2014 numero 10 Novembre Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. A fine settembre (durerà sino al 5 Novembre) grazie all’impegno del Delegato Regionale per la Liguria dell’Accademia Tiberina, e nostro Socio, Dr. Rosario Tuvé, è stata inaugurata alla Fortezza del Priamar la mostra del maestro boemo Vlastimil Košvanec Il nostro Assessore alla Cultura Elisa Di PADOVA il 5 ottobre scorso è diventata mamma di un neo Siculo Savonese. A u picciriddu GIULIO Augurissimi! ‘A mamma,’o papà e ai nanni:Felicitazioni ! Košvanec nasce nella cittadina di Krlin, oggi un sobborgo di Praga, il 14 dicembre del 1887 in una famiglia di umili origini. Dopo aver concluso gli studi al Liceo Imperiale Reale Superiore Ceco, si iscrive all’Accademia delle Belle Arti, dove diventa allievo del Professor Vojtêch Hynais e del Professor Vlaho Bukovac. Il periodo di formazione presso l’Accademia (1909 – 1912) risulta fondamentale per la crescita pittorica di Košvanec , così come i viaggi che lo condussero a visitare diversi Paesi europei quali Italia , Francia, Olanda, Austria, Germania, Iugoslavia, Montenegro, ecc. Gli anni che intercorrono fra le due Guerre Mondiali sono caratterizzati da crescenti successi per il pittore Ceco, che entra in contatto con le élite culturali della Praga del tempo. In particolar modo, a partire dal 1929, entra a far parte collaborando attivamente per dieci anni col gruppo di sinistra Umělecka Beseda, promotore di importanti eventi culturali, quali, per esempio la mostra di Carlo Carra’ del 1929, quella di Giorgio de Chirico del 1931 e quella dell’ Ecole de Paris dello stesso anno. Con la salita al potere del partito comunista nel dopoguerra, la fortuna di Košvanec viene meno; accusato di collaborazionismo, prima viene condannato e arrestato, poi incarcerato e costretto a pagare anche una multa ingente, e La nostra inarrestabile Segretaria a ottobre ha festeggiato UN COMPLEANNO IMPORTANTE Per l’occasione Enzo Motta ha composto: Cara Kiki, il tempo incalza E l’età, purtroppo, s’alza; ma tu riesci, con gran cuore a donare le tue ore: Segretaria al Pirandello, Panathleta di livello, allo Zonta, Fidapina ed ancor ..Crocerossina. Non ci acchiappo più una mazza, ma tu …..resti una ragazza. 1 successivamente viene espulso dall’Associazione degli Artisti Cechi. Tutti questi fatti, portarono Košvanec ad un totale crollo psichico e venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Nonostante tutte queste difficoltà, continuò a dipingere clandestinamente fino alla morte, avvenuta nel Novembre del 1961. C’è un elemento di unione che accomuna tutte le opere: si tratta della serenità e della gioia di vivere che pervadono le composizioni artistiche. Il pittore boemo vuole così raccontarci di un mondo lontano, quasi una nuova Arcadia, in cui le preoccupazioni e le sofferenze non influenzano i protagonisti delle opere. Košvanec sembra così fornire agli spettatori un messaggio positivo e di speranza, anche in periodi di grandi crisi sociopolitiche come quelli che caratterizzarono l’Europa della prima metà del XX Secolo. La regola fondamentale proposta dalla "Teoria della classi politiche" di Mosca è che alla modifica della "formula politica" consegue una modifica dell'organizzazione della classe politica. In altre parole, qualunque sistema politico si basa su di un consenso di fondo. Quando questo decade, ne consegue prima di tutto una modifica della "formula politica", atta ad un nuovo consenso. Parallelamente, avverranno adeguamenti sia nella composizione dei gruppi intellettuali e burocratici che formano la classe politica, sia nella sua forma organizzativa. Parlava di lotta di classe, non in senso marxista, ma come lotta fra due classi: quella che detiene il potere "materiale" (ovvero la "classe burocratica", che detiene il potere coercitivo) e quella che detiene il potere "intellettuale". Chi detiene il potere "intellettuale" aspirerebbe ad ottenere quello "materiale". A sua volta, chi detiene il potere "materiale" ha necessità di giustificarlo "mercé il sussidio di qualcuna almeno delle forze intellettuali o morali", e quindi mediante compromessi e concessioni al gruppo "intellettuale". L'insieme di questi due gruppi viene da lui definita come "classe politica". Mi sono incuriosito e ho trovato il seguente libretto. Prendetelo come un regalo di Natale anticipato e cominceremo a sfogliarlo insieme, a puntate. Ecco La PRIMA. A noi è piaciuto in particolar modo questo. CONTRO LE MAFIE CHE COSA È LA MAFIA I. Molto si è parlato e si è scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed un’attualità nuova. È strano intanto che si debba notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia, in tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale, ancora oggi raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla parola mafia vogliono indicare. Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da essi introdotto nel dizionario nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di fenomeni sociali, di anomalie della loro regione, che essi esprimono sinteticamente quando dicono la mafia, riesce così familiare, che quasi non immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata INCONTRI CON ILLUSTRI PERSONAGGI Girovagando fra librerie telematiche e non, mi sono imbattuto per caso in Gaetano Mosca (Palermo, 1º aprile 1858 – Roma, 8 novembre 1941) Giurista, politologo, politico e storico delle dottrine politiche italiane. E’ sua la seguente Teoria delle classi politiche In ogni sistema politico è possibile individuare: - Una "classe politica". Mosca la definisce come "l'insieme delle gerarchie che materialmente e moralmente dirigono una società". - Una "formula politica". Mosca la definisce come "la dottrina o le credenze che danno una base morale al potere dei dirigenti". 2 spiegazione, di un commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i nativi dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente distinguono. Or dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro linguaggio parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia intendono e vogliono significare due fatti, due fenomeni sociali che, quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono suscettibili di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali; e colla stessa parola vien indicato in Sicilia non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi. II. Il sentimento di mafia, o meglio lo spirito di mafia si può descrivere in poche parole: esso consiste nel reputare segno di debolezza o di vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale, alla polizia ed alla magistratura, per la riparazione dei torti o piuttosto di certi torti ricevuti. Sicché mentre generalmente è ammesso, anche da coloro che agiscono secondo le norme dello spirito di mafia, che il furto semplice, la truffa, lo scrocco ed in genere tutti i reati nei quali l’autore si aiuta esclusivamente coll’astuzia e l’inganno e non presume di esercitare una violenza e di avere forza e coraggio maggiore della vittima, si possono denunziare alla giustizia, ciò invece sarebbe interdetto da un falso sentimento di onore, o di dignità personale, quando il reato riveste il carattere di una imposizione aperta e sfacciata, di un torto, che il reo intende di fare specificatamente ad un dato individuo, al quale vuole far sentire la propria superiorità e col quale non cura di stare in buoni rapporti perché non ne teme l’inimicizia ed il rancore. Le offese all’onore delle famiglie, le percosse, le violenze personali, l’omicidio in rissa o per agguato sono tutti reati per i quali la denunzia alla giustizia è ritenuta dai mafiosi cosa sconveniente e vile, che porta con sé una specie di squalificazione cavalleresca. Ma non sono i soli: anche il taglio delle viti, l’uccisione del bestiame, l’abigeato e perfino la grassazione e il ricatto con sequestro di persona quando assumono, e ciò avviene spessissimo, il carattere di vendetta personale, di sfregio fatto ad un dato individuo, non sarebbero a rigore denunciabili; e, se si denunciano è pro forma, per mettersi in regola, come si dice in Sicilia, colla giustizia, ma senza in nulla agevolarla nella scoperta del reo, che invece spesso si conosce benissimo ed al quale si vuole fare sentire il peso della propria personale vendetta. Ed è qui da notare che il carattere di vendetta e di offesa verso una determinata persona è una vera specialità della delinquenza siciliana. Reati che altrove non avrebbero alcun movente personale, che sono ordinariamente perpetrati da rei professionali che scelgono indifferentemente per vittime tutti gli individui che si trovano alla loro portata, in Sicilia assumono la parvenza di una vendetta per un torto vero o supposto che il reo, o qualche suo parente od amico, avrebbe subìto da parte della vittima; ben inteso che spesso il torto accennato non è la vera causa ma piuttosto il pretesto del fatto delittuoso. È per questa ragione che gli Italiani del continente ed in generale tutti i forestieri che viaggiano od anche abitano in Sicilia sono quasi sempre rispettati dai malfattori, perché, non avendo il forestiero in generale rapporti con la classe delinquente, è difficile che contro di lui possa addursi il pretesto di una vendetta personale. È per la stessa ragione che gli stessi Siciliani che abitano nelle grandi città dell’isola raramente sono vittime di reati premeditati; giacché nelle grandi città ognuno può scegliere liberamente le persone colle quali vuole stabilire qualunque genere di rapporti ed i rancori personali più difficilmente si accendono e non trovano alimento nei contatti e negli attriti quotidiani come avviene nei piccoli centri. Stabilito il principio che per la prevenzione e la riparazione di una larga categoria di offese personali un uomo che vuole e sa farsi rispettare, è la frase tecnica, non deve ricorrere alla giustizia legale, ne viene la conseguenza che è lecito, anzi doveroso, ingannare le autorità, o almeno non dare ad esse alcun lume, quando vogliono intromettersi nelle contese private disturbandone lo svolgimento naturale coll’applicazione dei canoni del codice penale. Quindi filiazione diretta dello spirito di mafia è l’omertà, quella regola secondo la quale è atto disonorevole dare informazioni alla giustizia in quei reati che l’opinione mafiosa crede che si debbano liquidare fra la parte che ha offeso e quella offesa. E questa regola, che si applica anche alle vertenze fra i terzi, è la principale causa che induce nei processi penali i testimoni a diventare così spesso bugiardi o meglio reticenti. Perché nel Siciliano, anche che appartenga alle classi più misere e rozze, la vera bugia è rara ed egli difficilmente racconterà il falso, ma assai di frequente mostrerà di non conoscere o di non 3 ricordare il vero, che invece conosce e ricorda benissimo. Ho conosciuto persone anche colte dell’alta Italia che trovavano qualche cosa di fiero e di simpatico, o almeno di non completamente ignobile, in questo sentimento o spirito di mafia per il quale ogni individuo crede onorevole fidare nella sua forza e nel suo coraggio per respingere e prevenire le offese. Ma accade talvolta che anche una maniera di pensare e di sentire, i cui moventi non sono tutti ignobili, produca in complesso risultati dannosi, ed in questo caso bisogna avere il coraggio di condannarla energicamente e senza attenuanti. Or lo spirito di mafia è un sentimento essenzialmente antisociale, il quale impedisce che un vero ordine, una vera giustizia si possano stabilire ed abbiano efficacia fra le popolazioni che ne sono largamente e profondamente affette. Come vedremo più avanti, esso inoltre ha per ultima conseguenza l’oppressione del debole da parte del forte e la tirannia che le piccole minoranze organizzate esercitano a danno degli individui della maggioranza disorganizzata. Si potrebbe invece con più ragione osservare che lo spirito di mafia non è speciale alla Sicilia, che esso si è trovato e si trova in tante altre parti del mondo, dovunque la giustizia sociale si è mostrata o si mostra incapace a sradicare ed a sostituire del tutto il sistema della vendetta privata. Lo spirito di mafia infatti, molto attenuato, esiste ancora nell’Italia centrale ed attenuatissimo in quella settentrionale. Se il vocabolo che lo esprime nacque in Sicilia ciò avvenne perché colà, grazie a circostanze che si debbono forse ricercare nella storia del secolo testé morto o moribondo, la mafiosità è più radicata, più generale e profonda ed è diventata più disciplinata ed organizzata. Così avvenne che i Gesuiti diedero il loro nome al Gesuitismo, che essi non inventarono né sono i soli a praticare, ma che praticarono e praticano assiduamente e che coll’assidua pratica perfezionarono e coordinarono a sistema. Confidando che nessun lavoro sia destinato a durare, nessuno si sente motivato a imparare sul serio un mestiere. Tutti devono poter fare tutto, anche male, e il risultato è che nessuno sa più fare niente. Ma forse è il terzo risultato quello che alla lunga è destinato a fare più danni, perché funziona come una blindatura del sistema, che così può durare per decenni. Funziona così: il precario della pubblica amministrazione sa che deve essere grato a qualcuno per lo strapuntino lavorativo che è riuscito ad accaparrarsi. Il sistema di reclutamento è paramafioso, ripugnante per tutti: ma quello è. Il precario sa pure che se dovesse alzarsi, anche solo per un attimo, troverebbe il suo strapuntino occupato da qualcun altro. A questo serve l’apposito sistema di overbooking occupazionale. Per cui il lavoratore precario si guarda bene dal far sentire la propria voce. Per farsi sentire dovrebbe alzarsi, e non gli conviene. Si tiene stretta la miseria che ha nella paura di perdere persino quella. Ecco la trovata. Checché se ne possa pensare e dire pubblicamente, la stabilizzazione del precariato e la cultura del posto fisso sono arrivati a rappresentare per i detentori del potere regionale una jattura proprio perché sono il presupposto dell’infedeltà. Sentendosi garantito, il lavoratore potrebbe ribellarsi e mordere la mano che lo ha aiutato, quella stessa mano che fino al giorno prima aveva baciato con devozione. La moderna manutenzione del potere consiste nel lasciare il precario in uno stato di perenne incertezza. Un rinnovo di sei mesi, e poi un altro, e un altro ancora. Solo così viene stretto il legame che vincola l’elettore a una fedeltà continuativa. Basta un cambio d’assessore, una rotazione dirigenziale e tutto può cambiare. Il discorso implicito è: Noi siamo una sola cosa. Se cado io, cadi pure tu. Gratitudine Sospesa è ciò che spinge l’elettore di ieri a perpetuare anche domani il voto di scambio. Del doman non v’è certezza, se non nella stabilizzazione dell’instabilità. Il rapporto fra precario e benefattore somiglia a quello perverso che viene a crearsi talvolta fra ammalato e medico curante. In questo caso il paziente forse non sa che ad averlo fatto ammalare sono proprio le medicine che gli ha dato quel dottore. Se si fermasse a riflettere, sarebbe in grado di capirlo, o almeno di sospettarlo. Ma non si azzarda a cambiare medico. Né a sospendere le cure che il dottore gli ha prescritto. E d’altronde, quale autentica opposizione potrebbe chiamare, per un consulto? (segue…) GRATITUDINE SOSPESA (2°parte) di Roberto Alaymo ..I contratti a garanzia diminuita hanno dato un triplice pessimo risultato. Primo: dal punto di vista dei lavoratori, hanno compromesso il futuro delle ultime generazioni, in termini di mancata progettualità esistenziale. Secondo: dal punto di vista dell’utente, hanno disastrato l’ambito delle competenze. 4 che ho incontrato non sono state né poche né lievi. Avevo chiesto di andarci subito dopo le stragi che avevano causato la morte di Falcone, di Borsellino e di quanti erano con loro a Capaci e in via d'Amelio nel maggio-luglio 1992. Il Csm mi aveva "accontentato", ma qualcuno si era opposto perché… non sapevo parlare siciliano. Lo spiritoso sostenitore di questo singolare profilo non capiva che invece di una difficoltà sarebbe stato un vantaggio. Infatti, al momento del mio insediamento trovai una situazione disastrosa, ancora segnata dai corvi e veleni della stagione di ostilità e umiliazione che avevano dovuto subire in vita Falcone e Borsellino: e il fatto di non avervi avuto parte - declinazione della mia… non sicilianità - mi fu di aiuto nel nuovo lavoro. Fior di colleghi pretendevano che con questo o quello non si dovesse avere più niente a che fare. Per contro, riunii tutti e li invitai a guardare solo al futuro, facendo squadra insieme. Ne derivò una procura coesa e compatta, che seppe ottenere risultati importanti. VITA BLINDATA Quasi tutti, in procura, vivevamo sotto scorta. La scorta ti salva la vita ma nello stesso tempo te la cambia in profondo. Io vivevo con la scorta fin dal 1974, dai primi tempi dell'antiterrorismo. Chiedendo io stesso di essere trasferito da Torino a Palermo, dopo un chilometro e mezzo di autostrada polverizzata e dopo un quartiere di una capitale europea come Palermo trasformato in Beirut, sapevo benissimo che mi aspettavano misure di sicurezza quasi maniacali. Ma una vita da "prigioniero" vero e proprio, in ogni momento del giorno e della notte, senza poter fare niente di niente che non fosse deciso o approvato dai 12 ragazzi del Nocs della Polizia che costantemente e letteralmente mi circondavano, confesso che non me l'aspettavo. Comunque ho vissuto quasi sette anni "impossibili". La mia famiglia rimasta a Torino e mia moglie che cercava di "assistermi", le poche volte che riuscivo a tornare, caricandomi di monorazioni di pietanze congelate da stivare in freezer a Palermo. Una nipote nata nel luglio '95, che nei primi bellissimi anni della sua vita non ho potuto godermi per nulla (impensabile per qualunque nonno "normale"...). Con il costante incombere di gravi pericoli che senti, anche se non sai mai bene cosa stia capitando. Come quando, praticamente senza preavviso (solo il tempo, come nei romanzi, di afferrare dentifricio e spazzolino), dal palazzo di Palermo di otto piani, dove io - unico inquilino - abitavo in un bunker che Fort Knox era una bagatella, fui deportato fuori città ed "esiliato" nell'aeroporto militare di Boccadifalco. Non dimenticare Palermo "Nella partita contro la mafia lo Stato si è come fermato a undici metri dalla fine. Come se si dovesse tirare un rigore al novantesimo: ma invece di tirare, ci ha fatti rientrare negli spogliatoi". Dai successi contro la mafia all'alt della politica. Alla vigilia delle nomine del Csm, il pm del caso Andreotti racconta la Procura più dura d'Italia. di Giancarlo Caselli, L'Espresso, 19 settembre 2014 Stretta fra Cosa nostra (a lungo l'organizzazione criminale più pericolosa al mondo, rafforzata dalla complicità di personaggi "eccellenti") e l'irredimibile propensione della politica a delegare il contrasto della mafia - ridotta a questione di ordine pubblico - esclusivamente a forze dell'ordine e magistratura, ma con un'asticella (non tracciata ma ben individuabile) da non superare a pena di "scomunica", la procura di Palermo è sempre stata un ufficio "difficile": per le aspettative di cui è stata caricata senza adeguato sostegno, accumulando tensioni su tensioni destinate alla fine ad esplodere. Le difficoltà sono diventate choc e tempesta con le stragi del 1992. Poi vent'anni di alterne vicende. Oggi, di nuovo una situazione "difficile" per un concorso di fattori, a partire dal processo sulla "Trattativa", con un intreccio - nel capo d'accusa mai visto prima, fra boss, uomini politici e ufficiali del Ros. Un processo che ha registrato un inedito conflitto di attribuzioni sollevato dal Capo dello Stato verso la procura, sia pure (nelle intenzioni dichiarate) per tutelare il proprio successore. Senza precedenti è anche l'interruzione della procedura, in fase avanzatissima, che stava portando il Csm alla nomina come nuovo procuratore di un candidato degnissimo dato ormai per sicuro vincitore (sperando che non sia un'invocazione sterile che la conclusione della vicenda rimanga estranea ad ogni condizionamento, comprese le famigerate degenerazioni correntizie che purtroppo spesso affliggono il Csm). Nuovo è anche il caso di dichiarazioni torrenziali dal carcere (41 bis) di uno dei boss/imputati nella "Trattativa" che parla e straparla di tutto, processo compreso, aiutato da un co-detenuto curiosamente petulante. Infine, fa da robusta cornice al tutto la persistente centralità (soprattutto mediatico-politica: la Sicilia è sempre un serbatoio decisivo di voti) della questione mafia riferita all'isola, nonostante la forza crescente ed il dilagare della 'ndrangheta. IL VANTAGGIO DELLA NON SICILIANITÀ Quanto alla mia esperienza di capo della procura di Palermo per quasi sette anni (1993-99), le difficoltà 5 Forse perché si era saputo qualcosa di quel che anni dopo (nel corso di un'udienza del tribunale palermitano in trasferta a Torino) mia moglie presente fra il pubblico apprese dalla viva voce di Gaspare Spatuzza: la preparazione da parte sua, fin quasi all'esecuzione, di un attentato contro la mia abitazione di Palermo, con un missile che doveva essere sparato dal prospiciente monte Pellegrino. UNA MAZZATA DAL COVO DI RIINA Appena misi piede a Palermo venne arrestato Salvatore Riina. Avevo partecipato all'organizzazione della sua cattura negli ultimi miei giorni a Torino. I carabinieri di questa città mi avevano avvertito che un mafioso disposto a collaborare (Balduccio di Maggio) sapeva qualcosa di Riina. Avevo subito coinvolto il Ros di Palermo e informato, perché seguisse l'operazione, il collega Aliquò di quella Procura. Di Maggio non mentiva, e riuscì a fornire l'ultimo decisivo nodo alla rete che il capitano "Ultimo" aveva già steso intorno a Riina. Purtroppo la soddisfazione di tutti per questo successo fu rovinata dal fatto che i carabinieri del Ros (persino "Ultimo", autore materiale della cattura) insistettero perché la perquisizione già decisa dalla procura non si svolgesse immediatamente, in modo da poter realizzare operazioni di vasta portata già programmate. Così venne deciso, nella certezza che il "covo" sarebbe stato tenuto sotto costante osservazione. Invece, senza mai avvertirci, non fu disposta alcuna sorveglianza. Il risultato si sa: il "covo" fu impunemente svuotato dai mafiosi. Una vicenda grave e oscura. Per noi un'autentica mazzata. Che però - paradossalmente - ci servì come spinta per darci dentro ancor di più e superare anche questo perverso, inaspettato ostacolo. Difatti, se le stragi avevano fatto correre all'Italia il pericolo di essere risucchiata in un buco nero, la procura di Palermo contribuì fortemente ad invertire la tendenza. Una serie infinita di pericolosi latitanti, mafiosi di primaria grandezza criminale, finalmente catturati. Beni per diecimila miliardi di vecchie lire confiscati ai boss: una piccola finanziaria, base dell'antimafia sociale, con la dimostrazione che la legalità conviene. Davanti ai nostri uffici c'era la fila di "pentiti" che volevano collaborare (diceva Falcone che ci si pente solo quando ci si fida dello Stato). Grazie a loro, prove su prove riscontrate in processi con 650 ergastoli e secoli di carcere inflitti all'ala militare di Cosa nostra. Scoperti arsenali da fare invidia ad un esercito regolare. Armi micidiali - anche lanciamissili e lanciagranate - tolte ai corleonesi impedendo che altro sangue scorresse. Sembrava fatta: la mafia ormai stretta in un angolo. Pensavamo di averla irreversibilmente isolata. Invece dopo un paio d'anni qualcosa cominciò a mettersi di traverso. E imparammo che finché indaghi su Riina e soci vai bene. Ma quando ti affacci anche al livello delle possibili complicità con politici, imprenditori, medici, insegnanti etc. la musica cambia e cominciano i guai. Qualcuno ti mette i bastoni fra le ruote. E preferisce perdere una guerra che si poteva vincere pur di inceppare un accertamento di responsabilità che oltrepassi l'asticella dei mafiosi di strada, sanguinari e perciò indifendibili. Insomma, lo Stato - nella partita contro la mafia - si è come fermato a undici metri dalla fine. Come se si dovesse tirare un rigore al novantesimo: ma invece di tirare, ci ha fatti rientrare negli spogliatoi. ARRIVA BERLUSCONI E CAMBIA IL VENTO Lo storico Salvatore Lupo ha scritto che già nella campagna elettorale del 1994 (vinta da Silvio Berlusconi) partì "un attacco alla legge sui pentiti". Se fosse stato solo un problema di consenso, nessun uomo politico avrebbe azzardato operazioni di questo tipo. In realtà furono operazioni "per il futuro, perché c'è bisogno di mafia". Sta di fatto che dopo un paio d'anni in cui avevamo respirato un'aria esaltante, fummo costretti a subire attacchi e calunnie organizzati (in particolare dagli ambienti di centro-destra) con volgarità e protervia spesso davvero incivili. Sul banco degli imputati, al posto dei mafiosi e dei loro complici, ci finimmo noi. Ed ecco un classico: l'azione antimafia - in quanto scomoda per certi interessi - viene stravolta e falsamente accusata di essere azione "politica", ispirata da una fazione in danno di un'altra. Si avvertiva in giro una gran voglia di "normalizzazione". Anche il centrosinistra finì per dileguarsi, se è vero - lo sostiene Paul Ginsborg - che dal 1996 in poi "uno scarso entusiasmo del potere politico" accompagnò gli inquirenti palermitani, con la conseguenza che "la questione della mafia e della magistratura più esposta non diventa una priorità nell'azione di governo". Certamente non ci giovò l'accertamento di forme di compartecipazione delle strutture economiche denominate "cooperative rosse" nel sistema di 6 condizionamento politico-mafioso degli appalti. Accertamento che gli ambienti di centro-destra hanno dolosamente ignorato, forse perché incompatibile con la falsa etichetta di "comunisti" che amavano appiopparci. ANDREOTTI,DELL'UTRI:LA VERITÀ NEGATA Il primo, chiarissimo segnale che le cose stavano cambiando si manifestò nel 1995 con l'incriminazione di Francesco Musotto, presidente della provincia di Palermo. Prima ancora di poter conoscere anche solo il colore della copertina del fascicolo (perciò con evidente pregiudizio ostile), venne organizzata davanti al palazzo di giustizia una contestazione della procura con "Forza Italia" e Gianfranco Micciché in testa e l'avvocatura in toga. Una piazzata. Niente in confronto a quel che succederà col processo Andreotti: una vera gara nello stravolgere la verità e nell'aggredire i pm di Palermo, pigmei a fronte di tanto imputato. David Lane ha scritto che "i politici e i media hanno raccontato un'altra storia, come se la suprema Corte avesse detto che (l'imputato Andreotti) era innocente: "un messaggio chiaro, che piace ai mafiosi". Un copione simile si è ripetuto per il processo Dell'Utri, scandito dalla beatificazione dello stalliere Mangano come "eroe" e dalla denigrazione dei pm, accusati delle peggiori nefandezze, partecipi di un complotto politico-mediaticogiudiziario, asserviti agli interessi di chissà chi, omuncoli da "periziare". Lo scopo evidente di queste campagne è di "sbianchettare", cancellandoli, i gravi fatti e le responsabilità che stanno a base delle due sentenze. Operare in questo modo equivale a legittimare - per il passato, ma pure per il presente e per il futuro - un modo di fare politica che contempla anche rapporti col malaffare, persino mafioso. Stracciarsi le vesti se non si riesce a sconfiggere la mafia è ipocrita, se non si ragiona sui rapporti tra mafia, politica e imprenditoria (fino alla "Trattativa") partendo dalla realtà torbida e sconvolgente che proprio le due sentenze rivelano. Quanto poi alla "Trattativa", nei miei sette anni di Palermo non ne ho mai saputo nulla. Il processo appena cominciato dirà come sono andate le cose. Certo è che i pm che hanno svolto l'inchiesta hanno dimostrato grande coraggio e spirito di servizio nell'inoltrarsi in un labirinto di cui non potevano ignorare le insidie, lasciandosi guidare unicamente dal dovere di ricercare la verità secondo legge. Gli attacchi concentrici cui vengono sistematicamente sottoposti sono del tutto ingiusti e ingenerosi. UNA LEGGE CONTRO DI ME Tornando alle campagne sui processi Andreotti e Dell'Utri, non posso dimenticare lo spudorato corollario del "tradimento" del metodo Falcone che la procura avrebbe perpetrato. Un'accusa ridicola, formulata con la tecnica di parlar bene dei morti per meglio aggredire i vivi; smentita dall'esito in Cassazione dei due processi, esito a fronte del quale chi aveva strillato al "tradimento" avrebbe dovuto vergognarsi, ma non l'ha fatto. E dire che proprio a causa del processo Andreotti ho dovuto pagare un prezzo inaudito: essere scippato del diritto di partecipare al concorso per la nomina a procuratore nazionale antimafia con una assurda leggina "contra personam" (la mia), che ha cambiato le regole a partita ormai quasi conclusa e che la Consulta dichiarerà incostituzionale. Ma ormai i giochi erano fatti, senza che dal Csm o dal candidato che si era vista spianata la strada da un'ingiustizia ai miei danni si fosse levata una qualche voce di dissenso. Anche grazie a questa legge ignobile e meschina, ero consapevole che nessuno - solo perché hai sudato sette camicie per fare il tuo dovere - può pensarti come... avvolto nel tricolore. Ci mancherebbe! Non immaginavo invece che un'esperienza così dura e intensa potesse lasciare spazio al dileggio offensivo, com'è invece accaduto in una "clip" del film di Sabina Guzzanti sulla "Trattativa". Infine, tra gli "eventi" del mio periodo palermitano un posto di assoluto rilievo spetta ad un interrogatorio del 23 ottobre 1993. Un mafioso di Altofonte arrestato per più omicidi, Santino Di Matteo, aveva chiesto di parlare con il procuratore di Palermo. Quando mi sedetti di fronte a lui, la prima parola che mi disse fu «Capaci». Il 23 maggio del '92 era lì. Verbalizzai per sei ore le sue parole, la prima confessione di uno degli esecutori materiali dell'"attentatuni", la ricostruzione precisa in ogni dettaglio della strage, decisiva per il successo delle indagini. Un successo avvelenato dalla vendetta nazista di Cosa nostra, che il 23 novembre rapì il figlio di Di Matteo, Giuseppe, di appena 13 anni. Dopo una prigionia di 779 giorni di maltrattamenti e torture il ragazzino fu strangolato e sciolto nell'acido dagli uomini di Giovanni Brusca. La stessa rappresaglia successe a Torino nel 1981, quando le Brigate rosse rapirono e giustiziarono Roberto Peci per "punire" il fratello Patrizio, capo colonna torinese, che aveva rivelato - in un interrogatorio da me condotto - tutti i segreti dell'organizzazione. Non sempre è vero che la storia non si ripete. 7 PROVERBI E MODI DI DIRE Il pensionato proprietario a sorpresa: “Non cedo gratis la Scala dei Turchi” Il luogo comune tradizionale scandalizza l'uomo moderno. Il libro più sovversivo nel nostro tempo sarebbe una raccolta di vecchi proverbi. Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, 1977/92 Agrigento, battaglia con il Comune dopo la scoperta: “È un’eredità di famiglia” È perfino troppo facile evocare Totò che cerca di vendere la fontana di Trevi ai turisti. Facile e improprio. Perché se il principe De Curtis impersonava un simpatico truffatore, qui a Realmonte - un pugno di chilometri da Agrigento c’è un signore che ha tutto il diritto di sventolare sotto il naso della Regione il foglio di mappa catastale numero 23, dove c’è scritto che «le particelle 334-335-336» sono tutte sue. Peccato che quelle particelle corrispondano alla Scala dei Turchi, la scogliera di marna bianca più famosa d’Italia, celebrata da Camilleri, candidata a diventare patrimonio dell’Unesco. Di proprietà, oggi, del dottor Ferdinando Sciabarrà, 67 anni, dirigente della Camera di Commercio in pensione ritiratosi in una casetta in campagna a contrada Scavuzzo. Il quale ha già detto al sindaco Pietro Puccio che non ha alcuna intenzione di cacciare i turisti dalla sua scogliera. E non facilmente la cederà gratuitamente al Comune, come l’amministrazione gli ha chiesto. «Non ho mai impedito di entrare a nessuno e così sarà in futuro, ma prima di fare qualsiasi mossa devo parlare con i miei avvocati», ha aggiunto. Nei prossimi giorni incontrerà di nuovo il primo cittadino. Già. Come conferma la cugina Enrichetta Sciabarrà, «quelle terre sono nostre da sempre, le abbiamo ereditate dagli antenati, una storia che si perde nella notte dei tempi». Peccato che il Comune ne abbia avuto contezza soltanto adesso, quando a fianco di Legambiente si è messo al lavoro per redigere un piano di gestione della Scala dei Turchi che prevedesse anche un ticket d’ingresso. Una decisione nata dall’assedio alla scogliera, erosa dal mare, depredata da ladri e turisti che portano via pezzi di marna considerati un toccasana per la pelle. Prima mossa, quindi la richiesta di cessione del tratto di costa alla Regione, a fronte del pagamento di un canone. «Ma è bastato guardare le carte - dice il sindaco - per accorgerci che la linea demaniale si interrompe proprio davanti alla Scala dei Turchi, dove comincia una proprietà privata che dalla campagna si estende fino agli scogli. Gli accertamenti successivi hanno confermato quello che da tempo in paese si sa, cioè che la scogliera di marna appartiene a Ferdinando Sciabarrà, proprietario anche dei terreni confinanti. Una persona perbene, non certo uno speculatore». Gabbu ‘un ti fari e meraviglia no, ca lu ‘gabbu’ arriva e la gastima no. Gaddu o senza gaddu Diu fà jornu e senza lu tò crivu spagliu e cernu. Gghiustu dici lu muttu anticu: cu perdi la libirtà perdi l’amicu. Giugnettu lu furmentu sutta lu lettu. Giuramenti d’amuri e fumu di ciminia,l’acqua li lava e lu ventu li carria. Giustizia e focu…datici locu. Guadagnu luntanu….resta pi la via. Guai e ‘tacch’ d’ogliu. Gula di monacu e pitittu di parrinu. Haju raggiuni e mi la manciu squadata. Jetta simenza ca Diu ci pensa. Jinchi la panza e d’inchila di spini. Jnnaru fà lu piccatu e maju nnè ‘ncurpatu. Jnnaru ortulanu: tanta paglia e picca granu, jnnaru siccu….burgisi riccu, quannu dicemmiru lassa lu lippu. Jnnaru mezzu duci e mezzu amaru. Jnnaru teni li frutti ni lu sularu. Jnnaru vagnatu….burgisi cunsumatu Jri cu li jta ‘ntall’occhi. Jttatu ‘ntà un funnu di lettu Ju li canzuni mei mi li cantavu, cù veni appressu si canta li so:. In ogni casa, sia povira cà ricca, si cumanna Eva, certu Adamu pecca. Inchirisi la vucca. Irisinni di canterchiu. Iu mi manciu li cipuddi e a tìa t’abbruscianu l’occhi. (quest’ultimo detto fa il paio con): “A iaddina fa l’ovu e au iaddu c’abbrucia u culu.” 8 società in cui agirono. Una parabola locale che si fa trama di una grande storia.Il Professore Rosario Mangiameli (ordinario di Storia Contemporanea presso il dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università degli Studi di Catania), l’ ha così definito : «il testo è indubbiamente di collocazione europea perché analizza i collegamenti tra la Sicilia e tutta l’Europa». Il Professore Domenico Ligresti (ordinario di Storia Moderna presso il dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università degli Studi di Catania) ha tratteggiato il tema generale della storia della nobiltà, a partire dall’ immagine negativa della nobiltà veicolata fino a pochi decenni fa. Essa fu invece classe dirigente della Sicilia per parecchi secoli, radicata in campagna e in città, presente in politica, nei commerci, negli affari. Una nobiltà che fu parte integrante dell’impero spagnolo, una nobiltà europea. «Testo molto accattivante» ha definito il volume il professore Giovanni Brancaccio (ordinario di storia moderna presso l’università di Chieti) . A suo parere il testo offre una dimensione di particolare risalto in relazione alla storia istituzionale, economica, sociale, politica, tracciando un excursus di più secoli. La storia del mezzogiorno non può essere intesa riduttivamente come storia regionale. La storia del regno di Napoli e di Sicilia si inserisce a pieno titolo nella storia d’Europa. Particolare merito scientifico del lavoro della Calabrese è la ricerca d’archivio completa ed originale. Un errore? Uno scherzo? «No - aggiunge il sindaco - la distanza dei 150 metri dal mare vale per l’inedificabilità, ma la linea demaniale è un’altra cosa. Solitamente segue la linea dell’onda, è facile tracciarla quando c’è una spiaggia, ma qui c’è una parete rocciosa a picco che è stata considerata parte del terreno retrostante. Non è un caso unico, qui molte altre scogliere sono di proprietà privata. Anche se i privati non possono farsene nulla, per via dell’interesse pubblico e per i vincoli ambientali». Un paradosso. Siamo ad Agrigento, infatti, terra di Pirandello. laura anello x gentile concessione de LA STAMPA L’EPOPEA DEI RUFFO DI SICILIA di Maria Concetta Calabrese Editori Laterza Un libro che non è solo storia dei Ruffo, ma attraverso questi, storia della “grande” Messina del Cinque e Seicento , storia dei suoi legami culturali, politici ed economici ,per esempio con i finanzieri genovesi Raggi, immortalati dai dipinti del Van Dych. Grandi personaggi i Ruffo di Sicilia, uomini e donne. Questo libro racconta la loro storia che si dipana dalla Calabria alla Sicilia, da Messina a Madrid, a Malta e a tutto il Mediterraneo, teatro di traffici commerciali, di relazioni economiche, di scambi culturali e di opere d’arte. L’epopea dei Ruffo di Sicilia è il risultato di un decennale lavoro attraverso archivi italiani ed esteri. Il testo arricchisce la collana di Editori Laterza Percorsi con la biografia di Antonio Ruffo, principe della Scaletta, collezionista nella Sicilia del Seicento, il più importante esponente del ramo isolano della sua casata, uno straordinario personaggio in cui si coniugavano prudenza in politica, abilità negli affari, notevole ricchezza, grande passione per l’arte, originalità di gusti e profondità d’interessi. Accanto a lui, il nipote Giacomo, visconte di Francavilla, allievo e sodale di Giovanni Alfonso Borelli e Marcello Malpighi, fu un intellettuale e uno scienziato curioso di leggere, come lo zio, nel “gran libro della Natura” ogni espressione di arte e di scienza. La vicenda dei Ruffo si inquadra in un percorso di studio dei casati nobiliari che, dal Piemonte alla Sicilia, è ormai considerato essenziale per interpretare i processi storici e i meccanismi delle Agira sullo sfondo il lago Pozzillo, oltre l’Etna 9 utilizzata nei duelli d’onore tra pastori o contadini, ma spesso coinvolgeva anche ricchi proprietari terrieri, affascinati da questa nuova arte sia perché permetteva di difendersi da un coltello, sia per semplici scommesse. Poi, con l'avvento delle armi da fuoco, la funzione di difesa del bastone venne a mancare, ma restò il suo impiego nei duelli d'onore. Oggi il bastone è presente soprattutto nella Sicilia orientale, a livello di arte tramandata da padre in figlio, da amico ad amico, sui monti e nei luoghi scarsamente popolati, dove ancora i giovani non sono distratti dai problemi della società industriale. Il bastone siciliano comprende vari stili denominati "Tirata". La tirata ruotata e la fiorata sono tra i più diffusi. Un'altra scuola collocata geograficamente nell'area di Messina, usa il bastone con una sola mano, come un fioretto, ma non è ritenuta molto efficace perchè nelle parate c'è il rischio che il bastone cada di mano. Nelle scuole maggiori, invece, il bastone è maneggiato con due mani, con movimenti rotatori continui chiamati mulinè e solo occasionalmente è utilizzata con tecniche offensive di stoccata, con una sola mano. Il mulinè eseguito a due mani, difende tutta l'area intorno al corpo (un po' come un'elica), tenendo lontano gli aggressori. Questa fase difensiva è completata da attacchi alla testa, colpi laterali al viso, puntate allo sterno, alla gola ed al basso ventre, tutti mortali. La tirata insegna anche un suo particolare modo di spostarsi e camminare, assecondando appieno la tipologia del terreno su cui ci si trova (campagna, pavimento di piastrelle, sabbia, selciato bagnato etc...), spesso richiama la danza e s’ispira ai movimenti dei pupi siciliani. Tirata vuol dire combattimento. Un elemento importante di questa scuola è il figurismo: una sequenza obbligata di figure (posizioni) che anticipano il combattimento, rendendolo il più difensivo possibile ed al contempo ne caratterizzano lo stile adottato. Si sa per certo che esiste una versione napoletana del Bastone che differisce dalla versione siciliana per la sua misura ridotta e per la tecnica che privilegia colpi a corto raggio, corpo a corpo e chiusura. Si utilizza molto per comprimere alcuni punti dolorosi del corpo che paralizzano letteralmente chi li subisce. Nella scuola napoletana non vi sono tecniche spettacolari (vedi i maneggi del bastone siciliano). Utilizzare il bastone napoletano è un po' come maneggiare un coltello. Oggi l’arte del bastone è conosciuta con il nome “Liu-Bo”, dal cinese “bastone di Leo”, in onore del maestro Letterio Tomarchio, che è riuscito a farla diventare un’arte marziale famosa e riconosciuta. Il sig. Tomarchio insegna il Bastone siciliano nella Il Bastone Siciliano (‘U Vastuni altrimenti detto ‘A Paranza) Chi afferma che le arti marziali provengono esclusivamente dall’Asia o che le vere tecniche di combattimento, dai nomi incomprensibili ed altisonanti, devono per forza essere padroneggiate da uomini con gli occhi a mandorla come spesso si vede in TV, ha torto. Siamo in Sicilia, intorno all’anno 1200 d.C. e fa le sue “prime mosse” quella che sarà l’unica arte marziale sviluppatasi in Italia e forse anche una delle più antiche d’Europa (anche se la mia scarsa conoscenza del settore non mi suggerisce nessuna arte marziale nata nel Vecchio Continente, escludendo la S’Intrumpa sarda). Il bastone è lungo circa 1,20 metri, ed è ricavato da legno d’ulivo, arancio amaro, sorbo o dalla rossella, raccolto in precisi periodi dell’anno. La lavorazione prosegue ed il bastone è trattato e passato al fuoco per essere pulito, raddrizzato e asciugato. Lo strumento finale è molto leggero ed al contempo resistentissimo ai colpi più duri, anche se sbattuto violentemente sul cemento. Esso può avere dei noduli molto consistenti che sono utilizzati per fratturare la zona ossea colpita in piccoli punti specifici. Mi raccontavano da piccolo che il bastone per essere ultimato, era messo a stagionare per un certo periodo sotto il chiaro di luna; una volta completo, un colpo ben assestato era capace di spezzare la lama di una spada. Un’altra leggenda narra del viaggio di un Re, la cui scorta fu attaccata da un’orda di banditi, mentre si trovava in una zona impervia della Sicilia; proprio quando la guardia reale stava per avere la peggio, ecco che scende dai monti un pastore armato di bastone, che sbaraglia e mette in fuga gli assalitori. Questa disciplina di combattimento è stata da sempre utilizzata da contadini e da pecorai come strumento di lavoro e come arma di difesa contro occasionali assalitori, o animali selvaggi. Inizialmente non esisteva una tecnica ben definita, che andò delineandosi nel 1600 e fu da subito 10 vanta un numero sempre maggiore di allievi che la praticano, con uomini e donne che possono misurarsi insieme essendo uno sport di abilità e non di forza, queste tecniche sono state sviluppate grazie agli antichi insegnamenti di Vito Presti. Il 14 Maggio 2006, il fondatore di questa disciplina come sport, Letterio Tomarchio, in collaborazione con la famiglia Presti, ritenne opportuno realizzare una competizione in memoria di Vito Presti, svoltasi al Palalberti di Barcellona, in segno di stima e profondo rispetto nei confronti del compianto maestro. -------------- sua palestra di Catania ed ha aperto anche un sito internet: http://www.liu-bo.it/ Racconta dal suo sito: "Un giorno mio padre, mentre eravamo riuniti in famiglia, mi raccontò che da giovane anche lui aveva imparato le tecniche che servivano come arma di difesa e offesa cavalleresca, il "bastone siciliano". Lo pregai di farmi vedere qualcosa, e m’illustrò alcune tecniche che ricordava. Notai subito, oltre al lato spettacolare, che mio padre, all'età di circa sessanta anni, con un manico di scopa, annullava tutti gli attacchi che io, giovane, insegnante di Judo e conoscitore di Jujitsu, Karate, Aikido, tentavo di portare". Mi ricordo, da piccolo, le chiacchierate con i miei amici, seduto sulle panchine dei giardini; si finiva sempre con il parlare ‘do Vastuni. Qualcuno di noi amava raccontarci di paesani insospettabili, scoperti ad allenarsi di nascosto con il bastone e quando capitava di incontrarne per strada, uno di noi bisbigliava a labbra chiuse: "’U viri chiddu? Sapi u Vastuni!". C’era poi chi si vantava di aver assistito ad un vero e proprio combattimento: una persona, armata unicamente di bastone, vinceva contro tre. La rissa, concludendo, in una manciata di secondi era già finita. L’arte del bastone si tramanda solo da padre in figlio, o al massimo verso qualche “figlioccio” fortunato che è stato preso a cuore dal maestro. Dopo questa storia, mi è tornata la voglia di imparare a maneggiare il bastone, ma qui al nord nessuno lo conosce. Chi vive nella zona nordorientale della Sicilia, può andare direttamente nella palestra del signor Letterio Tomarchio, mentre chi si trova nel sud continentale, soprattutto nel reggino e nel napoletano, deve informarsi presso vecchi pastori o contadini, chissà che non incontri un maestro di bastone. Bastone siciliano: l'antica arte siciliana della paranza, cioè del maneggiare il bastone ('u vastuni) sia per attaccare che per difendersi, deriva da una tradizione dei pastori, in secoli passati anche per difendersi dai briganti. Un autorevole maestro di bastone siciliano fu il pastore, poeta e scultore Vito Presti, di Barcellona Pozzo di Gotto. Bastone genovese: si pratica con un bastone corto (di origine ottocentesca) di circa 90 cm di lunghezza e con un bastone lungo di circa 120-130 cm di lunghezza. Il materiale adoperato per i bastoni da allenamento è il rattan, non facilmente scheggiabile. Oggi il “LIU-BO Bastone Siciliano” (così è stato battezzato) è uno sport nazionale ufficialmente riconosciuto dal CONI. Questa disciplina è stata una delle più ammirate alle ultime Universiadi, e Dal nostro corrispondente salentino, l’amico Pierluigi Camboa Verso il “De Finibus Terrae” La primavera batteva le delicate nocche sull’uscio d’un inverno sempre più breve e sempre più mite. Calpestavo senza una meta precisa la sabbia nerastra e i ciottoli levigati di una piccola e deserta insenatura del Salento. Avanzavo lenta, con lo sguardo perso nel cielo d’un azzurro tenue ed infinito. Mi precedeva l’opaca ombra dei miei confabulanti pensieri, che marciavano a passo spedito, congedandosi dal mio corpo, in una sempre più marcata dicotomia. Il presente non c’era, non aveva senso: la mia mente si era librata in volo libero nello spazio e nel tempo, altalenandosi tra il passato e il futuro. Non ero mai stata, prima d’allora, nel Salento, ma percepivo come uno strano ed insistente déjà vu. Un pensiero sortito dal nulla: la campagna salentina e il suo volto sorridente. Non riuscivo a definire nomi, date e contesto, ma mi tornavano ben chiari alla mente i miei sogni… Il mare: le poetiche coste, un incredibile miscuglio di inaccessibili rocce scoscese e di immense spiagge tropicali, che per millenni erano state solo terre insalubri, malsane, malariche paludi. E mi venne alla mente il grande, distratto filosofo de “Le nuvole” di Aristofane, inzaccherato fin sopra le ginocchia, alla ricerca di nuovo sapere… E poi, con un volo pindarico, il pensiero di spostava sul dialogo intorno al dualismo manicheo immanente nell’uomo (e nella donna)… E, per finire, mi tornava alla mente il suo sorriso, spontaneo e suadente… Il fuoco ormonale della maturità mi aveva obnubilato del tutto la mente, tenendomi celata la spontanea, congenita poesia del Salento. I giovanili epidermici entusiasmi mi avevano impedito di coglierne l’evidenza. Non ero riuscita, quando sarebbe stato semplice, ad alimentarmi della sua anima e girovagavo come un ectoplasma intorno al giardino metafisico dei miei rimpianti, dove l’unico suono che riuscivo a 11 coacervo di suoni, d’arazzi e d’olezzanti effluvi dagli alambicchi di rame, tra gli orci di terracotta delle friselle di semola e d’orzo e le untuose latte di stagno ricolme dell’olio appena spremuto. Torme d’efelidi sui glabri volti celtici dei castellani candivano ieratiche ipocondrie all’insolito, melenso suono delle pastorali fistole, nella terra schizoide e mistica della dionisiaca danza della pizzica sostenuta dalla frenesia dei tamburelli. Ascetici conventi e compassati castelli, spettrali gemme in un castone di tufi plebei, chiosavano fieri sulla loro nobile storia nelle aride terre degli Ottomani, del griko e dei Messapi. Le chiese-madri dei villaggi e delle città, come le sinagoghe e i minareti, si stagliavano alte nel cielo, oasi di pace e di preghiera per un Dio infinitamente buono nelle funzioni religiose, ma nella vita di tutti i giorni ferali testimoni di nemesi e d’odio per un dio minore, convitato di pietra astioso e violento, perché ideato e assemblato dall’uomo a sua immagine e somiglianza, orpello d’un lucido calcolo d’un sempre meno ondivago odio e livore. Sul muricciolo del porto, come in un qualsiasi lungomare d’Italia, si incrociavano gli insipidi commenti sul nulla, tra le fanatiche, isteriche, compulsive ovazioni delle masse ai salapuzi della politica condannati, ma invano, al silenzio e agli strepitanti urlatori dei concorsi musicali; più all’interno, negli oscuri spazi della rete, come schizzati fuori dalla fiaba di Pinocchio, una coppia di diarchi menagrami, profferendo fosche profezie di morte, ottundeva la mente della gente, che si prostrava in ginocchio al cospetto dei nuovi satrapi della rivoluzione cosmica e all’antico, ma sempre attuale paradigma dell’avere e dell’apparire, incapace di prestare ascolto alla ragione e refrattaria a qualsivoglia resipiscenza ascetica sulla via di Damasco. Un esotico, arcano tubero, in apatica combustione nel vetusto turibolo d’un metallo ignoto, diffondeva mirabili effluvi allucinogeni nella bucolica aria vespertina all’ombra della grande vallonea, mentre il lontano, logoro, ventoso crinale salmastro si rendeva indistinto allo sguardo e alla memoria. Nella città dei tre casali, in ascetico bivacco, un errabondo pellegrino girovagava tra i vetusti manieri dei versi orfici e del sangue vivo, nel compassato e melenso ricordo del tempo che fu. Sul ciottoloso selciato dei poetici vicoli dell’antica contea diocesana, quella con il bel profilo araldico d’un’alata croce latina, si percepiva ancora l’eco del passo lieve del grande don Tonino. Dopo il ponte dei corvi e dei deliri, l’inaccessibile scogliera si perdeva nel nulla della fine, tra le preghiere semplici d’una Maria in attesa. Dall’alto del crinale intravidi, nei pressi di Felloniche, percepire era il vento. Avvertivo forte la necessità di confessare, a quella sconosciuta terra, ciò che provavo, ma che non ero riuscita ancora a decodificare. Il viaggio era appena cominciato e mi restava ancora tanto tempo per rimediare, per fortuna. Mi fermai ad osservare e ad ascoltare. Non le forme, ma l’essenza. Le candide falesie di Sant’Andrea, sferzate di giorno dalle onde e dal rigido maestrale, filtravano nel placido tramonto la lirica eco della dea del mare. La perfida sabbia della semiluna idruntina mi schizzava violenta fin dentro il guscio degli occhi, oscurandomi la visione degli spettri alati delle aquile d’Albània. Una vela all’alba, poco al largo della Palacìa, solcava libera, fiera e solitaria un mare svogliato e ancora sonnacchioso, che si perdeva all’orizzonte nel grigio giogo della nebbia, lasciando però trasparire il profilo d’un gabbiano scomparso che proiettava la sua ombra spettrale sulle schiume maestose, fruscianti in lontananza, nel suo arabescato e libertario volo, senza fine e senza fini. Come già accadde ad Enea e al figlioletto Iulo, i pini del Fortino, sventrata la roccia attonita, elargivano un frondoso rifugio al principe del Cònero e alla sua piccola, garrula tribù. Superato l’abisso di Malepasso, dopo una tortuosa china verso il mare, s’aprì poi il monte ed ingoiò la plutonica Cesarea, tra nugoli di mefitiche giallastre essenze sulfuree, mentre decine di elicoidali pergami d'ammonite s'adagiavano pigri sugli stupiti, esterrefatti lemuri malgasci, al cospetto degli assurdi arabeschi di Palazzo Sticchi. Altalenanti rugiade s'affastellavano sul capezzale del fioco vento, sfiorando con le dita i turgidi capezzoli dell’asina in calore. Un inatteso gelo d’ardesia si pose a bivaccare ad una spanna dall’uscio in impaziente attesa della nitida catarsi, avvisata dal capzioso, ozioso commiato della notte al primo baluginio d’oriente, sulla deserta torre di Porto Miggiano. Gli zìnzuli della grande grotta cupa si offrivano come idoli pagani al culto apotropaico di vetusti esorcismi messapici. Dalla città alta, due donnine in nero, all’uscita dalla funzione vespertina, si segnavano rapide il viso con la croce al cospetto dell’orribile squarcio dabbasso tra i vecchi tufi di Castro, enorme diabolica piaga nel costato dell’ameno villaggio, nel lugubre silenzio d’un gemebondo, seppur diafano, crepuscolo, mentre il draconiano distico espunto dell’elegia ballonzolava a tentoni nella semi-oscurità dell’incombente notte marina, tra le osterie dei mosti e delle beghe, sovrastate dal discinto discettare dell’ubriaco-re. Tra le riarse terre degli ulivi contorti giacevano recondite le fastose masserie degli Oscar, in un 12 l’ultima, solitaria foca monaca chiedere invano un passaggio agli insensibili avventori in uscita dal Tatanka, dopo la classica sorridente foto-ricordo di gruppo sullo sfondo del verdeggiante blu dell’oltremare. Il re di cuori comparve all’improvviso dalla parte inattesa e, mentre mi colpiva a morte con il suo gelido gladio, lo vidi svanire irridente, sfuggendo la sua mano dalla mia… Di lui mi restò solo (e per sempre resterà) il ricordo d’una notte di passione ardente, con le possenti spalle avvolte su di me, una plastica scultura ritmicamente illuminata dal gelido fascio del faro di Punta Mèliso, là sull’aspra scogliera della sorella Rìstola, ai confini estremi del mondo, nel punto dove il mare si unisce con il mare e spalma lentamente sul Salento le sue essenze di storia, d’amore e di poesia. Graziano Mossuto Nasce a Palermo nel 1976 e intraprende gli studi musicali all’età di otto anni; consegue il diploma in pianoforte presso il conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo. Appassionato di musica etnico-popolare partecipa come polistrumentista a numerosi festival internazionali del folklore, con l’obiettivo di ricercare le sonorità e gli impasti timbrici tra gli svariati strumenti musicali esistenti nel mondo. Da giovanissimo inizia ad occuparsi di fonia, arrangiamenti ed ha al suo attivo una vasta produzione musicale e vanta numerose collaborazioni artistiche con musicisti italiani e stranieri. Autore di numerose colonne sonore per film, spot televisivi, opere teatrali e sigle di festival internazionali di musica etnica. La sua musica è un misto di colori e profumi sonori all’interno, soprattutto dello stile melodico-armonico dei popoli che si affacciano nel bacino del Mediterraneo. A Favara (AG), dove opera e lavora, ha dato vita ad uno studio di registrazione nel quale crea le sue composizioni e sperimentazioni musicali. Già all’età di 8 anni il suo innato amore per la musica si fa vivo, ed è proprio a questa età che intraprende i suoi primi studi musicali con la fisarmonica, avvicinandosi a quello che sarà il suo strumento fondamentale, il pianoforte. La sua innata voglia di conoscenza e di ricerca, lo porta ben presto ad iniziare un percorso che lo vede protagonista insieme ad altri musicisti a proporre i colori, i suoni, le armonie e la vitalità della musica siciliana in giro per il mondo,(ha partecipato a più di cento Festivals Internazionali del Folclore come fisarmonicista - cosa che tra l’altro fa tuttora). Questo girovagare e il contatto con altri popoli ed altre tematiche culturali, interagiscono nella sua sensibilità di artista, lo arricchiscono, stimolando la sua creatività e la sua curiosità, è il contatto con queste diverse realtà musicali che egli ricerca, sonorità, stumenti tipici e inpasti timbrici, come una sorta di alchimista assetato di conoscenza e di sapere. Diplomatosi al Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo in pianoforte e composizione, inizia la sua sperimentazione musicale che lo porterà ben presto Suoni di luce Ti scorgo incedere con passo regale Dalla fessura della porta socchiusa. E s'inchioda al tuo viso Lo sguardo mio. E d'incanto i miei pensieri S'involano sulla spiaggia d'inverno, Con la deserta sabbia sferzata Dal gelido maestrale, Dolce Pelagia che vieni dal mare. E gli austeri, mutevoli fronti Di ostili cumulo-nembi A presidiare declivi l'orizzonte. I gabbiani scomparsi Sul placido pelago Proiettano i loro contorni spettrali Sulle schiume maestose Fruscianti in lontananza E nelle membra mie S'avverte il tumulto D'un'emozione inedita, Dai contorni indistinti, Perché si disperde Nei più remoti anfratti dell'Universo, E mentre armonici suoni di luce S'insinuano, flettendosi sinuosi, Nella mia logora mente, tu, mio unico, Incomparabile Salento, novella Aracne, Cospargi di frammenti di rugiada La tua geometrica trappola di seta... 13 a dare vita a composizioni originali e stimolanti, nelle quali la sicilianità e la mediterraneità emergono in tutto il loro splendore. Il suo estro, la innata sensibilità compositiva e di rrangiatore, la ricerca espressiva dei suoni, la capacità di intervenire su di essi è il grande amore per la sua terra, la Sicilia, che come usa definire spesso "centro del mediterraneo, patria di tanti popoli e culture, che hanno lasciato la loro impronta, contaminandola e arricchendola di profumi, suoni e colori " lo portano ben presto a dare vita a diversi lavori e composizioni. Le sua collaborazione con il mondo Accademico e Culturale è totale, e, quando gli chiedono di scrivere una colonna sonora per un film “Rita Atria” (realizzato dagli alunni dell' I.T.C. Foderà di Agrigento) lo trovano disponibile. Il Film entra a fare parte di un Concorso Europeo dedicato alla memoria di Massimo Troisi vincendo il 1°Premio per la migliore colonna sonora italiana. In contemporanea a questo successo, esce il suo primo C.D. dal titolo “Farfalhà” dallo stile melodico-armonico mediterraneo, dove il suo spessore di artista multietnico esplode in tutta la sua vitalità, e i colori ed i profumi si mescolano in una sinergia di suoni, una sorta di viaggio, attraverso il quale l’ascoltatore è proiettato nel tempo e nello spazio, in un’interagire tra la sua identità di essere e il mondo che lo circonda nella sua diversità espressiva. Con "Scorci di mandarinu" uscito nel febbraio del 2010, si conclude un percorso di 10 anni fra Sicilia e mediterraneo, da seduto sopra il mandarino (vedi farfalhà, inteso come approccio al mediterraneo) e con li scorci di mandarinu (inteso come piena maturità e assorbimento dello stile melodico e armonico del mediterraneo), acquisendo molte conoscenze che vengono scomposte dalla sua creatività (scorci appunto) riassemblati poi in chiave stilizzata. Arancini in movimento. “A Lapa” L’Ape di LuBar che porta a Milano lo street food catanese Ancora un cibo da strada su ruote che punta al design e a un concept semplice e goloso. È lo slow street food di LuBar, l'Ape che porta a Milano arancini e cannoli direttamente dalla Sicilia. In un'Ape Piaggio dal sapore retrò, color terra (la terra di Vendicari) rivestita di juta, si friggono arancini superbi che stanno facendo impazzire Milano. Arancini rossi (al ragù di carne), bianchi (prosciutto e formaggio), o nella versione vegetariana senza latticini, con riso integrale e spinaci, e ne arriveranno altri: siamo solo all’inizio. Nuovo tassello delle Api Piaggio gourmet che stanno riempiendo l'Italia in un nome di un cibo di strada finalmente di qualità. Un mini spaccato di Sicilia, non quello folcloristico del carretto siciliano, ma quello legato ai sapori e ai colori della terra, che è quella della Sicilia orientale, verso Catania e non Palermo: non per niente sono arancini e non arancine. Arrivano ogni giorno freschi da Scicli, preparati da un superbo fanatico gourmand, che in via assolutamente esclusiva fornisce LuBar. Il focus del progetto è la qualità e l'unicità del prodotto e della preparazione tradizionale, da qui il saggio concetto dello slow street food, che regalano il sogno del vero arancino siciliano, praticamente un’operazione di teletrasporto. Saltuariamente oltre agli arancini riempiono al momento freschi cannoli, hanno invece sempre a disposizione il migliore cioccolato della dolceria Bonajuto di Modica, il tutto accompagnato da bevande come spuma, chinotto e gazzosa di Polara, una marca di bibite siciliane introvabili a Milano e vini siciliani. Due dei fondatori, Lucrezia e Ludovico Bonaccorsi, sono milanesi, ma hanno origini siciliane e una prima esperienza nella gestione di un innovativo concept di bistrot-baracchino nell'Oasi 14 di Vendicari, il Lubar. Insieme all’amico Edoardo Giardini, laureato in economia, hanno iniziato questa avventura. Come? Ce lo racconta qui Lucrezia, scenografa cinematografica, designer del gruppo: “L' idea nasce per gioco un pomeriggio di poco più di tre mesi fa. Mio fratello Ludovico faceva spesso su e giù con la Sicilia e tornava sempre carico di buonissimi arancini, pronti per essere fritti a cena con gli amici. Il food è sempre stata la sua passione. Da tempo lavorava anche all’idea di creare un'Ape che distribuisse i nostri prodotti agricoli siciliani (olio del Castelluccio e mandorle) a Milano. Edoardo, amico di lunga data, ha lanciato l'idea di unire gli arancini all’Ape! A questo punto ne hanno parlato con me per aiutarli a realizzare il progetto. Siamo cosi entrati in società con diverse mansioni: Ludovico il prodotto e la cura del food, Edoardo il marketing e io il design.” BABBALUCI Come avviene in molte feste palermitane, religiose e non, anche nel Festino di Santa Rosalia, il cibo occupa un ruolo di primo piano, cibo semplice, povero che riflette l’origine popolare della festa, che risale a quasi quattro secoli fa. In quei giorni per le vie più popolari di Palermo, ed in particolar modo al Foro Italico, luogo dove si conclude il festino con la sfilata del carro della Patrona, i vari odori del cibo si mischiano nell’aria, nelle numerose bancarelle allestite per la festa, infatti, si trovano le specialità della nostra Palermo. di Sofia Villa x gentile concessione de IL GAMBERO ROSSO visitate il sito www.lubarslowstreet.com ROSSO Ragù, carne selezionata di bovino con salsa di pomodoro. Il must dell'arancino, il più famoso! BIANCO Riso bianco, prosciutto e formaggio ragusano.. note mielate. NORMA Melanzane nostrane, salsa pomodoro tocchetto di ricotta salata. . Dalla bancarella del “siminzaro” (venditore di semi di zucca, mandorle, nocciole, lupini….) decorata con le pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, frange e stagnola luccicante e l’immagine di Santa Rosalia al centro, alla bancarella del “turrunaru” (venditore di torrone) che prepara a vista la cubaita, tagliandola a pezzi con un grosso coltello e che espone ad arte i vari tipi di torrone, fra cui il tradizionale “gelato di campagna“. Passando per le bancarelle del “panellaro“, del venditore del “pane ca’ meusa“, dal tavolo del “purparu” dove oltre al polpo si possono consumare anche cozze e ricci; e poi lo “sfincionaro“, il venditore di fichi d’india e quello che vende pannocchie bollite (“pullanca“). Insomma si può trovare di tutto, non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma per il palermitano doc non è Festino se gli vengono a mancare “u’ muluni” e i “babbaluci. I “babbaluci” non sono altro che piccole lumache terrestri con il guscio bianco a volte striato di un colore bruno chiaro. Si raccolgono sugli steli rinsecchiti di molte piante erbacee o in cardi spinosi dove si abbarbicano a grappoli. Il periodo in cui sono più buone da mangiare è quello che va dal 13 giugno fino al mese di luglio. di GAMBERETTI E PISTACCHIO Una vera specialità della casa, l'arancino di mare al sapore di Sicilia. Riso bianco pistacchi di Bronte e gamberetti. TRIS APERITIVO Mini Arancini al Ragù serviti in un cartoccio di carta paglia, l'ideale per un aperitivo in città. 15 L’origine della parola babbaluci deriva probabilmente dall’arabo “babush” termine che indicava le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, difatti le pantofole di pezza in siciliano si chiamano “babusce”. Alcuni invece ne indicano la provenienza dal greco “boubalàkion”, che significa bufalo, a cui veniva paragonato il “babbalucio” per via delle corna. Del loro consumo ci arrivano notizie che risalgono agli antichi Greci e Romani che già fin dal 49 a.C. inventarono delle tecniche per allevarle. Utilizzate anche dalla medicina popolare siciliana, venivano usate per guarire casi di esaurimento nervoso, contro l’ eccessiva magrezza e per curare i mali del fegato, ma anche per le congiuntiviti dell’occhio e per le infezioni della pelle, dove venivano applicate dopo essere state schiacciate e mischiate con del lievito, accompagnando la medicazione con apposite litanie, “a razioni“. Insomma dei “babbaluci” si è sempre fatto un largo consumo e utilizzo, ed è forse a causa della loro ostinazione determinata, pensate che riesce a percorrere quattro metri al minuto, che è nata persino una canzone popolare dedicata a questi gasteropodi: “Viri chi danno ca fannu i babbaluci ca cu li corna ammuttanu i balati, si unn’era lestu a dàrici na vuci, viri chi dannu ca fannu i babbaluci”… Dal punto di vista organolettico, i babbaluci hanno carni tenere, con pochi grassi e con proteine simili a quelle del pesce, a renderli poco leggeri è l’aglio soffritto nell’olio d’oliva, “l’agghia ‘ngranciata” Caratteristico poi è il modo in cui si mangiano queste “ghiottonerie cornute”: alcuni utilizzano gli stuzzicadenti per tirare fuori il mollusco, ma il vero palermitano ama mangiarle “cu scrusciu” (il rumore del mollusco risucchiato), infatti per agevolare l’uscita veloce della lumaca dal guscio, si pratica un piccolo foro, con il dente canino, sulla chiocciola nella parte opposta all’apertura del nicchio testaceo, in modo da creare un canale d’aria da cui il mollusco sarà risucchiato. In fondo il vero piacere di mangiare i babbaluci è questo, e non saziano mai, proprio come recita l’antico detto: “ziti a vasari e babbaluci a sucari nun ponnu mai saziari”. INGREDIENTI 1 kg di lumache 1 testa d’aglio 1 mazzetto di prezzemolo olio extravergine d’oliva sale e pepe Mettere a bagno le lumache per un ‘ora in modo da farle uscire dal guscio, copritele con un coperchio. Trascorso questo tempo lavatele ripetutamente sotto l’acqua corrente fino a quando l’acqua non risulterà pulita. Mettetele in un tegame capiente copritele d’acqua e chiudetele con un coperchio, lasciatele riposare circa mezz’ora. A questo punto mettete sul fuoco a fiamma bassa e non appena saranno tutte fuori dal guscio, aumentate la fiamma e portate a bollore. Far cuocere per 15 minuti, quindi scolarle e metterle da parte. Intanto preparate un soffritto con abbondante olio e l’aglio tagliato a pezzettini, a parte pulite e sminuzzate il prezzemolo. Ponete le lumache in una ciotola capiente salate e pepate, aggiungete l’aglio soffritto e il prezzemolo, mescolate tutto e servite! (prima un po’ di verdura però) TENERUMI I tenerumi sono le foglie e i germogli della zucchina bianca, sottile e tenerissima, che si produce nel palermitano, ora facilmente riscontrabile anche nei nostri mercati Ingredienti per 6 persone: 1 kg di tenerumi 300 grammi di pomodori pelati 350 grammi di pasta corta 2 spicchi d'aglio olio extravergine d'oliva peperoncino e sale q.b. Fate soffriggere in una padella, con dell'olio extravergine d'oliva, l'aglio e in seguito aggiungete i pomodori pelati privati dei semi e tagliati a pezzetti, i tenerumi tagliuzzati, sale e peperoncino. Dopo circa 10 minuti di cottura il condimento sarà pronto. Quindi diluite il tutto con un litro e mezzo di acqua, portate ad ebollizione e buttate la pasta. A cottura ultimata servite a tavola. Li Babbaluci di Giovanni Meli: Purtandusi la casa su la schina dui babbaluci all'umbra di una ferra, cu la vucca di scuma sempri china si ianu strascinannu terra terra.. 16 PILLOLE DI CINEMA Fruizione tematica e funzioni poetiche del cinema nella narrativa di Antonio Tabucchi Carina Boschi Nei racconti di Antonio Tabucchi l’atteggiamento dei protagonisti, quando vivono o ricordano un’esperienza cinematografica, rivela una percezione ricorrente del cinema in quanto motivo affettivo e culturale importante. Si profila il ritratto di un cinefilo, i cui modi e gusti si possono elencare (ci si soffermerà sui particolari caratteristici dell’universo cinematografico, come lo disegnano i riferimenti a specifici film). Si afferma un’idea complessiva del cinema come passatempo apprezzato, argomento frequente di conversazione, associato anche a esperienze e emozioni condivise nel passato ; se ne evitano la troppa solennità e le creazioni volutamente intellettuali. Allo stesso tempo, i modi di fruizione rimandano a momenti intimi e a ambienti di raccoglimento, non a proiezioni affollate ; e i titoli vengono spesso ricordati in lingua originale. L’universo cinematografico non è visto esclusivamente come popolare e leggero, suscita un interesse : il film si memorizza, se ne discute, può essere elemento di influenza. Se, oltre ai valori contenutistici dei riferimenti, si considera nel suo insieme l’impiego del motivo cinematografico nel racconto, questo sembra in genere suscitare un allontanamento immediato del realismo, per dar luogo a parentesi più allusive e evocatrici che propriamente narrative : la logica e la cronologia vengono talora ampiamente stravolte sotto l’effetto di visioni quasi surrealistiche, tra ricordi d’infanzia e giochi dell’immaginario. Vari personaggi presenti nella raccolta di novelle Piccoli equivoci senza importanza (1985) e nel racconto Il filo dell’orizzonte (1986) dichiarano, e dimostrano, una vera passione per il cinema. Nella novella Cinema, lo scrittore manifesta una curiosità creativa rivolta verso particolari minuti della manifattura del film, esprimendo un primo interesse non per gli aspetti tecnici o meccanici della produzione, ma per la vita degli attori. Così si impone, da un racconto all’altro, una relazione intima con l’universo del cinema, in particolare con i film degli anni Cinquanta e le loro grandi figure emblematiche. (continua…..) BIBLIOTECA DEL “PIRANDELLO” I volumi della biblioteca del nostro Circolo sono stati catalogati e inventariati all'Istituto Boselli e si possono reperire nei cataloghi on line di SBN Liguria. Si potranno avere indicazioni più precise tramite l’accesso all'Opac. Un particolare ringraziamento per la collaborazione alla Prof. Gabriella Bianchi. VISITATE IL SITO http://isbosellialberti.it/ 17 APPUNTAMENTI DA NON PERDERE OFFICINE SOLIMANO NUOVOFILMSTUDIO 4 e 5 novembre LA NOSTRA TERRA di Giulio Manfredonia, con Stefano Accorsi, Sergio Rubini, Maria Rosaria Russo - Italia 2014, 100' Nicola Sansone è proprietario di un podere nel Sud Italia che viene confiscato dallo Stato e assegnato a una cooperativa, che però non riesce, per questioni burocratiche e sottili boicottaggi, ad avviare l'attività. In loro aiuto arriva Filippo, stratega dell'associazionismo antimafia, esperto di leggi e regolamenti ma inesperto quando si tratta di sporcarsi le mani con la realtà. Filippo deve spesso resistere all’impulso di mollare tutto. Lo trattengono le insolite persone di questa cooperativa cui inizia ad affezionarsi... Dopo il dittico "Qualunquemente" e "Tutto tutto niente niente" con Antonio Albanese, il regista e sceneggiatore romano Giulio Manfredonia ritorna al filone della commedia etica, già sperimentato con il fortunato "Si può fare". Calato nella scottante attualità della lotta alla mafia, "La nostra terra" cerca di provocare un mutamento nel pensiero del pubblico rispetto al tema della legalità, attraverso una sceneggiatura incentrata sul lavoro delle cooperative antimafia. Manfredonia è bravissimo quando si tratta di orchestrare una coralità di attori veri e autoironici, dalla verve inarrestabile, che solo con un gesto riescono a smarcarsi da certe rigidità della sceneggiatura. Il tono da commedia intelligente, leggero e divertente, con il quale è raccontato un fatto pur drammatico, è la chiave vincente del film: una favola etica che denuncia la mentalità connivente e omertosa modellata dalla mafia, opponendole la difesa della legalità attraverso il lavoro agricolo e lo spirito comunitario. Una signora vuole un animale domestico per avere un po' di compagnia mentre i figli sono a scuola e il marito al lavoro. Dopo averci pensato un po' decide di scartare cani e gatti perche danno troppo da fare. Meglio un bel pappagallo che sa anche parlare. Però, problema: costano tutti un sacco! Ma un giorno, per caso, ne vede uno esposto in un negozio, che costa solo 50 Euro. Fantastico! Entra e lo compra. Mentre sta per pagare, il commesso le dice: "Senta Signora, devo pero dirle una cosa imbarazzante... sa, non è un caso che costi cosi poco... il fatto è che questo pappagallo ha vissuto fino ad ora in un... bordello". Ma è talmente bello che la signora decide di comprarlo ugualmente. Arriva a casa, lo piazza nella sua gabbia in salotto e aspetta con pazienza che dica qualcosa. Il pappagallo si guarda un po' attorno, studia la stanza e la sua nuova padrona e alla fine dice: "Ok, nuova casa, nuova maitresse". La signora si imbarazza un po' ma poi ci ride sopra. In fondo non ha detto niente di così sconveniente. Tornano a casa le figlie da scuola e il pappagallo, dopo averle squadrate: "Nuova casa, nuova maitresse, nuove ragazze" Le ragazze si guardano allibite, ma poi si uniscono alle risate della madre. Alla sera torna a casa il marito. Il pappagallo lo guarda bene, guarda ancora madre e figlie e dice: "Nuova casa, nuova maitresse, nuove ragazze, gli stessi vecchi clienti. Ueilà! Ciao Gigi, come và?" 18 Associazione Musicale “Gioachino Rossini” Giovedi 13 Novembre 2014 (Omaggio a Pino Briasco) FEDERICO BRIASCO, chitarra OFFICINE SOLIMANO SALA CATTIVI MAESTRI Domenica 16 NOVEMBRE Ore 17.00 CARLO FIERENS, chitarra J. S. Bach: Adagio e Fuga (in sol min. - BWV 1001) LETIZIA FOREVER Testo e regia di Rosario Palazzolo, con Salvatore Nocera, (nella foto) scene di Luca Mannino. Luci di Toni Troia. Assistente alla regia Irene Nocera. Una coproduzione T22 e Teatrino Controverso col patrocinio di Equamente – bottega del mondo. Vincitore Marte Live (Sicilia). Lo avevamo già ospitato l'anno scorso in anteprima di tournée e non abbiamo resistito alla tentazione di riproporvelo quest'anno. Chi non lo ha mai visto è caldamente invitato a non perderlo e chi lo ha già visto... non potrà resistere alla tentazione di rivederlo! Letizia forever è una donna sgrammaticata, esilarante, poetica, semplice e complicatissima, dal linguaggio dirompente. Ed è anche una musica, Letizia forever, quella dei “fabulosi anni ‘80”. A. Barrios: Un sueno en la floresta G. Regondi: Introducion et caprice (Carlo Fierens, chitarra) G. F. Händel: Sarabanda variata -D. Scarlatti: Sonata K 380 -F. Tarrega: Capricho àrabe Recuerdos de la Alhambra-A. Barrios: Vals (op. 8 n. 3) I. Albeniz: Torre bermeja(Federico Briasco, chitarra) Pino Briasco: Menestrelli (Carlo Fierens e Federico Briasco in duo) 13 Novembre 2014 Scrivere e i mestieri della scrittura L’Assessorato alla Cultura e alle Politiche Giovanili organizza il 13 novembre 2014, a partire dalle ore 15, presso le Officine Solimano, una giornata di studio e approfondimento sui mestieri della scrittura. L'evento è organizzato da Scritture s.a.s, è coordinato dalla scrittrice Emanuela E. Abbadessa e ha come partner La Feltrinelli Point Savona. La giornata vuole chiarire le idee a chi, per un motivo o per l’altro, desidera avvicinarsi al mondo della scrittura e dell'editoria. Inoltre, gli incontri e i workshop in programma con professionisti del settore saranno un’occasione per confrontarsi e fare un primo passo nel mondo della scrittura. Sono tanti i giovani e meno giovani che sognano di diventare scrittori. Qualcuno ha già un libro nel cassetto, altri immaginano di scriverlo ma pochi si sono già affacciati al mondo del professionismo o hanno avuto contatti solidi con una casa editrice. Molti sono anche i ruoli e i mestieri legati al mondo dell’editoria (dall’editor, al correttore di bozze, al grafico…). E’ un universo che non tutti conoscono: la filiera che dal manoscritto porta fino agli scaffali delle librerie incuriosisce e intimorisce al tempo stesso. Sabato 15 Novembre ore 16,30 Piazza alla Maddalena 14 (a metà di Via Pia a ds) Presso la Sede della Società Savonese di Storia Patria e in collaborazione con essa presenteremo Picchì, io, di mio, non la faccio troppo intelligente, la gente, intelligente di capire la storia mia, voglio dire, di capirla vera, ca la gente non è mai troppo intelligente, per me, intelligente di capire veramente le cose. “Per le antiche strade” il nuovo, affascinante viaggio dello studioso palermitano Salvatore Dalia, frutto di una ricerca minuziosissima per ricostruire la storia e la topografia della via “Palermo-Messina per le montagne”, l’evoluzione del tracciato fino all’abbandono, nei primi decenni del XIX secolo in seguito alla costruzione delle prime strade rotabili 19 OFFICINE SOLIMANO SALA RAINDOGS Sabato 22/Novembre Ore 10.30 Cari Soci, con un anticipo dovuto all’accumularsi di impegni nei giorni che precedono il Natale, abbiamo concordato di organizzare il pranzo degli Auguri LA COMPAGNIA "I FUGGIASCHI " NELL'AMBITO DELLA SETTIMANA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE PRESENTA: "ANCHE LE DONNE PERDONO LE GUERRE...MA CERCANO LA PACE". (con la susseguente assemblea) per Sabato 29 Novembre ore 12,30 Anna e Giuse Cervetto presentano i video amatoriali “Diario di viaggio” presso il Ristorante “Caboto” in Savona Via Caboto 25/R, di fronte alla scuola media. Come potete vedere, il menù prevede piatti classici siciliani e di creazioni della cuoca Cristina ispirate alla Sicilia. La Tunisia non è solo quella delle vestigia delle città dell’antichità come Cartagine, El Djem, Sufetula o degli straordinari mosaici conservati nel Museo del Bardo a Tunisi che abbiamo visitato alcuni anni fa, ma anche quella affascinante del sud con le ghorfas, il deserto, i villaggi berberi. ANTIPASTO Polpettine di sarde Pomodori alla moda di Alessio Involtino di pesce spada con caciocavallo Alici marinate al limone OFFICINE SOLIMANO NUOVOFILMSTUDIO PRIMO Spaghetti alle sarde, zafferano, pane grattugiato tostato, uva passa , pinoli Sabato 22 novembre 2014 - ore 16.30, in Sala “Vasé” : Tunisia del Centro Sud A partire da VENERDI 21 NOVEMBRE Officine Doc Spazio al documentario ! SECONDI Polpo al sesamo croccante Pesce spada alla ghiotta Nuovofilmstudio desidera ridare spazio e visibilità al cinema documentario fondamento della storia del cinema e testimonianza della realtà in continuo mutamento. Crediamo che il successo che i film documentari hanno ottenuto ultimamente nei festival italiani significhi necessità di riflessione sul mondo, sull’agire dell’uomo e sulle dinamiche di una realtà ormai sempre più complessa. Ridare voce agli attori sociali nel loro quotidiano è ridare forza all’esperienza; esperienza del reale attraverso l’occhio di registi affermati e di autori esordienti che con produzioni dal indipendenti, con grandi sforzi, di dare voce ai piccoli mondi universali. Per questo il Nuovofilmstudio propone uno spazio articolato in due filoni: il primo dei grandi nomi ed il secondo dei giovani esordienti che con grande fatica operano per raccontare storie di grande umanità. DOLCE Salame al cioccolato di Modica Vino bianco: LA POLENA “DONNA FUGATA” Rosso: NERO D’AVOLA “DONNA FUGATA” Acqua, caffè Costo complessivo € 30,00 . Si prega di prenotare entro e non oltre Lunedì 24 Novembre ai seguenti numeri: Motta Di Nicolao Vallescura 339 6586248 349 5939652 333 9882570 Vi aspettiamo numerosi per scambiarci anche gli Auguri che sin da ora facciamo a chi non potrà intervenire. Santuzzo 20