7 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Numero speciale della Staf fetta a un mese dalla scomparsa di Marcello Colitti Staffetta I ricor di di chi lo ha “visto da vicino” e ne ha appr ezzato lo spessor e culturale ricordi apprezzato spessore Pur essendo sospese le pubblicazioni per la pausa estiva, la notizia della scomparsa di Marcello Colitti è stata messa sul sito della Staffetta il 22 agosto in vista dei funerali fissati per il 24 agosto. Poi alla ripresa è stata rilanciata sul numero del 1° settembre con un commento in cui si dava conto del rimpianto che la notizia aveva immediatamente suscitato tra i suoi amici malgrado agosto sia il mese del grande oblio. Tra i primi Carlo Stagnaro “è stato per me un privilegio poterlo conoscere”, Renato Urban “da quando si era gravemente ammalato ed aveva perso la voce, mi sentivo con lui molto spesso. Dieci giorni fa lo sentii per l’ultima volta. Mi disse di sentirsi meglio, ma la voce era ormai compromessa. Alla fine della breve conversazione mi chiese di telefonargli, quando potevo, perché gli faceva piacere sentire la mia voce. Il mio rapporto con Marcello era cominciato in modo turbolento, ma poi, come spesso accade, abbiamo scoperto di avere gli stessi ideali, anche se militavamo in campi diversi. Era un uomo per bene! Questo è il ricordo che mi accompagnerà”, Giuseppe Sfligiotti “Marcello ed io abbiamo lavorato insieme per moltissimi anni, insieme con un fantastico gruppo di altre persone messe insieme dal prof. Fuà negli anni ’50: un lungo rapporto di amicizia personale, molto stimolante sul piano professionale. Marcello era dotato di vivissima intelligenza e fantasia, un po’ bizzarro ed originale (anche nel vestire!), con il quale era interessante e stimolante discutere ed argomentare, anche quando (e non succedeva di rado) non si condividevano completamente le sue idee. Penso che chi l’ha conosciuto rimpiangerà – come me – la sua dipartita e lo ricorderà con affetto”, GB Zorzoli e Giulio Sapelli. Sapelli Questi ultimi ci hanno poi mandato un loro ricordo che di seguito pubblichiamo insieantillo (tratto dal suo intervento ai funerali), Alberto Clô e Salvatore me a quelli di Claudio Descalzi Descalzi, Domenico T Tantillo Carollo Carollo. Segue a pag. 10 un’analisi di Roberto Macrì sul coraggio di Colitti economista e stratega. A parte l’affetto sincero che traspare da questi ricordi, ognuno contiene particolari che contribuiscono a capire meglio il fascino da cui Colitti era circondato dentro e fuori dell’azienda per la sua competenza e il grande spessore culturale. Claudio Descalzi, per ché in Eni tutti lo ricor dano perché ricordano “Marcello Colitti è stato uno dei giovanissimi assunti da Enrico Mattei negli anni in cui Eni cominciava a muovere i primi passi. Una carriera rapida e brillante lo ha portato fino alla Presidenza di Enichem ma la vera ragione per cui tutti ricordiamo Colitti è per la straordinaria competenza in campo energetico costruita attraverso un’attività di studio e osservazione. All’inizio della sua attività è stato uno dei tanti giovani scelti per la squadra Eni, in virtù della loro motivazione, di una laurea brillante e specialistica (quella di Colitti in legge), della disponibilità a spostarsi, in Italia all’estero. Marcello Colitti entra nel 1956 in quella straordinaria fucina di pensiero e di strategia che è l’ufficio studi di Eni e che produce, in quegli anni il primo bilancio energetico dell’Italia. Insieme a lui uomini del calibro di Giorgio Ruffolo, Sabino Cassese, Luigi Spaventa, Paolo Leon, tutti giovani, tutti convinti che l’Eni fosse lo strumento principale e imprescindibile per lo sviluppo e la riscossa dell’Italia. Tutti legatissimi al loro capo, Enrico Mattei, un uomo d’impresa straordinario, un leader che lascia il segno, nell’azienda e nei suoi uomini a cui Colitti dedica uno delle biografie più belle e documentate con un titolo emblematico: Energia e sviluppo in Italia. Colto e autorevole ha saputo analizzare gli scenari italiani e internazionali fornendo spunti sempre brillanti con quel tocco di originalità e di gusto per le “posizioni non allineate”, che tutti gli hanno sempre riconosciuto e che ne hanno fatto un “opinion leader” in campo energetico. Tutti noi, in Eni, lo ricordiamo per il suo valore, per il coraggio con cui ha sempre difeso le sue idee, nei diversi momenti della storia di Eni, per le doti umane e per quel tocco di ironia che sapeva spargere nei suoi discorsi, quasi volesse rendere più leggero un pensiero di cui tutti noi conoscevamo bene il grande spessore.“ Domenico T antillo, “un uomo del Rinascimento” Tantillo, “Ho conosciuto Marcello agli inizi degli anni ‘60, quando si andava ai Concerti della Rai all’Auditorium del Foro Italico, il sabato, e poi si trascorrevano lunghe serate con Marie e mio fratello a parlare di tante cose. Chiaccherate politiche, spesso, ma non discussioni perché eravamo quasi sempre d’accordo e non tanto per ragioni, per così dire, ideologiche, ma per una comune attitudine morale, per un atteggiamento che prescindeva da interessi personali. Poi, nel 1966, il mio ingresso all’Eni, dove ho lavorato con lui fino ai primi anni ‘80 quando Marcello lasciò quella che allora chiamavamo la Holding per andare in una delle posizioni di vertice in Agip mineraria, successivamente alla Presidenza di Enichem e da ultimo a quella di Ecofuel. Per me, e per gli altri che facevano parte del suo gruppo di lavoro, è stata un’esperienza sfidante ed esaltante, per la quale gli rimarrò sempre grato. Moltissimi gli aspetti da ricordare di quell’esperienza. Non c’è il tempo di parlarne, comunque non saprei farlo in modo adeguato, anche per l’emozione, 2008, ai 75 anni della Staffetta fortissima, che provo. Dico soltanto che per me Marcello è stato, prima ancora che straordinario manager e teorico del sistema delle Partecipazioni Statali, un uomo di rilievo in campo culturale, con molteplici scritti sul petrolio e sul mondo dell’energia, con alcuni romanzi, con un volume dedicato al pensiero del filosofo Spinoza. Senza dimenticare un libretto di carattere mitologico scritto per un’opera lirica composta da un giovane musicista, che fu eseguita all’Auditorium di Roma negli anni ‘70. Per un collega di quegli anni, che ho sentito nei giorni scorsi, la fantasia creativa ed il suo multiforme ingegno facevano di Marcello un uomo del Rinascimento. Un interprete del tempo presente, ma anche un anticipatore del tempo futuro. Quanto all’uomo di impresa, l’idea dominante e fermissima di Marcello, che molti di noi hanno avuto il privilegio di condividere, è stata che la missione e la forza dell’Eni non potessero che risiedere nel sapere coniugare crescita e capacità di competere sui mercati con la costante attenzione allo sviluppo del sistema economico, produttivo e sociale del nostro Paese. Senza alcun cedimento a compromessi e ad interessi e convenienze di parte. I tanti lavori di quegli anni stanno a testimoniarlo. Ne ricordo uno soltanto. Lo studio, durato più di un anno, fatto da un team costituito dalla Direzione per la programmazione di Marcello e da esperti di altissimo livello dell’Oapec (i paesi arabi esportatori di petrolio), l’Interdependence Model, 8 per ancorare lo scambio di materie prime, beni e servizi tra paesi consumatori e produttori a soluzioni di reciproca convenienza. Le sue innovative conclusioni furono portate all’attenzione di Ministri ed esponenti di primo piano in un Convegno internazionale organizzato dall’Eni a Roma, nonostante i molteplici tentativi, anche in alto loco, di boicottarne lo svolgimento. Ma per vari motivi, nonostante i numerosi apprezzamenti, i risultati dello studio non furono portati alla necessaria implementazione sul piano progettuale. Se fosse successo, forse l’assetto del mercato petrolifero internazionale, almeno in parte, oggi sarebbe diverso. Un’ultima considerazione. Marcello era un uomo di sinistra, non di partito. Molti di noi erano più tradizionalmente inseriti in strutture politiche come la cellula del PCI o il Nucleo aziendale socialista. Oltre ad essere iscritti alla CGIL. Un giorno, il Presidente, era Cefis, lo chiamò e gli chiese: “dottor Colitti, ma come mai i suoi ragazzi scioperano e organizzano manifestazioni sui vari temi di attualità politica?” E Marcello rispose: “Presidente, è gente che ragiona e fa le scelte in cui crede. Ma è gente che lavora ed è leale con l’azienda”. Cefis annuì e non ci tornò più sopra. Ho riletto ieri quanto Marcello mi scrisse dieci anni fa alla morte di mio fratello, che era stato un suo caro amico e, per un breve periodo, anche lui all’Eni molto prima di me. Concludeva Marcello la sua lettera: “..Adesso siamo un poco più soli, il vuoto intorno a noi è ancora aumentato e ci sono vuoti che non è possibile riempire, che rimangono tali vita natural durante..” Aggiungerei soltanto… in un’epoca che ogni giorno si fa sempre più priva di valori. Ci mancherai. Ciao, Marcello” GB Zorzoli, la visione di un grande pr ogetto progetto “Ci siamo conosciuti, Marcello ed io, appena laureati, a Roma. Lui da poco assunto all’Eni, io nella capitale per uno stage di sei mesi, prima della mia esperienza americana. Siamo diventati subito amici e tali siamo rimasti. Una vita, la sua, sotto il profilo professionale interamente dedicata all’Eni, malgrado i suoi meriti fossero spesso misconosciuti. A guidarlo nelle sue decisioni fu sempre la visione che della società aveva Mattei; per lui più che il capoazienda un secondo padre, in sostituzione di quello biologico, perso drammaticamente a tredici anni. Pochi giorni dopo la sua scomparsa, su La Repubblica Tzvetan Todorov scriveva che i paesi occidentali sono direttamente o indirettamente responsabili dell’ondata di migranti che stanno arrivando in Europa. Poiché gran parte di chi cerca rifugio proviene da paesi del Medio Oriente o passa attraverso la Libia, aree del mondo ricche di idrocarburi. Ho immediatamente associato la denuncia di Todorov alle ripetute critiche di Marcello all’atteggiamento nei confronti degli interlocutori arabi, prevalente fra i suoi colleghi dirigenti dell’Eni: “Li guardano dall’alto al basso, nutrono una sfiducia aprioristica nei loro confronti. Sono pregiudizi così radicati che non si preoccupano di conoscerli meglio”. Convinto che una collaborazione alla pari con i paesi produttori fosse non solo possibile, ma anche più conveniente per entrambe le parti, e che, per realizzarla, occorresse un’adeguata conoscenza reciproca, si impegnò per approfondire, anche de visu, la storia, i costumi, la cultura, l’economia dei paesi produttori di petrolio. In tal modo fu per Marcello più agevole stabilire relazioni personali con importanti oil men, che stimava e dai quali era stimato. Nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, con l’Occidente sotto shock per la prima crisi petrolifera, da poco nominato direttore della pianificazione Eni, si trovò nella condizione di realizzare “a piena scala” la sua idea di fondo: una politica di cooperazione a lungo termine fra acquirenti e produttori di petrolio, basata sulla reciproca fiducia, poteva massimizzare le convenienze di entrambe le parti e rappresentava quindi la risposta vincente alla crisi. Nacque così il “Progetto Interdipendenza”. Un team di STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 economisti arabi ed europei mise a confronto strategie cooperative e non cooperative sia dei produttori che dei consumatori di petrolio. Lo studio, molto approfondito, mise in evidenza che la scelta della cooperazione era sempre vincente, in quanto consentiva di realizzare condizioni ottimali a livello sia politico (miglioramento delle relazioni reciproche), sia economico: maggiori investimenti nei paesi produttori a fronte di un prezzo equo del greggio, massimo sviluppo per tutte le nazioni coinvolte. Le conclusioni dello studio furono presentate nel 1981 a Roma alla presenza, grazie a Colitti, di importanti esponenti dei paesi produttori di petrolio. Situazione che rese ancora più clamorosa l’assenza di uomini di governo e di politici italiani di rilievo. Già poco interessati a ciò che era estraneo alla politica quotidiana, su di loro ebbero gioco facile le pressioni degli Stati Uniti, all’epoca contrari a qualsiasi cooperazione con i paesi OPEC. Un evento immaginato come punto di avvio di una nuova politica italiana verso i paesi produttori si trasformò in un interessante seminario di economia internazionale. Marcello ne fu talmente deluso da ritornare più volte, a voce e per iscritto, sul fallimento dell’iniziativa. La considerava una grande occasione persa non solo per l’Italia, perché, se fosse decollata, ne avrebbe reso evidenti i vantaggi anche agli altri paesi consumatori di petrolio. Vista col senno di poi, quella che allora era una soluzione intelligente per sanare uno specifico conflitto economico, avrebbe potuto contribuire ad evitare almeno qualcuno dei tragici errori che ci hanno portato alla situazione attuale. Nessuno fra quelli che contano, né allora, né oggi, ha ritenuto doveroso riconoscere a Marcello Colitti il merito di questa visione e di avere tentato di realizzarla.” Alberto Clô, il grande lascito intellettuale “Conobbi Marcello quando entrai al Servizio Studi dell’Eni nella primavera del 1972, dopo due anni alla Scuola Enrico Mattei dove ebbi il privilegio prima di seguire le lezioni e poi far da assistente a due grandi del petrolio: Paul Frankel e Jean Masseron. Lavoravo nell’ufficio di Peppino Sfligiotti, con Lello Pezzoli, che mi insegnò il mestiere, Antonello Pugliese, Giorgio Lombardo e altri, accanto a quello più aulico degli ‘economisti’ guidati da Marcello, che, gambe sul tavolo, pontificava sui massimi sistemi davanti ai suoi riuniti in circolo. Discussioni affascinanti cui assistevo intimidito dal corridoio formato da grandi mobili metallici. Incoraggiato dall’argomento che stavano trattando, un giorno osai intrufolarmi e dir la mia. Mal me ne incolse! Mi fulminò con sguardo schifato per uscirsene con alcune espressioni davvero poco amicali che gli erano per altro tipiche. Lo conobbi così, avviando un rapporto personale sviluppatosi nel tempo in modo ‘franco e cordiale’ – con Marcello non avrebbe potuto essere altrimenti – improntato però, spero, a reciproca stima. Uscito da Eni, lo rincontrai nella fase finale del “Project Interdependence” – cui fui coinvolto (suo malgrado) con Romano Prodi – ideato da Marcello con grande passione e intelligenza. Uno studio di straordinaria rilevanza che, forte di un modello econometrico e del contributo di decine di ricercatori, dimostrava quantitativamente come la via della cooperazione produttori-consumatori fosse quella maestra per rafforzare la crescita dell’intero arco dei paesi del Mediterraneo. Penso che quel Progetto sia stato il maggior contributo e lascito intellettuale di Marcello, che ancor oggi mantiene intatte le sue intuizioni e conclusioni. Ne seguì l’importante seminario Eni-Oapec del 1981, che non ebbe ahimè alcun seguito. La politica colpevolmente se ne disinteressò e questo fu per lui motivo di grande amarezza. Non a caso, il sipario del suo libro del 2008 “Eni - Cronache dall’interno di un’azienda” – in cui sta tutta la sua passione civile, la sua esuberante e provocatoria intelligenza, i suoi contrastanti sentimenti verso Eni, la sua spregiudicatezza e parzialità di giudizi (quasi nessuno se ne salva) – si chiude proprio su quell’evento. Marcello in quell’occasione si sentì – come in altri episodi che rammenta nel suo libro – “solo contro tut- STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 ti”, come in effetti fu, anche se poco faceva per non esserlo. Più scorrono le “cronache” della sua vita in Eni, più salgono la sua amarezza e talvolta rabbia, per la perdita, a suo dire, dall’inizio degli anni 1980 da parte dell’azienda di Stato della sua vocazione e identità più autentiche, della sua capacità innovativa, della sua forza propulsiva del Paese. Da qui la severa critica alla più parte delle scelte politiche e aziendali che allontavano il Gruppo dal suo passato. Senza però saper spiegare gli ottimi risultati che aveva saputo conseguire nel successivo ventennio, nonostante la deriva, in parte condivisibile, che denunciava. Marcello Colitti era tra quelli (ed io con lui) che ritenevano che il petrolio non potesse considerarsi – secondo le banalizzazioni neoliberiste – una qualsiasi commodity, avendo in sé irrinunciabili valenze politiche che, a suo dire, erano messe in discussione nel caso dell’Eni da un processo di privatizzazione che riteneva avventato, come ebbe a lamentarsi da Checchino al Mattatoio quand’ero Ministro; dalla cessione di aziende a forte contenuto tecnologico, come il Nuovo Pignone; o, più recentemente, dallo scorporo di Snam che criticava aspramente, ritenendo che l’integrazione verticale di Eni nel metano fosse uno dei suoi punti di forza e nell’interesse precipuo del Paese. Un pensiero lontanissimo da quello oggi dominante. Marcello faceva parte di quella grande scuola di economia e politica dell’energia – dei Frankel, Masseron, Sarkis, Adelman, Landsberg, Mainguy, Chalabi e tanti altri – di cui si è persa ogni traccia. Una ragione in più per piangerne amaramente e sinceramente la scomparsa.“ Giulio Sapelli, un gigante dell’energia “Ho conosciuto Marcello Colitti nel 1975. Luciano Gallino, che collaborava con lo IAFE di Castel Gandolfo, mi aveva invitato a tenere una conferenza sui fondamenti teorici e le realizzazioni pratiche di quella che, un tempo, si chiamava “l’organizzazione scientifica del lavoro”. Argomento sul quale avevo già scritto in “Quaderni di sociologia”. Erano gli anni in cui, lasciata l’Olivetti, avevo iniziato a lavorare al libro che Rosenberg & Sellier avrebbe pubblicato nel 1978: Organizzazione, lavoro e innovazione industriale in Italia. La sera, a cena, in quel magnifico ambiente che era allora la casa madre della formazione manageriale, culturale, spirituale dell’Eni, incontrai Marcello Colitti. Io avevo ventotto anni, i pantaloni corti, e capii subito di trovarmi davanti a un gigante, non solo dell’industria energetica mondiale e di quella petrolifera in specie. Iniziò da allora un rapporto intensissimo che è durato tutta la vita. Si è spento solo in questi ultimissimi anni, per quelle ragioni misteriose e terribili che non inaridiscono le sorgenti dell’acqua dell’amicizia, ma le fanno sempre rampollare con esiti miracolosi ma, forse proprio per questo, assai più rari di un tempo. Lavorai lunghi anni allo IAFE fino a diventare responsabile dell’area cosiddetta sociale che andava dai rapporti e dallo studio dei sindacati sino alle grandi questioni sociologiche del lavoro e dell’impresa. Continuavo a insegnare, prima a Trieste, poi a Londra e a Parigi, e in altre università all’estero, ma sino alla mia nomina nel Consiglio d’amministrazione dell’Eni, continuai a lavorare indefessamente sia ai corsi per i neo assunti e per i dirigenti sia a quel grande istituto di ricerca fondato da Cefis e Briatico che era l’ISVET e, in seguito, dopo la sua nascita, con la Fondazione Mattei. Con Colitti avevo un rapporto costante. L’alta formazione dell’Eni, allora, era separata dall’addestramento e non era un training ma una Bildung: i nostri relatori si chiamavano Gino Giugni, Giuliano Amato, Sylos Labini, Federico Caffè e, naturalmente, Marcello Colitti. Gli stranieri erano pochi perché l’Eni voleva essere un’azienda orgogliosamente internazionale ma altrettanto orgogliosamente italiana. Infatti, alla Scuola Mattei di San Donato, gli allievi stranieri erano chiamati sei mesi prima a partecipare ai corsi e in questi sei mesi imparavano l’italiano. Nessuno più di Marcello incarnava quel fantastico ircocervo che era allora l’Eni: le zampe erano piantate nella grande cultura scientifica italiana mentre il collo e la testa spaziavano nel mondo 9 dei grandi petrolieri e dei grandi esploratori di gas mondiali. Me ne accorgevo quando lo accompagnavo umilmente, e sempre ammirato dalla sua straordinaria cultura, ai seminari sull’energia che si tenevano a Oxford, in cui egli era accolto come un’autorità internazionale sia per le sue notissime teorie sulla tipica e distintiva interdipendenza dell’industria petrolifera, sia per l’immensa curiosità che lo animava. Ricordo interminabili discussioni con il professor Robert Mabro sui destini tanto della Russia quanto del Medio Oriente. Marcello Colitti ha rappresentato la parte migliore dell’Eni. Quando fui nominato in Consiglio, era felice come può esserlo un Maestro che vede un allievo percorrere una via impervia e difficile, qual era quella che ci attendeva. Ma questa è un’altra storia, che forse un giorno o l’altro andrà raccontata e che ci farà disvelare molti punti dell’importantissima vicenda italiana, non solo dell’Eni. Marcello non era un uomo facile, ma era in grado di suscitare un amore profondo nei suoi confronti e un grande rispetto, anche in persone molto diverse da lui. Mi piace qui ricordare la stima e l’affetto che si stabilì, in un momento non facile della vita di Marcello, tra lui e Vittorio Mincato il cui ruolo, al vertice dell’Eni, è stato, in alcuni anni difficilissimi, essenziale e provvidenziale. La più grande virtù delle grandi personalità è di farsi amare da quelli diversi da loro. Marcello era anche questo.” Salvator e Car ollo, il grande successo di Ecofuel Salvatore Carollo, “Ho sempre considerato Marcello un maestro da cui ho imparato a coniugare il rigore della professione con la visione strategica e politica del mondo e del business. Parlando con lui capivi cosa era lo spirito di Mattei. Amava l’Eni e voleva che fosse grande ed in grado di misurarsi con le sfide imposte dalla nuova dimensione del mercato energetico. Come alunno e collaboratore, ho avuto l’onore di far parte del team che ha lavorato su alcuni progetti che danno il senso della genialità e della visione dell’uomo e del manager. 1. Il modello di interdipendenza euro-arabo 2. Il progetto di costruzione di un anello intorno al Mediterraneo per il trasporto del gas naturale 3. La creazione della società Ecofuel per la produzione di additivi per migliorare la qualità delle benzine 4. Il progetto della creazione di una società di trading e risk management (era il 1983). I primi due progetti, ancora oggi di estrema attualità, avevano il limite di anticipare i tempi e di parlare ad un occidente che, al contrario, si stava muovendo verso politiche neoliberiste e di confronti muscolari con i paesi produttori. Se queste idee avessero trovato accoglienza non avremmo vissuto, probabilmente, gli scenari di guerre commerciali e militari degli ultimi decenni ed, oggi, tutto il gas del Mediterraneo, dall’Algeria alla Libia all’Egitto ad Israele, troverebbe posto in una infrastruttura di trasporto unica al servizio di tutti i paesi consumatori mediterranei. Avremmo altresì un raggruppamento di forze e di paesi per costruire una piattaforma di “governo” del prezzo del greggio e del gas, senza essere succubi dello strapotere delle grandi istituzioni finanziarie. Gli ultimi due fanno giustizia della critica, che a volte gli veniva rivolta, di essere un po’ troppo teorico e di volare troppo alto. Ecofuel è stata un grandissimo successo imprenditoriale ed industriale ed il prodotto chiave (MTBE) è stato commercializzato in tutto il mondo ed è stato parzialmente fermato sul mercato americano con degli espedienti delle varie lobbies dopo quasi 30 anni di successi. Lo stesso dicasi per il progetto trading. Pur cogliendo la nuova sfida del mercato petrolifero, che avrebbe consentito all’Eni di misurarsi con le altre Major in questo settore, il progetto fu accantonato perché, all’epoca del pentapartito, non fu facile definire equilibri di vertice rassicuranti per tutti. Ha vinto molto, ha subito sconfitte, non si è mai arreso ed ha trasmesso sempre entusiasmo a chi gli stava vicino.” 10 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Fedele alle sue bussole sul ruolo strategico dell’azienda Egam e Snam, il coraggio di Colitti a difesa dell’Eni A ricordare una persona scomparsa va schivato il doppio rischio del retore e del giudice. Nello stile scabro e preciso delle parole di Marcello non v’erano mai tracce retoriche e sentimentali né a me spetta il bilancio di una vicenda umana tanto intensa di fatti privati e professionali e tanto ricca di iniziative nella cultura e nella vita sociale. E questa larghezza e varietà di vita animata da una infaticabile curiosità per tutto ciò che muove il mondo è forse il tratto più caratteristico della sua personalità, quel suo multiforme ingegno colto da Tantillo nell’orazione funebre. Questa dote aveva però un cardine su cui tutto ruotava: il lavoro nell’Eni vissuto con passione e compenetrazione assoluta fino all’ultimo giorno. Colitti, assieme a tanti altri grandi dirigenti cresciuti alla scuola di Mattei, era nel suo campo un uomo bandiera che né per denaro né per prestigio avrebbe potuto avere altro destino. Scelgo perciò questo punto di vista per dire qualcosa di quello che gli ho visto fare negli anni dell’ufficio studi, quando io giovane di bottega lo vidi agire come economista e stratega, e poi quando, con responsabilità più importanti, lo vidi agire a difesa dell’Eni, prima opponendosi con durezza nel 1977 all’integrazione nel Gruppo delle aziende minerometallurgiche, ereditate dalla liquidazione dell’Egam, e molti anni dopo battendo il ferro per evitare la separazione proprietaria della Snam dall’Eni che invece si compì nel 2012. Nelle sue mani l’ufficio studi, con i precedenti illustri di Fuà e Ruffolo, divenne una fucina di idee e di progetti e le analisi macroeconomiche fatte per calibrare la pianificazione del Gruppo servivano anche ad orientare la strategia del Gruppo. In questo ruolo Colitti mostrava le sue doti migliori di analista e di stratega sapendo cogliere nel mare di dati e di informazioni, di cui l’Eni poteva disporre quotidianamente dalle proprie aziende e uffici in giro per il mondo e dagli studi degli analisti esterni più qualificati, i cambiamenti che più avrebbero influenzato l’orizzonte dell’Eni. Tra le tante cose fatte allora vale la pena di ricordarne tre particolarmente importanti. Quando nel 1965, appena dopo la morte di Mattei, iniziò una sistematica analisi delle tendenze dell’economia italiana conclusa nel 1970 in un rapporto intitolato “L’Italia e l’Eni” dove gli obiettivi e le linee di sviluppo del Gruppo nel lungo periodo erano intrecciate con la radicale trasformazione strutturale dell’economia italiana di quegli anni. Quando agli inizi degli anni ’70, al ritorno da un viaggio esplorativo negli Usa, dove l’Eni contava su un importante osservatorio del mondo degli affari nell’Agip Usa (società fondata da Mattei e dedicata all’acquisto della tecnologie energetiche) e su un altrettanto importante ufficio di rappresentanza presso le istituzioni americane, Colitti vide lungo e ci impegnò in un lavoro approfondito dell’economia internazionale con una particolare focalizzazione sulle strategie delle prime venti compagnie petrolifere che produsse “L’Eni in un mondo in rapida trasformazione”, un rapporto che coincise con la prima crisi petrolifera del ’73 pesando molto nell’orientamento strategico dell’Eni quando il mercato mondiale del petrolio cambiò definitivamente segno. Quando tra il 1979 e il 1983 elaborò un progetto di cooperazione tra i paesi produttori di idrocarburi e i paesi consumatori d’Europa nella logica di bilanciare e sviluppare i reciproci interessi economici in modo da regolare e stabilizzare il mercato dell’energia nell’area del Mediterraneo e del Medio Oriente; una iniziativa che sviluppava la fondamentale innovazione di Mattei nella contrattazione delle concessioni petrolifere in campo internazionale con un passo in più verso una integrazione economica e industriale delle due parti facendo perno sull’energia. Tutto giocava a favore sul piano delle idee e delle relazioni internazionali, tant’è che alcuni tra i più importanti paesi produttori parteciparono agli studi, ma in quello stesso periodo si consumava la peggiore crisi dell’Eni: nel 1979 l’affare Petromin costrinse alle dimissioni il Presidente Mazzanti e fino al febbraio del 1983 si succedet- tero al vertice due Commissari e due Presidenti, tutti e quattro dirigenti di estrazione Eni, ma nessuno di loro finì il mandato. Un periodo drammatico in cui il progetto di Colitti non trovò purtroppo l’attenzione che meritava né dal vertice dell’Eni né dal mondo politico che non colse l’occasione di una svolta storica che avrebbe dato all’Italia e all’Eni grandi opportunità economiche ed un primato politico nel mondo arabo. Fu già chiaro allora che si trattò di una grande occasione sprecata; ancora più oggi, nell’attualità di guerre e di crisi politiche che sconvolgono il Mediterraneo e il Medio Oriente e si ripercuotono pericolosamente sull’Europa, quella distrazione di allora appare come un colpa storica di chi poteva decidere e non seppe o non volle. Come è chiaro da questi esempi, Colitti ebbe sempre due bussole nella visione del ruolo strategico dell’Eni: come motore dello sviluppo del Paese e allo stesso tempo impresa competitiva a livello internazionale; come officina organizzativa per tradurre in pratica i nuovi progetti. E nel suo stile manifestava per intero la sua personalità eccentrica: creativo ma con molto metodo, nemico di analisi improvvisate e superficiali, mai contento delle spiegazioni ufficiali e delle estrapolazioni del passato mettendo in discussione ogni assunto aristotelico, polemico fino al sarcasmo ma pronto ad incrociare il ferro con chiunque purché avesse buoni argomenti, informale nei rapporti gerarchici, ma esercitando in pieno le sue responsabilità anche con durezza, uomo squadra con i propri collaboratori senza barriere di età e di rango ma severo nella valutazione del lavoro, scrittore efficace di rara concisione e chiarezza. Si imparava molto a lavorare con lui, non nascondeva nulla delle sue informazioni e delle sue idee, partecipava direttamente al lavoro di gruppo dando pratico esempio del suo modo di impostare e sviluppare i progetti e così era facile per noi “rubare” metodi e stile. In questo Colitti è stato un grande maestro, anche molto duro nel giudizio ma capace di riconoscimenti generosi quando s’accorgeva del buon lavoro. Ma quel che conta di più dire della sua personalità è che il suo valore professionale era sostenuto da una dote di carattere rara nei mondi del potere e delle burocrazie: il coraggio. Ebbe coraggio nel 1977 quando il Governo decretò (D.L. 103) l’affidamento fiduciario di 33 società del settore minerometallurgico all’Eni e di 14 del settore acciai speciali all’Iri con il compito di valutarne entro sei mesi le possibilità di risanamento industriale oppure di proporne la liquidazione o la vendita a privati, senza prevedere una stabile integrazione nei due Enti. Tutte e 47 le società erano partecipate Egam (con Efim il quarto ente delle Partecipazioni Stadall’Egam tali) che le aveva ereditate nel 1971 dalla Montedison in uno stato di crisi con il mandato di risanarle. Dopo soli 5 anni invece la crisi si trasformò in un vero disastro industriale tant’è che Egam venne messo in liquidazione per l’evidente incapacità della sua dirigenza, ormai selezionata dai partiti anziché dal merito. Il carattere straordinario e provvisorio di questo provvedimento era chiarito dall’art. 2 del decreto dove si prevedeva che durante i sei mesi “le partecipazioni azionarie ..sono collocate dall’Iri e dall’Eni in speciali gestioni prive di personalità giuridiche e contabilmente e finanziariamente separate” lasciando così intendere che Eni ed Iri in questo compito sarebbero state libere di valutazioni esclusivamente professionali, senza interferenze politiche. Così non fu e Colitti vide subito il pericolo che il mandato provvisorio si trasformasse in un inserimento stabile nell’Eni con due rischi capitali: il rischio di forti perdite economiche dovute alla totale inesperienza del management dell’Eni in campo minerario e metallurgico; il rischio che l’inserimento del management ex Egam, restato in sella grazie al sostegno di interessi politici e sindacali, minasse l’integrità e lo stile del management Eni che nelle scelte organizzative ed operative delle aziende conservava la necessaria autonomia da segue a pag. 12 11 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Cenni biografici Colitti, 60 anni di impegno nell’energia (1956-2015) Nato a Reggio Emilia il 29 luglio 1932, Marcello Colitti era entrato all’Eni nel febbraio del 1956 (tre anni dopo la sua istituzione) a 24 anni come borsista dopo essersi laureato in legge nel 1954 all’Università di Parma, con una tesi sulle Partecipazioni Statali che non gli valse la lode perché considerata troppo politica, e ne era uscito nel 1999 a 67 anni dopo essere tornato per un breve periodo alla presidenza di Enichem. Come spesso accade, le prime esperienze e i primi incarichi svolti per otto anni nell’Ufficio Studi Economici dell’Eni, di cui era responsabile il prof. Giorgio Fuà, incideranno in maniera determinante sulla sua carriera. Sono anni di grande impegno culturale segnati indelebilmente dalla personaMattei di cui nel 1979 scriverà una delle biolità di Enrico Mattei, grafie ancor oggi più consultate (Energia e sviluppo in Italia, la vicenda di Enrico Mattei, De Donato, Bari). Colitti si occupa allora di energia, di sviluppo delle aree arretrate del Paese, di teoria dell’impresa pubblica e prepara il primo bilancio dell’energia per l’Italia e per altri paesi, temi al centro anche in seguito della sua attività e delle sue analisi. Dopo una parentesi di quattro anni a capo del Servizio Relazioni Pubbliche, dove aveva lavorato nel 1964 sotto Giorgio Ruf folo Ruffolo folo, nel 1971 torna ad occuparsi a tempo pieno di economia italiana ed internazionale e di programmazione, prima come responsabile del Servizio Studi Economici nella direzione Programmazione e Controllo, poi dal gennaio 1976 come direttore per la Programmazione e lo Sviluppo dell’Eni e dall’ottobre 1980 fino al 1983 come vice presidente e amministratore delegato per la programmazione e lo Agip sviluppo dell’Agip Agip. Da ricordare di questi anni il lavoro svolto sulla rete nazionale di gasdotti, sull’impatto ambientale della raffineria di Gela, sulla definizione dei termini economici e giuridici per l’esplorazione di idrocarburi in Adriatico, sul riassetto dell’industria chimica. Un lavoro intenso e appassionato di cui nel 2008 ci ha tramandato i tratti salienti in un volume fondamentale per capire il suo pensiero sul ruolo delle Partecipazioni Statali e sul suo “modus operandi” (Eni, cronache dall’interno di un’azienda, Egea/Bocconi, Milano). In cui tra l’altro tracciò un suo ef efficacissimo ficacissimo ritratto che di seguito pubblichiamo pubblichiamo. Presidente di Enichem Polimeri dal 1983, nel giugno 1985 viene nominato consigliere per l’energia del presidente dell’Eni e dal gennaio 1986 ricopre contemporaneamente la carica di presidente di Ecofuel Ecofuel. Nel triennio 1993-1996 è impegnato come presidente di Enichem nel delicato e difficile compito di risanare la chimica Eni. Incarico poi confermato per un breve periodo nel dicembre del 1998. Uscito dal gruppo, nel triennio 1999-2001 ricopre la carica di presidente delUni l’Uni Uni, Ente nazionale di unificazione. Risale anche a quegli anni la nomina di “Uomo dell’Anno 1996" della Staffetta con cui, dal 30 ottobre 1999, inizierà una collaborazione durata ininterrottamente fino al 15 maggio scorso con un totale di 175 pezzi tutti reperibili sul sito del giornale alla voce Colitti. Un appuntamento mensile in cui, sulla base della sua esperienza, esponeva opinioni e riflessioni su temi legati alla politica e ai mercati dell’energia, alla chimica, ai prezzi del petrolio e al ruolo dei principali protagonisti. Costante lungo tutto il corso della sua vita la presenza nei luoghi e nei centri internazionali dove si parla e si discute di petrolio e di energia e, sulla scia dell’insegnamento di Mattei, la ricerca di ogni possibile occasione di mediazione e di dialogo tra i paesi produttori e consumatori. Un ruolo che lo vede nel 1976 tra i promotori dell’Oxford Oxford Energy Policy Club e nel 1981 tra gli autori del “Modello Modello interdependence interdependence” presentato a Roma con l’Oapec nell’aprile del 1981, un’attività che negli anni gli ha meritato, grazie anche ad una capacità di analisi non comune, la stima e la considerazione dei massimi esperti internazionali. Frutto di questa esperienza è tra l’altro il libro, pubblicato a quattro mani nel 1997 con l’amico Claudio Simeoni “Perspectives of oil and gas: the road to interdependence” (prefazione di Daniel Yergin). Un’amicizia con i paesi arabi che gli valse tra l’altro la nomina a vice presidente della Camera di Commercio Italo-Araba dal 2003 al 2013. Per finire va ricordato che, grazie alla sua autorevolezza nel settore, Colitti nel 2010 fu chiamato dalEnciclopedia T reccani a curare il capitolo dedicato all’era l’Enciclopedia Treccani del petrolio del sesto volume, dal titolo l’Universo Fisico, dell’opera interdisciplinare XXI Secolo e che, al di fuori degli interessi legati strettamente alla sua attività manageriale e professionale, nel 2000 ha pubblicato La felicità è un’antenna parabolica (Gaffi editore) e nel 2010 Etica e politica di Baruch Spinoza (Aliberti editore). E’ morto a Roma il 19 agosto 2015 a 83 anni. L’ultimo suo pezzo è apparso sulla Staffetta il 15 maggio scorso. L’autoritratto del 2008 “Entrai all’Eni il due febbraio del 1956, un lunedì, e ne sono uscito alIa fine del millennio. Siamo cambiati, l’azienda e io, con un processo parallelo di maturazione e di invecchiamento. Forse ho potuto rimanervi a lungo proprio perché essa cambiava con me e il nostro rapporto rimaneva più o meno lo stesso. Nel 1956 ero giovane, ignorantissimo di ogni cosa, se non dei classici, imbevuto di teorie marxiste e rivoluzionarie, libertario e impetuoso. Ero sempre fuori misura: un ragazzo magro che diceva cose enormi, criticava tutto e tutti, con una gran faccia tosta, tanta voglia di fare, e una grande fedeltà ai suoi valori culturali e morali. L’Eni era nato da due anni e mezzo. Anch’esso era rivoluzionario, per vocazione del suo capo e per posizione oggettiva suI mercato; anch’esso diceva verità sgradite, ed era sempre fuori misura, materia di scandalo. Abbiamo combattuto, io e l’azienda, per obiettivi che non erano tanto diversi. La matrice ideologica non era proprio la stessa, ma abbiamo vinto e perso assieme. Siamo cresciuti, e questa è già una vittoria. Non abbiamo fatto la rivoluzione, o, meglio, non abbiamo fatto proprio la rivoluzione che volevamo. Crescendo, abbiamo perso parte della nostra individualidità, siamo diventati più simili agli altri. Non facciamo più tanto di nuovo, anche se ci rimane l‘idea che I’innovazione sia Ia vera vocazione dell’impresa e dell’intellettuale entro di essa. Adesso sappiamo tanto di più, siamo molto meno insicuri e non siamo quasi mai fuori misura. Tanto siamo cambiati, che viene il dubbio che abbiano vinto gli altri, quelli che ritengono che non si possa fare nulla di nuovo e che non valga mai la pena di cambiare; coloro il cui rispetto per il potere diventa subito complicità; quelli che sono negli affari o in politica per accrescere se stessi, non per dare agli altri. Ma il nostro Paese ha raggiunto livelli ben più alti: l’azienda, e io entro di lei, abbiamo dato tutto ciò che potevamo. Parlo di un bilancio parallelo per la mia vita di lavoro e per lo sviluppo dell’azienda, ma non mi sono mai fatto illusioni suI mio ruolo. Mi sono divertito molto, ma solo di rado ho potuto influenzare davvero le cose. Non posso proprio raccontare la mia storia come «una storia al potere» come si dice oggi. Del resto, non ho mai condiviso l’illusione, diffusa soprattutto a sinistra, che vi sia un oggetto che si chiama «potere» che si può afferrare, tenere stretto fino a gioirne come di una bella donna; anzi, meglio, perché più lo si tiene stretto più aumenta la forza di trattenerlo. Il potere è per forza reazionario, perché chi lo tiene non può rischiare di perderlo, e chi lo afferra ha solo l’energia per tenerlo, e non per cambiare. E poiché afferrarlo è difficile, è normale che ci riesca sol- 12 tanto chi sa come raggiungerlo, e, una volta raggiunto, si guarda bene dal metterlo a rischio. Il problema era di cambiare il mondo, che è infatti cambiato, con l’apporto delle nostre fatiche. Che sia cambiato proprio come volevamo, direi di no. Il nostro impegno ha fruttato suI piano delle cose più semplici, della quantità piuttosto che della qualità, ma lo sviluppo c’è stato eccome. La mia generazione ha superato i settant’anni. La potremmo chiamare la «generazione dello sviluppo», perché si è affacciata suI mondo del Iavoro alla metà degli anni Cinquanta, poco prima che partisse il boom italiano, per cui ha lavorato durissimo. Quella che I’ha seguita si è divisa: una parte ha cercato di cambiare con la violenza, anche perché nessuno la voleva seguire. L’altra si è messa a far carriera e soldi. Le due parti si sono presto riunite. La mia generazione è stata fortemente antifascista perché ha conosciuto il fascismo alIa fine degli anni Trenta, quando era diventato una farsa burocratica in contraddizione con le sue stesse parole d’ordine. L’educazione nei balilla ci ha per sempre guarito dalla retorica e dalla prosopopea. STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 È anche la più pacifista, perché ha visto la guerra e la guerra civile nell’adolescenza e nella primissima giovinezza, e sa che l’eroismo è solo una parola, mentre i morti in famiglia, le case distrutte e la fame sono ben reali. È anche una generazione internazionale (molti di noi hanno sposato donne di altri paesi), che ha creduto, prima di ogni altra cosa, nella necessità di mettere l’ltalia in Europa, di svecchiare così il Paese. È anche I’ultima generazione che si ricorda della miseria, dei geloni, del freddo, del cibo scarso; e ha ben chiaro il salto di qualità fatto dal paese. Questo libro non è la storia dell’Eni. Non ha pretese di completezza, né vuole in alcun modo ricostruire la storia dell’impresa. Vorrebbe essere la storia di una persona rimasta tanti anni dentro un’azienda e che in essa si è, entro certi limiti, realizzata. Per questo, la narrazione risulta in qualche punto compressa, in altri dilatata su cose forse minori nella vita dell’impresa che sono trattate in dettaglio, mentre altre più grandi sono appena accennate, se io non vi ho avuto un ruolo. Questa, ovviamente, non è neanche un’autobiografia.” segue da pag. 10 Egam e Snam, il coraggio di Colitti a difesa dell’Eni interessi esterni all’azienda. Nei mesi successivi Colitti dette battaglia sostenendo con forza in seno al vertice dell’Eni i suoi argomenti contrari all’assorbimento partendo dal fatto che l’Eni poteva certamente fare bene una analisi contabile e finanziaria per certificare i conti ma non aveva invece al proprio interno alcuna competenza professionale per valutare e poi sviluppare queste attività. Colitti non contava solo sulla evidenza delle sue ragioni ma anche sul fatto che in forza del mandato ricevuto per legge il vertice dell’Eni aveva la piena facoltà di dire Sì o No, purché ne fosse convinto e ne avesse il coraggio. Ma la dirigenza ex Egam entrata “provvisoriamente” negli uffici dell’Eni si organizzò come una vera e propria lobby, con appoggi politici e sindacali e di parte della stessa dirigenza Eni, contrattaccando per dimostrare ottimistici piani di risanamento e gli importanti vantaggi per Eni dall’integrazione delle nuove attività. Lo scontro tra i sostenitori dell’una e dell’altra posizione durò per mesi e fu aspro e persino drammatico per la rottura in seno alla dirigenza Eni, mai successa prima, ma nel 1978 il vertice dell’Eni si convinse a dire Sì; venne così creato il settore minero-metallurgico con tutte e 33 le società ex Egam ricevendo in cambio dallo Stato una dote di 577 miliardi che secondo gli “esperti” di quella lobby sarebbe certamente bastata a risanare i conti e rendere competitive le aziende. Così non fu e dopo 21 anni l’intera attività venne liquidata dopo una perdita di oltre 2,5 miliardi di euro, dieci volte la “dote”, con un danno evidente per l’Eni che in quegli anni sottrasse un capitale enorme alle proprie attività nella ricerca di petrolio e gas e nell’industria. Ebbe coraggio Colitti anche molti anni dopo quando dopo la privatizzazione dell’Eni nel 1992 si cominciò a discutere della necessità di separare Snam da Eni per rispettare la normativa europea sulla concorrenza recepita nel 2000 dal decreto Letta. Secondo le regole europee sulla concorrenza la separazione di un’azienda dal gruppo di appartenenza diventa necessaria per due principali motivi: quando l’azienda assicura al Gruppo di appartenenza una posizione dominante; quando gli scambi tra l’azienda e il resto del Gruppo possono alterare i risultati di bilancio se le transazioni vengono fatte a prezzi convenzionali. Nel caso della Snam l’appartenenza all’Eni non creava una posizione dominante in quanto l’accesso alla rete gas è regolato da precise procedure che mettono alla pari tutti i clienti, distributori e industrie, sotto il controllo della Autorità dell’energia e in quanto da tempo Snam opera in libera concorrenza con produttori e importatori di gas; il secondo motivo è invece consistente in quanto Snam comprava e vendeva dalle altre aziende del Gruppo. In questa situazione era sufficiente separare la gestione contabile e finanziaria di Snam dal resto del Gruppo Eni (il cosiddetto unbundling) in modo da garantire la trasparenza dei conti mantenendo in capo all’Eni la proprietà di una società-chiave per la sua solidità finanziaria e per la sua strategia di sviluppo. Su queste ragioni poggiava l’opposizione di Colitti alla separazione proprietaria calcolando il grave danno per l’Eni sotto due profili: veniva a mancare la cosiddetta rendita finanziaria del metano ricavata nel dopoguerra dai giacimenti della Val Padana, a prezzi bassi però a sostegno della ricostruzione industriale post bellica, e reinvestita interamente per finanziare la realizzazione di una rete nazionale ed internazionale che non ha pari al mondo per livello progettuale e tecnologico; altrettanto importante il ruolo storico di Snam come “levatrice industriale” di SnamProgetti, Saipem e Nuovo Pignone che sulle commesse per la metanizzazione (al pari di quelle per la ricerca mineraria) fecero leva per mettere a punto originali modelli di progettazione e avanzate soluzioni tecnologiche e così diventando leader mondiali in molti settori nel campo dell’energia da idrocarburi. Dagli anni ’90 quando era ancora dirigente dell’Eni e per tutto il duemila Colitti scrisse e discusse di queste ragioni senza mai rassegnarsi. Ma nel 2012 la proprietà di Snam fu separata da Eni che ne mantiene ora una modesta quota di poco più dell’8%, ininfluente in termini finanziari ed operativi. Ma qual è il risultato virtuoso di questa separazione voluta dai sacerdoti della concorrenza? La leva di comando di Snam è nelle mani della Cassa Depositi e Prestiti (partecipata per l’81,5% dallo Stato e per il 18,5% da oltre 50 Fondazioni bancarie) che ha circa il 32% della azioni; il restante 60% del capitale azionario è flottante nella proprietà di una miriade di azionisti (oltre 1.400 dalle ultime rilevazioni Bloomberg) che hanno competenze e cuore solo nella finanza. Il risultato è che una società fortemente caratterizzata dalla tecnologia come Snam non ha più una guida industriale, la Cdp che per compito istituzionale è prudente garante del risparmio postale lo investe invece a rischio in industrie di cui non ha alcuna competenza gestionale, lo Stato e le Fondazioni bancarie azioniste di Cdp mostrano interesse solo al dividendo, così come la larga maggioranza fatta di azionisti-finanzieri. Come modello di governance un vero pasticcio che mette un monopolio strategico nelle mani di un’azionariato tutto finanziario e in grandissima parte privato costringendo una società dai tempi necessariamente lunghi ai tempi corti dei risultati trimestrali. E anche per la concorrenza, che dire di Snam detentore del monopolio della rete di trasporto nazionale e azionista al 100% di Italgas? Non è forse Italgas concorrente di altri 300 distributori? Non è forse questa una chiara situazione di posizione dominante? Di cui pochi o nessuno sembra accorgersi. Insomma Marcello Colitti ha perso ma aveva ragione . Onore alla Staffetta che lo ha ospitato per tanti anni e (Roberto Macrì) sente il dovere di ricordarlo. 13 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Il primo incontro e le considerazioni sulla sua tragica morte Colitti e Mattei, il maestr o che trasformò la sua vita maestro Un rapporto speciale quello di Colitti con Mattei, una sorta di fulminazione sulla via di Damasco, che segnò tutta la sua vita aziendale e professionale. Una figura che, come scrisse, cresceva nella sua memoria man mano che si allontanava: nelle sue dimensioni operative per i grandi risultati raggiunti in un tempo brevissimo; a livello di intelligenza per le intuizioni folgoranti che ebbe non solo sul mercato, ma anche nel quadro più ampio dei rapporti economici, sociali e politici del mondo; nella sua dimensione umana per la dedizione al suo progetto, il suo disinteresse, la sua modestia e per il suo fascino. Per GB Zorzoli, si veda il suo ricordo, Mattei per Colitti più che il capoazienda fu un secondo padre, il primo avendolo perso drammaticamente a tredici anni. Due le testimonianze che di seguito pubblichiamo: il ricordo del suo primo incontro con Mattei, tratto dal libro “Eni, cronache dall’interno di un’azienda”, e un brano del libro “Energia e sviluppo in Italia: la vicenda di Enrico Mattei” già pubblicato sulla Staffetta il 26 ottobre 1987 a 25 anni dalla morte. L’incontro con il Capo “Sono le otto e un quarto. Sono in ufficio perche c’è più caldo che nella mia stanza d’affitto, e il posto più caldo è la stanza del capo, Giorgio Fuà. Squilla insistente il telefono. Entro e sollevo il ricevitore. «Giorgio, vieni giù per favore». Click. Rimango per un attimo stupito, Esco dalla stanza e incontro l’usciere. «QuaIcuno ha chiamato il professor Fuà» gli dico: «Ha detto: Giorgio vieni giù per favore». «E’ il presidente» dice quello, la faccia sgomenta. Mi prende un braccio e mi spinge verso le scale. «Corra, corra, non può mica farIo aspettare!». «E dov’è?». «AI secondo, al secondo», e quasi mi butta giù dalle scale. AI secondo piano avvicino un segretaria. «Il presidente ha cercato il professor Fuà» dico debolmente. Lei mi squadra, lo sguardo opaco. «Fuà non c’è?» chiede con voce atona. Faccio cenno di no. «Se ha chiamato, qualcuno deve andare» e anche lei mi tocca il braccio per spingermi verso una porta socchiusa. Entro. Il presidente è solo, assorto nella lettura. Saluto. «Sei tu Giorgio?» chiede senza alzare la testa. Apro la bocca per spiegargli, ma lui alza la testa e mi vede. Balbetto che sono dell’ufficio di Fuà, sono appena arrivato, ma non mi fa finire. «Lei è uno dei ragazzi di Fuà. Bene, bene! S’accomodi», e mentre mi siedo, si alza, lungo lungo, gira attorno alIa scrivania e mi siede accanto. «Bene, bene», ripete: «Qui abbiamo bisogno di giovani, c’è tanto da fare, ci vogliono cervelli freschi, idee nuove. Lei è un economista?». Rispondo che mi sono laureato in legge con una tesi sull’IRI, che ho una borsa di studio. Lui ascolta come se fossero le notizie più importanti del mondo. «Bene, bene! Sull’IRI. L’impresa pubblica, siamo noi quella, dobbiamo lavorare più degli altri, l’ltalia è povera, deve andare più in fretta. Ma questa volta abbiamo il gas, questa volta ce la facciamo. Che faceva prima di venire da Fuà?». Rispondo che facevo pratica da avvocato, ma che pensavo di emigrare. «Ecco!» il presidente si scalda: «Ecco! gli italiani elemosinano lavoro all’estero! Non deve succedere più. Dobbiamo studiare, fare cose nuove, ci vogliono i giovani... ». Entra una segretaria, avvisa di una telefonata. «Sì.» dice il presidente, e si alza. «Adesso non abbiamo tempo» mi dice: «Porti queste carte a Giorgio, gli dica di chiamarmi». Mi tende la mano. «Auguri, buon lavoro, si ricordi che bisogna studiare. Non c’è mai tempo» dice sorridendo e alzando il ricevitore. Mi trovo fuori, e m’accorgo che non gli ho detto il mio nome.” Quando Mattei morì “Il 27 ottobre 1962 il jet di Mattei si schiantò a Bescapé, presso l’aeroporto di Linate cui era diretto, con i motori a pieno regime, tanto da conficcarsi nella terra resa molle dalle piogge e dal temporale che infuriava nella zona al momento del disastro. Questa meccanica rese non comune il sinistro, e la commissione d’inchiesta dell’Aeronautica, dopo un paziente lavoro di ricerca delle parti dell’area, ricostruzione a terra ed esame tecnico dei motori e delle altre parti, non riuscì ad indicarne la causa precisa. La commissione escluse l’esplosione in volo, ma non seppe spiegare perché mai fosse caduto un aereo i cui strumenti funzionavano tutti e dopo l’incidente non presentavano tracce di arresto o malformazioni. Così, la tragedia lasciò una serie d’interrogativi, poi raccolti in forma visiva dal film di Rosi. Non essendo possibile scioglierli qui, è utile soffermarci sulle condizioni politiche ed economiche in cui si trovavano l’Eni e Mattei al momento della sua morte. Sul piano politico, la situazione italiana era ancora estremamente incerta, e la prospettiva di un accordo fra socialisti e democristiani aveva portato ad una certa radicalizzazione sia a livello generale, sia nell’entourage di Mattei, nell’Eni e nelle società del gruppo. Andava crescendo un certo disaccordo fra Mattei e l’ala più conservatrice dei suoi collaboratori, legata direttamente alla Dc, che gli rimproverava l’appoggio al centro-sinistra e temeva che la sua pressione finisse per caricare tale formula di un contenuto troppo innovatore, e quindi pericoloso per il mantenimento di determinate posizioni democristiane. Furono gli stessi a preparare quella linea di entrata dell’Eni nella Dc e di freno, se non di aperta opposizione, ai tentativi di programmazione, che caratterizzerà la posizione dell’ente nei primi anni dopo la scomparsa del suo creatore. Del resto, tale linea reagiva a due fatti importanti. In primo luogo, Mattei sentiva più che mai l’esigenza di mantenersi al fianco della sinistra Italiana, anche per far dimenticare l’appoggio iniziale dato al governo Tambroni. Egli appoggiò vigorosamente sulla stampa e in sede politica il progetto socialista di nazionalizzazione dell’energia elettrica: ma questo fattivo appoggio si tinse anche del colore fosco della vendetta, perché il fallimento del grande disegno energetico degli ultimi anni Cinquanta aveva reso sempre più inesorabile la faida fra Mattei e l’industria elettrica, accesa subito dopo la guerra con il progetto Valerio di privatizzazione dell’Agip ed estesa alla Finelettrica con la vicenda geotermica. Motivo politico e motivo fazioso erano per Mattei tanto importanti da indurlo ad accettare persino una soluzione istituzionale estranea a quel sistema delle Partecipazioni Statali che gli stava tanto a cuore. In secondo luogo, la differenza crescente fra il ritmo d’investimento del gruppo Eni e le sue disponibilità finanziarie aveva cominciato a preoccupare seriamente molti dirigenti dell’Eni che si chiedevano se non fosse ragionevole un’espansione meno veloce - soprattutto nella distribuzione petrolifera all’estero e nelle diversificazioni più lontane dal petrolio - ma più sicura sul piano finanziario e reddituale. 14 In effetti, il rapidissimo sviluppo delle attività dell’Eni aveva gonfiato a dismisura il volume degli investimenti in corso di attuazione, e quindi non ancora a reddito, con i relativi oneri finanziari. Non essendo la rendita mineraria più sufficiente a finanziare lo sviluppo, si profilavano per il gruppo strozzature finanziarie relativamente nuove che, nel boom convulso degli ultimi anni Cinquanta, portarono ad un forte aumento dei debiti a breve, conferendo all’intera gestione del gruppo un elevato grado d’insicurezza. Il dissenso nell’impresa era acuito anche dalla certezza che Mattei non aveva nessuna intenzione di cambiare strada: le ultime sue proposte, come l’appello stampa da lui rivolto agli emigrati perché tornassero in Italia e l’idea di creare un sistema atto a mantenere al lavoro i pensionati, non incontravano certo l’approvazione di coloro che nel gruppo non accettavano più lasua politica di rapidissimo sviluppo. Questo disagio del gruppo dirigente, unito a fatti d’altra natura, indusse all’abbandono uno dei collaboratori più diretti di Mattei, Eugenio Cefis, che teneva i rapporti più stretti con la Democrazia Cristiana. Su questo complesso di difficoltà si innestarono poi i furibondi attacchi di Indro Montanelli sul Corriere della Sera. II primo di questi, del 13 luglio 1962, iniziava non per caso con un’allusione ad un dibattito sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica. D’altra parte la ricerca mineraria in Italia e all’estero dava frutti troppo lenti per poter dare all’Eni una nuova base operativa e finanziaria. Il primo carico di greggio iraniano proveniente dai giacimenti scoperti dalla Sirip, società mista Agip-Nioc, arrivò a Bari il 19 marzo 1961; ma si trattava appena di un inizio. Lo scontro con le grandi compagnie sembrava più mortale che mai. Infine, tra i nemici dell’Eni si era ormai schierata la destra francese, ferita dall’atteggiamento di Mattei sulla questione algerina, riassunto nella sua famosa frase “non voglio che i miei tecnici si trovino a dover lavorare sotto la protezione delle mitragliatrici francesi”. Mattei aveva anche detto di considerare una fortuna che l’Italia avesse perso le colonie, perché ciò la rendeva più accetta ai paesi in via di sviluppo; e che non vedeva la ragione di mettere in pericolo questa posizione aggregandosi ad un’operazione che ognuno sapeva non sarebbe continuata indefinitamente nella forma presente. Com’è noto, l’Oas lo minacciava da tempo, e le sue minacce apparivano molto serie. Stava preparando una risposta Valutata nel suo complesso, questa situazione potrebbe essere considerata di grave crisi. Ma, in realtà, essa non differiva molto dalla situazione normale. L’Eni si era sempre sviluppato a ritmi più veloci di quelli normali, e la cautela, sul piano operativo e finanziario, non era mai stata il punto forte di Mattei. Come si usa dire nel gergo dei finanzieri aziendali, l’Eni era overstretched, cioè troppo teso sul piano finanziario; ma disponeva di buone possibilità di ripresa, non appena fossero entrati in produzione gli investimenti in corso. I debiti a breve erano tanti, ma non rappresentavano una seria minaccia, perché il potere contrattuale di Mattei verso le banche era ancora forte. La campagna di Montanelli non era qualcosa di nuovo; Mattei era abituato agli attacchi, e sapeva di dover pagar cara la sua politica contro le società elettriche. Gli attacchi di stampa gli ricordarono probabilmente le altre svolte della sua carriera, e forse lo stimolarono a cercar di uscire dalla situazione con mezzi paragonabili ai ‘colpi’ con cui era riuscito a tirare dalla sua l’opinione pubblica italiana negli anni di partenza. Le minacce dell’Oas andavano perdendo importanza mano STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 a mano che la tragedia algerina si concludeva e i problemi, petroliferi e no, assumevano più chiaramente il loro aspetto di rapporti interni al gruppo dirigente algerino, e fra esso e gli interessi francesi. Quali che fossero le sue intenzioni, il ruolo di Mattei nella guerra d’Algeria era stato marginale: i rapporti che egli ebbe a Tunisi ed a Roma con i capi ribelli non ebbero importanza politica ed economica tale da perpetuare l’odio dell’Oas anche dopo la conclusione della guerra e dopo il regolamento degli ultimi conti fra francesi e algerini. Ad un uomo non abituato certo alla vita comoda, questi problemi non dovevano sembrare terribili. E Mattei stava preparando una risposta così importante da cancellare d’un sol tratto tutte le difficoltà; un colpo comparabile alla visita di Vanoni a Cortemaggiore: l’accordo con la Esso. L’Eni aveva bisogno di greggio; gli americani e la Esso avevano paura dell’offensiva petrolifera sovietica, e si rendevano conto che per batterla dovevano accettare condizioni e formule contrattuali relativamente nuove. Il piano d’azione americano verso Mattei era basato su una valutazione accurata della psicologia dell’uomo. Esso comprendeva una vera e propria offensiva di relazioni pubbliche: una laurea ad honorem dell’Università di Stanford (Mattei attribuiva grande valore alle lauree e già ne aveva collezionato cinque), una visita al presidente Kennedy, poi la firma del contratto. La base dell’accordo era stata definita con contatti ad alto livello politico: in un incontro con l’allora vice segretario di Stato, George Ball, presso l’Ambasciata americana di Roma. II “Middle East Economia Survey” del 2 novembre 1962 scriveva che l’accordo “copriva questioni come l’approvvigionamento a lungo termine di greggio all’Eni (probabilmente dalla Libia), l’acquisto di una gran quantità di attrezzature petrolifere dalla consociata dell’Eni, Nuovo Pignone, e la fornitura alla compagnia di distribuzione dell’Eni, l’Agip, di prodotti petroliferi nelle aree nelle quali l’Eni non ha ancora raffinerie”. Si trattava sostanzialmente di una replica dell’accordo con l’Urss. Il programma americano non poteva riuscire più gradito a Mattei. Esso gli appariva come una vera e propria apoteosi, il riconoscimento pubblico e solenne della realtà dell’Eni e della politica petrolifera italiana; e tutto ciò senza che egli avesse ritrattato nulla, senza che avesse cambiato una virgola alla sua politica anticolonialista e filo-araba. E’ facile immaginare il battage propagandistico e di stampa che ne sarebbe seguito, ed il vantaggio politico che Mattei, accettato dagli americani e non più pericoloso sovversivo, ne avrebbe tratto sul piano delle sue difficoltà con il centro-sinistra, con le banche italiane ed internazionali e con i giornali che l’attaccavano. Aveva bisogno di un altro anno soltanto; dopo la sua riconferma, che doveva venire nel 1963, avrebbe cominciato a preparare la propria successione, e nel 1966 si sarebbe ritirato a pescare: o almeno così diceva a tutti, rifiutandosi persino di discutere le fasi di certi piani operativi che si estendevano oltre il 1966. Forse era la civetteria dell’uomo che si sente invecchiare e si vuol ritirare come un campione imbattuto; forse era il peso d’una vita di lavoro frenetico; forse la sensazione della fine di un periodo eroico; forse l’intuizione che non rimaneva se non operare senza scosse il trapasso da una impresa guidata dal condottiero a un’impresa manageriale, meno avventurosa ma più solida e attenta alla continuità. Ma non vi poté essere riposo per Mattei, e il volo del venerdì sera inaugurò il lungo week-end della morte.” (dalla Staf fetta del 26 ottobre 1987) Staffetta 15 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Quando venne eletto “Uomo dell’anno” della Staf fetta Staffetta I grandi temi dell’energia nelle riflessioni di Colitti alla fine del 1996 La decisione di assegnare da parte della redazione della Staffetta il riconoscimento di “Uomo dell’anno” a personalità in grado di lasciare un’impronta significativa nel campo dell’energia in Italia, guadagnandosi un generale consenso di opinioni, risale al 1992 e da allora non si è mai interrotta. Nel 1996 toccò a Marcello Colitti, quinto della serie. Molte le ragioni a favore di questa scelta riassunti nell’editoriale del giornale dell’11 gennaio 1997: il traguardo di un ciclo di lavoro nel gruppo Eni durato ininterrottamente quarant’anni (ne uscirà definitivamente nel 1999); la recente pubblicazione, con la collaborazione di Claudio Simeoni, di un’analisi fondamentale sulle vicende petrolifere mondiali degli ultimi trent’anni e sulle prospettive del petrolio e del gas nel XXI secolo; l’approccio originale allo studio e alla soluzione dei grandi nodi dell’energia mondiale; il contributo dato alla presenza dell’Italia nei luoghi più prestigiosi di mediazione culturale, con una fitta rete di rapporti nei grandi paesi produttori e consumatori di energia; l’esperienza, per molti aspetti unica, di osservatore dei fatti del petrolio e dell’energia nell’arco di più decenni; l’esperienza altrettanto unica di aver vissuto in prima persona l’evoluzione dell’Eni da Ente di Stato a Società per azioni; e per finire, la stima di cui era circondato a livello internazionale dai più grandi studiosi ed esperti dell’energia. Arrivando alla conclusione che di uomini come Colitti, capaci di dialogare da pari a pari nel mondo dell’energia, ce ne sono pochi. Di seguito un ampio stralcio delle riflessioni e delle osservazioni raccolte dalla redazione della Staffetta nel corso di un forum svoltosi presso la sede di via Aventina poco prima del Natale Dottor Colitti, dopo un periodo di sostanziale stabilità sui mercati petroliferi, si assiste oggi ad una nuova ondata di incertezza, che coinvolge l’intero mercato dell’energia. Cosa sta succedendo? Il mercato delle fonti di energia è un derivato del mercato del greggio: esiste un prezzo principale di cui gli altri settori risentono. Ciò non soltanto perché‚ le fonti di energia sono legate l’una all’altra da svariati fattori, ma anche perché‚ il prezzo del petrolio è il sensore più sofisticato, quello che reagisce prima alle situazioni di disagio, anche le meno visibili. Generalmente, quando il mercato del greggio si muove, è segno di un disagio economico o politico (negli ultimi tempi, soprattutto politico). Se volessimo guardare indietro, dovremmo dire che vi è stata negli ultimi 10 anni una stabilità eccezionale, inusitata. In cui, paradossalmente, il fatto che il mercato fosse determinato dallo strumento più variabile e girovago possibile, i “futuri”, ha prodotto il massimo di stabilità. Da un certo punto di vista, questo è abbastanza logico, poiché‚ dal momento che tutti i giocatori agivano per determinare la stabilità, alla fine l’obiettivo comune è stato raggiunto. Tuttavia, nella teoria, il sistema dei futuri avrebbe dovuto provocare il massimo della instabilità. Invece, si sono avuti 10 anni di stabilità, che è un periodo lunghissimo per il mercato dei petroli. Un periodo molto lungo: l’epoca dell’Opec, per capirci, è durata meno di 10 anni. Del resto, il mercato del petrolio è caratterizzato da cicli decennali. Il mercato degli anni ’50 (teso, con prodotti poco reperibili e dominato dall’integrazione spinta) è finito agli inizi degli anni ’60, quando si è affermato un mercato di grandi sconti caratterizzato da abbondanza di greggio (un contesto che ha permesso tra l’altro all’Agip di svilupparsi). I 10 anni successivi sono stati invece il periodo di gestione dell’Opec, terminato con il controshock di Yamani che ha dato vita al decennio di stabilità. Nessuno conosce il meccanismo che innesca il cambiamento, ma è un fatto che tutto cambia ogni 10 anni. Siamo entrati in un nuovo ciclo? Probabilmente sì. Il mercato attuale è completamente drogato dalle scelte politiche. Giuste o sbagliate che siano, queste scelte hanno escluso dal mercato uno dei grandi produttori (l’Iraq) e hanno paralizzato lo sviluppo di altri due giganti come Iran e Libia. Questi ultimi sono del tutto o in parte paralizzati nei loro investimenti di sviluppo perché‚ non hanno accesso ai mercati dei capitali a causa degli embarghi. Di conseguenza, abbiamo un mercato petrolifero con tre grandi produttori esclusi o messi in un cantone. Mi chiedo se sia possibile mantenere la stabilità del decennio 1985-95 in una simile situazione. Io ho qualche dubbio. E se fosse proprio questo l’obiettivo di chi ha fatto le scelte politiche? Non credo che la politica internazionale si ponga obiettivi e attui azioni coordinate per raggiungere uno scopo così ampio. Non credo che la politica di nessun Paese abbia uno scopo definito. A mio avviso, i vari aspetti politici vengono affrontati raramente tutti insieme. Oggi, Washington non si preoccupa degli embarghi, anche perché‚ gli Usa sono in un momento di grande euforia economica. Comunque sia, in una fase di tensione come l’attuale, basta un anno più freddo o che le compagnie cerchino di risparmiare sul costo dello stoccaggio per determinare situazioni di scompenso. Questo influenza la percezione degli operatori. A suo avviso, i cicli che caratterizzano il mercato petrolifero hanno coinciso con il mutare dei rapporti di forza tra le diverse aree? Oggi, ad esempio, non c’è più la potenza sovietica... L’unico mutamento che si può vedere chiaramente dall’uscita di scena dell’Unione Sovietica è che agli Usa non importa più che la Russia sia favorita dagli alti prezzi del petrolio. Gli Usa non hanno guadagnato una ragione per tenere i prezzi alti ma, semplicemente, non hanno più paura di favorire la Russia. L’errore sulle previsioni del prezzo del greggio, che si pensava sarebbe arrivato a 50 dollari al barile, è una delle ragioni del crollo dell’ex Urss: avendo sbagliato previsioni, e concentrato sull’industria del petrolio e del gas una grande quantità di investimenti disordinati, i sovietici si sono trovati spiazzati da prezzi molto più bassi. Il nuovo ciclo parte comunque con una contrazione artificiale dell’offerta, dagli effetti difficilmente prevedibili. In fondo, la riduzione dell’offerta aiuta e danneggia allo stesso tempo le compagnie petrolifere, che se da un lato trovano un freno allo sviluppo delle loro attività, dall’altro sono favorite dalla crescita del prezzo. Vorrei aggiungere che la tecnologia ha raddoppiato le disponibilità del Mare del Nord: immaginate cosa succederebbe se le nuove tecniche venissero adottate su larga scala anche negli Usa, dove esiste un’enorme quantità di giacimenti vecchi. C’è insomma una discontinuità tecnologica molto forte, su cui bisognerebbe fare bene i conti. 16 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 A monte, dunque, c’è una regolamentazione, o perloferta, a cui corrisponde a valle dell’offerta, meno un controllo dell’of una forte deregolamentazione... Io non ho visto alcun effetto della deregolamentazione sul mercato petrolifero. Le compagnie si integrano perché‚ sono spaventate dalla caduta dei margini. Ma si integrano a valle. Le operazioni tipo BP-Mobil o Shell Oil- Texaco, in pratica, servono a contenere i costi. E’ pur vero che è sempre esistita una sfasatura tra upstream e downstream, ma oggi il sistema di raffinazione europeo distrugge valore piuttosto che aumentarlo. Come si dice: il net-back è negativo. Questo perché‚ il mercato dei prodotti petroliferi, soprattutto in Europa, non cresce più, di conseguenza la capacità di raffinazione è esuberante. Nessuno, però, se la sente di uscire dal mercato, che deve quindi remunerare anche i produttori marginali. Il prezzo continua così a scendere e, alla fine, il valore del barile ricomposto con i prezzi dei prodotti sfiora quello del greggio. Una simile situazione non può non suscitare grosse preoccupazioni in Europa, dove il sistema reagisce lentamente, e, con effetti più rapidi, nel reattivo mercato Usa: non appena sono cominciati a calare i margini di raffinazione, sono stati avviati i primi contatti e stipulati i primi accordi, cercando la salvezza nell’aumento delle dimensioni. E’ difficile fare previsioni. Ma certamente c’è uno scollamento tra l’upstream (in cui i costi della produzione diminuiscono grazie alla tecnologia, alle nuove ricerche e ai nuovi ritrovamenti) e il downstream, che non riesce più a muoversi a causa della sovracapacità e delle crescenti specifiche di qualità ecologica dei prodotti. Molti sostengono che upstream e downstream finiranno per equilibrarsi, cioè che alcuni decideranno di andar andar-sene dalla raf finazione. Lei ci crede? raffinazione. Di gente che se ne è andata, in 40 anni, non ne ho mai vista. Compagnie come BP e Shell se ne sono andate dall’Italia, ma il nostro è un mercato marginale. Il mercato italiano, infatti, non esiste in senso stretto. Esiste un mercato del sud Europa e l’Italia risente dei prezzi del Mediterraneo, come del resto la Francia. Quello italiano ha una struttura interna particolarmente rigida, è vero, ma nel complesso non è un mercato che si comporta in modo diverso da quello francese. Vi sono però degli aspetti particolari che lo dif ferenziadifferenziano, come la poca concorrenza. In Italia, i prezzi al consumo non sono più bassi che in altri Paesi europei, ad eccezione dell’Inghilterra, che è un mercato particolare. E anche il mercato degli ipermercati in Francia o altrove è particolare: non ci sono ipermercati sulle autostrade... In Italia esiste tuttavia una compagnia leader leader.. L’Antitrust ha detto che vi è una riduzione della concorrenza. E in effetti quella di Agip è una posizione piuttosto “stravagante”, paragonabile solo a quella che aveva la Shell Mex (Shell-Bp) in Inghilterra fino a 15 anni fa. Il mercato italiano non è brillante. L’Inghilterra è un mercato diverso, poiché‚ c’è una tradizione di guerra tra le compagnie. Inoltre, c’è stato il fenomeno del calo del prezzo del gas che ha cambiato lo schema. Finalmente, è stato corretto il paradosso di avere prezzi del gas simili a quelli dei Paesi consumatori, pur essendo un produttore. Il mercato europeo è comunque condizionato dalla stagnazione economica. Sostituire un impianto vecchio con- viene di rado, anche se con le nuove tecnologie si abbassano i costi. Di conseguenza, abbiamo impianti vecchi e un mercato ingessato. Come avviene anche nella chimica, nell’acciaio... L’Europa è insomma un’area di quasi stagnazione, con tutte le caratteristiche di un’area stagnante. Ciò implica un invecchiamento delle aziende e dell’intera industria. Sul fronte dei nuovi investimenti si può tuttavia citare il matrimonio tra industria elettrica e petrolifera nella gassificazione del tar tar,, che comporta rilevanti investimenti e un salto tecnologico. Non so se la gassificazione sia giustificata dai ricavi effettivi o dal sussidio pubblico. Ma se quest’ultimo è preponderante, penso che non durerà: credo molto poco ai sussidi pubblici. Il giorno che l’Enel sarà un venditore di energia come tanti altri, allora si dovrà rivedere tutto e le cose cambierebbero radicalmente. Se poi la gassificazione ha coinvolto gli americani è perché‚ agli Usa conviene venderci le tecnologie. La posizione dell’Enel si può assimilare a quella della Snam nel settore del gas? Niente affatto, nel caso del gas la situazione è ben diversa poiché‚ la Snam non gestisce da sola il prezzo del gas. Inoltre, la Snam controlla solo il grande trasporto del gas perché‚ nessuno ha mai voluto investire nel settore. Sull’elettricità, l’Enel ha un monopolio di legge, mentre se qualcuno vuole mettere un gasdotto in Italia nessuno glielo può impedire. Non è, insomma, un monopolio, ma uno stato di fatto. Non solo, ma la situazione di “monopolio” si ferma al livello delle città, dal momento che il sistema distributivo è organizzato in modo diverso, e il prezzo viene deciso con un negoziato tra un monopolista e un monopsionista: due soggetti che hanno uguale potere di mercato. Quando la Snam si confronta direttamente con il consumatore finale, cioè con le grandi industrie, queste ultime hanno potere di mercato sufficiente. Ma anche se volesse usare un potere monopolista, la Snam avrebbe delle enormi limitazioni, dato che non c’è nulla che vieti ad un’azienda di costruire un tubo per portare il gas in Italia: se i russi o gli algerini decidessero di arrivare in Sicilia o a Venezia con un gasdotto, la Snam non potrebbe impedirlo. E’ un monopolio teorico: un unico produttore in un’area di mercato libera. Tant’è vero che la Snam non si comporta come un monopolista, sviluppando e continuando a sviluppare il gas anche in un mercato abbastanza stagnante. Non è il comportamento classico del monopolista! Tra le due deregolamentazioni, quella del gas e dell’elettricità, ritiene dunque che ad essere dominante sarà la seconda? L’Enel ha un monopolio abbastanza immobile, nel senso che non è riuscito a creare neppure capacità sufficienti: è un importatore... Ma è anche un problema economico: in quel campo conviene importare... Ma andrebbe capito perché‚. Evidentemente non è per il costo dell’olio combustibile, che ha lo stesso prezzo in Francia e in Italia... Per una serie di scelte politiche è stato bloccato lo sviluppo della capacità, del carbone, del nucleare... Secondo me hanno fatto benissimo a bloccare il nucleare. Se l’Enel non è riuscito a convincere gli italiani che operava bene, è colpa sua. I cittadini e i consumatori hanno sempre ragione e non si sono fidati. 17 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Con Monfalcone, avevano meno ragione di non fidarsi, ma è comunque una loro scelta. Non ritiene che debbano esistere delle regole di interesse generale in alcuni settori strategici come l’energia? Qualunque principio generale non regge se la gente non intende seguirlo. Certo, l’opinione pubblica può reagire anche emotivamente, ma alla fine è pur sempre lei che decide. Rispetto agli anni ’80, il progetto interdipendenza dell’Eni ha maggiori possibilità di successo? Ho ripreso il “Modello Interdipendenza” nel libro che ho scritto insieme a Claudio Simeoni (v. Staffetta 19/10/96 ndr) perché‚ sono del parere che le idee non muoiono mai. Rimane il fatto che è una strada che i Paesi europei non hanno seguito. Così, invece di fare dello sviluppo economico, abbiamo la guerra nel Mediterraneo, e l’Europa non ha fatto nulla per impedirlo. Quello che è successo in Algeria si è sentito arrivare per 10 anni e nessuno ha voluto impedirlo. Dopo di che, è scoppiato, e poteva andare molto peggio. L’Europa non voleva occuparsi di una certa cosa perché‚ riteneva che “il sacro egoismo”, come dicevano i nazionalisti della fine dell’800, era più importante. Qualcuno, però, dice che l’egoismo porta a un miglior funzionamento del mercato. In Europa, ma non fuori. Il mercato nel Nord dell’Africa non funziona. Anzi, non esiste. L’Europa ha semplicemente deciso di farsi gli affari suoi e di non volersene occupare (o di occuparsene in forma di nostalgie post-coloniali come i francesi o a livello di velleità come gli italiani). D’altra parte, l’influenza dominante in Europa ce l’hanno i tedeschi e gli olandesi, che sono gli unici veri esportatori di investimenti, ai quali non importa nulla del Mediterraneo. L’Europa si è guardata l’ombelico, concentrandosi sulla moneta comune, invece di occuparsi dei terribili problemi giusto di là dal mare. C’è bisogno in Italia di una politica energetica? La politica energetica è una scelta ideologica, che sta a monte delle scelte tecniche. Negli anni ’70 e ’80, in cui l’Europa ha tentato di fare una politica dell’energia, non si sono ottenuti grossi risultati. Del resto, la politica energetica di allora non ha comportato scelte importanti: la Germania ha continuato a favorire il carbone, mentre in Italia le leggi sulle fonti rinnovabili arrivano soltanto adesso, a dieci anni dalla crisi petrolifera. In realtà, non si è riusciti a varare una programmazione degna di questo nome e, a volte, si sono attuate scelte contraddittorie. Un esempio banale: quando sono aumentati i prezzi del greggio e dei prodotti petroliferi, i Paesi europei si sono stracciati le vesti ma hanno aumentato le tasse. Non è un esempio brillantissimo: o non si badava al prezzo e si aumentavano le tasse, o si badava al prezzo e si riducevano le tasse. Non si può, come dicono gli inglesi, “correre con i cani e scappare con la lepre”. Ad occhio e croce, proprio nel momento in cui i Paesi europei hanno fatto più rumore, i risultati sono stati pochi e contraddittori. Di conseguenza, non so se oggi si possa davvero pensare ad una politica dell’energia. La politica dell’energia, quella vera, si fa oggi con i criteri ecologici, che sono il fattore dominante, oppure si fa con la non politica urbanistica: tutti dicono che dovremmo salvaguardare l’industria automobilistica, ma abbiamo costruito delle città che escludono le automobili e facciamo di tutto per impedire all’automobile l’uso dell’autostrada. I limiti di velocità sono tali da scoraggiare i viaggi a lungo raggio, mentre le autostrade, fatte per le automobili, sono percorse soprattutto dai camion. In pratica, l’industria automobilistica vende un pro- dotto inutilizzabile. Siamo, insomma, nella contraddizione più completa. Quello che voglio dire è che risulta molto difficile trovare una politica coerente per un mercato complesso come quello dell’energia. Quello dell’automobile è un caso classico, ed è più o meno così in tutt’Europa. Si ragiona a pezzi, e il coacervo delle cose fatte risulta poi inesplicabile. Siamo dunque condizionati dalla politica ecologica? Sì. Ed è giusto, perché‚ questo ci spinge verso la produzione di prodotti meno inquinanti. Che poi siano più costosi non importa, visto che se il prezzo dei prodotti petroliferi importasse qualcosa le tasse che paghiamo sarebbero un crimine. Cosa importa aumentare di 5 lire la benzina per fare un prodotto più pulito, che differenza fa? E gli altri prodotti? Se ci spostiamo dalla benzina, che è un bene particolare, alle fonti di energia impiegate nella produzione industriale, troviamo un mondo diverso, perché‚ si ha la sensazione che, in Europa, il prezzo dell’energia per le industrie sia molto diverso da Paese a Paese. I dati della Federazione dell’industria chimica di Bruxelles dicono che l’industria petrolchimica europea paga l’energia elettrica oltre il 30% in più dei concorrenti statunitensi. E in alcuni Paesi, tra cui naturalmente l’Italia, vi sarebbe addirittura uno scarto superiore. Sarebbe interessante vedere se è vero e da cosa deriva. Il CEFIC, l’associazione europea dell’industria chimica, ha pubblicato un raffronto tra i costi nell’industria chimica Usa e in quella europea da cui si deduce che quest’ultima ha costi molto più pesanti: perché‚ è meno efficiente, ma anche perché‚ paga molto di più l’energia, soprattutto elettrica (che è poi la fonte principale). Se questo è vero, allora si potrebbe ricorrere alla politica dell’energia, ma per vedere se esistono le possibilità per far sì che l’industria europea possa pagare l’elettricità come i suoi concorrenti. Eppure, la politica energetica non si è mai mossa in questo senso, ponendosi sempre e solo problemi di disponibilità fisica. A proposito di politica dell’energia. Quando in Itlia ci fu l’esigenza di garantire una certa autonomia di approvvigionamento nacque l’Eni. Ma oggi, qual è il ruolo dell’azienda nel nuovo contesto mondiale? Le i crede che ci sia ancora bisogno dell’Eni? L’Agip, nata nel 1926, e l’Eni, nel 1953, furono create in periodi di scarsità di energia. Una soluzione seguita del resto in tutto il mondo: si costituiva una compagnia nazionale che, almeno, riusciva ad incassare qualcosa dai costosi flussi di energia di importazione. In Italia si è riusciti a costruire un’azienda molto forte e solida, che è ora in una situazione invidiabile. L’Eni offre oggi vantaggi tecnologici, economici, produttivi e occupazionali. Ce n’è ancora bisogno? Gli americani non si chiedono se c’è bisogno della Standard Oil. E se si chiedesse agli inglesi o agli olandesi se serve ancoda la Shell, risponderebbero che la domanda è senza senso. Crede che una grande azienda petrolifera possa fare politica energetica? Nell’attuale situazione, un’azienda non può adottare comportamenti diversi da quelli del mercato. Può però far sì che il Paese stia dentro il mercato e tragga sviluppo e tecnologia dal business dell’energia. Non bisogna poi dimenticare che il petrolio è un’industria politica, in cui gli eventi più importanti hanno spesso un motivo politico molto forte. E in politica vi sono dei momenti in cui ci si siede a tavolino e si decidono le strategie. L’Italia, che ha già perso troppi treni, dovrebbe cercare di 18 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 non rimanere esclusa da queste trattative, partecipando alla corsa per acquisire risorse su cui abbiamo diritto come chiunque altro. Ma alla corsa si può partecipare solo con le grandi imprese, che hanno le dimensioni e le capacità operative necessarie. E’ vero tuttavia che lo sviluppo di una grande impresa pone sempre problemi complicati. Entro un certo limite, soprattutto per un’azienda petrolifera, c’è una continua osmosi tra la sua capacità di essere credibile sul mercato politico e la capacità di fare affari sul piano delle risorse naturali. Voglio dire che la provenienza di un’azienda non è irrilevante quando un Paese produttore deve decidere a chi affidare le sue risorse. Questo è per noi un problema molto grosso, perché‚ l’Italia a livello internazionale conta troppo poco. La grande impresa, insomma, non può fare tutto da sola. Ha bisogno di una linea di credibilità. Per tornare alla domanda sul ruolo dell’Eni, io credo che le aziende siano in grado di produrre enormi vantaggi, soprattutto quelle petrolifere che prendono decisioni importantissime sulla ripartizione delle risorse. Noi siamo però sempre metà dentro e metà fuori, perchè‚ la credibilità del nostro Paese oscilla paurosamente. nanza, per studiarne gli effetti e per creare il consenso. Ma non è un luogo dove si va a tenere conto degli interessi diversi dai propri. Questo si è rivelato un vantaggio, visto che l’Opec è riuscita a sopravvivere ai prezzi stagnanti o al periodo in cui i Paesi produttori sembravano completamente tagliati fuori dal gioco. L’Opec ha poi superato la grave crisi del 1984-85, quando i sauditi hanno dichiarato di non essere più disposti a ridurre la propria produzione a favore degli altri, e non dimentichiamoci che è sopravvissuta anche ad una guerra tra due Paesi membri (prima tra l’Iran e l’Iraq e poi tra quest’ultimo e il Kuwait): come flessibilità non è male! Dopo le crisi, l’Opec sembra aver acquisito oggi maggiore voglia di contare, ed è possibile che nei prossimi anni si possano aprire nuove opportunità. Se si contano i barili, e soprattutto le riserve, sembrerebbe logico supporre che l’Opec conterà sempre di più, anche se le previsioni sulla produzione non-Opec si sono sempre rivelate sbagliate per difetto. Rispetto al passato, il mutamento più profondo in seno all’Opec è che molti Paesi membri vendono ora prodotti petroliferi e non greggio. In altri termini, sono cambiati molti interessi e meccanismi. Tutto ciò raf forza la tesi secondo cui si otterrebbe un rafforza grande vantaggio da un rapporto più stretto tra Paesi produttori e consumatori, in particolare consumatori come l’Italia che sof frono di una forte dipendenza... soffrono A proposito di luoghi di mediazione culturale sull’ener sull’ener-gia, dove sono oggi i maggiori centri di dibattito? A Oxford, del cui Club lei fa parte? Certo. Ma il vantaggio del dialogo tra Paesi produttori e consumatori non è tanto sul prezzo dell’energia, quanto sulle opportunità e l’accumulazione che ne deriverebbe. Faccio un esempio: nel Medio Oriente, si potrebbe determinare una condizione di maggiore razionalità tra Paesi poveri e Paesi che dispongono di capitali attivando flussi di investimento. Il dialogo tra produttori e consumatori è comunque attivabile in molti modi. Si pensi al caso della legge sulla cooperazione internazionale. Quando se ne discusse, da parte Eni si suggerì di intervenire nei Paesi in via di sviluppo finanziando la equity di questi Paesi nelle joint-venture produttive. In pratica, invece di erogare aiuti economici a pioggia, si chiedeva l’avvio di un sistema che mettesse in grado il Paese beneficiario di pagare la propria quota di progetti produttivi da avviare con le aziende occidentali. In questo modo, tutti avrebbero avuto interesse a produrre qualcosa e a non distruggere il capitale. Inoltre, visto che disponendo di un capitale proprio diviene possibile indebitarsi, un simile sistema avrebbe avuto un effetto “di leva” da uno a sei: per ogni dollaro stanziato dall’Italia se ne sarebbero investiti nel Paese beneficiario da sei a dieci. Un intervento di questo genere avrebbe anche reso il nostro Paese molto più credibile a livello internazionale e avrebbe consentito di avviare un dialogo tra produttori e consumatori. Ma si preferì un intervento diverso. Qual è il ruolo dell’Aie in tutto questo? L’Aie avrebbe potuto costituire un canale di dialogo, ma lo è stato solo in piccola parte. E se è vero che l’Agenzia è nata per raggiungere obiettivi molto limitati (che non sono stati peraltro realizzati), essa è ormai un personaggio in cerca d’autore. Sono stato due anni “chairman” dell’Industrial Advisory Board dell’Agenzia e non sono mai riuscito a impostare una politica significativa: l’Aie fu creata per contrastare le situazioni di scarsità. Che previsioni fa sul futuro dell’Opec? Ritiene che l’Or l’Or-ganizzazione abbia ancora una funzione? L’Opec è un’istituzione aperta, nel senso che è più un luogo di discussione e mediazione che una sede in cui si prendono decisioni. Le decisioni vere e proprie vengono prese dai Paesi che vi partecipano, e l’Opec serve come cassa di riso- Oxford è un’istituzione piuttosto singolare. E’ un club nato 20 anni fa in seno al Saint Anthony’s College per iniziativa di un piccolo gruppo di esperti del settore, tra cui primeggiava Edith Penrose. Il Club ha avuto poi un successo insperato, tenuto anche conto che si tratta di un sistema aperto dove si discute di argomenti molto sofisticati. Agli esordi, i Paesi produttori avevano dei grandi personaggi che esercitavano un’azione di un certo prestigio. Di conseguenza, dalle discussioni venivano fuori idee molto interessanti. Il modello interdipendenza, ad esempio, non è altro che una variazione italiana di discorsi fatti a Oxford. Oggi, all’interno del Club c’è meno dibattito, soprattutto perché‚ i Paesi produttori non vogliono più convincere nessuno (ammesso che abbiano ancora delle tesi vere e proprie). Quindi è diventato più un’area di informazione reciproca dove si parla di strategie, di prezzi, di petrolchimica, di razionalizzazione... Il Club di Oxford funziona in modo molto semplice: c’è una struttura universitaria che offre una stanza dove si discute e un minimo di servizio di segreteria. Il resto (albergo, pasti, viaggio) è a carico dei soci. Il Club ha “figliato” un seminario di venti giorni, che si tiene ogni anno al Saint Catherine’s College e fa scuola ad una sessantina di giornalisti e dirigenti di medio livello delle compagnie petrolifere. I professori del seminario sono gli stessi membri del Club, non retribuiti. Dal corso è poi nato un istituto di ricerca, The Oxford Energy Study Institute, diretto dal segretario del Club, che svolge a pagamento studi molto interessanti. Tutto questo è sbalorditivo. E’ stato creato solo perch‚ c’era un college universitario che ha avuto l’idea di utilizzare le stanze che rimanevano vuote in agosto-settembre. Un caso classico in cui una struttura universitaria è riuscita, senza investire un soldo, a creare un centro di attrazione internazionale. Dove sono altri luoghi di mediazione? Sono abbastanza frequenti in Inghilterra e in America. In Italia invece nessuno si mette insieme se non c’è una Autorità superiore che ordina o prega di farlo. Nei paesi anglosassoni, viceversa, la gente si associa spontaneamente. In Italia non c’è un luogo di mediazione culturale, poichè non c’è la disponibilità di una istituzione ad offrire stabilmente un supporto, seppur minimo. (dalla Staf fetta dell’11 gennaio 1997) Staffetta 19 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Le opinioni di Mar cello Colitti dal 1999 al 2015 Marcello Sono 175 i “pezzi” di Colitti pubblicati sulla Staffetta nell’ambito della collaborazione avviata il 30 ottobre 1999, quando aveva appena lasciato il gruppo Eni, e interrotta il 16 maggio scorso quando fu a malincuore costretto ad interromperla a causa della malattia da cui era stato colpito. Il primo dedicato al rialzo da 11 a 25 dollari dei prezzi del petrolio e l’ultimo alle armi spuntate dell’Arabia Saudita e alla decisione della Shell di acquistare la British Gas. Opinioni pubblicate a cadenza mensile nella rubrica “Le opinioni di Marcello Colitti”, tutte disponibili online sul sito della Staffetta, frutto spesso di contatti esclusivi e personali, in cui le sue esperienze passate costituivano la base per riflettere sui mutamenti in corso nel mercati del petrolio, sulle nuove strategie e sui nuovi modelli energetici, sul comportamento dei maggiori protagonisti. Opinioni su cui, prima di buttarle giù, amava consultarci e confrontarsi. Ne pubblichiamo di seguito alcune per l’attualità che mantengono rispetto a quando vennero scritte o per la capacità di cogliere per primo l‘importanza di certe evoluzioni, come quando riconobbe la portata delle sconvolgenti previsioni di Ed Morse sul boom petrolifero in Usa, diversi anni prima dal suo exploit, e sottolineò la crescente importanza della Cina sullo scacchiere energetico mondiale, o ancora quando si lanciò in una ben argomentata ramanzina all’industria petrolifera dopo il disastro BP. Se milioni di cinesi cambiano energia La Cina è già oggi un importante paese petrolifero, con un consumo di quasi 250 milioni di tonnellate (quanto l’Italia e la Germania messe assieme) e almeno due compagnie petrolifere di rilevanza internazionale, che cercano di ottenere concessioni in giro per il mondo per portare petrolio ad un’economia in rapida crescita. Nonostante la recente battuta di arresto con tutta probabilità la Cina si svilupperà molto rapidamente negli anni a venire diventando un grandissimo consumatore di energia. Prevedere il consumo energetico di un gigante come la Cina in cui le decisioni sull’energia sono tutte fondamentalmente di natura politica non è cosa facile. Si può supporre che tendenze attuali e le scelte politiche del Governo cinese in materia di gas e di petrolio determinino da qui al 2015 tassi medi annui di sviluppo molto diversificati: con tutta probabilità un raddoppio del consumo totale di energia ed un forte mutamento della sua struttura. Il carbone fino ad ora ha coperto in Cina più della metà dei consumi di energia, dato che la Cina ne è grande produttore, con riserve molto ampie, dell’ordine di centinaia di miliardi di tonnellate. La produzione è costosa, la combustione è inquinante, e lo sviluppo dei consumi avviene lungo le coste non vicino alle miniere. Il carbone rimarrà la fonte principale per i consumi termici di massa, mentre il petrolio coprirà soprattutto la domanda per i trasporti e la petrolchimica, ed entrerà nel mercato termico solo per collocare la produzione congiunta di olio combustibile, mentre il gas servirà a sostituire il gas di città, oggi prodotto da carbone o da prodotti petroliferi ed anche ad alimentare moderni impianti termoelettrici a ciclo combinato. Insomma, nei prossimi anni in Cina avverrà una versione moderna di quel processo di sostituzione del carbone che avvenne in Europa negli anni ’50 e ’60 ’60, anche se le dimensioni dei consu- mi consiglieranno probabilmente una sostituzione più graduale. Il carbone potrebbe non perdere il ruolo di fonte principale, giustificato dal volume delle riserve, ma scendere di quota, con un aumento più contenuto di quello degli idrocarburi. Questi ultimi aumenteranno ambedue la loro quota, arrivando assieme a ridosso del carbone. Il gas arriverà al 10% dei consumi - una cifra citata dallo stesso Governo cinese - e il petrolio al 36%. L’elettricità primaria aumenterà, ma scenderà di quota dal 7 al 4%. Quest’ultima previsione potrebbe essere troppo bassa, soprattutto per quanto riguarda l’idroelettricità ma non ci sono molte informazioni al riguardo. Ogni aumento di questa fonte andrebbe comunque a svantaggio del carbone. In conclusione, i consumi di petrolio passeranno da 246 milioni di tonnellate nel 2002 a quasi 600 milioni di tonnellate nel 2015, con un tasso di aumento di circa il 7%, quelli di gas saliranno da 27 milioni di tonnellate di olio equivalente a 168, con un tasso di aumento quasi doppio. Il carbone salirà anch’esso, da circa 520 milioni di toe a poco più di ottocento, mantenendo una quota del 50%. Rimane il problema di come approvvigionarsi di quantitativi così rilevanti. Attualmente, la produzione di petrolio copre solo i due terzi del consumo; prevedere lo sviluppo della produzione è difficile ma sembra improbabile che essa possa tenere il ritmo dei consumi, a meno di nuove grandi scoperte che aumentino seriamente le riserve provate. Il rapporto riserve produzione è già oggi non molto alto (20 anni). Si deve perciò immaginare non solo un forte aumento delle importazioni, ma anche della raffinazione. Un aumento dei consumi di circa 350 milioni di tonnellate di olio equivalente all’anno implica di necessità un’adeguata capacità di raffinazione. Se supponiamo che la capacità massima economica di una raffineria rimanga attorno agli attuali 10 milioni di tonnellate/anno, un aumento di queste dimensioni vorrebbe dire una trentina di nuove raffinerie, o un aumento proporzionale degli impianti esistenti. Natural- mente un aumento di queste dimensioni sta producendo qualche apprensione relativa alla bilancia fra domanda e offerta di petrolio greggio, che qualcuno vede pericolante anche di fronte a sviluppi perfettamente prevedibili. Non vi è alcun dubbio che il maggior fornitore petrolifero della Cina, il Medio Oriente ed in particolare l’Arabia Saudita ha la capacità di aumentare la produzione anche ben al di là del richiesto, dato anche la stagnazione dei consumi europei ed il rallentamento di quelli americani. Lo sviluppo della raffinazione andrà con tutta probabilità di pari passo con quello della petrolchimica, un settore nel quale la Cina gioca già un ruolo importante non solo come maggior importatore mondiale di materie plastiche (seguito, sia pure da lontano, dall’Italia) ma anche come localizzazione per nuove capacità. Le nuove raffinerie saranno di preferenza integrate con impianti petrolchimici. La produzione di gas dovrebbe aumentare, anche sulla base della priorità datagli dal Governo, ed anche perché i giacimenti di gas sono di solito meno concentrati di quelli di petrolio: ma una gran parte del gas verrà importato ed i progetti di importazione sono già in avanzato stato di completamento. Se abbiamo capito, i dati relativi ai progetti in corso, in costruzione o in avanzata elaborazione, si stanno posando due grandi metanodotti il West-East ed il Shanxi-Beijin, alimentati da gas di produzione interna, darebbero la possibilità di far salire la produzione intorno al 2015 a circa 62 miliardi di metri cubi (mmc) portando il rapporto riserve produzione a circa 24 anni dagli attuali 50 (a meno di un aumento delle riserve disponibili). E’ inoltre previsto un aumento delle importazioni da zero a 38,7 miliardi di metri cubi al 2015 di cui 30 con un metanodotto dalla Siberia Orientale. In totale sono 10.000 km di metanodotto di trasporto esclusa la distribuzione (circa un terzo di quelli esistenti in Italia) per circa 62 miliardi di metri cubi di capacità di trasporto a cui van- 20 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 no aggiunti 8,7 miliardi come Gas Naturale Liquefatto (GNL). Il totale della produzione prevista (30 mmc già in produzione oggi, più 32 mmc dei due grandi metanodotti) fa 62 mmc: aggiungendo i circa 39 mmc di importazione si raggiungono i 101 mmc, poco più del 50% del fabbisogno previsto (186,6 mmc). Come il resto possa essere approvvigionato è materia di supposizione. Tuttavia, la geografia dell’area ci può far pensare che il grande metanodotto West-East potrebbe perfettamente convogliare oltre che la produzione dei giacimenti cinesi della zona nord- occidentale del paese, anche una buona quantità di gas dai paesi caucasici, diretta non solo verso la Cina ma anche verso la Corea e il Giappone. Il terzo fra i grandi progetti di metanodotti cinesi viene proprio dalla Russia ma da un’altra direzione, dalla Siberia Orientale, e è previsto andare anche in Corea. Lo sviluppo del consumo cinese di energia richiederà investimenti rilevanti, nella ricerca petrolifera all’interno ed all’estero, nelle raffinerie, nei sistemi logistici, nelle pipelines per il gas e nell’ampliamento del sistema di produzione e di trasporto dell’energia elettrica. Quantificare è oggi impossibile, ma secondo la Banca Mondiale la Cina ha nel 2002 superato gli Stati Uniti d’America per quanto riguarda l’investimento diretto straniero che è stato di circa 57,2 miliardi di dollari, il 37% di tutti gli investimenti nei mercati emergenti. Sembra proprio che i capitali da investimento non verranno a mancare. (dalla Staf fetta del 26 luglio 2003) Staffetta Come salvar e una porzione salvare della petr olchimica italiana petrolchimica I paesi che un tempo si chiamavano industrializzati stanno subendo un processo di deindustrializzazione: l’attività industriale pesa sempre meno sulla loro economia. Entro certi limiti è un fenomeno strutturale, ma sembra diventare un fattore di regresso e preoccupa i maggiori governi del mondo. Poiché anche il nostro paese è largamente interessato da questo fenomeno, è il momento di discuterne, e soprattutto di verificare se esistano modi non tanto di invertire la tendenza, quanto di moderarla. Le cause strutturali del fenomeno si riferiscono al fatto che, superato un certo grado di ricchezza nel tenore di vita dei cittadini e nella loro dotazione di beni di consumo, la domanda di servizi aumenta più rapidamente rispetto a quella di beni. È però difficile attribuire al settore dei servizi un vero e proprio valore aggiunto. Il valore aggiunto è, per definizione, quello che l’industria aggiunge alla materia prima lavorandola, il che nei servizi non si verifica. Lo sviluppo tecnologico opera nella stessa direzione: aumenta la produttività del lavoro e riduce l’occupazione l’occupazione. La minor visibili- tà dell’industria si riflette sul mercato finanziario, che, negli ultimi dieci anni, è stato poco interessato ad investire nelle industrie “tradizionali”. Oltre all’interesse per l’high-tech, esso è tuttora affascinato dalle scalate ad imprese che promettono grandissimi guadagni. Scalate di imprese industriali vere e proprie sono state meno visibili, il che mostra la scarsa propensione del mercato finanziario ad occuparsi dell’industria. Un’altra causa importante di deindustrializzazione dei paesi sviluppati è la concorrenza globale. Paesi a forte popolazione ma a basso reddito, con una forza lavoro ragionevolmente educata, i cui salari sono commisurati al livello economico del paese, hanno un basso costo del lavoro per unità di prodotto. Alcuni paesi “emergenti”, come la Cina, l’India o la Malesia, non soltanto competono oggi nelle grandi produzioni come l’acciaio, ma anche nell’elaborazione elettronica ed assistenza ai clienti. Una buona parte dell’elaborazione elettronica è uscita oggi dagli Stati Uniti e dall’Europa per svilupparsi in India e la maggior parte dei call-center è oggi in Paesi asiatici o africani a basso costo. Negli Stati Uniti, la deindustrializzazione si è verificata principalmente per l’esportazione di capacità produttiva e quindi lo sviluppo avviene così senza aumenti di occupazione. Gli Stati Uniti hanno reagito adottando la strategia del dollaro basso che fa aumentare le esportazioni. Una reazione opposta si è verificata in Inghilterra, che ha optato per la strategia della sterlina forte che aumenta sia il reddito dei servizi finanziari, sia la capacità di influenzare l’economia mondiale attraverso servizi di alto livello finanziario ed imprenditoriale. In Francia e Germania il fenomeno è stato meno pronunciato. Si direbbe che la maggior coesione degli attori dell’economia francese e tedesca e la maggior connessione fra loro e lo Stato abbia prodotto un freno alla deindustrializzazione. In sostanza, la deindustrializzazione è frutto di un processo di redistribuzione planetaria dell’attività industriale, ma sembra che il fenomeno sia in qualche modo gestibile, almeno nella sua velocità, dagli Stati e dai responsabili delle imprese interessate. Il problema è che l’economia non è un motore che possa procedere al minimo per lungo tempo: chi non cresce si riduce, prima in senso relativo, rispetto ai propri concorrenti, poi in senso assoluto, rispetto al proprio passato. Questo è un limite che l’Italia sembra avere già oltrepassato. Il nostro Paese ha sempre importato materie prime ed esportato manufatti. Se il sistema importa però anche i semilavorati, la situazione diventa pericolosa. Anche questo sembra sia accaduto al nostro paese, che è già in una situazione di contrazione del reddito. In Italia tutte le cause di deindustrializzazione hanno operato assieme producendo praticamente la scomparsa delle industrie principali, in partico- lare l’industria metallurgica, e si rischia oggi di perdere anche la petrolchimica. Il fenomeno è aggravato dal fatto che la grande industria ha oggi in Italia un’immagine fortemente negativa: è considerata, forse con qualche ragione, arrogante, troppo legata alla politica, dotata di un potere eccessivo e non legittimo. La Confindustria ha segnato il passaggio ai suoi massimi livelli dalla grande alla piccola industria, quest’ultima non meno politicizzata della prima, ma di minor capacità strategica e minor correlazione con il sistema complessivo. La petrolchimica è un’industria di base, che fornisce materie prime ad industrie e servizi: basta pensare all’impossibilità di avere una grande distribuzione senza contenitori trasparenti, sterili, leggeri ed a basso costo. Dopo una serie di eventi davvero singolari, come la totale “ristatalizzazione operata, più o neno obtorto collo, dall’Eni, la petrolchimica italiana è, oggi, tutta nelle mani di un’impresa che ha il legittimo obiettivo di concentrarsi nel suo core business - ricerca e produzione di petrolio e gas. La mancanza di investimenti nella produzione di materie plastiche ha prodotto un curioso fenomeno: l’Italia è divenuta in pochi anni il maggior importatore di materie plastiche del mondo dopo la Cina. E’ possibile proporre qualcosa che possa non dico invertire la marcia, ma almeno arrestare il degrado e portare un elemento progettuale su cui discutere? La difficoltà di superare l’apatia e di distrarre l’opinione pubblica dai problemi immediati è molto grande, ancor più nel caso di un’industria che ha cattiva fama. Bisogna anzitutto affrontare il tema dell’ambiente: la produzione di olefine e di poliolefine non è inquinante. Le poliolefine sono prodotti puliti sia nel ciclo produttivo che nell’uso che se ne fa, tanto che sono usati con alimenti. Sono leggere, flessibili e riciclabili al 100%: non vi possono essere difficoltà ecologiche. Gli impianti moderni sono così ottimizzati da essere sicuri, ed anche la CO2 addizionale può essere compensata nei modi permessi. Bisogna quindi fare del nuovo chiudendo col passato: chiudere gli impianti vecchi che hanno dato cattiva fama all’industria e che insistono su zone a vocazione turistica. Un nuovo impianto - un cracker - che produca olefine, cioè etilene e propilene (da polimerizzare poi in poliolefine, cioè polietilene e polipropilene) verrebbe alimentato a Virgin Naphta. Poiché questo è un prodotto da raffineria, il nuovo cracker sarà integrato con una raffineria esistente, così da permettergli non solo di usare materia prima senza costi di trasporto, ma anche di utilizzare i gas di raffineria. Le raffinerie italiane sono efficienti e alcune anche di dimensioni ragguardevoli. Il cracker deve essere di dimensioni molto grandi e secondo le tecnologie più avanzate. Questo impianto, nuovo e con le necessarie econo- STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 mie di scala, avrebbe costi competitivi. Essenziale è di coinvolgere quello che oggi è il principale, anzi, l’unico operatore petrolchimico italiano: l’Eni. Questo implica naturalmente che sia possibile trovare anche dei finanziatori privati, ma i volumi da finanziare non sono enormi. Sembra impossibile che lo Stato Italiano possa ignorare un progetto di questo tipo. Non si può certamente tornare alle Partecipazioni Statali, ma lo Stato deve operare attivamente per influenzare l’opinione pubblica, predisporre gli strumenti di finanza pubblica, ed operare sull’aspetto logistico. Per riassumere. E’ possibile preparare e realizzare un progetto che porti una nuova porzione della petrolchimica italiana ad avere un chiaro vantaggio competitivo su gli altri produttori europei. Le sue possibili linee sono la costruzione di un nuovo cracker di grandissime dimensioni, integrato con una grande raffineria, con nuovi impianti di produzione di poliolefine e una struttura logistica efficiente, accompagnati dalla chiusura di Porto Marghera. Un progetto che creerebbe il centro petrolchimico più profittevole d’Europa, e libererebbe aree di prima qualità per lo sviluppo turistico. (dalla Staf fetta del 31 luglio 2004) Staffetta Lettura in chiave impr enditoriale imprenditoriale del disastr o BP disastro «Come molte altre compagnie petrolifere, quella (che ha avuto l’incidente nel Golfo del Messico) affida a terzi ormai da tempo le operazioni, anche le più critiche, sacrificando il suo controllo delle operazioni all’esigenza di risparmiare denaro. Le piattaforme come quella dell’incidente sembrano dei veri e propri villaggi, con diverse catene di comando dei grandi contrattisti. I lavoratori delle varie imprese quasi non si conoscono fra loro. La specializzazione ed il taglio dei costi possono andare troppo oltre. .... Il prossimo passo dell’industria dev’essere quello di rallentare, o, meglio, rovesciare la tendenza all’ “outsourcing”». L’ex presidente della filiale Usa della Shell, John Hofmeister, che ha rilasciato questa dichiarazione ad un giornale americano, non intende certo indicare la causa dell’incidente, ma aggiunge che la confusione potrà ostacolare la ricerca delle cause e anche lo sforzo per impedire che simili incidenti avvengano di nuovo. E’ probabile che vi sia un rapporto fra gli incidenti ed il comportamento dell’impresa, specie quando essi si ripetono. Chi scrive non è certo in grado di dare una opinione in materia. Ma una domanda si può porre. Abbiamo sempre saputo che un pozzo in eruzione si chiude con un pozzo deviato che lo cementa menta. La cosa risale, almeno per me, alle eruzioni di metano nella V alle PaValle dana dana. Oggi, nessuno sembra aver proposto quella soluzione, che sembrereb- be ovvia, anche perché da tempo si sostiene che un pozzo deviato in mare si fa allo stesso modo che in terra, anche se con maggior complessità e maggior costo e un tempo più lungo. Ma torniamo alla dichiarazione dell’ex manager della Shell. Egli ripete ciò che si dice da tempo e cioè che le compagnie petrolifere stanno spingendo troppo in là il loro “dimagrimento”. Forse esse vedono il loro futuro come semplici venditori di petrolio greggio, senza un collegamento stabile con le altre fasi dell’industria. Ma, in realtà, anche nella fase chiave, nell’E&P, l’outsourcing è ormai la tendenza dominante, che ha già fatto crescere le compagnie contrattiste a livelli mai toccati e ha creato una fonte alternativa di tecnologia petrolifera che non è più nelle mani delle compagnie. Forse queste ultime pensano che il punto chiave sia la gestione della finanza, e che tutto il resto possa essere affidato a terzi. La finanza, perché bisogna controllare giorno per giorno il corso delle azioni, per evitare scalate totali o parziali e bisogna non scontentare gli azionisti che possono da un momento all’altro “sfiduciare” il management. La compagnia si può quindi ridurre alla finanza, ed a due funzioni chiave: alla lettura ed interpretazione della linee sismiche con il play back; ed al negoziato con i paesi produttori – a cui qualcuno aggiunge il rapporto con il Governo Americano. Il resto si sostiene, può essere affidato a terzi, con il vantaggio che la posizione del committente è sempre più comoda di quella del contrattista. Ma la cosa non è così semplice. Il problema è che la credibilità delle compagnie petrolifere non aumenta, ma, anzi, diminuisce, e le compagnie non possono più atteggiarsi, come hanno sempre fatto, come l’unica possibile fonte accettabile non solo di tecnologia, ma anche di petrolio greggio. Le raffinerie sono oggi l’oggetto di una vera e propria strategia di abbandono, che sembra non considerare il loro ruolo come fonti della qualità del prodotto, che invece dovrebbe essere oggi una delle principali preoccupazioni. E la tendenza a privilegiare il profitto sopra ogni altra cosa, in una industria complessa, che ha sempre coperto tutte le fasi del lavoro, non si è fermata alla raffinazione, ma ha già aggredito la distribuzione, un’area un tempo gelosamente custodita dalle compagnie, che ne facevano una vera e propria questione di bandiera. L’industria sta ad un punto pericoloso per il suo prestigio, che fino a poco tempo fa era intatto, nonostante qualche posizione politica forse troppo dura. Se le grandi compagnie non sono più dirette responsabili di ciò che avviene, c’è da pensare che qualche altro si debba accollare il compito di garantire che le cose si facciano al meglio e con le tecnologie più adatte. Del resto le compagnie hanno già rinunciato da tempo la responsabilità del 21 prezzo di ciò che esse producono, il petrolio greggio. Già negli anni ’70 con il prezzo Opec, che le compagnie trovarono ottimo, perché offriva loro tutti i vantaggi del free rider, quello di guadagnare molto potendo accusare altri di gonfiare i prezzi; e, qualche tempo dopo, con lo stesso atteggiamento verso il mercato dei futuri, ove le compagnie operano oggi come qualsiasi altro finanziere, e la responsabilità del prezzo è “del mercato”. Ma il loro ruolo dovrebbe sicuramente essere diverso, dato il grande volume di greggio che esse producono e utilizzano. Nessuno rimpiange le sette sorelle dominanti, padrone del greggio nella loro stretta integrazione. Dall’entrata del greggio russo, nei primi anni ’60, e dalle ulteriori scoperte in Africa e nell’America Meridionale, si è formato un mercato, poi in buona parte caduto in mano ai produttori Opec. Oggi nemmeno questi ultimi sono dominanti, e neanche loro controllano il prezzo, dato che la manovra dei volumi da produrre non è sufficiente a controllare il mercato dei futuri; ma la loro funzione è chiara e definita, mentre le grandi compagnie sembrano essere su una traiettoria di ritirata dal mercato. Non sembra, questa, una via percorribile senza gravi pericoli. Il petrolio potrà durare ancora parecchio, e la sua durata dipende dalle nuove riserve che si scoprono giorno dopo giorno. Queste a loro volta dipendono dalle nuove tecnologie in tutte le fasi, ma soprattutto nelle due estreme, la E&P e il mercato dei prodotti, la prima per le nuove riserve e il secondo perché si devono migliorare i prodotti così che i consumatori possano sapere che stanno utilizzando i prodotti migliori possibili. E’ possibile che la strada sia una maggior collaborazione fra tutti i responsabili nel mondo del petrolio. S’è già affermata la tendenza di qualche major a lavorare con le imprese dei paesi consumatori, come ad esempio la Cina. Questa sembra una possibilità importante. Se c’è un interesse delle compagnie a restare sul mercato, ed a far durare il loro prodotto, una delle strade percorribili è questa. Del resto, anche i paesi produttori dovrebbero assumere delle ulteriori responsabiltà. Molti fra essi collaborano già con le major, in molti paesi in cui queste ultime sono ben accette. Ma i legami contrattuali che corrono fra di loro sembrano essere invecchiati, troppo complessi, e dalle conseguenze spesso impreviste, come l’effetto di riduzione della produzione che si è verificato a prezzi molto alti. Si dovrebbe oggi, collaborare con strumenti più semplici e con un interesse comune a mantenere in vita un prodotto fino a che non se ne trova un altro, o un complesso di prodotti, capace di sostituirlo senza danno per i consumatori e senza bisogno di ricostruire tutte le infrastrutture dell’epoca del petrolio. 22 Quest’ultimo è un punto fondamentale. Buona parte delle infrastrutture oggi in funzione, le autostrade, gli aeroporti, la crescita delle città, praticamente tutto ciò che oggi caratterizza il nostro pianeta, è legato all’uso del petrolio, ed il suo esaurimento potrebbe creare una vera e propria rivoluzione a livello mondiale, a meno di non avere dei succedanei, se possibile migliori, che ci permettano di cambiare il sistema con la necessaria gradualità. (dalla Staf fetta del 21 maggio 2010) Staffetta Petr olio Usa, le pr evisioni Petrolio previsioni sconvolgenti di Ed Morse “Per la prima volta dal 1949 gli Stati Uniti sono diventati un esportatore di prodotti petroliferi, ed hanno superato la Russia come maggior esportatore di prodotti petroliferi”. “Gli Stati Uniti sono diventati l’area in cui la produzione di petrolio e di gas cresce più rapidamente. Aggiungendo il Messico ed il Canada si ottiene un tasso di crescita più alto di quanto possa sostenere l’Opec”. “La conseguenza più interessante sarà la reindiustrializzazione degli Usa, basata sul costo della materia prima petrolifera più basso del mondo, forse con l’eccezione del Quatar”. “...l’impatto cumulativo della nuova produzione, del ridotto consumo e delle attività associate potrà aumentare il Gdp reale (degli Stati Uniti) del 2.0% o al 3.3%, e cioè da 370 a 624 miliardi di dollari, di cui 274 per la sola produzione di idrocarburi, mentre il resto verrà generato dall’effetto moltiplicativo e dalla reindustrializzazione dell’economia americana”. Queste quattro frasi, tratte dalla prima pagina di “Energy 2020” (Citygroup ed.), lo studio preparato da Edward Mor Mor-se e dai suoi collaboratori, indicano che il risveglio dell’industria petrolifera del Continente Nord Americano è arrivato alla quantificazione. Le ipotesi ottimistiche già presentate nel volume di Daniel Yergin sono ora confortate da calcoli molto approfonditi, con un corredo abbondante di dati geologici ed economici. In sostanza dal 2011 al 2020 la produzione petrolifera americana è prevista aumentare da 9,0 mbd (milioni di barili/giorno) nel 2011 a 15,6 mbd nel 2020, con un aumento di 6,6 mbd, pari a circa il 70%. Un volume di produzione mai raggiunto finora da nessun paese. Aggiungendo i due paesi limitrofi, Messico e Canada, il totale del 2020 sale a 26,8 mbd, una cifra straordinaria. Nel 2020, la produzione petrolifera degli Stati Uniti verrà per il 24,4% dalla produzione in acque profonde; per il 19,2% dallo Shale Oil; per il 7% dall’Alaska e per il 14,7% dalla produzione di petrolio “non convenzionale”. A questa cifra, pari al 65,% del totale, si deve aggiungere un 25% di Natural Gas Liquids, ed un milione e mezzo di barili giorno, pari STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 al 9,7 %, dei Biofuels. La maggior parte della nuova produzione è quindi dovuta a tecnologie nuove o quasi nuove: le grandi profondità marine; lo Shale Oil; il petrolio “non convenzionale”, le aree con Permafrost, come l’Alaska, ed i Biofuels. La prima considerazione da fare è che i timori che ogni tanto riaffiorano sull’esaurimento delle riserve petrolifere mondiali, e le conseguenti ipotesi di crollo generale dell’economia, originano dalla sottovalutazione dello sviluppo tecnologico e delle capacità dell’industria mondiale di affrontare temi nuovi e nuove prospettive. La seconda considerazione, abbastanza ovvia, è che gli Stati Uniti saranno per un lungo periodo sostanzialmente vicini all’autosuf ficienza, e diverranno all’autosufficienza, esportatori di prodotti petroliferi ver ver-so l’Europa, oltre che di gas gas. Lo sviluppo produttivo avviene in un momento in cui la domanda Usa di combustibili e di carburanti tende a diminuire, come avviene in Europa, o per lo meno, a non aumentare. Il documento cita come cause di tale rallentamento i cambiamenti demografici, la maggior efficienza delle macchine, e la commercializzazione di massa delle nuove tecnologie, ma non cita il prezzo dei carburanti, fortemente aumentato anche negli Stati Uniti. Con lo sviluppo del gas naturale, e la forte tendenza a ridurre la domanda di prodotti petroliferi, che lo studio calcola si sia ridotta di due milioni di barili al giorno dal 2005 a oggi , la produzione petrolifera finirà per lasciare forse più di 700.000 barili giorno per l’esportazione di greggio o di prodotti, sufficienti a provocare una vera e propria rivoluzione nel mercato petrolifero internazionale. Naturalmente, lo studio non nasconde, anzi sottolinea, che raggiungere questi obiettivi implica una “politica nazionale” dell’energia che lasci ampio spazio alla ricerca ed allo sfruttamento dei giacimenti, e che consideri anche l’esportazione di gas e di petrolio come utili all’economia americana. E certo vi saranno sicuramente problemi rilevanti sul mare e in terraferma, sulle conseguenze di trivellazioni diffuse in tutto il territorio e nelle aree marine. Lo sviluppo della produzione interna degli Stati Uniti deve fare i conti con chi si preoccupa dell’effetto ambientale delle tecniche moderne, che sono abbastanza pervasive, e che richiedono un controllo molto stretto e continuo, e la definizioni di nuove procedure, anche abbastanza complesse. La politica che deriva da questa nuova realtà non è quella dell’autosufficienza, ma quella di un paese che non solo diventa un esportatore petrolifero, ma sostiene anche una vigorosa ripresa dell’attività petrolchimica, data l’abbondanza di cariche da cracker e quindi la capacità di competere con le produzione dei paesi produttori del Medio Oriente, quelli che hanno maggiormente sviluppato finora quell’indu- stria. Lo studio analizza infatti la situazione della petrolchimica americana e indica fin da adesso le possibilità di sviluppo offerte dagli impianti esistenti e da impianti nuovi da costruire. Dopo le grandi dichiarazioni sul primato della finanza nell’economia moderna, abbiamo qui un progetto di sviluppo vigoroso dell’industria, che potrebbe credo insegnare qualcosa anche alla nostra Europa. Il rovesciamento del sistema che vedeva negli Usa il maggior importatore di petrolio porterebbe ad una situazione completamente nuova. La storia del mercato petrolifero americano è abbastanza complessa. Dopo la guerra del ’40, Eisenhower aveva decretato la chiusura del mercato americano, per evitare la concorrenza alla produzione interna di petrolio. Questo sistema scomparve negli anni ’70 quando i paesi produttori aumentarono il prezzo del petrolio, proprio nel momento in cui la produzione americana non riusciva più a soddisfare la crescente domanda. Le grandi compagnie petrolifere americane non ne soffrirono, anzi: potevano vendere il loro petrolio del Medio Oriente e del Nord Africa al prezzo americano, che aveva raggiunto lo stesso livello del resto del mondo. La domanda crescente negli Stati Uniti rendeva sempre più necessaria l’importazione, fino a che il paese divenne il maggior importatore mondiale, e la sua politica estera assunse perciò come compito primario quello di garantire le vie di approvvigionamento del petrolio del Medio Oriente. Quest’obiettivo, assieme all’interesse per Israele, fu in effetti il concetto fondamentale della politica estera americana. E’ molto difficile dire che cosa avverrà adesso. Gli Stati Uniti dovranno ridefinire la loro strategia internazionale, un processo che sembra già iniziato. Non vi è dubbio che l’industria petrolifera americana spera di esportare gas naturale e prodotti petroliferi in primo luogo verso i paesi emergenti, che sono quelli che aumentano ancora in modo rilevante la domanda di energia, anche perché la domanda interna del paese non aumenterà in futuro allo stesso ritmo della produzione. La rilevante capacità di raffinazione degli Usa consentirà l’esportazione di prodotti petroliferi, piuttosto che di petrolio greggio, anche verso l’Europa, il che avrà certamente un riflesso negativo sulla situazione della raffinazione europea, che deve fare i conti con una domanda stagnante e con una capacità sovrabbondante rispetto alla domanda. Questa nuova situazione tocca sicuramente in modo molto preciso la posizione dell’Opec, che fino ad ora ha giocato un ruolo fondamentale nella soddisfazione della domanda petrolifera mondiale, e che da ora in poi sarà sottoposta alla concorrenza di un produttore, il quale possiamo dare per scontato vorrà avere un peso nella definizione del prezzo, già oggi definito dal mercato dei futuri STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 sulla base di due greggi prodotti non dall’Opec, ma dall’industria petrolifera privata, negli Stati Uniti e nel Mare del Nord. Non è certo che la produzione americana premerà sul prezzo, e tenderà a contenerlo o addirittura a ridurlo. Ma certamente la produzione Opec avrà un concorrente, basato sul maggior mercato mondiale, che avrà interesse a vendere sul mercato globale. I paesi produttori dell’Opec potranno sentirsi minacciati, così come si sentirono per le scoperte nel Mare del Nord negli anni ’70-’80 del secolo scorso. Oppure, potrebbero considerare la possibilità di bilanciare la nuova capacità produttiva americana, rendendo negoziabile il loro greggio. Non sembra impossibile che il maggior produttore dell’Opec, l’Arabia Saudita, consideri la possibilità di vendere il proprio greggio in modo da renderlo negoziabile, creando quindi un mercato effettivamente capace di definire il prezzo anche al di là della speculazione sul mercato dei futuri. (dalla Staf fetta del 21 aprile 2014) Staffetta Con il gas più facile opea traghettar e l’economia eur traghettare europea verso il futur o futuro Se guardiamo indietro nel tempo, troviamo che il prezzo alto del greggio è rimasto in vigore per molto tempo e nessuno pareva disponibile a cambiare la situazione, meno che mai, i grandi produttori. Più di recente, quando l’economia europea ha cominciato ad entrare in recessione il prezzo dell’energia, non solo del petrolio, ma anche del gas e della elettricità, ha portato ad una drastica riduzione dei consumi che dura tuttora ed è particolarmente forte per benzina e di gasolio. Nel frattempo, i paesi europei, preoccupati dell’eccessivo inquinamento ambientale, e del costo alto dell’approvvigionamento di petrolio, hanno cominciato a sviluppare nuove produzioni di elettricità utilizzando l’energia del vento o quella del sole. Il prezzo del petrolio era alto, e le nuove tecnologie erano perciò remunerative, sia pure di poco, ma il sistema non era stabile. Negli Stati Uniti d’America s’era sviluppata una nuova tecnologia per produrre olio e gas e i nuovi produttori cominciarono a scuotere il sistema proponendo grandi correnti di esportazioni di greggio e di gas, con indicazioni qualche volta premature ma sufficienti a creare un certo grado di preoccupazione nella mente di un grande venditore di petrolio. Il paese leader dell’Opec, l’Arabia Saudita, si è reso gradatamente conto che, da un lato, il prezzo alto del greggio rendeva competitiva la nuova tecnologia “rinnovabile” adottata in Europa e, dall’altro che la nuova produzione dagli scisti Usa, anche se non esportata, esercitava una pressione rilevante sul mercato del greggio e mi- nacciava di ridurre gradatamente le esportazioni Saudite negli Usa. Questa serie di pressioni ha condotto il leader dell’Opec a maturare la decisione di battersi sul mercato mantenendo il più possibile la propria quota del mercato mondiale dell’energia, e a dichiararsi disposto a seguire il mercato invece di dirigerlo, lasciando che le quotazioni vengano direttamente dal mercato e non dal produttore. Il mercato dei futuri ha preso immediatamente la palla al balzo, ed il prezzo ha cominciato a scendere come nessuno si ricordava di aver visto. Gli altri produttori, Opec e non, si sono fin dall’inizio opposti in tutti i modi, ma non sono riusciti a convincere i Sauditi a ridurre la produzione per far salire il prezzo. Tagliare la produzione farebbe salire il prezzo dell’olio, e si ritornerebbe alla situazione precedente, con le rinnovabili favorite dal prezzo alto del greggio. Naturalmente, la mossa saudita ha avuto e sta avendo dei gravi effetti sul grande rivale, la Russia ed anche su Iran ed Iraq ma la conseguenza più rilevante potrebbe riguardare proprio lo sviluppo delle rinnovabili. Adesso , i paesi consumatori di energia come l’Europa, devono far i conti con la nuova situazione. Se il petrolio scende e rimane basso, è ancora possibile investire in fonti che hanno forse perso una buona parte della loro capacità competitiva? Da un lato il prezzo basso del petrolio potrebbe far riprendere l’economia europea che ristagna da anni, dall’altro il prezzo basso mette gli investimenti in impianti rinnovabili in una situazione difficile rispetto alla competizione con gli impianti a petrolio. In ogni caso, grazie alla manovra dei sauditi, la situazione si è chiarita e non ci sono più incertezze. Fino a quel momento, si diceva che il prezzo del petrolio era il miglior aiuto alle fonti rinnovabili che erano e sembravano dover rimanere concorrenziali con il petrolio alto. Il problema non è tuttavia se la domanda di petrolio aumenterà, il problema è se il basso costo del petrolio metterà fuori mercato le fonti rinnovabili. Il prezzo del petrolio potrebbe far sì che la produzione di elettricità da olio o gas risulti meno cara di quella delle rinnovabili, con i loro problemi di discontinuità. E’ chiaro che il problema interessa in egual misura tutti i paesi europei. La situazione ha ormai raggiunto un livello al quale è necessario chiarire le posizioni che i paesi europei vogliono prendere e su quale scelta cada la loro decisione. Da un lato il problema dell’inquinamento ambientale incalza e con il timore di una nuova grande uscita di gas dai ghiacci in scioglimento; dall’altro le condizioni delle rinnovabili possono diventare meno positive. Sarebbe il momento di definire in modo chiaro come operare nei prossimi anni, tenendo presente che sarà molto difficile che l’Arabia Saudita cambi politica, data anche la posizione di 23 aperta rivalità con la Russia, e di superiorità verso gli altri paesi del Medio Oriente. Inoltre, il paese ha fortemente rinsaldato i propri rapporti con gli Stati Uniti, ed in particolare con il partito conservatore che dall’epoca dei Bush padre e figlio aveva rapporti stretti con l’Arabia Saudita. Un discorso di questo tipo deve necessariamente avere un’apertura sull’intera Europa, dato che le economie dei vari paesi sono già legate fra loro. La situazione così complessa potrebbe essere affrontata con una scelta di una fonte di energia che “traghetti“ l’economia europea verso una nuova struttura. A mio parere, si dovrebbe portare in primo piano il gas naturale, la fonte convenzionale che ha il minor tasso possibile di inquinamento ambientale. In più, l’Europa ha già le strutture di trasporto e di stoccaggio e di distribuzione capillare praticamente su tutto il territorio. Il gas metano ha oggi un mercato che sta diventando globale, sia per le scoperte mineraria in tutto il mondo, sia per il progresso nei mezzi di trasporto. Questa “globalizzazione” del gas naturale, cioè, la creazione di un mercato mondiale potrà compensare di volta in volta problemi di produzione e di trasporto riducendo così, i possibili problemi dalla parte dell’offerta, in parte per ragioni fisiche o politiche L’ipotesi di grandi esportazioni americane verso l’Asia e l’Europa potrebbero realizzarsi anche se il prezzo tenderà a rimanere più alto in Asia, e particolarmente in Cina, che in Europa. Il grande progetto cinese di importazione di gas dalla Russia potrebbe creare una situazione di due prezzi diversi, uno per il gas dal tubo russo, ed uno dalle navi americane. In conclusione, ogni sforzo si dovrebbe realizzare per mantenere una molteplicità di fonti di gas , la cui funzione sarebbe quella della fase di passaggio dalle fonti energetiche a quelle rinnovabili. Il metano è usato come carburante e potrebbe pertanto svolgere una azione rilevante nella fase di trasformazione, anche perché lo stoccaggio del gas è oggi meno costoso e meno incerto di quello dell’elettricità. Comunque si voglia affrontare una situazione così complessa, sembra inevitabile che si prepari uno studio completo di tutti gli aspetti della nuova situazione della produzione e dell’uso dell’energia. Io credo personalmente che il sistema attuale di governo non sia in grado in Italia di produrre uno studio di quest’ampiezza in un tempo ragionevole. E’ necessario affrontare questo complesso di problemi con una mentalità industriale. Si tratta di un lavoro da affidare ad una grande impresa internazionale, che abbia un serio interesse alla situazione italiana, ed una conoscenza delle fonti di energia e del loro sfruttamento. (dalla Staf fetta del 17 gennaio 2015) Staffetta 24 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Lanciato a Roma nell’aprile del 1981 in un grande convegno Il “modello Inter dipendenza”, l’idea fissa a cui Colitti rrestò estò sempr e fedele Interdipendenza”, sempre Sulla scia dell’insegnamento e del lascito morale e culturale di Mattei, Colitti per tutta la vita ha messo al centro della sua attività l’obiettivo di migliorare i rapporti tra i paesi consumatori e produttori di energia, facendone il perno di un progetto che potesse essere il punto di partenza di una serie di iniziative di reciproco e mutuo interesse per entrambi. Un tema su cui lavorò a lungo e che fu per lui, come in seguito ebbe occasione di rilevare, “un successo e uno scacco”, riferendosi all’esito del grande convegno-seminario “Sviluppo attraverso la cooperazione” tra Oapec, Italia e Paesi dell’Europa del Sud organizzato a Roma nell’aprile del 1981 in cui venne presentato il “modello Interdipendenza” messo a punto alla fine degli anni ’70, quanto era direttore per la Programmazione e lo Sviluppo dell’Eni, in collaborazione con Alì Attiga Attiga, segretario generale dell’Oapec (l’organizzazione dei paesi arabi esportatori di petrolio), che aveva incontrato e frequentato a Oxford. Di questo evento la Staffetta, con la collaborazione dell’ufficio stampa dell’Eni, diede una grande copertura dedicandogli due speciali, uno alla vigilia il 6 aprile 1981 per richiamare l’attenzione sulla sua importanza e uno il 18 aprile, di ben 30 pagine, per pubblicare il resoconto sommario dei lavori aperti il 7 aprile dal presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, e chiusi il 9 aprile da Alberto Grandi, presidente dell’Eni, e che vide l’intervento dei massimi rappresentanti del mondo arabo e dell’Europa meridionale: il più grande incontro fra paesi produttori e consumatori di petrolio che sia mai avvenuto. Nelle pagine che seguono un ampio stralcio della ricostruzione postuma che ne diede Colitti nelle pagine finali del libro “Eni, cronache dall’interno dell’azienda” pubblicato nel 2008, il programma pubblicato sulla Staffetta del 6 aprile 1981, la presentazione del modello fatta nella intervento di Colitti, Colitti in qualità di vice presidente dell’Agip, nella prima sessione del semiseduta inaugurale, l’intervento nario sulle nuove caratteristiche del mercato dell’energia, la dichiarazione finale diffusa al termine dei lavori, e un positivo commento di Alfredo Giarratana in uno dei suoi “rilievi” settimanali pubblicati regolarmente sulla Staffetta fino al 1982. Da rilevare infine che, a conferma della passione che aveva messo in questo progetto, Colitti, oltre a tornare in argomento su questo tema nel libro pubblicato nel 1997 con Claudio Simeoni “Perspectives of oil and gas: the road to interdependence”, ne ha fatto oggetto di riflessione sulla Staffetta nel 2000 (Perchè non rilanciare il “progetto interdipendenza”?), nel 2005 (Perché è tornata di moda l’interdipendenza) e nel 2009 (Prezzi del greggio, idee per un “progetto Interdependence”). La ricostruzione postuma del 2008 L’incontro Oapec-Europa “Di fronte alIa crisi petrolifera degli anni Settanta, all’aumento dei prezzi del greggio, alIa brutale gelata creditizia e monetaria che piombò tutta l’Europa in una profonda recessione, avevo cercato di proporre gli accordi di sviluppo, di sostenere che, poiché i paesi produttori avevano grandi risorse, si sarebbe potuto impostare un discorso di collaborazione industriale e produttiva capace di trarre qualche beneficio dalla disgrazia. Avevo incontrato a Oxford Ali Attiga, il segretario generale dell’Oapec il più articolato ed eloquente fra i portavoce dei paesi produttori. L’amico libico Ali Attiga è piccolo, col viso tondo e due occhi vivissimi, la voce fonda; ha il temperamento vulcanico ma facile alIa depressione del vero mediterraneo. I suoi studi americani – Ali ha studiato negli Stati Uniti, è stato ministro dell’Economia nell’ultimo governo di Re Idriss, subito prima della rivoluzione di Gheddafi – hanno aggiunto alIa sua vis polemica mediterranea il gusto della battuta e dell’argomento logico, esposto correttamente e succintamente, senza retorica. Le prime riunioni del Club di Oxford erano dominate dalla sua personalità, dalla sua capacità di polemizzare in modo civile, senza mai uscire dalle regole della cortesia e sempre con un grande senso dell’umorismo, che costituisce credo la sua caratteristica più spiccata. Gli interventi di Ali Attiga terminavano sempre con un invito ai paesi consumatori a consumare di meno, a limi- tare il ricorso al petrolio, così che i produttori potessero avere un orizzonte temporale abbastanza lungo per creare ricchezza alternativa. Non c’è bisogno di dire che alcune di queste affermazioni suonavano giuste, altre meno, e che vi erano abbondanti ragioni di discussione. Per esempio, non si può proprio dire che i paesi produttori si siano comportati come preconizzava Attiga. Tra tutti, solo I’Arabia Saudita, il paese che ad Attiga piaceva di meno per l’autocrazia reale che ancor oggi lo contraddistingue, ha realizzato in buona parte un programma simile. Credo che ad Attiga non sia mai sfuggito l’aspetto paradossale di questo fatto. Tuttavia, sulla necessità di sviluppo dei paesi produttori vi era, fra me e lui accordo completo e da questo accordo nascerà poi il tentativo di organizzare una discussione fra produttori e consumatori. Ne discutemmo a lungo, Ali e io, a Oxford e altrove, e si stabilì fra noi una forte simpatia reciproca. Ambedue cercavamo un modo per rimettere in moto una situazione polarizzata in due fronti contrapposti, ognuno con le sue ragioni, che non comunicavano se non da lontano o per interposta persona. Sembrava a me e ad Ali che così si sarebbero perse delle occasioni importanti per dare impulso allo sviluppo economico mondiale e in particolare delle aree mediterranee. Certo, ambedue pensavamo che non sarebbe stata una cosa facile, anche perché le istituzioni che rappresentavamo erano molto più caute di noi, con una forte tendenza a smentirci se ci fossimo mossi troppo innanzi. Il consiglio dell’Oapec è costituito da tutti i paesi arabi esportatori di petrolio e l’accordo fra loro, social-nazionalisti nasseriani o baathisti, e conservatori sauditi o kuwaitiani, era altrettanto difficile di quello fra produrtori e consumatori. Ali è libico e pertanto non molto accetto, anche se la levatura intellettuale, la cultura americana e la carriera precedente alIa rivoluzione di Gheddafi lo rendevano accettabile ai sauditi. Di solito, la mancanza di consenso al vertice conduce a una riduzione delle competenze e delle funzioni dell’ organismo, e all’Oapec, che era nato come un grande progetto strategico, tendevano a rimanere solo competenze di tipo diplomatico o di studio. Come segretario generale, Attiga aveva impostato una strategia ben piu impegnativa: quella di creare imprese finanziarie e industriali panarabe, con le quali avviare in concreto una strategia di sviluppo. La più importante e nota fra queste e l’Apicorp (Arab Petroleum Investment Corporation), concepita come polmone finanziario della politica di sviluppo dei paesi arabi. Il suo capo, Nureddin Farrag, un egiziano di alto livello culturale, divenne anch’egli mio amico e partecipò di persona e come istituzione a tutte le vicende di cui stiamo parlando. Ma la strada «operativa» trovava molte difficoltà e, comunque, non escludeva l’altra funzione, di cercare il dialogo. Perché non si sarebbe potuto fare qualcosa con l’Italia e con l’Eni, che aveva almeno una reputazione, quella del terzomondismo di Mattei e della sua lotta contro le sette sorelle? Su questo punto ci trovammo subito d’accordo. Avevamo però ben chiaro che segue a pag. 26 25 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Il programma definitivo del seminario Lo “Sviluppo attraverso la cooperazione tra Oapec, Italia e paesi dell’Eur opa del Sud” dell’Europa Roma - Palazzo Barberini - 7/9 aprile 1981 Martedì 7 aprile 1981 Seduta inaugurale Ore 9: Discorso di apertura del Co-Presidente del Seminario e Presidente della Sessione, Alberto Grandi, Presidente Eni, Italia. Indirizzo di saluto: Arnaldo Forlani - Presidente del Consiglio dei Ministri, Italia Allocuzioni di: - Emilio Colombo - Ministro degli Affari Esteri, Italia - Yousef Ahmad Al-Shirawi - Ministro dello Sviluppo e dell’lndustria, Baharain - Pierre Aigrain - Segretario di Stato per la Ricerca, Francia - Abdussalam AI-Zagaar - Segretario di Stato per il Petrolio, Libia - Ignacio Bayón Marine - Ministro per I’Industria e l’Energia, Spagna - Ali A. Attiga - Co- Presidente del Seminario e Segretario generale, Oapec. Prima sessione Tema: Energia e sviluppo economico Presidente della sessione: Mohammed El - Emadi - Direttore generale e Chairman del Board of Arab fund Economic and Social Development Ore: 11.30 11.30: “Il petrolio nell’economia italiana ed europea: possibilità di cooperazione con i paesi produttori”. Relatore: Marcello Colitti - Vice-Presidente Agip, Italia Commento: Abdel Kader Maachou - Consulente Oapec Ore: 12.45: 12.45 ”Il ruolo del petrolio nei paesi della Oapec”. Relatore: Mohammed Khouja - Consigliere Economico Kuwait Fund for Arab Economic Development, Kuwait Commento: Pierre Desprairies - Presidente Istituto Francese deI Petrolio, Francia Ore 13 13: Discussione Seconda sessione Tema: Sviluppo delle risorse energetiche Presidente della sessione: Vladimir Lemic - Presidente lna, Jugoslavia Ore 15.30 15.30: “Requisiti per lo sviluppo delle risorse energetiche integrative” (visione dei paesi consumatori) Relatore: Umberto Colombo - Presidente Comitato Nazionale Energia Nucleare (Cnen), Italia Commento: Fahdil AI-Chalabi - Vice Segretario generale Oapec Ore 16.15 16.15: “Requisiti per lo sviluppo delle risorse energetiche integrative" (visione dei paesi produttori) Relatore: Adnan Shihabebbin - Direttore generale lnstitute for Scientific Research, Kuwait Commento: Emmanuel J. Voulgaris - Presidente Hellenic Aspropyrgos Refinery, Grecia Ore 17.30 17.30: Discussione Mercoledì 8 aprile 1981 Terza sessione Tema: Tecnologia e sviluppo del potenziale umano Presidente della sessione: Abdullatif AI-Hamad - Direttore generale Kuwait Fund for Arab Economic Development, Kuwait Ore 9 9: “Training per lo Sviluppo Economico” Relatore: Vittorio Merloni - Presidente Confindustria, Italia Commento: Abdel Kader Chanderly - Consulente Ore 9.45 9.45: “Training, problemi attuali e fabbisogni futuri nei paesi Oapec: con particolare riguardo all’industria degli idrocarburi” Relatore: Burhan Eddin Daghestani - Direttore generale Arab Petroleum Training Institute - Bagdad, Iraq Commento: Nicola Melodia - Presidente Snamprogetti, Italia Ore 11 11: Discussione Quarta sessione Tema: Nuove frontiere in scienza e tecnologia Presidente della sessione: Abdus Salam - Presidenza del Centro Internazionale di Fisica Teorica, Trieste, Italia Ore 14.15 14.15: Presentazione: Silvio Garattini - Direttore lstituto Mario Negri, Milano, Italia Ore 14.45 14.45: Tavola rotonda sultema, con la partecipazione di studiosi arabi ed europei: - Abdul Aziz AI-Wattari - Vice Segretario generale Oapec - Enrico Cernia - Presidente Assoreni, Italia - Antoine Zahlan - Presidente Science Policy Research Unit, Università del Sussex - Mahdi Manjaraa - Professore Università di Rabat, Marocco. Ore 17 17: Discussione Giovedi 9 aprile 1981 Quinta sessione Tema: Sviluppo comune e cooperazione tra paesi del sud Europa e il mondo arabo Presidente della sessione: Omar Muntassir - Segretario di Stato per l’lndustria Pesante, Libia Ore 9 9: “Commercio ed Industria: per uno sviluppo “downstream” nei paesi Oapec” Relatore: Sheikh Ali Khalifah AI Sabah - Ministro del Petrolio, Kuwait Commento: Filippo Maria Pandolfi - Ministro dell’lndustria, Italia Ore 9.45 9.45: “Per un’approccio dinamico allo sviluppo economico” Relatore: Giuseppe Ratti - Coordinatore per gli Affari internazionali Eni, Italia Commento: Robert Mabro - Fellow of St. Antony’s College, Oxford Ore 11 11: Discussione Ore 12 12: Sintesi delle conclusioni tecniche - Abdul Aziz AI-Wattari - Vice Segretario generale Oapec - Romano Prodi - Ordinario di Economia Politica Università degli Studi, Bologna, Italia Sessione conclusiva Tema: Problemi e prospettive dell’interdipendenza Presidente della sessione: Giovanni De Michelis - Ministro delle Partecipazioni Statali, Italia Ore 14: 14 Ordine provvisorio degli interventi: - René Ortiz - Segretario generale Opec - Stefanos Manos - Ministro dell’Industria e dell’Energia, Grecia - Tayen Abdul Karim - Ministro del Petrolio, Iraq - Stoyan Matkalijev - Ministro dell’Energia e dell’Industria, Yugoslavia - Serbulent Bingol - Ministro dell’Energia e delle Risorse Naturali, Turchia - Belkacem Nabi - Ministro dell’Energia e delle Industrie Petrolchimiche, Algeria - Ricardo Baiao Horta - Segretario di Stato per I’Energia e le Miniere, Portogallo - Abdul Jabbar Dhahhak - Ministro del Petrolio e delle Risorse Minerarie, Siria - Winstin Abela - Ministro dell’Energia, Sviluppo e Telecomunicazioni, Malta - Constantinos Kittis - Ministro del Commercio e dell’Industria, Cipro Ore 16 16: Note conclusive: - Alberto Grandi - Co-Presidente del Seminario, Presidente Eni, Italia - Ali A. Attiga - Co-Presidente del Seminario, Segretario generale, Oapec Ore 17 17: Conferenza stampa 26 avremmo incontrato delle serie difficoltà da parte italiana e da parte araba. La parte italiana risentiva dell’ossessione occidentalista della sua politica estera, per cui a ogni proposta dell’Eni veniva autorevolmente risposto, come se non lo sapessimo, che l’ltalia «è in Europa» e che «la sua politica estera è quella dell’Europa» e «attenti non cadere nel Terzo Mondo». In pratica, ciò voleva dire che non si doveva far nulla che potesse dispiacere agli americani; che il terrore di «non essere accettati in Occidente» rendeva ciechi e sordi di fronte a ogni opportunità di difendere la nostra posizione sui mercati dell’energia. Era inutile rispondere che nessuno aveva mai messo in dubbio la geografia e la storia; che era proprio la nostra natura di europei a imporci di portare in Europa qualcosa che fosse capace di arricchirne la politica; che quel qualcosa poteva benissimo essere un diverso rapporto con i produttori di petrolio e il Magreb. AItrettanto inutile, quasi blasfemo, richiamare l’attenzione suI fatto che gli americani avevano verso i paesi produttori una politica che nel migliore dei casi sacrificava gli interessi europei e nel peggiore li colpiva espressamente. Infine, il ministero degli Esteri ha per lungo tempo tenuto in sospetto le industrie che fanna politica estera, almeno quando non sono di Torino, un sospetto che verso l’Eni diventava spesso esplicita disapprovazione. Ciò rendeva difficile l’organizzazione di un incontro così importante che fu poi oggetto di decisa ostilità, se non proprio del ministero, tutto sommato inerte piuttosto che contrario, almeno del ministro. D’altra parte, l’Eni aveva anch’esso una forte tendenza a negare la propria politica originaria e ad attestarsi sulle posizioni ufficiali. Nel periodo di cui parliamo attraversava una fase difficile, con una girandola di commissari e di presidenti che non avevano molta voglia di fare delle cose importanti. Per parte araba, le difficolta erano quasi speculari: l’Eni era coinvolto in un grande scandalo con il maggior produttore arabo di petrolio. Poiché era ovvio che quel paese non aveva alcuna intenzione di parlare con l’Eni, ottenere, se non il suo appoggio, almeno la sua neutralità nel consiglio di amministrazione dell’Oapec era impresa non da poco. Inoltre, c’era da considerare il generale scetticismo dei membri dell’Oapec sull’utilità di iniziative diplomatiche in un momento in cui si sentivano vincitori, e pensavano di avere solo da perdere a parlare con chicchessia. Un progetto così ambizioso creava in quei paesi l’esigenza di controllarlo da vicino per evitare che li portasse a prendere degli impegni che non desideravano, né con gli italiani né con gli altri. Ma controllarlo non potevano, perché proprio i loro migliori intellettuali, oltre a Nurredin Farrag e ad AIi Attiga, il suo vice AI Wattari e l’ economista dell’Oa- STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Il “rilievo” di Alfr edo Giarratana Alfredo Ouesta volta il rilievo non si rivolge a uno dei tanti casi o avvenimenti singolari, che possono far stupire o che sono da deplorare. Una volta tanto ci fermeremo a considerare quel Seminario promosso dall’Oapec e dall’Eni sullo “Sviluppo attraverso la cooperazione tra Oapec, Italia e paesi del sud Europa” preparato da lungo tempo e giunto finalmente alla ribalta. Adesso tutta I’attesa è rivolta alle sue conclusioni. L’attenzione è fissa sulla parola “cooperazione” per la cui ricerca si affannano non solo le nazioni presenti al convegno, ma tutto il mondo. Come molte delle promesse troppo belle, anche la cooperazione non basta desiderarla, bisogna conquistarla. Esiste un’esperienza ottenuta fra prove e riprove, difficoltà di ogni genere, contributi positivi e negativi, che hanno turbato il corso degli ultimi anni, offrendo materia di riflessione e di orientamento. I fantasmi minacciosi che turbarono il mondo durante la crisi del 1973-74 sono sepolti. L’inquietudine che agitava il mercato ad ogni aumento del prezzo del greggio si è quasi sopita. Assistiamo al fatto che perfino la guerra tra Iran e Irak con tutte le sue distruzioni proprio nel campo del petrolio non ha avuto per niente conseguenze catastrofiche. Il settore in tutti i suoi aspetti e per tutta la sua vastità resta incerto, ma tranquillo. L’Occidente ha affrontato la prova con vigore ed ha ridotto la domanda di energia in modo più rapido e incisivo di quanto si pensava. L’Oriente ha cominciato a fare i suoi conti con maggior vigore e guardando all’avvenire per non cadere in errori ai quali fino a ieri non aveva pensato. Si tratta di grossi problemi considerati singolarmente, e ancor più complessi considerati assieme. Ci sembra questa la materia dell’assise romana, la quale ci ricorda quell’altra assise dalla quale nacque il MEC. Roma dovrebbe essere propizia ad una conclusione ottimista. Agli uomini altamente rappresentativi presenti a Roma tocca proprio la ricerca di una strategia dalla quale emerga quella collaborazione molte volte invocata e più spesso lasciata in sospeso. Ma anche questo non deve impressionare negativamente. Bisogna pensare che appena trenta anni orsono i paesi produttori non si conoscevano neppure tra di loro e tra loro e i paesi consumatori non esistevano rapporti diretti. Il mercato petrolifero si poteva considerare un fatto privato. Conforta pensando ai passi fatti. Il mondo petrolifero attuale è tutto diverso e per molti aspetti tutto nuovo. A guardare I’elenco delle personalità presenti al Seminario c’è da essere sorpresi e può considerarsi quasi un miracolo aver presente un così vasto consenso di personalità direttamente responsabili della materia in causa. Il fatto stesso dell’adesione rappresenta un vincolo di fiducia, una premessa augurale. Va aggiunto che si tratta di rappresentanti di strutture statali che ormai hanno maturato una larga esperienza e si muovono suI filo di un interesse generale di cui conoscono i motivi e i limiti. Tutto si profila in modo favorevole alla ricerca di un coordinamento per arrivare in seguito ad una collaborazione che dia un senso più stretto a quella interdipendenza di interessi della quale tutti sono testimoni perché rappresenta il contenuto della integrazione economica della quale vive la società moderna. Il fine della collaborazione sarà esaminato e discusso sotto due aspetti: quello tecnico e quello politico, non facili entrambi. Ma dei problemi facili è superfluo occuparsi. E’ necessario invece affrontare quelli difficili ed è ancora più necessario risolverli. Ouesto è il compito che si presenta agli illustri ospiti di Roma ai quali e affidato I’avvenire di due gruppi di paesi che si affacciano suI Mediterraneo. (dalla Staf fetta del 6 aprile 1981) Staffetta pec, Ibrahim Ibrahim, che avevano proposto il progetto, rifiutavano di essere usati per controllarlo. Avevamo queste limitazioni davanti agli occhi, ma non intendevamo farci paralizzare e perciò decidemmo di andare avanti, di mirare alto, di creare un progetto troppo importante perché fosse possibile fermarlo. E qui veniva il problema che ai nostri occhi era quello principale: quello della proposta che volevamo fare, del contenuto culturale e politico delle relazioni al convegno. Era necessario elaborare un’idea non irrilevante, ma nello stesso tempo accettabile agli interessi dominanti. Ci voleva cioé un approfondimento, qualcosa di nuovo che permettesse di dimostrare davvero, dati alla mano, la bontà e l’opportunità dell’impostazione. L’idea dell’interdipendenza fra produttori e consumatori di greggio doveva passare da parola d’ordine di convegni e discussioni politiche a una proposta quantitativa, misurabile e valutabile rispetto agli andamenti probabili del reddito e del commercio mondiale. Il modello Interdependence Nacque perciò l’idea di un grande modello che riproducesse l’economia dei due gruppi di paesi e simulasse gli effetti non solo di diversi prezzi del greggio, ma anche di diverse politiche di sviluppo: per esempio, dell’esportazione di capitali dall’Europa e dai paesi 27 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Presentato in occasione del Seminario Oapec di Roma Come è nato il “modello inter dipendenza” dell’Eni interdipendenza” Nel corso del Seminario Oapec di Roma è stato presentato ufficialmente il Modello Interdipendenza (The Interdependence Model), predisposto dall’Eni per simulare e valutare differenti strategie di comportamento dei paesi produttori e consumatori e aprire la strada allo studio di una comune piattaform di collaborazione. Il contenuto del Modello è sintetizzato in tre volumi pubblicati a cura dell’Eni (Summary Reports, Appendices, Annexes). Si tratta di un modello economico globale la cui elaborazione ha impegnato un gruppo di lavoro molto articolato e interdisciplinare nell’ambito della direzione Programmazione dell’Eni. Lo studio del Modello è stato realizzato da un gruppo di lavoro, costituito nell’ambito della direzione Programmazione e Controllo dell’Eni, sotto la supervisione di Marcello Colitti, attualmente vice presidente dell’Agip, e con il coordinamento di Domenico Tantillo, responsabile degli Studi Economici. La definizione e l’operatività delle linee generali del modello sono state messe a punto da Martino Lo Cascio. Su specifici aspetti il gruppo di lavoro si è avvalso della collaborazione dei seguenti istituti di ricerca: Battelle Memorial lnstitute di Ginevra, Istituto di Ricerca e Progettazione Economica e Territoriale (Ecoter) e Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma. Suggerimenti su alcuni aspetti dello studio sono stati forniti da Alberto Clô dell’università di Modena. Nell’ambito del gruppo di lavoro i compiti sono stati ripartiti nel modo seguente: 1) Macroeconomia dei paesi Oapec: Gabriele Marruzzo, Mario Mazzarino, Gianni Di Marzio, Ingrid Pedroni, Lorenzo Gallico, Umberto Triulzi. 2) Analisi regionali, progetti infrastrutturali e fabbisogni paesi Oapec: Peter Fano, Vincenza Trotta, Gianantonio Bresciani, Enzo Cagliano. 3) Mercato e mobilità del lavoro nei paesi Oapec: Maria produttori ricchi come Saudi Arabia e Kuwait verso i paesi arabi poveri; dell’apertura del mercato europeo ai loro prodotti ecc. Si trattava di raccogliere per la prima volta una mole enorme di dati, studiarne le coerenze interne, metterli in uno schema econometrico flessibile, creando così un grande substrato suI quale testare gli scenari, che a loro volta dovevano essere elaborati, per poi comprenderne e spiegarne i risultati. A tal fine, era necessario elaborare delle ipotesi sul volume di produzione di petrolio e sul suo prezzo, che dovevano esserre accette agli arabi senza perdere credibilità, restando chiaro che non dovevano essere previsioni, ma ipotesi da valutare. Infine, il lavoro voleva giungere, una volta riconosciuti i vantaggi di una certa politica economica, a gettarne le basi concrete, elaborando progetti e proposte d’investimenti industriali comuni. Non era certo cosa facile. Il gruppo italo-arabo che lavorò a Roma per circa due anni sotto la direzione di Martino Lo Cascio, Paolo Baronti e Ibrahim Ibrahim, impegnò tutta la capacità di elaborazione economica dell’Eni e fece un lavoro egregio. Le incertezze sui mezzi a disposizione e la complessità del lavoro crearono delle grosse difficoltà e richiesero un impegno molto pesante anche da parte mia. Il programma si poté realizzare, anche se con qualche difetto. Per esempio, Chiara Turci. 4) Progetti industriali e agricoli nei paesi Oapec: Libero Carriero, Angelo Incerti, Francesco Cravino, Nazzareno Tomassini, Paolo Gardin, Magherita Paolini, Norman Accardi, Marco Cambellotti, Gabriele Zanioi. 5) Mercato internazionale del petrolio e del gas naturale; Raffaello Pezzoli, Antonio Piccoli, Vincenzo Granata, Vittorio Jucker. 6) Offerta internazionale di petrolio e gas naturale: Raffaele Romagnoli, Allessandro Pellei. 7) Sistemi energetici nei paesi Ocse: Vittorio D’Ermo, Massimo Conforti, Omelia Laurenti, Francesco De Lorenzo. 8) Dati e sistemi di processo del modello: Alberto Sorce, Paolo Vianello, Maria Vallesani, Aurora Mancini. La Banca Dati, concernente i progetti industriali, infrastrutturali e agricoli nei paesi Oapec, è stata preparata da Donatalla Torzo Fontana, Matilde Talli, Lea Di Giorgio. La predisposizione del manoscritto è stata curata da Laura Angiulli, Antonella Daprà, Lea Di Giorgio, Wilma Molinari e Mirella Tersigni. il modello fu sempre troppo ampio per essere flessibile e di facile gestione. Col senno di poi, si può dire che il progetto riuscì anche meglio del previsto, ma faIlì suI punto più delicato: non riuscì a fare notizia, ad attrarre l’attenzione né dei politici né dell’opinione pubblica. I giornali ne parlarono, certo, anche se in modo non proporzionale all’importanza di avere a Roma i ministri del petrolio di tutti i paesi arabi e di potere discutere con loro del tema allora fondamentale dell’economia italiana. Il fatto è che mancò completamente la disponibilità dei politici: né il governo né il Parlamento diedero all’evento più di quanto richiesto da un’interpretazione molto stretta del protocollo e in qualche caso anche meno. Tipico fu il caso di una cena ufficiale su invito della parte araba andata deserta dai ministri italiani, che accamparono il pretesto di un incontro urgentissimo, che però, ammesso che lo fosse davvero, si svolse al Grand Hotel, dove furono per caso visti banchettare proprio da coloro che nello stesso posto li avevano invitati. D’altra parte, riuscire entro l’Eni di allora a realizzare un progetto del genere fu pressoché un miracolo: dovuto, in porzione non indifferente, a un consulente che io non avevo mai incontrato prima, l’ambasciatore Orlandi Cantucci, al quale avevano chiesto di entrare nell’affare se non proprio per fermarlo, almeno per limitarne i danni. Orlandi (dalla Staf fetta del 9 aprile 1981) Staffetta Contucci si convinse del progetto tanto che ne divenne il più accanito difensore e uno dei fattori del suo successo. Come dire, non bisogna mai disperare dell’intelligenza degli uomini. In ogni caso, la mia posizione all’Eni diventava sempre più difficile e quando si aprì il convegno il 7 aprile 1981 io non ero più direttore dell’Eni, ma vice presidente dell’Agip. L’intervento sul modello lnterdependence fu fatto dal mio amico Beppe Ratti, allora tornato come direttore per l’estero. Io feci una relazione sulle risorse minerarie d’idrocarburi a livello mondiale. Il convegno, in quanto tale, fu un successo clamoroso e tutti i notabili arabi che vi parteciparono, più di 200 su un totale di circa 400 invitati, dichiararono che era stato il più brillante e il più bello fra tutti i convegni fatti dall’Oapec, e non solo per il livello dei paper e dei partecipanti, ma anche per la bellezza della sala (la Pietro da Cortona a Palazzo Barberini), l’efficienza dell’organizzazione e dei servizi. Da quell’incontro così ampio un risultato si ebbe: cominciarono con l’Oapec e l’Apicorp le discussioni per quello che doveva poi diventare il progetto Mtbe (l’additivo per le benzine pulite), che portò alIa costruzione del primo impianto world scale del mondo ad AI Jubail, in Arabia Saudita, e alIa creazione di una nuova società del Gruppo Eni, l’Ecofuel, di cui fui fondatore e presidente fino a metà del 1993.” 28 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Dalla relazione di Marcello Colitti al seminario Oapec Le caratteristiche del mer cato dell’energia nel 1981 mercato Pubblichiamo di seguito una nostra traduzione della parte iniziale della relazione del vice presidente dell‘Agip, Marcello Colitti, che ha aperto i lavori della prima sessione del seminario Oapec in corso da martedi a Roma (v. Staffette 6,7,8/4). Si tratta della parte dedicata ad una analisi delle modifiche intervenute nel mercato dell’energia dopo la crisi del 1973 da cui emerge, secondo Colitti, la necessità di una cooperazione basata sull’interdipenza tra paesi produttori e paesi consumatori partendo da un secondo ciclo di valutazione del potenziale petrolifero dei paesi Oapec. Altre due aree di cooperazione sono, secondo Colitti, quella del gas naturale e della sua trasformazione, e quella dell’integrazione downstream dei paesi produttori, aree entrambe dove I’Agip con la sua esperienza e la sua tecnlogia può giocare un ruolo molto rilevante. Tre interpretazioni della crisi del ‘73 La rivoluzione petrolifera degli anni 70 puo essere interpretata in almeno tre modi. Innanzitutto, come la risultante dell’azione indipendente delle forze di mercato, come reazione cioé alla scarsità di petrolio causata dal rapido aumento dei consumi e che rischiava di superare la crescita delle riserve. La decisione di moltiplicare i prezzi del petrolio è stata presa da persone che in effetti hanno agito sotto la guida della “mano nascosta” del mercato. Secondo una seconda interpretazione i paesi produttori all’inizio degli anni ’70 hanno fatto il primo passo importante verso il loro sviluppo economico e politico,assumendo il controllo totale del petrolio, I’unica risorsa che offre loro la possibilità di accumulare capitale. Infine, in base ad una terza interpretazione, gli eventi degli anni ‘70 possono essere visti come I’espansione su scala mondiale del controllo delle Stato sull’industria petrolifera. AlI’inizio la rivoluzione petrolifera si è presentata ai paesi consumatori sotto forma di un forte aumento del prezzo della materia prima su cui era basata la loro economia. Nonostante i numerosi allarmi, I’aumento arrivò come uno shock improvviso, una crisi scoppiata prima che si potesse trovare un rimedio per fronteggiarla e prima che si potesse intenderne in pieno il significato. Il boom economico che aveva provocato tensioni nei prezzi delle materie prime si bloccò di colpo e I’intera macchina dello sviluppo economico si arresto. I paesi consumatori, presi dai loro problemi di bilancia dei pagamenti e dell’inflazione, non si dedicarono immediatamente a trovare delle risposte alla nuova situazione”. La stagnazione economica e la stabilità dei prezzi monetari del petrolio che ne seguirono incoraggiò alcuni a pensare che bastasse non fare niente perché il problema sparisse automaticamente. Invece si era verificata una modifica strutturale nell’offerta della materia di base dell’economia moderna e iI problema non sparì. I paesi consumatori perciò si convinsero che dovevano cambiare la lora situazione energetica attraverso politiche di conservazione dell’energia e di sostituzione del petrolio. Tenuto conto dei complessi fattori che caratterizzano i sistemi energetici, queste politiche hanno dato dei frutti prima di quanto la maggior parte della gente prevedesse. Non vi è dubbio che I’ammontare di energia consumata per unita di Pnl (prodotto nazionale lordo) nei paesi europei è diminuita drasticamente dall’inizio degli anni ‘70 ad oggi. La diminuzione è molto più rilevante se prendiamo in considerazione solo la quota petrolifera consumata per unità di Pnl, anziché tutta I’energia. Naturalmente, un fenomeno così complesso ha trovato molti alleati. L’industria pesante, che più di tutti dipende dall’energia, ancora oggi sta attraversando una grave crisi a causa della sua sovracapacità e del rallentamento nella domanda. I servizi e le industrie leggere stanno aumentando la loro quota nell’economia. In alcuni casi si è sfiorata la saturazione energetica, specialmente nei consumi domestici anche perché I’aumento dei prezzi ha cominciato a colpire in modo serio i consumatori. Tutto ciò è andato avanti per alcuni anni, con effetti cumulativi. L’ultima crisi, e il nuovo giro di aumenti dei prezzi dei petroli che I’ha seguita, ha prodotto una reazione non dissimile dalla prima, e cioé la recessione più gli altri fattori. Le principali caratteristiche della nuova situazione La situazione attuale presenta tuttavia alcune interessanti caratteristiche che meritano di essere brevemente descritte. Prima di tutto va osservato che ora la domanda petrolifera è realmente elastica rispetto agli aumenti dei prezzi. Per lungo tempo era stata considerata inelastica, probabilmente perché i livelli dei prezzi erano troppo bassi. Anche se difficile da misurare, questa nuova elasticità ai prezzi è realmente un’espressione sintetica della nuova situazione. La politica e i fattori di mercato già citati, con I’aggiunta del trend ascensionale dei prezzi del petrolio, riducono entrambi iI “contenuto petrolifero” del Pnl, specialmente al margine, e predispongono i consumatori di petrolio a ridurre la domanda quando sono messi di fronte ad aumenti dei prezzi. L’attuale stabilità - o leggero declino - della domanda petrolifera nell’Europa Occidentale può essere spiegata in questi termini. E’ difficile dire se I’elasticità funzionerà anche in senso contrario, se cioé il consumo di petrolio riprenderà a salire se i prezzi in termini reali scenderanno. Non sarei affatto sorpreso se ciò non accadesse: se cioé la modifica strutturale nell’offerta di petrolio avesse portato con se anche una modifica strutturale nella domanda. La seconda caratteristica dell’attuale situazione è che il rallentamento nella domanda petrolifera,sta modificando I’intera struttura del mercato dell’energia. Fino al 1975, il consumo di energia era concentrato suI petrolio, per una quota pari al 57 per cento nell’Europa Occidentale e al 70,3 per cento in Italia: il petrolio era largamente consumato lungo I’intero spettro degli usi finali di energia. Ora ci stiamo invece orientando verso una pluralità di fonti. Se il trend che sta manifestandosi attualmente nel mercato dell’energia continuerà in questi ternini, essa darà luogo probabilmente ad una struttura simile a quella indicata nello schema. Due principali mercati potrebbero assorbire l’80 per cento della domanda totale di energia nell’Europa occidentale intorno al 1990: quello dei trasporti e delle materie di base per Ia chimica da una parte (21 per cento) e quello degli usi termici ad alta temperatura ed impiego intensivo (caso tipico quello delle industrie e dei servizi pubblici) dall’altra. Il primo mercato resterà certamente legato ai prodotti petroliferi medi e leggeri, con qualche concorrenza da parte dei liquidi ottenuti dal carbone e dal gas naturale. Il secondo si orienterà verso il carbone, con concorrenza da parte dell’energia nucleare e anche dei prodotti petroliferi pesanti. Sugli altri due mercati, quello del riscaldamento degli ambienti a bassa temperatura e dell’acqua per usi domestici, il primo avrà il gas naturale e il secondo I’energia solare e geotermica come fonti di energia principali. Tuttavia, la concorrenza sarà più diversificata, potendo andare dal carbone gassificato ai distillati medi, all’energia nucleare, ecc. Questi due ultimi settori insieme copriranno il 20 per cento del mercato dell’Europa occidentale intorno al 1990. I fattori che rendono incerto il quadro Se la reaItà rifletterà veramente questo quadro, ciò dipende da numerosi fattori, quattro dei quali richiedono una certa attenzione, • Il primo fattore è fine ache punto noi prevediamo che il carbone possa “penetrare”, quanta parte cioé questa fonte 29 STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 Dichiarazione finale del seminario Oapec/Italia/Paesi sud eur opei europei Pubblichiamo di seguito il testo integrale italiano della dichiarazione congiunta resa nota al termine dei lavori del seminario di Roma. La dichiarazione ha come titolo “Direttive relative alle proposte conclusive del seminario messe a punto dai prof. AI Wattari e Prodi”. Abdul Azziz AI Wattari è il vice segretario generale dell’Oapec; Romano Prodi, ex ministro dell’Industria, ha svolto in questi mesi un ruolo delicato dietro le quinte per creare attorno al seminario il massimo dei consensi. Gli elementi che sono emersi nel corso del seminario, sostenuti da approfonditi studi ed analisi, consentono la formulazione di alcune direttive sulle quali può essere fondata la collaborazione tra i paesi dell’Oapec, l’Italia e gli altri paesi dell’Europa Meridionale. Queste direttive possono essere così enunciate: (a) Esiste una convergenza da parte dei diversi paesi che hanno partecipato al seminario nel riconoscimento che essi hanno reciproci vantaggi, per quanto non mutualmente esclusivi, quali partner nella cooperazione: i paesi dell’Oapec, quali fornitori di idrocarburi; le nazioni industrializzate dell’area del Mediterraneo quali fornitrici di tecnologia, knowhow e, in linea più generale, di esperienze e risorse per l’assistenza allo sviluppo delle attività industriali. (b) Essi possono operare insieme per assicurare l’evoluzione più opportuna dell’interdipendenza tra paesi dell’Oapec e paesi industrializzati. A tale scopo essi possono iniziare con scambi di informazioni sistematiche e periodiche sulla realtà delle economie dei loro rispettivi paesi. (c) Ciascun paese può naturalmente partecipare per proprio conto ad attività come l’acquisizione di partecipazioni in società, la creazione di istituzioni finanziarie, la negoziazione di accordi commerciali ecc., e lo sviluppo di attività industriali connesse al settore petrolifero e di altre attività manifatturiere. Queste direttive possono, a conclusione del seminario, aprire la strada alla creazione di diversi strumenti con i quali contribuire a realizzare gli obiettivi di cooperazione qui emersi. Avendo come obiettivo generale la possibilità di istituire una commissione congiunta sulla base di un comune accordo, si potrà dare vita ad un certo numero di gruppi di lavoro. I gruppi di lavoro, volti ad approfondire le analisi presentate nel corso di questo seminario, potrebbero riguardare - ad esempio - i seguenti temi: (a) Studi economici e tecnici sulla possibile evoluzione dell’interdipendenza tra i paesi dell’Oapec ed i paesi industrializzati. (b) L’esplorazione nel campo del petrolio e del gas naturale nei paesi dell’Oapec e le loro esportazioni verso l’area del Mediterraneo. (c) La possibile costituzione di joint ventures per un’integrazione a valle nei settori del trasporto degli idrocarburi, della raffinazione, del marketing e della distribuzione di prodotti finiti ed in attività petrolchimiche. (d) La cooperazione nella formazione e nell’addestramento del personale riguardante lo sviluppo delle attività indicate in precedenza e di altre attività economiche. (e) Le prospettive di cooperazione nella ricerca scientifica e nella tecnologia in settori reciprocamente concordati quali la lavorazione degli idrocarburi, l’energia nucleare, altre forme di nuove fonti energetiche e la conservazione dell’energia. (f) Studio e sperimentazione di concrete forme di cooperazione nell’industria manifatturiera, con particolare riguardo alle imprese di medie e piccole dimensioni. Per tutti gli aspetti indicati in precedenza, o per molti di esse, lo scambio di informazione ed il loro ulteriore approfondimento potrebbero portare alla formulazione e alla esecuzione di studi di fattibilità per progetti specifici, che potranno anche dare luogo alla realizzazione di joint ventures. assorbirà del suo mercato di base e fine a che punto penetrerà negli altri, sia sotto forma solida che liquida o gassosa. La risposta dipende prevalentemente dagli investimenti nella trasformazione degli impianti e nei sistemi logistici capaci di distribuire il carbone in maniera economica ai piccoli utenti. Tutto ciò potrebbe favorire una rapida crescita nel ruolo del carbone dal 1985 al 2000, purché, naturalmente, I’attuale rapporto tra prezzi del carbone e del petrolio rimanga immutato. • Il secondo fattore è il ruolo del gas naturale. Anche in questo caso si tratta di un problema di investimenti e di prezzi. Portare gas ai mercati di consumo implica progetti finanziari e tecnici colossali. Il gas potrebbe essere spinto dal prezzo fuori dal mercato; in alternativa, potrebbe assorbire una parte del mercato del carbone, specialmente allorché la copertura della domanda di picco nelle centrali elettriche e una parte del consumo industriale del gas può aiutare a livellare il fattore di carico nei sistemi di trasmissione. L’Italia ha già varato un grosso programma per aumentare le sue forniture di gas naturale ed è probabilmente il paese più interessato ad ulteriori sviluppi in questo campo. Ma le incertezze sono ancora molto elevate. • Il terzo fattore è il ruolo dei prodotti petroliferi pesanti, che saranno in gran parte spiazzati dal carbone. Per essere utilizzati, essi dovranno essere trasformati attraverso impianti di conversione molto costosi. Ancora una volta si tratta di un problema di investimenti e di prezzi, ma possiamo fondatamente presumere che il differenziale ottenibile dalla conversione continuerà a rappresentare un forte incentivo a investire in questo campo, e nel campo dei greggi pesanti, che potrebbero dare importanti quantità di petrolio se saranno trattati secondo le regole. • Il quarto fattore è che il quadro non sarà lo stesso per tutti i paesi europei. L’ltalia è uno di quelli probabilmente più dipendenti dalle importazioni e il meno abituato al carbone. Non ha un sistema logistico per il carbone perché la sua industria si è sviluppata nell’era del petrolio. (dalla Staf fetta del 13 aprile 1981) Staffetta Il caso Italia Nel caso dell’ltalia, la “crisi petrolifera” ha interrotto una stabile crescita del contenuto energetico della sua economia, che stava portandosi sui livelli europei. L’ltalia è ora iI paese più dipendente dal petrolio dell’Europa Occidentale e per noi la “fattura petrolifera” è cruciale. L’ltalia vive combinando energia importata con materia prima importata e vendendo i prodotti manifatturati sui mercato internazionale. Questo è evidentemente un equilibrio molto delicato, che può essere mandato all’aria molto facilmente, specialmente per improvvisi cambiamenti nel corso delle importazioni. Infatti, se prendiamo i tre anni 1960, 1970 e 1980 troviamo che la fattura petrolifera è passata da 0,29 a 1,25 e infine a 20,5 miliardi di dollari. Questo rappresenta un aumento di quattro volte tra il 1960 e il 1970 e di 16 volte nell’ultimo decennio. Le quantità di petrolio importato (al netto delle esportazioni) sono passate nel primo decennio da 21,9 a 118,9 milioni di tonnellate e sono scese a 97 milioni tra il 1970 e il 1980. Se vogliamo misurare il fenomeno senza I’effetto dell’inflazione e della svalutazione della lira, la fattura petrolifera deve essere misurata in rapporto al commercio estero dell’ltalia. Nel 1960, l’ltalia pagò le sue importazioni di petrolio con il 6,5 per cento delle sue esportazioni; nel 1980 iI paese ha dovuto pagare le sue aumentate importazioni di petrolio con il 26,3 per cento della sue esportazioni. 30 Il fatto che ciò possa accadere dice molto sulla capacità di resistenza dell’economia italiana, ma sottolinea anche il grave peso a cui si deve sobbarcare. L’ltalia ora esporta circa il 21 per cento del suo Pnl, una percentuale simile a quella della Francia e non molto più piccola di quella del più robusto paese europeo, la Germania. Sarà difficile superare questo livello e il peso pertrolifero potrebbe diventare ancora più gravoso in futuro perché l’ltalia probabilmente sarà incapace, al contrario degli altri paesi europei, di sostituire una elevata quota del suo petrolio, se non attraverso il ricorso crescente a importazioni di gas naturale. Le alternative dei paesi produttori in materia di prezzi Ora i paesi produttori controllano il mercato del greggio e sono normalmente in grado di fissarne il prezzo. Essi possono prendere le loro decisioni in proposito basandosi su due gruppi di fattori alternativi: la situazione e le previsioni del mercato petrolifero e il loro proprio sviluppo economico. Il fatto che questi due tipi di fattori in un qualsiasi momento potrebbero sortire risultati similari, non deve dissimulare la loro diversità di base. Se colui che fissa il prezzo vedrà se stesso nelle vesti di un “interprete” del mercato, egli fatturerà quanto “il mercato può sopportare” e troverà la giusta posizione anche attraverso esperienze negative ed errori. Egli potrà rendersi conto che le vendite di petrolio potranno finanziare lo sviluppo del suo paese, e tratterà questa considerazione come appartenente ad un livello differente, da decidersi solo dopo che prezzi e quantità del petrolio da vendere siano stati definiti per proprio conto. Egli non governerà il mercato, ma lo potrà influenzare. Per esempio, egli potrà tentare di riflettere la tendenza a lungo termine del mercato, pianificando una curva di esaurimento delle riserve petrolifere in parallelo con le probabili richieste dei consumatori. Nel breve periodo potrà adeguare la produzione petrolifera per evitare che temporanei surplus disturbino il mercato. Se invece si regolerà con “I’ipotesi di sviluppo”, colui che fissa il prezzo deciderà primariamente sulla base delle opportunità e obblighi dello sviluppo, particolarmente per quanto riguarda il necessario capitale di accumulo, e farà di tutto per massimizzare lo sviluppo economico piuttosto che gli utili del petrolio. Questi ultimi saranno utilizzati per finanziare I’accumulo e per appoggiare il consumo attraverso il trasferimento verso gli introiti familiari spendibili. Ma I’accumulo, oltreché essere limitato dalla scarsità di risorse diverse dal capitale, richiede tempo. Sarebbe inutile, dal punto di vista di un qualsiasi produttore singolo, creare più capitale attraverso la vendita di petrolio di quanto egli possa utilmente investire. Il produttore di petrolio potrebbe trovare strategie alternative per risolvere questo problema. Uno è costituito dall’integrazione economica fra i paesi membri dell’Oapec, con movimenti di capitali e mano d’opera da paesi dove I’uno o I’altro sono abbondanti verso quelli con scarsità. Ciò aumenterebbe le opportunità di investimento e aiuterebbe il livello di sviluppo globale del produttore stesso. Un’altra strategia potrebbe consistere negli investimenti all’estero: una soluzione pratica. Ma la difesa degli investimenti e i relativi utili richiede una sagacia non inferiore a quella che servirebbe per superare i limiti interni agli investimenti. Infine, il flusso del petrolio stesso può essere regolato in maniera tale da produrre solo gli introiti necessari, con ciò prolungando anche la vita delle riserve. Ma il fattore tempo costituisce una variante straordinariamente incerta; allungare i tempi di una qualsiasi operazione significa aumentarne le incertezze, specialmente in tempi di alta inflazione. Nello scegliere una di queste strategie, il paese produttore dovrà tenere conto anche delle influenze esterne. Come abbiamo visto, improvvise impennate di prezzo nel petrolio comportano recessioni su scala mondiale che alIa fine riducono il livello di sviluppo dello stesso paese che ha fissato i prezzi. La crescita zero nei paesi industrializzati inol- STAFFETTA QUOTIDIANA – 19 SETTEMBRE 2015 – N. 167 tre innesca una riduzione nella domanda di petrolio e delle risorse che ne provengono, riduzioni che influenzano negativamente la stessa base di sviluppo del paese produttore. Il prezzo del petrolio influenza anche i prezzi dei beni e servizi che i paesi Oapec debbono importare: la relazione esistente fra i prezzi del petrolio e I’inflazione può non essere altrettanto importante per i paesi dell’Oapec che importano notevoli quantità di beni di consumo e di capitale. Infine, se il paese che fissa il prezzo attribuisce un’importanza fondamentale al controllo statale dell’industria petrolifera, egli sarà interessato principalmente ad estendere tale controllo. La rivoluzione petrolifera degli anni ‘70 ha tolto dl mezzo I’integrazione verticale, mano mano che i paesi produttori si sono impossessati della fase a monte e alle compagnie è stata lasciata quella a valle. I prezzi del greggio sono ora soggetti alle decisioni politiche dei produttori, mentre quelli dei prodotti raffinati sono maggiormente soggetti alle variazioni del fattore offerta-domanda, specialmente in periodo di mercato fiacco, e alla speculazione. L’integrazione a valle dei paesi produttori sui propri mercati domestici e all’estero potrebbe comportare una nuova unitarietà dell’industria, almeno in alcune aree. I paesi produttori devono decidere anche su altre circostanze. La distribuzione geografica del greggio è divenuta una scelta politica e il greggio tende a scorrere con precisi movimenti bilaterali. Il consumatore che per una qualsiasi ragione si trova a corto trova gli approvvigionamenti supplementari che gli necessitano con difficoltà ed a prezzi maggiorati. Ciò minaccia di creare nuovamente quella rigidità nel mercato petrolifero che esisteva quando tutto il greggio scorreva attraverso i canali integrati delle multinazionali. Questa nuova rigidità è ulteriormente aumentata dai differenziali che esistono ora fra i vari greggi, che esorbitano ampiamente dalle effettive differenze nei costi di approvvigionamento o, tanto più, dalle differenze ottenibili con la raffinazione dei vari tipi di greggio e dalla vendita dei relativi prodotti su un qualsiasi mercato. L’importatore che ha greggi di alto prezzo non è in grado di compensarli acquistandone altri a prezzo più basso e rapidamente diventa un operatore marginale con più alti costi energetici. La necessità di un progetto interdipendente Dobbiamo ora domandarci: la situazione attuale può dirsi soddisfaciente? È stabile? E’ in grado di garantire la migliore utilizzazione delle riserve di petrolio e il livello massimo nello sviluppo economico dei paesi Oapec? La risposta base, mi sembra, è che vi è ancora spazio per un miglioramento. Il sistema è soggetto a possibili errori, specialmente nei casi più sofisticati. La produzione potrebbe essere ridotta a livelli troppo bassi in seguito a valutazioni pessimistiche dei consumi futuri o con I’intento di spingere verso I’alto i prezzi. I produttori sono tuttora incerti sull’effettivo livello delle loro riserve e, di conseguenza, sul corretto periodo del loro esaurimento. Il loro sviluppo, anche se effettivamente in atto, non è sufficientemente coordinato con la crescita economica del mondo in generale. I consumatori si sentono incerti sulle quantità ottenibili, il che spiega, in parte, i loro comportamenti per esempio per quanto riguarda I’accumulo delle scorte, e sui prezzi, che in qualche modo tendono ad aumentare. Siamo ora ad un crocevia e dobbiamo sviluppare la cooperazione basata sull’interdipendenza fra consumatori e produttori. Un confronto è certamente il modo migliore per aumentare I’incertezza e i rischi di improvvise crisi. La cooperazione può svolgersi a due livelli. Il primo globale, basato su una comune piattaforma di conoscenze in merito allo sviluppo dell’economia mondiale e delle esigenze dei paesi produttori e consumatori, il secondo, più pratico, tra le compagnie petrolifere nazionali delle due parti. Il “modello interdipendenza” messo a punto dall’Eni intende offrire uno strumento in questa direzione. La selezione e l’impaginazione del materiale sono state curate da Micaela Porretto (dalla Staf fetta del 9 aprile 1981) Staffetta