CORSO BASE SULLA LITURGIA
DECANATO DI SAN DONATO MILANESE
incontri per abbassare lo spread tra mondo clericale e mondo laico
Sacerdote
Pio,
Rivolto
Eternamente
A
Dio
In alto lo spread!
Ma… è rivolto
al Signore?
PARTE B: MONOGRAFICA
IV. IMMAGINARE.
I LABORATORI
don Nicola Cateni
Parrocchia San Carlo a San Giuliano Milanese, venerdì 17 gennaio 2014 or 21.00
Parrocchia San Donato V. e M., sabato 18 gennaio 2014 ore 15.00
Corso sulla liturgia - parte B monografica – decan. San Donato M. IV – IMMAGINARE
1
IMMAGINI
L’immagine e l’immaginazione giocano un ruolo forte nell’elaborazione del percorso di fede, e lo
giocano prima ancora nel gioco della rivelazione biblica. L’uomo è fatto a “immagine” di Dio, il quale
però non può essere rappresentato con “immagini” (“non ti farai immagine alcuna di Dio”). I Profeti
procedono per immagini e devono condurre a immaginare il futuro. Proprio sulle immagini si svolse
una lotta violenta all’interno della stessa comunità cristiana nell’VIII secolo, tra l’imperatore da una
parte e il Papa e il patriarca di Costantinopoli dall’altra. Così ciclicamente nella storia le immagini
furono al centro di lotte e persecuzioni, come ad opera dei Puritani, nati all’interno del Calvinismo,
che distrussero molte immagini delle cattedrali del Nord Europa nel XVI secolo.
La questione può sembrare antica e relegata alla storia: pensate però oggi cosa significhi la devozione,
specialmente tipica del Sud Italia, alle statue dei santi: il rischio che anche oggi ci si volga più a una
statua concreta e dal rimando certo, piuttosto che a un segno difficile come l’Eucaristia o a
un’immagine troppo forte come la croce è un problema serio della fede cristiana di oggi.
Trasportate tutto questo in campo liturgico: a volte le immagini prendono il sopravvento sul
significato che esse dovrebbero veicolare: le vesti e l’incenso su tutti, ma anche candelabri e cantari
(le candele da processione), tovaglie, croci processionali, ecc.
Cominciamo col dire che tra iconoclastia e iconolatria (assoluto rifiuto o esaltazione eccessiva delle
immagini) ci sta una via di mezzo. Oggi sempre più l’uso delle “icone” orientali, cioè delle immagini
sacre, veicola un certo modo di pregare e di celebrare. Per noi cristiani la possibilità nuova rispetto
alla fede ebraica da cui proveniamo, di poterci fare immagini del sacro, dipende dalla rivoluzione che
abbiamo appena celebrato nei giorni scorsi: l’incarnazione del Figlio di Dio.
Anche il celebrare cristiano attinge alle immagini, sia in sede di costruzione del luogo di culto, sia in
sede celebrativa.
Questi corsi monografici tratteranno anche del senso e del buon uso delle immagini nella
celebrazione, e con immagini si possono intendere tutti gli oggetti e i segni simbolici che vediamo
spesso nelle nostre celebrazioni.
IMMAGINARE
Dal sostantivo “immagine” viene anche il verbo “immaginare”. L’etimologia di questa radice rimanda
esattamente più a un’azione che non a un oggetto o a un concetto. Attinge remotamente dal greco
mimos, cioè “mimo”, l’azione teatrale dell’attore che mima, cioè imita. Sia “immaginare” che
“imitare”, attraverso il remoto mimos sono legati a una radice ancora più antica alla base del concetto
di mimo, che è “misurare” (radice indoeuropea mi-/ma-): l’attore “misura” i gesti di chi vuole
“imitare” e ne fa il “mimo”. La liturgia non solo usa le immagini, che devono secondo il senso
originario essere misurate a ciò che vogliono significare, ma deve immaginare le azioni cultuali, cioè
deve rappresentare quelle azioni che sono memoria e attualizzazione del mistero di Cristo.
Nell’antichità la fase di improvvisazione prevedeva un posto importante per l’immaginare, poi la
fissazione degli elementi liturgici portò a una atrofizzazione dell’immaginazione, fino alla deriva
postridentina del celebrare come rigida esecuzione delle rubriche stabilite.
Forse si riesce a capire meglio l’immaginare nella liturgia se prima consideriamo l’immaginare nella
fede. L’immaginare è un atto dell’uomo molto significativo e lo proietta nel mondo dei progetti, dei
desideri e in generale del futuro. Anche la fede, meglio ancora la speranza, hanno a che fare col
futuro. Si pensi a cosa deve avere immaginato Abramo guardando il cielo o la sabbia mentre ascoltava
la promessa di Dio sul futuro sua e della sua discendenza. Si pensi a cosa deve avere immaginato
Giuseppe dopo l’annuncio dell’angelo Gabriele. E si potrebbero leggere tantissimi episodi biblici
attraverso la lente dell’immaginazione.
Corso sulla liturgia - parte B monografica – decan. San Donato M. IV – IMMAGINARE
2
UN GIOCO DI IMMAGINAZIONE
Qui possiamo fare un esercizio semplice tra noi. Avete già immaginato in passato, e se lo avete fatto è
cambiata la vostra immagine nel corso degli anni vissuti, relativamente a come sarà il Paradiso?
Ciascuno può descrivere l’immagine che ne ha, e se ne ha avute in passato di diverse.
Io da piccolo immaginavo qualcosa di vago sulle nuvolette, poi da quando sono entrato a cantare nel
coro del Duomo in 4ª elementare pensavo a delle grandi esecuzioni corali. Ora da cristiano adulto e da
prete che per diventarlo ha dovuto studiare la Bibbia, ho attinto alla immagine più frequente usata sia
dall’Antico che dal Nuovo Testamento per parlare del regno futuro: il banchetto messianico. Io
esattamente immagino il Regno come una festa di gusti, sapori, conversazioni, attese curiose dei piatti
successivi, cioè come il meglio e il grado completo della nostra tradizione a tavola. E se mi si passa una
battuta, mi sto già allenando, non so se si vede…
UN’IMMAGINAZIONE PARTICOLARE: L’EUCARISTIA
Attenzione: l’Eucaristia attinge proprio a questa immagine, e se uno vuole le immagini sull’altare
possono essere tutte esattamente rilette con lo stesso paradigma: i chierichetti sono i camerieri, il
sacerdote il maestro di tavola di memoria giovannea (a Cana rende lui disponibile il vino di Gesù per i
commensali, esattamente come il sacerdote celebrante), l’altare è la tavola imbandita con tanto di
tovaglia bianca e di tovaglioli (i purificatoti per pulire il calice), di sottobicchieri (il corporale sul quale
vengono posti calice e pisside o patena), di stoviglie e bicchieri (patena, pissidi e calice), di ampolline
non dell’olio e dell’aceto per condire, ma del vino e dell’acqua per dare insieme il sapore della
divinità e della umanità di Cristo, di candele come quelle delle cenette romantiche (è l’incontro
d’amore tra Dio e l’umanità, attraverso la persona di Gesù), naturalmente di fiori (e qui si capisce
come debbano essere sobri: immaginate un mega vaso in un tavolo di ristorante, non avrebbe senso),
e per finire di menù che è il Messale, dal quale il maestro di tavola può scegliere il formulario della
messa che vuole, almeno quando il calendario liturgico lo permette.
A parte questo gioco impertinente, è tuttavia importante il ruolo dell’immaginazione nel celebrare,
perché è importante immaginare anche nella realtà quotidiana: fa parte del senso della vita e della
fede. Se uno alla Eucaristia domenicale si allena ad immaginare il dono di Dio nella Parola e
nell’Eucaristia, anche negli impegni quotidiani della vita saprà usare bene dell’immaginazione. Con
“immaginare” non intendo immediatamente “fantasticare”, “inventare”, anche se questa azione non
è esclusa. Intendo invece farsi un’immagine autentica, che sappia parlare al mio intimo, del dono di
Dio, che assumerà forme (cioè immagini) diverse nella mia esperienza quotidiana, e che ha una forma
(immagine) particolare nella messa celebrata. Senza immaginazione la messa vale lo stesso, ma perde
molto di significato. Se uno esce da messa senza avere un’immagine viva e concreta di cosa gli ha
suggerito la Parola di Dio, cioè di come vivere praticamente l’invito a conformarsi a Gesù
nell’esercizio concreto di umanità che sono le nostre giornate quotidiane fatte di lavoro, tempo
libero, studio, affetti, gioie e preoccupazioni, allora ha perso un’occasione di gustare e
successivamente sperimentare in forme nuove la sua appartenenza a Gesù e alla sua Chiesa. Niente
di irreparabile, ma col tempo fede e appartenenza si logorano. Una delle cause (naturalmente non
l’unica e nemmeno la principale) dell’abbandono della frequenza dopo i sacramenti da parte di molti
ragazzi, è la scarsa educazione all’immaginare la celebrazione e lo scarso spazio di immaginazione che
le nostre celebrazioni lasciano a chi vi partecipa.
Dei due incontri in programma su questo tema, questo sarà dedicato alle immagini e passeremo in
rassegna gli oggetti e i segni liturgici, il prossimo invece sarà dedicato all’azione dell’immaginare e di
anno in anno passeremo in rassegna un’azione liturgica diversa.
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1° EXCURSUS: IL RUOLO «ATTUATIVO» DELL’IMMAGINAZIONE IN NEWMAN
Tratto da P. MICHAEL PAUL GALLAGHER S.I., Il beato Newman, «defensor fidei»,
in La Civiltà Cattolica 2010 IV 8-18 quaderno 3847 (2 ottobre 2010)
Il personalismo di Newman inaugura una nuova scuola di pensiero sulla fede, che ha molti sostenitori
in epoche più recenti. L’accento non è posto sul pensiero puro o su qualche versione separata di
razionalità, ma sul processo umano che permette di scoprire la verità e di interagire con essa. È
questo che implica il termine preferito da Newman, «reale». Come già rilevato in precedenza,
l’opposto del reale è il nozionale, riferito a un intellettualismo ben lontano dal dramma della
decisione e dell’impegno. In questo Newman assunse un atteggiamento coraggiosamente
controcorrente. Egli intendeva smascherare l’illusione di neutralità che aveva sedotto i suoi
contemporanei convincendoli di essere l’unica via credibile verso la verità. Al suo posto, in un certo
modo nello spirito di sant’Agostino, egli esplorava il dramma più personale della ricerca e della
scoperta.
Se Newman fosse vissuto un secolo più tardi, avrebbe potuto tranquillamente usare il termine
«esistenziale» al posto di «reale». È interessante rilevare come nelle bozze della Grammatica
dell’Assenso abbia prima scritto sull’«assenso immaginativo» e soltanto più tardi deciso di sostituire
«immaginativo» con «reale». Probabilmente la ragione di tale cambiamento fu una comprensibile
paura di essere frainteso: anche oggi si può con facilità fare confusione tra «immaginativo» e
«immaginario», con il rischio che la fede venga considerata una forma di fantasia. Per Newman,
tuttavia, il ruolo positivo dell’immaginazione era, letteralmente, di «realizzare» la fede, nel senso di
rendere Dio reale nella vita di una persona.
Una delle affermazioni più forti sull’immaginazione la fece nel 1841, in una serie di lettere al giornale
sul quale attaccava sir Robert Peel. All’inaugurazione di una nuova biblioteca pubblica a Tamworth,
questo importante politico aveva suggerito che i frutti della religione potessero ora essere acquisiti
attraverso l’educazione alla letteratura e alla scienza. L’idea allarmò Newman, perché era contraria
non solo al suo senso dell’unicità della verità religiosa, ma alla sua intera antropologia.
In risposta, egli espresse la sua filosofia sulla persona umana, a suo avviso ben più che un «animale
pensante», perché fatta per l’azione, mossa dai sentimenti e toccata dall’immaginazione. Circa 30 anni
più tardi, Newman citò alcune pagine della sua diatriba contro Peel nella Grammatica dell’Assenso e
sostenne che la fede deve essere «percepita, lasciata posare e fatta propria come una realtà
dall’immaginazione religiosa». E aggiunse che «la teologia di una immaginazione religiosa» offre
«un’autentica presa sulle verità» e quindi apre la porta ad «abitudini di religione personale». Queste
parole contengono un importante discernimento pastorale: se la verità religiosa non tocca in qualche
modo la nostra immaginazione, non potrà essere vissuta in maniera personale.
Newman assegnò inoltre all’immaginazione un ruolo chiave nella battaglia per la fede. Può essere sì
una zona di fragilità, nella quale immagini della religione distorte o superficiali riescono facilmente a
far apparire lo scetticismo plausibile o naturale. Nel suo taccuino egli una volta scrisse che
l’immaginazione, non la ragione, è la grande avversaria della fede. Ma egli la riteneva soprattutto una
zona di promessa, dove la fede poteva diventare spiritualmente «reale». Nella sua visione,
l’affermazione «esiste un Dio» può essere formulata a due livelli completamente diversi. Può
rimanere «un’adesione fredda e inefficace » quando «le immaginazioni non sono affatto sollecitate»
e quindi i cuori non si infiammano. Ma la stessa affermazione può determinare «una rivoluzione nella
mente» ogni volta che venga «imbrigliata dall’immaginazione» e «accolta con autentico assenso».
Per Newman l’immaginazione era veicolo di definitività, degna sia dell’Incarnazione sia del dramma
della conversione religiosa.
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2° EXCURSUS: L’IMMAGINAZIONE CRISTIANA
TIMOTHY RADCLIFFE, Come la nostra fede può toccare l'immaginazione dei nostri contemporanei,
conferenza per l’apertura del 109° anno accademico della
Pontificia Facoltà Teologica "San Bonaventura", 30 ottobre 2012 (estratti)
Il Cristianesimo in Occidente potrà fiorire solo se riusciremo a coinvolgere l’immaginazione dei nostri
contemporanei. Non credo che l’ateismo ci offra tanto una sfida intellettuale, quanto piuttosto una
sull’immaginazione. Come possiamo condividere una immaginazione cristiana? Ciò che è in gioco è
precisamente la sapienza. La scienza ci offre conoscenza, che deve essere valutata secondo le basi
della scienza. Invece, fede e filosofia cercano la sapienza…
L’immaginazione cristiana dimora nel particolare. È a proposito di un particolare ebreo che visse in
Medioriente duemila anni fa. I cristiani hanno dato a quest’uomo un significato universale, ma noi
arriviamo lì attraverso il particolare. Le ideologie che hanno crocefisso il ventesimo secolo hanno
spesso offerto sogni di una redenzione universale, come il comunismo e il fascismo…
Il Cristianesimo è strano e contro-culturale perché noi vediamo il significato universale incarnato in
particolari, limitati, uomini mortali che vivono assieme. Ecco perché i santi sono stati importanti fin
dal principio, perché sono persone che hanno corso il rischio di diventare la persona unica che Dio ha
creato perché lo fossero. Hanno rifiutato le identità preconfezionate offerte dalla nostra società:
celebrità come Brad Pitt, o cantanti come Beyoncé o Rihanna, o Katie Price. Io non ho mai sentito
parlare di queste persone, ma un amico di 18 anni mi ha detto che sono quelli che ammassano folle
nel mondo di Twitter. Ascoltando le loro canzoni, vestendo come loro, seguendo le loro vite, molta
gente esprime ciò che pensa chi essi siano. Cercano appartenenza nella comunità delle marche…
È un’illusione, perché non sarò mai Brad Pitt…
Il santo è qualcuno che si permette di essere se stesso o se stessa. I santi rifiutano di conformarsi, di
cacciare con il branco e correre con la folla. La virtù è la laboriosa nascita di un individuo. L’eroe del
romanzo di Iris Murdoch Nuns and Soldiers dice: «I nostri vizi sono il generico, grigio, ordinario marcio
fango dell’umana meschinità, della codardia, della crudeltà e dell’egoismo. E anche quando sono
estremi sono tutti uguali. Solo nelle nostre virtù siamo originali… I vizi sono generici, le virtù
particolari». Perché cerchiamo rifugio in identità già fatte? Perché abbiamo paura di non essere
amabili per come siamo. Il santo è colui che corre questo rischio. E questo anche perché
l’immaginazione cristiana dischiude l’universale attraverso il prisma dell’individuale, del particolare e,
in questo caso, di particolari monaci. Una comunità, in opposizione a una folla o a una massa, è
precisamente ciò che ci aiuta a vivere assieme come individui…
Anche le parabole di Gesù sono spesso domande. Basti pensare a quella del buon Samaritano, la
storia del Samaritano che si prese cura dell’uomo derubato e lasciato a terra per strada. È una risposta
a una domanda: «Chi è il mio prossimo?». E Gesù risponde con un’altra domanda: «Chi è stato il
prossimo dell’uomo derubato?». Ognuno di noi, come questi monaci, deve arrivare al momento della
comprensione. Gesù racconta la parabola del Fariseo al Tempio, soddisfatto delle sue buone opere, e
del povero peccatore che solo gridava: «Abbi pietà di me peccatore». È il peccatore che va via
giustificato. Non ci è detto il perché. Dobbiamo aspettare il momento dell’illuminazione…
Ecco perché la trasmissione della fede non è solo una ripetizione di ciò che qualcuno ha detto. La
dottrina cristiana non dà le risposte. Non lega la verità. Questo è ciò che fa l’eresia: una teoria
coerente che sistema tutto. La dottrina cristiana è sconcertante, invita ad andare avanti dentro il
mistero del Dio Uni-Trino, uno e tre, e di Colui che è vero Dio e vero uomo…
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Quando condividiamo la nostra fede, questa diventa sempre nuova e fresca. La trasmissione della
fede è come l’accensione successiva di fuochi di segnalazione. Una accende un’altra, così la buona
novella passa. Permettetemi di farvi un esempio, un po’ imbarazzante giacché ho una piccola parte
nel racconto. Nel Perù del diciassettesimo secolo, rispondendo alle sofferenze della popolazione
indigena dopo un terremoto, i gesuiti raccolsero le sette ultime parole di Gesù sulla croce e diedero
inizio a una nuova devozione, basata sugli esercizi spirituali ignaziani. Fu un nuovo fuoco nella
trasmissione della buona novella della Pasqua. Circa cento anni dopo, nel 1785, fu chiesto a Haydn di
comporre una musica su queste sette ultime parole per il Venerdì Santo nella cattedrale di Cadice. Il
suo genio musicale accese un altro fuoco segnaletico. Quando andai a visitare mio padre ormai
moribondo, nel 1993, mi chiese se potevamo portargli il suo Walkman. Di fronte alla morte volle
ascoltare “Le sette ultime parole” di Haydn e il “Requiem” di Mozart. L’unico modo di affrontare le
minacce di annullamento della morte è con la poesia e la musica, un piccolo barlume della creatività
di Colui che ha risuscitato Gesù dalla morte.
Nel 2002 mi è stato chiesto di predicare su queste sette ultime parole a Seattle per il Venerdì Santo.
Iniziai pensando alla morte di mio padre, a come fu toccato dalla musica di Haydn, e questo mi aiutò
ad accendere il mio piccolo falò a Seattle. Alcuni mesi fa mi scrisse un preside dell’Inghilterra
occidentale, dicendomi che aveva letto il mio piccolo libro e aveva chiesto ai suoi studenti e staff di
trarne un musical. Per l’evento furono coinvolte 4 scuole e oltre quattrocento studenti. Quando andai
alla cattedrale cattolica per partecipare alla performance, rimasi sbalordito. Avevano creato qualcosa
di nuovo dal libretto, qualcosa che era loro – il CD uscirà a breve. Il mio libro aveva acceso la loro
creatività e creato nuova poesia. Hanno usato alcuni dei miei testi, ma le canzoni erano loro proprie.
Quindi la predicazione del vangelo avviene solo quando l’ascoltatore è in grado di trarne un nuovo
senso che il predicatore non avrebbe potuto prevedere. Oggi, nella Chiesa, le tensioni sono spesso fra
generazioni. I giovani, almeno in Gran Bretagna e negli USA, spesso hanno una comprensione della
Chiesa diversa rispetto alle generazioni precedenti. È spesso descritta come più “conservatrice”,
anche se penso che non sia sempre di aiuto. Questo può essere doloroso per i vecchi sessantenni
“liberali” come me. Ho sentito persone della mia generazione dire che tutto il nostro lavoro è stato
tradito e compromesso, e così via. Ma la mia fede è stata trasmessa proprio quando ho lasciato che
diventasse diversa con la nuova generazione. Quando siamo di fronte alle differenze nella Chiesa
allora dobbiamo comprendere l’avventura immaginativa dell’altro. Forse avrà un’aria familiare, anche
se potrebbe non essere chiaro al momento…
Ogni società ha bisogno di una storia sulla vittoria della bontà. Altrimenti le nostre sofferenze sono
senza significato e le nostre speranze infondate. I salmi sono pieni di rabbia contro la prosperità dei
cattivi. Perché loro prosperano quando i buoni sono poveri e infelici? Spesso ci è offerta la
consolazione che al malvagio si sta preparando una grande sorpresa! Dio avrà la sua rivincita. Ma,
ovviamente, nel Nuovo Testamento, siamo portati a una nuova comprensione della vittoria del bene.
Cristo si rifiuta di chiamare gli angeli per esser salvato dalla morte. Perdona i suoi nemici dalla croce, e
la sua apparente sconfitta è paradossalmente la vittoria dell’amore di Dio.
Tutti lo conosciamo in teoria. Questa è la storia cristiana che ha plasmato la nostra cultura
occidentale. Le nostre città sono piene di chiese in cui troviamo l’immagine del Messia crocifisso. Ma
Pietro e gli altri apostoli non poterono afferrarlo quando Gesù rivelò che avrebbe dovuto soffrire e
morire. Volevano un Messia che avrebbe sbaragliato il nemico. Ma, duemila anni dopo, questa rimane
l’immagine dominante della vittoria della bontà. La maggior parte dei film conduce ad un epilogo
finale, dove il buono e il cattivo sono bloccati in combattimento. E – sorpresa! – il buono spazza via il
cattivo. Questa è la nostra catarsi. Il mondo è OK ancora per qualche ora, prima di trovare il prossimo
cattivo di turno da distruggere. Se siamo fortunati, prenderà la forma di un procedimento giudiziario
in cui un bravo avvocato strapperà la vittoria all’ultimo minuto e così il cattivo andrà in prigione…
Molto spesso il buono vince uccidendo il cattivo. In due serate consecutive ho visto due film, Avatar e
Sherlock Holmes. Non potevano essere più diversi. Il primo era a proposito di Californiani blu, alti due
metri e mezzo, abitanti nel futuro su di un pianeta lontano, e il secondo sul nostro grande detective
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inglese che risolve crimini terribili nella Londra del diciannovesimo secolo. Però terminano nella
stessa maniera, con la sparatoria all’OK Corral. Ecco come i nostri contemporanei vedono la vittoria
del bene. John Wayne spara al cattivo. Quando Osama bin Laden fu ucciso, la parola in codice per
l’operazione fu “Geronimo”, il nome di un capo Apache, la morte di un nativo americano.
Così, dopo duemila anni di Cristianesimo, la nostra società continua a vivere con un’immaginazione in
gran parte pre-cristiana. La verità della nostra fede, di nuovo, non può esser trasmessa solo con
piatte affermazioni…
C’è una diffusa sete della vicinanza di Dio. Un nome per Gesù è Emmanuele, “Dio con noi”. Fin
dall’inizio del Cristianesimo siamo stati sbalorditi da questa verità e l’abbiamo persa una ed altra
volta. Dio diventa carne e sangue, e noi abbiamo spinto Dio indietro in cielo. La sua intimità è troppo
inquietante. La desideriamo e la temiamo. Thomas Matthew ha sostenuto che una delle ragioni per
cui il Cristianesimo ha convertito l’Impero Romano fu che l’arte cristiana dava un barlume di Dio che
davvero è diventato uno di noi: quelle immagini nelle catacombe, quei meravigliosi mosaici
sbalordirono perché Dio era stato portato vicino. «Si mostrò un dio dei “piccoli uomini”, un dio “terraterra” … , un dio che si prende cura, preoccupato se stai perdendo la vista o sei piegato dall’artrite, o
soffri problemi mestruali… Improvvisamente Dio fu visto camminare in mezzo alla sua gente,
toccando, accarezzando, confortando, premendo le sue mani calde datrici di vita su di loro… Questo
fu un potere assolutamente nuovo, e la concorrenza non aveva nulla per uguagliarlo».
Per leggere l’articolo completo: http://www.koinonia-online.it/k2013-01radcliffe.htm
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I COLORI LITURGICI
Nel Rito Ambrosiano la scelta dei colori liturgici è regolata dal n. 346 dei Principi e Norme per l'uso
del Messale Ambrosiano:
a) Il colore bianco si usa negli uffici e nelle messe del tempo pasquale e del tempo natalizio; nella messa
crismale del giovedì santo; nella solennità della SS. Trinità; nella solennità della divina maternità della
Vergine Maria (VI di avvento); inoltre nelle solennità, feste, memorie del Signore, escluse quelle della
passione, della santa croce, del mistero eucaristico e del sacratissimo Cuore; nelle solennità, feste e
memorie della Vergine, degli angeli, dei santi non martiri, nelle solennità di tutti i santi (1 novembre) e di
san Giovanni Battista (24 giugno), nelle feste di san Giovanni evangelista (27 dicembre), della cattedra di
s. Pietro (18 gennaio; 22 febbraio in rito romano) e della conversione di s. Paolo (25 gennaio).
b) Il colore rosso si usa il 1° gennaio, ottava del Natale nella circoncisione del Signore; dal sabato in
traditione Symboli incluso fino alla veglia della Pasqua esclusa (quindi nella settimana santa o
settimana autentica); nella domenica di Pentecoste; negli uffici e messe del tempo ordinario dopo la
solennità della Pentecoste fino alla domenica della Dedicazione della cattedrale esclusa; negli uffici e
messe dello Spirito santo e del mistero eucaristico; nelle celebrazioni della passione del Signore, della
santa croce e del sacratissimo cuore di Gesù; nella festa natalizia degli apostoli e degli evangelisti e
nelle celebrazioni dei santi martiri.
c) Il colore verde si usa negli uffici e nelle messe del tempo ordinario dopo la festa del Battesimo di
Gesù fino alla quaresima e dopo la domenica della Dedicazione della cattedrale fino all'avvento.
d) Il colore morello si usa nel tempo di avvento, esclusa la solennità della divina maternità della
vergine Maria, e in quaresima fino al sabato in traditione symboli escluso e nelle messe votive per il
perdono dei peccati. Si può usare negli uffici e nelle messe per i defunti.
e) Il colore nero si può usare negli uffici e nelle messe per i defunti.
Le norme di cui sopra sono state integrate, pochi anni orsono, da una decisione del Cardinale Dionigi
Tettamanzi, Arcivescovo di Milano e Capo-rito Ambrosiano, il quale ha ripristinato, seppur
facoltativamente, l'uso, tipico del Rito Ambrosiano antico, del colore nero nelle ferie del tempo di
Quaresima dal lunedì al venerdì, esclusa la Settimana Santa. Questo il comunicato pubblicato sul sito
dell'Arcidiocesi di Milano:
Durante la Quaresima, nei giorni feriali dal lunedì al venerdì, la Liturgia ambrosiana offre la possibilità di
utilizzare il colore liturgico “nero”, in luogo del colore “morello”. Questa scelta trova le sue origini nella
più antica tradizione liturgica comune sia alla Chiesa d’Oriente che d’Occidente. Il nero, infatti, fu da
sempre ritenuto capace di esprimere una risposta all’invito alla conversione, prestando voce – nel
silenzioso, ma eloquente linguaggio dei colori – all’interiore anelito di salvezza. Con tale accezione fu
riconosciuto come colore penitenziale per eccellenza, al punto da diventare simbolo della stessa vita
monastica, contribuendo a identificare quanti si esercitavano assiduamente nella purificazione del cuore.
Solo successivamente il nero fu accolto – e con significative eccezioni – anche nei riti esequiali, senza
tuttavia perdere il suo principale significato: richiamare i credenti alla radicalità del rinnovamento. La
liturgia milanese fino alla Riforma del Vaticano II conservò tale uso per le ferie di Quaresima e per i giorni
segnati dal digiuno e da una più intensa invocazione della misericordia divina. Come ricordano le
Premesse del Messale, «la differenza dei colori nelle vesti sacre ha lo scopo di esprimere, anche con mezzi
esterni, la caratteristica particolare dei misteri della fede che vengono celebrati» (n. 320). Nel Rito
ambrosiano, infatti, l’itinerario delle ferie dal lunedì al venerdì sottolinea maggiormente l’aspetto
penitenziale, mentre assegna la memoria battesimale soprattutto ai sabati e alle domeniche.
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Quarta: Immaginare: i laboratori