Al,
Sih sparlando. Unavita
tra Portogallo e Italia, tra la passione letteraria
per lo scrittore di Lisbona e quella coniugale
La critica e traduttrice si racconta
deLancastre
"Il mio amore per Tabucchi
protetto dal fantasma di Pessoa"
ANTONIO GNOLI
ultimo racconto di Antonio Tabucchi si interruppe nell'estenuazione di
una malattia né troppo lunga né breve. Non è strano immaginare che uno
scrittore non porti a termine il suo mandato. Ma, a volte, è doloroso pensarlo. Giro per Lisbona da cui manco da parecchi anni. E cambiata in meglio.
Decido di chiamare Maria José de Lancastre. Compagna per una vita e moglie di Antonio Tabucchi. Mi piacerebbe incontrarla. E una bellissima giornata di sole e di luce intensa che piove dall'alto coprendo ogni cosa. Al telefono Maria José è perplessa. C'eravamo visti tanti anni prima a Francoforte. Una seconda volta a Sanremo per il premio Biamonti. E poi mai più. Come certe persone che si incrociano avendo lo schermo di un mediatore e
che non fanno nessuna fatica a perdersi, così c'eravamo lasciati. La voce,
sebbene dubbiosa, è ancora calda. Non sa a chi possa davvero interessare
la storia di una donna vissuta tra il Portogallo e l'Italia e che per tutta la vita ha lavorato su Pessoa. Sul suo mondo. Ha aiutato Antonio. Con una concentrazione e una fedeltà degne di ammirazione. Certe donne, mi sembra,
vivono nella zona franca dell'anima. In un punto cieco che spesso ignoriamo e che è l'ultimo limite della profondità del cuore.
Anche Lisbona è in fondo un estremo del cuore. Un paese dell'anima che Fernando Pessoa comprese pienamente. Un ventricolo che palpita anche nel luogo dove Maria José vive: «Sono nata in questo quartiere, Sao Mamede, la casa dei miei era più vicina al Ritz. Vi sono rimasta fino a vent'anni. C'è sempre un momento in cui
zionario ascoltò quelle recite, quella voce. Poi richiasi dice: ora vado via. E certi paesi agevolano la scelta,
mato a nuovi incarichi partì per altre destinazioni. Per
perché irreali, opprimenti, remoti, chiusi. Così fu il
anni non seppe più nulla di Wilfred Cotton. Scoprirà,
mio Portogallo, la mia Lisbona. Antonio me lo ha fatto
solo dopo la sua morte, che era stato un grande e poporiamare».
lare attore in Inghilterra».
Del "suo" Portogallo cosa ricorda?
Da questa storia, lei ricorda, Tabucchi ricavò un rac«Beh, innanzitutto il clima oppressivo. Anche se
conto.
non ero politicamente preparata. C'è un episodio che
«Una storia che si legge tutta di un fiato. Il racconto
mi è restato impresso. Potevo avere sei anni. In strada
è come il sonetto, non sopporta interruzioni. Non lo
assistetti all'arresto di una zingarella. Sentivo le sue
puoi abbandonare come si farebbe con un romanzo».
urla. Si divincolava come una bestiolina nella trappoCome conobbe Tabucchi?
la. Aveva rubato non so cosa. Mi sentii a disagio. Mi sa«Dopo il liceo era stato a Parigi per un anno. Fu lì che
rei lanciata contro i poliziotti. La mamma serrò la mia
un giorno acquistò da un bouquiniste le poesie di Alvmano. Mi vergognai. Per la prima volta compresi di esaro de Campos, un eteronimo di Pessoa. E fu così che
sere privilegiata, protetta, rassicurata. Mentre un'aldecise di imparare la lingua portoghese. A Pisa, dove
tra parte del mondo non lo era».
si era iscritto all'Università, incontrò Luciana Stegagno Picchio, grande esperta di letteratura lusitana,
Intuì l'ingiustizia e la durezza del mondo.
«Ne avvertii il peso soffocante».
che gli fece avere una borsa di studio. A Lisbona AntoI suoi intuivano le medesime cose?
nio fu ospitato da Gino Salviotti nella foresteria della
«Erano un'altra generazione. Mia madre aveva vis"Casa Italia". Salviotti, che era stato fascista e forse
suto fino a 30 anni a Parigi. Amava la vita francese.
Mio padre era un alto funzionario del Ministero d'Oltreoceano. Aveva studiato scienze coloniali. E vissuto
nel Mozambico per 11 anni. Di quel periodo ricordo un
racconto di mio padre ad Antonio: la storia di un attore shakespeariano che da Londra fuggì in Africa, lontano dalla civiltà. Ma non dimenticò l'amore per il teatro».
E che fece?
«Organizzò in una grande capanna un luogo in cui
recitare. C'erano delle tavole. Un leggio. L'attore lesse
in inglese King Lear. Interpretò tutte le parti, davanti
al giovane funzionario del quale era diventato amico.
Quasi tutti i giorni, per un anno intero, il giovane fun-
LIHIOGRAFIA
Maria José de Lancastre è
stata docente universitaria,
studiosa di letteratara
e traduttrice. Nata aLisbona,
ha vissuto traItalia e
Portogallo. Ha sposato
Antonio l abucchi, con cui ha
condiviso l'amore per l'opera
di Fernando Pessoa
continuava ad esserlo, era anche un uomo intelligente
e colto. Prese in simpatia Antonio. Un giorno lo invitò
ad andare al mare, dove la nipote trascorreva le vacanze. E c'ero anch'io».
Cosa accadde?
«Vidi questo giovane interessante. Parlammo in
francese di Pessoa. Scoprendo una passione comune.
Diventammo amici. Tornò in Italia e per un anno ci
scrivemmo. Gli feci visita nella primavera del 1967.
Antonio mi portò a Vecchiano dai suoi. Erano persone
generose e accoglienti. E il giorno di Pasqua ci fu la
scintilla».
Tutto questo mi fa venire in mente le lettere che
Pessoa scriveva alla fidanzata . Mi sono sempre chiesto se l 'amore in lui sia mai stata una priorità.
«Ci sono un paio di lettere che la dicono lunga su
questo tema».
Lettere di che anno?
«Una del 1920, l'altra del 1921. Indirizzate a Ofélia
Queiroz. Sono lettere che mostrano l'impossibilità di
vivere normalmente l'amore».
Perché tanta difficoltà?
«Pessoa è votato alla letteratura. È il solo vincolo
che non vuole sciogliere. E lo è in modo tanto esigente
da sciogliere tutti gli altri: "Il mio destino", le scrive,
"appartiene a un'altra legge. La mia vita è subordinata a Maestri che non permettono né perdonano"».
Chi erano questi maestri?
«I maestri esoterici che lo introdussero nel mistero
della conoscenza, come mostrano alcune sue pagine e
poesie, soprattutto degli ultimi anni».
Quando già nel paese è al potere Salazar?
«Sì, ma non c'è nessuna connivenza con quel potere
del quale coglie tutta la mediocrità».
Mediocre, certo. Ma assai lungo.
«È vero. Eravamo come dentro una bolla. Isolati da
tutto e da tutti. La dittatura per quanto feroce non fu
mai violenta e sanguinaria come quelle degli altri totalitarismi. Salazar era un dittatore di sagrestia. Non a
caso un uomo molto influente fu Manuel Gonçalves Cerejeira, patriarca di Lisbona. Amico di Salazar, avevano studiato assieme all'università di Coimbra. Imposero l'idea che il popolo doveva vivere in modo frugale e
semplice e che ogni forma di progresso rappresentava
la corruzione».
E il popolo non reagiva?
«Fu inerme. Nonostante la miseria dei contadini fosse terribile e ancor peggio quella dei braccianti. La letteratura un pó ha raccontato la vita di queste persone
ridotte a bestie. Ma gli scrittori contro il regime avevano vita difficile. La Pide - la polizia segreta portoghese - si rafforzò enormemente dopo l'inizio delle guerre coloniali».
Non era una vistosa contraddizione che un paese così povero detenesse ancora delle grandi colonie?
«Era il fantasma imbarazzante di un'antica grandezza. Con l'aggravante che la guerra coloniale - nella quale furono coinvolte centinaia di migliaia di giovani - dissanguò il Portogallo. Fu un conflitto che si protrasse per oltre un decennio, a partire dal 1961, con
l'Angola, la Guinea Bissau e il Mozambico. Tutte le risorse finirono in questa guerra assurda».
Poteva finire prima?
«Poteva, ma per insipienza e calcoli sbagliati non accadde. Quando Salazar nel 1968, a seguito di una caduta dalla sedia, ebbe un ictus il potere passò nelle mani
di Marcelo Caetano e molti pensarono che le cose sarebbero migliorate. Così non fu. Caetano era un pavido. Incapace di rompere col passato».
In che mondo vivevate?
«Nell'isolamento più puro. Dove era vietato che due
fidanzati si potessero baciare pubblicamente ed era
considerato provocatorio perfino che un uomo girasse
con dei sandali ai piedi».
In tutto questo c'era la sua storia con Antonio.
«Ci sposammo nel 1970, l'anno in cui Salazar morì.
Con Antonio frequentavamo la dissidenza portoghe-
se, i poeti e gli scrittori che erano stati in galera o al
confino come Cardoso Pirez o Mario Cesariny, un omosessuale dichiarato, geniale e libertario. Più volte incarcerato. Antonio tradusse alcune sue bellissime poesie. La nostra storia si sviluppò in un mondo pazzesco,
pieno di divieti e di opprimenti calvari. Un mondo retto principalmente dal collante religioso».
Dove però la via di fuga era rappresentata da Pessoa.
«Per noi - intendo per me e Antonio - è stata
un'avventura straordinaria».
Sotto lo stesso segno?
«Diversamente da Antonio, non sono una creatrice
e dunque l'aspetto che meno mi toccava era quello di
trasformare il genio di Pessoa in un compito narrativo. Non ero nata per quello. Mentre Antonio sentiva
questa spinta ulteriore: il bisogno di entrare nel mistero e nell'indicibile».
Pessoa era la sua ossessione?
«Non so se lo sia stata. Certo ne ha avvertito tutto il
peso e la responsabilità letteraria. Ma non nel senso
flaubertiano "Pessoa sono io". No. È stato costretto a
sentire quel peso, ad avvertirne tutta l'importanza e
l'infinita presenza di sfumature. Ma ha anche cercato
di liberarsene. Requiem rappresenta una sorta di commiato da Pessoa, dal suo fantasma. Non a caso, pochi
anni dopo, scrive "Sostiene Pereira" che è tutt'altro
nell'ambiente del salazarismo degli anni Trenta dove
il romanzo è ambientato».
Come visse l'enorme successo di questo romanzo?
«Era un persona timida, ma nella sostanza forte. Il
successo ottenuto con Sostiene Pereira stravolse un
po' le nostre vite. Fu faticoso, ma anche piacevole. Ricordo che Marcello Mastroianni si innamorò al punto
del romanzo che telefonò ad Antonio dicendogli "Pereira sono io". Era un uomo delizioso, spontaneo, semplice. Dopo il film ci frequentammo, soprattutto a Parigi. Per il resto la notorietà che il romanzo trasmise ci limitò un po' nei movimenti. Ma fornì ad Antonio una
nuova consapevolezza».
Quale?
«Capì che aveva un'arma da usare politicamente.
Ha sempre avuto il senso dell'ingiustizia e il bisogno
di dare voce ai più deboli. Credo sia stata questa la coerenza, cercata e trovata, tra la letteratura e la vita.
Che culminò in un libretto sugli zingari, frutto dell'esperienza nel campo nomadi alla periferia Brozzi di Firenze».
Come nacque questo interesse?
«Da un bambino che vendeva rose in un ristorante
di Firenze. Un bambino speciale che ci disse di andare
a vedere dove viveva. Conoscemmo la famiglia, gli
amici. Tutti costoro vivevano in condizioni spaventose».
Antonio è scomparso da tre anni e mezzo . Come furono gli ultimi mesi della sua vita?
«Li vivemmo con molta dignità e pudore. Abbiamo
avuto la fortuna di stare in questa casa. Lui seppe a novembre della malattia. Fu tentato qualcosa
ma senza molta fiducia. Nonostante fosse inverno, la mattina aprivo le finestre e vedevamo il cielo azzurro e la luce bellissima di Lisbona. Era un conforto. Mia sorella venne a
stare con noi. Non dicemmo a nessuno della
malattia. Ma la notizia si sparse e giunsero
amici da tutto il mondo».
Era una persona cui si voleva bene.
«Aveva avuto i suoi dissidi, le sue polemiche. Le sue amarezze. Non era un uomo semplice. Però c'è stata nella sua vita una grande dolcezza e coerenza. Nei primi tempi della malattia lavorammo di nuovo a una traduzione di Pessoa. Non c'è opera più importante e umile del tradurre, diceva. Poi, improvvisamente, tre giorni prima di morire, dettò a me e a nostro figlio Michele un racconto. Michele rincasò alle sette del mattino.
Stravolto. Antonio lo aveva coinvolto fino alle cinque».
Il racconto è stato poi pubblicato?
«No. Glielo posso far vedere. Eccolo. Poche pagine
che si interrompono bruscamente».
Di cosa parla?
«Della morte di un ragazzo, soldato nella guerra coloniale. La notizia arriva al suo villaggio. E la vecchia
nonna lancia un urlo terrificante. Il racconto è anche
un grande omaggio alla lingua portoghese. Penso che
l'amore per la lingua e per la letteratura fu presente in
lui fino alla fine. Ora c'è il suo archivio, in quattro lingue, che ho donato alla Bibliothèque Nationale de
France. Mi pare che Antonio non abbia subito l'oblio
di molti scrittori che dopo morti spariscono. È ancora
qui. Morì il 25 marzo del 2012. A giugno ci fu un grande omaggio a Parigi, con molti amici che lo ricordarono. E verso la fine della cerimonia, dal fondo, sentimmo il suono di una fisarmonica e violini. Erano gli zingari del circo Romanés che gli rendevano l'ultimo
omaggio. Ricordo la voce struggente della moglie di
Romanés. Questo ricordo. E in quell'attimo l'infelicità
abbandonò il mio cuore».
LE ORIGINI
Nata a Lisbona, difamiglia
benestante, Maria José
de Lancastre intraprende
studi letterari. Coltivando
interessi siapergli autori
del Cinquecento che
per le Avanguardie
storiche novecentesche
del suo Paese
L'ACCADEMIA
Ha insegnato Letteratura
portoghese all'Università
di Pisa. Studiosa di Fernando
Pessoa (foto), ha tradotto
in italiano Faust (Einaudi)
e Libro dell'Inquietudine
(Feltrinelli)
tLMAI'RIMONIO
Nel 1970 sposaAntonio
Tabucchi (nella foto la
coppia) : un sodalizio
sentimentale e professionale
che ha portato, tra le altre
cose, alla traduzione
congiunta di Una sola
moltitudine (Adelphi), opera
in due volumi diPessoa
©RIPROOUZIONERISERVATA
I LIBRI
Ha scritto Con un sogno nel
bagaglio. Un viaggio di
Pirandello in Portogallo
(Sellerio) eperAdelphi la
fotobiografia Fernando
Pessoa - Immagini della sua
vita. Ha tradotto le Poesie e le
Lettere all'amico Pessoa di
Mario de Sá-Carneiro
(06
Fu un successo
travolgente, anche
Mastroianni chiamò
Antonio dicendogli
"Quell'uomo sono io"
DISEGNO DI RICCARDOMANNELLI
Scarica

deLancastre - Università di Pisa