2014 numero 10 Novembre
Email: [email protected]
Picciotti carissimi,vasamu li mani.
A fine settembre
(durerà sino al 5
Novembre) grazie
all’impegno del
Delegato Regionale
per la Liguria
dell’Accademia
Tiberina, e nostro
Socio, Dr. Rosario
Tuvé, è stata
inaugurata alla
Fortezza del Priamar
la mostra del maestro
boemo
Vlastimil Košvanec
Il nostro Assessore alla Cultura Elisa Di
PADOVA il 5 ottobre scorso è diventata
mamma di un neo Siculo Savonese.
A u picciriddu GIULIO Augurissimi!
‘A mamma,’o papà e ai nanni:Felicitazioni !
Košvanec nasce nella cittadina di Krlin, oggi un
sobborgo di Praga, il 14 dicembre del 1887 in una
famiglia di umili origini.
Dopo aver concluso gli studi al Liceo Imperiale
Reale Superiore Ceco, si iscrive all’Accademia
delle Belle Arti, dove diventa allievo del Professor
Vojtêch Hynais e del Professor Vlaho Bukovac.
Il periodo di formazione presso l’Accademia (1909
– 1912) risulta fondamentale per la crescita pittorica
di Košvanec , così come i viaggi che lo condussero
a visitare diversi Paesi europei quali Italia , Francia,
Olanda,
Austria,
Germania,
Iugoslavia,
Montenegro, ecc.
Gli anni che intercorrono fra le due Guerre
Mondiali sono caratterizzati da crescenti successi
per il pittore Ceco, che entra in contatto con le élite
culturali della Praga del tempo.
In particolar modo, a partire dal 1929, entra a far
parte collaborando attivamente per dieci anni col
gruppo di sinistra Umělecka Beseda, promotore di
importanti eventi culturali, quali, per esempio la
mostra di Carlo Carra’ del 1929, quella di Giorgio
de Chirico del 1931 e quella dell’ Ecole de Paris
dello stesso anno. Con la salita al potere del partito
comunista nel dopoguerra, la fortuna di Košvanec
viene meno; accusato di collaborazionismo, prima
viene condannato e arrestato, poi incarcerato e
costretto a pagare anche una multa ingente, e
La nostra inarrestabile Segretaria a ottobre ha
festeggiato UN COMPLEANNO IMPORTANTE
Per l’occasione Enzo Motta ha composto:
Cara Kiki, il tempo incalza
E l’età, purtroppo, s’alza;
ma tu riesci, con gran cuore
a donare le tue ore:
Segretaria al Pirandello,
Panathleta di livello,
allo Zonta, Fidapina
ed ancor ..Crocerossina.
Non ci acchiappo più una mazza,
ma tu …..resti una ragazza.
1
successivamente viene espulso dall’Associazione
degli Artisti Cechi.
Tutti questi fatti, portarono Košvanec ad un totale
crollo psichico e venne ricoverato in un ospedale
psichiatrico. Nonostante tutte queste difficoltà,
continuò a dipingere clandestinamente fino alla
morte, avvenuta nel Novembre del 1961.
C’è un elemento di unione che accomuna tutte le
opere: si tratta della serenità e della gioia di vivere
che pervadono le composizioni artistiche.
Il pittore boemo vuole così raccontarci di un mondo
lontano, quasi una nuova Arcadia, in cui le
preoccupazioni e le sofferenze non influenzano i
protagonisti delle opere. Košvanec sembra così
fornire agli spettatori un messaggio positivo e di
speranza, anche in periodi di grandi crisi sociopolitiche come quelli che caratterizzarono l’Europa
della prima metà del XX Secolo.
La regola fondamentale proposta dalla "Teoria della
classi politiche" di Mosca è che alla modifica della
"formula politica" consegue una modifica
dell'organizzazione della classe politica.
In altre parole, qualunque sistema politico si basa su
di un consenso di fondo.
Quando questo decade, ne consegue prima di tutto
una modifica della "formula politica", atta ad un
nuovo consenso.
Parallelamente, avverranno adeguamenti sia nella
composizione dei gruppi intellettuali e burocratici
che formano la classe politica, sia nella sua forma
organizzativa.
Parlava di lotta di classe, non in senso marxista, ma
come lotta fra due classi:
quella che detiene il potere "materiale" (ovvero la
"classe burocratica", che detiene il potere
coercitivo)
e quella che detiene il potere
"intellettuale".
Chi detiene il potere "intellettuale" aspirerebbe
ad ottenere quello "materiale".
A sua volta, chi detiene il potere "materiale" ha
necessità di giustificarlo "mercé il sussidio di
qualcuna almeno delle forze intellettuali o
morali", e quindi mediante compromessi e
concessioni al gruppo "intellettuale".
L'insieme di questi due gruppi viene da lui definita
come "classe politica".
Mi sono incuriosito e ho
trovato il seguente libretto.
Prendetelo come un regalo di
Natale
anticipato
e
cominceremo a sfogliarlo
insieme,
a puntate.
Ecco La PRIMA.
A noi è piaciuto in particolar modo questo.
CONTRO LE MAFIE
CHE COSA È LA MAFIA
I. Molto si è parlato e si è
scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto
in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed
un’attualità nuova. È strano intanto che si debba
notare come coloro che discorrono e scrivono di
mafia, in tutta l’Italia, ma specialmente in quella
settentrionale, ancora oggi raramente abbiano un
concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose,
che colla parola mafia vogliono indicare.
Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di
togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del
nuovo vocabolo da essi introdotto nel dizionario
nazionale.
Ma per i Siciliani quel complesso di fenomeni
sociali, di anomalie della loro regione, che essi
esprimono sinteticamente quando dicono la mafia,
riesce così familiare, che quasi non immaginano che
altri possa sentire il bisogno di una dettagliata
INCONTRI CON ILLUSTRI PERSONAGGI
Girovagando fra librerie telematiche e non, mi sono
imbattuto per caso in Gaetano Mosca (Palermo, 1º
aprile 1858 – Roma, 8 novembre 1941) Giurista,
politologo, politico e storico delle dottrine politiche
italiane. E’ sua la seguente
Teoria delle classi politiche
In ogni sistema politico è
possibile individuare:
- Una "classe politica". Mosca
la definisce come "l'insieme
delle
gerarchie
che
materialmente e moralmente dirigono una società".
- Una "formula politica". Mosca la definisce
come "la dottrina o le credenze che danno una base
morale al potere dei dirigenti".
2
spiegazione, di un commento che fissi e chiarisca i
vari significati dell’espressione che i nativi
dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente
distinguono.
Or dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa
poca precisione del nostro linguaggio parlato,
occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia
intendono e vogliono significare due fatti, due
fenomeni sociali che, quantunque abbiano fra di
loro stretti rapporti, pure sono suscettibili di venire
separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo
spirito di mafia, è una maniera di sentire che, come
la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza,
rende necessaria una certa linea di condotta in un
dato ordine di rapporti sociali; e colla stessa parola
vien indicato in Sicilia non uno speciale sodalizio,
ma il complesso di tante piccole associazioni che si
propongono scopi vari, i quali però quasi sempre
sono tali da fare rasentare ai membri
dell’associazione stessa il codice penale e qualche
volta sono veramente delittuosi.
II. Il sentimento di mafia, o meglio lo spirito di
mafia si può descrivere in poche parole: esso
consiste nel reputare segno di debolezza o di
vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale, alla
polizia ed alla magistratura, per la riparazione dei
torti o piuttosto di certi torti ricevuti. Sicché mentre
generalmente è ammesso, anche da coloro che
agiscono secondo le norme dello spirito di mafia,
che il furto semplice, la truffa, lo scrocco ed in
genere tutti i reati nei quali l’autore si aiuta
esclusivamente coll’astuzia e l’inganno e non
presume di esercitare una violenza e di avere forza e
coraggio maggiore della vittima, si possono
denunziare alla giustizia, ciò invece sarebbe
interdetto da un falso sentimento di onore, o di
dignità personale, quando il reato riveste il carattere
di una imposizione aperta e sfacciata, di un torto,
che il reo intende di fare specificatamente ad un
dato individuo, al quale vuole far sentire la propria
superiorità e col quale non cura di stare in buoni
rapporti perché non ne teme l’inimicizia ed il
rancore.
Le offese all’onore delle famiglie, le percosse, le
violenze personali, l’omicidio in rissa o per agguato
sono tutti reati per i quali la denunzia alla giustizia è
ritenuta dai mafiosi cosa sconveniente e vile, che
porta con sé una specie di squalificazione
cavalleresca. Ma non sono i soli: anche il taglio
delle viti, l’uccisione del bestiame, l’abigeato e
perfino la grassazione e il ricatto con sequestro di
persona quando assumono, e ciò avviene
spessissimo, il carattere di vendetta personale, di
sfregio fatto ad un dato individuo, non sarebbero a
rigore denunciabili; e, se si denunciano è pro forma,
per mettersi in regola, come si dice in Sicilia, colla
giustizia, ma senza in nulla agevolarla nella
scoperta del reo, che invece spesso si conosce
benissimo ed al quale si vuole fare sentire il peso
della propria personale vendetta.
Ed è qui da notare che il carattere di vendetta e di
offesa verso una determinata persona è una vera
specialità della delinquenza siciliana. Reati che
altrove non avrebbero alcun movente personale, che
sono ordinariamente perpetrati da rei professionali
che scelgono indifferentemente per vittime tutti gli
individui che si trovano alla loro portata, in Sicilia
assumono la parvenza di una vendetta per un torto
vero o supposto che il reo, o qualche suo parente od
amico, avrebbe subìto da parte della vittima; ben
inteso che spesso il torto accennato non è la vera
causa ma piuttosto il pretesto del fatto delittuoso.
È per questa ragione che gli Italiani del
continente ed in generale tutti i forestieri che
viaggiano od anche abitano in Sicilia sono quasi
sempre rispettati dai malfattori, perché, non avendo
il forestiero in generale rapporti con la classe
delinquente, è difficile che contro di lui possa
addursi il pretesto di una vendetta personale. È per
la stessa ragione che gli stessi Siciliani che abitano
nelle grandi città dell’isola raramente sono vittime
di reati premeditati; giacché nelle grandi città
ognuno può scegliere liberamente le persone colle
quali vuole stabilire qualunque genere di rapporti ed
i rancori personali più difficilmente si accendono e
non trovano alimento nei contatti e negli attriti
quotidiani come avviene nei piccoli centri.
Stabilito il principio che per la prevenzione e la
riparazione di una larga categoria di offese
personali un uomo che vuole e sa farsi rispettare, è
la frase tecnica, non deve ricorrere alla giustizia
legale, ne viene la conseguenza che è lecito, anzi
doveroso, ingannare le autorità, o almeno non dare
ad esse alcun lume, quando vogliono intromettersi
nelle contese private disturbandone lo svolgimento
naturale coll’applicazione dei canoni del codice
penale. Quindi filiazione diretta dello spirito di
mafia è l’omertà, quella regola secondo la quale è
atto disonorevole dare informazioni alla giustizia in
quei reati che l’opinione mafiosa crede che si
debbano liquidare fra la parte che ha offeso e quella
offesa. E questa regola, che si applica anche alle
vertenze fra i terzi, è la principale causa che induce
nei processi penali i testimoni a diventare così
spesso bugiardi o meglio reticenti. Perché nel
Siciliano, anche che appartenga alle classi più
misere e rozze, la vera bugia è rara ed egli
difficilmente racconterà il falso, ma assai di
frequente mostrerà di non conoscere o di non
3
ricordare il vero, che invece conosce e ricorda
benissimo.
Ho conosciuto persone anche colte dell’alta Italia
che trovavano qualche cosa di fiero e di simpatico,
o almeno di non completamente ignobile, in questo
sentimento o spirito di mafia per il quale ogni
individuo crede onorevole fidare nella sua forza e
nel suo coraggio per respingere e prevenire le
offese. Ma accade talvolta che anche una maniera di
pensare e di sentire, i cui moventi non sono tutti
ignobili, produca in complesso risultati dannosi, ed
in questo caso bisogna avere il coraggio di
condannarla energicamente e senza attenuanti. Or lo
spirito di mafia è un sentimento essenzialmente
antisociale, il quale impedisce che un vero ordine,
una vera giustizia si possano stabilire ed abbiano
efficacia fra le popolazioni che ne sono largamente
e profondamente affette. Come vedremo più avanti,
esso inoltre ha per ultima conseguenza
l’oppressione del debole da parte del forte e la
tirannia che le piccole minoranze organizzate
esercitano a danno degli individui della
maggioranza disorganizzata.
Si potrebbe invece con più ragione osservare che
lo spirito di mafia non è speciale alla Sicilia, che
esso si è trovato e si trova in tante altre parti del
mondo, dovunque la giustizia sociale si è mostrata o
si mostra incapace a sradicare ed a sostituire del
tutto il sistema della vendetta privata. Lo spirito di
mafia infatti, molto attenuato, esiste ancora
nell’Italia centrale ed attenuatissimo in quella
settentrionale. Se il vocabolo che lo esprime nacque
in Sicilia ciò avvenne perché colà, grazie a
circostanze che si debbono forse ricercare nella
storia del secolo testé morto o moribondo, la
mafiosità è più radicata, più generale e profonda ed
è diventata più disciplinata ed organizzata. Così
avvenne che i Gesuiti diedero il loro nome al
Gesuitismo, che essi non inventarono né sono i soli
a praticare, ma che praticarono e praticano
assiduamente
e
che
coll’assidua
pratica
perfezionarono e coordinarono a sistema.
Confidando che nessun lavoro sia destinato a
durare, nessuno si sente motivato a imparare sul
serio un mestiere. Tutti devono poter fare tutto,
anche male, e il risultato è che nessuno sa più fare
niente. Ma forse è il terzo risultato quello che alla
lunga è destinato a fare più danni, perché funziona
come una blindatura del sistema, che così può
durare per decenni.
Funziona così: il precario della pubblica
amministrazione sa che deve essere grato a
qualcuno per lo strapuntino lavorativo che è riuscito
ad accaparrarsi.
Il sistema di reclutamento è paramafioso,
ripugnante per tutti: ma quello è. Il precario sa pure
che se dovesse alzarsi, anche solo per un attimo,
troverebbe il suo strapuntino occupato da qualcun
altro. A questo serve l’apposito sistema di
overbooking occupazionale.
Per cui il lavoratore precario si guarda bene dal far
sentire la propria voce. Per farsi sentire dovrebbe
alzarsi, e non gli conviene. Si tiene stretta la miseria
che ha nella paura di perdere persino quella.
Ecco la trovata. Checché se ne possa pensare e dire
pubblicamente, la stabilizzazione del precariato e la
cultura del posto fisso sono arrivati a rappresentare
per i detentori del potere regionale una jattura
proprio perché sono il presupposto dell’infedeltà.
Sentendosi garantito, il lavoratore potrebbe
ribellarsi e mordere la mano che lo ha aiutato,
quella stessa mano che fino al giorno prima aveva
baciato con devozione.
La moderna manutenzione del potere consiste nel
lasciare il precario in uno stato di perenne
incertezza. Un rinnovo di sei mesi, e poi un altro, e
un altro ancora. Solo così viene stretto il legame
che vincola l’elettore a una fedeltà continuativa.
Basta un cambio d’assessore, una rotazione
dirigenziale e tutto può cambiare.
Il discorso implicito è: Noi siamo una sola cosa. Se
cado io, cadi pure tu.
Gratitudine Sospesa è ciò che spinge l’elettore di
ieri a perpetuare anche domani il voto di scambio.
Del doman non v’è certezza, se non nella
stabilizzazione dell’instabilità. Il rapporto fra
precario e benefattore somiglia a quello perverso
che viene a crearsi talvolta fra ammalato e medico
curante. In questo caso il paziente forse non sa che
ad averlo fatto ammalare sono proprio le medicine
che gli ha dato quel dottore. Se si fermasse a
riflettere, sarebbe in grado di capirlo, o almeno di
sospettarlo. Ma non si azzarda a cambiare medico.
Né a sospendere le cure che il dottore gli ha
prescritto.
E d’altronde, quale autentica opposizione potrebbe
chiamare, per un consulto?
(segue…)
GRATITUDINE SOSPESA (2°parte)
di Roberto Alaymo
..I contratti a garanzia diminuita hanno dato un
triplice pessimo risultato.
Primo: dal punto di vista dei lavoratori, hanno
compromesso il futuro delle ultime generazioni, in
termini di mancata progettualità esistenziale.
Secondo: dal punto di vista dell’utente, hanno
disastrato l’ambito delle competenze.
4
che ho incontrato non sono state né poche né lievi.
Avevo chiesto di andarci subito dopo le stragi che
avevano causato la morte di Falcone, di Borsellino e
di quanti erano con loro a Capaci e in via d'Amelio
nel maggio-luglio 1992.
Il Csm mi aveva "accontentato", ma qualcuno si era
opposto perché… non sapevo parlare siciliano.
Lo spiritoso sostenitore di questo singolare profilo
non capiva che invece di una difficoltà sarebbe stato
un vantaggio. Infatti, al momento del mio
insediamento trovai una situazione disastrosa,
ancora segnata dai corvi e veleni della stagione di
ostilità e umiliazione che avevano dovuto subire in
vita Falcone e Borsellino: e il fatto di non avervi
avuto parte - declinazione della mia… non
sicilianità - mi fu di aiuto nel nuovo lavoro. Fior di
colleghi pretendevano che con questo o quello non
si dovesse avere più niente a che fare.
Per contro, riunii tutti e li invitai a guardare solo al
futuro, facendo squadra insieme.
Ne derivò una procura coesa e compatta, che seppe
ottenere risultati importanti.
VITA BLINDATA
Quasi tutti, in procura, vivevamo sotto scorta.
La scorta ti salva la vita ma nello stesso tempo te la
cambia in profondo. Io vivevo con la scorta fin dal
1974, dai primi tempi dell'antiterrorismo.
Chiedendo io stesso di essere trasferito da Torino a
Palermo, dopo un chilometro e mezzo di autostrada
polverizzata e dopo un quartiere di una capitale
europea come Palermo trasformato in Beirut,
sapevo benissimo che mi aspettavano misure di
sicurezza quasi maniacali. Ma una vita da
"prigioniero" vero e proprio, in ogni momento del
giorno e della notte, senza poter fare niente di
niente che non fosse deciso o approvato dai 12
ragazzi del Nocs della Polizia che costantemente e
letteralmente mi circondavano, confesso che non
me l'aspettavo. Comunque ho vissuto quasi sette
anni "impossibili". La mia famiglia rimasta a
Torino e mia moglie che cercava di "assistermi", le
poche volte che riuscivo a tornare, caricandomi di
monorazioni di pietanze congelate da stivare in
freezer a Palermo. Una nipote nata nel luglio '95,
che nei primi bellissimi anni della sua vita non ho
potuto godermi per nulla (impensabile per
qualunque nonno "normale"...).
Con il costante incombere di gravi pericoli che
senti, anche se non sai mai bene cosa stia capitando.
Come quando, praticamente senza preavviso (solo il
tempo, come nei romanzi, di afferrare dentifricio e
spazzolino), dal palazzo di Palermo di otto piani,
dove io - unico inquilino - abitavo in un bunker che
Fort Knox era una bagatella, fui deportato fuori città
ed "esiliato" nell'aeroporto militare di Boccadifalco.
Non dimenticare Palermo
"Nella partita contro la mafia lo Stato si è come
fermato a undici metri dalla fine. Come se si
dovesse tirare un rigore al novantesimo: ma invece
di tirare, ci ha fatti rientrare negli spogliatoi".
Dai successi contro la mafia all'alt della politica.
Alla vigilia delle nomine del Csm, il pm del caso
Andreotti racconta la Procura più dura d'Italia.
di Giancarlo Caselli, L'Espresso, 19 settembre 2014
Stretta fra Cosa nostra (a lungo l'organizzazione
criminale più pericolosa al mondo, rafforzata dalla
complicità
di
personaggi
"eccellenti")
e
l'irredimibile propensione della politica a delegare il
contrasto della mafia - ridotta a questione di ordine
pubblico - esclusivamente a forze dell'ordine e
magistratura, ma con un'asticella (non tracciata ma
ben individuabile) da non superare a pena di
"scomunica", la procura di Palermo è sempre stata
un ufficio "difficile": per le aspettative di cui è stata
caricata senza adeguato sostegno, accumulando
tensioni su tensioni destinate alla fine ad esplodere.
Le difficoltà sono diventate choc e tempesta con le
stragi del 1992. Poi vent'anni di alterne vicende.
Oggi, di nuovo una situazione "difficile" per un
concorso di fattori, a partire dal processo sulla
"Trattativa", con un intreccio - nel capo d'accusa mai visto prima, fra boss, uomini politici e ufficiali
del Ros. Un processo che ha registrato un inedito
conflitto di attribuzioni sollevato dal Capo dello
Stato verso la procura, sia pure (nelle intenzioni
dichiarate) per tutelare il proprio successore. Senza
precedenti è anche l'interruzione della procedura, in
fase avanzatissima, che stava portando il Csm alla
nomina come nuovo procuratore di un candidato
degnissimo dato ormai per sicuro vincitore
(sperando che non sia un'invocazione sterile che la
conclusione della vicenda rimanga estranea ad ogni
condizionamento,
comprese
le
famigerate
degenerazioni correntizie che purtroppo spesso
affliggono il Csm).
Nuovo è anche il caso di dichiarazioni torrenziali
dal carcere (41 bis) di uno dei boss/imputati nella
"Trattativa" che parla e straparla di tutto, processo
compreso, aiutato da un co-detenuto curiosamente
petulante. Infine, fa da robusta cornice al tutto la
persistente centralità (soprattutto mediatico-politica:
la Sicilia è sempre un serbatoio decisivo di voti)
della questione mafia riferita all'isola, nonostante la
forza crescente ed il dilagare della 'ndrangheta.
IL VANTAGGIO DELLA NON SICILIANITÀ
Quanto alla mia esperienza di capo della procura di
Palermo per quasi sette anni (1993-99), le difficoltà
5
Forse perché si era saputo qualcosa di quel che anni
dopo (nel corso di un'udienza del tribunale
palermitano in trasferta a Torino) mia moglie
presente fra il pubblico apprese dalla viva voce di
Gaspare Spatuzza: la preparazione da parte sua, fin
quasi all'esecuzione, di un attentato contro la mia
abitazione di Palermo, con un missile che doveva
essere sparato dal prospiciente monte Pellegrino.
UNA MAZZATA DAL COVO DI RIINA
Appena misi piede a Palermo venne arrestato
Salvatore Riina.
Avevo partecipato all'organizzazione della sua
cattura negli ultimi miei giorni a Torino.
I carabinieri di questa città mi avevano avvertito
che un mafioso disposto a collaborare (Balduccio di
Maggio) sapeva qualcosa di Riina.
Avevo subito coinvolto il Ros di Palermo e
informato, perché seguisse l'operazione, il collega
Aliquò di quella Procura.
Di Maggio non mentiva, e riuscì a fornire l'ultimo
decisivo nodo alla rete che il capitano "Ultimo"
aveva già steso intorno a Riina. Purtroppo la
soddisfazione di tutti per questo successo fu
rovinata dal fatto che i carabinieri del Ros (persino
"Ultimo", autore materiale della cattura) insistettero
perché la perquisizione già decisa dalla procura non
si svolgesse immediatamente, in modo da poter
realizzare operazioni di vasta portata già
programmate.
Così venne deciso, nella certezza che il "covo"
sarebbe stato tenuto sotto costante osservazione.
Invece, senza mai avvertirci, non fu disposta alcuna
sorveglianza.
Il risultato si sa: il "covo" fu impunemente svuotato
dai mafiosi. Una vicenda grave e oscura. Per noi
un'autentica mazzata.
Che però - paradossalmente - ci servì come spinta
per darci dentro ancor di più e superare anche
questo perverso, inaspettato ostacolo.
Difatti, se le stragi avevano fatto correre all'Italia il
pericolo di essere risucchiata in un buco nero, la
procura di Palermo contribuì fortemente ad invertire
la tendenza. Una serie infinita di pericolosi latitanti,
mafiosi di primaria grandezza criminale, finalmente
catturati.
Beni per diecimila miliardi di vecchie lire confiscati
ai boss: una piccola finanziaria, base dell'antimafia
sociale, con la dimostrazione che la legalità
conviene. Davanti ai nostri uffici c'era la fila di
"pentiti" che volevano collaborare (diceva Falcone
che ci si pente solo quando ci si fida dello Stato).
Grazie a loro, prove su prove riscontrate in processi
con 650 ergastoli e secoli di carcere inflitti all'ala
militare di Cosa nostra.
Scoperti arsenali da fare invidia ad un esercito
regolare. Armi micidiali - anche lanciamissili e
lanciagranate - tolte ai corleonesi impedendo che
altro sangue scorresse.
Sembrava fatta: la mafia ormai stretta in un angolo.
Pensavamo di averla irreversibilmente isolata.
Invece dopo un paio d'anni qualcosa cominciò a
mettersi di traverso.
E imparammo che finché indaghi su Riina e soci vai
bene.
Ma quando ti affacci anche al livello delle possibili
complicità con politici, imprenditori, medici,
insegnanti etc. la musica cambia e cominciano i
guai.
Qualcuno ti mette i bastoni fra le ruote.
E preferisce perdere una guerra che si poteva
vincere pur di inceppare un accertamento di
responsabilità che oltrepassi l'asticella dei mafiosi
di strada, sanguinari e perciò indifendibili.
Insomma, lo Stato - nella partita contro la mafia - si
è come fermato a undici metri dalla fine. Come se si
dovesse tirare un rigore al novantesimo: ma invece
di tirare, ci ha fatti rientrare negli spogliatoi.
ARRIVA BERLUSCONI E CAMBIA IL VENTO
Lo storico Salvatore Lupo ha scritto che già nella
campagna elettorale del 1994 (vinta da Silvio
Berlusconi) partì "un attacco alla legge sui pentiti".
Se fosse stato solo un problema di consenso, nessun
uomo politico avrebbe azzardato operazioni di
questo tipo.
In realtà furono operazioni "per il futuro, perché c'è
bisogno di mafia".
Sta di fatto che dopo un paio d'anni in cui avevamo
respirato un'aria esaltante, fummo costretti a subire
attacchi e calunnie organizzati (in particolare dagli
ambienti di centro-destra) con volgarità e protervia
spesso davvero incivili.
Sul banco degli imputati, al posto dei mafiosi e dei
loro complici, ci finimmo noi.
Ed ecco un classico: l'azione antimafia - in quanto
scomoda per certi interessi - viene stravolta e
falsamente accusata di essere azione "politica",
ispirata da una fazione in danno di un'altra.
Si avvertiva in giro una gran voglia di
"normalizzazione".
Anche il centrosinistra finì per dileguarsi, se è vero
- lo sostiene Paul Ginsborg - che dal 1996 in poi
"uno scarso entusiasmo del potere politico"
accompagnò gli inquirenti palermitani, con la
conseguenza che "la questione della mafia e della
magistratura più esposta non diventa una priorità
nell'azione di governo".
Certamente non ci giovò l'accertamento di forme di
compartecipazione delle strutture economiche
denominate "cooperative rosse" nel sistema di
6
condizionamento politico-mafioso degli appalti.
Accertamento che gli ambienti di centro-destra
hanno dolosamente ignorato, forse perché
incompatibile con la falsa etichetta di "comunisti"
che amavano appiopparci.
ANDREOTTI,DELL'UTRI:LA VERITÀ NEGATA
Il primo, chiarissimo segnale che le cose stavano
cambiando si manifestò nel 1995 con
l'incriminazione di Francesco Musotto, presidente
della provincia di Palermo.
Prima ancora di poter conoscere anche solo il colore
della copertina del fascicolo (perciò con evidente
pregiudizio ostile), venne organizzata davanti al
palazzo di giustizia una contestazione della procura
con "Forza Italia" e Gianfranco Micciché in testa e
l'avvocatura in toga. Una piazzata.
Niente in confronto a quel che succederà col
processo Andreotti: una vera gara nello stravolgere
la verità e nell'aggredire i pm di Palermo, pigmei a
fronte di tanto imputato.
David Lane ha scritto che "i politici e i media hanno
raccontato un'altra storia, come se la suprema Corte
avesse detto che (l'imputato Andreotti) era
innocente: "un messaggio chiaro, che piace ai
mafiosi".
Un copione simile si è ripetuto per il processo
Dell'Utri, scandito dalla beatificazione dello
stalliere Mangano come "eroe" e dalla denigrazione
dei pm, accusati delle peggiori nefandezze,
partecipi di un complotto politico-mediaticogiudiziario, asserviti agli interessi di chissà chi,
omuncoli da "periziare".
Lo scopo evidente di queste campagne è di
"sbianchettare", cancellandoli, i gravi fatti e le
responsabilità che stanno a base delle due sentenze.
Operare in questo modo equivale a legittimare - per
il passato, ma pure per il presente e per il futuro - un
modo di fare politica che contempla anche rapporti
col malaffare, persino mafioso.
Stracciarsi le vesti se non si riesce a sconfiggere la
mafia è ipocrita, se non si ragiona sui rapporti tra
mafia, politica e imprenditoria (fino alla
"Trattativa") partendo dalla realtà torbida e
sconvolgente che proprio le due sentenze rivelano.
Quanto poi alla "Trattativa", nei miei sette anni di
Palermo non ne ho mai saputo nulla. Il processo
appena cominciato dirà come sono andate le cose.
Certo è che i pm che hanno svolto l'inchiesta hanno
dimostrato grande coraggio e spirito di servizio
nell'inoltrarsi in un labirinto di cui non potevano
ignorare le insidie, lasciandosi guidare unicamente
dal dovere di ricercare la verità secondo legge.
Gli
attacchi
concentrici
cui
vengono
sistematicamente sottoposti sono del tutto ingiusti e
ingenerosi.
UNA LEGGE CONTRO DI ME
Tornando alle campagne sui processi Andreotti e
Dell'Utri, non posso dimenticare lo spudorato
corollario del "tradimento" del metodo Falcone che
la procura avrebbe perpetrato. Un'accusa ridicola,
formulata con la tecnica di parlar bene dei morti per
meglio aggredire i vivi; smentita dall'esito in
Cassazione dei due processi, esito a fronte del quale
chi aveva strillato al "tradimento" avrebbe dovuto
vergognarsi, ma non l'ha fatto.
E dire che proprio a causa del processo Andreotti ho
dovuto pagare un prezzo inaudito: essere scippato
del diritto di partecipare al concorso per la nomina a
procuratore nazionale antimafia con una assurda
leggina "contra personam" (la mia), che ha
cambiato le regole a partita ormai quasi conclusa e
che la Consulta dichiarerà incostituzionale. Ma
ormai i giochi erano fatti, senza che dal Csm o dal
candidato che si era vista spianata la strada da
un'ingiustizia ai miei danni si fosse levata una
qualche voce di dissenso.
Anche grazie a questa legge ignobile e meschina,
ero consapevole che nessuno - solo perché hai
sudato sette camicie per fare il tuo dovere - può
pensarti come... avvolto nel tricolore. Ci
mancherebbe! Non immaginavo invece che
un'esperienza così dura e intensa potesse lasciare
spazio al dileggio offensivo, com'è invece accaduto
in una "clip" del film di Sabina Guzzanti sulla
"Trattativa". Infine, tra gli "eventi" del mio periodo
palermitano un posto di assoluto rilievo spetta ad un
interrogatorio del 23 ottobre 1993.
Un mafioso di Altofonte arrestato per più omicidi,
Santino Di Matteo, aveva chiesto di parlare con il
procuratore di Palermo. Quando mi sedetti di fronte
a lui, la prima parola che mi disse fu «Capaci».
Il 23 maggio del '92 era lì. Verbalizzai per sei ore le
sue parole, la prima confessione di uno degli
esecutori
materiali
dell'"attentatuni",
la
ricostruzione precisa in ogni dettaglio della strage,
decisiva per il successo delle indagini.
Un successo avvelenato dalla vendetta nazista di
Cosa nostra, che il 23 novembre rapì il figlio di Di
Matteo, Giuseppe, di appena 13 anni.
Dopo una prigionia di 779 giorni di maltrattamenti
e torture il ragazzino fu strangolato e sciolto
nell'acido dagli uomini di Giovanni Brusca.
La stessa rappresaglia successe a Torino nel 1981,
quando le Brigate rosse rapirono e giustiziarono
Roberto Peci per "punire" il fratello Patrizio, capo
colonna torinese, che aveva rivelato - in un
interrogatorio da me condotto - tutti i segreti
dell'organizzazione.
Non sempre è vero che la storia non si ripete.
7
PROVERBI E MODI DI DIRE
Il pensionato proprietario a sorpresa:
“Non cedo gratis la Scala dei Turchi”
Il luogo comune tradizionale scandalizza l'uomo
moderno. Il libro più sovversivo nel nostro tempo
sarebbe una raccolta di vecchi proverbi.
Nicolás Gómez Dávila,
In margine a un testo implicito, 1977/92
Agrigento, battaglia con il Comune dopo la
scoperta: “È un’eredità di famiglia”
È perfino troppo facile evocare Totò che cerca di
vendere la fontana di Trevi ai turisti.
Facile e improprio. Perché se il principe De Curtis
impersonava un simpatico truffatore, qui a
Realmonte - un pugno di chilometri da Agrigento c’è un signore che ha tutto il diritto di sventolare
sotto il naso della Regione il foglio di mappa
catastale numero 23, dove c’è scritto che «le
particelle 334-335-336» sono tutte sue.
Peccato che quelle particelle corrispondano alla
Scala dei Turchi, la scogliera di marna bianca più
famosa d’Italia, celebrata da Camilleri, candidata a
diventare patrimonio dell’Unesco.
Di proprietà, oggi, del dottor Ferdinando
Sciabarrà, 67 anni, dirigente della Camera di
Commercio in pensione ritiratosi in una casetta in
campagna a contrada Scavuzzo. Il quale ha già detto
al sindaco Pietro Puccio che non ha alcuna
intenzione di cacciare i turisti dalla sua scogliera. E
non facilmente la cederà gratuitamente al Comune,
come l’amministrazione gli ha chiesto. «Non ho
mai impedito di entrare a nessuno e così sarà in
futuro, ma prima di fare qualsiasi mossa devo
parlare con i miei avvocati», ha aggiunto. Nei
prossimi giorni incontrerà di nuovo il primo
cittadino. Già. Come conferma la cugina Enrichetta
Sciabarrà, «quelle terre sono nostre da sempre, le
abbiamo ereditate dagli antenati, una storia che si
perde nella notte dei tempi». Peccato che il Comune
ne abbia avuto contezza soltanto adesso, quando a
fianco di Legambiente si è messo al lavoro per
redigere un piano di gestione della Scala dei Turchi
che prevedesse anche un ticket d’ingresso. Una
decisione nata dall’assedio alla scogliera, erosa dal
mare, depredata da ladri e turisti che portano via
pezzi di marna considerati un toccasana per la
pelle. Prima mossa, quindi la richiesta di cessione
del tratto di costa alla Regione, a fronte del
pagamento di un canone. «Ma è bastato guardare le
carte - dice il sindaco - per accorgerci che la linea
demaniale si interrompe proprio davanti alla Scala
dei Turchi, dove comincia una proprietà privata che
dalla campagna si estende fino agli scogli. Gli
accertamenti successivi hanno confermato quello
che da tempo in paese si sa, cioè che la scogliera di
marna appartiene a Ferdinando Sciabarrà,
proprietario anche dei terreni confinanti. Una
persona perbene, non certo uno speculatore».
Gabbu ‘un ti fari e meraviglia no, ca lu ‘gabbu’
arriva e la gastima no.
Gaddu o senza gaddu Diu fà jornu e senza lu tò
crivu spagliu e cernu.
Gghiustu dici lu muttu anticu: cu perdi la libirtà
perdi l’amicu.
Giugnettu lu furmentu sutta lu lettu.
Giuramenti d’amuri e fumu di ciminia,l’acqua li
lava e lu ventu li carria.
Giustizia e focu…datici locu.
Guadagnu luntanu….resta pi la via.
Guai e ‘tacch’ d’ogliu.
Gula di monacu e pitittu di parrinu.
Haju raggiuni e mi la manciu squadata.
Jetta simenza ca Diu ci pensa.
Jinchi la panza e d’inchila di spini.
Jnnaru fà lu piccatu e maju nnè ‘ncurpatu.
Jnnaru ortulanu: tanta paglia e picca granu,
jnnaru siccu….burgisi riccu, quannu dicemmiru
lassa lu lippu.
Jnnaru mezzu duci e mezzu amaru.
Jnnaru teni li frutti ni lu sularu.
Jnnaru vagnatu….burgisi cunsumatu
Jri cu li jta ‘ntall’occhi.
Jttatu ‘ntà un funnu di lettu
Ju li canzuni mei mi li cantavu, cù veni appressu si
canta li so:.
In ogni casa, sia povira cà ricca, si cumanna Eva,
certu Adamu pecca.
Inchirisi la vucca.
Irisinni di canterchiu.
Iu mi manciu li cipuddi e a tìa t’abbruscianu
l’occhi.
(quest’ultimo detto fa il paio con):
“A iaddina fa l’ovu e au iaddu c’abbrucia u culu.”
8
società in cui agirono. Una parabola locale che si fa
trama di una grande storia.Il Professore Rosario
Mangiameli (ordinario di Storia Contemporanea
presso il dipartimento di Studi Politici e Sociali
dell’Università degli Studi di Catania), l’ ha così
definito : «il testo è indubbiamente di collocazione
europea perché analizza i collegamenti tra la Sicilia
e tutta l’Europa».
Il Professore Domenico Ligresti (ordinario di Storia
Moderna presso il dipartimento di Studi Politici e
Sociali dell’Università degli Studi di Catania) ha
tratteggiato il tema generale della storia della
nobiltà, a partire dall’ immagine negativa della
nobiltà veicolata fino a pochi decenni fa.
Essa fu invece classe dirigente della Sicilia per
parecchi secoli, radicata in campagna e in città,
presente in politica, nei commerci, negli affari.
Una nobiltà che fu parte integrante dell’impero
spagnolo, una nobiltà europea. «Testo molto
accattivante» ha definito il volume il professore
Giovanni Brancaccio (ordinario di storia moderna
presso l’università di Chieti) .
A suo parere il testo offre una dimensione di
particolare risalto in relazione alla storia
istituzionale,
economica,
sociale,
politica,
tracciando un excursus di più secoli.
La storia del mezzogiorno non può essere intesa
riduttivamente come storia regionale.
La storia del regno di Napoli e di Sicilia si inserisce
a pieno titolo nella storia d’Europa. Particolare
merito scientifico del lavoro della Calabrese è la
ricerca d’archivio completa ed originale.
Un errore? Uno scherzo? «No - aggiunge il sindaco
- la distanza dei 150 metri dal mare vale per
l’inedificabilità, ma la linea demaniale è un’altra
cosa. Solitamente segue la linea dell’onda, è facile
tracciarla quando c’è una spiaggia, ma qui c’è una
parete rocciosa a picco che è stata considerata parte
del terreno retrostante. Non è un caso unico, qui
molte altre scogliere sono di proprietà privata.
Anche se i privati non possono farsene nulla, per
via dell’interesse pubblico e per i vincoli
ambientali». Un paradosso. Siamo ad Agrigento,
infatti, terra di Pirandello.
laura anello
x gentile concessione de LA STAMPA
L’EPOPEA DEI RUFFO DI SICILIA
di Maria Concetta Calabrese Editori Laterza
Un libro che non è solo
storia dei Ruffo, ma
attraverso questi, storia
della “grande” Messina
del Cinque e Seicento ,
storia dei suoi legami
culturali, politici ed
economici ,per esempio
con i finanzieri genovesi
Raggi, immortalati dai
dipinti del Van Dych.
Grandi personaggi i
Ruffo di Sicilia, uomini
e donne. Questo libro
racconta la loro storia che si dipana dalla Calabria
alla Sicilia, da Messina a Madrid, a Malta e a tutto il
Mediterraneo, teatro di traffici commerciali, di
relazioni economiche, di scambi culturali e di opere
d’arte.
L’epopea dei Ruffo di Sicilia è il risultato di un
decennale lavoro attraverso archivi italiani ed esteri.
Il testo arricchisce la collana di Editori Laterza
Percorsi con la biografia di Antonio Ruffo,
principe della Scaletta, collezionista nella Sicilia del
Seicento, il più importante esponente del ramo
isolano della sua casata, uno straordinario
personaggio in cui si coniugavano prudenza in
politica, abilità negli affari, notevole ricchezza,
grande passione per l’arte, originalità di gusti e
profondità d’interessi. Accanto a lui, il nipote
Giacomo, visconte di Francavilla, allievo e sodale
di Giovanni Alfonso Borelli e Marcello Malpighi,
fu un intellettuale e uno scienziato curioso di
leggere, come lo zio, nel “gran libro della Natura”
ogni espressione di arte e di scienza.
La vicenda dei Ruffo si inquadra in un percorso di
studio dei casati nobiliari che, dal Piemonte alla
Sicilia, è ormai considerato essenziale per
interpretare i processi storici e i meccanismi delle
Agira sullo sfondo il lago Pozzillo, oltre l’Etna
9
utilizzata nei duelli d’onore tra pastori o contadini,
ma spesso coinvolgeva anche ricchi proprietari
terrieri, affascinati da questa nuova arte sia perché
permetteva di difendersi da un coltello, sia per
semplici scommesse. Poi, con l'avvento delle armi
da fuoco, la funzione di difesa del bastone venne a
mancare, ma restò il suo impiego nei duelli d'onore.
Oggi il bastone è presente soprattutto nella Sicilia
orientale, a livello di arte tramandata da padre in
figlio, da amico ad amico, sui monti e nei luoghi
scarsamente popolati, dove ancora i giovani non
sono distratti dai problemi della società industriale.
Il bastone siciliano comprende vari stili denominati
"Tirata". La tirata ruotata e la fiorata sono tra i più
diffusi. Un'altra scuola collocata geograficamente
nell'area di Messina, usa il bastone con una sola
mano, come un fioretto, ma non è ritenuta molto
efficace perchè nelle parate c'è il rischio che il
bastone cada di mano. Nelle scuole maggiori,
invece, il bastone è maneggiato con due mani, con
movimenti rotatori continui chiamati mulinè e solo
occasionalmente è utilizzata con tecniche offensive
di stoccata, con una sola mano.
Il mulinè eseguito a due mani, difende tutta l'area
intorno al corpo (un po' come un'elica), tenendo
lontano gli aggressori.
Questa fase difensiva è completata da attacchi alla
testa, colpi laterali al viso, puntate allo sterno, alla
gola ed al basso ventre, tutti mortali.
La tirata insegna anche un suo particolare modo di
spostarsi e camminare, assecondando appieno la
tipologia del terreno su cui ci si trova (campagna,
pavimento di piastrelle, sabbia, selciato bagnato
etc...), spesso richiama la danza e s’ispira ai
movimenti dei pupi siciliani. Tirata vuol dire
combattimento. Un elemento importante di questa
scuola è il figurismo: una sequenza obbligata di
figure (posizioni) che anticipano il combattimento,
rendendolo il più difensivo possibile ed al
contempo ne caratterizzano lo stile adottato.
Si sa per certo che esiste una versione napoletana
del Bastone che differisce dalla versione siciliana
per la sua misura ridotta e per la tecnica che
privilegia colpi a corto raggio, corpo a corpo e
chiusura. Si utilizza molto per comprimere alcuni
punti dolorosi del corpo che paralizzano
letteralmente chi li subisce.
Nella scuola
napoletana non vi sono tecniche spettacolari (vedi i
maneggi del bastone siciliano). Utilizzare il bastone
napoletano è un po' come maneggiare un coltello.
Oggi l’arte del bastone è conosciuta con il nome
“Liu-Bo”, dal cinese “bastone di Leo”, in onore del
maestro Letterio Tomarchio, che è riuscito a farla
diventare un’arte marziale famosa e riconosciuta.
Il sig. Tomarchio insegna il Bastone siciliano nella
Il Bastone Siciliano
(‘U Vastuni altrimenti detto ‘A Paranza)
Chi afferma che le arti marziali provengono
esclusivamente dall’Asia o che le vere tecniche di
combattimento, dai nomi incomprensibili ed
altisonanti, devono per forza essere padroneggiate
da uomini con gli occhi a mandorla come spesso si
vede in TV, ha torto. Siamo in Sicilia, intorno
all’anno 1200 d.C. e fa le sue “prime mosse” quella
che sarà l’unica arte marziale sviluppatasi in Italia e
forse anche una delle più antiche d’Europa (anche
se la mia scarsa conoscenza del settore non mi
suggerisce nessuna arte marziale nata nel Vecchio
Continente, escludendo la S’Intrumpa sarda).
Il bastone è lungo circa 1,20 metri, ed è ricavato da
legno d’ulivo, arancio amaro, sorbo o dalla rossella,
raccolto
in
precisi
periodi
dell’anno.
La lavorazione prosegue ed il bastone è trattato e
passato al fuoco per essere pulito, raddrizzato e
asciugato. Lo strumento finale è molto leggero ed al
contempo resistentissimo ai colpi più duri, anche se
sbattuto violentemente sul cemento. Esso può avere
dei noduli molto consistenti che sono utilizzati per
fratturare la zona ossea colpita in piccoli punti
specifici.
Mi raccontavano da piccolo che il bastone per
essere ultimato, era messo a stagionare per un certo
periodo sotto il chiaro di luna; una volta completo,
un colpo ben assestato era capace di spezzare la
lama di una spada.
Un’altra leggenda narra del viaggio di un Re, la cui
scorta fu attaccata da un’orda di banditi, mentre si
trovava in una zona impervia della Sicilia; proprio
quando la guardia reale stava per avere la peggio,
ecco che scende dai monti un pastore armato di
bastone, che sbaraglia e mette in fuga gli assalitori.
Questa disciplina di combattimento è stata da
sempre utilizzata da contadini e da pecorai come
strumento di lavoro e come arma di difesa contro
occasionali assalitori, o animali selvaggi.
Inizialmente non esisteva una tecnica ben definita,
che andò delineandosi nel 1600 e fu da subito
10
vanta un numero sempre maggiore di allievi che la
praticano, con uomini e donne che possono
misurarsi insieme essendo uno sport di abilità e non
di forza, queste tecniche sono state sviluppate
grazie agli antichi insegnamenti di Vito Presti.
Il 14 Maggio 2006, il fondatore di questa disciplina
come sport, Letterio Tomarchio, in collaborazione
con la famiglia Presti, ritenne opportuno realizzare
una competizione in memoria di Vito Presti,
svoltasi al Palalberti di Barcellona, in segno di
stima e profondo rispetto nei confronti del
compianto maestro.
--------------
sua palestra di Catania ed ha aperto anche un sito
internet: http://www.liu-bo.it/
Racconta dal suo sito: "Un giorno mio padre,
mentre eravamo riuniti in famiglia, mi raccontò che
da giovane anche lui aveva imparato le tecniche
che servivano come arma di difesa e offesa
cavalleresca, il "bastone siciliano". Lo pregai di
farmi vedere qualcosa, e m’illustrò alcune tecniche
che ricordava. Notai subito, oltre al lato
spettacolare, che mio padre, all'età di circa
sessanta anni, con un manico di scopa, annullava
tutti gli attacchi che io, giovane, insegnante di Judo
e conoscitore di Jujitsu, Karate, Aikido, tentavo di
portare".
Mi ricordo, da piccolo, le chiacchierate con i miei
amici, seduto sulle panchine dei giardini; si finiva
sempre con il parlare ‘do Vastuni. Qualcuno di noi
amava raccontarci di paesani insospettabili, scoperti
ad allenarsi di nascosto con il bastone e quando
capitava di incontrarne per strada, uno di noi
bisbigliava a labbra chiuse:
"’U
viri
chiddu?
Sapi
u
Vastuni!".
C’era poi chi si vantava di aver assistito ad un vero
e proprio combattimento: una persona, armata
unicamente di bastone, vinceva contro tre.
La rissa, concludendo, in una manciata di secondi
era già finita. L’arte del bastone si tramanda solo da
padre in figlio, o al massimo verso qualche
“figlioccio” fortunato che è stato preso a cuore dal
maestro. Dopo questa storia, mi è tornata la voglia
di imparare a maneggiare il bastone, ma qui al nord
nessuno lo conosce. Chi vive nella zona nordorientale della Sicilia, può andare direttamente nella
palestra del signor Letterio Tomarchio, mentre chi
si trova nel sud continentale, soprattutto nel reggino
e nel napoletano, deve informarsi presso vecchi
pastori o contadini, chissà che non incontri un
maestro di bastone.
Bastone siciliano: l'antica arte siciliana della
paranza, cioè del maneggiare il bastone ('u vastuni)
sia per attaccare che per difendersi, deriva da una
tradizione dei pastori, in secoli passati anche per
difendersi dai briganti. Un autorevole maestro di
bastone siciliano fu il pastore, poeta e scultore Vito
Presti, di Barcellona Pozzo di Gotto.
Bastone genovese: si pratica con un bastone corto
(di origine ottocentesca) di circa 90 cm di
lunghezza e con un bastone lungo di circa 120-130
cm di lunghezza. Il materiale adoperato per i
bastoni da allenamento è il rattan, non facilmente
scheggiabile.
Oggi il “LIU-BO Bastone Siciliano” (così è stato
battezzato) è uno sport nazionale ufficialmente
riconosciuto dal CONI. Questa disciplina è stata
una delle più ammirate alle ultime Universiadi, e
Dal nostro corrispondente salentino,
l’amico Pierluigi Camboa
Verso il “De Finibus Terrae”
La primavera batteva le delicate nocche sull’uscio
d’un inverno sempre più breve e sempre più mite.
Calpestavo senza una meta precisa la sabbia
nerastra e i ciottoli levigati di una piccola e deserta
insenatura del Salento. Avanzavo lenta, con lo
sguardo perso nel cielo d’un azzurro tenue ed
infinito. Mi precedeva l’opaca ombra dei miei
confabulanti pensieri, che marciavano a passo
spedito, congedandosi dal mio corpo, in una sempre
più marcata dicotomia. Il presente non c’era, non
aveva senso: la mia mente si era librata in volo
libero nello spazio e nel tempo, altalenandosi tra il
passato e il futuro. Non ero mai stata, prima
d’allora, nel Salento, ma percepivo come uno strano
ed insistente déjà vu. Un pensiero sortito dal nulla:
la campagna salentina e il suo volto sorridente.
Non riuscivo a definire nomi, date e contesto, ma
mi tornavano ben chiari alla mente i miei sogni… Il
mare: le poetiche coste, un incredibile miscuglio di
inaccessibili rocce scoscese e di immense spiagge
tropicali, che per millenni erano state solo terre
insalubri, malsane, malariche paludi. E mi venne
alla mente il grande, distratto filosofo de “Le
nuvole” di Aristofane, inzaccherato fin sopra le
ginocchia, alla ricerca di nuovo sapere…
E poi, con un volo pindarico, il pensiero di spostava
sul dialogo intorno al dualismo manicheo
immanente nell’uomo (e nella donna)…
E, per finire, mi tornava alla mente il suo sorriso,
spontaneo e suadente… Il fuoco ormonale della
maturità mi aveva obnubilato del tutto la mente,
tenendomi celata la spontanea, congenita poesia del
Salento. I giovanili epidermici entusiasmi mi
avevano impedito di coglierne l’evidenza.
Non ero riuscita, quando sarebbe stato semplice, ad
alimentarmi della sua anima e girovagavo come un
ectoplasma intorno al giardino metafisico dei miei
rimpianti, dove l’unico suono che riuscivo a
11
coacervo di suoni, d’arazzi e d’olezzanti effluvi
dagli alambicchi di rame, tra gli orci di terracotta
delle friselle di semola e d’orzo e le untuose latte di
stagno ricolme dell’olio appena spremuto.
Torme d’efelidi sui glabri volti celtici dei castellani
candivano ieratiche ipocondrie all’insolito, melenso
suono delle pastorali fistole, nella terra schizoide e
mistica della dionisiaca danza della pizzica
sostenuta dalla frenesia dei tamburelli.
Ascetici conventi e compassati castelli, spettrali
gemme in un castone di tufi plebei, chiosavano fieri
sulla loro nobile storia nelle aride terre degli
Ottomani, del griko e dei Messapi.
Le chiese-madri dei villaggi e delle città, come le
sinagoghe e i minareti, si stagliavano alte nel cielo,
oasi di pace e di preghiera per un Dio infinitamente
buono nelle funzioni religiose, ma nella vita di tutti
i giorni ferali testimoni di nemesi e d’odio per un
dio minore, convitato di pietra astioso e violento,
perché ideato e assemblato dall’uomo a sua
immagine e somiglianza, orpello d’un lucido
calcolo d’un sempre meno ondivago odio e livore.
Sul muricciolo del porto, come in un qualsiasi
lungomare d’Italia, si incrociavano gli insipidi
commenti sul nulla, tra le fanatiche, isteriche,
compulsive ovazioni delle masse ai salapuzi della
politica condannati, ma invano, al silenzio e agli
strepitanti urlatori dei concorsi musicali; più
all’interno, negli oscuri spazi della rete, come
schizzati fuori dalla fiaba di Pinocchio, una coppia
di diarchi menagrami, profferendo fosche profezie
di morte, ottundeva la mente della gente, che si
prostrava in ginocchio al cospetto dei nuovi satrapi
della rivoluzione cosmica e all’antico, ma sempre
attuale paradigma dell’avere e dell’apparire,
incapace di prestare ascolto alla ragione e refrattaria
a qualsivoglia resipiscenza ascetica sulla via di
Damasco. Un esotico, arcano tubero, in apatica
combustione nel vetusto turibolo d’un metallo
ignoto, diffondeva mirabili effluvi allucinogeni
nella bucolica aria vespertina all’ombra della
grande vallonea, mentre il lontano, logoro, ventoso
crinale salmastro si rendeva indistinto allo sguardo
e alla memoria. Nella città dei tre casali, in ascetico
bivacco, un errabondo pellegrino girovagava tra i
vetusti manieri dei versi orfici e del sangue vivo,
nel compassato e melenso ricordo del tempo che fu.
Sul ciottoloso selciato dei poetici vicoli dell’antica
contea diocesana, quella con il bel profilo araldico
d’un’alata croce latina, si percepiva ancora l’eco del
passo lieve del grande don Tonino.
Dopo il ponte dei corvi e dei deliri, l’inaccessibile
scogliera si perdeva nel nulla della fine, tra le
preghiere semplici d’una Maria in attesa. Dall’alto
del crinale intravidi, nei pressi di Felloniche,
percepire era il vento. Avvertivo forte la necessità
di confessare, a quella sconosciuta terra, ciò che
provavo, ma che non ero riuscita ancora a
decodificare. Il viaggio era appena cominciato e mi
restava ancora tanto tempo per rimediare, per
fortuna. Mi fermai ad osservare e ad ascoltare. Non
le forme, ma l’essenza. Le candide falesie di
Sant’Andrea, sferzate di giorno dalle onde e dal
rigido maestrale, filtravano nel placido tramonto la
lirica eco della dea del mare. La perfida sabbia
della semiluna idruntina mi schizzava violenta fin
dentro il guscio degli occhi, oscurandomi la visione
degli spettri alati delle aquile d’Albània.
Una vela all’alba, poco al largo della Palacìa,
solcava libera, fiera e solitaria un mare svogliato e
ancora sonnacchioso, che si perdeva all’orizzonte
nel grigio giogo della nebbia, lasciando però
trasparire il profilo d’un gabbiano scomparso che
proiettava la sua ombra spettrale sulle schiume
maestose, fruscianti in lontananza, nel suo
arabescato e libertario volo, senza fine e senza fini.
Come già accadde ad Enea e al figlioletto Iulo, i
pini del Fortino, sventrata la roccia attonita,
elargivano un frondoso rifugio al principe del
Cònero e alla sua piccola, garrula tribù.
Superato l’abisso di Malepasso, dopo una tortuosa
china verso il mare, s’aprì poi il monte ed ingoiò la
plutonica Cesarea, tra nugoli di mefitiche giallastre
essenze sulfuree, mentre decine di elicoidali
pergami d'ammonite s'adagiavano pigri sugli stupiti,
esterrefatti lemuri malgasci, al cospetto degli
assurdi arabeschi di Palazzo Sticchi. Altalenanti
rugiade s'affastellavano sul capezzale del fioco
vento, sfiorando con le dita i turgidi capezzoli
dell’asina in calore. Un inatteso gelo d’ardesia si
pose a bivaccare ad una spanna dall’uscio in
impaziente attesa della nitida catarsi, avvisata dal
capzioso, ozioso commiato della notte al primo
baluginio d’oriente, sulla deserta torre di Porto
Miggiano. Gli zìnzuli della grande grotta cupa si
offrivano come idoli pagani al culto apotropaico di
vetusti esorcismi messapici. Dalla città alta, due
donnine in nero, all’uscita dalla funzione
vespertina, si segnavano rapide il viso con la croce
al cospetto dell’orribile squarcio dabbasso tra i
vecchi tufi di Castro, enorme diabolica piaga nel
costato dell’ameno villaggio, nel lugubre silenzio
d’un gemebondo, seppur diafano, crepuscolo,
mentre il draconiano distico espunto dell’elegia
ballonzolava a tentoni nella semi-oscurità
dell’incombente notte marina, tra le osterie dei
mosti e delle beghe, sovrastate dal discinto
discettare dell’ubriaco-re.
Tra le riarse terre degli ulivi contorti giacevano
recondite le fastose masserie degli Oscar, in un
12
l’ultima, solitaria foca monaca chiedere invano un
passaggio agli insensibili avventori in uscita dal
Tatanka, dopo la classica sorridente foto-ricordo di
gruppo sullo sfondo del verdeggiante blu
dell’oltremare. Il re di cuori comparve
all’improvviso dalla parte inattesa e, mentre mi
colpiva a morte con il suo gelido gladio, lo vidi
svanire irridente, sfuggendo la sua mano dalla
mia… Di lui mi restò solo (e per sempre resterà) il
ricordo d’una notte di passione ardente, con le
possenti spalle avvolte su di me, una plastica
scultura ritmicamente illuminata dal gelido fascio
del faro di Punta Mèliso, là sull’aspra scogliera
della sorella Rìstola, ai confini estremi del mondo,
nel punto dove il mare si unisce con il mare e
spalma lentamente sul Salento le sue essenze di
storia, d’amore e di poesia.
Graziano Mossuto
Nasce a Palermo nel
1976 e intraprende gli
studi musicali all’età di
otto anni; consegue il
diploma in pianoforte
presso il conservatorio
Vincenzo Bellini di
Palermo.
Appassionato di musica
etnico-popolare
partecipa
come
polistrumentista a numerosi festival internazionali
del folklore, con l’obiettivo di ricercare le sonorità e
gli impasti timbrici tra gli svariati strumenti
musicali
esistenti
nel
mondo.
Da giovanissimo inizia ad occuparsi di fonia,
arrangiamenti ed ha al suo attivo una vasta
produzione
musicale
e
vanta
numerose
collaborazioni artistiche con musicisti italiani e
stranieri.
Autore di numerose colonne sonore per film, spot
televisivi, opere teatrali e sigle di festival
internazionali di musica etnica. La sua musica è un
misto di colori e profumi sonori all’interno,
soprattutto dello stile melodico-armonico dei popoli
che si affacciano nel bacino del Mediterraneo.
A Favara (AG), dove opera e lavora, ha dato vita ad
uno studio di registrazione nel quale crea le sue
composizioni e sperimentazioni musicali. Già
all’età di 8 anni il suo innato amore per la musica si
fa vivo, ed è proprio a questa età che intraprende i
suoi primi studi musicali con la fisarmonica,
avvicinandosi a quello che sarà il suo strumento
fondamentale, il pianoforte.
La sua innata voglia di conoscenza e di ricerca, lo
porta ben presto ad iniziare un percorso che lo
vede protagonista insieme ad altri musicisti a
proporre i colori, i suoni, le armonie e la vitalità
della musica siciliana in giro per il mondo,(ha
partecipato a più di cento Festivals Internazionali
del Folclore come fisarmonicista - cosa che tra
l’altro fa tuttora).
Questo girovagare e il contatto con altri popoli ed
altre tematiche culturali, interagiscono nella sua
sensibilità di artista, lo arricchiscono, stimolando la
sua creatività e la sua curiosità, è il contatto con
queste diverse realtà musicali che egli ricerca,
sonorità, stumenti tipici e inpasti timbrici, come una
sorta di alchimista assetato di conoscenza e di
sapere.
Diplomatosi al Conservatorio Vincenzo Bellini di
Palermo in pianoforte e composizione, inizia la sua
sperimentazione musicale che lo porterà ben presto
Suoni di luce
Ti scorgo incedere con passo regale
Dalla fessura della porta socchiusa.
E s'inchioda al tuo viso
Lo sguardo mio.
E d'incanto i miei pensieri
S'involano sulla spiaggia d'inverno,
Con la deserta sabbia sferzata
Dal gelido maestrale,
Dolce Pelagia che vieni dal mare.
E gli austeri, mutevoli fronti
Di ostili cumulo-nembi
A presidiare declivi l'orizzonte.
I gabbiani scomparsi
Sul placido pelago
Proiettano i loro contorni spettrali
Sulle schiume maestose
Fruscianti in lontananza
E nelle membra mie
S'avverte il tumulto
D'un'emozione inedita,
Dai contorni indistinti,
Perché si disperde
Nei più remoti anfratti dell'Universo,
E mentre armonici suoni di luce
S'insinuano, flettendosi sinuosi,
Nella mia logora mente, tu, mio unico,
Incomparabile Salento, novella Aracne,
Cospargi di frammenti di rugiada
La tua geometrica trappola di seta...
13
a dare vita a composizioni originali e stimolanti,
nelle quali la sicilianità e la mediterraneità
emergono in tutto il loro splendore.
Il suo estro, la innata sensibilità compositiva e di
rrangiatore, la ricerca espressiva dei suoni, la
capacità di intervenire su di essi è il grande amore
per la sua terra, la Sicilia, che come usa definire
spesso "centro del mediterraneo, patria di tanti
popoli e culture, che hanno lasciato la loro
impronta, contaminandola e arricchendola di
profumi, suoni e colori " lo portano ben presto a
dare vita a diversi lavori e composizioni. Le sua
collaborazione con il mondo Accademico e
Culturale è totale, e, quando gli chiedono di scrivere
una colonna sonora per un film “Rita Atria”
(realizzato dagli alunni dell' I.T.C. Foderà di
Agrigento) lo trovano disponibile. Il Film entra a
fare parte di un Concorso Europeo dedicato alla
memoria di Massimo Troisi vincendo il 1°Premio
per la migliore colonna sonora italiana.
In contemporanea a questo successo, esce il suo
primo C.D. dal titolo “Farfalhà” dallo stile
melodico-armonico mediterraneo, dove il suo
spessore di artista multietnico esplode in tutta la sua
vitalità, e i colori ed i profumi si mescolano in una
sinergia di suoni, una sorta di viaggio, attraverso il
quale l’ascoltatore è proiettato nel tempo e nello
spazio, in un’interagire tra la sua identità di essere e
il mondo che lo circonda nella sua diversità
espressiva.
Con "Scorci di mandarinu" uscito nel febbraio del
2010, si conclude un percorso di 10 anni fra Sicilia
e mediterraneo, da seduto sopra il mandarino (vedi
farfalhà, inteso come approccio al mediterraneo) e
con li scorci di mandarinu (inteso come piena
maturità e assorbimento dello stile melodico e
armonico del mediterraneo), acquisendo molte
conoscenze che vengono scomposte dalla sua
creatività (scorci appunto) riassemblati poi in
chiave stilizzata.
Arancini in movimento.
“A Lapa” L’Ape di LuBar che porta
a Milano lo street food catanese
Ancora un cibo da strada su ruote che punta al
design e a un concept semplice e goloso. È lo slow
street food di LuBar, l'Ape che porta a Milano
arancini e cannoli direttamente dalla Sicilia.
In un'Ape Piaggio dal sapore retrò, color terra (la
terra di Vendicari) rivestita di juta, si friggono
arancini superbi che stanno facendo impazzire
Milano.
Arancini rossi (al ragù di carne), bianchi (prosciutto
e formaggio), o nella versione vegetariana senza
latticini, con riso integrale e spinaci, e ne
arriveranno altri: siamo solo all’inizio.
Nuovo tassello delle Api Piaggio gourmet che
stanno riempiendo l'Italia in un nome di un cibo di
strada finalmente di qualità.
Un mini spaccato di Sicilia, non quello folcloristico
del carretto siciliano, ma quello legato ai sapori e ai
colori della terra, che è quella della Sicilia orientale,
verso Catania e non Palermo: non per niente sono
arancini e non arancine. Arrivano ogni giorno
freschi da Scicli, preparati da un superbo fanatico
gourmand, che in via assolutamente esclusiva
fornisce LuBar.
Il focus del progetto è la qualità e l'unicità del
prodotto e della preparazione tradizionale, da qui il
saggio concetto dello slow street food, che regalano
il sogno del vero arancino siciliano, praticamente
un’operazione di teletrasporto. Saltuariamente oltre
agli arancini riempiono al momento freschi cannoli,
hanno invece sempre a disposizione il migliore
cioccolato della dolceria Bonajuto di Modica, il
tutto accompagnato da bevande come spuma,
chinotto e gazzosa di Polara, una marca di bibite
siciliane introvabili a Milano e vini siciliani.
Due dei fondatori, Lucrezia e Ludovico
Bonaccorsi, sono milanesi, ma hanno origini
siciliane e una prima esperienza nella gestione di un
innovativo concept di bistrot-baracchino nell'Oasi
14
di Vendicari, il Lubar. Insieme all’amico Edoardo
Giardini, laureato in economia, hanno iniziato
questa avventura. Come?
Ce lo racconta qui Lucrezia, scenografa
cinematografica, designer del gruppo: “L' idea
nasce per gioco un pomeriggio di poco più di tre
mesi fa. Mio fratello Ludovico faceva spesso su e
giù con la Sicilia e tornava sempre carico di
buonissimi arancini, pronti per essere fritti a cena
con gli amici. Il food è sempre stata la sua
passione. Da tempo lavorava anche all’idea di
creare un'Ape che distribuisse i nostri prodotti
agricoli siciliani (olio del Castelluccio e mandorle)
a Milano. Edoardo, amico di lunga data, ha
lanciato l'idea di unire gli arancini all’Ape! A
questo punto ne hanno parlato con me per aiutarli
a realizzare il progetto. Siamo cosi entrati in
società con diverse mansioni: Ludovico il prodotto
e la cura del food, Edoardo il marketing e io il
design.”
BABBALUCI
Come avviene in molte feste palermitane, religiose
e non, anche nel Festino di Santa Rosalia, il cibo
occupa un ruolo di primo piano, cibo semplice,
povero che riflette l’origine popolare della festa,
che risale a quasi quattro secoli fa. In quei giorni
per le vie più popolari di Palermo, ed in particolar
modo al Foro Italico, luogo dove si conclude il
festino con la sfilata del carro della Patrona, i vari
odori del cibo si mischiano nell’aria, nelle
numerose bancarelle allestite per la festa, infatti, si
trovano le specialità della nostra Palermo.
di Sofia Villa x gentile concessione de
IL GAMBERO ROSSO
visitate il sito www.lubarslowstreet.com
ROSSO
Ragù, carne selezionata di
bovino con salsa di pomodoro.
Il must dell'arancino, il più
famoso!
BIANCO Riso bianco, prosciutto
e formaggio ragusano.. note mielate.
NORMA Melanzane nostrane, salsa
pomodoro tocchetto di ricotta salata. .
Dalla bancarella del “siminzaro” (venditore di semi
di zucca, mandorle, nocciole, lupini….) decorata
con le pitture dei carretti siciliani, bandierine
tricolori, frange e stagnola luccicante e l’immagine
di Santa Rosalia al centro, alla bancarella del
“turrunaru” (venditore di torrone) che prepara a
vista la cubaita, tagliandola a pezzi con un grosso
coltello e che espone ad arte i vari tipi di torrone,
fra cui il tradizionale “gelato di campagna“.
Passando per le bancarelle del “panellaro“, del
venditore del “pane ca’ meusa“, dal tavolo del
“purparu” dove oltre al polpo si possono consumare
anche cozze e ricci; e poi lo “sfincionaro“, il
venditore di fichi d’india e quello che vende
pannocchie bollite (“pullanca“).
Insomma si può trovare di tutto, non c’è che
l’imbarazzo della scelta, ma per il palermitano doc
non è Festino se gli vengono a mancare “u’
muluni” e i “babbaluci.
I “babbaluci” non sono altro che piccole lumache
terrestri con il guscio bianco a volte striato di un
colore bruno chiaro. Si raccolgono sugli steli
rinsecchiti di molte piante erbacee o in cardi spinosi
dove si abbarbicano a grappoli.
Il periodo in cui sono più buone da mangiare è
quello che va dal 13 giugno fino al mese di luglio.
di
GAMBERETTI E PISTACCHIO Una vera
specialità della casa, l'arancino di mare al
sapore di Sicilia. Riso bianco pistacchi di
Bronte e gamberetti.
TRIS APERITIVO
Mini Arancini al Ragù serviti in un cartoccio di
carta paglia, l'ideale per un aperitivo in città.
15
L’origine
della
parola
babbaluci
deriva
probabilmente dall’arabo “babush” termine che
indicava le scarpe da donna con la punta ricurva
verso l’alto, difatti le pantofole di pezza in siciliano
si chiamano “babusce”.
Alcuni invece ne indicano la provenienza dal greco
“boubalàkion”, che significa bufalo, a cui veniva
paragonato il “babbalucio” per via delle corna.
Del loro consumo ci arrivano notizie che risalgono
agli antichi Greci e Romani che già fin dal 49 a.C.
inventarono delle tecniche per allevarle.
Utilizzate anche dalla medicina popolare siciliana,
venivano usate per guarire casi di esaurimento
nervoso, contro l’ eccessiva magrezza e per curare i
mali del fegato, ma anche per le congiuntiviti
dell’occhio e per le infezioni della pelle, dove
venivano applicate dopo essere state schiacciate e
mischiate con del lievito, accompagnando la
medicazione con apposite litanie, “a razioni“.
Insomma dei “babbaluci” si è sempre fatto un largo
consumo e utilizzo, ed è forse a causa della loro
ostinazione determinata, pensate che riesce a
percorrere quattro metri al minuto, che è nata
persino una canzone popolare dedicata a questi
gasteropodi: “Viri chi danno ca fannu i babbaluci
ca cu li corna ammuttanu i balati, si unn’era lestu a
dàrici na vuci, viri chi dannu ca fannu i
babbaluci”…
Dal punto di vista organolettico, i babbaluci hanno
carni tenere, con pochi grassi e con proteine simili a
quelle del pesce, a renderli poco leggeri è l’aglio
soffritto nell’olio d’oliva, “l’agghia ‘ngranciata”
Caratteristico poi è il modo in cui si mangiano
queste “ghiottonerie cornute”: alcuni utilizzano gli
stuzzicadenti per tirare fuori il mollusco, ma il vero
palermitano ama mangiarle “cu scrusciu” (il rumore
del mollusco risucchiato), infatti per agevolare
l’uscita veloce della lumaca dal guscio, si pratica un
piccolo foro, con il dente canino, sulla chiocciola
nella parte opposta all’apertura del nicchio testaceo,
in modo da creare un canale d’aria da cui il
mollusco sarà risucchiato.
In fondo il vero piacere di mangiare i babbaluci è
questo, e non saziano mai, proprio come recita
l’antico detto: “ziti a vasari e babbaluci a sucari
nun ponnu mai saziari”.
INGREDIENTI
1 kg di lumache
1 testa d’aglio
1 mazzetto di prezzemolo
olio extravergine d’oliva
sale e pepe
Mettere a bagno le lumache per un ‘ora in modo da
farle uscire dal guscio, copritele con un coperchio.
Trascorso questo tempo lavatele ripetutamente sotto
l’acqua corrente fino a quando l’acqua non risulterà
pulita. Mettetele in un tegame capiente copritele
d’acqua e chiudetele con un coperchio, lasciatele
riposare circa mezz’ora. A questo punto mettete sul
fuoco a fiamma bassa e non appena saranno tutte
fuori dal guscio, aumentate la fiamma e portate a
bollore.
Far cuocere per 15 minuti, quindi scolarle e metterle
da parte. Intanto preparate un soffritto con
abbondante olio e l’aglio tagliato a pezzettini, a
parte pulite e sminuzzate il prezzemolo. Ponete le
lumache in una ciotola capiente salate e pepate,
aggiungete l’aglio soffritto e il prezzemolo,
mescolate tutto e servite!
(prima un po’ di verdura però)
TENERUMI
I tenerumi sono le
foglie e i germogli
della zucchina
bianca, sottile e
tenerissima, che si
produce nel
palermitano, ora
facilmente
riscontrabile anche
nei nostri mercati
Ingredienti per 6 persone:
1 kg di tenerumi
300 grammi di pomodori pelati
350 grammi di pasta corta
2 spicchi d'aglio
olio extravergine d'oliva
peperoncino e sale q.b.
Fate soffriggere in una padella, con dell'olio
extravergine d'oliva, l'aglio e in seguito aggiungete i
pomodori pelati privati dei semi e tagliati a pezzetti,
i tenerumi tagliuzzati, sale e peperoncino.
Dopo circa 10 minuti di cottura il condimento sarà
pronto. Quindi diluite il tutto con un litro e mezzo
di acqua, portate ad ebollizione e buttate la pasta.
A cottura ultimata servite a tavola.
Li Babbaluci
di Giovanni Meli:
Purtandusi la casa su la schina
dui babbaluci all'umbra di una ferra,
cu la vucca di scuma sempri china
si ianu strascinannu terra terra..
16
PILLOLE DI CINEMA
Fruizione tematica e funzioni poetiche del
cinema nella narrativa di Antonio Tabucchi
Carina Boschi
Nei racconti di Antonio Tabucchi l’atteggiamento
dei protagonisti, quando vivono o ricordano
un’esperienza
cinematografica,
rivela
una
percezione ricorrente del cinema in quanto motivo
affettivo e culturale importante.
Si profila il ritratto di un cinefilo, i cui modi e gusti
si possono elencare (ci si soffermerà sui particolari
caratteristici dell’universo cinematografico, come lo
disegnano i riferimenti a specifici film).
Si afferma un’idea complessiva del cinema come
passatempo apprezzato, argomento frequente di
conversazione, associato anche a esperienze e
emozioni condivise nel passato ; se ne evitano la
troppa solennità e le creazioni volutamente
intellettuali.
Allo stesso tempo, i modi di fruizione rimandano a
momenti intimi e a ambienti di raccoglimento, non
a proiezioni affollate ; e i titoli vengono spesso
ricordati in lingua originale.
L’universo
cinematografico
non
è
visto
esclusivamente come popolare e leggero, suscita un
interesse : il film si memorizza, se ne discute, può
essere elemento di influenza.
Se, oltre ai valori contenutistici dei riferimenti, si
considera nel suo insieme l’impiego del motivo
cinematografico nel racconto, questo sembra in
genere suscitare un allontanamento immediato del
realismo, per dar luogo a parentesi più allusive e
evocatrici che propriamente narrative : la logica e la
cronologia vengono talora ampiamente stravolte
sotto l’effetto di visioni quasi surrealistiche, tra
ricordi d’infanzia e giochi dell’immaginario.
Vari personaggi presenti nella raccolta di novelle
Piccoli equivoci senza importanza (1985) e nel
racconto Il filo dell’orizzonte (1986) dichiarano, e
dimostrano, una vera passione per il cinema.
Nella novella Cinema, lo scrittore manifesta una
curiosità creativa rivolta verso particolari minuti
della manifattura del film, esprimendo un primo
interesse non per gli aspetti tecnici o meccanici
della produzione, ma per la vita degli attori.
Così si impone, da un racconto all’altro, una
relazione intima con l’universo del cinema, in
particolare con i film degli anni Cinquanta e le loro
grandi figure emblematiche.
(continua…..)
BIBLIOTECA DEL “PIRANDELLO”
I volumi della biblioteca del nostro Circolo sono
stati catalogati e inventariati all'Istituto Boselli e si
possono reperire nei cataloghi on line di SBN
Liguria.
Si potranno avere indicazioni più precise tramite
l’accesso all'Opac.
Un particolare ringraziamento per la collaborazione
alla Prof. Gabriella Bianchi.
VISITATE IL SITO http://isbosellialberti.it/
17
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
OFFICINE SOLIMANO
NUOVOFILMSTUDIO
4 e 5 novembre LA NOSTRA TERRA
di Giulio Manfredonia, con Stefano Accorsi, Sergio
Rubini, Maria Rosaria Russo - Italia 2014, 100'
Nicola Sansone è proprietario di un podere nel Sud
Italia che viene confiscato dallo Stato e assegnato a
una cooperativa, che però non riesce, per questioni
burocratiche e sottili boicottaggi, ad avviare
l'attività. In loro aiuto arriva Filippo, stratega
dell'associazionismo antimafia, esperto di leggi e
regolamenti ma inesperto quando si tratta di
sporcarsi le mani con la realtà. Filippo deve spesso
resistere all’impulso di mollare tutto. Lo
trattengono le insolite persone di questa cooperativa
cui inizia ad affezionarsi...
Dopo il dittico
"Qualunquemente" e "Tutto tutto niente niente" con
Antonio Albanese, il regista e sceneggiatore romano
Giulio Manfredonia ritorna al filone della
commedia etica, già sperimentato con il fortunato
"Si può fare". Calato nella scottante attualità della
lotta alla mafia, "La nostra terra" cerca di provocare
un mutamento nel pensiero del pubblico rispetto al
tema della legalità, attraverso una sceneggiatura
incentrata sul lavoro delle cooperative antimafia.
Manfredonia è bravissimo quando si tratta di
orchestrare una coralità di attori veri e autoironici,
dalla verve inarrestabile, che solo con un gesto
riescono a smarcarsi da certe rigidità della
sceneggiatura. Il tono da commedia intelligente,
leggero e divertente, con il quale è raccontato un
fatto pur drammatico, è la chiave vincente del film:
una favola etica che denuncia la mentalità
connivente e omertosa modellata dalla mafia,
opponendole la difesa della legalità attraverso il
lavoro agricolo e lo spirito comunitario.
Una signora vuole un animale domestico per avere
un po' di compagnia mentre i figli sono a scuola e il
marito al lavoro.
Dopo averci pensato un po' decide di scartare cani e
gatti perche danno troppo da fare.
Meglio un bel pappagallo che sa anche parlare.
Però, problema: costano tutti un sacco!
Ma un giorno, per caso, ne vede uno esposto in un
negozio, che costa solo 50 Euro. Fantastico!
Entra e lo compra.
Mentre sta per pagare, il commesso le dice: "Senta
Signora, devo pero dirle una cosa imbarazzante...
sa, non è un caso che costi cosi poco... il fatto è che
questo pappagallo ha vissuto fino ad ora in un...
bordello".
Ma è talmente bello che la signora decide di
comprarlo ugualmente.
Arriva a casa, lo piazza nella sua gabbia in salotto e
aspetta con pazienza che dica qualcosa.
Il pappagallo si guarda un po' attorno, studia la
stanza e la sua nuova padrona e alla fine dice: "Ok,
nuova casa, nuova maitresse".
La signora si imbarazza un po' ma poi ci ride sopra.
In fondo non ha detto niente di così sconveniente.
Tornano a casa le figlie da scuola e il pappagallo,
dopo averle squadrate: "Nuova casa, nuova
maitresse, nuove ragazze"
Le ragazze si guardano allibite, ma poi si uniscono
alle risate della madre.
Alla sera torna a casa il marito.
Il pappagallo lo guarda bene, guarda ancora madre e
figlie e dice:
"Nuova casa, nuova maitresse, nuove ragazze, gli
stessi vecchi clienti. Ueilà! Ciao Gigi, come và?"
18
Associazione Musicale “Gioachino Rossini”
Giovedi 13 Novembre 2014
(Omaggio a Pino Briasco)
FEDERICO BRIASCO, chitarra
OFFICINE SOLIMANO
SALA CATTIVI MAESTRI
Domenica 16 NOVEMBRE Ore 17.00
CARLO FIERENS, chitarra
J. S. Bach: Adagio e Fuga (in sol min. - BWV 1001)
LETIZIA FOREVER
Testo e regia di Rosario Palazzolo, con Salvatore
Nocera, (nella foto) scene di Luca Mannino. Luci di
Toni Troia. Assistente alla regia Irene Nocera.
Una coproduzione T22 e Teatrino Controverso col
patrocinio di Equamente – bottega del mondo.
Vincitore Marte Live (Sicilia). Lo avevamo già
ospitato l'anno scorso in anteprima di tournée e non
abbiamo resistito alla tentazione di riproporvelo
quest'anno. Chi non lo ha mai visto è caldamente
invitato a non perderlo e chi lo ha già visto... non
potrà resistere alla tentazione di rivederlo!
Letizia forever è una donna sgrammaticata,
esilarante, poetica, semplice e complicatissima, dal
linguaggio dirompente. Ed è anche una musica,
Letizia forever, quella dei “fabulosi anni ‘80”.
A. Barrios: Un sueno en la floresta G. Regondi:
Introducion et caprice (Carlo Fierens, chitarra)
G. F. Händel: Sarabanda variata -D. Scarlatti:
Sonata K 380 -F. Tarrega: Capricho àrabe
Recuerdos de la Alhambra-A. Barrios: Vals (op. 8
n. 3) I. Albeniz: Torre bermeja(Federico Briasco, chitarra)
Pino Briasco: Menestrelli
(Carlo Fierens e Federico Briasco in duo)
13 Novembre 2014
Scrivere e i mestieri della scrittura
L’Assessorato alla Cultura e alle Politiche
Giovanili organizza il 13 novembre 2014, a partire
dalle ore 15, presso le Officine Solimano, una
giornata di studio e approfondimento sui mestieri
della scrittura. L'evento è organizzato da Scritture
s.a.s, è coordinato dalla scrittrice Emanuela E.
Abbadessa e ha come partner La Feltrinelli Point
Savona. La giornata vuole chiarire le idee a chi, per
un motivo o per l’altro, desidera avvicinarsi al
mondo della scrittura e dell'editoria. Inoltre, gli
incontri e i workshop in programma con
professionisti del settore saranno un’occasione per
confrontarsi e fare un primo passo nel mondo della
scrittura. Sono tanti i giovani e meno giovani che
sognano di diventare scrittori. Qualcuno ha già un
libro nel cassetto, altri immaginano di scriverlo ma
pochi si sono già affacciati al mondo del
professionismo o hanno avuto contatti solidi con
una casa editrice. Molti sono anche i ruoli e i
mestieri legati al mondo dell’editoria (dall’editor, al
correttore di bozze, al grafico…).
E’ un universo che non tutti conoscono: la filiera
che dal manoscritto porta fino agli scaffali delle
librerie incuriosisce e intimorisce al tempo stesso.
Sabato 15 Novembre ore 16,30
Piazza alla Maddalena 14 (a metà di Via Pia a ds)
Presso la Sede della Società Savonese di Storia Patria e
in collaborazione con essa presenteremo
Picchì, io, di mio, non la faccio troppo intelligente,
la gente, intelligente di capire la storia mia, voglio
dire, di capirla vera, ca la gente non è mai troppo
intelligente, per me, intelligente di capire
veramente le cose.
“Per le antiche strade” il nuovo, affascinante
viaggio dello studioso palermitano Salvatore Dalia,
frutto di una ricerca minuziosissima per ricostruire
la storia e la topografia della via “Palermo-Messina
per le montagne”, l’evoluzione del tracciato fino
all’abbandono, nei primi decenni del XIX secolo in
seguito alla costruzione delle prime strade rotabili
19
OFFICINE SOLIMANO
SALA RAINDOGS
Sabato 22/Novembre Ore 10.30
Cari Soci,
con un anticipo dovuto all’accumularsi di impegni
nei giorni che precedono il Natale, abbiamo
concordato di organizzare il pranzo degli Auguri
LA COMPAGNIA "I FUGGIASCHI "
NELL'AMBITO DELLA SETTIMANA CONTRO
LA VIOLENZA SULLE DONNE PRESENTA:
"ANCHE LE DONNE PERDONO
LE GUERRE...MA CERCANO LA PACE".
(con la susseguente assemblea) per
Sabato 29
Novembre ore 12,30
Anna e Giuse Cervetto presentano
i video amatoriali “Diario di viaggio”
presso il Ristorante
“Caboto” in Savona Via Caboto 25/R, di fronte
alla scuola media.
Come potete vedere, il menù prevede piatti classici
siciliani e di creazioni della cuoca Cristina ispirate
alla Sicilia.
La Tunisia non è solo quella delle vestigia delle
città dell’antichità come Cartagine, El Djem,
Sufetula o degli straordinari mosaici conservati nel
Museo del Bardo a Tunisi che abbiamo visitato
alcuni anni fa, ma anche quella affascinante del sud
con le ghorfas, il deserto, i villaggi berberi.
ANTIPASTO
Polpettine di sarde
Pomodori alla moda di Alessio
Involtino di pesce spada con caciocavallo
Alici marinate al limone
OFFICINE SOLIMANO
NUOVOFILMSTUDIO
PRIMO
Spaghetti alle sarde, zafferano, pane grattugiato
tostato, uva passa , pinoli
Sabato 22 novembre 2014 - ore 16.30,
in Sala “Vasé” : Tunisia del Centro Sud
A partire da
VENERDI 21 NOVEMBRE
Officine Doc Spazio al documentario !
SECONDI
Polpo al sesamo croccante
Pesce spada alla ghiotta
Nuovofilmstudio desidera ridare spazio e visibilità
al cinema documentario fondamento della storia del
cinema e testimonianza della realtà in continuo
mutamento.
Crediamo che il successo che i film documentari
hanno ottenuto ultimamente nei festival italiani
significhi necessità di riflessione sul mondo,
sull’agire dell’uomo e sulle dinamiche di una realtà
ormai sempre più complessa.
Ridare voce agli attori sociali nel loro quotidiano è
ridare forza all’esperienza; esperienza del reale
attraverso l’occhio di registi affermati e di autori
esordienti che con produzioni dal indipendenti, con
grandi sforzi, di dare voce ai piccoli mondi
universali. Per questo il Nuovofilmstudio propone
uno spazio articolato in due filoni: il primo dei
grandi nomi ed il secondo dei giovani esordienti che
con grande fatica operano per raccontare storie di
grande umanità.
DOLCE
Salame al cioccolato di Modica
Vino bianco: LA POLENA “DONNA FUGATA”
Rosso: NERO D’AVOLA “DONNA FUGATA”
Acqua, caffè
Costo complessivo € 30,00
.
Si prega di prenotare entro e non oltre
Lunedì 24 Novembre ai seguenti numeri:
Motta
Di Nicolao
Vallescura
339 6586248
349 5939652
333 9882570
Vi aspettiamo numerosi per scambiarci anche gli
Auguri che sin da ora facciamo a chi non potrà
intervenire.
Santuzzo
20
Scarica

sodalizio siculo savonese