Roberto Soldati Appunti volanti PAROLA DI EDITORE!! L’aspetto più difficile di questa piccola impresa editoriale è stata quella di convincere Roberto Soldati a pubblicare i suoi appunti, sparsi qua e la nell’arco di un trentennio, tra riviste di volo e canovacci che sbucavano da ogni dove. La mia proposta editoriale è nata, se non altro, come ringraziamento a questo autore, di avermi inculcato la passione per il volo in aliante anche se da semplice passeggero. Come posso dimenticare le innumerevoli avventure vissute insieme? Per esempio quella volta che facemmo “fuori campo”nei pressi di Tivoli. Spingemmo l’aliante fino al parcheggio di un ristorantino e come niente fosse entrammo per pranzare tra gli altri clienti che ci guardavano come fossimo marziani che con la loro astronave avevano occupato una diecina di posti macchina. O quella volta, quando fummo costretti ad atterrare su di una regolare avio superficie, cimentandoci in una ginkana tra i covoni di grano, muli, ed una vecchia trebbiatrice che alcuni contadini incoscienti vi avevano piazzato. L’evento più sconcertante ci capitò nell’ 88. Durante uno stage con traino al verricello sulla piana di Campo Felice, in attesa dell’ora di pranzo dove mi aspettava una mia cugina con il nuovo fidanzato da presentare ai rispettivi genitori, nonni, compari e parenti vari, sfiorammo in volo e Roberto Soldati Appunti volanti ripetutamente una coppietta com-ple-ta-me-nte nuda, distesa sull’erba di monte Ocre, che ci ignorava quasi con disprezzo. Non potete immaginare la faccia di Roberto quando, finalmente a pranzo, la mia cuginetta, che per me era come una sorella, ci disse: “Ha! a proposito di volo, oggi sono passati tanti, tantissimi alianti mentre prendevamo il sole sull’Ocre, Che cariiini”. Poi, il suo fidanzato, con una smorfia nella sua faccia come avesse trovato una mosca nel piatto ci disse: “Hem, c’eravate anche voi a monte ocre”? Non trovammo proprio il coraggio di dire la verità l’imbarazzo era totale. Era da tempo che accarezzavo l’idea di regalare ai nostri lettori un “invito al volo libero” avulso dal tecnicismo pedante di altri racconti nei quali mi sono imbattuto prima. Sentivo il bisogno che Roberto mettesse una buona volta su carta i suoi racconti così come li espone ad amici e curiosi che ascoltano tanto affascinati per quanto timorosi di volare all’inizio ma che poi, come e stato per il sottoscritto, ne uscivano convertiti a questa nuova religione della quale, come lui stesso si definisce, ne è l’umile sacerdote che catechizza i fedeli ad elevarsi in termica. Fino al giardino dell’eden di…monte Ocre. Di Augusto Sforza Cesarini, IAF Edizioni Italy Roberto Soldati Appunti volanti INTRODUZIONE DELL’AUTORE: Che questi appunti sulla mia esperienza di aeronauta non siano intesi come l’autobiografia di uno sconosciutissimo pilota quale io sono, bensì una semplice esposizione, in questo caso scritta, di un’esperienza di volo destinata a soddisfare le tantissime curiosità di voi, amici o semplici curiosi, che pur provando un’attrazione irresistibile per l’oceano aria lo temete, con tutto il corredo di pregiudizi d’ogni sorta e magari. . . chissà, potrei cercare di condurvi oltre le colonne d’Ercole di questo oceano aria, che al contrario dell’oceano d’acqua, si trova in ogni anfratto della biosfera e nutre la nostra vita. Navigandovi attraverso, non solo in lungo e largo ma anche dal basso in alto, anche voi potrete esplorarvi punti di vista inattesi e sorprendenti, magari a perpendicolo sulla vostra casa. Punti di vista che adesso potrete condividere con il falco, le rondini e le cornacchie che per anni avete visto roteare e giocare con il vento nel cielo sopra di voi. Roberto Soldati La prima volta che mi capitò di vedere un aliante fu nel 66, mentre tornavo a casa dal liceo. Proprio in cima una montagna a ridosso del paese, un velivolo silenzioso dalle ali lunghe e sottili, faceva avanti e dietro il pendio senza perdere quota, inseguito da una dozzina di cornacchie che difendevano il loro territorio da quell'intruso. Ad un certo punto, con un lieve sibilo, si spostò più a valle. Arrivato sotto una nube, cominciò a girarci sotto, salendo rapidamente fino alla base piatta e scura. Infine si allontanò verso est e sparì dietro la montagna. Siccome non avevo mai sentito parlare di un aereo senza motore, mi convinsi che si trattava di un aquilone sfuggito al proprietario. Finita la spiegazione, ripresi il viaggio lungo il sentiero che portava alla montagna; ma non feci neanche un chilometro che nel bel mezzo di un prato vidi l'aliante a terra con una estremità alare poggiata sull'erba e un tettuccio trasparente aperto. Con un certo timore, mi avvicinai e vidi il pilota sdraiato in cabina che dormiva con la visiera del cappello calata sul viso. Mi fermai ad una certa distanza, almeno per dieci minuti, indeciso di cosa fare. Poi il pilota con un dito tirò su la visiera, mi guardò e con forte accento veneto mi disse: "Vieni pure avanti, puoi guardarlo da vicino, non morde mica". Vinsi il timore e mi avvicinai. Una scena dal film “PITERPANCLUB” realizzato con un aliante M 100 che compie un volo di escursione attraverso il microcosmo del mondo vegetale 2002 R. Soldati Per cui, finito il pranzo, pensai di salire, in Vespa, fin sopra alla montagna per recuperare quel coso, nel caso fosse caduto da qualche parte. Mentre attraversavo la valle, un contadino mi disse di aver visto un aliante molto basso in quella zona. Io trovai la parola aliante estremamente suggestiva. Mi dava l'idea di qualcosa leggero come una piuma; una parola che una volta pronunciata fluisce libera nell’aria, come fosse disegnata a pennello su quel velivolo, esile ed elegante come nessun altro aereo. Il contadino mi spiegò che l'aliante è un aereo con pilota e senza motore e con le ali piene di un gas leggerissimo, come quello dei palloni, che permette al velivolo di stare in aria. Era un signore sulla cinquantina. Uscì dall'abitacolo, si sgranchì un po’ i muscoli, poi mi chiese: "Come si chiama questo posto?". "Campo Felice di Lucoli", gli risposi. Dopodichè, preso il microfono della radio di bordo, comunicò con un'altro pilota ancora in volo, specificando la zona di atterraggio per facilitare alla squadra di recupero l'arrivo sul posto. Poi, chiusa la comunicazione, mi spiegò praticamente tutto sull'aliante e sulla navigazione aerea. Si chiamava Felice Valenzano, e mi fece da istruttore senza mai chiedermi una sola lira. Nel 68 se ne andò a fare il pilota in Venezuela ma rimanemmo sempre in contatto, fino alla sua scomparsa avvenuta nell’ 88. Grazie! Sequenza fotografica di un aliante K13 in atteraggio all’aeroclub di L’Aquila. Quando chiesi a Felice conferma sul gas leggero dentro le ali, come mi aveva spiegato il contadino, si mise a sghignazzare di vero gusto, dicendo che mai aveva sentito una fesseria del genere. Appena dopo il tramonto arrivò la squadra di recupero. A dire il vero, erano solo due persone con una macchina e un carrello a rimorchio simile a quelli per trasportare le barche. Uno dei due uscì agitando minacciosamente una bottiglia di spumante. Felice indietreggiò, dandosi poi alla fuga inseguito dall'amico, deciso a punirlo con un bagno di Asti per non essere rientrato al campo base. Finito il bagno, dopo aver smontato e impacchettato l'aliante sul carrello, brindammo insieme con il poco spumante che rimaneva. "Brindiamo a cosa?", disse uno di loro. "Mah... qui c'è un nuovo volovelista, brindiamo per lui“ disse Felice. Non passò un mese che Felice mi mandò via posta il modulo d’iscrizione all'aeroclub di Rieti, incluse le modalità di come ottenere un forte sconto per prendere il brevetto di volo a vela, riservato agli studenti. Conscio di non potermi sottrarre a quell'invitante invito mi cercai un lavoro per pagarmi il brevetto e dopo qualche anno ero in volo anch'io. In meno di otto anni collezionai più di duemila ore di volo, portando a spasso i turisti sopra le valli e le montagne abruzzesi. Navigando dentro le correnti termiche ascensionali, il volo poteva anche durare sei o sette ore, il che corrispondeva a circa ottocento chilometri di percorso e senza consumare una sola goccia di benzina, se si esclude quella per l'aereo trainatore. Il volo a vela è uno sport spirituale vicino all'ascetismo. Il fatto che sia così poco praticato non dipende tanto dai costi, quanto dal fatto che lo sport in generale è esibizione. Di solito, l'atleta gareggia oltre che per se anche per un pubblico. Il volovelista invece, è sempre solo tra il silenzio delle nuvole e qualche parente a terra un po’ annoiato o in ansiosa attesa. Descrivere il fascino del volo in aereo è difficile, descrivere il fascino del volo in aliante, in delta o in parapendio è impossibile ma ci proverò. Gli psicologi sostengono che pur essendo l’uomo un animale terrestre subisce un’attrazione irresistibile verso il cielo nel tentativo di liberarsi dalle sofferenze, le angosce, il grigiore e le angherie che la vita terrena ci induce giorno dopo giorno, o roba del genere. A parte le varie argomentazioni psicoanalitiche il volo, senza citare il solito mito di Icaro, è stato sin dai primordi il pensiero magico insito nel DNA dell’umano che si esprime sottoforma di angeli, super eroi, ed altri simboli celesti che la mente cavalca elevandosi in volo con essi attraverso un tipo di realtà che la fantasia crea tralasciando accuratamente d’introdurvi tutti quegli attributi negativi presenti e inevitabili del mondo terreno. La moglie di un volovelista finito dentro un cumulonembo trovò conforto al suo dolore quando le dissero che il marito, dopo aver tentato un lancio con il paracadute, era stato trascinato verso l’alto. La vedova sollevando gli occhi al cielo disse: “Ecco è questa l’immagine che io porterò sempre nel mio cuore” Il fatto che quel pilota morì lentamente congelato a 6000, metri per la vedova sembrava un dettaglio del tutto secondario. Il barone rosso in un duello aereo L’elemento aria diviene così come una boutique dove ognuno va a farsi confezionare addosso il proprio ambiente ideale nel quale non alberga sofferenza fisica. Chi contamina il cielo merita di essere scaraventato nella direzione opposta, in basso all’inferno come Lucifero, Adamo ed Eva, Icaro ed altri dannati. Per quanto io cerchi di rovistare nella mia memoria non conosco cattivi scaraventati verso il cielo o buoni verso terra. Il buono, più leggero dell’aria vola in alto, mentre il malvagio diviene pesante al punto da essere risucchiato in basso dalla forza gravitazionale di madre Terra senza possibilità di scampo. Sin dal giorno che Mongolfier staccò i piedi da terra tutti gli aeronauti che seguirono, interpretarono a modo loro il rapporto conl’aria, secondo il personale retroterra culturale. La nobiltà “fin de siècle” trasformò i cieli in un regno dove eternare le gesta cavalleresche dei loro illustri avi e l’aeroplano fu il loro cavallo alato, fu il Pegaso in legno e tela con il quale sfidare in torneo le casate antagoniste. Gli snob si scatenavano in spericolate esibizioni acrobatiche sfoggiando il loro ego a mo di muscolo bicipite da impressionare il mondo per tanto ardire. Gli avventurieri usavano l’aereo come mezzo da viaggio, i militari per collezionare onori, i romantici per volare tra le nuvole. Non so bene quale scegliere tra le categorie appena elencate, ma una cosa è sicura; sono irresistibilmente attratto dall’aspetto metafisico del volo. Per dirla terra terra, anzi aria aria, sin dal primo giorno che spiccai il mio volo in aliante durato 3826 ore registrate sul libretto al 16, 5, 2000, si manifestarono i primi connotati surreali insiti nella nuova esperienza. All’epoca, parlo del 1969, oltre a frequentare il primo anno dell’Istituto Europeo di Design, mi cimentavo anche con i miei primi rudimentali esperimenti sulla percezione visiva (la mia attuale professione), presso uno studio che si chiamava La Microstampa. Il mio tecnico di laboratorio preferito era il sig. Ferdinando Verde. Una mattina, seduti in moviola, gli dissi di non poter continuare il lavoro nel pomeriggio poiché avevo un impegno a Guidonia. Spaventoso!! Quello che tutti cercano, il classico ago nel pagliaio, l’avevo trovato io, tra milioni di persone che popolano Roma e dintorni. Superato lo shock presi quella coincidenza pazzesca come un segno del destino che sanciva definitivamente il mio sodalizio con il volo, e se mai mi fosse rimasta qualche ombra di dubbio anche questa fu dissipata quando, arrivato all’aeroporto scoprii che il pilota dell’aereo trainatore era... Se siete emotivamente labili, sedetevi che è meglio, era… Ferro, un mio professore dell’Istituto Europeo di Design. La quardratura del cerchio era compiuta, sgancio a 600 metri ed il volo delle 3826 ore ebbe inizio. Il pilota trentino Felice Valenzano e Roberto Soldati nel 1966 a Rieti Verde: “Ho ma bene! Anch’io devo andare a Guidonia, se vuoi ti do uno strappo”. Io: “Benissimo grazie!” Gli risposi, “devo andare all’aeroporto” Verde: “Ha perfetto! anch’io vado all’aeroporto, e che cavolo vai a fare all’aeroporto per non impicciarmi dei fatti tuoi”? Io: “Beh, sai volevo iscrivermi al corso di volo a vela di Rieti ma siccome lavoro a Roma mi hanno consigliato di parlare con l’istruttore di Guidonia che è più vicino. Verde: “Più che vicino è vicinissimo!” mi fa, scattando sull’attenti, e saluto militare: “Comandante Soldati, l’istruttore di Guidonia eccolo qua di fronte a lei” Un allievo pronto al battesimo dell’aria a bordo di un vecchio veleggiatore. I primi alianti erano poco veloci, questo consentiva ai vecchi velivoli di sfruttare molto bene le correnti ascendenti strette. Scoprii con stupore che il sogno del volo era divenuto realtà era invece la terra che scorreva sotto, con tutti i suoi eventi, a divenire sogno. Non potevo concepire che quel trainatore ed anche mio professore o quell’istruttore seduto dietro me sull’aliante ed anche tecnico seduto in moviola fossero le stesse persone. Alla quindicesima ora di volo mi voltai dietro, ed ero solo. Il mio istruttore si era dissolto nel nulla dopo avermi abbandonato in aria al mio destino. Quando il mattino seguente incrociai il mio professore a scuola mi comportai come nulla fosse accaduto. Accennare dell’incontro all’aeroporto sarebbe equivalso a dirgli: “professore questa notte l’ho sognata che mi stava trainando in volo, ma che buffo” Persino volando sul mio paese, mi sentivo come un fantasma che aleggiava sopra la mia gente, e sopra i miei boschi. C’era il solito Giacomino che se ne tornava a casa con il trattore seguito dal suo cane Turco. Vidi la corriera blu delle 15 e 15, che mi aveva sempre portato a scuola, mentre manovrava per superare la solita curva ad U sotto casa mia. Vidi le due vedove in nero sul sentiero che portavano i fiori al cimitero tutti i santi giorni. C’erano i Domenichi che giocavano a bocce sulla piazza del paese (Li chiamavamo Domenichi perché in quel paese di 86 uomini 14 si chiamavano Domenico). Sentivo la mia terra sotto come un luogo senza tempo. Se tra gli studenti che scendevano dalla corriera vi fossi stato anch’io non mi sarei meravigliato troppo. Risalendo verso la montagna, munito dell’inseparabile radiolina con la “mutilazione” di frequenza, c’era Lorenzo e le sue pecore che pascolavano allo stato “ebraico”, (parole sue), mi chiamava aliantero. Lo sfiorai quanto bastava per non spaventargli le pecore e lo salutai, lui mi rispose con un cenno perplesso. La zona, lunga una decina di chilometri tra Campoli e Vallefredda (fingete di sapere dov’é, grazie), era il posto di sorvolo che più spesso mi divertivo a rasentare. Era fatta di dune verdi, delimitate da muri a secco, gruppi di faggi e laghetti circondati di pecore, vacche e cavalli all’abbeverata. Era quello il mio tipo di volo preferito, alla parapendista insomma, ed anche molto apprezzato dai miei passeggeri, senza però disdegnare situazioni mozzafiato, come, ad esempio rasentare la cresta del Corno grande affollato di escursionisti per poi finire, in modo repentino ed inatteso sopra lo strapiombo dei prati di Tivo. Ma la specialità dell’aliante, proibita al parapendio, è il volo tra le nuvole. La terra sottostante, che prima appariva senza distanza come volare sopra un plastico in miniatura pieno di casette e macchinine, vista attraverso le nuvole diviene improvvisamente abissale. Il decollo al traino è una fase piuttosto delicata da eseguire con molto impegno e concentrazione Non tutti sanno che l’entrata in nube provoca un impatto con essa, ma niente paura, è come una lievissima frenata che terminerà uscendone fuori. La navigazione in aliante diviene talmente istintiva che si può governare il volo col solo pensiero, come fanno aquile e poiane che spesso vengono a ricordarmi: “Divertiti pure ma sappi che questa è la mia zona e tu sei solo un ospite eh”? E dei passeggeri che dire? Il mal d’aria è purtroppo il più frequente e solo tra i maschietti, si!! Incredibile ma vero. Mai, dico mai mi si è sentita male una donna, se qualcuno ha una spiegazione la dica. Una volta uno dei tanti passeggeri salito a bordo per scommessa con gli amici codardi rimasti a terra ad ammirare, naso in su, il suo eroismo decise, suo malgrado, di rivoltarsi lo stomaco come un calzino depositandone il contenuto in quello che poco prima era un berretto e poco dopo un cesso. Pensando di evitare una di quelle figuracce che rimangono negli annali della comunità, mi implorò di atterrare in qualsiasi posto nascosto dagli amici; una strada un campo di calcio un prato, ma non in aeroporto. Trovammo un compromesso, atterrai a fondo pista e dopo essersi disfatto del cesso si modellò, alla meglio, una specie di sorriso sulla faccia bianca come una candela e se ne tornò tra gli amici per l’accoglienza trionfale, dopodichè svenne tra le loro braccia. Si riebbe subito ma spesso mi chiedo quale sia stato il suo destino dopo tanta onta. Un’altra volta si presentò un ex pilota militare, tipo: “Petto in fuori!! pancia in dentro!!” anche se adesso era l’esatto contrario, deciso a forgiare il nipotino dodicenne della sua stessa tempra e farne, tramite i suoi agganci presso lo stato maggiore, un vero ardito dell’aria. Fummo fortunati, un volo stupendo. Tra monti e foreste continuavo a fare il cicerone, ma quando mi voltai, lo vidi sprofondato in un sonno abissale. Pensando che stesse male gli chiesi se voleva tornare a terra: “Si” mi rispose farfugliando attraverso un teatrale sbadiglio: “Torniamo”: Il nonno, povero nonno! Mi chiese: “Allora com’ è stato? Era tranquillo”? Ho…hem, si si, tranquillo, molto tranquillo, gli risposi,. Che altro potevo dire? Alianti in volo sopra alla città di L’Aquila Zac!! Tagliare il vincolo gravitazionale e via verso il blu e le nuvole se non altro tramite il pensiero e l’elevazione spirituale fino in paradiso. Pensate che bello se la volpe stremata di fatica e terrore, braccata da orde di cacciatori e branchi di cani feroci messa alle strette, di colpo gli spuntassero le ali e via! verso l’alto. Haa! che soddisfazione starsene lassù a gustarsi le facce ribollenti di rabbia dei cacciatori e la frustrazione quasi insopportabile dei cani. In quelle condizioni di assoluta beatitudine tra le nubi non trova posto neanche il rancore si è pronti a perdonare tutto e tutti, persino la stupidità e le peggiori cattiverie perpetrate a chi vuole solo vivere tranquillo al di fuori della legge della giungla. Ricordo bene il sottile piacere che provai un giorno nel veleggiare, come falco tra le rondini, sopra migliaia di macchine invischiate nell’asfalto in un rovente esodo di ferragosto, ed io ero li al fresco e libero di fluttuare nell’oceano azzurro tra le nuvole senza limiti e confini. Mi tuffai con sadico piacere a fianco della strada un centinaio di metri più sotto che si inerpicava sulla montagna e ci feci un rapido passaggio rasentando il guard rail per poi risalire veleggiando verso il monte sopra gli sguardi trafelati dei vacanzieri, punendoli di essere finiti come fessi tra le braccia dell’ora di punta invece di attenersi alle le regole della “partenza intelligente” come aveva detto la TV. . . Va be’ non esageriamo. In una ventosa giornata di Ognisanti, del 1976 fui incaricato di riportare un aliante da L’Aquila all’aeroporto di Rieti. Attaccato al trainatore, l’aria si faceva sempre più turbolenta, un vento da nord ovest ci sballottava in modo così violento che decisi di sganciarmi sulla verticale del monte Giano (fingete di sapere dov’è, grazie) anziché sul Terminillo come stabilito sul piano di volo. Lo Stinson che mi aveva trainato se ne tornò indietro con una repentina affondata. Attraverso la radio di bordo potevo già sentire le conversazioni radio tra i piloti reatini che cercavano affannosamente la prelibatezza più ambita dal volovelista; “la termo onda” un raro moto dell’aria che ti può portare a quote stratosferiche. Tra le tante voci concitate una mi preoccupò particolarmente: “Niente sottovento, abbiamo 110 km orari, non si cammina” 110 orari? ooh mamma mia!. Preoccupato, chiamai Rieti e mi rispose una voce gentile e pacata che mi rassicurò di stare tranquillo poiché a terra il vento era sostenuto ma accettabile, con qualche precauzione in procedura d’atterraggio. Una spettacolare nube lenticolare formata da aghi di ghiaccio La voce era quella di Plinio Rovesti un vero monumento della meteorologia aviatoria; sempre impegnato a scrutare i segni del cielo e autore di un testo tutt’oggi utilizzato da tutti i piloti anche quelli del volo libero e sul quale io stesso mi sono formato. Scrutando in cielo, vidi alcuni alianti altissimi, praticamente immobili, in cima alle creste del monte Terminillo dove si erano formate alcune nubi lenticolari che sembravano dischi volanti, chiaro segno di termoonda, ma la mia preoccupazione era solo quella di atterrare incolume con tutto quel vento, finchè Rovesti mi chiamò: “Lei del november! non venga giù, se si sposta verso il costone, a ore 6, troverà un’ascendenza, ci dia dentro che la porterà dritto dritto in onda”. Dopo qualche minuto notai con sorpresa che mi stavo allontanando dall’aeroporto contro prua. Incredibile ero in retromarcia dentro un flusso laminare di 110 km orari ad una velocità superiore a quella dell’avanzamento dell’aliante che era di soli 90 orari, il tutto senza una bava di turbolenza. Che emozione! Il mio primo volo in termoonda. Da 800 metri mi ritrovai a 2000 metri ancora in salita. A quota 3800 una voce mi chiese: “November! Mi comunichi, quota, velocità, il nome del suo aliante ed in quale aeroporto si trova”. Quelle domande le trovai alquanto strane ma non ci badai preso com’ero dagli eventi. Pensai ad una specie di prova radio e mi misi a dare una serie di numeri, finchè sentii di nuovo il Rovesti che mi chiese: “Lei del november come va lassù? Mi ripeta. . .” e dalli ancora con lo stesso quesito al quale risposi per la seconda volta. A quel punto sentii la voce del mio vecchio istruttore, il comandante Muzi, che mi ordinò di non salire oltre. Solo dopo l’atterraggio mi spiegarono che quelle domande erano un test non per la radio ma per capire se un pilota sia in anossia da altezza. Nube d’onda generata da una risonanza dei venti d’alta quota Un aliante in volo di termoonda a 4000 metri sul Gran sasso Lo feci ma in una turbolenza da panico. Rovesti mi incitò d’insistere, ma strapazzato sempre più dalla turbolenza ed il variometro in salita a fondo scala, lo chiamai dicendo preoccupato: “Ma guardi che qui si sconocchia tutto”, “no! non molli prorio ora, viri, viri a ore 9. . .ecco bravo! dritto così ed entrerà in onda”. Il suono del variometro acustico che fino a quel momento mi ricordava i fischi delle pallottole nel mezzo di una gigantesca sparatoria nel saloon si trasformò in un’unica suadente nota simile alla voce del Rovesti. La turbolenza cessò completamente. Ero in pieno flusso laminare, le ali immobili come fossi atterrato sopra un grattacielo. Con il variometro incollato a più 4, sospeso sopra l’aeroporto, salivo in senso verticale come una mongolfiera. Nella zona tra monte Terminillo e l’aeroporto di Rieti si era instaurata la parte ascendente della termoonda che mi impediva praticamente di scendere senza finire in mezzo ai rotori che nel frattempo si erano resi visibili sottoforma di nuvolaglia come mani che roteando minacciose mi dicevano: “Vieni, vieni che ti stritolo io, ti stritolo”. Timoroso di quella minaccia chiamai il direttore di linea per istruzioni ma mi rispose ancora Muzi che mi disse con il suo consueto tono duro e rassicurante: “Amico mio sei tu il comandante, sta a te decidere il da farsi”. Appena fermo, due assistenti placcarono il mio aliante afferrandolo per le ali. Solo allora mi resi conto dell’intensità del vento. La sera stessa mi recai a ringraziare Rovesti che mi invitò ad assistere alla sua lezione che ovviamente accettai. Rovesti parlò, ammaliando un’intera platea di piloti, della eccezionale situazione che quel giorno si era creata e che io stesso ci ero finito dentro, grazie a lui e senza averlo mai visto prima. Un giorno Rovesti venne, con un suo amico, all’aeroclub di L’Aquila e ne approfittai ancora una volta. Nelle due foto si vede l’evoluzione di una nube d’onda, che si è formata nella zona sotto la cresta di flusso Strinsi le cinture più che potevo, tirai i diruttori e... discrazia tra le discrazie erano completamente bloccati dal ghiaccio. Per fortuna sfruguliando un po’ la leva i diruttori uscirono…fiiuuf. La turbolenza non tardò a farsi sentire di nuovo. Tenni l’aliante in pre stallo e la superai senza troppa difficoltà. Durante la manovra di avvicinamento vidi un aliante atterrato al di fuori dell’aeroporto per via del forte vento; senza danni per fortuna. Tagliai il circuito, per non replicare lo stesso errore, e scesi come appeso ad un paracadute ma regolarmente, fino all’atterraggio. Quando ripartirono in macchina si fermò più volte continuando ad istruire via radio sia me che altri due piloti ancora in volo. Le teorie di Rovesti ed i suoi collaboratori venivano accolte addirittura con denigrazione dalla meteorologia ufficiale. Più noi volovelisti utilizzavamo la termoonda, più la meteorologia ufficiale ne negava il fenomeno fino al giorno quando lessi un articolo che diceva: “Studiate correnti laminari d’alta quota dal meteorologo…” che purtroppo, neanche citava Plinio Rovesti come sempre fanno gli scippatori di meriti dei nostri atenei. L’officina dove, nel 1930, Rovesti ed un manipolo di squattrinati studenti trentini, ma con tanta voglia di volare, costruirono le proprie ali dando vita al volo a vela italiano. E’ riconoscibile in questa foto la replica dell’aliante a traliccio tedesco “Zogling”. Successivamente, sotto la guida gratuita di ingegneri delle’industrie aeronautiche, Marchetti e Caproni, i volovelisti trentini crearono prodotti originali come l’aliante anfibio “ROMA” nella foto sotto, con Plinio Rovesti alla guida che decollava da una rampa sulla vetta del monte Campo dei fiori per poi ammarare sul lago della Sciranna. Nella foto sotto il libratore “TRENTO” ed il camioncino che trasportava alianti ed allievi. Ve la immaginate oggi una scuola dove gli studenti realizzano e volano con veri aerei fai da te? Nel lontano 1930, nel Trentino, Rovesti ed un gruppo di amici volavano su alianti che loro stessi realizzavano a scuola. Nel 2002, per fare un paragone, uno studente scendendo le scale di un liceo italiano si è slogata una caviglia. Aaaalt!! Fermi tutti, accesso proibito, scale chiuse per due mesi. Perché? La scuola non aveva provveduto a sostituire gli antiscivolo logori sui gradini, capito?. Figurarsi se ti fanno volare con un aereo fatto in classe. Le regole che ci tutelano, Plinio Rovesti a bordo dell’aliante anfibio Roma sia pure intelligenti, nel clima politico attuale del “vieni avanti cretino” servono solo a tarpare le ali di chi vorrebbe librarsi libero nell’aria in senso reale o figurato. Ah! che bello quando al cospetto di un sogno, e non per mazzetta, il tutore della legge strizza un occhio e finge di non vedere. Fu così che nel 1968 nacque anche l’aeroclub di L’Aquila, un hangar, un prato e un cielo per volarci dentro. Purtroppo l’ingordigia di chi razzola nel terreno politico, solo per poco non riuscì a trasformare quel paradiso del volo a vela in una sterile landa d’asfalto. Nessuna rappresentazione potrebbe schematizzare meglio, una situazione di termoonda come in queste due immagini fotografate in una zona di confine tra una catena alpina e la Pianura padana sulla quale sta soffiando la bora. Zona alpina, venti da nord rotori Pianura padana, venti fohn in discesa Sopra: Il cumulo nembo, è ritenuto il nemico numero uno degli aeromobili di qualsiasi tipo, persino i più robusti. Nel suo interno vi è un inferno di fulmini e correnti ascensionali che risucchiano verso l’alto persino chicchi di grandine come palle da biliardo. Il cumulonembo è la tipica nube temporalesca ed è riconoscibile dalla sommità a forma di incudine con la base scura e piovosa. Il cumulo nembo, “Charlie Bravo” in gergo meteorologico, non vi spaventi più di tanto poiché, grazie proprio alla sua imponenza, è una situazione assolutamente prevedibile e quindi evitabile, a menochè non lo si sfidi deliberatamente. Il cosiddetto ”volo senza motore” mi ha affascinato da sempre per via della mia innata vocazione minimalista, una filosofia che fa parte del mio stile di vita a 360 gradi, dal lavoro al tempo libero dal corpo allo spirito. In assoluta controcorrente, lo scarnire dalla mia vita ogni supporto tecnologico, gettare via il superfluo generatore d’ansia, è sempre stato in mio anelo e la mia ossessione. A nove anni mi regalarono una bicicletta corredata di tutto dalla quale piano piano, facendo in modo che i miei non si accorgessero, vi strappai via prima il campanello poi la dinamo, il faretto, gli stop, i parafango, il porta oggetti, insomma tutto tranne telaio ruote pedali e freni. Persino il nome da bicicletta divenne semplicemente bici, tutto tranne il minimo per viaggiare. Così ridotta la bici appariva ai miei occhi un concetto di essa. Più che una macchina, un pensiero magico, un tramite tra la realtà e la fantasia che ti fa viaggiare nello spazio e nel tempo, e ti fa volare sulla strada sfiorandola con un semplice colpo di pedale attraverso la natura che ti scorre accanto. Qualche anno dopo mi comprai una vespa solo per provare il brivido del consumismo per poi passare, magari all’utilitaria e così via fino alla Maserati, come tutti sognano, ma niente da fare. Il tarlo del minimalismo covava dentro di me e per una improvvisa ricaduta passai, dalla Vespa al motorino pieghevole, poi di nuovo alla bici e dalla bici a piedi. Applicai la mia filosofia minimalista persino al mio sport preferito, il volo. Iniziai col motore poi l’aliante ed in fine al parapendio. Se anche voi intendete sposare il mio tipo di filosofia, fregatevene del giudizio di amici e parenti, lasciateli rosolare nella convinzione che le cose vi sono andate sempre peggio e che la vostra vita è stata un fallimento totale. Lasciateli vivere al limite delle loro possibilità. Lasciate che siano loro a finire tra le grinfie dei cravattari. Quando toccheranno il fondo voi sarete li ad aspettarli per poi staccarvene fluttuanti nell’aere. Haug!! Parola di grande capo. La prima volta che mi recai a scuola di parapendio, fiutai una certa invidia da parte degli altri allievi verso i mio passato di volovelista come se loro avessero scelto quello sport di ripiego alternativo all’aereo. Pur amando molto l’aliante, l’ho sempre considerato una specie di protesi alare, una sedia a rotelle per uccelli disabili. Il parapendio mi ricorda invece la mia bici minimale. L’idea di avere dentro lo zainetto una tela che una volta distesa si gonfia di vento dispiegandosi come ali d’uccello e ti porta in aria, mi fa impazzire di meraviglia e stupore. Ma che cosa è un parapendio e come è nato? Il volo in parapendio fu inventato da due paracadutisti francesi nei primi anni ottanta nel tentativo di praticare del paracadutismo senza utilizzare l’aereo come base di lancio. Il parapendio è infatti una versione più fine del paracadute direzionale trapezoidale. I primi rozzi parapendio, servivano solo a fare delle lunghe planate dal monte di decollo alla pianura ma la rapida diffusione di questo sport spinse ricercatori e progettisti a produrre vele sempre più sofisticate ed efficienti fino ad arrivare al parapendio moderno perfettamente in grado di veleggiare per ore ed ore. Gli inventori del volo in parapendio I. G. Betemp e G. Basson nel 1978 in decollo con un paracadute trapezzoidale. Sopra, una vela moderna In presenza di correnti dinamiche siapure modeste il parapendio non solo veleggia ma, navigando nelle correnti ascensionali diventa addirittura difficoltoso atterrare se non dopo ripetuti tentativi, e questo non è un problema ma un sicuro vantaggio. Attenzione! Il parapendio non è un paracadute ma una vera e propria ala pieghevole che quando si irrigidisce incamerando aria è in grado di veleggiare dentro le correnti ascensionali come un aliante. Il classico paracadute a cupola è invece un sistema frenante che rallenta solo la velocità di caduta verticale. Il pilotaggio del parapendio è abbastanza semplice. Una volta gonfiata la vela è sufficiente correre per qualche metro controvento ed una volta in aria il parapendio va praticamente da se, il pilota deve solo gestire il volo con due comandi bivalenti che tirati in modo alterno, ne cambiano la direzione, tirandoli insieme funzionano da freni. Anche prima di Basson e Betemp furono fatti tentativi come questo di un americano in una valle alpina nei primi anni 70 La struttura di un moderno parapendio e le parti che lo compongono L’insidia maggiore del volo come in altri sport, è nascosta nel fattore umano cioè il pilota, anzi quei piloti, che hanno l’irresistibile attrazione a strafare, ma per fortuna lo strafare è una scelta. Anche lo sci, come tanti altri sport, può restare tranquillo o diventare rischioso a seconda che si decida di sciare solo sulle piste verdi o anche su quelle nere. L’atteggiamento superficiale e presuntuoso nell’affrontare l’elemento aria, hanno causato incidenti che talvolta sembrano ispirati da manuali di volo al contrario; Come dire: “studiate punto per punto tutti gli errori che ha fatto quell’ idiota, evitateli e volando volando prima o poi morirete, di vecchiaia” Linea d’orizzonte Angolo di discesa Zona ascendente Flusso del vento Ostacolo Illustrazione R. Soldati Ma come può un velivolo senza motore restare in volo per tante ore? In aria perfettamente calma, sia l’ aliante che il parapendio o il deltaplano, dal punto di partenza sono destinati a scendere fino a terra secondo un angolo più o meno inclinato rispetto alla linea d’orizzonte. Un aliante, per esempio, perde circa 50cm al secondo. Se finisce dentro una corrente ascendente che invece sale a 50 cm al secondo, pur continuando la discesa relativa all’aria, l’aliante mantiene la quota sollevato dalla corrente verticale. Se invece la corrente sale ad una velocità di 100 cm al secondo, l’aliante comincerà a salire guadagnando 50 cm al secondo di quota. Al momento che lo strumento rivelerà una corrente in salita il pilota non dovrà fare altro che rimanere dentro la zona di ascendenza con delle virate, come si vede nell’illustrazione. Nel caso dell’immagine sopra la corrente è generata dalla montagna che devia il vento verso l’alto ma esistono anche ascendenze generate da aria calda che sale per effetto del riscaldamento del terreno o dei centri abitati. La stessa tecnica, che si chiama “veleggiamento”, viene utilizzata anche dai parapendisti e i deltaplani che una volta cessata l’ascendenza ne troveranno un’altra seguendo indizi che i piloti conoscono. I “vuoti d’aria” tanto temuti dai passeggeri, altro non sono che correnti d’aria discendenti; situazioni fastidiose ma raramente pericolose, salvo in casi del tutto eccezionali. Ciò che rende diversi gli sport del volo da tutti gli altri è la condizione innaturale dell’uomo nell’aria. Chiunque fosse attratto, sia pure da uno sport veramente pericoloso come la formula uno, non rinuncerebbe mai a farsi un giro a 300 all’ora con una Ferrari, magari in autostrada all’ora di punta. Tante persone invece pur subendo il fascino del volo non salirebbero mai e poi mai a bordo di un aereo, figurarsi un parapendio o un aliante: “Noo. . .un aereo senza motore. . . I vuoti d’aria. No no io i miei piedi li tengo qui!! appiccicati a terra”. Dicono di solito. La riluttanza al volo o addirittura la fobia di chi non ha mai volato è molto spesso indotta dalla paura del vuoto e la vertigine. Non tutti sanno che la percezione sensoriale della vertigine o del vuoto è accentuata dagli indizi di riferimento, ad esempio le linnee di fuga verticali di muri, rupi e alture in generale, come meccanismo psicologico di difesa che protegge noi umani e tutti gli altri esseri dalle cadute potenzialmente rovinose. Strano a dirsi ma una esperienza in otto volante è ben più traumatica di una acrobazia in aereo, anche per un pilota incallito. La paura dell’altezza si potrebbe definire un fenomeno inversamente proporzionale al peso, e al grado di fragilità che il soggetto ha di se stesso in relazione all’entità del danno che ne conseguirebbe in caso di caduta libera. Per esempio un gatto salta senza problemi da altezze molto maggiori di un uomo soprattutto se riferite alle rispettive proporzioni fisiche. Un individuo non ha paura di grandi altezze se si sente protetto da un parapetto o altro vincolo. La paura del vuoto è dunque causata dai riferimenti verticali che quando sono assenti, come in volo nell’atmosfera, la paura del vuoto si attenua o cessa. Personalmente ho notato che nei battesimi dell’aria la tanto temuta vertigine cede il posto al mal di movimento indotto da percezioni dinamiche distorte. Ad esempio la sensazione di “vuoto d’aria” o di ribaltamento in virata causata dall’assenza degl’indizi di velocità ravvicinati, come, la strada, alberi etc. . . Il senso di vertigine in questa immagine è indotto dalle linee di fuga rappresentate dai cordini. L’effetto di precipizio si annullerebbe senza le immagini in primo piano. Tempo fa si presentò, all’aeroclub di L’Aquila, un assessore del comune di Avezzano che aveva il terrore di volare e doveva recarsi in Argentina in occasione di un gemellaggio che mi chiese: “Senta mi farebbe fare un giretto di prova? Basso però, mi raccomando, solo a sfiorare gli alberi e meno veloce possibile”. Non riuscii a trattenere una sonora risata ripensando ad una barzelletta molto conosciuta dagli aviatori, quella della madre che dice al figlio pilota: “Mi raccomando figlio mio, vola sempre basso e piano” la migliore scorciatoia per il camposanto come tutti i piloti sanno. Comunque riuscii a curare il mio assessore dalla sua fobia che appena arrivato in Argentina mi telefonò ringraziandomi. Quale fu la terapia? Lo portai semplicemente in volo con un aliante a motore e senza neanche accorgersi di essere arrivato a 600 metri si ritrovò sopra la città di L’Aquila, dopodichè lo avvisai che avrei spento il motore per dimostrargli che un aereo vola anche senza, perchè l’aria non è vuoto ma si tratta di un gas che alla velocità di 100 orari diviene simile all’acqua nella quale l’aereo naviga come fosse un sottomarino. “E se troviamo un vuoto d’aria”? Mi fa “Senta assessore” gli risposi, “l’aria non è come un formaggio Groviera, la probabilità d’incontrare un vuoto d’aria è la stessa che lei avrebbe di fare un buco nell’acqua. Assessori di tutto il mondo!! venghino, venghino da me a volare, vi curo io vi curo. Il comandante Tristano Crisantemi invita le siore e i siori passeggeri a guardare alla vostra destra San Sepolcro e il mar Morto a sinistra Dragone volante applicato ad un parapendio durante una manifestazione in maschera per macchine volanti Dedicato ai timorosi del volo abbiamo progettato e costruito questo ornitottero battezzato “Cibernautilus” che è un’ assemblaggio tra un paraglyder motorizzato, una videocamera stereoscopica, ed un visore, realizzato in collaborazione con gli studenti di un Istituto d’Arte di L’Aquila che ne hanno anche fatto oggetto di studio analizzandone ogni singola parte. L’apparecchio è in grado riprodurre virtualmente il volo nelle dimensioni apparenti di quello reale che tutti i visitatori, bambini e adulti, potranno rivivere senza rischi o paure. Come funziona?… E’ spiegato sulla foto a destra Una stereocamera montata a bordo di un paraglyder a motore filma il paesaggio in volo. Terminato il lavoro il velivolo atterra… L’apparato, ci immerge nell’atmosfera ai primordi del volo e i suoi pionieri che, con la loro beata incoscienza, installavano sulle pianure americane, una sorta di “circo dell’aria” per spericolati spettacoli. …e potrete rivivere l’esperienza del volo virtuale attraverso di uno stereoscopio applicato sul cybernautilus non appena a terra Trovo incredibile che fin dai tempi dell’ornitottero di Leonardo e dopo aver attraversato tutta la storia del volo fino ai più recenti velivoli e lo sbarco sulla luna, si dovesse aspettare ancora una decina d’anni prima di concepire un’aerodina della semplicità di un parapendio. Se Leonardo avesse costruito un parapendio di seta, avrebbe evitato di far scapicollare quel poveraccio di Otto Lilienthal tentando di realizzare parecchi secoli dopo il suo ornitottero. Otto Lilienthal nel primo 900 aveva compiuto migliaia di voli prima dell’incidente che gli fu fatale. Scherzi a parte, Leonardo fece una scoperta fondamentale nel campo del volo umano che nemmeno alcuni pionieri prima di Lilienthal avevano capito, cioè che non è l’ala battente a permettere il volo ma la velocità che da portanza all’ aerodina, qualsiasi essa sia. Ma la svolta decisiva per volare era nascosta proprio nelle ali degli uccelli che solo Lilienthal aveva notato poco prima della sua scomparsa. Il profilo. I libratori di Lilienthal e i primi aerei, avevano un profilo piatto e ricurvo verso il basso con la sola funzione d’irrigidire l’ala, il che permetteva, all’insaputa dei primi pionieri, la formazione di un profilo, sia pure rudimentale, grazie all’aria che incamerandosi sotto l’ala formava un cuscinetto creando un infradosso nel quale scorreva il flusso sottostante. Il vecchio profilo vuoto, sopra e moderno sotto In pratica l’ornitottero di Leonardo sarebbe stato in grado di volare anche perché i materiali, legno e tela, erano allora già disponibili, ciò che impediva di accogliere una simile invenzione era la cultura oscurantista medioevale. A quei tempi bastava molto meno per essere accusati di eresia per voler sfidare le forze divine ed il potente clero del tempo che puntualmente si ergeva a grande censore delle idee nuove. Vedi Galileo e Giordano Bruno... All’inizio del 900 solo pochi ricchi ed accentri personaggi osavano andarsene a spasso per l’aria con le prime scoppiettanti macchine volanti che puzzavano di carburante e sputacchiavano olio. La tecnologia offriva loro anche una vasta gamma di aggeggi che consentivano a quei personaggi di esibirsi in pubblico. C’era, per esempio un simpaticone, un certo Santos Doumont, che se ne andava svolazzando sopra i tetti di Parigi con un minuscolo dirigibile a motore con il quale ebbe numerosi e buffi incidenti dai quali usciva sempre illeso. Una volta uno dei suoi dirigibili prese fuoco urtando un albero. Alberto discese dall’albero avvolto nel fumo e se ne andò tra i curiosi, mentre alcuni di essi lo cercavano tra le fiamme. Un sarto si schiantò buttandosi dalla appena edificata Tour Eiffel con un vestito a pipistrello, haimè, per volare di sua invenzione. Un emulo di Icaro, invece, fece uno spettacolare tuffo nella Senna facendosi catapultare in aria con un paio d’ali appiccicate dietro la schiena. Anche il gigantesco aquilone sotto, sta per finire nelle fredde acque del fiume Potomac in America, per fortuna senza conseguenze al pilota che fu anche il suo costruttore. Dumont mentre regola la zavorra in uno dei suoi dirigibili Alberto Santos Dumont Sopra, uno dei tipici disegni che all’inizio del novecento rappresentavano il confine tra la realtà e la fantasia, tra Verne e i fratelli Wright Sopra una macchina volante ad ala battente. Questo sistema pur imitando il volo degli uccelli fu sempre perdente fino all’invenzione dell’elicottero. Il sistema vincente fu quello dei fratelli Wright che sfruttando la velocità, privilegiarono l’aspetto dinamico della portanza alare che permetteva loro di volare, come si vede a fianco con questo prototipo senza motore A bordo dei primi aerei senza parabrezza i mosquitos erano un fastidioso problema Sia pure pittoresco questo prototipo a pedali era destinato a restare saldamente attaccato a terra Sopra, un volo sperimentale dei fratelli Wright. A fianco: uno dei primi voli turistici in America. I fratelli Wright realizzavano i loro aerei con la tecnologia per fare le biciclette, infatti l’angar sotto era la loro fabbrica di bici. Grazie ad un gruppo di artisti ribelli, nel 1909 nacque in Italia il movimento futurista. Pittura, scultura, musica, teatro e letteratura, tutto era volto a celebrare la potenza che la macchina esprimeva nel muovere, fabbriche, treni, navi, aerei e automobili in una sarabanda di irrefrenabile vitalità che talvolta portava gli artisti ad enfatizzare persino la guerra, quale sorgente di beltà e forza vitale che scaturiva dai suoi strumenti di morte. L’euforia di quel particolarissimo momento storico, dove le visioni fantasticate da Verne, Leonardo da Vinci ed altri profeti si realizzavano, inducevano l’idea di un mondo ideale senza limiti e confini. Fu nel contesto di questo movimento che nacquero i pittori volanti e la loro “aeropittura”come si vede in queste immagini. La macchina era il dio d’acciaio e chi la governava ne era il suo sacerdote. Un sogno di grandeur, bello e agitato che le cannonate dell’ultima guerra provvederanno, purtroppo, a ridimensionare. Mai come allora la macchina aveva preso forma liberando una forza vitale con la bestialità di un animale forgiato da mano umana. Per gli artisti legati ancora alla classicità, l’avvento della tecnologia era invece solo motivo d’angoscia che fugavano rifugiandosi nei fantasmi del mondo antico evocandolo con opere popolate di dei, elfi e ninfe, sempre immersi in un eterno e malinconico crepuscolo. Un aliante da guerra anglo-americano da incursione. Trainati da un Dakota, questi alianti dopo lo sbarco dei commando venivano distrutti Il movimento futurista che fin dalla sua nascita fu accusato, sostenitori inclusi, di collusione con il regime mussoliniano, non poteva non estinguersi che con la caduta del fascismo. Tuttavia ogni artista, di qualsiasi credo politico, riconosce l’importanza che questo movimento ha rappresentato nel contesto dell’arte moderna nazionale. La trasvolatrice americana degli anni 30 Hamy Johnson, a sinistra, e Libby Gardner alla guida di un aereo militare nel 1942 all’epoca molto popolare nell’ambiente US Airforce. Sopra a destra, la ormai mitica Amelia Earhart scomparsa in mare durante una impresa trans oceanica. In basso, la pilota postale italiana Maria Teresa Torricelli. Con la nascita dell’aviazione i cieli, più delle strade, si erano popolati di moltissime donne pilota che all’inizio si distinsero collezionando parecchie imprese, spesso ardite e spericolate. Una tendenza che si era ridotta negli anni successivi, forse a causa dell’ultima guerra in cui l’aereo, per via dell’utilizzo come macchina bellica, aveva perso il suo fascino avventuriero e romantico di prima, anche se non mancarono donne pilota in campo militare come si vede in questa galleria. Amelia Earhart Resta infatti un mistero come l’uomo riesca a trasformare, con l’abilità d’un Fregoli, ogni meraviglia tecnologica sempre in qualcosa di diabolicamente micidiale. Fu così che l’istinto guerriero venne trasferito anche nella macchina volante concretizzandosi nelle gesta eroiche del barone rosso che a dire il vero a noi piloti sportivi non ci seducono più di tanto. Come socio di un aeroclub, nel mio caso quello di L’Aquila fin dal 1969, mi sono subito reso conto che anche nelle discipline dell’aria inevitabilmente si ricreavano i soliti schieramenti con relative dinamiche sociali presenti nella vita ordinaria sia pure tra individui uniti dalla stessa passione per in volo. L’aspetto positivo nella comunità d’aeroclub era il reciproco rispetto tra i soci delle varie specialità. Tuttalpiù ci si prendeva in giro scherzosamente ma senza mai sconfinare nello scontro duro come nella vita ordinaria. Per me il volo a vela parlava in dialetto padano. Attraverso la radio di bordo, sia pure tra i monti d’Abruzzo, solo dialetto padan ma d’un padan: “Ma va in mona sto vecio piparo sé n’ora bona appiccicato sul costun a fare avanti in ‘dre cu la Rosina”. Huè, porca l’oca chi è quel pir-lota d’un pir-lota che m’a taglià la strada. Mica come al meridionalissimo aeroporto militare di Guidonia, dove un giorno, già agganciato al traino una voce alla Tiberio Murgia mi fa dalla torre: L’aliando rromeo oscar rremanga in punto attesa pecché c’è un arreo mmeletaro che deve fare un’emmeggenza semolata. Il volo a vela per dirla in politichese era considerato di sinistra, il volo a motore era considerato di centro, i parà decisamente a destra, ì deltaplanisti invece solo dei pazzi da legare di matrice anarchica almeno fino a qualche anno fa quando le prime ali Rogallo, rispetto ai moderni delta, erano delle vere trappole volanti. Un “antiquo” deltaplanista mentre impreca contro l’ingegner Rogallo Il parapendio non esisteva ancora. Ho iniziato a praticarlo nel 2004 dopo un sopralluogo a monte Ripoli sopra a Tivoli. Dopo aver sbirciato attraverso i cespugli alcuni parapendisti laziali, e fiutando ormai una certa affidabilità del mezzo ho deciso di cornificare il sodalizio trentennale con l’aliante con il quale, anche dopo il divorzio siamo sempre restati buoni amici. Un superman alato pronto a difendervi dai cattivacci I motivi che mi hanno indotto a mollare l’aliante sono diversi: Le snervanti visite mediche ma soprattutto il decadimento dello “spirito d’aeroclub” per via della calata dei buzzurri dai miei monti d’Abruzzo che colti da improvviso benessere vogliono provare anche l’ebbrezza del volo in attesa di riprendere i ragazzi in piscina e la moglie in palestra. Se chiedi loro un aiuto per mettere in linea ti guardano attraverso i Ray-Ban scurissimi ma non schiodano di un passo. Un altro fattore del mio abbandono è stata “l’evoluzione” della macchina aliante. Il giorno che mi recai alla prima lezione di parapendio alla scuola Union Volo nei pressi della Cecchignola, mi portarono, tu guarda il caso, proprio sopra un montarozzo profumato di fieno appena tagliato. Non restava che distendere la vela, o quella che era l’evoluzione naturale del lenzuolo primitivo fatto di juta e finalmente, dopo una attesa durata 45 anni, volare!!. Anche se la mia avventura iniziò in aliante con quasi 4000 ore volate, la maggior parte all’aereoclub di L’aquila, l’aliante non lo avevo mai considerato un lenzuolo ma un’automobile alata in discesa. L’aeroclub di L’Aquila, come già detto, è nato nel 1968 grazie ad un entusiasta manipolo di appassionati del volo a motore sotto la guida spirituale del francescano padre Onorato ex pilota militare che dopo essere finito in mare una notte di battaglia del 44, fece voto a vita monastica presso il convento di San Giuliano in L’Aquila. Questa foto è stata scattata da una fotocamera in coda di un altro aliante La mania per il volo competitivo ha convinto i costruttori a produrre macchine sempre più veloci che quando entrano in termica anziché veleggiare ne sgusciano via come saponette. E poi i sedili che via via dalla comoda posizione seduta sono prima diventati come sdraio e poi addirittura lettini volanti; se vuoi gustarti un po’ di panorama te lo scordi senza beccarti un bel torcicollo. Ho provato anche a volare con il deltaplano, bellissimo! ma, per quanto mi riguarda, era un tipo di aliante da starci sdraiati al contrario. Evviva dunque il parapendio. A dire il vero il parapendio era lì accantonato, da tempi remoti, nella parte ancestrale del mio cervello. Quando da pischello andavo con i nonni a prendere il fieno mi divertivo correndo in discesa con il lenzuolo rigonfio di vento aspettando il rafficone decisivo che mi avrebbe portato in volo. L’Aquila giugno 1972 Io che non amavo particolarmente il motore, pur essendo aquilano frequentavo poco quell’aeroclub. Finchè un giorno del 1976 ficcando il naso dentro l’ hangar non notai un carello con qualcosa impacchettato sopra. Mi avvicinai e sollevando un lembo dell’imbottitura, Audite! Audite!, intravidi un aliante. Era un vecchio K13 che aspettava me, quasi l’unico volovelista della zona. Il K13 era un aliantone scuola buono e generoso come un nonno sempre pronto a perdonare le peggio marachelle che gli allievi potessero combinargli per dispetto o incoscienza. La marche o se vi piace la targa in lettere stampigliata sulla fusoliera era I-CENN. Un velivolo, secondo le norme prende il nome dalle ultime due lettere dall’alfabeto fonetico, nel nostro caso NN “november november” che per pigrizia o per scaramanzia, chiamavamo molto funestamente “2 november” badando bene di non farlo con passeggeri a bordo. Fino ad allora esorcizzavo l’evento incidente praticando il culto della prudenza che si esprimeva in accurate ispezioni pre volo e sopralluoghi nei campi attigui all’aeroporto da usare in caso d’emergenza, anche perchè un mio amico aviatore un giorno mi disse, con dei freddi dati statistici alla mano, che un pilota subisce potenzialmente un incidente ogni seicento ore di volo. Io che già avevo collezionato più di 1500 ore, da quando presi il brevetto, senza neppure un graffio, cominciai a preoccuparmi sul serio. Infatti, un giorno mentre veleggiavo ad una quota di 600 metri con il mio aliante comprato usato in Svizzera, a causa di un difetto strutturale, all'uscita di un vortice il velivolo si inclinò pesantemente di ala destra, senza che potessi agire in alcun modo sui comandi. Il velivolo entrò in una virata strettissima, che si trasformò ben presto in una inarrestabile, vorticosa spirale picchiata. Provai immediatamente un forte panico, ma dopo, avvertii come una puntura di anestetico che in qualche secondo agì, inducendomi una calma insolita. Dissi a me stesso: “Non ti devi preoccupare, anche se dovessi schiantarti non sentiresti nulla. Nel frattempo fai quello che ti ha insegnato l'istruttore: Con calma, afferra la maniglia del paracadute, apri il tettuccio, sgancia le cinture di sicurezza, cerca di uscire tirandoti fuori con tutta la forza per vincere la centrifugazione che ti tiene incollato dentro. Ok, ora sei fuori, conta 1, 2, 3 prima di tirare la maniglia per non impigliare il paracadute all'aliante, TIRA!!" In un attimo mi sentii risucchiare verso l'alto, ma era solo una sensazione. Il fragore del vento, che non era mai cessato, si attenuò fino a smettere del tutto. Il paracadute si era aperto a meno di 200 metri da terra. Vidi l'aliante che, perso il mio peso, si impennava verso l'alto, si fermò un attimo in aria per poi ricadere a foglia morta proprio in direzione della strada statale, Al fianco della strada, un gruppo di operai che stavano allacciando un tubo all’ acquedotto, sospeso il lavoro, si recavano a pranzo sotto una casa in costruzione. Ancora appeso al paracadute, mi misi a gridare: "Attenzione laggiù, un aereo vi sta cadendo addosso!". Vidi uno di loro fermarsi ad ascoltare finchè l'aliante si schiantò sul fianco della strada, a pochi metri da lui. Qualche minuto dopo mi disse di aver sentito il mio richiamo e di aver scrutato l'orizzonte in ogni direzione, ma senza riuscire a vedermi. Del resto, come poteva immaginare che quella voce veniva dall'alto dei cieli? Ancora in discesa con il mio paracadute, sentii, insieme allo schianto dell'aliante, anche lo stridio di frenata di un camion che transitava li vicino in quel momento. Non appena toccai terra in mezzo ad alcuni cespugli di ginestra, abbandonai il paracadute e mi accodai agli operai che correvano in direzione dei rottami del velivolo, i quali non si accorsero, ne del paracadute, ne della mia presenza. Uno di loro non vedendo il pilota tra i resti, si voltò verso di me gridando: "Tu, che cacchio fai li impalato, va dall'altra parte della strada a cercare il pilota, perchè io non ho il coraggio". "Ma guardi che il pil . . . il pil . . . ", cercai di rispondere ma per lo shock mi si era seccata la saliva che non potevo neanche parlare. "Humm humm", dissi indicando me stesso. "Il pil-l-llota, il pilota sono io", dissi, spiccicando finalmente la lingua dal palato. Non fui creduto subito. Vedendomi con occhiali scuri e un cappellaccio da spiaggia, calato sulla faccia e rimasto miracolosamente incollato in testa, probabilmente pensavano che io fossi uno di quei fissati che vagano a piedi da un paese all'altro. Fu una vecchietta ad avallare la mia versione dei fatti, dicendo in dialetto abruzzese: "Si si, era lui che e scisu co nu pallone entro ‘nu cistu, locaddietro". Aveva scambiato il mio paracadute per un aerostato, ma questo è bastato. Foto scattata a L’Aquila da H. Henrich Peltz, l’ 8 agosto 1982 Gli altri piloti, che dall' Aeroclub di L’Aquila avevano visto tutto, non tardarono ad arrivare. Con loro c'éra anche un ex pilota militare tedesco che si mise a scattare foto. Mi confidò che neanche in guerra aveva visto nulla di simile. Il camionista che aveva assistito all’impatto ci offrì gentilmente di caricare i rottami sul suo camion per portarli fino all'aeroporto, dove la salma dell'aliante fu cremata per non impressionare i turisti. Poi, caricate le ceneri su di un aereo, le disperdemmo sopra al Gran Sasso. Mi costrinsero a tornare in volo la sera stessa con un aliante del club, per un volo turistico. Tornai sulla zona dell'incidente, ci feci un giro simbolico sopra, poi il passeggero, ignaro di quanto accaduto, mi chiese: "Senta un po', ma se lei si dovesse buttare con il paracadute si butterebbe?". Solo quando il rogo consumò l’aliante, un M100 tutto di legno e tela, capimmo quale fu la causa dell’entrata in vite. Un volovelista calato dal nord per partecipare alle gare della Pentecoste che da anni si tenevano a Rieti, vuotò il sacco e la verità venne a galla. Il primo proprietario svizzero del mio aliante M100 con marche HB-ORF ribattezzata I-NEMO, dopo aver scassato l’estremità alare sinistra in un atterraggio duro, pensò di riparare da se il danno. Anziché affidare il lavoro ad un costoso specialista in modo da sostituire la struttura rotta fece, nel suo garage, un bel malloppo di vetroresina da far invidia al più rinomato ortopedico aggiungendo così un peso supplementare di ben 12 chili rispetto all’ala destra. Lo strumento più preciso di un aliante è il filetto di lana. Qui lo vedete attaccato sopra la capottina che rivela il volo coordinato al vento relativo I resti dell’ M100, che negli anni 60 fu un ottimo aliante italiano progettato dall’ingener Morelli Foto di C. Green Durante una manovra acrobatica ignaro dell’insidia nascosta, l’ala più pesante, esterna alla virata, prese a centrifugare violentemente fino a portare l’aliante in vite e poi in spirale picchiata. “Alla faccia della proverbiale precisione svizzera” A dire il vero la mia iper prudenza mi salvò almeno altre due volte. Un giorno, subito dopo il decollo, il cavo si sganciò dal trainatore ma atterrai senza danno in un campo vicino, tra gli alberi di un frutteto già ispezionato in caso di necessità. La seconda volta, meno fortunata, mi capitò per colpa di un temporale. Durante uno stage a L’Aquila, un istruttore tedesco richiamò a terra in fretta e furia tutti i suoi allievi che in poco tempo invasero la pista fregandosene della sirena e gli ordini della torre. Il controllore mi autorizzò allora ad atterrare sopra la piazzola d’ingresso ancora in fase di costruzione. Atterraggio perfetto fin quando il carrello dell’aliante finì dentro un solco di drenaggio che spaccò l’aliante in due pezzi. Incredibilmente me la cavai solo con una lieve contusione al torace. Fare del paracadutismo? Non proprio, mi faceva impressione l’idea della caduta libera e la possibilità di una mancata apertura. L’idea di buttarmi con l’emergenza dall’aliante mi faceva rabbrividire, eppure fu proprio in occasione del mio lancio d’emergenza nell’ 82 che decisi di accostarmi al parapendio o quello che allora si chiamava paracadute da montagna, che tra l’altro era una vela già bella e aperta al momento del decollo. Un rischio in meno. Mi restò, di quella drammatica esperienza, la piacevole sensazione di fluttuare nel vento e dopo lo strappo d’apertura del paracadute, lo schianto del mio aliante e il silenzio che seguì, udii il cinguettio degli uccelli, l’abbaiare di un cane e la voce di alcuni bambini in bicicletta attorno una piazza. Rumori, prima lontani e rarefatti per via dell’altezza e poi sempre più vicini fino al lieve tonfo delle mie scarpe contro l’erba, e la vela che si adagiava sgonfia tra i cespugli profumati di ginestra. E con questo concludo, sperando di essere stato più onesto possibile nel narrarvi le vicende siapure modeste di un appassionato aeronauta avendo cura di non omettere, tra le cose belle ed esaltanti dell’”oceano aria”, anche le disavventure più o meno divertenti, talvolta drammatiche che capitano a chi vola come a chi resta a terra. Evitando così il solito raccontino ad alto contenuto glicemico di chi vuole tirare acqua al suo mulino, come faceva in modo molto innocente e sincero un mio professore di scuola ed anche giocatore dell’Aquila rugby “Fate il rugby ragazzi, è uno sport meraviglioso e formativo” diceva. La cosa curiosa che ogni volta ci ripeteva la stessa frase aveva, o un braccio appeso al collo o una gamba ingessata e contusioni varie riportate dalla mischia in campo. Ma lui era felice così, anche se cautamente decisi di dedicarmi al volo a vela che a torto o ragione ritenni meno rischioso. Roberto Soldati Appunti volanti Hanno collaborato alla realizzazione: Augusto Sforza Cesarini, Giulio Marra, Filippo Dragonetti, Felice Valenzano, Giulio Cesare Malinverno, IAF Art director Mary Henzler Cooper per IAF visualresearch Wisconsin USA. Grazie a Plinio Rovesti per le foto, rivista volo a vela 82. Edizione italiana cura di Roberto Soldati, CD no profit per IAF visual research, prod. IAF edizioni, Roma IMPORTANTE: Questa versione CD, nato per rendere familiare il volo a studenti e gente comune, non deve essere usato a fini di lucro