Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 7 - numero 8(67) - Settembre 2010
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In questo numero:
Grandi temi
- Nel Bicentenario della nascita di
Leone XII: Papa Bendetto XVI a
Carpineto.
- L’aborto è in crescita: una tragedia
“silenziosa”
- La notte buia della vendetta e
dell’odio
Concilio Vaticano II
- Grandezza della consacrazione
religiosa
Speciale Convegno
- Dove non si parla di amore, non
c’è educazione
- Don Milani senza mito
- I tre livelli del servizio “finche non
sia formato Cristo in noi”
- L’impegno delle aggregazioni laicali
nella formazione dei laici
- Invitando al convegno i “Padri”
- Davide Rondoni
(scheda del relatore al convegno)
Vita Diocesana
- Settembre, la Diocesi e le visite
dei Papi
- 30 anni fa Giovanni Paolo II
visitava Velletri
- I Papi sui Monti Lepini
- Due comunità in attesa dei nuovi
parroci
- X Anniversario della scomparsa
del Card. Vincenzo Fagiolo
Vocazioni
-La Parrocchia è missionaria solo
se è aperta a tutte le vocazioni
Educare oggi
- La Scuola di Barbiana: nessuno
era negato per gli studi
Caritas / Missione
- Aspettando l’Ottobre Missionario
Catechesi
- Ripartire dall’uomo
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Ecclesia in cammino
Vincenzo Apicella, vescovo
P
otremmo chiamare settembre, per le
nostre terre, il mese del Papa: proprio in
questo mese, negli ultimi cinquant’anni, un Papa
ha visitato la nostra diocesi e solo per il più frequente uso di più rapidi e comodi mezzi di trasporto, come l’elicottero, Benedetto XVI si limiterà a sorvolarla il 5 settembre per atterrare a
Carpineto, il primo comune oltre i nostri confini
nella diocesi di Anagni-Alatri, accolto, comunque,
dal vescovo segnino Mons. Lorenzo Loppa.
L’occasione di questa visita, è il secondo centenario della nascita di Gioacchino Pecci, il grande Leone XIII, che potremmo definire il primo Papa
dell’età moderna, per la sua sensibilità e la sua
sapienza nell’affrontare alla luce del Vangelo i
grandi problemi dell’uomo contemporaneo: l’educazione, la pace, il sano pluralismo e, soprattutto, la dignità dell’uomo, del suo lavoro, della
giustizia nei rapporti sociali.
Proprio per il 75° anniversario della pubblicazione
dell’Enciclica Rerum Novarum, che aprì la strada alla nuova riflessione sulla Dottrina sociale
della Chiesa, Paolo VI, l’11 settembre 1966, dopo
aver visitato Carpineto, attraversò tutta la diocesi di Segni, sostando in ognuno dei suoi Comuni
e celebrando l’Eucarestia nella piazza del
Municipio di Colleferro, adiacente alla parrocchia
di S. Barbara. La sua fu un’omelia appassionata, iniziata con l’esclamazione: “Viva Colleferro
operaia!”. Papa Montini vedeva in questa città
il simbolo “dei tempi nuovi, dell’Italia nuova, delle generazioni nuove, di questo doloroso, faticato, ma anche glorioso dopoguerra, che ha visto
risorgere il nostro Paese”, che andava assumendo
una fisionomia industriale, in cui anche il lavoro andava assumendo una forma organizzata e
moderna e la gente dei campi indossava la tuta
dell’operaio. Ad essa furono rivolte queste
parole: “La Chiesa fa sue le vostre istanze, riconosce i vostri diritti alla dignità, alla mercede.
La Chiesa si schiera al di sopra di ogni competizione e prende risolutamente, arditamente, le
vostre difese…La Chiesa vi parla e vi dice che
cosa è veramente il valore della vita.
La Chiesa vi parla e vi dice che cosa è veramente
la dignità del lavoro. La Chiesa vi parla e vi dice
che cosa è in realtà la libertà umana e come la
dobbiamo impiegare. La Chiesa vi parla e vi dice
che cosa è questo mistero della fatica e del dolore…”. Al lavoro dedicò la parte centrale della sua
omelia anche Giovanni Paolo II, nella indimenticata visita del 7 settembre 1980.
Certamente, il contesto e le accentuazioni furono diversi, si parlò di vino e di pane, prodotti delle nostre terre e segni eucaristici, ma il messaggio
fu ugualmente di respiro universale:
“Non sarà mai lecito, da un punto di vista cristiano, asservire la persona umana né a un individuo né a un sistema in modo da renderla puro
strumento di produzione. Essa, invece, va
sempre ritenuta superiore ad ogni profitto e ad
ogni ideologia; mai viceversa.
Auspico che il vostro lavoro vi tempri a forti e
sperimentate virtù, vi renda sempre più maturi
e coscienti costruttori del bene comune, e operatori di quella solidarietà che, prendendo origine
da Dio Creatore, unisce e cementa la vostra convivenza. Anzi, mi piace vedere nel prodotto della vostra buona terra un simbolo eloquente di
fraternità e di vicendevole comunione…”.
Infine, il 23 settembre di tre anni fa Velletri riabbracciò il suo Cardinale Vescovo titolare Joseph
Ratzinger, divenuto Papa col nome di Benedetto
XVI, che, come segno di particolare e perenne
affetto, decise che fosse collocata sul sagrato
della Cattedrale di S. Clemente la Colonna di bronzo, commemorativa del suo Pontificato, donatagli dalle città bavaresi. Quella domenica la Liturgia
faceva proclamare come Evangelo la parabola
dell’amministratore infedele (Lc. 16, 1-13) e il Santo
Padre, come sempre con sapiente aderenza al
testo della Celebrazione, così commentò: “ E’ necessaria una decisione fondamentale tra Dio e mammona, è necessaria la scelta tra la logica del profitto come criterio ultimo del nostro agire e la logica della condivisione e della solidarietà.
La logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra poveri e ricchi, come pure
un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando
invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e
orientarla verso uno sviluppo equo, per il bene
comune di tutti. In fondo si tratta della decisione tra l’egoismo e l’amore, tra la giustizia e la
disonestà, in definitiva tra Dio e satana”.
Questi temi Benedetto XVI li ha ripresi, approfonditi e ampiamente articolati nella sua ultima
Enciclica Caritas in Veritate, che si pone in stretta continuità con la Rerum Novarum di Leone
XIII e la Populorum Progressio di Paolo VI.
In quasi 120 anni la storia ha camminato velocemente, con scoperte strabilianti e sofferenze
ancora più gigantesche, il pianeta si è globalizzato e il mondo del lavoro attraversa una nuova drammatica crisi, anche nella nostra terra di
Velletri-Segni, ma continua, attraverso i nostri Sommi
Pastori, a risuonare alto l’ammonimento che “il
problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società” (CIV, n.51).
Per questo, se è vero che le cause del sottosviluppo
non sono primariamente di ordine materiale, ma
“la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i
popoli” (PP, n.66) e la funesta separazione che
ancora esiste tra valori etici e spirituali da una
parte e realtà economica, sociale e politica dall’altra, è altrettanto vero che non può esserci vero
sviluppo umano solo materiale e che non sia anche
culturale, morale e spirituale.
A Carpineto, il 5 settembre, potremo ritornare,
aiutati da Benedetto XVI, su queste verità fondamentali, ma sostanzialmente ancora inascoltate, a noi il compito di farle penetrare sempre
più a fondo nella nostra coscienza e sempre più
diffusamente nei nostri ambienti di vita.
Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti
della Curia e pastorale per la vita della
Diocesi di Velletri-Segni
Direttore Responsabile
Don Angelo Mancini
Collaboratori
Stanislao Fioramonti
Tonino Parmeggiani
Gaetano Campanile
Roberta Ottaviani
Mihaela Lupu
Proprietà
Diocesi di Velletri-Segni
Registrazione del Tribunale di Velletri
n. 9/2004 del 23.04.2004
Stampa: Tipolitografia Graphicplate S.r.l.
Redazione
C.so della Repubblica 343
00049 VELLETRI RM
06.9630051 fax 96100596
[email protected]
A questo numero hanno collaborato inoltre:
S.E. mons. Vincenzo Apicella, don Dario Vitali, mons. Franco
Risi, mons. Franco Fagiolo, don Claudio Sammartino, don
Marco Nemesi, don Daniele Valenzi, don Fabrizio Marchetti,
Angelo Bottaro, Claudio Capretti, Rigel Langella,
Alessandro Leoni, Fabricio Cellucci, Teodoro Beccia, Rosanna
Favale, Toni Gallè, Rita Latini, Mara della Vecchia, Pier
Giorgio Liverani, Antonio Venditti, Sara Gilotta,
Ass.Culturale Il Trivio, Vincenza Calenne, Paolo Tomasi,
Federica Colaiacomo,Sara Bianchini; Katiuscia Cipri,
Emm’ATeatro,Giancarlo Fiorini, Guglielmo Bongianni, Francesco
Cipollini, Emanuela Ciarla.
Consultabile online in formato pdf sul sito:
www.diocesi.velletri-segni.it
DISTRIBUZIONE GRATUITA
In copertina:
Paolo Caliari detto Veronese,
La Disputa di Gesù con i dottori, 1558,
Museo del Prado, Madrid
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esclusivamente il pensiero degli artefici e non vincola mai
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autorizzazione del direttore.
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Stanislao Fioramonti
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l 2 marzo 1810 nasceva a Carpineto
Romano, paese dei monti Lepini appartenente
alla diocesi di Anagni, Vincenzo Gioacchino Pecci,
figlio di Ludovico e di Anna Prosperi, gentildonna di Cori. Il giovane, grazie alla nobiltà di famiglia, poté intraprendere la carriera diplomatica ecclesiastica, ottenendo incarichi a Benevento e a Bruxelles,
in Belgio; quindi nel 1846 fu eletto arcivescovo
di Perugia, in un periodo in cui l’Italia centrale era
scossa dai moti risorgimentali e l’autorità dello
Stato Pontificio gravemente scossa.
La bontà e l’umanità della sua opera di pastore
in Umbria, dove sarebbe rimasto per 32 anni, venne confermata proprio dalla durata del suo episcopato e dalla nomina a cardinale ricevuta da
Pio IX nel 1857.
Il 20 febbraio 1878 fu eletto proprio a succedere all’ultimo papa-sovrano, e seppe rompere l’isolamento del Vaticano dopo la perdita del potere temporale con una attività multiforme e prodigiosa, che ebbe nelle encicliche (ne scrisse ben
86!) la sua espressione magisteriale più profonda, durata venticinque anni. La più famosa delle encicliche leoniane è stata senz’altro la
Rerum Novarum, pubblicata il 15 maggio 1891
(papa Pecci aveva 81 anni); essa affrontava la
questione operaia proponendo come rimedio vero
non il Socialismo, allora in pieno sviluppo tra le
masse dei lavoratori, bensì l’unione delle associazioni nella quale cooperassero sia la Chiesa
che lo Stato che le stesse associazioni operaie,
in un’opera concorde pur se ispirata da principi
diversi. “La famosa enciclica di Leone XIII, scrisse Georges Bernanos nel suo Diario di un parroco di campagna (1936), voi la leggete tranquillamente
coll’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di Quaresima. Ma alla sua epoca ci è parso di sentire tremare la terra sotto i piedi. Quale
entusiasmo!
Quest’idea così semplice che il lavoro non è una
merce, sottoposta alla legge dell’offerta e della
domanda, che non si può speculare sui salari,
sulla vita degli uomini come sul grano, lo zucchero
e il caffè, metteva sottosopra le coscienze”.
La Rerum Novarum fu la prima enciclica sociale dei tempi moderni; la sua uscita – ha notato
il card. Carlo M. Martini - costituì un evento di
portata mondiale, rivelatosi con il passare del tempo non privo di valore profetico”, anche per tutta la serie di documenti pontifici successivi ad essa
ispirati, che hanno dato corpo alla dottrina sociale della Chiesa. Essa insomma, sono sempre parole del card. Martini, fu l’inizio di un cammino non
ancora concluso nel quale si è manifestata la capacità del Vangelo di offrire una parola di orientamento in situazioni sociali, economiche e politiche anche molto intricate e complesse”.
Affrontando la questione operaia, Leone XIII rilanciava il Vangelo della giustizia; la Chiesa, che era
accusata di stare coi potenti, si metteva dalla parte degli umili reagendo sia al Socialismo che agli
eccessi del Capitalismo; la Chiesa infatti è dalla parte dell’uomo, e lavora per la sua difesa nel
la giustizia e nella pace.
Il valore del papato di Leone
A RICORDO DI SUA SANTITA’ XIII è stato perciò sempre sottolineato dai suoi successori, sia con documenti ufficiaL a catena dei monti Lepini raggiunge il suo culmine
li che celebravano di decenE rgendosi con il monte della Semprevisa che
nio in decennio la Rerum
O mbreggiando il pian della faggeta fa
Novarum, sia con viaggi nel
N ascere, adagiato su due colline, Carpineto Romano
paese della sua nascita, nelE stro d’ architetti e scalpellini…
la sua diocesi d’origine e nelT erra di pastori e di briganti
la sua terra lepina.
R iuscì a donarci un PAPA assai insigne.
Memorabili sono state le visiE ra tempo di lotte e di conquiste
te tra noi di Paolo VI l’11 setD iplomazia non mancò a Vincenzo Gioacchino Pecci per
tembre 1966 (nell’75° anniI ndurre i cattolici francesi ad aderire alla Terza Repubblica
versario dell’enciclica) e di
C onciliare una politica più moderata con l’Italia
Giovanni Paolo II nel 1991 (a
E d ottenere la fine del “Kulturkampf” in Germania. Ma,ahimè,le
100 anni dalla pubblicazione);
S ue mosse politiche non ressero ai cambiamenti. Come un Padre
e memorabile sarà certo
I l suo sguardo proiettò verso il mondo operaio, appoggiando il
Movimento cattolico sociale, proclamando l’enciclica RERUM NOVARUM quella che farà Benedetto XVI
a Carpineto il 5 settembre prosO ggi come ieri viva ed attuale.
Vincenza Calenne simo, per celebrare nel suo pae(Accademica Tiberina)
se natale il grande predecessore
a 200 anni dalla nascita.
Nell’indire tutto un Anno Leoniano (2 marzo 20102 marzo 2011) di festeggiamenti, approfondimenti
e cerimonie ufficiali, delle quali la visita papale
rappresenterà il culmine, il vescovo di Anagni-Alatri
mons. Lorenzo Loppa ha sottolineato che tale Anno
“intende valorizzare il ricco magistero del nostro
conterraneo Gioacchino Pecci, il papa delle cose
nuove, soprattutto in ordine alla formazione del
clero, alla educazione dei giovani, alla responsabilità primaria della famiglia e all’annuncio del
Vangelo, che deve diventare lievito per una società umana da plasmare nella carità e nella verità, come ricorda Benedetto XVI nell’ultima enciclica”. Un anno dunque inteso come continuazione
dell’opera del papa carpinetano.
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Pier Giorgio Liverani
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a davvero la legge 194 funziona così
bene che gli aborti, in Italia, diminuiscono? O piuttosto “funziona bene”
nel senso, però, che la crescente diffusione dell’aborto – legale, clandestino o camuffato come
contraccezione d’emergenza – messo il silenziatore sulla tragedia di tanti bambini mandati
a morte prima ancora di nascere e di tante madri
che, per ignoranza o povertà materiale o morale o per paura, tradiscono quel portentoso «potere di amore» che, come diceva Madre Teresa
di Calcutta, caratterizza tutte le donne. La relazione ministeriale pubblicata il mese scorso lo
afferma con convinzione, come se fosse cosa
vera e ormai scontata.
E, di fatto, la maggior parte dei giornali nemmeno se ne è occupata. Si è così deliberatamente ignorata un’occasione preziosa per
ragionare insieme – credenti e “laici” – su questa tragedia non soltanto italiana, ma mondiale (oltre 5 milioni di aborti, dal 1978, in Italia; oltre
40 milioni ogni anno nel mondo). Eppure invece di opporre ostinatamente il silenzio alla proposta di ridiscutere non dirò l’abrogazione della legge – l’esistenza di una maggioranza decisamente abortista sia a destra che a sinistra lo
impedisce – ma almeno per cercare di ridurne
gli effetti a dimensioni meno disumane.
L’ipocrisia e il fondamentalismo dell’abortismo
sono tali che l’esultanza di questa medesima maggioranza per i numeri ufficiali quando indicano
un calo del fenomeno, è platealmente contraddetta
dal rifiuto di prendere in esame qualsiasi proposta che vada realmente in questa stessa direzione. Cominciamo dai numeri. Secondo la rela-
zione governativa gli aborti praticati in Italia nel
2009 sono stati 116.933, vale a dire 4368 meno
che nel 2008 (meno 3,6%), circa 22mila meno
del 1999, addirittura 118mila meno del 1982 (meno
50,26%). Questa, però, è una manipolazione statistica. Il confronto non può essere fatto con il
picco più alto di aborti legali (1982), perché quel
picco fu provocato proprio dalla legge.
Infatti, nei primi dodici mesi di vigenza della 194
si contarono 146.918 aborti, che presto salirono a oltre 187mila l’anno, poi a 220mila, a 224mila
per raggiungere i 234mila nel 1982. Da quell’anno cominciarono a diminuire mentre diminuiva,
però, anche la natalità e si diffondevano metodi di controllo delle nascite come la “spirale” e
poi la “pillola del giorno dopo” (oggi siamo a quella “dei cinque giorni dopo”) che non sono contraccettivi, ma provocano l’espulsione dell’embrione (se il concepimento è avvenuto senza che
la madre se ne sia accorta), vale a dire aborti
precocissimi, ma reali anche se non avvertiti.
Oggi le statistiche dicono che le confezioni di
pillole del giorno dopo vendute ogni anno sono
almeno 370mila.
Se ragionevolmente si suppone che questi aborti precoci si verifichino anche soltanto nel 5 per
cento dei casi, bisogna aggiungere altri 18.500
aborti ai quasi 117mila del 2009, per un totale
di 135mila, che, con i 15mila aborti clandestini
(si tratta di un dato ufficiale, ma sottostimato)
diventano 150mila: più del numero ufficiale di
partenza. Il confronto, però, va fatto con i dati
di prima della legalizzazione. Anche se la propaganda abortista lanciava numeri di aborti semplicemente folli (il più basso era 400.000, il più
alto 3 milioni: come se TUTTE le donne italiane in età fertile, sterili e vergini comprese, praticassero nel corso della loro vita 11 aborti volon-
tari). Gli studi statistici più seri parlavano, invece, di un numero largamente inferiore ai 100mila,
forse meno di 50mila. È questo, dunque, la
base di partenza per un confronto realistico
e il risultato evidente è, allora, che la legalizzazione continua tuttora a moltiplicare gli
aborti in modo preoccupante. I numeri, anche
quelli ufficiali, dovrebbero dunque indurre almeno i politici più seri a fare ciò che è possibile persino senza toccare la legge 194, anzi
basandosi su alcune sue affermazioni.
Mi riferisco agli articoli che vanamente e ipocritamente affermano che lo Stato «protegge la vita umana fin dal suo inizio» (ma senza dire qual è il suo inizio), che i consultori
debbono tentare di «eliminare le cause che
inducono la donna ad abortire» e «possono
avvalersi a questo scopo della collaborazione del volontariato».
Ecco concretamente e per esempio come:
1 - Approvando la proposta di legge, già presentata alle Camere, che riconosce il concepito
come persona (modifica all’articolo 1 del Codice
Civile).
Del resto questo è già affermato nell’articolo 1 della legge 40 sulla fecondazione artificiale, che obbliga a tenere conto degli interessi di tutti «i soggetti coinvolti, compreso il
concepito».
2 - Affermando che, se anche l’aborto resta
legale, la preferenza dello Stato va alla vita, con
le conseguenze che ciò comporta.
3 – Riformando i consultori familiari che oggi potrebbero essere definiti “abortori”, essendo davvero minuscolo il loro complessivo impegno a sostegno della maternità in pericolo (per esempio aprendone le porte a personale obiettore oggi in forte crescita numerica negli ospedali).
4 – Favorendo (invece che ostacolando) la diffusione di una cultura aperta alla vita a cominciare dalla trasformazione in educazione all’amore di tutto ciò che oggi, anche nelle scuole,
è invece una semplice educazione (e banalizzazione) sessuale.
5 – Rinunciando alla propaganda abortista e anche
a quella anticoncezionale, che promuove una
mentalità antinatalista.
6 – Sostenendo (invece che disprezzando) il volontariato civile già impegnato nella difesa della vita
e nel sostegno alle donne.
L’esperienza quasi quarantennale dei C.A.V. (Centri
di Aiuto alla Vita) dimostra che l’efficacia di questo sostegno (culturale, psicologico, economico, medico, familiare, di abitazione) è crescente:
170mila bambini salvati dal 1975, dei quali 16
mila solo nel 2009.
Non è concepibile che l’aborto, autentica violenza sui futuri cittadini, sia finanziato dallo Stato
e non siano previsti aiuti alle gestanti in difficoltà.
Lo Stato nasce come promotore non di violenza e morte bensì di vita e di solidarietà fra e con
i cittadini.
Nell’immagine del titolo:
Celebrazione per la nascita di gemelli, Jan Steen,
1664, Amburgo
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Paolo Tomasi
C
hissà cosa ci ricorda questo
titolo, probabilmente evocatore di questioni profonde che,
non avendo noi poveri scribacchini, la stoffa non dico di “filosofi”, ma nemmeno di
“pensatori qualunque”, lasceremmo trascorrere, salvo la ribellione di fronte a
qualcosa che si apprende dai media: in
realtà costituiscono fatti troppo spesso
specchio di riflessioni mancanti, ovvero di coscienze incerte. Che questo giornale non si sia mai schierato, né intenda schierarsi in questioni politiche è chiaro ed altrettanto condivisibile, come appare altrettanto evidente che qualche
riflessione al riguardo andrebbe fatta da
chi si professa cristiano, quantomeno non
della sola messa domenicale! Non si intende assolutamente far riferimento ad alcun
evento specifico, bensì a questioni che
rimangono di continuo ricorrenti. Ripetiamo
che non ci si intende immischiare in qualcosa di politico che non ci riguarda. Assolutamente NO! Non è nemmeno lontanamente questo il problema perché non interessa in alcun modo il singolo fatto ovvero singole controversie partitiche, quanto piuttosto motivi di fondo che non possono essere ignorati, quindi far emergere nuovi e non superficiali aspetti culturali e forse, chissà, dottrinali? La domanda, appunto, è da porre
alla paziente riflessione di chiunque si dichiari cristiano: non stiamo certo parlando di alieni!
Leggendo la Scrittura, con la pazienza e l’umiltà che possano aiutare a
capire, emerge con nitidezza il ruolo chiesto al credente nel rivendicare, difendere e sostenere credibilità nel governo del bene pubblico, nell’azione politica, in sintesi, alla difesa dei cosiddetti “valori fondanti”, parte del nostro credo, nel senso della difesa ma soprattutto valorizzazione degli stessi principi volti a tutelare la credibilità delle nostre istituzioni, a condannare, per converso, la possibile violabilità “in nuce” delle stesse, a minare la nostra vivibilità e credibilità di cittadini.
Desidereremmo, per essere chiari, più dell’illuminante del Sole d’agosto, mettere sotto luce impegni e chiarezze che un cristiano non potrebbe facilmente assolversi con il facile “non ne so niente”, ovvero peggio
“ma chi ne capisce?”
Al punto, dunque, può un cattolico, rammentando la memoria di Don Sturzo,
quella di De Gasperi e di quanti altri ancora, rimanere assente dal dibattito su temi politici erroneamente giudicati estranei dai tanti, ovvero invece dovrebbe quanto agli stessi “essere presente”… quindi “esserci”. Un
cattolico è e rimane un essere politico, almeno in quanto cittadino, con
altrettanti validi motivi di dimostrarlo di fronte a chiunque e non dovrebbe quindi rimanere tollerata la sua assenza nella sua coscienza responsabile.Torniamo per un momento a quella frase evangelica “Date a Cesare
quello che è di Cesare ed a Dio quello che è di Dio”. Qualcuno ci perdoni se stessimo scivolando d’ala, ma ci sembra che si sia letta ed interpretata questa frase nell’ovvia direzione della seconda parte: ma se ci
concentrassimo sulla sola prima parte dove si dice chiaramente che lo
Stato e le istituzioni andrebbero servite che ne potremmo dedurre? Abbiamo
forse dimenticato il fervore di decenni orsono quando usciti da una storia ed una esperienza drammatica, i nostri padri costituenti costruirono
il bene della nostra libertà di esistere. Certamente ci sarebbero tante cose
da risistemare, ma il grido rivolto a noi cattolici di ridare il voto alla libertà di esserci, alla nostra coscienza, di insegnare le stesse cose ai nostri
figli non dovrebbe mai essere né mai perduto, nemmeno sofisticato da
ignoranza e dimenticanza.
Certo, più di qualcuno potrebbe dire che partire da presenti o presunti
ripetuti conflitti istituzionali, fare polemiche potrebbe essere forzato; ma
non c’è polemica alcuna né contrapposizione, solo si spera emerga una
riflettuta, condivisibile ed accettabile posizione per evidenziare argomenti
e questioni, anche ordinarie, cui dare quella risposta che, siamo al punto cruciale, la cultura ed il credo del cristiano non dovrebbero, quindi non
potrebbero ignorare.
Queste cose le avremmo potuto scrivere tanti anni fa, e le si potrebbero scrivere forse tra ancora altrettanti anni. Ciò perché mentre la politica cambia e si adatta alle situazioni che evolvono che fine faremmo se
non chiedessimo alla stessa politica di far riemergere i valori sociali ad
esempio della famiglia, della tutela della vita, della tutela di chi rimane
non rispettato? Ci si dirà che non si può far tutto, che ci sono dei costi,
ma la cosa comunque riguarda noi cattolici.
Non dovremmo mai accettare una politica assonnata di fronte a temi che
toccano le nostre coscienze, semmai proprio rifiutare le associazioni partitiche o meno che operano, forse solo per meschini interessi, nell’ignorare
se non a contrastare idee vive e vitali che ben si accompagnano a quanto da noi professato. Allora chiediamoci quale ruolo potrebbero avere i
cosiddetti (chiedo scusa) cristiani nel loro affermarsi cittadini e nel loro
apparentemente non appropriarsi del ruolo che il loro credo (politica non
si fa: quindi indistintamente dall’essere di destra o di sinistra, che non
ci riguarda) potrebbe avere ruolo nell’ordine e nell’ordinata gestione della società e del vivere in comune? Non mi pare che della questione non
si sia parlato mai, salvo ricordare che il nostro Papa, in visita, 5 settembre
a Carpineto, nell’occasione dei 200 anni dalla nascita di Leone XVIII che
con la sua enciclica “Rerum Novarum” ha anticipato “alla grande” sindacati, politici e tanti altri. Intuizione sua sì, ma meditazione sul ruolo
del cristiano nell’ “esserci” in questo mondo che cambia. Ma se la Chiesa
cambia e corre avanti nel tempo, perché non chiederlo ai cattolici che
ne fanno parte?
Nessuno, ivi compreso chi scrive, intende entrare nel merito di questioni
politiche, salvo riflettere che nel nostro tessuto elettorale mancherebbe,
ovvero rimarrebbe carente una cultura politica “cristiana” in grado di esprimere valori consistenti e coerenti con la nostra fede; quei medesimi valori che le persone in precedenza citate, ma anche i padri costituenti, nel
rispetto della pluralità degli individui ci hanno consegnato.
Concludendo, al di là di singoli fatti, la domanda rimane dove siamo noi
cattolici ad individuare principi incontestabili e forti a difesa del nostro
diritto di “esserci” e non divenire evanescenti. Serve in definitiva parlare e crescere nella cultura politica che rimane la gestione del nostro essere presenti e nella prospettiva del nostro futuro: non dobbiamo lasciare
alternative ad altri, sconosciuti o meno: discorso difficile questo, vero,
ma discorso da non dimenticare assolutamente, salvo la paura di dimenticare appunto la nostra identità. La prospettiva è dimenticare di “esserci”, prospettiva cui non vorremmo credere.
Domanda cattiva ma vera: Ci crediamo o no?
Nell’immagine del titolo: Il tributo, di Bernardo Strozzi, 1630, Budapest
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Angelo Bottaro
Passare dalla oscurità delle tenebre alla luce
del giorno per spezzare la catena del male.
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in dal tempo di Caino e di Abele nel
giudizio divino hanno sempre prevalso il rispetto e la comprensione
sia nei confronti della vittima, che del colpevole, condizione obbligata per tendere
alla riconciliazione e per ristabilire la
pace: “Troppo grande è la mia colpa per
ottenere perdono. Ecco tu mi scacci oggi
da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà”. Ma il Signore gli disse :”Ebbene chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!”. Se, invece, ripercorriamo a ritroso la storia della umanità constatiamo che
riguardo fatti di violenza, offesa, sopraffazione il comportamento ed il giudizio umano solitamente si accompagnano alla
rabbia, al rancore e la punizione assume
prevalentemente il valore della vendetta e
della repressione.
Da sempre nell’uomo è prevalso l’archetipo di Caino, quello che Freud chiama thanatos, cioè morte. L’archetipo di Abele, quello che conduce all’amore e al perdono, è
restato privilegio di pochi eletti, come Gandhi, Martin
Luther King, Nelson Mandela, che hanno anteposto alla violenza e all’occhio per occhio e al
dente per dente l’amore e il perdono, nella consapevolezza che “provare rancore e desiderio di
vendetta è come prendere un veleno, credendo
che faccia danno all’altro”. Ad un livello più generale qualcosa, però, sta cambiando. Se fino a poco
tempo fa il tema del perdono sopravviveva, spesso interpretato ed applicato in senso errato o
riduttivo, soltanto in ambito strettamente religioso
ed era del tutto ignorato dal sistema giuridico e
dalle scienze sociali, ora assistiamo ad una inversione di tendenza : tanto in ambito religioso quanto sociale si è incominciato a comprendere come
la promozione su larga scala di una cultura del
perdono sia una delle armi più potenti ed efficaci di cui si possa disporre per combattere la
violenza, per risolvere ogni ordine di conflitti e
per costruire la pace ed il benessere materiale
e morale della umanità. In Sud Africa, ad esempio, dopo feroci lotte e fiumi di sangue da alcuni anni si è concluso positivamente un percorso di mediazione e di riconciliazione tra i bianchi ed i neri : la lezione di questa esperienza innovativa, quanto straordinaria può insegnare molto sul bisogno di verità insito nelle persone, sicuramente più forte del desiderio di condanna e di
vendetta, specie quando si riesce a trovare lo spazio non solo per le sofferenze delle vittime, ma
anche per i trascorsi e le vicende dell’offensore. Sono nate così e si sono moltiplicate nel mondo ed anche nel nostro Paese, numerose scuole di perdono e di riconciliazione che trovano sempre più spazio anche nell’ambito della giustizia
penale : la finalità è quella di far incontrare e dialogare le vittime e gli autori di reati. Ai detenuti
si richiede di identificarsi nelle vittime per capire il male ed il danno causato, ma allo stesso
tempo si chiede a chi ha subito il reato di capire la storia di chi l’ha commesso e le condizioni di vita in carcere.
Un nuovo modello di giustizia, che allo stesso
tempo sia riabilitativa nei confronti del detenuto
e riparatrice nei confronti della parte lesa.
Un tema questo della riconciliazione e del perdono sempre di grande attualità e costantemente
alla attenzione dei media e della collettività anche
a causa della emergenza e del sovraffollamento delle nostre carceri, che rendono la detenzione
incivile, disumana, insopportabile e soprattutto
inutile.L’esperienza del perdono e della riconciliazione insegna che le persone che subiscono
violenza vengono colpite negli aspetti fondamentali
della loro esistenza, quali la fiducia in se stesse , il significato della propria vita, la capacità di
socializzare e di continuare a convivere con gli
altri. Le relazioni umane e sociali per le persone sono come uno specchio : l’offesa rompe lo
specchio e le vittime non si riconoscono più, fino
a e smarrire le propria identità e la propria fiducia in se stesse e negli altri. Una violenza, un
oltraggio, intaccano, pregiudicano ed interrompono traumaticamente le relazioni sociali delle
persone che li subiscono. Un cammino di riconciliazione e di perdono, per quanto complesso
e difficile, tende alla ricostruzione e al recupero di quelle relazioni fondamentali e indispensabili
per il ritorno ad una esistenza normale o quanto meno accettabile. A seguito di un episodio di
violenza spesso non è soltanto la vittima a vivere una notte buia e dolorosa, ma anche l’autore del reato. Chi ha fatto del male e si trova in
carcere oltre a soffrire per la mancanza di liber-
tà non di rado incontra anche molta difficoltà a perdonarsi per quello che ha fatto.
In molti casi i detenuti continuano a colpevolizzarsi e per anni sono torturati dai rimorsi e dai sensi di colpa. Non pochi giungono a togliersi la vita.
E’ certamente giusto che chi commette un
delitto sia punito, ma l’obiettivo principale
della condanna dovrebbe essere il recupero
del colpevole e non , come spesso accade, la sua definitiva rovina. Un sistema giudiziario evoluto dovrebbe adoperarsi anche
per il recupero della parte offesa : una vittima che nutra rabbia e desiderio di vendetta è doppiamente vittima e la riparazione verso l’offeso è tanto importante quanto chi ha perpetrato la violenza.
Come passare dalle tenebre e dalla disperazione di un carcere, dell’odio o di una violenza subita alla luce e alla speranza del
giorno? Come trasformare un comprensibile sentimento di rabbia, di indignazione,
di impotenza in un sentimento di riconciliazione,
di serenità e di pace? Cosa fare per spezzare la catena del male e per interrompere la spirale del disprezzo, dell’odio, della
condanna senza appello? E’ un cammino
niente affatto facile, ma sicuramente quella del perdono e della riconciliazione è la
strada giusta, l’unica che consenta alla vittima e all’autore di un crimine di guardare il mondo con occhi diversi, con rinnovata fiducia e con
speranza. Perseguire il sommo bene della giustizia, della conversione e del perdono richiede da parte dei singoli, come da parte della collettività e della autorità l’esercizio costante del
perdono, della umiltà e della saggezza. La difficoltà di una vera giustizia appare chiara in questa poesia Kahlil Gibran :
“Giustizia in terra anche gli spiriti trarrebbe
a piangere per l’abuso della parola,
e fossero i morti a far da testimoni,
riderebbero dell’equità di questo mondo.
Sì, morte e prigionia comminiamo
a chi solo un po’ offende la legge,
mentre onori, ricchezza e rispetto
concediamo a ribaldi e pirati.
Rubare un fiore diciamo che è nulla,
saccheggiare un campo è cavalleria;
chi uccide un corpo deve morire,
chi uccide lo spirito può andar libero.
Nella foresta non esistono giudici,
né vi è giudizio e castigo.
Quando getta il salice la sua ombra
su un terreno, e non chiede permesso,
nessuno sente dire dal cipresso:
“Oh, questo è contro diritto e legge.
Come la neve,la nostra giustizia umana
si fonde, vergognosa, al caldo del sole!
Porgimi il flauto e, tu, canta!
Il canto è per il cuore giudice sublime,
e il lamento del flauto resterà
dopo che saranno spente colpe e delitti”.
Per evitare che anche la nostra giustizia si dissolva vergognosa al caldo del primo sole abbiamo una sola strada da percorrere, quella della
riconciliazione e del perdono, quella che spegne
per sempre colpe e delitti.
Nell’immagine: Caino e Abele, Novelli Pietro, Roma
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Claudio Capretti
C
arissimo Esaù, l’altra sera
nel terminare un puzzle
con i nostri figli, ci siamo
accorti che ne mancava un pezzetto.
Evidentemente la casa costruttrice non lo aveva inserito o si era smarrito. Fatto sta, che il lavoro fatto era
compromesso proprio da quell’unico pezzetto mancante, neanche
poi così importante. Per smussare l’amarezza abbiamo preso lo spunto per dire loro che ogni essere umano, piccolo o grande che sia, ha la
sua importanza nella vita, per la sua
unicità e per la sua storia. Che ognuno di noi è fondamentale per
completare il disegno che Dio ha
sull’umanità. Senza volerlo ci siamo messi a parlare di figure “minori” della Sacra Scrittura. Figure di
cui si parla poco, ma che hanno avuto la loro importanza, per la realizzazione del progetto di Dio.
Alla fine, per fartela breve, abbiamo parlato di te, e perdona se te
lo faccio notare, ma tra i personaggi
“secondari”, non sei neanche quello che è in testa ai sondaggi.
Non è che voglia sminuirti, però la
scena principale se la è accaparrata il tuo gemello Giacobbe, il quale
iniziò a contendertela fin dal grembo materno. La povera Rebecca fu
la prima ad accorgersene, e per la preoccupazione andò a consultare
non ostetriche, o cartomanti ma bensì direttamente il Signore, il quale
le rispose che “due nazioni erano nel suo seno, e due popoli si disperderanno” (Gn 25,23). Nell’uscire dal ventre materno quel baro matricolato (di nome e di fatto) di tuo fratello, per poco non ti rubò la primogenitura. Ma nonostante si fosse attaccato al tuo calcagno tu fosti il primo
ad uscire dall’utero di Rebecca. A te aspettava la primogenitura. Crescendo
eri sempre di più la luce degli occhi di tuo padre Isacco, e mentre Giacobbe,
il “cocco di mamma” se ne stava tranquillo e beato dimorando sotto le
tende, tu divenisti sempre più abile nella caccia (Gn 25,27). Forse, dentro di te, non immaginavi neanche lontanamente il tranello che
Giacobbe stava meditando.
Perdona se te lo faccio notare, ma hai commesso l’errore di sentirti già
arrivato, e di essere l’uomo a cui tutto era dovuto, dando tutto per scontato. Invece il buon Dio cambiò le carte in tavola, e preferì tuo fratello.
Se la cosa ti può consolare non sarà neanche l’ultima volta che il Signore
scavalcherà il diritto di successione. Lui sceglie chi vuole , quando vuole, e i suoi sentieri, per nostra fortuna, non sono i nostri sentieri.
Sai Esaù, dal fattaccio delle lenticchie, avremmo dovuto imparare tante cose, purtroppo non lo abbiamo ancora fatto, e ancora oggi continuiamo
a barattare ciò che conta realmente, come la tua primogenitura, con ciò
che vale poco, come quel piatto di lenticchie.
Non facciamo che svenderci per soddisfare un momentaneo impulso,
per poi ritrovarci con il niente in mano. Credo che alla radice di ciò, ci
sia un aspetto ancora più grave, quello di aver perso la cognizione dell’essenziale, di ciò che veramente ci può “saziare”. Ci siamo ridotti ad
essere di mendicanti di un bicchiere di acqua, dimenticando di avere
l’oceano nelle nostre tasche. Un filosofo danese, Soren Kierkegaard, usò
un’espressione che rende molto bene l’idea di come la società di oggi
si stia riducendo, e dimmi se non sei d’accordo: “ La nave (che è un’immagine della società) ormai è in mano al cuoco di bordo; e le parole che
trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta (che
non interessa più a nessuno), ma quello che si mangerà domani”.
L’idolatria del banale si sta diffondendo, nel modo più subdolo a macchia d’olio. Vedi caro Esaù, non ti ho scritto per entrare nelle tue vicissitudini familiari, ognuno di noi ha le sue a cui guardare, ne tantomeno
per farti dei rimproveri o parlar male di Giacobbe. Le cose sono andate così come sono andate, e non ci possiamo far niente. Se ti può consolare un grande papa, Giovanni Paolo I, amava ripetere una frase che
sua madre gli ripeteva spesso:
“Non ti preoccupare Albino, nella vita succede solo quello che Dio vuole”, quindi , è inutile aggiungere altro. Ma a parte quella leggerezza del
piatto di lenticchie, alla fine ci hai lasciato una seconda grande lezione, da cui invece ne dovremmo prendere esempio. Mii sarebbe piaciuto essere una mosca per vedere il momento in cui rivedesti Giacobbe.
Eri andato lì per dargli una sonora lezione, per i torti subiti, il tempo non
aveva guarito proprio un bel niente; ma lo spettacolo che ti si pose dinnanzi, non te lo saresti mai aspettato. Il suo spaurito esercito di donne
fanciulli e bestie, scompariva davanti ai tuoi quattrocento uomini.
Tu eri ancora in piena forma sul tuo cavallo, e lui zoppo che avanzava
verso di te inchinandosi per sette volte (Gn 33,3). Ti accorgesti per primo che qualcosa in Giacobbe era cambiato. Avevi lasciato Giacobbe ed
ora eri davanti a colui che aveva combattuto con Dio, Israele. Forse
non lo percepisti con tanta chiarezza, ma di sicuro in tuo fratello vedesti la presenza di Dio, e questo bastò per cancellare ogni torto.
”Colpo di scena o colpo di genio? Forse solo colpo di grazia” (Don Tonino
Bello). Il grande cacciatore si lasciò vincere ancora una volta dalla sua
preda, lo abbracciò e lo accolse nel grembo di quel pezzo di terra che
era suo. Credo sia stata la sconfitta più dolce della tua vita, quel genere di sconfitta che fece di te un vincitore.
Sai Esaù, noi oggi facciamo ancora fatica a lasciarci sedurre dai colpi
di grazia che ci si presentano dinnanzi, e cioè a vedere nell’altro, (l’immigrato, il carcerato, il vicino di casa, il collega di lavoro, e ogni uomo
che incontriamo sul nostro cammino), un nostro fratello, o meglio, un
immagine di Dio. Alla fine caro Esaù, sei stato un grande. “Comunque
grazie Esaù. Qua la mano. La mano, non il calcagno.” (Don Tonino Bello)
Nella foto: Esaù vende la priomogenitura, di H. Terbrugghen, 1627, Madrid.
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Rigel Langella
“Sotto il profilo culturale era un autentico genio e un uomo enciclopedico: ma ciò non gli impedì di nutrire sempre un profondo affetto per la
sua città e di renderla celebre nel mondo dei dotti”. Così scriveva nel
1995 mons. Andrea Maria Erba, a proposito del cardinale umanista Stefano
Borgia, con l’intento di rendere un omaggio al “figlio illustre” e con l’auspicio che “la fama renda giustizia ai suoi meriti”.
A distanza di ben tre lustri, possiamo dire che la profezia di quest’uomo di fede e di cultura, si è in parte realizzata e in parte continua a realizzarsi. Ancora oggi, nel ricordo illustre del Borgia, la città, con le sue
istituzioni prestigiose (quali i Musei archeologico e diocesano, il Fondo
antico della Biblioteca, l’Archivio Diocesano, luoghi ove si conservano
memorie di uno spirito lungimirante), vede il suo nome antico e nobile,
portato alto e reso celebre proprio nel mondo dei dotti.
Parliamo del Premio europeo “Stefano Borgia”, arrivato alla VI edizione
e presentato ufficialmente giovedì 20 maggio 2010, nella Biblioteca comunale “A. Tersenghi”, in occasione della ristampa dell’Epistolario. Ora è
nuovamente disponibile il “trittico” dell’Epistolario Borgiano, grazie all’attività del CISB (Centro Internazionale di Studi Borgiani), che, sostenendo
l’onere economico, ha donato alla Biblioteca comunale la ristampa del
secondo dei tre volumi: essendo esaurito ormai da molti anni la Biblioteca
comunale non poteva soddisfare le richieste che, come ricordato da Filippo
Alivernini, continuano ad arrivare dalle biblioteche e dalle università italiane ed europee per la consultazione integrale dell’Epistolario, che fa
parte della collana “Quaderni della biblioteca comunale”.
L’iniziativa riconferma quanto affermato dal prof. Mario Capasso già lo
scorso dicembre, nella splendida sede del Museo Diocesano, quando
fu conferita la borsa di scavo 2010: “L’edizione dell’enorme Epistolario
è sicuramente uno dei segni più tangibili della riscoperta in Velletri del-
le memorie borgiane e, più in generale, della sua storia alla quale ci stiamo dedicando dal 1986. In questi anni, proprio il Centro Borgiano, al
quale aderiscono molti eminenti studiosi italiani, è diventato il punto di
riferimento maggiore per quanti da allora hanno voluto riscoprire il passato borgiano di Velletri”.
Il CISB finanzia una borsa di scavo che dal 2008 ha cadenza annuale,
anziché biennale, a sostegno di un giovane archeologo, impegnato nello scavo nel Fayyum. Quindi, il nome della Città viene oggi ricordato nei
rapporti di scavo accademici, nelle pubblicazioni ufficiali e conosciuto in
tutti i congressi internazionali di papirologia ed egittologia.
L’impegnativa campagna di scavo si svolge annualmente in autunno ai
bordi dell’Oasi del Fayyum, nell’Egitto settentrionale. Questa zona, oggi
desertica, era un tempo il granaio dell’intero Egitto, come del resto la
Tunisia o la Libia ancora all’epoca dell’Impero Romano.
Nel III sec. a.C. i Greci, al seguito di Alessandro Magno, conquistano la
Terra dei Faraoni e insediano coloni, fondando numerose città, tra cui
Soknopaiou-nesos (l’Isola di Soknopaiou, il dio-coccodrillo).
Situata ai margini del deserto, la città, ove oggi scava Antonella Longo,
borsista “borgiana”, aveva una notevole valenza strategica, come tappa per le carovane che trasportavano pregiate merci da e verso il Mediterraneo,
lungo la Via della Seta e la Via dell’Incenso, e molti sono i papiri e i reperti che vengono alla luce, tra mille difficoltà e insidie.
A questa sezione archeologica, si è affiancata, sempre dal 2008, anche
una sezione in medicina legale e diritto delle assicurazioni, per il conferimento di una borsa di studio dedicata a “Fernando Cancellieri”, voluta dalla famiglia del compianto imprenditore, a ricordo dell’impegno profuso per la città di Velletri e per i giovani.
Alessandra Cancellieri, responsabile dei rapporti con l’Università di UEA
(Unione Europea Assicuratori), ha illustrato il Premio e il convegno scientifico che lo affianca, in contemporanea alla presentazione veliterna a
L’Aquila, scelta come emblematica sede di un convegno di grande valenza, svoltosi dal 20 al 22 maggio e dedicato al tema “Catastrofi naturali
e assicurazione”, di cui la Cancellieri ha moderato la sessione congressuale.
In questo prestigioso consesso è stato anticipato anche lo svolgimento
del corso, realizzato con il patrocinio dell’Università di Roma Due “Tor
Vergata”, in programma il prossimo autunno, nel quale vincitore e finalisti del Premio Borgia illustreranno le loro ricerche, i loro approfonditi
studi a una selezionata platea.
Un premio, quindi, che non dura un giorno o un’ora, ma che, di anno in
anno cresce e offre occasioni d’eccellenza a vincitori e finalisti, per impegnarsi “sul campo”, approfondire studi e ricerche, pubblicarle, illustrarle in consessi accademici. Ricordiamo che lo scorso Premio, edizione
senior, è andato a Emergency, per l’impegno umanitario.
Renato Mammucari, nonostante il periodo critico che attraversa la società contemporanea e il limitato sostegno che riceve la cultura ha voluto
offrire uno spiraglio di speranza:
“Nonostante le traversie di Velletri, gli eventi bellici, le razzie, le distruzioni e l’ingiuria del tempo, il fondo antico della nostra biblioteca è arrivato a noi preservato e, in questi anni, in cui assistiamo a una ripresa
d’interesse ricerche, pubblicazioni, convegni, attività scientifiche ad ampio
raggio, grazie all’attività del Centro Borgiano, dimostrano come ciò che
si fa per la cultura - oggi, come ai tempi di Stefano Borgia che molti preziosi libri donò alla pubblica libreria, che ancora li conserva - vada oltre
lo spazio, il tempo e le vicende contingenti, personali o politiche”.
Il termine per la partecipazione, riservato a giovani fino a 35 anni, è fissato al 30 ottobre 2010, tutte le info per conoscere i requisiti di partecipazione sul sito dell’associazione, appena rinnovato e aggiornato
(www.premioborgia.it).
L’iniziativa è patrocinata dalla Regione Lazio, Provincia di Roma e Comune
di Velletri, assessorato alla cultura, in collaborazione con le Università
di Lecce e di Roma Tor Vergata.
Nell’immagine del titolo:
Statua bronzea di Stefano Borgia, realizzata da Giancarlo Soprano nell’anno 2001 e collocata sulla scalinata prospicente il Palazzo Comunale di Velletri.
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“Fiera della sua papalis et imperialis
libertas, Velletri ha sempre spalancato porte e cuori ai Sommi Pontefici che le hanno
reso visita – di proposito e spesso di passaggio – a cominciare da Pio IV, nel 1563,
per restare all’età moderna. Quando il Papa
era anche sovrano, la città gli mandava incontro i suoi archibugieri in alta uniforme e sparava a salve le sue artiglierie.
Gregorio XVI ci era giunto il 10 ottobre 1831,
partendo, come farà 149 anni più tardi Papa
Wojtyla, da Castelgandolfo e vi aveva pernottato. Pare quindi che nessuno dei numerosi soggiorni pontifici espressamente voluti sia stato breve come questo di cui celebriamo l’anniversario, durato appena sei sette ore. Ma ben pochi – penso – hanno potuto incidere nella millenaria vicenda cittadina con più vivacità, più simpatia e più letizia. Tutti coloro che hanno potuto avvicinare
il Santo Padre – e con la sua compiacente
connivenza l’entusiasmo popolare ebbe la
meglio sulle liste doverosamente compilate in antecedenza – hanno avuto la sensazione di avere incontrato un vero amico.
Nessun formalismo, nessun sussiego, nessun apparato aulico. Un minimo di protocollo, che il rispetto e la compostezza della gente rendeva sufficiente e nel quale era
il Papa ad accorciare e sopprimere le distanze. Una visita pastorale, non diversa nei propositi, nella impostazione, nello svolgimento,
nello stile da quella che avrebbe compiuto
il Vescovo diocesano, con la differenza che
si trattava di un Vescovo che lo è contemporaneamente di altre 2650 Chiese, nei cinque continenti, Joannes Paulus, Catholicae
Ecclesiae Episcopus.
Visita sotica e solenne, quindi, resa tale non
dalla pompa, ma dalla somma dignità del
Pastore e dall’altezza del suo magistero, che
dalla cattedra eretta nel centro storico di Velletri,
sotto il suo limpido cielo settembrino, si riversava fluente su queste altre migliaia di Chiese.
Ma tuttavia visita semplice, spontanea; in
una parola evangelica.”
Così scriveva l’allora Cardinale Titolare della nostra Diocesi Sebastiano Baggio nel libro
9
commemorativo del
primo anniversario
della visita che S.S.
Giovanni Paolo II fece
alla città il 7 settembre 1980, a cura del prof.
Antonio Venditti, ed
Vela. Mentre il Santo
Padre dopo i saluti ufficiale alle autorità,
all’inizio dell’omelia
esordiva dicendo:
“Desidero, innanzitutto,
dirvi la mia grande
gioia nel potermi trovare oggi in mezzo a
voi, nella vostra bellissima Velletri… so di
trovarmi in una città
dalla storia antica e illustre, sia nell’ambito civile che in quello ecclesiastico; quanto al
primo, è sufficiente pensare alle origini dell’imperatore Ottaviano
Augusto; nel secondo
campeggiano le figure di non pochi vescovi elevati o alla Cattedra
di Pietro o addirittura agli onori degli altari. Ma so anche altrettanto bene che la vitalità dei Veliterni non è affatto limitata al passato, bensì costituisce un patrimonio fecondo nel presente, per cui la vostra Città si distingue per il suo dinamismo a vari livelli…
So che a Velletri si suole dire che si nutrono in particolare tre amori: la famiglia, il
lavoro e la Madonna. Ebbene se permettete voglio dirvi che li condivido, e su ciascuno
di essi mi è caro spendere qualche breve parola:… la famiglia è il primo ambiente vitale, che l’uomo incontra venendo al mondo.
Per questo è importante curarla e proteggerla, perché possa assolvere adeguatamente
ai compiti specifici, che le sono affidati dalla natura e dalla rivelazione cristiana… essa
è il luogo dove l’amore genera la vita…
In secondo luogo voi amate il lavoro. Su questi fertili colli il vostro lavoro si concretizza certo nell’immagine ilare e serena della vigna, che
produce quel tipico e celebre vino
locale, di cui andate fieri, e giustamente.
Ma non dimenticate ogni altro
tipo di attività… la Chiesa, come sapete, dedica le sue premure più attente ai problemi del lavoro e dei lavoratori…il lavoro ha bisogno non soltanto di essere promosso, ma anche
di essere protetto e difeso, così che
i doveri dei lavoratori si bilancino
giustamente con i loro diritti riconosciuti e rispettati.
Non sarà mai lecito, dal punto di
vista cristiano, asservire la persona umana né ad un individuo né ad
un sistema in modo da renderla puro strumento di produzione… Infine, voi amate la
Madre di Gesù… me ne compiaccio grandemente, e vi esorto a perseverare in questa vostra devozione che, se rettamente intesa e vissuta, conduce sicuramente a penetrare sempre più nel mistero di Cristo, nostro
solo Salvatore.
Il cuore della Madre sua è talmente grande e tenero da riversare il proprio amore anche
su ciascuno di noi, bisognosi come siamo
ogni giorno della sua protezione.”
Con questi brevissimi estratti abbiamo
voluto ricordare quel evento che trenta anni
fa scaldò i cuori dei cittadini di Velletri e dei
tantissimi ospiti che quel giorno gioiosamente
la invasero.
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don Dario Vitali*
a Lumen Gentium dedica un intero paragrafo, il 46, a sottolineare la grandezza
della consacrazione a Dio mediante i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza.
Dopo aver affermato che la professione religiosa immette in uno stato di vita riconosciuto dalla Chiesa (n. 45), il concilio domanda che l’impegno dei religiosi sia tutto teso a rendere presente a tutti – ai fedeli come agli infedeli, dice il
testo – «il Cristo che sta sul monte a pregare, o
che annunzia il Regno di Dio alle folle, o che risana i malati e i feriti e converte i peccatori in buon
grano, o benedice i fanciulli e da del bene a tutti, sempre comunque obbediente alla volontà del
Padre che lo ha mandato».
La frase lascia intendere che ogni istituto di vita
consacrata, secondo la finalità specifica per cui
è sorto, rende presente un aspetto della vita di
Cristo. Così formulato, il capoverso rimanda indubbiamente alla spiritualità propria di ciascuna famiglia religiosa; non si può dire invece che si riferisca al carisma del Fondatore e/o dell’Istituto, per
il semplice fatto che il tema conoscerà un ampio
sviluppo soltanto dopo il concilio, con una
estensione e un’applicazione alla vita religiosa dell’idea di carisma recuperata in LG 12.
E tuttavia si può cogliere qui una felice anticipazione
di una chiave interpretativa della vita religiosa oggi
dominante, che ha trovato la sua consacrazione nell’esortazione post-sinodale Vita consacrata di Giovanni Paolo II.
Contro l’idea che i religiosi costituiscano un mondo a sé, isolato dal corpo ecclesiale e regolato
da leggi proprie, il testo afferma che il loro impegno a incarnare un aspetto della vita di Gesù è
una via privilegiata attraverso cui la Chiesa presenta sempre meglio a tutti il mistero di Cristo.
Come a dire che i religiosi non costituiscono una
casta separata dal corpo ecclesiale, ma sono membri della Chiesa che, in ragione della speciale consacrazione mediante i voti si povertà, castità e
obbedienza, sono chiamati a rendere presente
nel mondo il Cristo povero, casto e obbediente.
Va da sé che una cattiva testimonianza di quanti sono indicati come modelli per gli altri offusca
maggiormente l’immagine di Cristo e della sua
Chiesa. Per questo l’insistenza del testo cade sulla scelta di imitare Cristo obbediente alla volontà del Padre, al di là dell’aspetto della vita di Cristo
che ogni famiglia religiosa elegge a fondamento della propria spiritualità. Naturalmente, «non
è l’abito che fa il monaco»: la vita religiosa deve
diventare manifestazione di una scelta in grado
di condurre l’uomo a piena maturità. Il concilio
si premura di chiarire che «la professione dei consigli evangelici, quantunque comporti la rinuncia
a beni certamente apprezzabili, non si oppone
al vero sviluppo della persona umana, ma per sua
stessa natura gli è di grandissimo aiuto».
Si tratta però di una via stretta, che esige la radicalità della sequela e la fedeltà agli impegni:
«Infatti, i consigli, abbracciati volontariamente secondo la personale vocazione di ognuno, aiutano non
poco alla purificazione del cuore e alla libertà spirituale, tengono continuamente acceso il fervore della carità e, come è comprovato dall’esempio di tanti santi fondatori, hanno soprattutto la
forza di maggiormente conformare il cristiano al
genere di vita verginale e povera che Cristo Signore
scelse per sé e che la Vergine Madre sua abbracciò». Abbassare la guardia rispetto a questa misura di radicalità evangelica rischia di trasformare
la vita religiosa in «luogo» dove l’infedeltà e il compromesso risultano più evidenti e perciò più gravi: si tratterebbe della “città sul monte” che rimane nascosta, o della “lucerna posta sul candelabro” senza che faccia luce (cfr Mt 5,14).
Il richiamo ai «tanti santi fondatori» lascia intendere come il dono della vita religiosa vada custodito secondo lo spirito iniziale, con la forza che
ha motivato le origini delle tante famiglie religiose. Oggi le vicende di alcune recenti fondazioni
mostrano come non basti il richiamo agli inizi della famiglia religiosa, che pongono seri interrogativi
sull’autenticità stessa del carisma del fondatore,
quando risultano viziati addirittura da gravi scandali. Naturalmente, l’autenticità del carisma non
dipende dalla santità del fondatore, come dimostrano casi del passato (si pensi alle origini dei
Cappuccini, con uno degli iniziatori che, in polemica con la Chiesa, finì tra le file dei Riformatori);
ma senza un forte ideale coltivato nell’anelito alla
santità, la vita religiosa rischia di «perdere il suo
sapore» (cfr Mt 5,13) e di trasformarsi in una grave controtestimonianza. Né la chiamata alla santità dei religiosi è fine a se stessa: i religiosi nella Chiesa hanno una funzione fondamentale di
presenza nel mondo, anche quando questa è meno
evidente.
In questa direzione va il monito del concilio:
«Né pensi alcuno che i religiosi con la loro consacrazione diventino o estranei agli uomini o inutili alla città terrena». Non si tratta, naturalmente, di una forma di presenza destinata immediatamente alla costruzione della città terrena: sempre la finalità della vita religiosa è l’edificazione
del Regno di Dio,
anche quando è coinvolta in opere dirette
al servizio dell’uomo e
della sua dignità. Ma
anche quando «non
sono direttamente presenti ai loro contemporanei» (si pensi alle
forme di vita claustrale maschile e femminile), i religiosi «li tengono presenti in modo
più profondo nel cuore di Cristo e con essi collaborano spiritualmente, affinché la costruzione della città terrena sia
sempre fondata nel Signore e a lui diretta, né avvenga che lavorino invano quelli che la stanno costruendo». Il rimando è evidentemente all’intercessione continua che i consacrati sono chiamati a fare
davanti a Dio per l’umanità intera. Se un rilievo
bisogna fare, è quello di un debole rimando alla
dimensione escatologica della vita cristiana: mentre oggi sembra questo uno dei registri più ripetuti per illustrare la finalità della vita religiosa, il
concilio lo accenna unicamente in LG 44, quando afferma che «lo stato religioso, che rende più
liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, rende visibile per tutti i credenti la presenza, già in questo
mondo, dei beni celesti, meglio testimonia la vita
nuova ed eterna acquistata dalla redenzione di
Cristo e meglio preannuncia la futura resurrezione
e la gloria del regno celeste».
Né il tema ritorna con particolare evidenza nel
decreto Perfectae Caritatis, che insiste maggiormente
sul primato della vita spirituale.
Per quanto i due temi si possano avvicinare, la
dimensione escatologica della vita cristiana
costituisce un proprium che illustra con particolare aderenza i compiti e le sfide che competono a quanti hanno dedicato la vita a Dio in una
speciale consacrazione. Il n. 46 termina con una
esortazione, che rende bene la grandezza dello stato di vita dei religiosi e l’importanza che la
Chiesa attribuisce alla vita religiosa:
«Perciò il sacro concilio conferma e loda gli uomini e le donne, fratelli e sorelle, che nei monasteri,
o nelle scuole o negli ospedali, o nelle missioni,
con perseverante e umile fedeltà alla predetta consacrazione, onorano la sposa di Cristo e a tutti
gli uomini prestano generosi e diversissimi servizi». Questo spiega anche la redazione di un decreto dedicato al rinnovamento della vita religiosa,
indicando i principi generali per il suo rinnovamento.
La domanda è se quei testi, che si applicavano
a una situazione tutto sommato felice, siano ancora in grado di interpretare una situazione di forte crisi che ha investito la vita religiosa e che vede
molti istituti a rischio di chiusura, altri costretti a
ridimensionare drasticamente le loro opere e la
loro presenza nella Chiesa e nel mondo.
Al di là del giudizio che si può dare sugli sviluppi della vita religiosa dopo il concilio, riprendere
le indicazioni del concilio può essere un’occasione
per rileggere un percorso che necessita di un supplemento di coraggio nel discernimento e nelle
scelte.
*teologo docente alla P.U.G. di Roma
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Sara Gilotta
E
ducare vuol dire etimologicamente “portar fuori, far emergere” le qualità innate che ciascun essere umano porta
con sé nascendo. Qualità innate che vanno, tuttavia, coltivate, curate, indirizzate, in modo che
l’educazione costituisca non una semplice
sovrastruttura, ma il mezzo, per offrire ad ogni
individuo e sin dalla più tenera età, la possibilità di costruire la sua identità.
Questo è press’a poco quel che la pedagogia
dice dell’educazione e del suo ruolo con parole tanto semplici, da far sembrare lo stesso processo educativo altrettanto semplice.
Ed invece non è mai così.
Intanto perché, secondo me, educare vuol dire
innanzitutto educarsi, desiderare di confrontarsi con colui cui l’educazione è rivolta, per guardare a lui non come ad un “oggetto” da perfezionare, ma come soggetto libero ed intelligente,
cui rivolgersi innanzitutto con amore, nella convinzione che
solo l’amore
può permettere
di guardare a chi è altro da
noi , ma che per molti aspetti, come
nel caso del bambino, dipende da noi,
con la generosa volontà di giovare a lui e
non a noi stessi, troppo spesso desiderosi di ottenere soddisfazioni egoistiche
e perciò errate.
E purtroppo proprio se si considera la famiglia il luogo per antonomasia deputato all’educazione, ci si accorge
quanto spesso un principio pur così semplice, risulti di difficile realizzazione, per il
carattere stesso dell’istituzione familiare e soprattutto
per i tanti motivi di
crisi, che di essa
si sono impossessati.
La famiglia non è
più, purtroppo,
ma mi chiedo se
lo sia mai stata davvero, il
nido accogliente e
sicuro, nel
quale rifugiarsi e nel quale i genitori rappresentavano il
modello cui riferirsi e a cui rifarsi, per costruire
se stessi. Ma se un tempo al mondo dei padri
si guardava con rispetto, considerandolo quanto meno come simbolo di un raggiunto equilibrio fondato sul senso del dovere e sull’esempio,
oggi troppo spesso è venuto meno proprio il ruolo della famiglia come esempio, cui il figlio può
11
guardare, per crescere con sicurezza.
I genitori, infatti, sono spesso disorientati, non
hanno ben chiaro il loro ruolo, né talora il fine
e il significato dell’educazione.
Così spesso essa si risolve e si riduce a qualcosa di superficiale, fondato non sull’amore e
sul rispetto reciproco,principi ben impegnativi da
perseguire, ma su un gioco di forze e di volontà contrapposte, in cui vincono opportunismi di
vario genere , che con l’educazione ben poco
hanno a che fare. Ne deriva, e la realtà è sotto gli occhi di tutti, che l’aspetto dell’educazione che più è stato messo in ombra è proprio quello che si può definire morale.
Si è andata perdendo, infatti, sia quel tipo di educazione formale, che pretendeva l’obbedienza,
sia quell’aspetto di vera formazione morale e spirituale, per cui il bambino impara a comprendere e a farsi comprendere nel rispetto dell’altro, a cominciare da se stesso,per arrivare, attraverso i genitori, agli altri, secondo quel principio di eguaglianza e di rispetto, che solo può
rato e fatto proprio grazie all’educazione familiare, che la scuola e la società
dovrebbero confermare e rafforzare nell’esercizio quotidiano, che è rappresentato dalla
vita stessa. E su queste basi non può che poggiare anche l’educazione religiosa, l’educazione al riconoscimento di un Assoluto, che non
può essere considerato fuori della storia, ma che,
come per la famiglia, deve tener conto della libertà del giovane, aiutandolo a costruirsi , per consentirgli una scelta personale, su cui impegnarsi
, tenendo conto dei mutamenti culturali, che influiscono fortemente anche “sull’idea” di sacro e
di trascendente.
Per questo mi pare opportuno far rifermento ad
condurre alla solidarietà, a cominciare dai fratelli, fino alla società intera.
E’ innegabile, del resto, che il vivere civile non
può accettare tanti piccoli o grandi egoisti, ma
individui capaci di autocritica e di confronto leale e corretto.
E il confronto può essere utile e vero, solo se
basato sul dialogo sincero e rispettoso, impa-
una considerazione tratta dall’enciclica “Ecclesiam
suam” di Papa Paolo VI, che dice:
”Bisogna diventare fratelli degli uomini, per
il fatto stesso che si vuole essere loro pastori, loro padri e loro maestri”.
Una riflessione bellissima, che può davvero essere considerata l’unica vera strada da seguire,
per ogni tipo di educazione, non solo religiosa.
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Stanislao Fioramonti
N
ella terza giornata del prossimo Convegno Diocesano, in programma a Velletri dal 20 al 22
settembre prossimo, sarà proposto uno spettacolo teatrale a cura di una compagnia
siculo-toscana, la EmmeA Teatro di
Castiglion Fiorentino (Arezzo); il suo titolo indica la volontà di investigare e raccontare
la figura di don Lorenzo Milani, - da Enzo
Biagi definito “sicuramente una delle figure più rivoluzionarie del ‘900”
– cercando di fuggire ogni mitizzazione, basandosi sulle sue opere e sulle biografie disponibili, e tentando di dare allo spettacolo un “taglio” leggero nonostante la “pesantezza” del personaggio.
Si seguiranno le tappe della vicenda storica del priore di Barbiana, dalla sua nascita a Firenze il 23 maggio 1923, in una famiglia di intellettuali atei e anticlericali e da madre ebrea, alla sua conversione (1943)
e al seminario, alla prima esperienza di parroco a san Donato di Calenzano,
alle sue convinzioni antiintellettualistiche, antiborghesi e vicine ai poveri e alle prese di posizione polemiche contro la mentalità “clericale”, fino
all’esilio nel borgo montano di Barbiana (comune di Vicchio nel Mugello),
dove istituì la famosa scuola popolare, dal 1953 alla morte per leucemia, a soli 44 anni, il 24 giugno 1967.
Al centro della rappresentazione gli autori (Norma Angelini, Francesco
Fantauzzi e Fabio Monti) hanno scelto di porre un testo di don Milani
poco noto rispetto alle sue opere principali (Esperienze pastorali, Lettera
ai cappellani militari, Lettera ai giudici, Lettera a una Professoressa ecc.),
ma inserito nelle Esperienze pastorali in quanto ambientato a San Donato
di Calenzano e alla Scuola Popolare che già lì don Milani aveva istituito all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso.
Il testo è Lettera aperta a un predicatore, scritto verso il 1952 dopo che
un domenicano era venuto nella sua parrocchia a predicare e a confessare,
producendo turbamenti e imbarazzi per la diversità dei suoi metodi rispet-
to a quelli di don Lorenzo. Lo sconcerto principale era legato alla scomunica che il papa Pio XII aveva comminato a chiunque professasse
attivamente il Comunismo ateo e marxista, direttiva che il predicatore
non esitava ad applicare in un paese dove nel 1946 i comunisti avevano avuto il 70% dei voti! Don Milani inizia ricordando all’interlocutore che
un parroco in un paese di campagna è per i suoi parrocchiani come un
padre di famiglia, li conosce tutti da tempo, dietro ogni voce che viene
al confessionale riconosce la persona in ogni minimo particolare; quindi un confessore esterno, quando è invitato a collaborare, deve adattarsi ai metodi del parroco anziché adottare i propri indistintamente. Notando
poi che il predicatore aveva negato l’assoluzione a certi consuetudinari e recidivi, don Lorenzo dice che lui agisce diversamente, sia per la
formazione ricevuta nel seminario fiorentino (“Si assolve chi è disposto
e non si assolve chi non lo è, siano o no consuetudinari o recidivi”, e si
cerca sempre di disporre il penitente all’assoluzione), sia soprattutto perché “noi poveri preti di campagna non siamo una scuola o una dottrina,
siamo solo delle creaturine umane che umanamente vivono e decidono alla giornata come detta il cuore e il buon senso”.
Nel suo testo quindi don Lorenzo inserisce una lettera, indirizzata allo
stesso destinatario (il predicatore domenicano), di un ragazzo del luogo, Giordano, che dalla iniziale cultura comunista del suo ambiente
stava passando a una scelta cristiana consapevole grazie all’aiuto del suo parroco.
Invitando il sacerdote a una maggiore cautela pastorale (“Gli sbagli voialtri preti spesso non li fate per interesse, ma solo perché non sapete i fatti nostri del lavoro”),
Giordano gli racconta del suo abbandono della Chiesa da dopo la Prima
Comunione e del suo lento e graduale
riavvicinamento. E’ questo un punto molto bello della Lettera, perché narra con
semplicità e chiarezza il nucleo del metodo educativo di don Milani.
“Una sera, scrive Giordano, incontrai don
Lorenzo e mi disse: Per difendersi gli
operai da tutti, anche dai preti, ci vuole istruzione. Io gli risposi che mi garbava anche a me, perché in officina c’è
uno che ha fatto l’avviamento e ci cheta tutti; e così si fissò che andavo a scuola, dopo cena. Anzi, si andò diversi e
don Lorenzo senza tanti complicamenti
ci disse: Ragazzi, io vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per darvi l’istruzione e che vi dirò
sempre la verità d’ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia ditta sia che le faccia disonore. (…) E si rimase, perché
dava contro al governo e contro ai democristiani e contro a noi. E noi gli si disse: E allora chi ha ragione? E lui disse: Bischeri! La verità non ha parte. Non c’è mica il monopolio come le
sigarette! (…) Insomma, io ci feci amicizia, perché lui faceva le parti giuste ed era contro tutti e spregiava i giornali dei preti e l’Unita allo stesso modo e ci insegnava a pensare con la nostra testa”.
Nell’ultima parte della lettera don Milani racconta la progressiva maturazione di Giordano, il suo allontanarsi dal suo partito pur senza stracciare la tessera, come pretendevano i confessori per dare l’assoluzione, e il pericolo che quel ragazzo e tanti altri come lui potevano correre di fronte a metodi pastorali bruschi e privi di pazienza.
E conclude: “Il cuore dell’uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola.
Per toccare qualcosa di profondo spesso occorrono non anni, ma generazioni. Padre, mi sento in questo come se fossi tanto più vecchio di lei.
Tanto più vicino al lento modo di fare della Chiesa, la nostra vecchia Madre
dai capelli bianchi”.
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EmmeA’ Teatro
Vincitore Nuove Creatività con il sostegno di ETI Ente Teatrale Italiano
DON MILANI
S E N Z A M I TO
di Norma Angelini e Fabio Monti,
con Fabio Monti,
musicista in scena Alessandro Dei,
una produzione EmmeA’ Teatro
in collaborazione con
ETI Ente Teatrale Italiano,
Armunia Festival,
Spettacolo Vincitore
di
ETI - Nuove Creatività
Enzo Biagi ha detto di Don Milani:
“Sicuramente una delle figure più rivoluzionaria del‘900”.
A
nche da qui lo stimolo per EmmeA’ Teatro, alla ricerca di esempi da riportare a galla, da rimettere in circolo, da interrogare di
nuovo, di affrontare la figura del priore di Barbiana. La sua storia, le lettere, le polemiche, la scuola di Barbiana, la morte, il “tradimento”
del ‘68.
Nello spettacolo investighiamo e raccontiamo la figura di Don Milani cercando di fuggire ogni mitizzazione. Ci basiamo sulle sue opere e sulle
biografie disponibili. Proviamo a dare allo spettacolo un taglio leggero,
per quanto il materiale permetta.
C’è un che di lieve che ricerchiamo nei nostri lavori, pur seguendo spesso, come in questo caso, dei temi a pieno titolo “pesanti”. E’ la nostra
speranza.
Per Don Milani quella lievità di fondo era il dono della fede in Dio. Per
noi, è anche il dovere della speranza negli uomini. E nel teatro. Le due
cose, a dire il vero, per noi, umilmente, coincidono.
Il racconto ha una struttura semplice, con al centro la “Lettera a un predicatore”.
Seguiamo le tappe della sua vita (la “conversione”, il seminario, il primo incarico a San Donato di Calenzano, le polemiche, l’esilio a Barbiana,
la scuola, la malattia, la morte). Cerchiamo il Don Milani persona ed educatore (la durezza programmatica, l’ironia feroce e tipicamente fiorentina, la rivoluzione della sua pedagogia, l’estrema ricchezza della famiglia e le violente accuse ai ricchi, il rapporto con la madre, la pubblica
difesa degli obbiettori di coscienza che gli costò la condanna – postuma - in appello, ecc...).
Il tutto incastonato nella storia d’Italia dal dopoguerra all’albore del ‘68.
La Compagnia
EmmeA’ Teatro è una compagnia siculo – toscana in residenza presso
il Teatro Comunale di Castiglion Fiorentino (Arezzo).
E’ formata da Norma Angelini, scenografa e coautrice, Francesco Fantauzzi,
organizzatore, e Fabio Monti, coautore, attore e regista.
13
Ha vinto il bando ETI Nuove Creatività,
i premi Vigata, Pino Veneziano e
Presenze.1 del teatro Filodrammatici di
Milano ed è stata selezionata al Premio
ExtraCandoni per la nuova drammaturgia.
La sua ricerca tra musica e teatro spazia dalle culture orali e scritte meridionali allo stretto rapporto con la realtà
contemporanea.
Ha realizzato gli spettacoli Buttitta,
“Lampedusa è uno spiffero!!!” e Retrò.
La compagnia nel triennio 2007/10 è stata coprodotta da Armunia Festival,
La Città del Teatro di Cascina, Egumteatro, Teatro Studio di Scandicci
e ha collaborato con Fondazione Toscana Spettacolo.
Associazione Culturale
EmmeA’ Teatro
Castiglion Fiorentino (AR)
Via Dante 33 - 52043
www.emmeateatro.com
[email protected]
Tel. 393.7383689
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Sara Bianchini*
I
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l tema del convegno “finchè non sia formato
Cristo in voi” (Gal 4,19) offre diversi spunti di riflessione: a) cosa vuol dire “formare”,
cioè un processo lento; b) oppure cosa vuol dire
avere la struttura di Cristo, quale è questa struttura; c) l’aspetto del tempo di questa acquisizione, indicato dal “finché”; d) oppure il “voi”,
che – presumibilmente – può indicare sia me
stesso che l’altro ed anche l’insieme di me e dell’altro. Proprio su questo ultimo punto mi fermerò,
riprendendo sicuramente alcune idee che ho già
espresso nel precedente articolo sulla formazione degli operatori e dei volontari della
Caritas. Per fare ciò, riprenderò alcune considerazioni che non ho elaborato io, ma ho sentito di recente da un padre gesuita.
Le riflessioni si riferiscono al brano del Vangelo
di Luca (7, 1-10) sulla guarigione del servo del
centurione. Questo ufficiale è un romano, cioè
un uomo che ha una sua cultura, una visione
tradizionale di Dio, che ama il suo servo e il popolo giudeo. Seppure diversi e in una congiuntura storica che li avrebbe portati ad odiarsi, c’è
invece una rete di relazioni positiva, animata da
tanti sentimenti umani ricchi e proprio da questa rete sorge una preghiera di intercessione che
muove Gesù e lo spinge a camminare con loro,
cioè ad assumere questa rete di relazioni, quella che salva il servo, i Giudei, i Romani e il centurione (e non un miracolo esterno).
In ogni incontro fra due persone – come avviene nel caso del volontario e del povero, che possono essere anche avvicinati al centurione e al
servo, cioè con diversità di cultura, talora di religione, ma animati dal vivo desiderio positivo
di ascoltarsi, aiutarsi – ci sono tre livelli di relazione: il primo, quello dei desideri
della
vita, della vita fisica (la guarigione del servo, il
sussidio per affrontare le bollette), della vita sociale (la ricostruzione della sinagoga, la possibilità di inserirsi bene con la propria famiglia nella scuola, nella città in cui ci si è spostati dal
proprio paese).
Questi desideri sono carichi della consapevolezza che nella vita c’è il dolore (la morte del
servo, la perdita del lavoro e il rischio del permesso di soggiorno), c’è la prova che forse non
possiamo comprendere del tutto; il secondo, quello dell’amicizia, cioè un livello più profondo, più
grande, quando al d là dei sentimenti spontanei della vita, ci aspettiamo dagli altri aiuto e solidarietà e a loro lo chiediamo.
Un livello importante, profondo, che ci porta a
condividere pienamente gli scopi, i mezzi, i valori su cui realizzare la nostra vita. Spesso nei nostri
incontri, nelle nostre conoscenze ai centri di ascolto, in parrocchia, in carcere la relazione si è approfondita e ci ha portato ad un livello di comunicazione maggiore. Ma se questo è il massimo
dell’umanità, la vera forma dell’uomo, esiste però
un terzo livello che potrebbe essere visto come
la forma di Cristo.
Il terzo livello è quello di Cristo, dell’amore di
Cristo, l’amore fatto carne, che cammina nella
rete delle relazioni umane e ci svela che esse
possono diventare il luogo dell’amore di Dio, se
si aprono ad accogliere Gesù, se accettano di
consegnarsi a Dio.
Questo amore cristiano, questa vera carità, quella che ha la forma di Gesù, non è caratterizzata dalla reciprocità (anche se parte da essa =
amatevi gli uni gli altri), ma dalla misura di Dio,
dalla forma di
Dio (come io vi
ho amato), cioè
amare tutti, assumere su di sé il
peccato dell’altro, amare per
primi, amare il nemico.
L’altro non mi è funzionale, cioè non è qualcuno che mi serve “tanto… quanto” (fosse anche
per condividere degli scopi, dei valori), non è
un mezzo per, ma mi costituisce. Gesù non vuole la salvezza del singolo, ma di tutti e di tutti
insieme. Gesù è in me, Gesù è in te, ma Gesù
è anche la relazione fra di noi (come la Trinità).
Forse su questo possiamo continuare ad interrogarci: a quale dei tre livelli è il nostro servizio in Caritas?
Forse vivo un tipo di relazione maggiormente
delle altre, cioè un amore esclusivo che non lascia
spazio ad altri?
Cosa maggiormente mi e ci ostacola? E perché?
Forse lo vivo alla luce del Vangelo, ma interpretato
con una prospettiva personalistica, singolare, che
lascia fuori la comunità?
E come posso nutrire tutti e tre i livelli di questo amore in me? Sicuramente con la preghiera, ma con quali altri aspetti e dimensioni?
In questa occasione, vorrei scrivere a nome di
tutta l’equipe anche due parole per Giusy. Mi è
molto difficile però, perché per l’amicizia chi ci
lega non voglio essere retorica. L’aspetto che
ora come ora mi viene in mente del servizio di
Giusy è quella caparbietà buona che in realtà
significa un misto di pazienza e di resistenza,
per non mollare e cercare sempre una nuova
possibile soluzione per essere vicini alla persona
che si sta aiutando.
Per me, di natura impulsiva, la tentazione di mollare è forte e più di una volta – confesso – la
sua insistenza anche con soluzioni “strampalate” e azzardate, mi ha dato noia, perché mi
costringeva a rimettere tutto in moto e
in discussione, soprattutto la mia voglia di
fermarmi e le mie idee
precostituite.
Questo suo carattere ha prodotto in me
un grande senso di
affidabilità verso di lei;
la sicurezza che ogni
impegno preso sarebbe stato portato a termine.
Penso che questi
sono doni di Dio, presenza di Cristo in lei,
in noi.
*Equipe Caritas
Diocesana
Nell’immagine:
Gesù e il centurione,
di Mattia Preti,
sec. XVII, Madrid
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L’impegno delle aggregazioni
laicali
nella formazione dei laici
Claudio Capretti
el precedente numero, è stato affrontato in senso generale, in che
modo i carismi presenti nella nostra chiesa locale, vivono la Parola
di Dio che sarà il tema di questo anno:
“Finché non sia formato Cristo in voi” .
L’intento di questo articolo non sarà quello di trattare la storia dei singoli movimenti (come sono nati, la loro evoluzione, ecc.), ma quanto quello di mettere in luce il metodo di come le realtà ecclesiali realizzano il
tema del convegno. Sicuramente non avremo una visione globale delle varie realtà ecclesiali, ma spero che questo possa stimolare una conoscenza più profonda dei movimenti.
N
Al termine del mese di maggio, si svolge in Parrocchia una solenne “liturgia di
chiusura”; In prossimità della S.Pasqua
e del S.Natale, organizziamo una
“Convivenza”; a volte riusciamo a coinvolgere anche le diocesi di Albano e Frascati.
Al termine di ogni Cursillos, si tengono
ai nuovi corsisti circa 6 “lezioni di metodo”con l’intentodi fare capire un po’ meglio
quanto appreso durante i 3 giorni.
Comunità
carismatica
“ Gesù Risorto”
Rita Latini
Azione Cattolica
Rosanna Favale
gni anno l’Azione Cattolica propone dei sussidi che sono collegati all’anno liturgico.
I testi, per vari settori sono composti da brani del Vangelo secondo il
metodo della lectio divina, testi per la meditazione e la preghiera personale, anche per giovani e giovanissimi (15/18 anni); e percorsi formativi
con l’utilizzo di testimoni, non solo dell’associazione, film e testi di canzoni soprattutto per i giovani/mi.
Il settore giovani collabora con la pastorale giovanile.
O
Movimento dei Cursillios
Toni Gallè
er mezzo di questo movimento, l’individuo cerca di vivere giornalmente l’essere cristiano condividendo con il prossimo l’essere tale.
Finalità del nostro movimento è infatti quella di rendere un mondo più
cristiano, cercando di rendere più cristiani gli uomini.
Cerchiamo di realizzare tutto ciò nel modo seguente:
Ogni giovedì sera ci riuniamo in un apposito locale presso la Parr. di S.Maria
in Trivio dove ascoltiamo il brano del Vangelo della domenica seguente che viene brevemente commentato da un designato “rolli-sta”, cioè
relatore che cerca di esporre come egli/essa sia riuscito/a a mettere in
pratica quanto contenuto nel Vangelo, durante la propria esperienza della settimana.
Seguono alcuni echi o risonanze o testimo-nianze con la stessa caratteristica di esporre brevissimamente come si è vissuto quel brano di Vangelo.
Al termine il Sacerdote evidenzia quanto di interessante si è udito e presenta la propria catechesi di quel brano; durante l’anno si svolge un Cursillo
uomini ed uno donne che si svolgono presso il Centro diocesano dell’Acero;
dal mese di ottobre al successivo giugno, si svolge la Scuola per Responsabili
che consiste nella trattazione di vari argomenti principalmente suggeriti dal Coordinamento Nazionale, suddivisi in catechesi sacerdotale ed
esperienze di laici fatte nelle varie attività svolte.
Per tutto il periodo della quaresima, in 15 diverse zone di campagna della Parr. si S.Maria in Trivio, si svolgono Vie Crucis:parimenti nel mese
di maggio si tengono nelle stesse zone rosari che vanno ogni sera di
casa in casa.
P
a comunità “Gesù Risorto” è nata nel 1987 all’interno del rinnovamento carismatico cattolico, ed è presente nella nostra diocesi da
13 anni. Carisma fondante è vivere e annunciare la presenza di Cristo
risorto in mezzo al suo popolo attraverso incontri di preghiera, seminari di formazione, giornate comunitarielocali e diocesani e con l’annuale
convegno diocesano.
Nell’ambito in cui vive la comunità prevede vari incontri: due appuntamenti settimanali:Incontro di preghiera e cammino di crescita; seminario per l’effusione dello Spirito; giornate comunitarie.
Nell’incontro di preghiera la comunità si riunisce in chiesa per pregare.
I fratelli responsabili guidano l’assemblea ad avere un rapporto sempre
più intimo con il Signore elevando a Lui canti, inni e suppliche.
Un ruolo di fondamentale importanza in questi incontri è riservato al canto, che in base all’esigenza sarà di gioia, di giubilo, di consolazione, di
guarigione o di liberazione.
Di grande ausilio e di notevole importanza nell’incontro di preghiera è
l’esercizio dei carismi perchè attraverso l’imposizione delle mani dei fratelli e sorelle che avvertiamo la presenza del Signore.
L’altro grande appuntamento settimanale è riservato al cammino di crescita nel quale illuminati e guidati dalla Parola che il Signore ci dona in
quel momento rivadiamo ogni nostro atteggiamento alla luce del Vangelo.
Questo cammino di conversione continua e ci spinge a crescere nelle
virtù e progredire nell’esercizio dei carismi.
Doni nuovi di pace, di mitezza, dominio di sé, contrizione riguardo al peccato ci dicono che qualcosa sta cambiando e se perseveriamo non sarà
più lo stesso, perchè non si può assaporare l’amore di Dio senza cambiare vita.
Infine ogni anno la comunità locale organizza un seminario di 16 settimane da novembre a marzo dal titolo : “Vivere nello Spirito” e che termina con la giornata della “Effusione dello Spirito”.
Attraverso questi incontri di formazione spirituale riscopriamo la bellezza
d’essere cristiani, avvertiamo in modo nuovo e profondo l’amore salvifico di Gesù e della sua misericordia. Come acqua zampillante il corso
viene a rincuorare, a rinsaldare, a dare nuova forza e vigore, a risollevare i cuori abbattuti e scoraggiati.
Il seminario si conclude con la preghiera di effusione che non è un nuovo o super sacramento, ma è prendere coscienza del proprio battesimo, è la riscoperta dei sacramenti già ricevuti.
L’ effusione è soprattutto un incontro personale ed esperenziale con Dio,
è fare spazio a Dio nel nostro cuore, affinchè la sua vita divina possa
dimorare in noi e manifestarsi in noi.
L’effusione come dice la parola stessa, è immergersi nello Spirito, dare
la libertà di effondersi e di riempire i nostri cuori della sua potenza.
L
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A tenere la relazione introduttiva
ai lavori del convegno è stato invita to lo scrittore, poeta e giornalista
Davide Rondoni
ato nel 1964,
a Forlì.
Laurea in
Letteratura italiana
Università di Bologna,
relatore Prof. Ezio Raimondi (110 lode).
Ha fondato e dirige il Centro di poesia contemporanea
dell’Università di Bologna. Ha tenuto e tiene corsi di poesia e letteratura nelle Università di Bologna,
Milano Cattolica, Genova, Iulm e in diversi Istituti
specializzati nonché all’estero a Yale University
e Columbia University (Usa).
E’ direttore artistico del festival DANTE09 a Ravenna.
Ha partecipato ai più importanti festival di poesia in Italia e all’estero.
Ha pubblicato alcuni volumi di poesia, tra cui “Il
bar del tempo”, è uscito per Guanda nel gennaio ‘99 e “Avrebbe amato chiunque” con i quali ha vinto, tra gli altri, i premi più importanti in
Italia (tra cui Montale, Carducci, Gatto, Ovidio,
Camaiore, Metauro). “Apocalisse amore”.
Mondadori, Giugno 2008. Un libretto edito nel
2001, “Non sei morto, amore” (e ripubblicato nel
2006) è letto in performance dall’autore insieme ad un pianista di blues, oltre che messo in
scena da Sandro Lombardi e David Riondino.
Mentre con una compagnia di tango vengono
lette le poesie di “Ballo lentamente con le tue
ombre” (Tracce 2009)
E’ presente nelle più importanti antologie di poesia italiana del secondo Novecento edite da Mondatori
(a c. Cucchi e Giovanardi) e da Rizzoli (a c. Piccini)
N
e in numerose altre. Sue poesie sono edite in
volume o in rivista in Francia, Usa, Venezuela,
Russia, Inghilterra, Croazia, Cina e altri paesi.
Il romanzo breve “I santi scemi” (Guaraldi 1995)
è stato finalista al premio Berto 1995 per l’opera
prima. Ha pubblicato il romanzo per ragazzi “I
bambini nascono come le poesie” (Fabbri
2006) Con Franco Loi ha edito nel 2001 per Garzanti
un’antologia della poesia italiana dagli anni ‘70
a oggi, “Il pensiero dominante. Poesia italiana
1970-2000”. Cura le collane di poesia de Il saggiatore e di Marietti Dirige la rivista di poesia e
arte “clanDestino” per i cui quaderni ha curato,
tra l’altro, “A casa dei poeti”, conversazioni con
i poeti italiani, e “Cantami qualcosa pari alla vita”,
conversazione con Mario Luzi e “I cercatori d’oro. Sei nuovi poeti italiani”.
Ha tradotto da Rimbaud, Péguy, Dickinson e
Baudelaire. Ha curato per Rizzoli una nuova edizione commentata a più voci della Commedia
di Dante, il commento ad una edizione dei Cori
da la Rocca di Eliot, un’edizione delle poesie
di Ada Negri, delle lettere di E. Mounier e un’antologia di Charles Péguy. Ha curato un libro di
interventi (Gadamer, Giussani, Bigongiari) dal
titolo La sfida della ragione, Guaraldi 1998, e
un’antologia di scritti d’amore di Giacomo
Leopardi (Garzanti, 2000) un libro-conversazione
con Ezio Raimondi, (Guaraldi, 1999) una versione poetica dei Salmi da Marietti nel 2001. E’
autore di testi teatrali rappresentati in diversi teatri italiani, tra cui Il Piccolo di Milano, e il teatro
Biondo di Palermo. Collabora abitualmente in
occasioni di readings di suoi testi o di
scelte da lui curate con i migliori attori del teatro italiano (tra gli altri, Iaia Forte,
Franco Branciaroli, Sandro Lombardi)
e con musicisti come Lucio Dalla, Eugenio
Finardi, Morgan e altri.
Presso Rai 1 la tv Sat 2000 partecipa, cura e conduce programmi di poesia e di dibattito culturale. Ha realizzato, tra l’altro, i programmi tv:
Stupormundi (dialoghi tra poeta e scienziati alla ricerca delle scoperte di oggi)
Parolà (per ragazza e scuole, giochi
e scoperte del mondo della parola)
Antivirus (dieci minuti di poesia in Tv).
E’ stato consulente Rai per la Fiction
e partecipa alla trasmissione Benjamin
sul tg1 per la poesia.
Per due anni ha curato il progetto promosso da Enel “Luce per la poesia”
di grandi letture presso le Centrali elettriche italiane e di diffusione on-line della poesia (tra le voci: Foà, Lombardi,
Bucci, Bonaiuto, Arbore, Vanoni,
Branduardi, Riondino, Alice, Sastri, Degli
Esposti, Avogadro, Soffiantini, Jannacci
e numerosi uomini di cultura e del mondo del giornalismo e dello spettacolo).
Per Enel ha svolto la realizzazione del
sito www.inpoesia.it con la partecipazione di numerosi personaggi della cultura e dello spettacolo italiani. E’ direttore artistico del festival “per
tipi danteschi” Dante09, che si svolge ogni anno
a Ravenna nei pressi della tomba del poeta
(www.dante09.it)
Ha pubblicato articoli accademici su diversi autori tra cui Pascoli, Leopardi, Luzi, e Pasolini. E’
autore di numerosi articoli e saggi sulle arti figurative: Lorenzo Lotto, Michelangelo, Van Ejck,
Niccolò dell’Arca, Caravaggio, maestri del ‘300
riminese, Palmezzano e altri.Editorialista di Avvenire
e de Il Tempo e de Il Sole24 ore.
Principali pubblicazioni:
Poesia
La frontiera delle ginestre, Forum - Quinta generazione 1985
O les invalides, N.c.e. 1988
A rialzare i capi pioventi, N.c.e - Guaraldi,1993
Il tempo delle cose cieche, N.c.e, 1995
Il bar del tempo, Guanda 1999 (2006)
Non sei morto, amore, Quaderni del battello ebbro,
2001 (Carabba, 2006)
Avrebbe amato chiunque. Guanda 2003 (2006)
Compianto, vita, Marietti 2004(portato in scena da
V.Gazzolo)
Il veleno, l’arte, Marietti 2005 (portato in scena da Iaia Forte)
Via crucis dell’amico (Marietti 2007)
Apocalisse amore (Mondadori 2008)
Le parole accese (poesie per bambini e non) (Rizzoli 2009)
3 – Tommaso Paolo Michelangelo (Marietti, 2009)
Ballo lentamente con le tue ombre (Tracce, 2009)
Narrativa e Saggistica
I bambini nascono come le poesie, Fabbri 2006
Quattro giorni, quarant’anni (in sierra leone con padre
Bepi) Rizzoli 2006
I santi scemi, Guaraldi 1996
L’avvenimento della poesia, on-line, GuaraldiLogos,1999
Non una vita soltanto. Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti, 2002
La parola accesa, edizioni di Pagina 2006
Il fuoco della poesia, Bur Rizzoli
Manuale per la sopravvivenza di un cattolico libero in
Italia (con S. Del Magno), Pagina 2009.
Principali antologie e curatele
Poeti col nome di donna, Rizzoli 2008
Mettere a fuoco Dio, Rizzoli 2007
Subway – antologia di nuova poesia italiana, Il saggiatore 2006
Mario Luzi, Vero o verso, Garzanti 2003
Dante, Commedia, Rizzoli, 2001
Il pensiero dominante. Antologia della poesia italiana
1970-2000, Garzanti, 2001
Leopardi, l’amore, Garzanti 1999
Charles Péguy, Lui è qui, Rizzoli, 1999
Ada Negri, Mia giovinezza, Rizzoli, 1996
T.S. Eliot, I cori da La rocca, Rizzoli 1996
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Don Daniele Valenzi*
I
l convegno diocesano che ci prepariamo a vivere come incontro
vivo della nostra Chiesa, ci porterà a riflettere, a partire dalle parole dell’apostolo Paolo, su cosa significhi essere pienamente uomo.
Cristo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche
pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. È
in Cristo, immagine del Dio invisibile, che l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza del Creatore.
È in Cristo, Redentore e Salvatore, che l’immagine divina, deformata nell’uomo dal primo peccato, è stata restaurata nella sua bellezza originale e nobilitata dalla grazia di Dio.
Il tema dell’uomo come immagine di Dio è un punto centrale dell’antropologia dell’Antico Testamento, anche se i riferimenti scritturistici sono
pochi e si fonda soprattutto sul testo di Genesi (Gn 1, 26-27; 5, 1; 9, 6).
In Gn tra immagine e somiglianza non c’è opposizione. Si può supporre che il termine somiglianza attenui la forza di quello di immagine che
identifica troppo Dio e l’uomo. In cosa consista questo fatto, ossia che
l’uomo è ad immagine e somiglianza di Dio, unico tra le creature, è sempre stato oggetto di varie interpretazioni. Soprattutto nel passato un’interpretazione filosofica ha voluto leggere questo come il dono di Dio di
un’anima razionale.
Tuttavia questa ipotesi non sembra molto rispettosa del dato biblico.
La teologia di questi ultimi secoli ha provato a percorrere altre strade e
così alcuni ritengono che immagine e somiglianza racconti la possibilità del dominio e della signoria sul mondo: quelli dell’uomo sono una
partecipazione a quelli di Dio; altri pensano che descriva il relazionarsi
dell’uomo con Dio. Dio crea l’uomo perché sia in relazione con lui: tale
relazionalità non viene rotta neppure dal peccato, perché di essa è garante Dio stesso, tale immagine resta sia pure deturpata dalla colpa;per altri
ancora l’immagine di Dio è l’essere umano in quanto essere relazionale per “definizione”.
Per cui è il relazionarsi tra gli uomini l’immagine del relazionarsi intratrinitario di Dio. Tale riflessione tuttavia non propone degli aspetti alternativi, ma complementari: l’uomo è immagine di Dio nel suo esistere in
relazione a lui e nel suo esistere con gli altri. Nel Nuovo
Testamento il tema dell’immagine di Dio si lega a Cristo
ed a Cristo risorto. È lui la
vera immagine di Dio e noi:
noi saremo pienamente
immagini di Dio, quando parteciperemo alla sua resurrezione. Il testo di Genesi viene così reinterpretato cristologicamente.
L’uomo e la superiorità dell’uomo rispetto a tutti gli altri
esseri sta nel fatto di essere pensato e predestinato sin
dal primo momento nell’immagine di Gesù Cristo.
Spetta a Paolo il meritato di
aver collegato il tema dell’immagine a Gesù Cristo: l’uomo, grazie all’accoglienza della fede, diventa immagine di
Gesù che è immagine del
Padre (2Cor 3, 18), e il destino dell’uomo-immagine è quello di conformarsi al Cristo risorto perfetta immagine del Padre
“E come abbiamo portato l’im-
magine dell’uomo di terra, così porteremo
l’immagine dell’uomo celeste” (1Cor 15, 49).
Nel contesto battesimale, l’uomo si rinnova ad immagine del creatore che vuol dire
essere immagine di Cristo il quale sarà così
tutto in tutti, solo unendosi a Cristo l’uomo
realizza il suo essere immagine di Dio.
Il tema dell’immagine e somiglianza di Dio
è da subito affrontato nei Padri e non senza difficoltà e diversità di interpretazione. Per la scuola alessandrina il
modello dell’uomo (immagine) nel Figlio preesistente (logos) e l’immagine allora viene a riguardare solo l’aspetto spirituale dell’uomo (anima).
Per Filone Alessandrino infatti l’anima è fatta ad immagine dell’Immagine
di Dio secondo il testo di Genesi 1, mentre il corpo è fatto dalla terra
secondo il racconto di Genesi 2. Anche Clemente ed Origene si collocano su questa linea (logos-anima). Per la scuola asiatico-africana (Ireneo,
Giustino, Clemente Romano, Tertulliano) non c’è separazione tra i due
racconti della Genesi.
È tutto l’uomo, anima e corpo, che viene fatto a immagine di Cristo e
non solo una parte dell’uomo. Essi hanno pensato al rapporto tra immagine e somiglianza come un riferimento a Cristo: la vita di fede è un progressivo conformarsi dell’uomo a Cristo che lo porta ad essere sempre
più somiglianza a Cristo e dunque di Dio. Comune ad entrambe è la distinzione tra immagine e somiglianza. Immagine è “statica” .
La realtà dell’uomo è che “di fatto” egli è immagine di Dio: la realtà più
profonda dell’uomo è segnata indelebilmente dal sigillo di Dio, che non
si cancella più. Somiglianza invece è “dinamica” . L’uomo nel suo progressivo configurarsi a Cristo passa di gloria in gloria, e così l’immagine, che a causa del peccato, è più o meno somigliante a Dio ritrova la
sua originaria bellezza.
L’uomo non modifica l’immagine che ha di Dio in sé, ma modifica il suo
essere somigliante o meno. Questa distinzione ci aiuta a capire che l’uomo è sempre ad immagine di Dio, anche nel peccato e nella lontananza. L’uomo con il peccato deturpa la somiglianza, ma non l’immagine.
Con Agostino, l’immagine di Dio non fa più riferimento a Cristo ma alla
Trinità, per il vescovo di
Ippona “facciamo l’uomo a nostra
immagine”, è plurale, dunque
significa “ad immagine della
Trinità”. Inoltre, è l’anima e non
tutto l’uomo, che è immagine
della Trinità. Essere ad immagine di Dio viene a coincidere con il fatto che l’uomo ha
la “ragione” (logos).
A Cristo, l’uomo deve guardare per somigliare a Dio.
L’essere creato ad immagine
di Dio, inoltre, significa per l’uomo capacità di relazionarsi con
il creatore, dominio sul mondo. L’antropologia si comprende
solo alla luce della cristologia
perché “Cristo Signore è
figura dell’uomo futuro” quindi, l’esito finale dell’uomo, visto
alla luce di Cristo, ci permette
di comprendere meglio anche
l’inizio dell’uomo.
*Dir. Uff. Catechistico Diocesano
Nell’immagine: Creazione Eva,
Maestro Niccolo, Verona, San Zeno
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Mons. Franco Risi
L
a parrocchia non
è chiusa in se
stessa, autosufficiente, ma è una realtà aperta alla Diocesi, alle
altre parrocchie e al territorio. Sa di essere situata in una rete di relazioni da utilizzare e sviluppare. Si sente mandata
a incontrare tutte le situazioni umane, perché ad
ognuna deve portare una
parola di fiducia, come dicono i vescovi italiani: una
parrocchia capace di
“testimoniare e diffondere la speranza cristiana nella vita quotidiana”
(Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 13). E
aggiungono:
“La parrocchia nasce e
si sviluppa in stretto legame con il territorio, come
risposta alle esigenze
della sua ramificazione… La presenza della
parrocchia nel territorio si
esprime anzitutto nel tessere rapporti diretti con
tutti i suoi abitanti, cristiani
e non cristiani, partecipi
della vita della comunità
o ai suoi margini” (ibidem
n.10). E’ necessario perciò che ogni parrocchia
conosca bene il proprio territorio: chi sono i vicini e ci sono i lontani, cristiani e non cristiani. Ne
segue che ogni parrocchia è composta da un
centro e da una periferia.
Per centro intendiamo tutti coloro che frequentano regolarmente la chiesa e per periferia quelli che non partecipano attivamente alla vita parrocchiale. Così la parrocchia manifesta il suo volto missionario, valorizza la vocazione apostolica di ogni battezzato, utilizza i carismi presenti
nella comunità, per la crescita della Chiesa.
La parrocchia in questa prospettiva è idonea ad
ascoltare le parole di Gesù: “Vi ho posto perché andiate, e portiate i frutti e i vostri frutti rimangano”. Questo mandato, come si vede, deriva
radicalmente dalla Parola, dal Sacramento e dalla Carità. Tutto questo viene avvalorato dall’evangelista Matteo: “Andate anche voi nella mia
vigna” (Mt 3) pertanto occorre pensare seriamente
a una pastorale dell’annuncio in tutti gli ambiti
della vita, che si rinnova profondamente con il
riacquistare vigore e incisività nella missionarietà di tutto il popolo di Dio.
Così la parrocchia è capace di svolgere il servizio pastorale nella diocesi attraverso una molteplicità di servizi o per dirla con il Concilio: “C’è
nella Chiesa diversità di ministeri, ma unità di
missione” (AA 2). Inoltre la parrocchia ha biso-
gno di maggiore vitalità acquisita con una creatività più ampia e coinvolgente possibile così da
raggiungere tutti. In questo modello di parrocchia si rendono necessari i gruppi di preghiera
che attraverso un cammino comunitario, contribuiscono a far maturare sempre di più la pastorale vocazionale.
Possiamo segnalare come esempio un’esperienza
abbastanza consolidata in tutte le parrocchie della diocesi e cioè quella dei Monasteri Invisibili.
Essi si compongono di quanti, singolarmente o
in gruppo, in famiglia o in comunità, aderiscono a una rete, appunto invisibile, che li unisce
nella preghiera, e nell’ implorare da Dio il dono
delle Vocazioni.
La parrocchia si rivolge alle famiglia sacerdotale e religiosa, alle associazioni e i movimenti, per animarli a realizzare l’unità nell’azione pastorale nella chiesa locale.
In particolare il Centro Diocesano Vocazioni, è
formato da una équipe preparata in modo specifico sui temi di pastorale vocazionale. Tenendo
presente l’invito di Gesù:
“Pregate dunque il padrone della messe che
mandi operai nella sua vigna” (Mt 9,37), i responsabili del CDV si sono proposti l’impegno della preghiera personale. Sin dalle origini della Chiesa,
l’evangelizzazione ha visto come protagonisti sia
coloro che annunciavano la Parola sia coloro
che la accoglievano, stimolando così la domanda su una eventuale chiamata per donarsi a Dio e
al servizio dei fratelli.
In questa direzione, il
nostro CDV ha accolto la
proposta del Centro Nazionale
Vocazioni, in occasione
dell’Anno Sacerdotale, di mettere in tutte le parrocchie
una lampada accesa, per
ricordare la necessità di pregare per tutte le vocazioni.Sono proprio le singole
parrocchie i validi strumenti su cui una diocesi può
contare per spargere il
profumo dell’amore di Dio
che permette ad ognuno di
saper compiere le scelte così
da esprimere la libertà
che caratterizza tutti i figli
di Dio.
Tutto ciò viene attuato ad
esempio tramite i numerosi
campeggi estivi, i gruppi formativi del centro di spiritualità
“Madonna dell’Acero” e i vari
pellegrinaggi nei diversi
luoghi di culto.
Qualsiasi vocazione cristiana
di cui si compone la parrocchia è un realtà di grazia attribuibile allo Spirito
Santo che scandisce una
crescita di fede, distinguibile in tre fasi: la prima è
la chiamata, la seconda è la vocazione, la terza è la missione. Questo porterà la comunità
parrocchiale a impiegare tutte le sue forze per
annunciare la Parola di Dio.
In questa missione essa è chiamata ad istaurare in tutti i credenti presenti nel territorio il regno
di Dio. Tutto questo è confermato dalla costituzione Lumen Gentium al N. 8:
“La chiesa perciò fornita dei doni del suo fondatore . riceve la missione di annunciare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio
e di questo regno costituisce in terra il germe
e l’inizio”.
Certo questo esige da tutti i gruppi parrocchiali un impegno pastorale sempre di grande efficienza, indirizzato a tutta la persona per illuminarla, animarla a rispondere all’annuncio vocazionale. Si tratta, per concludere, di creare continuamente nell’ambito parrocchiale una sensibilità per il problema che ci vede tutti direttamente
o indirettamente impegnati.
La chiamata proclamata e generata dalla
pastorale dell’annuncio vocazionale, non si realizza solo attraverso quelle folgorazioni in cui Dio
passa oltre tutte le mediazioni umane, ma soprattutto con l’impegno costante, continuativo della catechesi, della liturgia, della missionarietà,
che si svolge nel quotidiano delle varie comunità parrocchiali esistenti nella diocesi.
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L
a formazione al presbiterato è un percorso intenso, scandito da diverse
tappe. La prima che ci apprestiamo
a vivere è l’ammissione tra i candidati all’Ordine sacro del Diaconato
e del Presbiterato. Attraverso questo rito la Chiesa, nella persona
del nostro vescovo Vincenzo, autentico padre e guida nel mare della storia della chiesa locale di VelletriSegni, accoglie la nostra richiesta di ricevere il sacramento
dell’ordine. Dopo tre anni di
discernimento, ci chiede di impegnarci ufficialmente nella formazione al presbiterato non distogliendo,
però, la concentrazione sulla
volontà di Dio, perché la celebrazione
del rito di ammissione non è il punto di arrivo del percorso, ma una
delle tappe che ne scandisce il progresso. A seguire, riportiamo le
nostre brevi biografie così da rendervi partecipi delle nostre storie
vocazionali.
Fabricio Cellucci
o 23 anni e sono di Velletri. Il mio percorso di formazione è iniziato nel 2002
quando sono stato accolto nel seminario minore di Anagni, in cui ho vissuto per tre anni, per
iniziare un cammino di discernimento, che poi
è continuato nella comunità del propedeutico di
Anagni, dove anche dopo, nei due anni di filosofia e in questo anno, appena trascorso, del
primo teologia ho approfondito e camminato con
l’aiuto del Signore e dei suoi strumenti nel chiarire quale è la volontà del Signore su di me e
anche attraverso il consiglio delle mie guide, ho
chiesto alla Chiesa di poter celebrare l’ammissione tra i candidati all’ordine sacro. Nel mio cammino di formazione pastorale ho svolto il mio servizio pastorale prima nella Basilica Cattedrale
di Velletri e dall’Ottobre 2009 nella parrocchia
di Santa Barbara a Colleferro dove opero nel
gruppo scout agesci Colleferro1, che quest’anno
mi ha accolto con grande gioia, insieme a tutta la comunità parrocchiale, guidata dal Mons.
Luciano Lepore.
Alessandro Leoni
l mio cammino di ricerca vocazionale trova
la sua origine negli anni della mia adolescenza
dove dedicavo molto del mio tempo alle attività della mia parrocchia d’origine ― San
Giovanni Battista (Velletri) ― e al mio forte interesse per il canto e l’animazione liturgico-musicale.Oggi ho quasi 26 anni.
Nel 2006, dopo diversi mesi passati in due facoltà diverse, ho scelto di incamminarmi sulla strada che, se il Signore vorrà, mi porterà a consacrare la mia vita a Lui nel sacerdozio. Come
prassi vuole, anch’io ho iniziato il mio discernimento nella comunità propedeutica del Pontificio
Collegio Leoniano di Anagni. Ad oggi sto atten-
H
I
dendo di iniziare il quarto anno (secondo anno
di teologia). Dal 26 settembre 2009 presto servizio pastorale nella parrocchia Santa Maria Maggiore
di Valmontone. Dopo tanti anni spesi con gioia
nella mia parrocchia di origine, ora il vescovo
mi ha chiesto di mettermi in gioco in una realtà diocesana per me nuova, facendo sì che anche
qui possano conoscermi.
Teodoro Beccia
eliterno d’adozione ma
pugliese d’origine, ho 32 anni.
Fin da piccolo ho frequentato la
Parrocchia del SS. Salvatore in
Velletri, dove risiedo e ho terminato le scuole elementari presso la Pia Casa di Carità delle Suore
Pallottine. Successivamente, dal
1994, mi sono iscritto alla Ven.le
Arciconfraternita della Carità
Orazione e Morte che ha sede a
Velletri nella Chiesa di Sant’Apollonia,
contribuendo al ringiovanimento
e alle attività di questo antichissimo sodalizio. Qui ho ricoperto
diverse cariche statutarie.
Contemporaneamente, terminati gli studi superiori, ho avuto diverse esperienze lavorative. Sono stato per circa cinque anni impiegato
presso un call center di una società facente capo al gruppo Telecom.
Nel 2006 ho lasciato il lavoro per
iniziare l’anno propedeutico presso il Pontificio Collegio Leoniano
di Anagni, insieme con Alessandro
e Fabricio. Attualmente sono in
attesa di iniziare il secondo anno
di teologia presso lo stesso
seminario. Ho prestato servizio
V
pastorale prima nella mia parrocchia d’origine
e attualmente presso la Concattedrale di Santa
Maria Assunta in Segni. Il rito della nostra ammissione si svolgerà mercoledì 22 settembre nella Basilica Cattedrale di San Clemente I p.m in
Velletri, alle ore 18.30, all’interno della
Celebrazione Eucaristica che concluderà il prossimo Convegno diocesano.
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“Considerando attentamente i rimedi che possono rimuovere i pericoli dal popolo cristiano,
a Noi affidato, e che gli abitanti della campagna
con grande difficoltà possano beneficiare di cura
e di assistenza spirituale, si è giunti alla deter-
minazione di erigere nel territorio rurale, già sotto la giurisdizione della Parrocchia di San Clemente
della Diocesi Suburbicaria di Velletri, nel luogo
ove i confini delle vicine città di Lanuvio e Genzano,
e precisamente nella località denominata
“Parata”, “Via di Pedica” “Landi”, dove
cioè le necessità spirituali dei fedeli crescono di pari passo all’incremento della popolazione, una
Parrocchia dedicata al SS.mo
Nome di Maria…”
Il testo di cui sopra è parte del decreto con il
quale S.E. Rev.ma Mons. Dante Bernini istituiva ed erigeva la nuova Parrocchia di Landi il 2
febbraio del 1976.
Don Corrado Fanfoni è nato a Palestrina da famiglia di Valmontone,
città in cui è sempre vissuto e si è formato.
Da sempre ha partecipato alla vita parrocchiale nelle sue diverse forme e attività, è qui, in questo contesto che è maturata
la sua vocazione che lo ha portato a discernere e ad accogliere il dono della vocazione.
Terminato il liceo ha intrapreso la formazione teologica presso il Pontificio Collegio Leonino di Anagni dal 1996 al 2002.
Il 21 giugno del
2002 è stato
ordinato sacerdote nella bella Collegiata di
Valmontone. Da
allora ha svolto
il suo servizio
pastorale come
vicario parrocchiale presso
la parrocchia di
Santa Maria in
Trivio in Velletri
e inoltre come
assistente tra i
i giovani e ragazzi dell’Azione
Cattolica e del
Servizio di
Pastorale
Giovanile.
Allora la sede era una minuscola cappella di campagna ma bisognerà attendere l’inizio del nuovo millennio per vedere costruita la nuova parrocchia con locali propri quali l’edificio chiesa,
i locali di ministero pastorale e la canonica.
Dal testo si evince che il territorio della parrocchia pur facendo parte della nostra diocesi si
estende oltre che su Velletri anche su due Comuni
limitrofi, Lanuvio e Genzano appartenenti alla
vicina Diocesi di Albano.
Come prevedeva già mons. Bernini il territorio,
prettamente agricolo e già allora abitato, avrebbe lasciato spazio ad altre abitazione come poi
in realtà è avvenuto, quindi molte famiglie, proveniente anche da fuori provincia, si sono insediate. Attualmente il numero degli abitanti è intorno alle 4000 unità.
Nel corso di questi anni diversi sono stati i sacerdoti che si sono succeduti alla guida della comunità, tra questi due della diocesi di Albano don
Stefano Richebuono e don Amedo Vitelli e dei
Cappuccini di Velletri: p. Francesco e e P. Eleuterio
Ricci in qualità di amministratori parrocchiali.
Il Primo Parroco è stato Don Franco Diamante
il quale fu nominato con decreto di mons. Erba
del 26.09.2000.
La Madonna con Bambino invocata con il titolo di B.V. Maria
Causa Nostræ Letitiæ è stata realizzata per la Parrocchia
di Landi dalla ditta Stuflesser Ferdinando di Ortisei, attiva da oltre 130 anni.
Dopo aver ascoltato il committente, la statua è stata realizzata secondo le indicazioni dello stesso. Ciò è reso possibile grazie alla tecnica della scultura realizzata interamente a mano dall’inizio alla fine del processo lavorativo.
Infatti, essendo la statua un’opera unica realizzata a mano, ogni desiderio è interpretabile e scolpibile. La statua è stata realizzata in legno cirmolo della famiglia dei pini.
Nella prima fase diverse assi in legno vengono incollate tenendo in mente la forma
che la statua dovrà avere. Segue la fase della scultura grezza con la
quale si da al legno il primi tagli per ottenere la
forma approssimativa.
Segue la scultura via via
sempre più fine, poi alla
colorazioni delle parti, quindi dell’incarnato e delle vesti per
arrivare alla statua finita.
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avvertendo però che
alcuni di questi sono
da considerarsi solo
per dei tratti limitati,
a confine di altre
parrocchie, per cui dal
Il territorio di S. Maria del Carmine
è stato ricavato da quello della
Parrocchia di San Clemente.
La zona è stata curata pastoralmente
per diversi anni da mons. Mario Sansoni
il quale portò a compimento la
costruzione della Chiesa (ancora non
eretta come parrocchia) e la dedicazione
alla Madonna del Carmine.
Successivamente fu eretta giuridicamente
come parrocchia dal Vescovo diocesano
Mons. Andrea Maria Erba, che introdusse il primo parroco.
Il 30 ottobre 1994 vi fu la presa di
possesso del primo parroco don
Giuseppe Grigolon che vi restò fino
al 1998. Viene quindi nominato
amministratore parrocchiale prima don
Claudio Gamboni, poi don Patrizio
Nzeyimana (sacerdote del Burundi)
fino ad ottobre 2000.
Dal 17 ottobre 2000 fino al 2 ottobre
2010 il parroco è don Cesare
Chialastri. La Parrocchia si estende a sud della città di Velletri sulla via Appia direzione Cisterna
di Latina. Gli abitanti sono circa 2800 suddivisi in sette contrade.
Nell’ottobre 2010 verranno inaugurati i locali di
ministero pastorale (aule e salone parrocchiale), la nuova sacrestia e la nuova abitazione del
parroco. La popolazione residente nei confini parrocchiali di S. Maria del Carmine ha subito nell’ultimo quindicennio un deciso incremento, passando dagli 2158 abitanti a fine anno 1997, agli
attuali di oltre tremila.
Nella tabella a fianco si sono riportati i 29 archi
di strada che ricadono nel perimetro parrocchiale,
una migliore definizione dei confini parrocchiali, per quello che ancora significano oggi, basati più su fossi, barriere naturali... che non dividendo una strada in due fronti, cosa che può
andare bene in città ma non certo dove la popolazione ha una bassa densità.
totale di 3542 andranno tolte alcune centinaia Se la popolazione si divide pressoché ugualmente
di persone, per una popolazione che però cer- in parti uguali tra i due sessi, è da notare come
per la classe d’età 0-9 anni vi è invece una decitamente supererà le tremila unità.
C’è da dire che con il passaggio della topono- sa supremazia dei maschi rispetto alle femmimastica cittadina dalle contrade alle vie, è cam- ne, 199 contro 137.
biata ovviamente
anche la residen- Don Franco Diamante è nato ad Artena il 14.02.1957, cresciuto alla “scuoza anagrafica per la del suo parroco il compianto Don Amedo Vitelli, anche lui si è formato
cui s’imporrà un presso il Seminario Maggiore di Anagni.
nuovo calcolo del- Ordinato diacono il 13.12.1980 e presbitero il 19.09.1981 è stato dapprima
la popolazione inse- vicario parrocchiale e successivamente parroco di S. Croce ad Artena, poi
diata, fermo restan- contemporaneamente vice rettore economo al Seminario di Anagni e retdo che sarebbe tore del Santuario di S. Maria delle Grazie ad Artena.
auspicabile anche Dal 1990 al 2000 in qualità di sacerdote “fidei donum” è stato in missione
presso la diocesi di Tijuana in Messico.
Al rientro dalla missione fu nominato attuarlo del Tribunale Ecclesiastico dio… UNO STRANO DESTINO MI PORTÒ NELLA
cesano e
PARROCCHIA SANTA MARIA DEL CARMINE
direttore delUna parrocchiana l’ufficio missionario e
ono giunta a Velletri 20 anni fa, e da quasi venti anni partecipo, Parroco delper chissà quale strano destino, alla vita comunitaria della par- la Parrocchia
rocchia Santa Maria del Carmine. Quando abitavo a San Mauro Torinese, del Ss.mo
piccolo paese sotto la collina di Superga, passavo parte della mia gior- Nome di
nata in una piccola parrocchia attiva e creativa, ed il mio desiderio e Maria in locabisogno era trovare una simile realtà anche nella nuova cittadina che lità Landi in
mi ospitava. Spesso gli eventi decidono per te e pur non appartenen- Genzano di
do territorialmente alla parrocchia di Pratolungo, mi trovai a farne par- Roma. Dal
te. La ricerca era finita, iniziava l’avventura! Una lunga avventura per- 2007 è stato
ché i venti anni sono stati pieni di eventi piacevoli e non, addii e bennominato
venuti, difficoltà e gioie, ma malgrado tutto, eccomi qua, a scrivervi con
Cappellano
il sorriso sulle labbra e la gioia nel cuore.
della Casa
Della mia Parrocchia amo soprattutto la gente che ne fa parte e l’impegno che giornalmente dona perché si possa offrire alla comunità sem- Circondariale di
pre qualcosa di più, ma soprattutto la rinnovata armonia, che ogni vol- Velletri, incarico
quest’ultimo che conserva
(continua nella p.22)
ta mi sorprende e rasserena.
tuttora.
S
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(segue da p.21)
E da questo impegno sono nate tutte le numerose attività: la catechesi per bambini e adulti, il
gruppo dei lettori e dei portatori, l’Azione Cattolica
Ragazzi, la Caritas parrocchiale ed il gruppo Missionario,
i cori, i corsi di chitarra e il gruppo per l’organizzazione della festa parrocchiale.
Un piccolo esercito di laici che intorno al proprio
parroco, Don Cesare, cerca di costruire, non senza fatica, la propria idea di comunità, seguendo,
per quanto possibile, le indicazioni del Vescovo
e della Chiesa. Seguendo l’invito della Chiesa,
sono anche nati il Consiglio Pastorale, per la definizione del cammino comunitario e spirituale, ed
il Consiglio degli Affari Economici, per la gestione economica della parrocchia. Quello che mi ha
sempre stupito di questi due organismi è la capacità di realizzare un vero dialogo tra tutti i componenti (laici e consacrati), un approccio “orizzontale”
dove nessuna decisione è presa prima di una attenta discussione e un confronto tra i membri e il parroco. Non soddisfatti di tutto questo lavoro, circa
10 anni fa’ è iniziato il progetto di ristrutturazione
della casa parrocchiale e realizzazione del nuovo centro polifunzionale parrocchiale.
Fino ad oggi per le attività quali catechesi e ACR,
nonché per gli incontri, era a disposizione un uni-
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co salone sotto la chiesa e due container.
Un gran disagio, sopportato con pazienza. Ora il
nuovo progetto in avanzata fase di realizzazione,
prevede una struttura con nuove aule per la catechesi e gli incontri, un salone polifunzionale, un
alloggio di emergenza Caritas per le famiglie in
difficoltà, l’oratorio per i ragazzi. È in progetto anche
l’apertura di un asilo-nido che possa rispondere
al grave bisogno di molte famiglie del territorio di
affidare i loro bimbi alle cure di educatori per continuare a lavorare. Le stesse famiglie che sebbene
escluse dalle graduatorie degli asili comunali, non
possono permettersi le quote delle strutture
private. La gran parte del progetto (il 75%) è
stato finanziato con il contributo dell’8 per mille della C.E.I. (Conferenza Episcopale
Italiana), mentre il 25% spetta alla parrocchia,
quindi a noi.Ora è giunto il momento di concretizzare tutti questi progetti e le responsabilità
devono essere condivise da tutti. Dai numerosi laici volontari, già attivi, perché non si facciano spaventare dagli imprevisti e dai cambiamenti ma si dedichino con amorevole dedizione ad una Chiesa che sentono propria.
Dai parrocchiani perché accolti dalla comunità ne abbraccino anche le urgenze. Dal nuovo parroco, perché supportato dal Consiglio
Parrocchiale e degli Affari
Economici viva con entusiasmo
e coinvolgimento questo progetto
ormai al termine.
Ma un grande aiuto lo aspettiamo dal nostro Vescovo, che durante la sua ultima visita alla parrocchia,
nell’illustrarci i cambiamenti che
coinvolgeranno e sconvolgeranno la nostra comunità ha assicurato
ad un Consiglio Pastorale giustamente timoroso, continuo
supporto.
E speriamo che in meno di due anni tra le finestre delle nuove aule si possano scorgere bambini intenti ad ascoltare la parola di Gesù, nel cortile si possano sentire urla di ragazzi che giocano nel nuovo oratorio, sulle panchine si possano
vedere anziani che si raccontano il passato e il
futuro, e, sempre in fibrillazione, tutti noi ancora
intenti a costruire, donare e sognare cose nuove! Sono ormai passati 20 anni e uno strano
destino mi ha portata alla Comunità della Madonna
del Carmine …
(i dati dei grafici sono riferiti al 01.01.2009)
S
in dallo scorso maggio mons. Vescovo ha manifestato al clero diocesano la volontà di
liberare mons. Angelo Lopes dal gravoso incarico di vicario generale per guadagnare il
meritato riposo, chiedendo ai sacerdoti di esprimere una indicazione sul nuovo incaricato. Dopo aver raccolto le indicazioni e fatte le dovute riflessione il vescovo, mons. Apicella ha
deciso di affidare l’incarico di vicario generale al reverendo Don Cesare Chialastri.
L’atto formale avverrà verosimilmente nella celebrazione di passaggio al nuovo parroco che lo
sostituirà presso la parrocchia di Santa Maria del Carmine in località Pratolungo in Velletri, il 2
ottobre p.v. Don Cesare Chialastri è nato a Roma il 23 marzo 1962, ma le sue radici sono a Valmontone.
Cresciuto presso la parrocchia della Collegiata, da sempre impegnato nella pastorale giovanile,
dopo gli studi presso il Seminario Maggiore di Anagni è ordinato sacerdote il 17 settembre 1988.
Nel corso degli anni ha ricoperto diversi incarichi:
Vice parroco Santo Stefano e Santa Croce ad Artena dal 1988-1990;
Direttore dell’Equipe Diocesana per la Pastorale Giovanile
Vice parroco San Clemente Velletri dal 1990-1991;
Vice parroco Santa Maria in Trivio Velletri dal 1991-1993;
Vice rettore del Seminario Regionale di Anagni dal 1993-2000;
Parroco santa Maria del Carmine Velletri dal 2000-2010.
Impegni:
Membro del Consiglio Presbiterale e del Collegio dei Consultori;
Direttore Caritas diocesana;
Direttore Centro Santa Maria dell’Acero;
Docente presso Istituto Teologico Leoniano di Anagni;
Docente presso Pontificia Università Urbaniana Roma.
Licenza in Teologia Pastorale/Catechetica Pontificia Università Salesiana.
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Katiuscia Cipri
S
iamo a settembre ed è quindi ora di
parlare di Ottobre Missionario!
Prima di tutto cosa si intende
per Ottobre Missionario?
È un mese interamente dedicato alle missioni
e alle persone che le missioni le fanno vivere:
i missionari. È un periodo in cui ci si apre all’Altro,
lontano dalle nostre case e dai nostri confini.
Un Altro sconosciuto per cultura, religione, credo, che vive in povertà, subisce il massacro delle guerre e delle malattie (quelle malattie spesso curabili nei paesi occidentali), un Altro bisognoso del nostro sostegno e della nostra amicizia cristiana.
Siamo invitati ad aprirci al Mondo, uscendo dalla nostra dimensione di vita, superando i nostri
confini.
In cosa consiste
l’Ottobre Missionario?
Per tutto il mese sono organizzati eventi religiosi
e di raccolta fondi.
Il Papa ci invita a pregare per il prossimo e per
chi dona la propria vita in zone lontane dalla propria casa, dai propri affetti, dalla propria quotidianità.
Scelte spesso eroiche: è troppo lungo l’elenco
di missionari morti per malattie, guerre, attentati o giustiziati per differenze religiose e razziali. Ma ogni comunità, Diocesi, parrocchia è
invitata ad organizzare eventi sul complesso tema
delle Missioni.
La Diocesi di Velletri-Segni
sta organizzando qualcosa
per il prossimo
Ottobre Missionario?
Il gruppo mondialità della Caritas che si occupa delle attività missionarie desidera proporre
a tutta la Diocesi una intera giornata di incontri, dibattiti, confronti sulla missione.
La giornata missionaria si terrà il 24 Ottobre presso la Parrocchia Santa Maria del Carmine (zona
Pratolungo) , Velletri.
Il tema principale, che poi vuole richiamare una
serie di incontri che si desiderano organizzare
bimensilmente per tutto l’anno pastorale, è la
DIVERSITA’. Quella diversità che ci rende diffidenti, timorosi, che spesso non conosciamo e
temiamo.
La diversità è un concetto complesso ed
ampio, che vuole essere indagato soprattutto
come confronto tra esistenze lontane: diversità di religione, pelle, cultura, possibilità economica, genere e politica.
L’Ottobre Missionario Diocesano sarà dedicato al tema : “La diversità religiosa.
Musulmani in Italia, Cristiani in terra straniera:
bisogno di spiritualità”.
Il diritto al proprio credo spesso si confronta con
le usanze locali, i pregiudizi, le paure, ma è anche
sinonimo di repressione della libertà di donne,
di pensiero, di parola.
Cosa vuol dire ora trasmettere la Parola nel Mondo?
Quali sono i rischi?
Il programma provvisorio prevede:
ore 11: 00 – 12: 00 Santa Messa
presso la Parrocchia
ore 12:15 – 13:15 Seminario: racconti di vita
ore 13:30 – 14:45 Pranzo
ore 15:00 – 16:30 Tavola rotonda:
cercando il confronto
ore 16:30 Conclusione
23
Chi può partecipare alla Giornata
Missionaria Diocesana?
Senza dubbio … TUTTI!
In particolare tutte le persone attive in ambito missionario o di sostegno al prossimo,
credenti o atei, che desiderano confrontarsi,
conoscere nuove realtà, rapportarsi con nuove esperienze.
Ma anche i curiosi, i dubbiosi, i critici.
Quindi il gruppo mondialità della Caritas vi
aspetta! Ricapitolando: domenica 24
Ottobre presso la Parrocchia Santa Maria
del Carmine, Velletri.
Eventuali cambiamenti di programma
saranno pubblicati tempestivamente sul prossimo numero di Ecclesia.
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Giancarlo Fiorini
I
l frate cappuccino sereno e cordiale, che
tutti accoglieva con simpatia, che parlava
volentieri con te ed era pronto a venir incontro ai tuoi desideri, ci ha lasciato alle prime ore
di venerdì 29 luglio, stroncato da un male incurabile. “Padre Clemente è stato uno di Velletri,
che si è inserito, si è coinvolto nella vita di questa città in tantissime sue espressioni e manifestazioni, con un sorriso che annullava ogni distanza, con una disponibilità 24 ore su 24, con una
dedizione che è durata fino agli ultimi giorni della sua vita”, ha detto il nostro Vescovo nell’omelia.
P. Clemente era di un’integrità morale a tutta prova e di una grande umanità.
Un vero uomo e un autentico cappuccino, quindi anche con i suoi limiti e le sue imperfezioni,
ma abbondantemente superate dalle non comuni qualità di cuore, di mente, di capacità creative e realizzative. All’anagrafe civile risultava con
il nome di Stefano Messore, nato a S. Ambrogio
sul Garigliano (FR) il 27 maggio
1933. Entrato in seminario, aveva compiuto regolarmente il corso degli studi ed era stato ordinato sacerdote il 18
marzo del ’59. Presso l’Università Cattolica
del Sacro Cuore a Milano si era laureato in Lettere Moderne, nei tempi previsti e con un’ottima valutazione.
Nel ’64 era venuto a Velletri come insegnante e precettore nel seminario.
Da direttore ebbe l’intuizione geniale
di aprire la scuola ad alunni esterni e
nel 1968 iniziò il primo anno della Scuola
Media Legalmente Riconosciuta “San Francesco
d’Assisi”, di cui fu preside fino al 1996, quando
per varie difficoltà venne chiusa.
Oltre 1500 ragazzi hanno avuto l’opportunità di
frequentare la “sua” scuola e tutti ne hanno un
bellissimo ricordo, anche per le attività parascolastiche
che lui suscitava e sosteneva: tornei di calcio,
teatro, gite scolastiche, settimana bianca,
vacanze studio in Inghilterra, giornalino scolastico, mostre didattiche, saggi ginnici e musicali,
aiuto concreto e costante ai missionari (per garantire il diritto allo studio di centinaia di ragazzi del
Madagascar). Ma l’impegno apostolico non si esauriva nella scuola, perché assunse altri impegni,
come il servizio svolto presso la clinica Madonna
delle Grazie fin dal lontano 1974.
Ogni giorno celebrava la Messa al mattino e nel
pomeriggio visitava gli ammalati, anche quando gli riusciva faticoso camminare e aveva difficoltà respiratorie. Era una visita tanto gradita,
perché portava una ventata di serenità, di umanità e di fede. Per quanto anziano e con problemi
fisici, è stato parroco
nella chiesa di san
Paolo ai Cinque
Archi dal 1997 al
2008. Sempre disponibile e infaticabile, è riuscito a creare un ambiente fraterno e
solidale. La vita ecclesiale è rifiorita, grazie anche
alla ristrutturazione e all’ingrandimento della chiesa, alla creazione di sale per le attività parrocchiali, alla dotazione di strutture audiovisive utili per la liturgia e i corsi di catechismo...
Da anni seguiva spiritualmente il gruppo di preghiera di Padre Pio di Velletri-Lariano e negli
ultimi tempi celebrava la Messa presso le case
di riposo di Velletri.
Meno appariscente ma non meno importante
è stata la sua disponibilità per l’ascolto e il conforto, la vicinanza e l’aiuto a un grandissimo numero di persone, prendendo parte alle loro feste o
al loro dolore.
A lui stava molto a cuore la gente e i suoi problemi, aiutando economicamente i poveri, accogliendo in convento extracomunitari, organizzando
aiuti concreti a persone bisognose (si pensi ai
tir inviati in Croazia e in Albania nel 1992).
E quando è stato necessario, non ha esitato a
schierarsi dalla parte degli umili contro i potenti, come nel caso Cervia.
Nel saluto finale, scritto nel mese di aprile, ha
dichiarato che quelli passati a Velletri “sono stati, senza dubbio, anni stupendi, ricchi di tante
umane soddisfazioni, procurate dai numerosissimi amici incontrati in questi anni.
Di tutto sia resa gloria a Dio. A tutti chiedo una
preghiera al Signore affinché eserciti con me tanta misericordia… Anche io dall’aldilà mi ricorderò
di tutti voi! Addio!”. Grazie, padre Clemente.
Il tuo ricordo di uomo di Dio mite e sereno, generoso e coerente, continuerà a vivere in noi come
un invito dolce a credere e ad amare, perché tutto il resto… è polvere.
Mons. Fernando Calenne
Francesco Cipollini
entre prepariamo l’impaginazione di questo numero di Ecclesia giunge la notizia del
ritorno alla casa del Padre di un altro rappresentante del clero segnino: mons. Fernando
Calenne. Diamo di seguito un breve ricordo della sua vicenda umana, rinviando ad
un successivo numero un profilo umano e sacerdotale più ampio.
Era nato il 6 ottobre 1917 a Segni dove aveva trascorso tutta la sua gioventù.
Aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 12 luglio 1942.
Aveva svolto il ministero dapprima in cattedrale, come viceparroco, e poi presso la parrocchia
di san Pietro a Segni come arciprete parroco.
Il 28 novembre 1976 assumeva l’incarico di parroco di Santa Maria degli Angeli sempre a Segni,
divenendone il terzo parroco dopo don Guglielmo Coluzzi che l’ha fondata e don Angelo Prioreschi
[al quale, approfittando dell’occasione, diamo il benvenuto, anzi il bentornato, a Segni, visto
che le strade della divina Provvidenza l’hanno riportato nella nostra città dopo 34 anni]. Giunto
alla meritata “pensione” aveva continuato a collaborare con la medesima parrocchia, alla cui
guida era stato chiamato don Lorenzo Loppa, assicurando le confessioni e la celebrazione dell’Eucarestia
sia nei giorni feriali che in quelli festivi.
Quando la salute non gli aveva consentito più completa autonomia si era ritirato presso le nipoti che lo hanno accolto e accudito amorevolmente fino al giorno in cui è tornato a “vedere Dio
faccia a faccia” quel Padre per il quale aveva speso tutta la sua vita.
Ciao, don Fernando.
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Don Daniele
Valenzi*
I
problemi della catechesi, e della comunicazione della fede in genere, possono
e debbono essere accostati da diversi punti di vista.
In questi anni la prassi ecclesiale, e anche la
riflessione catechetica e pastorale che la
accompagna, hanno valorizzato molto il punto
di vista e i contributi delle scienze umane, per
esempio di quelle dell’educazione, della formazione,
della comunicazione.
Ci si è aperti sempre di più anche a quelli delle scienze teologiche, per esempio della teologia biblica, liturgica.
Queste aperture ed interazioni hanno implicato il presentarsi di alcune difficoltà, ma hanno
anche portato molti frutti.
La catechesi oggi si rapporta di più con le altre
dimensioni della vita ecclesiale, si articola all’interno di progetti globali di trasmissione dell’esperienza di fede, si misura con le problematiche di vita dei destinatari, e con quelle del territorio e del contesto sociale e culturale.
La riflessione catechetica e teologico-pastorale, da parte sua, si fa carico di sostenere ora
l’una ora l’altra di queste dimensioni, e di collocarle dentro una visione ampia della vita cristiana ed ecclesiale.
La sfida del nostro tempo probabilmente si colloca a partire da una nuova riflessione antropologica, da un nuovo approfondimento del senso dell’umano e del significato umano della Rivelazione
cristiana.
E forse, più radicalmente, dall’abitare da credenti il senso dell’umano, e da una riflessione
che sia articolazione di questo abitare. Oggi assistiamo infatti al farsi strada, sul piano culturale ed ecclesiale, di una questione antropologica o, addirittura, di una emergenza antropologica.
La via da intraprendere potrebbe essere quella che ci porta a fare un passo indietro, dall’orizzonte strettamente catechetico o pastorale,
all’orizzonte antropologico, nella speranza di cogliere qualche luce o intuizione che apra delle strade e faccia fare passi in avanti nell’ambito catechetico-pastorale.
La necessità di situarci nell’orizzonte antropologico è richiamata anche dal modo in cui si pongono oggi i problemi del credere e dell’approccio
all’esperienza cristiana.
I dibattiti su quanto siano cristiane le radici della cultura occidentale, sul ruolo della Chiesa nella vicenda sociale, su quale dialogo possa svilupparsi tra il cristianesimo e le altre religioni,
su quanto le religioni siano promotrici di pace
o di violenza, su come intendere l’identità cristiana, sulle diverse visioni della famiglia, dello sviluppo sociale ed economico, dell’etica, della vita stessa: tutti questi approfondimenti ci dicono, in fondo, che la posta in gioco è antropologica. Sono in gioco visioni diverse del senso
dell’umano; e la fede cristiana viene interrogata, o anche attaccata, in rapporto a ciò che sa
dire ed esprimere del senso del vivere, della digni-
tà della persona, della possibilità di costruire la
vita nella speranza, in una parola ciò che sa dire
dell’uomo. Anche la pastorale della Chiesa passa per il banco di prova del senso del vivere.
L’incontro con la fede dipende sempre più dalle ragioni di speranza che il messaggio cristiano sa offrire, dalla percezione ed esperienza del
fatto che le risorse della Chiesa e della fede possono allargare il cuore e abilitare a vivere con
dignità e verità la vita.
È come se si chiedessero alla pastorale non tanto percorsi che abbiano, come obiettivo ultimo,
l’esperienza-conoscenza della fede, ma percorsi
di crescita in umanità, che permettano di sperimentare la fede come risorsa di vera umanità, non tanto percorsi orientati all’incontro con
Dio, ma percorsi che abilitino a percorrere, con
Dio, i sentieri della vita. È su questi sentieri che
la fede ritrova le sue ragioni.
La questione decisiva non riguarda come in passato soltanto la correlazione tra esperienze e
fede, ma anche e soprattutto il senso e la dignità dell’esperienza: la fatica di sperare e di amare, la sfiducia talvolta nella vita stessa, il sentirsi inutili; in una parola:
lo smarrimento proprio
del senso del vivere.
Questa nuova pista di
ricerca mette in primo
piano un richiamo di conversione, di affidamento,
o di coraggio, che precede, sul piano del
senso, la comprensione e la presa di coscienza.
Insomma: si comprende se ci si mette in gioco. Si comprende che
la vita prende senso in
rapporto al Vangelo,
mentre ci si lascia raggiungere, mentre si ama,
mentre ci si affida; a differenza di quanto avviene, o dovrebbe avvenire, sul piano della correlazione,
dove ci si affida e si ama se previamente si comprende o, in termini più esistenziali, si prende
coscienza del senso che l’affidarsi e l’amare possono avere per la vita. Queste suggestioni vanno verificate bene su un piano antropologico,
perché, se sono fondate, provocano profondamente la pastorale catechistica.
La fondazione deve essere doppia: sul versante
filosofico, a partire dal dar voce al senso dell’umano, così come esso si dà e nel modo in
cui si dà; sul versante teologico, a partire dalla Rivelazione che, nella luce della Parola di Dio
e dell’evento di Gesù Cristo, Parola incarnata,
apre alla verità dell’uomo.
La riflessione filosofica e quella teologica sull’uomo, pur nel rispetto delle reciproche specificità, sono chiamate a interagire.
*Direttore dell’Uff. Catechistico Diocesano
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è
una struttura a servizio
d e l l a
Diocesi. La sua
principale iniziativa è la Scuola di formazione Teologica
che si articola su tre
percorsi distinti:
A - corso di
formazione
teologica.
B - percorso
tematico
annual.,
C - laboratorio di
comunicazione.
Il Percorso A è
impostato secondo un Ciclo quadriennale di iniziazione alla teologia,
con approfondimento in particolare della Sacra
Scrittura e della
Dottrina cristiana alla luce del Concilio Vaticano II e del Catechismo della Chiesa Cattolica. Ogni anno prevede un corso di introduzione generale, la presentazione di una delle costituzioni del concilio Vaticano II,
un corso di Sacra Scrittura, un corso di teologia sistematica, secondo
il seguente quadro:
Anno I
- Introduzione alla Storia della salvezza
- Introduzione generale alla Sacra Scrittura
- Costituzione Dogmatica Dei Verbum
- Dottrina cristiana: Cristologia
Anno II
- Introduzione al pensiero cristiano
- Sacra Scrittura: Antico Testamento
- Costituzione pastorale Gaudium et Spes
- Dottrina cristiana: Antropologia teologica
Anno III
- Introduzione alla storia della Chiesa
- Sacra Scrittura: NT I: i Vangeli
- Costituzione dogmatica Lumen Gentium
- Dottrina cristiana: Ecclesiologia
Anno IV
- Introduzione ai Padri della Chiesa
- Sacra Scrittura: NT II: le Lettere
- Costituzione liturgica “Sacrosanctum Concilium”
- Dottrina cristiana: Sacramentaria
Incontri
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12
8
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12
8
12
ratori della catechesi, della liturgia e della carità;
- Il Percorso B è aperto a tutti ed è diretto in maniera particolare a quanti – sacerdoti e laici – intendono aggiornarsi in un tema di particolare
interesse ecclesiale;
- Il Percorso C è aperto a tutti ed è diretto in maniera particolare a quanti sono sensibili ai temi della Dottrina Sociale della Chiesa.
Sede:Gli incontri si terranno nella Sede del Centro Diocesano di formazione Permanente, a Velletri, presso la Chiesa del Crocifisso, Viale
Salvo D’Acquisto, 51, il martedì dalle ore 18.30 alle 20.00,e il venerdì, dalle ore 18.30 alle 22.00. Il mercoledì si terranno i laboratori e i
seminari.
Note informative:
- I Corsi organizzati dal Centro Diocesano di Formazione Permanente
sono indirizzati a tutti, senza richiesta di titoli o competenze specifiche;
- La Scuola di Formazione Teologica non conferisce titoli accademici;
a quanti lo richiedono, rilascia un attestato di frequenza;
- Per il corso di Formazione Teologica è possibile sostenere gli esami:
per chi deve o intende sostenerlo, la prova consisterà in un elaborato
concordato con il docente.
- I corsi possono valere, per le Scuole di ogni ordine e grado, come
corsi di aggiornamento.
- Per la partecipazione a più corsi, è richiesto un contributo di 50 Euro,
a titolo di rimborso spese; per la partecipazione a un corso è richiesto
invece un contributo di 20 Euro; è esente da contributo il percorso B.
- Le iscrizioni si fanno, su apposito modulo, a inizio corso.
SEGRETERIA: VELLETRI, Chiesa del Crocefisso,
Viale Salvo D’Acquisto, 51
Martedì, venerdì, orario incontri
Direttore: Don Dario Vitali, [email protected]
ANNO 2010-2011 Programma
PERCORSO A: ANNO II DEL CORSO DI FORMAZIONE TEOLOGICA
Martedì, ore 18.30-20.00:
1.Introduzione al pensiero cristiano:
19. 26 ott, 9. 16. 30 nov 7. 14 dic
2.Sacra Scrittura:Antico Testamento
11. 18. 25 gen, 1. 8. 15. 22 feb, 1. 8. 15. 22. 29 mar, 5 apr.
Venerdì, ore 18.30-20.00:
3.Costituzione pastorale “Gaudium et Spes”:
22. 29 ott, 5. 12. 19. 26 nov., 3. 10. 17 dic.
4.Antropologia teologica:
14. 21. 28 gen., 4. 11. 18. 25 feb., 4. 11. 18. 25 mar, 1. 8 apr.
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PERCORSO B: ESERCITAZIONI DI DIALOGO
8
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Venerdì, ore 20.30-22.00:
1. Corso tematico: LA LIBERTA’
14. 21. 28 gen., 4. 11. 18. 25 feb., 4. 11. 18. 25 mar, 1. 8 apr.
12 incontri gennaio-aprile
2. Catechesi mistagogiche: 6. 13. 20. 27 mag, 3. 10. 17 giu.
Il Percorso B consiste in un percorso annuale su un tema di interesse
generale, nella forma del dialogo con uno o più esperti. Oltre ai contenuti, il percorso vuole essere una vera e propria scuola del dialogo.
Il Percorso C è un ulteriore spazio di confronto, dove esperti nelle scienze della comunicazione offriranno brevi percorsi educativi nei diversi
ambiti della vita civile ed ecclesiale.
Destinatari:
- Il Percorso A è aperto a tutti ed è diretto in maniera particolare a quanti si devono formare nel servizio ecclesiale: diaconi permanenti; ope-
VELLETRI, Chiesa del Crocifisso.
VELLETRI, Chiesa del Crocifisso
PERCORSO C: LABORATORI SULLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
Responsabile dei laboratori: Costantino Coros
Laboratorio I:
Educazione alla cittadinanza: Come essere cristiani e cittadini consapevoli in un mondo che cambia
4 incontri a febbraio 2011
Laboratorio II:
Primi passi nella media education: Percorsi di educazione genitoriale
all’uso dei nuovi media da parte dei figli
4 incontri a marzo 2011
VELLETRI, Chiesa del Crocifisso,
Mercoledì, ore 18.30-20.00
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Il can. 1088 CIC così recita:
“Attenta invalidamente il
matrimonio chi è vincolato da
voto pubblico perpetuo di
castità emesso in un istituto
religioso”.
L
’impedimento in parola risulta
assimilabile a quello di ordine, dal
momento che entrambe le fattispecie
hanno per oggetto forme di vita che, a motivo della loro pienezza di dedizione a Cristo
e alla Chiesa (per l’ordinato in sacris) e
del profondo significato di anticipazione della situazione escatologica del Regno (che
configura il religioso, in virtù dei voti 1, a
Cristo povero, casto e obbediente), risultano incompatibili con le finalità e i beni
propri dello stato matrimoniale nella sua
specifica ed esclusiva tipizzazione relazionale.
Se con la promessa del celibato, liberamente assunta, l’ordinando in sacris intende esprimere il suo completo coinvolgimento
nell’annuncio del Vangelo e nel servizio della carità; mediante il voto di castità, il religioso si obbliga ad osservare il celibato
(e ad astenersi da qualunque atto ad esso
contrario) in quanto segno che anticipa la
futura condizione del Regno: imitando Cristo
povero, casto ed obbediente il religioso anticipa già nella sua vita temporale la condizione escatologica dell’umanità redenta.
Sotto un profilo strettamente giuridico tale
scelta rende inabile il soggetto che la pone
in essere al matrimonio: oggetto proprio
dell’impedimento è, infatti, il voto pubblico perpetuo di castità emesso in un istituto religioso.
Si è già vista (in nota) la definizione di voto;
il termine «pubblico» fa riferimento alla modalità espressiva di tale promessa da effettuarsi «Nomine Dei et per manus Ecclesiae»,
ossia, al cospetto di Dio ed innanzi al legittimo superiore: solo in tal modo il voto acquista rilevanza giuridica ecclesiale configurando lo stato di vita consacrata; in caso
contrario resta confinato nell’alveo della
promessa privata, vincolante per il soggetto
ponente, ma non opponibile, «ad substantiam»
e «ad probationem», nei confronti del resto
dei fedeli; il termine «perpetuo» fa riferimento all’estensione temporale della promessa ed esprime il carattere di definitività con cui il professo assume, previo opportuno discernimento, l’impegno celibatario.
Per quanto riguarda il fondamento dell’impedimento, esso è duplice: da una parte, il voto di castità emesso in un Istituto
religioso, e dall’altra la volontà della Chiesa.
Da qui scaturisce la natura ecclesiastica
positiva dell’impedimento.
Parte della dottrina identifica l’impedimento di ordine con quello di voto pubblico perpetuo di castità, considerata la
somiglianza degli effetti: la derivata inabilità soggettiva al matrimonio; è però
da osservare che proprio a partire dal
concetto di voto, come promessa deliberata e libera, sorge anche una proibizione morale (e non soltanto giuridica) a contrarre il matrimonio che rafforza
il carattere inabilitante dell’impedimento pur non producendolo ex se, attesa la derivazione positiva di tale inabilitazione che sancisce l’incapacità contrattuale del religioso in ordine al
matrimonio.
In tal senso, si tratta di due norme inabilitanti distinte che fissano due fattispecie
di impedimento (di ordine e di voto), irriducibili l’una all’altra, benché esse
risultino eventualmente cumulabili nella stessa persona del religioso ordinato in sacris, e che richiedono, in ordine alla cessazione degli impedimenti disciplinati, la concessione di due diverse
dispense.
L’attuale legislazione ha introdotto
alcune novità terminologiche rispetto alla
precedente: il can. 1073 CIC 1917 fissava l’impedimento per i religiosi che
avessero emesso voti solenni, o semplici, a cui la Sede Apostolica avesse
concesso la facoltà di dirimere il matrimonio.
Presupposto essenziale era costituito
dalla validità di emissione del voto e dalla validità della professione religiosa:
per il concetto di «validità», ci si riferiva ai principi generali del diritto sugli
atti giuridici e alle costituzioni proprie
dell’Istituto di emissione; la professione religiosa era (ed è) invece definita
come l’atto tramite cui un soggetto, mediante l’emissione dei tre voti di povertà, castità ed obbedienza, accettati legittimamente
dal superiore competente in nome della Chiesa, rimane incorporata ad un istituto religioso.
1
Ai sensi del Can. 1191 CIC (889 CCEO)
la promessa deliberata e libera di un
bene possibile e migliore fatta a Dio da
adempiersi in virtù di religione (ossia
dell’inserimento di un soggetto nello
stato di vita consacrata.)
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Mons. Franco Fagiolo*
questo il titolo di una preziosa e ben
articolata riflessione di G. Genero
in A A . V V., Musica per la Liturgia.
Presupposti per una fruttuosa interazione,
(Ed. Messaggero, Padova, 1996). Proviamo
allora a trovare i motivi basilari per cui bisogna affrontare l’argomento in ogni singola Comunità parrocchiale, piccola o grande che sia e dove ogni domenica si celebra una messa.
Naturalmente, tra le tante occupazioni e preoccupazioni di un parroco, ci deve essere anche
quella della pastorale del canto e della musica. Non soltanto perché gli piace cantare o è
un cultore della musica, quanto per garantire
alle convocazioni liturgiche la realizzazione di
quel segno rituale che è il cantare insieme di
tutti i convocati, necessario e integrante di una
liturgia che voglia essere momento di edificazione e manifestazione della Chiesa, celebrazione della gloria di Dio e offerta al mondo di
un segno di salvezza e di speranza.
Nessuno pretende che ogni sacerdote abbia specifiche competenze tecniche e musicali, ma almeno un pizzico di sensibilità per metterla a ser-
È
vizio della Chiesa, e che sappia che anche la
musica e il canto sono espressioni necessarie
non solo per fare delle liturgie più belle e più
vive, ma sono espressioni necessarie, quindi
non facoltative o semplicemente utili, anche per
la edificazione della Chiesa, in particolare per
quella edificazione che avviene mediante la celebrazione liturgica.
Si capisce bene che ci stiamo preoccupando
della musica e del canto da un punto di vista
strettamente liturgico, in funzione dei riti e di ciò
che solitamente si fa in chiesa.
Ce ne dobbiamo occupare prima di tutto da un
punto di vista ECCLESIALE E PASTORALE. Ossia
in funzione della CHIESA da edificare.
La musica e il canto possono e devono servire non solo a divertire, a passare il tempo, a
innalzare lo spirito, a pregare, a solennizzare
alcuni eventi religiosi o alcune ricorrenze, ma
possono e devono servire anche a fare CHIESA e a mostrare che si è CHIESA, delle persone, cioè, che vivono in armonia e in comunione profonda con gli altri.
Il punto di forza della pastorale della musica è
la convinzione che la musica non è un semplice
elemento decorativo della celebrazione liturgica, ma “un elemento necessario e integrante”
(cfr, SC 112). È questo un aspetto tutto da recuperare! Il canto e la musica “hanno un compito ministeriale nel servizio
divino”. La liturgia ha bisogno
del canto come ha bisogno delle preghiere e delle letture bibliche, dei segni sacramentali e
dei riti che si compiono intorno ad essi e con essi.
Nella liturgia il canto comincia a starci non più solo come
segno di bellezza e di perfezione, oppure per le sue
capacità di elevazione e di sublimazione a motivo anche della sua immaterialità, ma
soprattutto come gesto umano di partecipazione e perfino come rito indispensabile e
integrante.
La musica porta in sé qualcosa che va al di là di sé stessa, che si integra con l’azione sacramentale e che i
membri di un’assemblea liturgica hanno il compito di esprimere. Dobbiamo fare qualsiasi sforzo affinché la partecipazione sia accessibile a
tutti i partecipanti e nello stesso tempo sia compiuta avendone chiaro il valore sacramentale.
L’obiettivo della pastorale non è quello di far diventare tutti i cristiani musicalmente competenti.
Non tutti possono diventare maestri di musica
e di canto! Tutti, però, devono essere messi nella condizione di svolgere dignitosamente il proprio compito, partecipando responsabilmente e
con sufficiente consapevolezza anche alla realizzazione del segno sonoro.
Il problema vero non è il canto! Il vero problema è la fede e la vita delle persone che si radunano nelle nostre chiese e non sanno fare né
assemblea, né liturgia! Ecco allora le preoccupazioni di ogni pastore!
E per un rilancio del canto dell’assemblea bisogna sapere chi siamo, come siamo fatti, che cosa
facciamo quando ci raduniamo per la liturgia,
a che serve cantare. Un’impresa sicuramente
ardua e molto difficile. È come una scommessa e ce la vogliamo giocare con intelligenza e
con frutto.
*Responsabile Diocesano della Musica per la Liturgia
[email protected]
D
ue amici si danno appuntamento a Roma; vogliono festeggiare il secondo anno di vita un loro accordo che, molto spesso viene dimenticato da uno dei due.
Dei due, uno è quasi di Roma dove vive e dove spesso organizza incontri.
L’altro viene di fuori ed ogni volta che viene in Italia per trovare il suo amico, organizza anche incontri con giovani donne e
qualche ragazzo, per farsi meglio conoscere.
La visita di questi giorni (scrivo il 30 agosto) ci viene descritta
in cronaca con la ormai tradizionale “tenda” e con l’aggiunta
di 27 cavalli berberi che si esibiranno all’interno di un plesso
militare italiano ove ci sarà l’ufficiale celebrazione dell’avvenimento con l’incontro dei due amici.
Non entro nel merito dei problemi politici che saranno trattati,
è meglio non pensare a quelli economici vista la magnanimità
dell’amico romano, dico solo, riferendomi a quanto detto dall’ospite
su problemi di religione, che dai “nemici” mi guardo io, dai due
amici mi guardi Dio.
Guglielmo Bongianni
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Mara Della Vecchia
I
l tema della scrittura musicale, della sua
evoluzione nel tempo e nei luoghi, costituisce un capitolo importante nella musicologia, in quanto non è solo un aspetto formale
ed esteriore della musica e dell’esperienza musicale, ma al contrario, ne condiziona la forma,
lo sviluppo, la struttura e, naturalmente, la diffusione.
Sappiamo tutti che il sistema di scrittura attuale, che utilizziamo correntemente, deriva dai sistemi di notazione elaborati nel corso del medioevo presso i monasteri cristiani, ma la sua creazione, il suo sviluppo e la sua evoluzione non
sono stati lineari e semplici.
Un sistema di notazione completo e decifrabile per noi, risale solo al X secolo, in seguito alla
grande opera di unificazione del canto liturgico
cristiano avviata da papa Gregorio Magno. Dunque,
considerando che la musica in generale e la musica religiosa in particolare sono antiche quanto
la civiltà dell’uomo, tale sistemazione risulta essere piuttosto recente.
In realtà, sappiamo che gli uomini medioevali
conoscevano il sistema di scrittura musicale dei
greci, basato su una rappresentazione simbolica dei suoni attraverso le lettere dell’alfabeto
e successivamente adottato dai Romani, il quale era già completo ed esauriente e piuttosto preciso, ma ciononstante non sentirono la necessità di farne uso.
La diffusione e l’apprendimento attraverso l’imitazione
e la memorizzazione individuale dei canti e delle melodie, era già abbastanza efficace, addirittura più comoda, più veloce, inoltre la semplicità delle forme melodiche del canto cristiano rendeva inappropriato e troppo complicato
il sistema di notazione greco-romano, quando
bastava
un po’ di
esperienza per
padroneggiare il repertorio dei canti necessari alle
varie liturgie. Anche il problema della diffusione della musica era poco sentito perché i brani che occorreva imparare per le funzioni religiose, erano quelli usati entro i ristretti confini dell’area di influenza delle chiese locali, infatti numerosi e
diversi erano anche i riti liturgici praticati nelle varie regioni dell’Europa,
dell’Asia e dell’Africa cristianizzate.
Il processo di unificazione del canto cristiano prenderà inizio da
Roma e l’unificazione renderà indispensabile l’adozione di una scrittura musicale comune a tutti o comunque a molti, che fosse il più possibile precisa, ma contemporaneamente
comprensibile, agevolmente utilizzabile e che non fosse troppo difficile da apprendere.
Quindi si può comprendere come
i primi segni utilizzati come supporto
mnemonico per la musica furono
mutuati, non già dalla scrittura
musicale dei Greci, bensì dagli accenti grammaticali per la lettura della
lingua greca: l’accento acuto per indicare l’innalzamento della voce,
l’accento grave per indicare il ritorno al suono di partenza, l’accento
circonflesso per indicare l’alzarsi e
l’abbassarsi della voce e il punto per
indicare una pausa.
Ricordiamo che lo scopo del canto cristiano era la declamazione e
la comprensione del testo biblico o
delle preghiere, non la varietà o l’originalità della melodia. I segni
usati erano molto intuitivi ed avevano anche un’efficacia visiva
29
immediata, questo è molto
importante perché
attraverso la lunga evoluzione
della scrittura
musicale, passata attraverso i
neumi ( le antiche note) e la riga
orizzontale che
stabiliva l’altezza di un solo
suono, si è arrivati all’odierno
pentagramma, formato da cinque righe
parallele e orizzontali per indicare l’altezza di ciascun suono e le
figure musicali per indicarne la durata, ma
il sistema attuale è ancora, come all’inizio,
una rappresentazione grafica, visiva.
L’ iniziale rifiuto della complessa scrittura
simbolica della musica greca e l’individuazione
di un modo immediatamente decifrabile come
lo è un grafico è dunque stata una felice
intuizione che ha permesso di conservare l’immenso patrimonio della creazione musicale europea degli ultimi dieci secoli e di
renderlo accessibile a tutti.
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Francesco Cipollini*
E
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sattamente dieci anni fa il cardinale
Vincenzo Fagiolo tornava alla casa del
Padre. Era il 22 settembre 2000.
Riassumere qui l’intensità e la vastità della sua
opera non è cosa facile. Credo però doveroso
fermarsi a ripercorrere almeno i tratti fondamentali
della sua esistenza. Nasce a Segni il 5 febbraio
1918 da Marco e Anatolia Colaiacomo.
Entra nel seminario di Segni, prima, e di Anagni
poi. Nel 1937 si trasferisce a Roma nel Seminario
Romano dove completa gli studi e finalmente il
6 marzo 1943 viene ordinato presbitero. Presiede
la sua prima messa a Segni il giorno seguente,
domenica 7 marzo 1943. Accanto all’attività pastorale, don Vincenzo porta avanti la sua formazione
in modo particolare in materia giuridica, frequentando
il pontificio Istituto di Sant’Apollinare (dove insegnava un altro grande segnino, il futuro cardinale
Pericle Felici) e la pontificia Università Lateranense.
Inizia anche il suo servizio, come assistente spirituale, presso l’Ente Nazionale Sordomuti,
mantenendo tale impegno fino al 1971, alla vigilia della sua ordinazione episcopale.
Nel frattempo, dopo il 1950, comincia anche il
suo servizio presso la Curia romana, il suo primo incarico fu nella Congregazione per il culto
divino e la disciplina dei sacramenti. Con l’inizio
dei lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II, don
Vincenzo entra a far parte della Segreteria gene-
rale collaborando con l’altro illustre
segnino, il già citato mons. Pericle
Felici, cui si deve la ottima conduzione e la riuscita stessa dei lavori conciliari.
Terminate tale impegno, mons. Fagiolo (era stato nominato Prelato domestico nel 1961) entra
come Prelato Uditore presso il tribunale della Rota
romana (1968). In questo torno di tempo conserva
legami saldi con la sua terra di origine: ogni domenica celebra a Gavignano (Rm), in ausilio al compianto arciprete Giuseppe de Carolis, specialmente
presso la chiesa di sant’Antonio, nell’agro gavignanese. Il 20 novembre 1971 arriva la nomina
ad arcivescovo metropolita di Chieti, cui è legata la diocesi di Vasto. L’ordinazione episcopale,
ricevuta nella basilica di Santa Maria Maggiore,
viene presieduta dal card. Carlo Confalonieri, conconsacranti i vescovi de L’Aquila, Costantino Stella,
e di Segni, Luigi Maria Carli.
La presa di possesso della diocesi chietino-vastese avviene il 9 gennaio 1972. Le parole con cui
aprì la sua omelia furono “da poco vi conosco e
già molto vi amo”: bastarono queste a legare indissolubilmente il pastore al suo gregge e il gregge al suo pastore. Un legame così forte che per
tutto il periodo della sua successiva permanenza a Roma, l’olio per la lampada del Santissimo
Sacramento della sua cappella privata gli verrà
puntualmente ed interrottamente donato dalla gente della sua diocesi di Chieti-Vasto, come confessava il cardinale in persona al vostro autore
durante una sua visita presso il bellissimo appartamento in via Rusticucci, in cui ha trascorso l’ultima tappa della sua vita. Un legame che neanche la morte è riuscito a spezzare. Infatti il card.
Fagiolo, per sua espressa volontà testamentaria, ha voluto essere sepolto nella cattedrale di
Chieti, nella cappella a destra dell’altare maggiore, intitolata alla Mater populi teatini. L’attività
a Chieti-Vasto termina nel 1984, quando il papa
Giovanni Paolo II, di venerata memoria, lo chiama a Roma, a svolgere il delicato compito di segretario della Congregazione per gli istituti religiosi e le società di vita apostolica. Sarà proprio tale
ruolo, non disgiunto dalla squisita sensibilità “segnina” dell’arcivescovo Fagiolo, a consentire la visita a Segni della beata Madre Teresa di Calcutta,
era il 27 novembre 1990. Nello stesso 1990 viene nominato presidente del pontificio Consiglio
per l’interpretazione dei testi legislativi.
Il 26 novembre 1994, nel concistoro pubblico, viene creato cardinale dell’ordine dei diaconi, titolare della basilica di S. Teodoro all’Aventino, dal
medesimo papa Giovanni Paolo II che lo aveva
richiamato a Roma dalla terra abruzzese.
Nonostante questo elevato riconoscimento,
umanamente parlando motivo di orgoglio, il tratto del card. Fagiolo continuò ad essere caratterizzato dalla modestia e dalla indole pastorale.
Con facilità e semplicità lo si poteva incontrare
nei diversi paesi della diocesi (e anche per tutta Italia!) per una celebrazione o per una predicazione, ma anche per un convegno o una giornata di studi ad altissimo livello.
Proprio il convegno su san Bruno, vescovo di Segni,
celebrato il 5 novembre 1999 e organizzato dal
vostro autore in qualità di titolare dalla cattedra
di Storia della Chiesa, presso l’Istituto diocesano di Scienze Religiose “Mons. Centra” allora diretto dal sempre validissimo e preparatissimo don
Dario Vitali, è stata la sua ultima presenza ufficiale a Segni: fu infatti il card. Fagiolo a presiedere con particolare sagacia la seconda giornata.
Impossibile qui ricordare la vastità della sua bibliografia, ma la competenza e la capacità del card.
Fagiolo rimangono imperiture nelle parole dei suoi
libri. In occasione del quinto anniversario della
scomparsa (22 settembre 2005) la città di Segni
organizzò una giornata di studio per onorare la
memoria del suo illustre concittadino.
Grazie alla generosità dell’Istituto Mons. Sagnori,
diretto dal capace e disponibile dott. Luigi Vari,
fu possibile organizzare una degna commemorazione. La solenne liturgia fu presieduta dal vescovo emerito di Sulmona-Valva, mons. Di Falco (già
suo collaboratore a Chieti) e concelebrata dal vescovo emerito di Velletri-Segni, mons. Erba, insieme a mons. Lazzaro (già suo segretario); vi partecipò una enorme folla.
Terminata la celebrazione, si tenne la commemorazione ufficiale, durante la quale diverse personalità (segnine e romane) ebbero modo di ricordare il compianto concittadino ma anche l’illustre
ecclesiastico. In quell’occasione venne anche realizzato il volume sulla vita del cardinale Fagiolo:
Plenitudo legis dilectio. Il card. Vincenzo Fagiolo
(1918-2000). Sono trascorsi altri cinque anni. Ma
sono sicuro di poter affermare che l’affetto, il ricordo e la riconoscenza per questo nostro fratello
che ha percorso la via della vita come servizio,
ai più alti livelli, sia ancora vivo e vitale: tra i suoi
tanti insegnamenti va sicuramente evidenziata
la sua umiltà con cui riusciva sempre ad manifestare quella vicinanza e quella com-passione
per tutti coloro che gli si accostavano.Concludendo
il convegno nel quinto anniversario della scomparsa in qualità di moderatore, alla folla che assiepava la cattedrale in “ogni ordine di posti” come
si usa dire, dissi con immensa soddisfazione che
“Segni non aveva dimenticato il card. Vincenzo
Fagiolo”: oggi a distanza di altri cinque anni sono
certo di poter ribadire tale affermazione. Don Vincenzo
(come amava farsi chiamare anche da cardinale), dal cielo intercedi presso il Signore per noi,
che continuiamo il difficile ma avvincente cammino di ogni giorno fino a giungere all’incontro
al Padre. Amen.
*Docente IRC e storico della Chiesa
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I papi sui
monti lepini...
Francesco Cipollini*
L
a visita appena trascorsa di Benedetto
XVI a Carpineto romano, in occasione
del secondo centenario della nascita del
suo grande predecessore Leone XIII (1810) nativo di quella città, ci porta con la memoria ad un’altra visita compiuta l’11 settembre 1966 da un altro
papa, Paolo VI, che in quella data si recò da Castel
Gandolfo nella cittadina dei monti lepini per commemorare il 75° anniversario dell’enciclica
Rerum Novarum (pubblicata appunto da Leone
XIII il 15 maggio 1891) sui temi della dottrina sociale della Chiesa. Paolo VI nel tragitto ebbe modo
di passare per tutti i paesi della nostra diocesi;
nell’ordine: Gavignano, Montelanico, Segni,
Colleferro (dove celebrò l’Eucarestia), Valmontone
ed Artena. Particolarmente cara ai segnini fu la
sosta presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli,
dove era stato allestito un altare su cui erano stati posti un crocifisso e le immagini delle due devozioni più forti dei segnini: il quadro dell’Addolorata
e il busto argenteo di san Bruno. Non mi attardo sulla cronaca della visita, rinviando i miei venticinque lettori di manzoniana memoria all’articolo di alcuni anni fa nel quale mi soffermavo sulla ricostruzione storica dell’avvenimento.
Tale visita è consegnata ai posteri con imperitura memoria da una lapide posta sul lato del campanile della parrocchia di santa Maria degli Angeli
che guarda corso Vittorio Emanuele.
L’occasione per l’inaugurazione della lapide fu la
visita a Segni del concittadino Pericle Felici che,
creato cardinale diacono del titolo di Sant’Apollinare
dallo stesso papa Paolo VI nel concistoro del 26
giugno 1967, tornava per la prima volta da porporato a visitare la sua città. Era il 17 luglio 1967.
Le testimonianza fotografiche consegnano alla
storia la memoria di una intera città che si ritrova ad accogliere il cardinale. Il vescovo, Luigi Maria
Carli, il sindaco dott. Filippo
Falasca, il clero ed una folla
immensa ricevettero il presule nei pressi della parrocchia
di Santa Maria degli Angeli, dove
era stato allestito un palco, proprio nei pressi del campanile
e dove, dopo i discorsi di rito,
il cardinale stesso procedette
allo scoprimento della lapide.
Il vescovo Carli in apertura del
suo discorso, ricordava che:
“l’11 settembre dello scorso anno,
a quest’ora in questo stesso luogo, tutta Segni s’era riversata
ad attendere il passaggio del
S. Padre Paolo VI il quale da
Carpineto si sarebbe recato Colleferro a celebrare
la messa per gli operai [...]”. Ancora oggi quella muta lapide ricorda ai passanti che anche a
Segni, una volta, i papi erano soliti passare. Magari
perché, come proseguì il vescovo Carli rivolto al
card. Felici nel discorso di benvenuto, “si doveva al Vostro autorevole interessamento se l’itinerario
del Sommo Pontefice fu modificato all’ultima ora
BASILICA CONCATTEDRALE S. MARIA ASSUNTA - SEGNI
Dal 5 al 12 settembre 2010 Settenario in Onore della
B.V. Maria Addolorata
DOMENICA 5 SETTEMBRE
Ore 17.30
Trasporto dell’Immagine dell’Addolorata dalla Chiesa del Gesù a S. Maria.
Ore 18.00
S. MESSA.
DA LUNEDÌ 6 A SABATO 11 SETTEMBRE: SS. Messe ore 7.30 - 8.30 - 9.30.
La S. Messa delle ore 9.30 è celebrata dai Canonici della Concattedrale.
DA LUNEDÌ 6 A GIOVEDÌ 9 SETTEMBRE
Ore 17.30 Rosario e S. Messa con catechesi sul tema: “La vita della Comunità Parrocchiale
che è chiamata a comunicare e a vivere il Vangelo tra la gente in un mondo che cambia”.
VENERDÌ 10 SETTEMBE: ore 18.00 Liturgia Penitenziale.
SABATO 11 SETTEMBRE
Ore 21.30 SOLENNE PROCESSIONE (vie del Centro Storico).
Al termine: SPETTACOLO PIROTECNICO DELLA DITTA PIROLAND.
DOMENICA 12 SETTEMBRE
Ore 7.30 - 12.00 SS. Messe.
Ore 10.00 S. Messa celebrata dal Vescovo Mons. Vincenzo Apicella che conferirà le SS. Cresime.
Ore 18.00 S. MESSA e Trasporto dell’Immagine dell’Addolorata da S. Maria alla Chiesa del Gesù.
GIOVEDÌ 16 SETTEMBRE
Ore 21.15 “PORTE APERTE ….. NELLA CHIESA DEL GESÙ”, visita guidata in
collaborazione con il Museo Archeologico Comunale.
Il Consiglio Pastorale
31
nel senso più gradito ai segnini”. Evidentemente l’intervento del card.
Felici fece sì che anche a Segni il papa Paolo
VI facesse una sosta per incontrare la popolazione. Anche oggi coltiviamo una speranza simile!
Per l’interessamento di un nostro illustre concittadino, che la Provvidenza ha posto alla guida
della vicina diocesi di Anagni-Alatri, il carissimo
mons. Lorenzo Loppa, cui tutta Segni è legata
da sentimenti di amicizia per la sua disponibilità e riconoscenza per quanto ha fatto nella nostra
città, noi ci auguriamo che papa Benedetto XVI
possa trovare un’occasione per tornare, come aveva fatto diverse volte da cardinale, a visitare la
“Sua” città di Segni. Magari nel 2012, in occasione dei 1340 anni dalla morte di san Vitaliano
(672), suo predecessore sul soglio pontificio, o
per i 910 anni dall’ingresso nell’abazia di
Montecassino (1102) del nostro illustre patrono
san Bruno; ma anche nel 2011 potrebbero trovarsi motivi per una visita: per i 900 anni dall’inizio della sua lotta (1111) con il papa Pasquale
II per la difesa dell’autonomia della Chiesa dal
potere temporale dell’imperatore e quindi del suo
rientro in diocesi lasciando l’incarico di abate di
Montecassino (ottobre 1111). O magari senza andare troppo indietro nel tempo, semplicemente perché poco meno di 20 anni fa (il 7 novembre 1993)
iniziava il cammino di reciproca amicizia fra il cardinale Ratzinger, quale cardinale titolare della diocesi suburbicaria di Velletri-Segni e la nostra comunità segnina con una solenne concelebrazione
nella cattedrale di Santa Maria Assunta...
È evidente che le occasioni non mancano... Segni
saprebbe accogliere con il dovuto onore il successore di Pietro che torna a visitarla.
*Docente IRC e storico della Chiesa
Nella foto: il vescovo Luigi M. Carli e il Card. Pericle Felici
in attesa dell’arrivo di S.S. Paolo VI
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Federica Colaiacomo
A
rrivati alla IV Edizione, “Porte aperte a…”
è ormai un appuntamento consueto e
tra i più attesi all’interno del calendario
degli eventi che caratterizzano l’estate a Segni.
La manifestazione, ideata dal parroco della Cattedrale,
Mons. Franco Fagiolo, in collaborazione con il
Museo Archeologico Comunale e l’Assessorato
alla Cultura, propone ogni anno delle visite guidate alla Cattedrale e nelle altre chiese di Segni,
coniugando l’interesse per un viaggio tra la sto-
ria e l’arte con il piacere di piccoli intrattenimenti
musicali o teatrali.
A dare inizio alla serie di appuntamenti per l’estate 2010, all’interno dei festeggiamenti in onore di San Bruno, Patrono della città, il primo Porte
Aperte è stato proprio nella Cattedrale di Santa
Maria Assunta il 22 luglio.
Nel corso della serata oltre ai maggiori cicli pittorici presenti nelle ricche cappelle della
Cattedrale, si sono letti passi del celebre manoscritto di Gregorio Lauri, con particolare riguardo al racconto del sacco che la città subì ad opera delle truppe capitanate da Marcantonio Colonna
nell’anno 1557 e la successiva ricostruzione della moderna Cattedrale nell’anno 1626, anno in
cui era Sindaco di Segni Giovanni Battista Lauri,
zio dello studioso. Ad allietare la serata Cristina
Bonanni ci ha fatto ascoltare alcuni brani musicali, eseguiti all’Organo Morettini della Cattedrale.
Il secondo incontro di Porte Aperte si è svolto
nella chiesa di San Pietro, il 5 di agosto, durante i festeggiamenti in onore di San Gaetano.
Si è ripercorso la storia degli studi dell’antico tempio di Giunone Moneta, leggendo passi di alcuni studiosi dell’ottocento e del novecento, per
passare poi alla storia della trasformazione dell’area, in età medievale, in un castrum per la difesa della città e al recupero dei resti del maestoso tempio pagano, riadattato in chiesa dedicata a San Pietro.
Il racconto archeologico è stato intervallato da
letture eseguite dai ragazzi dell’Associazione Culturale
“Amici della Biblioteca”, magistralmente diretti
da Enrica Fagnani. Oltre ai brani tratti dai resoconti degli studi dei celebri archeologi, che per
primi si interessarono al tempio di Segni, i ragazzi ci hanno intrattenuto anche con divertenti poe-
sie in dialetto, che parlano principalmente dei
monumenti antichi della città, dimostrando
come del resto questo importante patrimonio storico e archeologico sia parte integrante della nostra
cultura, arricchito e valorizzato anche dalla fantasia e dalla tradizione popolare.
Il terzo appuntamento era previsto per settembre, ma a grande richiesta, il 17 agosto c’e stato un fuori programma per un Porte Aperte…a
Santa Maria Assunta, ma con un itinerario del
tutto nuovo. Con l’aiuto di immagini, ricostruzioni
e di preziosi
documenti dell’Archivio di Stato di Roma, riguardanti i lavori di restauro dei principali complessi architettonici, quali la Cattedrale, il Palazzo
della Comunità (Museo Archeologico), il campanile, l’oratorio di San Lorenzo e il piccolo oratorio di San Michele Arcangelo, noto come chiesa dei morti, si è svolta un’interessante visita
guidata di Piazza Santa Maria nel XIX secolo.
A questo punto sono entrati in scena i ragazzi
dell’Associazione Culturale “Amici della Biblioteca”
che ci hanno fatto rivivere, con piccole scene
recitate in dialetto, la vita quotidiana della piazza all’epoca dei nostri nonni. E la visita è pro-
seguita passando all’interno della Cattedrale, fermando l’attenzione sull’Organo del 1857, opera di Angelo e di Nicola Morettini e sull’affascinante lettura del ritrovamento del teschio di San
Bruno, perso durante il sacco del 1557, raccontata
da Temistocle Pace nel volume “Cenni storici
della città e Cattedrale di Segni” del 1898.
E dalla storia siamo passati alla tradizione popolare, accompagnati da alcune poesie in dialetto che descrivono la mirabile storia secondo la
quale San Vitaliano, papa segnino, sia stato l’inventore dell’organo.
L’ultima tappa del nostro itinerario è stata una
visita virtuale a “Pozzo San Bruno”, località in
cui, secondo la tradizione popolare, San Bruno
fu tenuto prigioniero dal conte Ainulfo.
La serata si è conclusa con un omaggio a San
Bruno, con alcune tra le moltissime poesie in
dialetto che gli sono state dedicate, a dimostrazione
dell’affetto e del legame che il popolo da sempre nutre nei confronti del suo Santo Patrono.
Serate piacevoli e divertenti, che hanno coinvolto grandi e piccoli, chi è rimasto in città e chi
è venuto a Segni per le vacanze estive.
Un grazie a quanti ci seguono con affetto e partecipano con interesse e curiosità, ma grazie soprattutto a chi ci ha aiutato a realizzare questi eventi con entusiasmo e passione (e anche in tempi brevissimi): Cristina Bonanni, Barbara e Marco
Ludovici, Francesco Del Giudice, Filippo Vari,
Emanuele Sessa, Flavia Barcellona, Annalisa
Ciccotti e, in particolare, Enrica Fagnani.
Ma l’estate non è finita!
È previsto per il 16 settembre l’ultimo appuntamento della stagione 2010 con:
“Porte Aperte al Gesù”.
Per informazioni ed orari consulta il
sito www.museosegni.it.
Nella foto: Piazza Santa Maria in una foto degli inizi del ‘900.
Si vede l’oratorio di San Michele Arcangelo (chiesa dei morti) che chiudeva ancora l’angolo della piazza e vicino una
piccola porta ad arco.
AVVISO
Ufficio Liturgico Diocesano
Mercoledì 22 settembre 2010 ore 18.30
Cattedrale di S. Clemente, Velletri
Solenne Concelebrazione Eucaristica a
conclusione del Convegno Diocesano,
con il rito di Ammissione agli Ordini
Sacri dei Seminaristi diocesani.
I Coristi dei Cori Parrocchiali
Diocesani sono invitati partecipare per
contribuire a cantare.
Le prove sono previste a Colleferro,
Parrocchia S. Bruno
Lunedì 6 e 13 settembre alle ore 21.00.
Per Ulteriori informazioni, rivolgersi a
Don Franco Fagiolo
Tel. 069768074 - 3472218242.
[email protected]
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Don Daniele Valenzi
C
ontemplare la croce di
Cristo per san Bruno, significa inabissarsi nel mistero dell’amore di Dio, che da ricco che era, scelse quel trono per
manifestare il suo grande amore
per l’umanità. Subendo la passione
e la croce, con la sua morte ci ha liberati dalla
schiavitù del peccato. La croce non solo è il trono di gloria di Cristo, ma diventa così anche la
lezione più profonda per l’intera umanità: Colui
che vuole «risparmiare» o «salvare» la propria
vita ad ogni costo, colui che resta attaccato a
ciò che già possiede, rischia di non capire niente della vita autentica.
La croce del Signore Gesù ci rivela un modo di
morire che non contraddice la logica della vita.
Da allora noi comprendiamo che la croce e la
risurrezione sono le due facce, quella oscura e
quella luminosa, di un solo e medesimo Amore,
di una sola e medesima Vita.
Nel suo Figlio, Dio ha sposato la condizione umana fino ad occupare l’ultimo posto per amore;
la croce è così l’espressione di una solidarietà
assoluta. E così anche per noi la sofferenza diventa la via maestra per la sequela di Cristo e diventa il luogo dell’incontro con l’Amore per un autentico cammino verso la Vita. Ecco come il vescovo di Segni affronta questa tematica.
Siate imitatori di Dio come figli carissimi, camminate nell’amore come Cristo ci ha amato consegnando se stesso come vittima per noi e come
offerta a Dio in odore di soavità. In ogni cosa
fratelli carissimi che il Signore nostro Gesù Cristo
ha fatto e detto lascia per noi una forma di
umiltà e un insegnamento di buona disciplina; come infatti volle insegnare a
noi con le parole, così anche fece
con gli esempi per questo è scritto: Gesù iniziò a fare e insegnare. E in quanto all’umiltà dice lo stesso Signore:
imparate da me che sono
mite e umile di cuore.
Poiché anche quando era onnipotente
e Signore volle
essere povero
per noi, respinse gli onori, subì
spontaneamente la passione e pregò
anche per i
persecutori.
E tutto questo
fece come in
ogni cosa,
perché non
sbagliassimo
nel
seguirlo a causa della nostra infermità altrimenti
non saremmo veri cristiani. Infatti colui che dice
di amare Cristo, deve anch’egli camminare come
lui ha camminato. In questo dunque poiché egli
stesso volle essere povero, insegnò apertamente
e sufficientemente a non avere ricchezze in quantità e a non desiderare queste immoderatamente.
Infatti gli uomini in questo modo dimostrano di
essere avari, di questi dice l’apostolo: gli avari, i fornicatori e gli immondi, non possiederanno il regno di Dio. E anche in un altro passo:
coloro che vogliono essere ricchi in questo mondo cadono nelle tentazioni e nel laccio del diavolo. Ecco coloro che vogliono esser fatti ricchi,
dice, non che lo sono. Mostra esser peccato la
cupidigia e non la ricchezza. Possono essere
ricchi e anche buoni. Ma a quelli si raccomanda: non vogliate appesantire il vostro cuore con
la ricchezza anche se abbonda.
Leggiamo come sia stato Abramo, e Giacobbe
e Davide e conosciamo le loro grandi ricchezze e come le condividessero con quelli che non
le avevano.
Negli scritti dell’apostolo troviamo scritto infatti: Raccomanda ai ricchi di questo mondo di conoscere non la sublimità o l’incertezza delle ricchezze, ma il Dio
vero. Siano
ricchi
di opere buone e pronti ad essere generosi.
Ecco questi sono i ricchi buoni, quelli che non
conoscono la superbia, né sperano nell’incertezza delle ricchezze, cioè non pongono la loro
fiducia nelle ricchezze che oggi si posseggono
e domani possono essere facilmente perdute,
sono generosi affinché attraverso quelle cose
che di cui abbondano, si adoperino per sollevare dall’indigenza il fratello.
Dio ama chi dona con gioia. Questo è il motivo per cui il Signore da ricco che era in cielo,
ha voluto essere povero sulla terra. Per questo
ha veramente subito la passione, e spontaneamente
la croce, per la sua stessa morte ha strappato
noi dal potere del diavolo, e pendendo dalla croce ha pregato per i peccatori, da dove per noi
ci ha dato l’esempio, validamente e serenamente
dai più vicini ha pagato, gli uomini, dagli uomini ha sopportato pazientemente, poiché lo stesso Signore di ogni cosa ha subito benignamente
tanti cose atroci dai servi, e il giusto dai peccatori.
E noi fratelli posti nella tribolazione, dobbiamo
insistere maggiormente con le preghiere, che nascono dalle tribolazioni.
C’è infatti una tribolazione quando sopportiamo
i mali del mondo, e c’è una tribolazione che è
lungamente più grande, quando siamo inclini a
qualunque male. È vero che bisogna pregare
perché la nostra preghiera si trasformi in peccato. Dobbiamo parimenti fare l’elemosina, e
farla perfettamente.
Ci sono due modi di elemosina perfetta: donando e perdonando, per
questo il Signore dice nel Vangelo:
date e vi sarà dato, perdonate
e vi sarà perdonato, e anche
beati i misericordiosi perché
troveranno misericordia.
Se non perdonerete,
neanche il Padre
vostro che è nei
cieli perdonerà a voi:
poiché chi odia suo
fratello è omicida e sappiamo
che ogni omicida non ha la
vita eterna e
non ha parte
nel regno di
Cristo e di
Dio.
Queste sono
quelle cose
per le quali
giungiamo
al regno dei
cieli, al quale ci conduce il Signore nostro Gesù Cristo che
vive e regna nei secoli dei secoli.
Nell’immagine: Esaltazione della Santa Croce,
Piero della Francesca, Arezzo, 1460
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L
a mostra fotografica sulla Madonna
delle Grazie che si è svolta dal 24 al
5 settembre ( inizialmente dal 24 al
29 agosto ma visto il successo di pubblico è stata prorogata per un’altra settimana) nella Sala
Silvana Paolini Angelucci ha mostrato due grandi protagonisti: la Madonna e il popolo di Velletri,
a lei da secoli devoto. La Madonna delle Grazie,
da sempre cara alla città, è ricordata nella cittadina laziale in due momenti dell’anno.
Il primo è indubbiamente l’appuntamento di maggio, che cade nella prima domenica del mese
mariano e che viene festeggiata solennemente già dal 1613.
Il secondo, meno conosciuto dai più, è quello
del 26 agosto, festa del Patrocinio della
Madonna, celebrato nella cittadina veliterna dal
1807. In quello stesso anno, un terremoto colpì la città e nonostante la durata e la potenza
non portò alcun danno a persone e cose.
I cittadini di Velletri, interpretarono il fatto come
un miracolo, avvenuto per intercessione mariana, e da allora usano ricordare l’avvenimento
con una festa in onore della Madonna delle Grazie.
Proprio il culto mariano, anche e soprattutto evidente in occasione delle processioni, è stato alla
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base della mostra fotografica.
La mostra, partita e organizzata da Anna Amore
che l’ha curata in tutti gli aspetti, ha visto un grosso impegno anche da parte delle dott.sse Mihaela
Lupu e Rubina Brugugnoli ed è riuscita con il
supporto di commercianti e privati che hanno
permesso la copertura delle spese e delle Istituzioni
e di privati che hanno contribuito ad arricchirla
con il loro materiale. Il percorso è stato diviso
in una parte cronologica, con foto di processioni
che si snodavano tra le macerie della città, passando per il ritorno dell’icona nel 1949 a Velletri
e nella sua peregrinatio nella diocesi, fino agli
anni Ottanta del secolo scorso.
La ricostruzione di tale percorso è stato possibile grazie alla disponibilità dell’Università del
Carnevale che ha offerto il materiale fotografico, raccolto in anni di lavoro, per permettere di
avere un quadro per immagini della città negli
anni del dopoguerra.
La seconda parte del percorso ha riguardato principalmente il periodo dagli anni Ottanta in poi
per arrivare alle visite dei pontefici che si sono
raccolti in preghiera di fronte alla cappella, Giovanni
Paolo II e Benedetto XVI, e la prima visita ufficiale di S.E. mons. Vincenzo Apicella, vescovo
della Diocesi, foto dell’Archivio diocesano.
A ricordo delle donazioni dei secoli precedenti è stata esposta
anche la Bandiera
turca offerta alla
Madonna nel 1683
da Antonio Blasi
che aveva combattuto a Vienna
contro i Turchi.
È stato inoltre possibile ammirare alcuni tra i più bei doni
in oro offerti alla
Madonna, un esemplare in argento
della pubblicazione
settecentesca di
tema mariano e un
ex voto.
La mostra non ha avuto la pretesa di mostrare
tutto ciò che riguarda la devozione di Velletri alla
Madonna della Grazie, ha solo voluto mostrare, attraverso un’accurata scelta del materiale
effettuata dalle curatrici, il lato forse più toccante,
più emozionante.
Soprattutto i filmati, uno del 1943 messo a disposizione dal sig. Moreno Montagna dell’Università
del Carnevale e l’altro, un video realizzato dal
sig. Fausto Ciafrei, hanno suscitato il ricordo
di una città che distrutta e provata dalla guerra ha saputo rialzarsi, con un ringraziamento ed
un pensiero costante alla Madonna, anche in
assenza della tavola, che durante i bombardamenti fu allontanata dalla città e custodita a Roma
fino ala fine della guerra.
La mostra ha offerto anche l’opportunità di mostrare le prime foto della cancellata della cappella,
realizzata dal fabbro Paolo Mancini nella
seconda metà dell’Ottocento (1856) su disegno
di Girolamo Romani e dorata da Vincenzo Vita.
La pulitura e la doratura della cancellata artistica,
voluta fortemente dalla sig.ra Gemma Capone,
madre del Vescovo, è stata portata a termine
da qualche mese e le foto, che ne mostrano il
risultato finale, sono state realizzate dalla dottoressa Rubina Brugugnoli.
Sabato 28 agosto si è tenuto inoltre un concerto
che ha allietato il pubblico proponendo alcuni
tra i più celebri brani del repertorio italiano e straniero. Gli artisti: Mario Germani (pianista), Park
Soyeon, Su Yuanfeng, Federica Pagliuca e Fiammetta
Fracassi, allievi del Maestro Carlo Desideri, hanno eseguito famose arie di Verdi, Donizetti e altri
compositori, vanto del patrimonio nazionale, mettendo a disposizione gratuitamente il loro
talento e la loro bravura.
Un ringraziamento a Mons. Angelo Mancini, che
da sempre ci affianca e ci supporta in tutte le
attività delle istituzioni diocesane con discrezione
e silenzioso lavoro, a Mons. Roberto Mariani,
a Moreno Montagna e Virgilio Lautizi, a Tonino
Parmeggiani per la grande disponibilità,
all’Associazione Orafa e ai volontari in servizio
per la loro collaborazione.
Associazione Culturale
“Il Trivio”
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Antonio Venditti
L
a “Scuola di Barbiana” è un’esperienza autentica di scuola “nuova”, connotata evangelicamente come “scuola dei poveri”. Il suo
geniale ed appassionato promotore è don Lorenzo Milani.
Nato nel 1923 da una famiglia d’alta borghesia, al termine di una formazione classica ed artistica, scopre i valori profondi della religione cristiana
e quindi arriva al sacerdozio per straordinaria vocazione. È assegnato inizialmente alla piccola comunità parrocchiale di San Donato, nei pressi di
Prato, dove svolge il suo ministero in maniera schietta, avversando, senza mezzi termini, ogni forma di discriminazione e di ingiustizia.
È nettamente schierato dalla parte dei poveri, contadini ed operai, per i
figli dei quali fonda una scuola serale, finalizzata alla loro emancipazione umana e sociale, attraverso l’appropriazione degli strumenti di conoscenza e di cultura. È un educatore appassionato e ardito, che non è compreso anzi è avversato, al punto che viene rimosso e trasferito nella minuscola parrocchia di Barbiana, isolata nel Mugello.
Il giovane sacerdote non si perde d’animo ed anzi concepisce la “nuova” straordinaria scuola, per i figli dei contadini respinti dalla scuola pubblica e da lui recuperati all’interesse ed all’impegno per lo studio, non aridamente libresco, ma come acquisizione degli strumenti conoscitivi e sviluppo delle abilità necessarie ad affrontare con dignità morale e civile la
vita. Tale singolare ed entusiasmante avventura educativa, ideata e guidata da don Lorenzo Milani, è raccontata dagli stessi ragazzi nella “Lettera
a una professoressa”, pubblicata nel 1967, l’anno della morte prematura del Sacerdote, dalla Libreria Editrice Fiorentina, e diffusa in tutto il
mondo con le numerose traduzioni. È senz’altro un libro di integrale contestazione del sistema educativo e del sistema politico, che pure in Italia,
nel 1962, aveva operato l’importante riforma della scuola media, divenuta “unica” ed obbligatoria secondo il dettato costituzionale. Così inizia la
“Lettera” : “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne
ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a
quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate”.
Unica alternativa alla scuola definita “pubblica”, ma in realtà utile solo ad
una parte limitata della popolazione giovanile attraverso una “spietata” selezione di cui erano vittime i “poveri”, in quel contesto sociale, era la “Scuola
di Barbiana”. “A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete.
Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era “negato
per gli studi”…Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro c’era una
copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi
che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri
aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi
fin dal primo giorno che avrei insegnato
anch’io… Non c’era ricreazione. Non
era vacanza nemmeno la domenica”.
Avendo io iniziato ad insegnare nel 1962
, ricordo i contrasti esistenti all’interno delle scuole. In nome della “serietà”, della “giustizia” e della “cultura” erano accaniti i sostenitori di una linea dura, anzi durissima, che colpiva inevitabilmente i “figli del popolo”, che provenivano da un ambiente privo di
stimoli culturali, sprovvisti del basilare strumento linguistico, indispensabile per l’acquisizione delle conoscenze.
Esistevano ed erano agguerriti gruppi di “oppositori”, che sostenevano sic
et simpliciter la promozione “obbligatoria” di tutti, addirittura anche dei
non frequentanti, come atto “dovuto” della società. Sicuramente qualcuno di quest’ultimi avrà letto la “Lettera” e, anche da diversa angolatura
ideologica, si sarà sentito rafforzato nella sua “battaglia”, falsamente ritenuta a sostegno del “proletariato”. Don Milani, nonostante il suo “ardimento”,
è al centro tra le due diverse “ideologie”: mentre critica la negatività di
una scuola fatta solo per bocciare i figli dei poveri, esige un impegno ben
superiore in ore ed attività a quello richiesto dalla scuola “normale” e, sulla base della fiducia e dell’interesse recuperati, spinge ad un lavoro estenuante e continuo per una conoscenza effettiva di ciò che serve nella vita,
a cominciare dalla competenza linguistica, che rende davvero uguali, aprendo le vie del sapere, con la fine dell’emarginazione culturale, umana e
civile. Ad insegnanti e “presidi” che giustificavano la “strage dei poveri”,
calcolata in due terzi e più dell’intera popolazione scolastica”, così si risponde nella “Lettera” : “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora
sostenete che Dio fa nascere i cretini nelle case dei poveri. Ma Dio non
fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”.
Oggi la situazione nella scuola è certamente molto diversa da quella dell’esperienza di Don Milani, eppure la “Scuola di Barbiana” rimane un fulgido esempio di educazione ed a ben vedere resta attuale.
È stato sconfitto da tempo il “rigorismo”
della bocciatura e la serietà degli studi è rivendicata da tutti. Ma non mancano i ragazzi non compresi, non aiutati, non efficacemente stimolati che
potrebbero scrivere una “lettera” ai loro
insegnanti distratti, insensibili, poco motivati nella loro opera . E la realtà scolastica, nonostante il tempo trascorso
in proclami e progetti innovativi, mantiene non poche contraddizioni e
pericoli di regressi.
Anche sulla questione dei “poveri” bisogna tornare a riflettere, perché aumentano ragazzi e giovani che vivono in
situazioni difficili, non soltanto dal punto di vista economico, e sono fragili nel
procedere lungo il percorso scolastico,
tanto che per essi si concretizza il fenomeno della dispersione e dell’abbandono e non si esclude, anzi sembra riaffacciarsi alla ribalta la bocciatura, proprio con le vecchie motivazioni.
Dopo tanti sforzi per allargare il diritto allo studio, permettendo percorsi
scolastici sempre più ampi per tutti, la scuola regredisce in fatto di capacità di coinvolgimento effettivo delle giovani generazioni, vanificando così
il progresso organizzativo e didattico e, se non perde alunni nella maniera vistosa del passato, li trattiene inoperosamente e infruttuosamente, rendendoli ancor più distanti dalla vera cultura ed impreparati alle responsabilità della vita.
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don Claudio Sammartino
I
l 12 settembre la Chiesa celebra, facoltativamente, la memoria
del SS. Nome di Maria, in ricordo (ormai completamente svanito) e come ringraziamento per una vittoria decisiva per l’Europa,
che a pochi anni dal secolo dei lumi riuscì a fermare, sotto le mura di
Vienna, l’ultima tremenda avanzata delle truppe ottomane verso l’occidente cristiano.
Eh sì cari lettori, perché nel 1683, dopo aver devastato intere regioni e
saccheggiato città e villaggi uccidendo e schiavizzando i cristiani delle
zone attraversate, un imponente esercito della Sublime Porta, composto da circa 200.000 soldati, comandati dal Visir Kara Mustafà, cinse d’assedio (per la quarta volta dal
1529) la capitale dell’impero
degli Asburgo.
A partire dal 13 luglio di quell’anno, che ancora oggi i
Viennesi chiamano “l’anno dei
Turchi”, gli assediati contarono
sull’eroica resistenza di circa 6.000
soldati imperiali aiutati da circa
5.000 uomini della difesa civica, impegnati a badare ad un elevato numero di profughi rifugiatisi
in città e contemporaneamente
a sostenere quotidiani scontri sui
bastioni attaccati dagli ottomani. Se consideriamo poi che i Turchi
disponevano di un centinaio di
cannoni e che l’imperatore
Leopoldo I° aveva abbandonato
Vienna per organizzarne la difesa dalla città di Linz, possiamo
comprendere come non ci fossero,
umanamente parlando, molte speranze di salvare la capitale asburgica da una
probabile e nefasta capitolazione.
Grazie a Dio, in questo frangente veramente drammatico, dette i suoi frutti la politica “europea” del
Papa Innocenzo XI, da anni impegnato a ricucire la
frattura operatasi nella cristianità europea, divisa tra riformati e cattolici, che ancora risentivano di quelle guerre di religione che avevano insanguinato intere regioni dell’antico continente.
Convinto custode dello spirito crociato (per cortesia non “chioccino” i teneri cuori del pacifismo contemporaneo!), questo Papa fu infaticabile tessitore di una meticolosa politica tesa a ricreare armonia tra i principi cri-
stiani dell’epoca, anche per indirizzarne le energie contro l’aggressività
della Sublime Porta, che dai tempi di Lepanto (1571) si era fatta di nuovo minacciosa conquistando i Balcani e sottomettendo quasi completamente l’Ungheria.
Grazie all’aiuto di validi nunzi apostolici ed alla predicazione del beato
Marco D’Aviano, il Papa riuscì a creare una coalizione che vide Austria,
Spagna, Portogallo, Polonia, Firenze, Genova e Venezia inviare uomini a combattere al fianco dei protestanti dei principati tedeschi, per fermare il nuovo tentativo della Sublime Porta di vendicare l’affronto di Lepanto
(1571) e conquistare finalmente la “mela d’oro” (Vienna), per procedere poi verso la “mela rossa” (Roma).
Noterete, cari perspicaci lettori, come mancassero nella coalizione cristiana non dico i protestanti inglesi o dei Paesi Bassi, bensì i cugini d’oltralpe francesi, i quali erano governati da quel Re Sole
che non soltanto incoraggiava
l’avanzata ottomana (per rivalità verso Austria e Spagna), ma
forniva aiuti e tecnologia bellica ai sudditi del Gran Sultano.
Anzi, per suo espresso ordine,
il beato Marco D’Aviano fu
espulso dalla Francia mentre stava predicando per invitare i cattolici a correre in aiuto della
Cristianità nuovamente minacciata. Ci meravigliamo poi se tra
i più zelanti a non riconoscere
l’identità cristiana dell’Europa,
nella stesura della sua Carta
Costituzionale, ci sia stato proprio un presidente di quella Francia,
un tempo “figlia prediletta della Chiesa”?
Dunque dal 13 luglio 1683, e per ben due
mesi, la capitale dell’impero asburgico resistette
eroicamente agli attacchi ottomani, ognuno dei
quali poteva essere decisivo per le sorti dell’Austria
e dell’Europa intera.
Ma finalmente ecco che dal 31 agosto del medesimo anno,
sollecitato vivamente dal Papa e dall’Imperatore, si mosse
verso Vienna un esercito composto da tutti i contingenti della
coalizione cristiana e comandato personalmente dal re di Polonia
Giovanni III° Sobieski, che già due volte aveva salvato la sua terra
dall’invasione ottomana.
Fu così che all’alba del 12 settembre, presso la collina di Kalhemberg
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simo articolo. Molte sono le considerazioni
che l’assedio di Vienna del 1683 ci suggeriscono e tutte di stringente attualità; sono
sicuro però che ognuno di voi lettori non abbia
bisogno di suggerimenti in proposito. Una sola
cosa mi piacerebbe far notare; è vero che
la stragrande maggioranza degli europei di
oggi ignora i fatti del 1683 e forse ne prova
pudore, ma è altrettanto vero che ogni persona, che la mattina consuma il rito del “cappuccino e cornetto”, inconsapevolmente
celebra la gloriosa vittoria dei nostri predecessori presso le mura di Vienna! Se volete soddisfare la Vostra legittima curiosità, abbiate la pazienza di attendere un prossimo articolo, sperando che i teneri cuori del pacifismo ecumenico nostrano non si astengano
poi dal fare colazione, mettendo in crisi bar
e pasticcerie varie.
(che sovrasta Vienna), 65.000 cristiani
affrontarono i 200.000 soldati del Visir
Mustafà, combattendo per tutta la giornata
con sorti alterne. Alla fine la vittoria arrise ai
cristiani dopo una devastante e decisiva carica di cavalleria in cui lo stesso re polacco Sobieski,
con al fianco il figlio sedicenne Jakub, si lanciò con circa 25.000 cavalieri (i temibili “ussari alati”) all’assalto delle truppe nemiche, provocandone la disfatta e la precipitosa fuga.
Le perdite cristiane furono di circa 2.000 soldati, mentre gli ottomani persero quasi
10.000 uomini e abbandonarono (soprattutto il Visir!) un bottino imponente, compresi
numerosissimi sacchi di chicchi abbrustoliti
che tanto successo riscuoteranno nell’Europa
intera. Da una Vienna “risorta” e festante il
re Sobieski inviò al Papa un laconico messaggio: “Venimus, vidimus, Deus vicit!”. Per
fermare però definitivamente l’avanzata della Sublime Porta verso le nostre terre, bisognerà attendere il 1699 con la vittoria cristiana
di Zenta; ne tratteremo, a Dio piacendo e non
abusando della Vostra pazienza, in un pros-
Nell’immagine del titolo:
La Battaglia di Vienna, Wiedniem Brandt, 1863, Varsavia.
Nell’immagine al centro: Bandiera turca, conquistata
dal veliterno Antonio Blasi durante la battaglia del 1683,
conservata nel Museo Diocesano di Velletri
(foto: Ioan Lupu)
Tonino Parmeggiani
iunta al 147° anno di vita, anche questo anno avrà luogo, presso la parrocchia
di S. Maria in Trivio, in Velletri, la festa
della Madonna della Salute, venerata nella terza cappella di destra vicino all’altare maggiore. Il Triduo di preparazione verrà guidato da Don
Andrea Pacchiarotti, Vice Parroco della Cattedrale
di S. Clemente.
Questi gli appuntamenti: Giovedì 16 Settembre
2010, alle ore 18,15 recita del Rosario, Vespro
e S. Messa con Conferimento dell’Olio degli Infermi
ad alcune persone, riflessione su” La salute del
corpo e la salute dello spirito”; Venerdì 17, ore
18,15, recita del Rosario, Liturgia Penitenziale:
“La salute spirituale deve essere al dì sopra di
tutto” e S. Messa; alle ore 21,00 poi si svolgerà una Veglia di Preghiera per il Consiglio Pastorale;
Sabato 18, alle ore 12,00 ci sarà la Supplica alla
Madonna della Salute, alle ore 12,30 il tradizionale
pranzo per gli anziani (è necessaria la prenotazione), alle 18,15 recita del Rosario, Vespro
e S. Messa. Domenica 19, FESTA DELLA MADONNA DELLA SALUTE, Ss. Messe alle ore 8 - 10
- 11,30 e 19; La S. Messa delle ore 10,00 verrà celebrata dal nostro Vescovo Mons. Vincenzo
Apicella, con amministrazione di Prime
Comunione e Cresime.
Lunedì 21, alle ore 19,00, verrà officiata una S.
Messa per tutti gli aderenti scomparsi appartenuti
alla “Pia Unione Madonna della Salute”, associazione laicale istituita nell’anno 1864 dall’allora parroco D. Giuseppe Morza, a cui S.S. Pio
IX concesse le stesse indulgenze e grazie spirituali della Pia Unione nella chiesa della Maddalena
in Roma.
La devozione popolare a questo Titolo mariano, originatosi a Roma presso la Chiesa di S.
Maria Maddalena, a metà del XVII secolo, con
G
il titolo di “Salute degli Infermi”, nella sua originaria accezione era da interpretarsi forse esclusivamente come salute del corpo ma, oggigiorno
che la vita si è molto allungata e le scoperte della medicina e della scienza hanno contribuito
di molto a migliorarla, la salute è forse più da
riferirsi all’anima che non al corpo materiale, soprattutto in questo momento storico in cui il materialismo pervade sempre più la nostra vita e coloro che frequentano la chiesa sono sempre più una
fascia ristretta, con pratiche che spesso sconfinano nel folcloristico, giustificate da una presunta “tradizione”.
Accanto alle povertà
storiche se ne affiancano delle altre, dettate da
cause socio-culturali,
esistenziali. Oggi molti non
sanno rispondere alla
domanda essenziale sul
senso della loro vita, ancor
più se vista alla luce della parola del Vangelo.
Tra le povertà materiali, emergono così nuove
realtà, legate al sesso,
prostituzione, disoccupazione, solitudine sociale, tossicodipendenze,
depressione, anoressia,
bulimia, discriminazioni
razziali o semplicemente di status sociale e forme di criminalità sempre
più giovanile.
Per tutte queste povertà e vuoti dell’animo, la
chiesa è sempre disposta ad offrire il proprio aiuto, la propria disponibilità ad affrontare i problemi
particolari di ognuno.
La prima e vera salute è proprio quella di essere riconciliati con la chiesa, con se stessi, con
la propria famiglia, con gli altri: preghiamo la Madonna
della Salute che ci conceda questo dono. Confidiamo
in una sentita partecipazione di tutti coloro che
soffrono sia nel corpo che nello spirito.
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B o l le tti n o D i o c e s a n o :
Prot. VSCA/ 19/2010
DECRETO DI NOMINA DELL’AMMINISTRATORE PARROCCHIALE DELLA PARROCCHIA DI S. CROCE IN ARTENA
Con la nomina di Don Silvestro Mazzer ad altro incarico, la Parrocchia di S. Croce in Artena risulta attualmente vacante.
Secondo quanto disposto dal can. n° 539 del C.D.C. , con il presente decreto che avrà immediato vigore,
nomino te Rev.do Fr. Salvatore Donadio
nato a Potenza l’8.06.1946 ordinato sacerdote il 30.06.1973 per l’OFM
Amministratore Parrocchiale della Parrocchia di Santa Croce in Artena
Ti prenderai cura dell’aspetto pastorale della parrocchia mentre lascerai la conduzione amministrativa ed economica al co-parroco rev.do Don Paolo Latini.
Nell’attuare quanto richiesto dai can. 540 ti assista la consolazione del Crocifisso, l’intercessione della B.V. Maria , e la mia personale fiducia.
Velletri 26/06/2010
Vincenzo Apicella, vescovo
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Prot. VSCA/ 21/2010
DECRETO DI NOMINA A RETTORE
DELLA CHIESA RETTORIA DEI SS. GIUSEPPE E VITALIANO LOCALITA’ PANTANO IN SEGNI
Volendo rispondere alle attese della Chiesa Rettoria dei SS. Giuseppe e Vitaliano della Parrocchia S. Maria Assunta in Segni che, dopo la rinuncia di
Don Marco Jonàs Mikalonis dell’I.V.E. destinato ad altro incarico, attende un collaboratore del parroco nel lavoro pastorale, secondo quanto disposto dal
can. n° 547 del C.J.C. , con il presente decreto
nomino te Rev.mo Don Angelo Prioreschi
nato a Colleferro il 17.11.1935; ordinato sacerdote il 04.10.1959
Rettore della Chiesa Rettoria dei SS. Giuseppe e Vitaliano in Segni
Nel ringraziarti per il proficuo impegno pastorale profuso con generosità nella Parrocchia di San Gioacchino e in quella di San Bruno, e per attuare quanto
richiesto dai cann. 545§1, 548 e ss. in sintonia con il parroco della Parrocchia S. Maria Assunta, ti giunga la mia paterna benedizione.
Velletri, 02.07.2010
Vincenzo Apicella, vescovo
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Prot. VSCA/ 22/2010
DECRETO DI NOMINA DEL PARROCO DELLA PARROCCHIA DI SAN GIOACCHINO IN COLLEFERRO
Al Reverendo Don Silvestro Mazzer
del Clero della Diocesi di Velletri-Segni Salute nel Signore
La Parrocchia di San Gioacchino si è resa vacante per la destinazione ad altro incarico del rev.do Don Angelo Prioreschi. Ora desidero provvedere alla
nomina del nuovo parroco nella persona di un sacerdote idoneo, affinché i fedeli ivi dimoranti non abbiano a mancare dei necessari aiuti spirituali e materiali.
Pertanto, con animo di Pastore, responsabile della vita spirituale di ogni singola Parrocchia nell’unità della indivisibile Chiesa locale, fiducioso nelle Tue doti
sacerdotali
Ti nomino in virtù delle mie facoltà ordinarie
PARROCO della suddetta Parrocchia di “San Gioacchino” in Colleferro e dell’annesso territorio, a norma dei canoni 519-523 del Codice di Diritto
Canonico.
La nomina a Parroco è eseguita “ad tempus”, secondo le disposizioni della C.E.I. fissando il tempo nella misura di nove anni, trascorsi i quali l’ufficio del
Parroco continuerà tuttavia “ad nutum episcopi”.
A tale scopo, Ti concedo tutte le facoltà necessarie, mentre chiedo a tutti i fedeli di codesta parrocchia di riconoscerTi e di rispettarTi come Pastore.
Ti accompagni nelle fatiche pastorali la mia personale benedizione,che in auspicio di celesti favori, imparto di cuore a Te, ai Tuoi Collaboratori e ai fedeli della Parrocchia
Velletri, 02.07.2010
Vincenzo Apicella, vescovo
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Prot. VSCA/ 23/2010
NOMINA VICARIO PARROCCHIALEPARROCCHIA SAN BRUNO IN COLLEFERRO
La parrocchia di S. Bruno in Colleferro, grande per numero di fedeli residenti, nell’opera pastorale del parroco necessita dell’apporto del vicario parrocchiale, avendo lasciato per altro incarico il rev.do don Angelo Prioreschi.
Secondo quanto disposto dal can. n° 547 del C.D.C. e accogliendo le indicazioni del Rev.do Ministro Provinciale, con il presente decreto, che ha immediato
vigore
nomino te Don Marco Jonàs Mikalonis dell’I.V.E.
nato a Buenos Aures il 10.021977; ordinato sacerdote il 29,08.2003
Vicario Parrocchiale della Parrocchia di S. Bruno in Colleferro
Nell’attuare quanto richiesto dai cann. 545§1, 548 e ss. In sintonia con il parroco, ti assista l’intercessione della B.V. Maria, di S. Bruno e la mia paterna
benedizione.
Velletri, 02.07.2010
Il cancelliere vescovile
Mons. Angelo Mancini
Vincenzo Apicella, vescovo
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Settembre
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A
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Giuseppe Fiengo il riconoscimento
per la sua opera lunga, costante,
gratuita e silenziosa.
Giuseppe Fiengo, Maresciallo scelto dell’Aeronautica
militare in pensione per limiti di età è nato a Ercolano
(già Resina), provincia di Napoli, il 22 aprile 1920.
Residente in Velletri già dal 1952, ovvero da
quando prestava servizio a Torriola presso Roma
l’anno successivo al suo matrimonio.
Durante l’ultimo conflitto bellico fu trasferito in
Albania in servizio all’aeroporto di Tirana.
Fatto prigioniero all’aeroporto di Valona dai tedeschi, è deportato in Germania.
Ritorna nel 1945 a fine prigionie e rientra in
Aeronautica fino al collocamento in pensione.
Il primo domicilio di Velletri nel 1952 fu in via
A. Nicoletti, a San Salvatore dove conobbe il
parroco, don Quinto Ciarla e il sacerdote don
Angelo Lopes, alla sua nomina a parroco della chiesa di San Salvatore.
Durante il periodo iniziale in cui mons. Lopes
divenne parroco di San Clemente, mentre il sig.
Fiengo fondava l’Associazione dell’Arma
Aeronautica di Velletri nel contempo stabiliva
anche delle buone relazione personali e associative con il parroco mons. Angelo che sfociarono
varie manifestazioni religiose. Con mons.
Martino Gomiero benemerito vescovo di Velletri,
da Loreto portarono la Sacra Immagine della
Madonna, patrona degli avieri, a Velletri.
Da allora il sig. Fiengo ha dilatato il suo prezioso e gratuito servizio sia presso la parrocchia della Cattedrale che per alcuni compiti affidategli direttamente dai vescovi succedutesi.
Tra questi non possiamo non ricordare il più importante e delicato che accettò di buon grado, ovvero il compito affidatogli da un decennio dal vescovo mons. Andrea M. Erba di seguire per quanto riguarda i bisogni le e relazioni con l’esterno del convento di Clausura Madonna delle Grazie
di Velletri. Compito riconfermatogli anche dal
vescovo attuale mons. Apicella.
La sua collaborazione con la parrocchia di San
Clemente fu di grande utilità durante il servizio ministeriale del parroco mons. Franco Risi,
così si esprime il caro Giuseppe in proposito:
“ottimo rapporto con don Franco Risi che :
“mi ha dato tanta fiducia e stima; a lui devo sinceramente tanto. Terminando il suo servizio mi
ha presentato a don Roberto Mariani nominato nuovo parroco della Cattedrale con il quale
ho stabilito da subito un buon rapporto di collaborazione.”
E’ Cavaliere della Repubblica dal 2 giugno 1987
ed è Decorato di Croce d’Oro per anzianità di
servizio e tre medaglie di bronzo.
Mons. Apicella ha voluto coronare questa sua
lunga opera con un riconoscimento ecclesiastico che lo inserisce tra i Cavalieri dell’Ordine
di San Silvestro Papa.
Emanuela Ciarla*
Riguardo alle storie intorno alla nostra pianta,
ricordiamo che Ulisse con i suoi compagni furono portati fuori rotta da una tempesta per nove
giorni e nove notti, fino a giungere sull’isola dei
Lotofagi nel Nord dell’Africa.
Alcuni di essi si cibarono di alcune piante chiamate loto che li portarono a dimenticare la loro
famiglia, tanto che Ulisse dovette trascinarli a
bordo per riprendere il suo viaggio verso Itaca.
Pare che il loto di cui parla Omero nel IX libro
dell’ Odissea sia un giuggiolo selvatico, e che
lo stordimento fosse provocato dalla bevanda
preparata coi frutti del giuggiolo stesso.
Il Giuggiolo nella varietà Zizypus spinacristi è
una delle due piante utilizzate per preparare la
corona di spine di Gesù,
insieme al Paliurus
spinachristi.
Per gli antichi
Romani era il simbolo del silenzio e veniva usato per decorare i templi della dea
Prudenza.
Nel nostro paese,
in particolare in
Romagna era presente nel cortile di
molte case coloniche, adiacente
alla casa nella zona
più riparata ed esposta al sole perché
veniva considerato una
pianta portafortuna.
Il detto “andare in brodo di
giuggiole” che significa essere contenti, non è
solo un modo di dire, perché sul lago di Garda
nella residenza estiva dei Gonzaga si accompagnavano le torte o i biscotti secchi nello sciroppo o con il liquore di giuggiole.
Vari ingredienti lo componevano oltre alle
giuggiole passite, come le mele cotogne,
la scorza del limone, il vino moscato ed
alcune spezie.
Il mitico brodo conservato in bottiglie o barattoli è ottimo da consumare in compagnia
degli amici nelle fredde serate invernali, non
solo con i dolci ma anche per accompagnare
formaggi stagionati o una semplice ricottina delle nostre campagne.
I
l Giuggiolo fa parte della famiglia delle Ramnacee e si presenta come un
alberello con rami che si sviluppano in maniera contorta e foglioline
contrapposte, nell’insieme la pianta assume una
nota orientaleggiante.
I frutti sono delle piccole drupe dalla forma ovoidale, della grandezza di un’oliva, di colore rosso quasi bruno e dalla buccia particolarmente
lucida nel momento della maturazione.
L’origine mediorientale della nostra pianta ne
spiega la resistenza tanto al caldo che agli inverni rigidi. I frutti, detti appunto giuggiole, ma anche
zìzole o gensole, maturano nel primo autunno
e si consumano sia freschi che leggermente avvizziti, nel secondo caso diventano molto dolci.
Ritroviamo il frutto in diverse zone: dall’Europa
all’ Africa del nord, dalla Cina e all’ India e in
Italia in tante regioni dal nord al sud.
I frutti maturi e la marmellata che possiamo ricavarne hanno proprietà espettoranti ed emollienti,
rendendoli efficaci in caso di tosse; sotto spirito hanno invece proprietà digestive se assunti con moderazione, e possiedono una grande concentrazione di vitamina C ben più alta
del limone.
I frutti si possono consumare in vari modi: canditi, seccati e sotto forma di succo e nel territorio del Malawi si ottiene per distillazione una
bevanda alcolica molto forte. I piccoli frutti sono
usati in cosmetica per le proprietà emollienti
ed in fitoterapia per le proprietà sedative ed espettoranti.
*enogastronoma
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Paolo Caliari detto Veronese,
La Disputa di Gesù con i dottori,
1558, olio su tela, 236 x 430 cm.
Museo del Prado, Madrid
Don Marco Nemesi*
L
a nascita e la formazione di Paolo Caliari a Verona hanno avuto un’indubbia importanza sugli sviluppi della sua pittura. Verona,
presenta imprescindibili legami con la vicina Venezia, ma, nel
frattempo, risente di tradizioni culturali diverse, quali quelle emiliane di
Correggio e Parmigianino, quella lombarda dei pittori bresciani e del manierismo mantovano. E, se dalla pittura mantovana l’artista trae l’impalcatura monumentale, da quella scaligera riceve la capacità di accostare
i colori senza fonderli con passaggi graduali, in maniera che essi si esaltino reciprocamente sommando le rispettive qualità luminose.
Da ciò deriva la sua tipica tendenza a ricorrere a colori complementari, capaci di generare, accostandosi e riflettendosi, l’equivalente della
luce bianca
mediante
un’intensa
luminosità
chiara: tale
modo di rappresentazione cromatica
sarà studiato scientificamente soltanto nel XIX
secolo e diverrà, peraltro,
presupposto
fondamentale della pittura “impressionista” e
“puntinista”.
L’opera presa
in esame,
riproduce la
scena descritta da Luca ma con una variante importante e di grande
interesse teologico: non è Gesù che sta ai piedi dei dottori della legge
per essere interrogato ed esaminato, ma sono i dottori che sono collocati nell’opera al posto dei discepoli e Gesù occupa il posto del maestro. Li ascolta e li interroga meravigliando soprattutto per l’acutezza delle sue domande, per l’esattezza delle sue risposte, per la conoscenza
della legge. Qui l’artista intende insistere sul fatto che Gesù non è solo
il Salvatore, ma anche il Rivelatore, il vero, unico Maestro per il nuovo
Israele, colui che parla con autorità avendo piena conoscenza di ciò che
dice, essendo un autorevole esegeta della Parola di Dio, presentandosi
con tutte le carte in regola quanto all’interpretazione delle promesse profetiche. Abbiamo qui una dimostrazione concreta della sapienza nella
quale Gesù cresceva, sottolineata dall’artista nel rappresentare Gesù
che ha dodici anni, è raffigurato nel suo aspetto di giovane adulto; questa evidente sproporzione vuole rilevare la sua grandezza.
Gesù non solo occupa il posto centrale, ma è collocato anche in posizione rialzata a indicare il suo essere Dio. La composizione è divisa in
due gruppi, in quello centrale risalta la figura di Gesù che parla ai dottori, mentre dalla porta di fondo giunge la Vergine, accompagnata da
altre persone, per cercare il Figlio.
Il gruppo dei dottori sulla destra è quasi sublime: alcuni seguono attenti le parole di Gesù altri si interrogano dicendo probabilmente: “da dove
viene questa sapienza nuova?
Parla come uno che ha autorità”. L’opera reca la data MDXLVIII, secondo la lettura di Michele Levey della Galleria di Londra, scritta sul bordo del libro sorretto dal dottore della legge seduto in primo piano sul
basamento della colonna. La veste che Gesù indossa esprime non solo
la sua regalità e maestà, ma soprattutto il messaggio di questa narrazione che è tutto intriso di annuncio pasquale; vuole come anticipare la
gloria della risurrezione che un giorno avvolgerà completamente il Figlio
di Dio. Ed è certamente anche quest’annuncio che Gesù sta facendo
ai dottori del tempio quando li interroga sulle profezie, soprattutto quelle di Isaia che parla del servo sofferente e umiliato dalla cui morte tutti ricevono la giustificazione e la salvezza.
Fa da cornice a questo episodio l’interno del Tempio, una fastosa architettura palladiana. Si può anche supporre che il disegno sia stato fornito
dal
Palladio stesso data la
notevole somiglianza con il
colonnato
corinzio che
orna l’emiciclo
interno del
Te a t r o
Olimpico di
Vicenza.
Non bisogna
dimenticare
inoltre che i
due artisti erano amici e
che collaborarono nella
decorazione
di alcune ville del Veneto.
Quel tempio di
cui Gesù un giorno dirà: “Distruggete questo tempio e in tre giorni ne
ricostruirò uno nuovo”. Gesù è il nuovo tempio di Dio. Dopo la risurrezione, i discepoli capiranno la portata di queste parole all’apparenza misteriose.
Gesù con la sua persona di ragazzo “imponente” rappresenta l’inizio
della realizzazione di questa profezia. È poco più di un ragazzo eppure la sua statura è già imponente, fino a quando un giorno egli crescerà e diventerà il nuovo tempio di Dio.
Vediamo così realizzata la profezia di Daniele del piccolo sasso che si
stacca dal monte “non per mano d’uomo” e rotolando giù diventa sempre più grande stritolando tutti i regni della terra, simboleggiati dal gigante con i piedi di argilla. Nella composizione Gesù si presenta con questa caratteristica, la piccola pietra che cresce per realizzare un Regno
che non avrà mai fine.
*Dir. Uff. Beni Culturali della diocesi
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