ACQUA Una risorsa da non sprecare , un diritto di tutti Il Nuovo Testamento ama il mare e i fiumi. E i pescatori. Nelle acque del Giordano, che vediamo in questa foto, fu battezzato Gesù. Elemento centrale dell’esistenza umana, tanto da diventare uno dei simboli biblici più carichi di significato, oggi l’acqua sta diventando una risorsa sempre più rara e preziosa. Inquinata, sprecata, spesso male amministrata, viene chiamata “l’oro blu” del XXI secolo. Un bene sociale primario. Eppure si parla con insistenza di privatizzarne la gestione. di Erri De Luca Il Nuovo Testamento ama i pescatori, diramandosi dall’Antico che prova affetto per i pastori. Tra i due non c’è il passaggio da un Dio all’altro, invece uno smottamento verso la superficie liquida, un amore per l’acqua. Gesù si battezza nel fiume, pesca sul lago, va al pozzo senza recipienti chiedendo ad altri di attingere per lui, offrendo in cambio la sua gratitudine di dissetato. Gesù va all’acqua, ci gioca, ci passeggia sopra, la placa quando è scossa, lava con essa i piedi della sua dozzina di compagni. E travasando acqua, la trasforma in vino, miracolo che ha ispirato molte sofisticazioni, molte false vendemmie. Gesù gioca con l’acqua che è nostra consistenza, nostra vita cellula per cellula, perché noi siamo acqua prigioniera. Chi la risparmia sarà risparmiato, chi la spreca, sprecato, chi la ferma, annegato, chi la ruba agli altri sarà come un ruscello del Neghev, presto in secca. In una sera di pioggia, se si spegne l’elettricità, si può ascoltare l’abbondanza di fonte del cielo, i fiumi delle nuvole che disperdono la loro piena sopra il suolo e si può intendere l’immensità di spreco che governa la vita, la sovrabbondanza. Quell’acqua è precisamente la manna, nutrimento as- ➠ segnato al pianeta. Quella manna è dono. Chi se ne appropria deve dimostrare che lui è il padrone della sorgente, cioè delle nuvole, del vento, della neve. Da un libretto di prossima uscita (Opera sull’acqua, Einaudi, maggio 2002) ricopio una mia pagina dal titolo: L’intruso. «Camminava sull’acqua, riempiva le reti, i pescatori lasciavano il mestiere per seguirlo. A una festa di nozze mancò il vino e provvide, centinaia di litri, un colpo da maestro di vendemmie, acqua versata dentro vasi di pietra e rigirata in vino. È migliore dissero i commensali, sì, è migliore il vino che non costa spremi- tura, il pane fatto senza grano e forno, il pesce che da solo salta in barca: scatenava il gratis che appartiene alla grazia, passionale e guappa. Veniva da un battesimo in acqua di Giordano, morì poco lontano sopra una trave a T e quando un ferro gli trafisse il fianco spillò acqua con sangue come breccia di parto, morì come sorgente. Ecco l’intruso del mondo intriso del grasso di tutte le colpe, messo a sbiadire pallido di freddo in un aprile o addirittura un marzo, oltre ottocento metri sul livello del mare mai toccato. Poi un gargarismo d’acque in fondo a un pozzo asciutto, uno scatarro nella tubatura delle arterie e scroscia la ■ sua resurrezione». ACQUA/1 LE TRAPPOLE DELLA PRIVATIZZAZIONE IN CORSO Un bene va gestito che dalla comunità di Dario Paladini «L’acqua è vita. Da come decidiamo di gestirla dipende la qualità del nostro vivere insieme». Riccardo Petrella, 61 anni, è un professore dell’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio. All’idea dominante di lasciare al mercato, attraverso la privatizzazione, il compito di risolvere con le sue leggi il problema dell’accesso all’acqua per tutti, Petrella si oppone e, insieme ad altre personalità del mondo economico, culturale, politico e del volontariato, ha creato un vasto movimento che si batte perché l’acqua «venga considerata un bene comune, patrimonio dell’umanità». Perché contestate la privatizzazione dell’acqua? Molti dicono che il privato può dare l’acqua con efficacia e a bassi costi. Ma in realtà questo significa il cambiamento della natura della nostra convivenza. È un cambiamento che ci è stato imposto dalla classe politica attuale. Secondo me, la privatizzazione dell’acqua è il segno del fallimento del ruolo del politico, perché permette a forze private di governare, se24 condo criteri di massimizzazione del profitto, l’accesso all’acqua potabile, che è invece un diritto umano e sociale e quindi dovrebbe essere governato dalla collettività attraverso i suoi rappresentanti, che sono appunto i politici. Questa è la nostra critica, che è rivolta quindi anche a questa classe politica che sta rinunciando al suo ruolo. Sta passando l’idea che solo le logiche private possono regolare la vita sociale. Penso che ciò sia sbagliato. Ed è questa l’idea che sta dietro al processo di privatizzazione dell’acqua. Da bene vitale per ogni uomo, è stata trasformata in un bene economico, con un prezzo. La gestione dell’acqua ha però un costo. I fautori della privatizzazione sostengono che solo con l’intervento dei privati è possibile sostenerlo. Secondo me è in corso una mistificazione deliberata fra costo e prezzo di mercato. Anche la magistratura è un costo per la comunità, ma nessuno si sogna che i giudici devono essere acquistati e venduti da società di capitali. In altri termini, non è Secondo Riccardo Petrella, «l’accesso all’acqua potabile è un diritto umano e sociale e quindi deve essere governato dalla collettività attraverso i suoi rappresentanti». La tendenza mondiale, invece, è quella della privatizzazione. che perché una cosa ha un costo per la comunità, debba essere necessariamente trasformata dandole un prezzo di mercato. Fare confusione su questo punto è pericoloso. Inoltre sostengono che il pubblico non ha assolto il suo compito negli ultimi decenni e che quindi tutto deve passare in mano ai privati. Ma io non credo a quest’altra mistificazione che il privato garantirà, per esempio, l’acqua a tutti! Come è possibile che chi mira alla massimizzazione del profitto riesca a garantire a tutti, anche ai più poveri che non possono pagare, il medesimo servizio? Dunque non crede all’efficienza del privato... Il problema non è se il privato riesce a fa- re meglio le cose, ma se riusciamo a inventare una nuova maniera di vivere insieme, con la consapevolezza che abbiamo beni, come l’acqua, fondamentali per la vita di ciascuno e che dobbiamo gestirli in comune. Siamo pronti a vivere insieme? Se vogliamo scommettere su una vita sociale, dobbiamo anche accettare che ci sono beni comuni, che appartengono a tutti e che gestiremo tutti. Ma per realizzare questo è necessario accettare la fiscalità dello Stato, in altri termini le odiate tasse, perché servono proprio per gestire questi beni che sono di tutti. Se invece la logica è quella di ridurre le tasse, si entra in un’ottica in cui il vivere insieme non è più importante, mentre prevale l’interesse dei singoli, che poi vuol dire il prevalere degli interessi dei più forti. Come sta avvenendo questa privatizzazione dell’acqua? Sono molteplici i processi. Uno di questi è la liberalizzazione del commercio. Non avendo più limiti il commercio trasforma tutto in merce, dalla sanità all’acqua. 25 Il secondo meccanismo è quello finanziario. Si dice che ormai il futuro va verso un impoverimento strutturale delle risorse finanziarie disponibili dai poteri pubblici. Si dice anche che non spetta a questi ultimi fare investimenti, perché la produzione della ricchezza spetta solo ai privati. Ma questo a cosa porta? Al fatto che i poteri pubblici hanno sempre meno risorse a disposizione. Inoltre, la Banca Mondiale finanzia lo sviluppo dei Paesi a condizione che privatizzino i servizi nel campo nel quale viene prestato il denaro. Quindi, se il Costa Rica riceve prestiti dalla Banca Mondiale per l’acqua, dovrà poi privatizzarne il servizio. E normalmente sono poi le imprese più grosse che in tutto il mondo riescono ad aggiudicarsi gli appalti. In un suo libro lei ha denunciato il fatto che stanno nascendo nel mondo grandi imprese per la gestione dell’acqua. Chi sono questi signori dell’acqua? Le due più importanti imprese mondiali sono francesi: la ex Generale des Eaux, oggi Vivendi, e l’ex Lyonnaise des Eaux, oggi Ondeo. C’è poi la tedesca RWE e le due inglesi Seven Trent e Thames Water. Oggi forniscono già trecento milioni di persone sui 4 miliardi e mezzo che hanno accesso all’acqua potabile. Non si conosce con esattezza il giro d’affari. Ci sono stime che vanno dai 300 ai 700 miliardi di dollari all’anno. Le informazioni economico-finanziarie in circolazione sull’acqua sono poche: è difficile fare una classifica delle prime dieci imprese nel mondo perché non si hanno statistiche comparabili. Sono tutte informazioni in mano solo a queste grandi imprese. È possibile che ci sia un legame fra la privatizzazione e il fatto che una parte dell’umanità non ha ancora accesso all’acqua? Non penso. Per ora è più che altro una questione di gestione solidale dell’acqua da parte dei poteri pubblici. Dobbiamo tenere presente che anche nel deserto più arido il ricco ha sempre accesso all’acqua. Quindi, se c’è così tanta gente senza acqua è perché c’è un’ingiustizia di fondo nella gestione. Per esempio, in India ci sono ben 400 milioni di persone che non hanno accesso all’acqua, ma i dirigenti investono sempre più per gli armamenti nucleari. Per le armi i soldi li trovano, per dare da bere al popolo no. ■ 26 ACQUA/2 LUCI E OMBRE DELLA LEGISLAZIONE ITALIANA E se l’acquedotto ce lo compra un mercante neozelandese? Pian piano anche in Italia l’acqua sta diventando una merce. Come? Innanzitutto attraverso leggi e leggine che hanno cambiato radicalmente i principi sui quali si basa la fornitura di acqua potabile. L’obiettivo ultimo è che chi ha in mano la gestione dei servizi idrici deve guadagnarci. Non è dunque quello di dare acqua buona ai cittadini, ma di realizzare un profitto. Anche l’ultima legge finanziaria del governo Berlusconi costituisce un ulteriore passo decisivo verso la definitiva privatizzazione dell’acqua. Ma andiamo per ordine, perché è interessante ricostruire la storia di questa privatizzazione silente. E ci facciamo aiutare da un magistrato di Milano, Mar- co Manunta. Ha scritto un libro, Fuori i mercanti dall’acqua, nel quale con puntigliosità e semplicità spiega leggi e trattati che hanno portato alla privatizzazione di una «risorsa pubblica» essenziale per la vita di ogni persona. «Ciò che mi ha colpito - spiega - è che, attraverso il diritto, l’acqua è diventata una merce. Con questo non voglio dire che vada lasciata a se stessa, ma altra cosa è affidarla a gestioni ispirate a criteri puramente economicistici». In Italia la legge più importante risale al 1994 (la numero 36). È nota come «legge Galli» e fu emanata nel tentativo di dare ordine a un settore nel quale su tutto il territorio nazionale vi erano più di 5.500 Un acquedotto e, in basso, un impianto di depurazione. La «Legge Galli», del 1994, ha suddiviso il territorio nazionale in bacini idrici, all’interno dei quali tutto il ciclo dell’acqua, dall’approvvigionamento alla depurazione, dovrebbe essere gestito da un unico ente. enti gestori (comuni, consorzi, enti) con oltre 6.200 acquedotti. La soluzione per dipanare la matassa sta tutta in una sigla: Ato (Ambito territoriale ottimale). «In sostanza - scrive Manunta - si tratta di zone territoriali, comprese in un bacino idrografico, che presentano caratteristiche tali da rendere vantaggiosa la gestione unitaria del servizio». Quindi un gestore per ogni Ato. Non solo, la legge Galli prevede anche che la gestione dell’acqua in un Ato riguardi tutto il suo ciclo: non solo perciò la captazione e la distribuzione, ma anche poi la depurazione. Ed è a questo punto che già la legge Galli, dal lontano 1994, spalanca le porte alla privatizzazione. Infatti, prevede che la fornitura dell’acqua debba essere ispirata a criteri aziendali. Quindi anche se il servizio sarà gestito da una Spa in cui il capitale sociale è interamente pubblico, il fine dovrà essere quello del profitto: l’articolo 13 prevede infatti la «remunerazione del capitale investito». «Perché prevedere necessariamente - si chiede Manunta - un profitto anche se il gestore è pubblico? Perché trasferire anche nell’ambito di eventuali gestioni pubbliche gli stessi criteri di un’azienda privata?». Forse la risposta è che solo così può diventare appetibile per i privati entrare nel grande business dell’acqua. E la legge Galli già prevede che il gestore possa essere un privato. Il «Sole24Ore», nel settembre dell’anno scorso, ha scritto che occorreranno circa 100.000 miliardi di lire di investimenti per rinnovare i servizi idrici in Italia. Una gran quantità di soldi, che richiederà l’intervento dei privati, i quali, però, dovranno trarne un guadagno. «Il vero problema di fondo - spiega Manunta - è che stiamo andando verso la finanziarizzazione dell’acqua. Questo vuol dire che l’impresa che gestisce l’acqua è controllata da pezzi di carta (le azioni) che girano il mondo. E gli investitori non sono interessati al servizio, ma al ritorno degli investimenti». Le azioni di una Spa possono essere infatti acquistate da chiunque, anche da un investitore che risiede, per esempio, in Nuova Zelanda. Certamente non avrà come cruccio quello di dare acqua buona ai cittadini, per esempio, di Milano, ma di intascare un utile dalle azioni comprate. L’amministratore delegato della società che gestisce il servizio a Milano avrà come referente l’ipotetico investitore neozelandese e non “il sciur Brambilla”. Un altro punto debole della legge Galli è nei controlli che Comuni o Province potranno esercitare su queste aziende. «Il contratto di gestione fra l’ente pubblico e l’azienda privata - sostiene Manunta - è debole perché è un contratto di natura privatistica e ha una durata di 30 anni. Quindi i controlli non potranno essere preventivi, ma solo successivi e, pertanto, poco efficaci». Fin qui la legge Galli. Ma ora c’è anche l’ultima finanziaria. Prevede che ogni ente o consorzio o azienda municipalizzata, che finora ha gestito il servizio idrico, sia trasformato in una Spa. Non solo, entro due anni dalla trasformazione, il pacchetto azionario dovrà essere ceduto «almeno per il 40 per cento» a soggetti privati. Con questa apertura totale anche il 100 per cento di una società potrà essere in mano al nostro azionista neozelandese. (d.p.) 27 ACQUA/3 L’INPUT DI UN MANIFESTO E DI UNA GIORNATA Per tutti 40 litri giorno almeno al di Stefania Cecchetti C’era una volta Riccardo Petrella, professore dell’Università Cattolica di Lovanio, che nel 1998 scrisse il «Manifesto per un contratto mondiale dell’acqua». Nel giro di poco tempo sorsero in diversi Paesi d’Europa e di tutto il mondo comitati di appoggio ai principi del documento. Oggi il Comitato internazionale per il contratto mondiale dell’acqua è un cartello di studiosi e organizzazioni che in tutto il mondo svolge opera di sensibilizzazione e denuncia, affermando che l’acqua è un bene comune dei cittadini, un diritto e, come tale, non può essere soggetta alle leggi del mercato. Il movimento si prepara così alla Giornata mondiale dell’acqua, che in tutto il mondo sarà celebrata il prossimo 22 marzo: forte di questi principi e di un cammino che segna già diverse tappe importanti. Che i timori di Petrella fossero fondati era già stato evidente in occasione del Forum mondiale dell’Aja, svoltosi sotto il coordinamento della Banca Mondiale nel marzo del 2000. I rappresentanti delle nazioni presenti avevano proclamato il principio della liberalizzazione dell’acqua: dal momento che le risorse internazionali destinate dai vari governi non sembravano in grado di rispondere al numero crescente di persone che non ha accesso a questo bene (si stima che oggi siano circa un miliardo e 300 mila), si stabilì che fosse il libero mercato, ovvero gli investimenti privati, a soddisfare la domanda di acqua. La ratifica di questi principi da parte delle nazioni presenti, tra cui l’Italia, ha motivato ancora di più l’azione del Comitato internazionale a sostegno del Manifesto. Rosario Lembo, presidente del Cipsi, la federazione di Ong operanti nel campo della cooperazione internazionale a cui si deve la nascita del 28 Comitato italiano, ci spiega le strategie adottate nel nostro Paese: «La nostra azione ha cercato di sensibilizzare target differenziati. Il primo filone riguarda il mondo della scuola, con la diffusione di kit educativi e di programmi per stimolare i ragazzi a riflettere sul tema dell’acqua. Il secondo filone di approfondimento è volto agli amministratori, cioè ai politici, che a livello territoriale devono assicurare la gestione di questo bene-risorsa. In questa logica si inserisce il seminario svoltosi a Ferrara lo scorso gennaio, che è stato il primo momento di incontro con gli enti locali interessati a capire meglio gli Si stima che in tutto il mondo siano almeno un miliardo e 300 mila le persone che non hanno ancora accesso all’acqua potabile. Nelle società industriali dell’Occidente, invece, questo bene prezioso viene sprecato e inquinato. scenari sia di carattere legislativo che operativo sul problema acqua. Terzo filone: attivare un movimento di livello europeo e internazionale, per arrivare preparati ai prossimi appuntamenti internazionali». Primo tra tutti la conferenza Rio+10, che avrà luogo a Johannesburg nell’agosto di quest’anno, dove saranno all’ordine del giorno tutti i temi di carattere ambientale. Un altro momento importante sarà nel 2003, anno dedicato all’acqua, con il Forum internazionale di Tokyo. Ma la prova generale il movimento l’ha già avuta lo scorso gennaio, con il Social Forum di Porto Alegre: «Siamo riusciti - racconta Lembo - a introdurre il tema dell’acqua come uno degli argomenti portanti del Social Forum. Grazie a una conferenza plenaria, che ha avuto una partecipazione di circa 700 persone, e a tre workshop di approfondimento, è stato possibile realizzare un documento finale sulla base del quale è stata attivata la prima coalizione internazionale di movimenti interessati al tema dell’acqua. In questo, il ruolo del Comitato italiano è stato determinante: «Proprio perché presieduto dallo stesso Petrella, il Comitato italiano ha fatto da punto di riferimento attorno al Manifesto per l’acqua per aggregare altri soggetti. Punti comuni: il principio che l’acqua è un bene comune e l’obiettivo di garantire almeno 40 litri al giorno come diritto di tutti gli uomini». Sull’onda dell’esperienza di Porto Alegre, il Comitato italiano si prepara alla Giornata mondiale dell’acqua del 22 marzo. In agenda diversi appuntamenti in molte città italiane (a Milano è in programma un convegno), organizzati con la collaborazione di Legambiente, della rete Lilliput e di altre associazioni. Pezzo forte della giornata, la presentazione a Ferrara del rapporto Il Pozzo di Antonio. Ce ne parla Rosario Lembo: «Il rapporto è finalizzato a diffondere alcuni dati sul- la situazione dell’acqua in Italia. Nel nostro Paese abbiamo una conoscenza frammentaria e insufficiente del problema e i motivi di preoccupazione non mancano». Ecco le questioni principali come emergono dal Pozzo: «Un terzo degli italiani, soprattutto al Sud, non ha accesso all’acqua potabile in maniera regolare e adeguata; soltanto il 49 per cento di noi beve acqua di rubinetto, siamo i primi consumatori al mondo di acque minerali, che spesso presentano delle caratteristiche organolettiche di minore affidabilità rispetto all’acqua di casa; abbiamo forti livelli di inquinamento e contaminazione del nostro patrimonio idrico; c’è una gestione dell’acqua pubblica malandata, con forti livelli di dispersione (al Nord le perdite si aggirano intorno al 12 per cento, al Sud si arriva anche al 50 per cento)». E c’è, naturalmente, la tendenza degli enti pubblici di delegare la gestione dell’acqua a imprese private. Per approfondimenti e per informazioni sulle iniziative in programma il 22 marzo è possibile visitare il sito www.contrattoacqua.it; oppure telefona■ re al Cipsi a Milano: 02.48703730. 29 depurazione, che è ancora a un livello sperimentale e di costo molto elevato». Se non vogliamo che dai nostri rubinetti escano veleni, le soluzioni a disposizione sono sostanzialmente quattro: potenziare gli impianti di trattamento delle acque, bonificare le falde superficiali contaminate, prevenire la possibilità di inquinamento (ad esempio con le aree di salvaguardia di pozzi e sorgenti) o attingere da falde sotterranee più profonde. Soluzione, quest’ultima, che deve rimanere l’ultima spiaggia, come raccomanda Giovanni Beretta: «Le falde profonde sono anche le più antiche, la loro acqua può risalire anche ai tempi dei Romani come età di infiltrazione nel sottosuolo. Bisogna interrogarsi sull’uso sostenibile di queste risorse. Sappiamo, per esempio, che nella zona del Ticino si rigenerano con più facilità, nella zona dell’Adda meno. Fino ad ora le falde profonde sono state utilizzate in modo cautelativo: tutte le normative regionali esistenti le riservano solo ai prelievi di potabilità». Le falde come un tesoro prezioso, dunque. E lo sono davvero, se si pensa che oltre il 95 per cento dell’acqua dolce disponibile sulla Terra scorre proprio nel sottosuolo e si rigenera grazie alle precipitazioni, al- ACQUA/4 LA SITUAZIONE IDROGEOLOGICA IN LOMBARDIA Nei bicchieri un cocktail di veleni Acqua, acqua delle mie brame, anzi delle nostre brame. Da risorsa data per scontata, l’acqua comincia a diventare un lusso anche nel Nord del mondo: gli inverni secchi e gelidi degli ultimi anni hanno fatto tremare perfino una regione ricca di fiumi e laghi come la Lombardia. Dobbiamo davvero temere di rimanere all’asciutto? Secondo Giovanni Beretta, idrogeologo dell’Università di Milano, no: «In certe zone della Lombardia, per esempio la Valtellina o la Valcamonica, dove le risorse idriche immagazzinate nel sottosuolo sono scarse a causa della poca permeabilità delle rocce, appena manca la pioggia le falde acquifere non riescono a ricaricarsi. 30 I problemi dei mesi scorsi, però, sono stati anche strutturali: sono letteralmente gelate le tubazioni di distribuzione, anche su tratti di diversi chilometri. In questi casi non è che sia mancata l’acqua, semplicemente non ha potuto circolare». Dunque l’allarme lanciato dalla Protezione civile per la prossima estate, che si prevede molto secca, non deve impensierire più di tanto la Lombardia, e in generale il Nord d’Italia, a meno del proseguimento di situazioni di siccità eccezionali. Già, i nostri problemi sono ben altri. Primo tra tutti quello dell’inquinamento: «La nostra regione - prosegue Giovanni Beretta - è forse quella di cui si sa di più sull’inquinamento. Mentre in passato si avevano problemi di inquinamento microbiologico, già dagli anni ’70 si è cominciato ad avere a che fare con i primi casi di contaminazione da metalli, prodotti delle industrie metalmeccaniche e metallurgiche. Poi ci si è accorti dell’inquinamento causato dai composti organologenati, molto diffusi a livello industriale ma anche domestico, che ci hanno impegnato dagli anni ’80 a oggi. Verso la fine degli anni ’80 sono “comparsi” anche i pesticidi, perché si sono cominciati a cercare in base alla nuova legge che nel frattempo era uscita. Si sono scoperte vaste zone della Lombardia contaminate dai pesticidi: la sorpresa è stata che accanto a fonti diffuse, come può essere l’agricoltura, si sono trovate anche fonti cosiddette “puntuali”, per esempio industrie, che hanno scaricato queste sostanze inquinando le falde sotterranee. È il caso dell’atrazina nella bergamasca». Ma non è finita qui: «Ultimamente - prosegue Beretta - riveste molta importanza il problema dei nitrati da agricoltura e da spandimenti di liquame, di origine urbana o animale. Sono un problema grave, perché la contaminazione è molto diffusa sul territorio e non possiamo fidarci del trattamento di le infiltrazioni dei fiumi e allo scioglimento dei ghiacciai. Per contenere invece il problema dell’inquinamento delle acque superficiali, quelle che scorrono nei mari e nei fiumi, è necessario intervenire sugli scarichi inquinanti e sulla depurazione. «Occorre spiega Beretta - perseguire le sorgenti puntuali di inquinamento, per esempio gli scarichi industriali, e bonificarle. Ci sono poi gli scarichi urbani e mancanze clamorose, come l’assenza del depuratore a Milano». In oltre tra le sorgenti diffuse bisogna considerare anche i nutrienti provenienti da fonti agricole. Tutto ciò comporta gravi problemi di eutrofizzazione di laghi o mari chiusi come l’Adriatico. In realtà noi le separiamo per comodità, ma il cosiddetto “ciclo idrologico” è un tutt’uno, dove è difficile fare distinzioni tra le acque sotterranee e quelle che scorrono in superficie. Una prospettiva unitaria che si specchia nel decreto legislativo 152 del 1999, attuativo di una direttiva della Cee, sulla tutela delle acque dall’inquinamento. Come spiega Giovanni Beretta, «il decreto 152/99, il cosiddetto “testo unico”, cerca di regolamentare diversi aspetti legati al problema acqua. E soprattutto ha spinto a iniziare un primo, serio, monitoraggio dello stato delle acque in Italia. È un aspetto molto importante: serve a fare un quadro della situazione attuale, ma servirà soprattutto in futuro, per vedere se le misure che adotteremo per raggiungere gli standard di qualità imposti dal decreto saranno sufficienti sia dal punto di vista della quantità che della qualità delle acque, considerando anche l’aspetto ambientale, che riguarda cioè le altre forme di vita che hanno a che fare con questa importante risorsa». Era animata da una prospettiva unitaria anche la legge Galli, che nel 1994 ha cercato di mettere ordine nel confuso panorama dell’amministrazione delle acque in Italia. Sprechi, prelievi abusivi, acquedotti fatiscenti e soprattutto gestione parcellizzata degli impianti (in Italia se ne contano oltre 6000), che ancora oggi sono all’ordine del giorno, dovrebbero essere razionalizzati dal sistema degli Ato (Ambiti territoriali ottimali), come spera Giovanni Beretta: «Prima una miriade di enti diversi potevano controllare l’approvvigionamento, la distribuzione e la depurazione; gli ambiti territoriali ottimali dovrebbero far rientrare tutto all’interno di una gestione unica. Questo dovrebbe favorire anche un discorso solidaristico: 31 se il sistema è unico, si può ottimizzare la distribuzione delle risorse idriche, in modo che chi ha acqua in eccedenza possa cederla a chi non ne ha; inoltre dovrebbe essere favorito a lungo termine anche il sistema tariffario in quanto ingenti investimenti a carico di piccole comunità potrebbero essere invece meno pesanti in quanto i costi verrebero suddivisi all’interno degli Ato». Forse, allora, non è un’utopia pensare che in futuro una “solidarietà dell’acqua” possa unire i Paesi del Nord del mondo e quelli del Sud, afflitti dalla piaga della siccità. «Teoricamente - risponde Giovanni Beretta - l’acqua si può distribuire ovunque, ma il problema è il costo. Il petrolio si trasporta perché conviene. L’acqua no, perché non vale niente». È vero. Un litro d’acqua a un lombardo costa solo una manciata di euro. (s.c.) ACQUA/5 LE GUERRE PER IL CONTROLLO DELLE SORGENTI Oro blu, ricchezza contesa di Marco Deriu * Ormai in molti la chiamano l’oro blu del XXI secolo: l’acqua in futuro sarà sempre più risorsa vitale e strategica, al centro dei nuovi conflitti. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, circa 80 Paesi, ossia il 40 per cento della popolazione mondiale, sono toccati dal problema della penuria d’acqua. Dal 1960 a oggi, nel mondo si è consumata più acqua che nei tre secoli precedenti. In generale la domanda d’acqua raddoppia ogni 21 anni. Se si tiene conto dunque di tutto questo, oltre che della mancanza di una legislazione internazionale in questa materia, diventa chiaro come il problema della spartizione dell’acqua sia sempre più fonte di conflitti, o meglio di “idroconflitti”. In particolare, i Paesi a monte di una fonte idrica possono essere tentati di approfittare della propria posizione strategica e di esercitare pressioni o danneggiare i Paesi a valle. Per esempio i progetti di sfruttamento delle acque del Giordano da parte della Turchia e del32 la Siria porterebbero a diminuire del 35 per cento la portata del fiume in Iraq (addirittura del 50 per cento in un’annata secca). La Turchia intende sfruttare la sua posizione per affermare la sua autorità sui Paesi a valle. In passato in Iraq il regime di Saddam Hussein ha realizzato un terzo fiume fra il Tigri e l’Eufrate, da Baghdad a Bassora, con diversi scopi, tra cui il prosciugamento delle regioni paludose per provocare l’esodo della popolazione sciita, ostile al regime, che vi abita da millenni. Diversi conflitti contemporanei hanno tra le cause il problema del controllo dei rifornimenti idrici. Per esempio il conflitto tra Israele, Palestinesi e il resto dei Paesi Arabi della regione (Siria, Giordania, Libano) ha fin dall’inizio, tra le sue questioni di fondo, il controllo delle fonti idriche in una zona povera di acqua. Nelle guerre condotte in questa regione, Israele ha sempre cercato e ottenuto il controllo totale della valle del Giordano, dalle sue sorgenti fino al Mar Morto, e della falda acquifera montana della Giudea e della Samaria. L’occupazione del Golan si spiega, fra l’altro, con il fatto che un terzo dell’acqua utilizzata da Israele proviene da lì. Due terzi delle acque di superficie utilizzate da Israele provengono dai territori occupati. Un altro caso: nei Balcani uno dei fattori che contribuiscono ad alimentare le tensioni tra gli Stati riguarda la rete idrografica in cui diversi fiumi (Drava, Sava, Drina, Danubio) hanno carattere frontaliero o transfrontaliero, ponendo così il problema della gestione comune delle acque. Evidentemente il problema della gestione dell’acqua è oggi una questione centrale, non solo a livello di rapporti fra gli Stati ma anche a livello di democrazia. Il mercato dell’acqua fa gola a molti e c’è un effettivo rischio che il servizio pubblico abdichi le proprie responsabilità a favore dei soggetti privati e delle multinazionali. In molte città dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina si è deciso di privatizzare la gestione dell’acqua per problemi finanziari. Il rischio è che l’acqua diventi completamente un prodotto di mercato ed è ovvio che chiunque riuscirà a controllare a livello globale o locale un bene così prezioso raggiungerà un grande potere sulla popolazione. Per questo motivo la gestione dell’acqua deve essere affidata ai cittadini e alle comunità locali tramite organismi appropriati, gestiti e controllati democraticamente. (*) Istituto di Sociologia, Università di Parma