ascoltando la registrazione capiremo meglio (… Questo sì…
Ma no!…) il divertimento, anzi il piacere raddoppia.
Può capitare anche che nel corso delle rappresentazioni a teatro i testi cantati non coincidano con quelli originali: succede
talvolta che il direttore e concertatore imponga variazioni e riduzioni per favorire i cantanti o per seguire prassi entrate
nell’uso.
Ricordo che queste pubblicazioni hanno scopi di divulgazione e di promozione; per questa ragione gli argomenti sono
semplici, brevi, i testi ordinati in modo diverso dal solito, i libretti d’opera completi ma presentati in modo più comprensibile del solito.
Nei Libretti qui trascritti, le parti più belle o più significative sono stampate in grassetto.
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SCHEMA TIPO PER OGNI MELODRAMMA
Inquadramento in poche righe (tempo e
luoghi)
Personaggi
(con citazioni dei versi del libretto)
Percezioni melodrammatiche e approfondimento della vicenda (con poche citazioni c. s., e qualche rilievo sulle musiche più note)
Luoghi citati e scene
(cartina geografica – immagini)
Curiosità e storie: Personaggi e Autori
(immagini)
Il Libretto originale. Note laterali a margine e significato delle parole e delle frasi
oscure. Confronti con brani dei testi da
cui è tratto il soggetto.
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DON GIOVANNI
Don Juan and the statue of the Commander, Alexandre-Évariste Fragonard, ca 1830–35
“Tutto a tue colpe è poco/ Vieni c’è un mal peggior”
Mozart / Da Ponte
Fig. 1 – La Spagna con le regioni e le città coinvolte nella vicenda
Fig. 2 – Frontespizio del Dom Juan di Molière
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Don Giovanni
IL DISSOLUTO PUNITO o sia il DON GIOVANNI
Dramma Giocoso in due atti (1787)
Wolfgang Amadeus Mozart – Lorenzo Da Ponte
La scena si finge in una città della Spagna (Fig. 1). (Per Tirso de
Molina a Napoli e a Siviglia, per Molière a Catania, per Gazzaniga e Bertati a Venezia).
Tutta la vicenda del Don Giovanni di Mozart avviene in modo incalzante nell’arco di tempo non troppo superiore alle ventiquattro ore.
Sembra ormai dimostrato che il nucleo narrativo del Don
Giovanni fosse noto in Italia e forse in altri paesi europei fin dai
primi anni del 1600, specialmente a Napoli grazie alla diffusa
attività della Commedia dell’Arte, prima che in Spagna.
Il melodramma di Mozart e Da Ponte però trae il soggetto
da vari autori a partire dalla commedia completa in tre giornate
di Gabriel Téllez, drammaturgo spagnolo, frate mercedario, noto come Tirso de Molina (El burlador de Sevilla, y Convidado de pietra) del 1630, ma anche dalla commedia parigina di Molière
(Dom Juan ou Le festin de pierre) del 1665 (Fig. 2) e ancor più dal
libretto versificato da Giovanni Bertati per un’opera di Giuseppe Gazzaniga (Don Giovanni o sia Il Convitato di pietra) data a
Venezia nel 1787, e forse replicata a Vienna poco prima del
Don Giovanni di Mozart.
A parte il protagonista, gli altri personaggi hanno generalmente
nomi e ruoli diversi. Ad es.: il Commendatore di Calatrava per
Tirso de Molina è Don Gonzalo De Ulloa, e il servo del libertino
non si chiama Leporello ma Catalinón. Per Molière il nome del
servo di Don Giovanni è Sganarello e per Bertati Pasquariello.
29
Mozart / Da Ponte
Fig. 3 – Illustrazione dei personaggi del Don Giovanni
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Don Giovanni
PERSONAGGI
I personaggi principali (Fig. 3) sono: Don Giovanni, Leporello,
Il Commendatore, Donna Anna, Don Ottavio, Donna Elvira, Zerlina,
Masetto.
DON GIOVANNI (secondo alcuni anche Tenorio, cioè
seduttore), basso o baritono; la locandina del libretto d’opera lo
presenta come giovane Cavaliere estremamente licenzioso, a cui si potrebbe aggiungere: di bella presenza, aristocratico, ricco, apparentemente ben conosciuto e di successo, ma anche autoritario,
nonostante la sua carica libertaria, non priva di generosità per
le gioie terrene da vivere tutti i giorni (Figg. 4-5). Avvilendo il
giudizio, si potrebbe anche qualificarlo col linguaggio moderno:
“donnaiolo”; infatti a suo dire e a testimonianza del servo Leporello ama le donne, tutte le donne, dalla Duchessa alla contadinella, per le quali passa da episodi di vita felice e spensierata
ad eccessi riprovevoli e a drammi cruenti, come se fossero imprevisti naturali, sempre superabili con una scrollata di spalle e
da scordare con l’impellente ricerca di nuove avventure e di
nuove vittorie. L’appellativo di seduttore (tenorio) sembra si
riferisca alla preferenza di Don Giovanni verso le giovani e
giovanissime perché illibate (e questa è una tendenza che avvicina il personaggio più a Da Ponte che a Mozart). Don Giovanni anche nelle sole ventiquattrore dell’Opera di Mozart persegue diversi incontri mirati a conquistare varie figure femminili, senza distinzioni e senza scrupoli, che ne “sgualciscono”
l’immagine di nobiluomo ma ne arricchiscono il fascino di
conquistatore nel gradimento del suo pubblico, come a noi
succedeva nel ’900 per molti vip imposti alla nostra fanciullezza
incantata, come Rodolfo Valentino e Porfirio Rubirosa. Aggiungo “potenziale” conquistatore perché nel corso totale
dell’Opera sembra che Don Giovanni concluda molto poco.
L’inizio del melodramma impressiona, o sarebbe meglio dire
esplode, con l’infelice esito di un azzardato tentativo di stupro
da parte di Don Giovanni verso una bellissima damigella,
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Mozart / Da Ponte
Figg. 4-5 – G. Engelman, Costume per Monsieur Garcia per Don Juan; Ruggero Raimondi è Don Giovanni, nell’omonimo film di Joseph Losey, 1979
Fig. 6 – José van Dam è Leporello, nel Don Giovanni di Losey
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Don Giovanni
Donna Anna, abitante in un palazzo patrizio confinante col
suo. Aggredita di notte da lui, Donna Anna lo scambia per
Don Ottavio, suo promesso sposo, che era momentaneamente
ospite del futuro suocero, il Commendatore di Calatrava (una
specie di prefetto in pensione).
Non si saprà mai a che punto il tentato stupro si interrompe
(lei ne farà un resoconto semplificato a Don Ottavio) ma è ovvio che la scoperta dell’errore di persona faccia urlare di rabbia
e di sconcerto la damigella inducendo alla fuga il birbante, stranamente trattenuto con tutte le forze dalla stessa Donna Anna,
forse per riconoscere il suo aggressore. Il subbuglio che ne deriva sveglia e richiama il vecchio padre, il Commendatore, che
armato e coraggioso blocca momentaneamente la fuga di Don
Giovanni. Questo, nella smania di non farsi riconoscere dai vicini di casa e punto sul suo orgoglio di spadaccino, affretta
l’impari duello notturno col vecchio, con pochi avvertimenti, e
lo uccide.
Fuori, all’ingresso del palazzo da cui esce correndo, lo aspetta il fido servo Leporello, che ironizza e alleggerisce il dramma
con divertenti battute appropriate (sia nella versione di Bertati
che in quella di Da Ponte) e stigmatizza l’ennesima “prodezza”
del suo padrone con un misto di sdegno e di ammirazione: “…
Chi è morto, voi, o il vecchio?…” e poi: “Bravo/Due imprese leggiadre/Sforzar la figlia ed ammazzar il padre.”
LEPORELLO, basso o basso-baritono comico, servo di
Don Giovanni, è sempre attaccato a lui o è da lui intimamente
coinvolto in tutte le sue imprese. Don Giovanni e Leporello
identificano le due facce (viene voglia di dire le due maschere):
azione e coscienza dello stesso peccatore, con probabili allusioni autobiografiche degli stessi autori, Mozart e Da Ponte.
Pare opportuno descrivere lo sviluppo delle vicende dei due
personaggi con un’unica sintesi d’insieme; è quello che faremo
qui di seguito (Fig. 6).
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Mozart / Da Ponte
Fig. 7 – J. van Dam è Leporello, Kiri Te Kanawa è Donna Elvira
Diciamo subito che la bravata di Don Giovanni con la vicina di casa, Donna Anna, non sarebbe stata che una delle tante
“conquiste” femminili della sua vita. Secondo il catalogo aggiornato diligentemente da Leporello (la coscienza che si confessa burlando) sarebbe la duemilasessantaseiesima vittima della sua carriera di libertino; questa confessione strabiliante la fa
Leporello ad una precedente “fiamma” di Don Giovanni (con
la famosa aria del catalogo) su invito del seduttore stesso, che si
defila da un imbarazzante colloquio a tre, lasciando l’ex amante, Donna Elvira, alle spiegazioni del suo scudiero: “Madamina
il catalogo è questo/Delle belle che amò il padron mio;/Un catalogo egli è
che ho fatt’ io,/[…] In Italia seicento e quaranta,/Ma in Ispagna son già
mille e tre.” (Fig. 7).
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Don Giovanni
Di questa indomita Donna Elvira parleremo in seguito; qui
si riscopre il noto gioco dei libertini di tentare di addomesticare
le proprie vittime sedotte come fa il domatore con i cavalli del
circo, che per assuefazione diventano domati e complici delle
allegre peripezie del padrone. Vale la pena di anticipare la citazione di una battuta sfacciata di Don Giovanni, nella decima
scena del primo atto, alla stessa Elvira, che lo sta diffamando
davanti ad altri e soprattutto davanti all’adolescente contadinella Zerlina, nuovo oggetto della sua seduzione: (Don Giovanni a
Donna Elvira, piano): “Idol mio, non vedete,/Ch’io voglio divertirmi…”.
Don Giovanni e Leporello arrivano a scambiarsi d’abito per
assecondare i trucchi e le tattiche in “attacco” e in “difesa” dei
continui obiettivi amorosi del libertino. Tutta l’Opera galoppa
in un susseguirsi di scene serrate di incontri e scontri, di stratagemmi e di fughe, in maschera o al buio, fra sorprese gustose e
disgustose, apparizioni e sparizioni, carezze e bastonate, sullo
sfondo di un’abbondanza orgiastica, trimalcionica, di cibi, vini,
danze e musiche a volontà. La coppia dei nostri eroi incalza il
palcoscenico con momenti di insperate prodezze e di inusitate
sconfitte. Per esemplificare questo quadro animato mi limito a
richiamare qualche analogia riposta nei meandri della memoria
giovanile e mi azzardo a dire che Don Giovanni e Leporello
imperversano in una sorta di super “Teatro dei Burattini”, con
momenti comici ed altri amari che li fanno avvicinare anche alle strampalate imprese di Don Chisciotte e Sancho Panza.
Il gioco dell’alternanza scenica delle luci sfolgoranti e del
buio notturno, così come quello dei travestimenti e delle maschere, rendono più tangibili al pubblico le corrispondenti ambiguità musicali, con i suoi cambi repentini. Gli effetti delle
mascherature per non farsi riconoscere o, al contrario, per farsi
riconoscere ma con un’identità diversa, riguardano Don Giovanni in due momenti distinti dell’Opera: alla fine del primo
atto, quando il libertino subisce l’inganno e a metà del secondo
atto, quando è lui l’ideatore del travestimento, a danno di molti.
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Mozart / Da Ponte
Nel primo caso tre figure in maschera con eleganti abiti neri
da cui si capisce solo che si tratta di due donne ed un uomo
(vedremo che sono Donna Anna, Donna Elvira e Don Ottavio) attirano l’attenzione di Leporello e quindi di Don Giovanni che sta preparando una sontuosa festa in una grande sala da
ballo del suo palazzo, inizialmente ideata per insidiare le contadinelle che avevano attratto il Cavaliere, come le ninfe per un
satiro, già festeggianti per la vigilia del matrimonio di una di loro (Zerlina) in uno spiazzo erboso. Tutti gli allegri campagnoli
sono autorevolmente dirottati da Leporello verso il salone delle
delizie musicali e conviviali per facilitare le mire del libertino.
Le tre “mascherette” aristocratiche parrebbero arricchire le
prospettive fantasiose del predatore insaziabile che non si accorge invece che arrivano a tradimento per smascherarlo, in
quanto uccisore del Commendatore e seduttore implacabile di
belle ragazze (Fig. 8).
Fig. 8 – Una scena dal film Don Giovanni, di J. Losey, 1979
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Don Giovanni
Vedremo che ci riusciranno, anche per l’eccessivo e clamoroso tentativo di stupro della contadinella.
Il travestimento del secondo atto avviene fra Don Giovanni
e Leporello, ed è imposto dal padrone al servitore, in modo da
essere perfettamente scambiati l’uno per l’altro. L’effetto di
questo scambio d’abiti avrà conseguenze gravissime su tutti i
personaggi dell’Opera, come vedremo in questo sommario e
nel libretto, ma lo scopo iniziale della doppia mascheratura era
estremamente frivolo, per non dire allegro: Don Giovanni si è
incapricciato di una servetta di Donna Elvira: “Deh vieni alla finestra, o mio tesoro,/…/Tu ch’hai la bocca dolce più del miele,/
…/Lasciati almen veder, mio bell’amore.” Don Giovanni, da esperto sa che nel costume più dimesso di Leporello ha gioco più
facile con la servetta, più facile ancora se, come avviene, la padrona, Donna Elvira, viene abbindolata ed allontanata da Leporello, nel buio della notte, perfettamente camuffato da Don
Giovanni. Stupisce la leggerezza e la disinvoltura che il libertino riserva a tutti gli altri, senza tener conto dei rapporti di lavoro e degli affetti che lo lasciano indifferente.
Fa eccezione il rapporto sacrale che lega Don Giovanni al
Commendatore, che è tutt’altra cosa.
Quell’assassinio, ignobile e indecente per i motivi che l’hanno provocato, commesso all’inizio della storia (una lunga storia
in un giorno), pesa come un peccato originale che macchia tutte le gioie del paradiso terrestre di Don Giovanni, e che alla fine glielo fa perdere per sempre, come vedremo più avanti; qui
accenniamo brevemente alla fine di Don Giovanni.
Il finale dell’opera si chiude a notte fonda, in una drammatica cena di Don Giovanni con la statua del Commendatore, il
“Convitato di pietra”, purtroppo inappetente: “Non si pasce di cibo
mortale/Chi si pasce di cibo celeste./…”. Don Giovanni invece ha
già iniziato a mangiare a quattro palmenti e a bere di gusto,
forse tranquillizzato dal ritardo dell’invitato, o forse per contrastare ogni ipotesi drammatica che alla sua natura ripugna; ed il
contrasto scenico è il più clamoroso di tutta l’Opera. Anche la
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Mozart / Da Ponte
musica esalta magnificamente tutta l’ambiguità fra il clima festoso di una cena all’inizio sorprendente e grottesca (fra il
drammone greco-romano e quello felliniano) con un movimento Allegro Vivace, che diventa Allegro Assai e poi cambia alla
conclusione tragica con un Andante da polifonia liturgica (che
tende al Requiem). Sulla scena, l’ultima mossa di Giovanni è la
sua mano tesa alla magica stretta della mano di marmo, più forte del rifiuto al pentimento del reprobo (Figg. 9-10).
Non possiamo ignorare che alcuni poeti romantici e postromantici e alcuni filosofi hanno ammirato in modo poco
convincente il finale pseudo-eroico di Don Giovanni, per la
strenua difesa delle proprie idee e della sua libertà (indipendentemente dalla consistenza dei suoi ideali non proprio universali)
contro la tenaglia soprannaturale che lo trascina verso un rogo
inesorabile.
Fig. 9 – La scena finale in un allestimento di F. Zeffirelli all’Arena di Verona
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Don Giovanni
IL COMMENDATORE, basso profondo, come il Sarastro
de Il Flauto Magico, rappresenta la Legge, la Giustizia, il Potere
ultraterreno. La novità protobarocca del mitico Commendatore
è la sua resurrezione, da morto, in una statua vivente, nel cimitero monumentale dove il Commendatore ucciso era stato sepolto in una tomba sormontata appunto da una statua di marmo a grandezza naturale (allestita o trasportata a tempi di record). È il momento della resa dei conti per l’indomito peccatore corporeo, Don Giovanni, che se ne fa beffa spudoratamente, e per il suo servo, Leporello, la coscienza, che se ne
spaventa assai e perde la voglia di ridere.
Fig. 10 – Scott Connor è Don Giovanni mentre viene afferrato dal Commendatore
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Mozart / Da Ponte
La novità non si ferma qui: la statua parla e di fronte alla
sfida beffarda di Don Giovanni accetta un inverosimile invito a
cena, come già accennato, diventando il famoso Convidado de
pietra, ossia il Convitato di pietra degli autori italiani, definizione
entrata nel linguaggio comune.
La cena è puntualmente imbandita e iniziata con ricchezza
di dettagli da Don Giovanni, che ostentando la sua maschera
impavida, ingorda e animalesca, affronta l’attesa del presunto
ospite, che arriva davvero, terrorizzando naturalmente Leporello e perfino Donna Elvira, ormai addolorata come una Maddalena.
L’arrivo della statua di marmo del Commendatore, di per sé
clamorosa, significa la fine di Don Giovanni su tre piani. Il
primo è quello morale, che sancisce la condanna dello scellerato per i suoi peccati e per il suo indomito rifiuto al pentimento
(qualcuno, come già accennato, lo chiama “eroico”). Il secondo
piano è quello cavalleresco: usava ritualmente per i cavalieri che
un invito a cena dell’uno andasse accettato e ricambiato con altrettanto invito dell’altro. Don Giovanni non vuole mostrare
timore di nulla e di nessuno e quindi non vuole credere, o non
capisce che l’invito a casa di un morto lo porterà nel regno dei
morti. Il terzo piano è quello scenico, con la cena opulenta e
frivola nella sala più bella del palazzo di Don Giovanni, che
crede di cavarsela ancora una volta con l’ostentazione del gusto
per la vita terrena e gioiosa e con la fiducia nella forza del suo
carattere temerario. E così tende la mano per accettare l’invito
di scambio in un impressionante contrasto fra lo stile di vita del
cavaliere e la condanna della mano del convitato di pietra che
lo uccide.
DONNA ANNA e DON OTTAVIO, lei soprano e lui tenore, è la coppia nobile che bilancia quella più umile, contadina, di Zerlina e Masetto, che vedremo più avanti.
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Don Giovanni
Fig. 11 – Aloysia Weber, in un
ritratto di J.B. von Lampi, 1784
Donna Anna è certamente il modello della donna perfetta
per Mozart. Da qualcuno è già stata interpretata come la trasfigurazione ideale di Aloysia Weber, soprano dalla voce splendida e bellissima ragazza, a cui Mozart affidò la parte di Donna
Anna nella prima viennese del Don Giovanni (Fig. 11).
Aloysia era una delle quattro sorelle Weber, tutte di età inferiore ai diciannove anni, che lui conobbe e frequentò con piacere quando fu a lungo a pensione in casa di Fridolin Weber, il
loro padre, nel 1777 a Vienna. Sarà perché il padre era un bravo copista di musica, suonava discretamente il clavicordo e soprattutto era un musicofilo entusiasta, sarà perché Mozart a
Vienna pativa la lontananza della sua famiglia e in particolare
l’assenza della sorella Nannerl, con la quale aveva un grande
affiatamento, fatto sta che familiarizzò con la famiglia che lo
ospitava e con le quattro ragazze, che gli piacevano sotto vari
aspetti. Impartiva lezioni alla più grande, Josefa, ma specialmente ad Aloysia, che lo affascinava con la sua voce d’angelo e
con il suo aspetto assai attraente; tanto che se ne innamorò e le
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Mozart / Da Ponte
chiese di sposarlo, ma lei lo rifiutò senza incertezze. (Si sa che
anni dopo la morte di Wolfgang le fu chiesto perché rifiutò il
genio, una musicista come lei. Lei ribattè che allora non immaginava cosa sarebbe diventato e che comunque le pareva fisicamente un ometto poco attraente). Mozart ci rimase malissimo, ma se ne fece una ragione e dopo sposò la sorella minore
di Aloysia, Constanze Weber, che gli aveva dimostrato sempre
affetto e gratitudine per i suoi regali e per le sue gentilezze.
Questo divagamento sulla vita privata di Mozart serve a
spiegare qualche maligna e maliziosa ipotesi che alcuni fanno
sulla rivalsa melodrammatica di Mozart di immaginarsi nei
panni del bel Don Giovanni, capace di vincere l’intoccabile
Donna Anna (cioè Aloysia) così vicina, eppur così lontana.
L’ipotesi pare meno campata in aria se si ripensa che è proprio
lui che assegna il ruolo di Donna Anna per la prima viennese
proprio ad Aloysia Weber, come si è già detto. Leggendo attentamente il libretto d’Opera si avverte, inoltre, un che di ambiguo nel comportamento di repulsione e di attrazione della damigella nei riguardi del suo virile profanatore.
Certamente Donna Anna, dopo questa turbinosa giornata,
non appare più tanto ben disposta verso il suo promesso sposo, Ottavio; anzi raffredda i caldi propositi del fidanzato rimandando, con ragioni poco convincenti, di almeno un anno
quello che sembrava un imminente matrimonio. Del resto Don
Ottavio non è nessuno, cioè è quello che deve essere, nobile,
ben educato, convinto che la nobiltà sia di per sé un marchio di
perfezione (il che lo fa dubitare più a lungo degli altri sulle presunte colpe di un Hidalgo come Don Giovanni). Viene anche il
sospetto che le sue promesse di vendetta si siano acquetate di
fronte al rischio di un vero duello con uno spadaccino prestante e irruente come Don Giovanni. Insomma Ottavio non è
giudicato da Mozart un giusto pretendente per Donna Anna;
però riserva a lui alcune arie veramente belle, forse per farsi
perdonare o per contentare i tenori Baglioni e Morella, che
l’avrebbero interpretato.
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Don Giovanni
DONNA ELVIRA, soprano, calda nei sentimenti, giovane
e piacente; è la classica dama nobile castigliana, ed è una delle
poche, e forse l’unica, che sia riuscita a trattenere (a Burgos)
nella sua casa e nel suo letto per tre giorni l’indomito Don
Giovanni (Fig. 12). Anche lei in parole e musica è l’ambiguità
fatta persona; corrotta e abbandonata a Burgos, arriva (probabilmente fino a Siviglia) sulle tracce del suo esecrato ed amato
seduttore e infine lo incontra, con una parte di sé che spara a
zero per il tradimento subito e le sue conseguenze e con l’altra
parte che coltiva segrete speranze di matrimonio; quel matrimonio proposto e giurato dall’amante e poi tradito. È lei che
subisce allibita l’esibizione, da parte di Leporello, del catalogo
delle donne conquistate dall’animalesco libertino: allibita ma
non disarmata nei suoi propositi.
Fig. 12 – Barbara Frittoli è Donna Elvira, Mariusz Kwiecien è Don Giovanni
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Mozart / Da Ponte
È lei che svela a Donna Anna e a Don Ottavio la vera natura del loro vicino di casa, ufficialmente amico ossequioso; è lei
che salva la bella Zerlina, giovanissima contadina delle proprietà rurali del Cavaliere, dallo stupro che il suo magnanimo padrone tenta per due volte di imporre alla ragazzina colle buone,
con la seduzione di magiche promesse e belle canzoni, poi con
le cattive, tentando il sequestro e la violenza fisica. È lei infine
l’ultima che prova invano a indurre Don Giovanni al pentimento, venendo in aiuto a Leporello (voce di coscienza tacitata
o ridotta a misere lamentazioni). Insieme ottengono l’effetto
opposto, una declamazione e un brindisi da chi ormai non pensa ad altro: “Vivan le femmine,/Viva il buon vino,/Sostegno e gloria/D’umanità! ”
Donna Elvira, dopo la sparizione definitiva del suo defunto
amante, matura propositi di ritiro in convento.
Figg. 13-14 – Emma Albertazzi in Zerlina, dipinto di Fanny Corbaut; bozzetto di scena per il personaggio di Masetto, di G. Engelman
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Don Giovanni
ZERLINA e MASETTO, lei soprano, lui basso, due giovanissimi contadini delle campagne di Don Giovanni, colti sul
più bello, alla vigilia delle nozze (Figg. 13-14). Sembrano personaggi delle Bucoliche, specialmente lei, poco diversa anche da
una deliziosa pastorella di antico sapore medievaleggiante, fra
boschetti ed aiole fiorite. Ripensando alle possibili identificazioni dei sogni degli autori con i personaggi dell’Opera, si può
azzardare che se la bella Anna ricorda al grande musicista un
sogno d’amore coltivato invano, così la bella Zerlina non è lontana da predilezioni e conquiste del librettista, l’Abate Da Ponte, notoriamente attratto specialmente dalle giovanissime: si sa
che l’Abate quarantunenne ha trascorso più di due mesi nella
sua camera-studio di Vienna a scrivere i versi del libretto per
Mozart, allietato per tutto il tempo dalla presenza silenziosa e
gentile di una adolescente sedicenne di umile condizione, ma
adorabile (proprio come Zerlina, però in questo caso autorizzata dalla madre, affittuaria di Da Ponte) e disposta a compiacere
in tutto e per tutto l’illustre ospite.
Anche la candida Zerlina inciampa in modesti cedimenti di
tentazione alla lusinghiera corte del giovane padrone (“…Vorrei
e non vorrei…”); si dubita che Da Ponte sostenga l’ovvietà di tali
scuse per attenuare la colpa dei libertini come lui.
La novella di questi episodi con i contadini della festa di
nozze si articola poeticamente e musicalmente nella parte più
comica del melodramma, su cui Mozart da par suo ricama particolari “giocosità” musicali.
Masetto, nella novella, fa la parte classica del povero contadinotto, destinato a subire con minime reazioni i soprusi del
padrone; e qui si rasenta sotto mentite facezie, con le buone o
con le cattive, d’esercitare lo “ius primae noctis” d’esecrabile
memoria, specialmente medioevale.
Ovviamente una sorta di tarda spedizione punitiva contro
Don Giovanni sotto la guida del furibondo Masetto armato fino ai denti viene neutralizzata allegramente dallo stesso libertino fuggiasco, mascherato da Leporello, che con la complicità
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Mozart / Da Ponte
del buio riesce ad assumere la direzione dell’impresa, disperde i
presunti cospiratori, rimanendo solo con Masetto; si fa consegnare le armi con una scusa e impartisce una solenne bastonatura al povero contadino, abbandonato con i suoi lividi e con i
suoi lamenti.
Ma a tutto rimedia Da Ponte, facendo riapparire la dolce
Zerlina, calda e adorabile verso il fidanzato, pronta a lenire le
pene corporee della prepotenza e dell’inganno con adeguate
contromisure intensamente fisioterapiche ed altrettanto corporee dell’amore vero, ritrovato.
Fig. 15 – Una edizione del Don Giovanni, per la direzione di Sigiswald Kuijken
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Don Giovanni
PERCEZIONI MELODRAMMATICHE ED ALTRE
CURIOSITÀ
Fig. 16 – Bozzetto di scena di Emanuele Luzzati
Prima di esprimere qualche osservazione particolare su
quest’Opera e sul suo Libretto, mi pare necessario riportare alcune essenziali notizie su Mozart e Da Ponte per spiegare come i miei lettori si dovrebbero preparare ad affrontare l’incontro con questo Don Giovanni; capolavoro che ha impegnato
generazioni di musicisti, di letterati e di critici musicali e teatrali, e perfino di noti filosofi, più o meno sconcertati di fronte al
fascino, all’ambiguità, alla discussa consistenza dei fatti e dei
personaggi, nel prodigio di una musica senza pari. Come ho già
detto, è l’ambiguità che legittima una gamma di varie interpretazioni nelle messe in scena di questo melodramma, con alcune
personalizzazioni che lasciano perplessi: purtroppo vari direttori d’orchestra e registi teatrali hanno esaltato quelle parti
dell’Opera che risultano più congeniali al loro tipo di cultura
musicale, sociale, morale, regionale, etc.
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don giovanni