...in cammino
Pasqua 2006
Parrocchia S. Giovanni Evangelista - Gavirate
Celebriamo un'altra volta la Pasqua
Un’occasione da non perdere.
È un mistero tanto ricco, che rischia di scivolare via senza essere
minimamente compreso.
È importante allora cogliere almeno un aspetto di questa ricchezza,
perché ogni Pasqua celebrata ci parli in modo nuovo ed originale.
Il senso dei gesti
In questa Pasqua la nostra
attenzione è posta sui
grandi gesti di Gesù, che
ci educano a ripensare i
tanti gesti che compiamo
nelle nostre giornate e
rischiano con l'andare del
tempo
di
diventare
sempre più poveri e
inefficaci, forme vuote,
che non comunicano più
vita.
Indice
Il gesto di lavare i piedi
3
Un comunità che vuole
comunicare
6
Prima comunione a
Gavirate
8
6
7
8
La povertà dei nostri
gesti quotidiani
È abbastanza evidente
nella vita concreta questa
povertà dei gesti. I nostri
gesti non hanno più,
spesso, quella dignità e
quella grandezza di cui
sentiamo
il
bisogno.
Ognuno è alla ricerca dell'
"occasione della vita", di
quel gesto, in cui poter
racchiudere
tutta
la
grandezza che vive in lui,
tutta
l'
attesa,
la
speranza, il sogno, che a
lungo ha coltivato nella
sua vita. Ma questa
occasione rischia di non
venire mai.
E i gesti quotidiani
esprimono
sono
la
schiavitù nei confronti di
quelle
necessità,
che
tengono soggiogata la
vita. Sono chiusi nella
fretta e nell'affanno
della
vita.
Lasciano
trasparire solo la penosa
dispersione della vita, la
fatica di ricondurre in
unità il cuore, la mente, la
volontà. Denunciano il
pesante condizionamento
imposto dalle situazioni in
cui
viviamo.
E
così
difficilmente i nostri
gesti "liberano l'anima",
esprimono
davvero
il
cuore,
ricostruiscono
l'unità della nostra vita.
Di fronte a questo modo
d'agire stanno invece i
gesti solenni di Gesù nella
sua "ora", nel momento
cruciale e determinante
della sua passione, morte
e risurrezione. Questi
gesti
hanno
una
autorevolezza
ed
una
forza educativa grande,
una fecondità di grazia,
che non possiamo certo
ignorare.
Gesù trasforma i nostri
gesti
quotidiani
in
liturgia per comunicare
con noi
" prese il pane… prese il
vino".
Il gesto di Gesù è ispirato
dall'amore e l'amore gli
conferisce
verità
e
solennità, trasforma in
liturgia anche il gesto più
semplice quotidiano qual
è quello di prendere il
pane e di assumere il vino.
Tutto in questo gesto
parla di presenza di unità.
Gesù si rende presente, in
questo po' di pane e in
questa piccola quantità di
2
vino, nella pienezza del suo
mistero. Il pane e il vino ci
parlano di colui che è presente, ci
parlano del cuore di Gesù, che ci
ama, del suo pensiero, che cerca
sempre vie nuove per entrare in
comunione con noi, della sua
volontà di non lasciare nulla di
intentato per convincerci ad
aprire la nostra vita a lui, della
sua umanità che dà visibilità a
questa volontà di amare e di
incontrare, che vive in lui.
Questa presenza è così forte e
reale da non poter più distinguere
il pane da Gesù, il suo gesto da
lui: "questo pane sono io"…
"questo vino sono io". Così i gesti
attorno
al
pane
assumono
solennità diventano gesti, che
hanno la forza di varcare il tempo
e lo spazio, di parlare al cuore di
tutti, di diventare esperienza
determinante e trasformante per
la vita di tutti.
Il gesto più semplice e più
quotidiano, vissuto così, diventa
eterno, capace di aprire la vita
all'eternità, di rimanere per
sempre. Da questo gesto siamo
richiamati anche noi a pensare
che non sono i gesti straordinari
a rendere straordinaria la vita,
ma i gesti della quotidianità, in cui
l'amore ci spinge a racchiudere
tutta la potenza della nostra
esistenza. E i gesti quotidiani,
ispirati e abitati dall'amore e da
una vita riunificata, incominciano
davvero a parlare, a ritrovare
forza, ad imprimere alla vita la
capacità di andare oltre…
La croce…
Il gesto dalla massima costrizione
diventa anche il gesto della
massima libertà. La croce imposta,
è da Gesù liberamente accettata e
l'amore libero trasfigura la
croce. Un momento di rifiuto e di
rottura diventa momento forte di
comunione e di dialogo.
Questa croce "libera lo Spirito", e
Gesù lo restituisce al Padre,
realizzando così pienamente il
mistero di ogni vita umana, che è il
dono che viene da Dio e a lui va
restituito,
ricostruendo
quel
dialogo, che è il senso di ogni vita e
che invece purtroppo è interrotto
da tante barriere e da tante paure.
La croce è un gesto che unisce
cose lontane, che non si parlano
più. È un ponte fra la terra è il
cielo, tra lo spirito e la carne, che
gli si oppone, fra la verità e la
menzogna in cui l'uomo è cacciato
proprio dalle sue paure e dai suoi
sospetti, tra l'io e l'altro, che,
sempre per paura, non si parlano
e non si accolgono più. La potenza
di questo gesto della croce
riscatta tanti gesti, che hanno
invece
devastato
la
vita
dell'uomo, introducendo divisioni
e tensioni di ogni tipo.
Gesù sulla croce ci richiama alla
verità profonda di ogni gesto
umano: il gesto vero unisce,
crea comunione, coinvolge. Ed è
molto importante per noi, che
tante
volte
invece
proprio
attraverso
i
nostri
gesti
introduciamo nella vita tante
rotture, e pretendiamo che una
parte prevalga sull' altra, e
vogliamo affermare l'interesse di
una parte sul tutto. Che l'azione
dell'uomo
torni
ad
essere
pacificatrice, costruttrice di
ponti, di relazioni vere, che
realizzano davvero l'io è l'altro,
che così diventa fratello…
La presenza misteriosa del
risorto.
Anche nel mistero del risorto
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possiamo attingere delle preziose
indicazioni per il nostro agire. La
sua presenza non può essere
immediatamente vista con gli
occhi del corpo, non può essere
immediatamente toccata, deve
invece
essere
percepita
attraverso il suono della voce, i
gesti,
che
richiamano
e
rimandano
al
mistero,
il
racconto
dei
fratelli,
un
"toccare", che non è frutto
dell'iniziativa dell'uomo e della
sua violenza, ma è dono di Dio, e
gesto guidato dalla grazia.
Tutto questo crea quello spazio
in cui il mistero può essere
riconosciuto e rispettato e
l'uomo può crescere attraverso
la sua esperienza e i gesti che è
chiamato a compiere. Questo
spazio e questa attesa, aperti dai
gesti del Risorto, sono proprio
dignità ed importanza. Per noi
che siamo tentati di fare tutto e
subito e da soli, questo spazio è
un richiamo importante: senza di
esso infatti ogni gesto risulta
mortificante.
ciò che manca spesso nei nostri
gesti, che invece sono tutti
giocati nell'immediatezza, sono
gesti guidati dall'istintività, gesti
che non hanno quasi mai la forza
di diventare una vera esperienza.
Gesù risorto, con la sua presenza,
che si sottrae ad ogni pretesa
umana, ci conduce in avanti a
sperimentare davvero la novità
della vita della risurrezione.
Un invito a verificarsi
Su questi gesti solenni di Gesù, la
comunità è invitata, in questa
Pasqua, a verificarsi e a misurarsi
perché la vita di tutti diventi
quella solenne liturgia in cui è
possibile vedere espressa, in ciò
che si dice e si fa, la verità di Dio
e dell'uomo, in cui la vita pur
essendo ancora pienamente della
terra e già pienamente abitata
dal cielo, in cui Dio è davvero
presente. E se accadrà qualcosa
di questo mistero, sarà per noi
davvero una buona Pasqua.
I suoi gesti si alimentano nella
memoria e sono aperti al futuro.
"Ma egli si sottrasse alla loro
vista…". E nello spazio di questo
darsi e sottrarsi di Gesù ogni
uomo è chiamato a camminare e a
crescere. Il gesto di Gesù crea
quello spazio in cui tutti possono
incontrare la vita vera. Il dono di
Gesù non mortifica mai la
risposta dell'uomo ed il suo agire,
al contrario conferisce ad essi
Don Piero
Il gesto di lavare i piedi (Gv 13,-20)
Una scelta letteraria originale e inattesa contraddistingue il racconto dell’ultima Cena secondo l’evangelista
Giovanni, a differenza delle versioni di Marco, Matteo e Luca. Nel quarto evangelo, infatti, non v’è traccia
alcuna dell’istituzione dell’eucaristia – il cui tema è stato ampiamente trattato nel cap. 6-; mentre al suo
posto viene introdotta con dovizia di particolari la scena della lavanda dei piedi.
È interessante al riguardo riportare in parallelo le somiglianze e le differenze dei quattro vangeli canonici,
relativamente agli antefatti della Passione di Gesù.
MATTEO
MARCO
LUCA
GIOVANNI
L’ultima Cena
Il complotto contro Gesù
L’unzione di Betania
Il tradimento di Giuda
La lavanda dei piedi
Gesù svela il traditore
Istituzione dell’Eucarestia
Annuncio rinnegamento di Pietro
Il comandamento nuovo
I discorsi di addio di Gesù
26, 1-5
26, 6-13
26, 14-16
14, 1-2
14, 3-9
14, 10-11
22, 1-2
7, 36-50
22, 3-6
26, 20-25
26, 26-29
26, 30-35
-
14, 17-21
14, 22-25
14, 26-31
-
22, 21-23
22, 14-20
22, 31-34
-
11, 47-53
12, 1-8
13, 1-20
13, 21-30
13, 36-38
13, 31-35
14-17
4
Li amò sino alla fine
Subito in apertura del cap. 13
l’evangelista Giovanni anticipa il
tema dominante la serie dei gesti
e dei discorsi che Gesù proporrà
ai suoi: «Prima della festa di
Pasqua Gesù, sapendo che era
giunta la sua ora di passare da
questo mondo al Padre, dopo
aver amato i suoi che erano nel
mondo, li amò sino alla fine»
(Gv 13,1).
La scena del banchetto secondo
Giovanni si svolge in assoluto
silenzio, fintanto che d’improvviso
l’attenzione
del
lettore
è
catturata
dal
succedersi
incalzante di una serie di verbi
che descrivono i gesti compiuti da
Gesù: «si alzò, depose la veste,
preso unpanno di lino, se lo
cinse. Poi versò dell'acqua nel
catino e cominciò a lavare i
piedi
dei
discepoli
e ad
asciugarli con il panno di lino di
cui si era cinto» (Gv 13, 4-5).
Gesù interrompe il silenzio
soltanto
per
rispondere
all’accalorata
reazione
dell’apostolo Pietro, secondo cui è
inaudito che il signore compia un
servizio tanto umiliante. Solo
quando avrà finito di lavare i
piedi ai dodici Gesù provvede a
illustrare il significato del suo
agire. «Quando dunque ebbe
lavato loro i piedi e riprese la
veste, si sdraiò di nuovo e disse
loro: «Sapete ciò che vi ho
fatto? Voi mi chiamate Maestro
e Signore e dite bene, perché
lo sono. Se dunque io, il
Signore e il Maestro, ho lavato
i vostri piedi, anche voi dovete
lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi
ho dato infatti l'esempio,
perché come ho fatto io,
facciate anche voi. In verità, in
verità vi dico: un servo non è
più grande del suo padrone, ne
un apostolo è più grande di chi
lo ha mandato. Sapendo queste
cose, sarete beati se le
metterete in pratica» (Gv 13,
13-18).
Per spiegare questo racconto
spesso si è ricordato come nel
mondo
antico
fosse
una
consuetudine, un atto di cortesia
quello di lavare i piedi all’ospite di
riguardo o al padrone che entra in
casa, in quanto il tipo di calzature
e le strade rendevano necessario
tale gesto, che comunque era
ovviamente eseguito dagli schiavi.
Ciò potrebbe indurre a ritenere
che il gesto di lavare i piedi
raccontato da Giovanni possa
costituire un segno di protezione
e di accoglienza a favore un
estraneo; oppure che costituisca
un lavaggio rituale così da
passare dalla condizione di
contaminazione a quella di purità.
In realtà, le cose stanno
altrimenti nell’episodio giovanneo,
al cui centro sta una “inversione
di ruolo” fra padrone e servi; più
precisamente,
entrando
in
collisione con i canoni sociali
dell’epoca, Gesù reimposta il
rapporto
discepolo/maestro,
sollecitando una conversione di sé
del discepolo e l’imitazione dei
gesti del Signore.
Un gesto “fuori posto”?
Un
particolare
soprattutto
merita di essere attentamente
considerato: la lavanda dei piedi
nel racconto giovanneo non
avviene all’inizio della cerimonia,
nell’anticamera della sala adibita
al banchetto. Se Gesù l'avesse
compiuta al momento iniziale del
convivio, per quanto straordinaria
fosse, l'iniziativa di mettersi a
servire i propri discepoli poteva
essere
interpretata
semplicemente come un usuale
atto di benevolenza e di
accoglienza.
Il rito compiuto da Gesù avviene
invece durante il banchetto
(«mentre cenavano») e ha luogo
nello spazio stesso ove è
imbandita la tavola; in questo
senso è lecito affermare che il
gesto di Gesù è “fuori tempo” e
“fuori posto”. Non è un fatto di
mera convenienza o di bon ton,
bensì è un gesto simbolico che
prefigura una norma di vita
comunitaria: se io ho lavato i
vostri
piedi
(indicativo
cristologico), anche voi dovete
lavarvi i piedi gli uni gli altri
(imperativo cristiano).
5
Collocando il rito della lavanda in
un tempo e in uno spazio
inconsueti
e
imprevedibili
(probabilmente i presenti già si
sono ripuliti prima di entrare
nella sala da pranzo), Gesù svuota
il rito della sua funzione
ordinaria, rivestendolo di un
valore simbolico assolutamente
inedito. Il significato del gesto
chiede di essere iscritto nella
cornice
dell’evento
della
convivialità, quello di condividere
il pasto insieme, con una forte
insistenza sui tratti comunicativi
e simbolici del partecipare alla
stessa mensa.
Un “rito di ingresso” nella
comunità
Secondo l’evangelista Giovanni, la
cena non appare solo come il
momento in cui si esprime il
legame di Gesù con i suoi, ma
costituisce l’inizio del momento
finale del suo amore, quello che il
quarto vangelo indica spesso
come l’«ora». La lavanda dei piedi
è un atto di amore rivolto da
Gesù ai suoi (non alle folle), in un
luogo privato e riservato (non
all’aperto), così da concentrare
l’attenzione sulla relazione fra
Gesù e i discepoli.
Lavando i piedi ai suoi, il Signore
compie un rito di iniziazione dopo
che la cena ha già contribuito a
realizzare una riunione del
gruppo. In altre parole il suo atto
mira a suscitare nell’immaginario
dei discepoli un nuovo modello di
“comunità”, cui è dato essere
immessi soltanto a condizione di
seguire Gesù, di imitare i gesti
del Maestro, di interiorizzare il
suo modo di sentire, parlare e
stare in silenzio.
Con il racconto della lavanda dai
piedi
Giovanni
sceglie
di
modificare l’immagine culturale
consueta del rapporto maestrodiscepolo, in cui il maestro
assume la funzione del padrone e
il discepolo quella dello schiavo.
Gesù nel cenacolo rilancia un
progetto di comunità che egli
spera i suoi discepoli formino
dopo la sua morte, nell’atto in cui
scelgono
di
porsi
in
un
atteggiamento
di
imitazione/sequela del maestro.
Infine, per svolgere il rito della
lavanda dei piedi, Gesù modifica il
suo aspetto, rivestendosi dei
panni degli schiavi, simbolo di una
condizione
inferiore.
Ciò
comporta che egli finisca per
assumere lo status dello schiavo,
e tuttavia al discepolo è dato
intuire che Gesù mira a ridefinire
la logica e la qualità della
relazione
fra
maestro
e
discepolo. Gesù il Signore si fa
servo, lui che è il Primo si fa
ultimo. Grazie a questa inversione
di ruolo, i discepoli sono
a
entrare
nella
sollecitati
economia della Pasqua, che
comporta
l’abbassamento
e
l’avvicinamento del Maestro alla
condizione servile (“fino alla
morte
di
croce”),
pur
di
assicurare la prossimità di Dio
all’umanità in fuga da lui.
Marco Vergottini
Le iniziative di Kairòs
La vera tradizione non è testimonianza di un passato ormai conclusosi; ma è una forza vitale che stimola e
istruisce il presente. Igor Stravinskij
Kairòs, sensibile al valore della tradizione, ha presentato un DVD, Gavirate. La ricerca dell’anima. che può
essere ricevuto in omaggio prenotandolo presso la biblioteca comunale, che contiene racconti fatti con oltre
2600 immagini di Gavirate dal secolo scorso ai giorni nostri.
Inoltre ha lanciato l’idea della celebrazione del 80° anniversario della nascita di Luigi Brunella del 8 giugno 2007
e della realizzazione di un catalogo generale delle sue opere.
Chi disponesse di immagini, opere o conoscesse aneddoti sulla vita di questo nostro grande artista o della nostra
storia può prendere contatto con [email protected] o 0332.744242 per la loro raccolta destinata alle
future pubblicazioni.
6
Un comunità che vuole comunicare
Anche chi non li conosce non vede
avere paura se parliamo di
Personal Computer (scusate la
parolaccia ma mi capireste se
dicessi calcolatore personale?) e
di Internet (altra parolaccia che
potremmo tradurre come grande
rete di comunicazione con cui i
computer parlano tra loro come
noi facciamo col telefono) perché
sono cose semplici che possono
usare tutti con pochissime
informazioni.
aggiornate
in
continuità,
consultabili da casa e non solo, e
possono essere fatti anche per un
piccolo numero di persone come
le comunità come le parrocchiali.
Ma tramite Internet è possibile
anche fare ricerche per avere
informazioni
di
ogni
tipo,
comunicare, acquistare, firmare
contratti, verificare lo stato
delle
operazioni
che
intraprendiamo e pagare senza
spostarsi da casa.
Ma molti si chiedono: servono
davvero?, come molti si chiesero
quando nacquero il telefono e la
televisione e poi sappiamo come è
andata a finire. Già oggi molte
persone passano più tempo sul
computer
che
davanti
al
televisore che presto unificherà
telefono
e
computer
per:
informarci,
divertirci
e
comunicare.
Ma tutto questo, serve, qui a noi,
a Gavirate? La prima risposta è
che dipende da quanti poi se ne
servono. Infatti soltanto se i
gaviratesi se ne servono Siti ed
Internet sono utili. La risposta
che le parrocchie del Decanato
hanno dato è semplice: visto che
è sempre più ridotto il numero di
sacerdoti ma non diminuiscono le
necessità di comunicazione, è
necessario
cominciare
ad
utilizzare
nuovi
mezzi
per
comunicare
e
fornire
informazioni e servizi ed hanno
unito le loro forze e dato vita al
sito del Decanato di Besozzo e
alle rubriche parrocchiali e
decanali di indirizzi di posta
elettronica.
Noi
possiamo
paragonare
Internet ad un servizio postale,
che invece di portarci a casa
lettere,
riviste,
giornali,
cataloghi, pubblicità e libri, ce li
mostra e noi possiamo anche
ascoltare e stampare.
Ma oltre la posta elettronica ci
sono anche i siti, le riviste che
invece che essere fatte di carta,
di
essere
pubblicazioni
periodiche, aver bisogno delle
edicole o degli abbonamenti e di
un numero elevato di lettori, sono
visibili
su
uno
schermo,
Il sito a cui si accede tramite
l’indirizzo
www.decanati.it
contiene attualmente: gli orari
della messe feriali e festive di
tutte le parrocchie del decanato,
i
calendari
delle
iniziative
decanali, una breve storia della
Pieve
(l’antico
nome
del
decanato), una serie di documenti
prodotti o raccolti da Kairòs su
tempi di interesse generale,
l’accesso alle pagine di tutte le
parrocchie del decanato e per la
nostra parrocchia anche la storia
del culto dell’Addolorata e di
Gavirate.
Inoltre dalla prima pagina si
arriva con grande facilità a
visitare tanti altri siti che
consentono di dialogare con le
pubbliche amministrazioni, enti
pubblici e culturali ed di iniziare
la ricerca su qualsiasi argomento.
Invece per le comunicazioni
settimanali per il momento si è
scelto di distribuirli mediante la
posta elettronica in modo da
facilitare la comunicazione con
coloro che già oggi operano col
computer.
Pertanto se vuoi fare circolare
le
tue idee, vuoi
essere
informato tempestivamente o
partecipare a qualche breve
corso sull’uso del computer
comunica il tuo indirizzo di
posta elettronica a:
[email protected] .
Luciano Folpini
7
8
Prima comunione a Gavirate.
Dal libro della memoria
Fino a tutti gli anni ‘50 del secolo
passato,
la
domenica
dell’Ascensione di mattina presto
i bambini di 6/7 anni ricevevano a
Gavirate la prima comunione nella
chiesa parrocchiale durante una
celebrazione solenne ma sobria.
Accompagnati dai familiari più
stretti – genitori, fratelli, nonni –
seduti sulle panche disposte le
une di fronte alle altre nella
navata centrale, i maschi di qua e
le femmine di là si accostavano al
terzo sacramento della loro vita.
Tutti erano vestiti a festa, i
ragazzini con pantaloni di solito
corti, camicia e giacchetta (per
un certo periodo imperò il vestito
“alla marinara”), le femmine
coperte da un vestito bianco,
lungo fino ai piedi con il velo in
testa e talvolta una coroncina di
fiori. Ai piedi tutti portavano
rigorosamente scarpe nuove e
lucidissime, tra le mani tenevano
il libretto della messa con la
copertina di madreperla.
I bambini, ripuliti ben bene la
sera prima, rigorosamente a
digiuno dalla cena precedente,
rimanevano con le mani giunte
silenziosi, un po’ emozionati,
ansiosi e impacciati. Tra canti
semplici, ma solenni e letture
bibliche, formule rituali tutte in
latino, una predica essenziale, la
messa scorreva veloce verso il
suo centro, la consacrazione e poi
al termine della celebrazione,
dopo la benedizione… il momento
tanto
atteso
della
prima
comunione.
Il prevosto distribuiva l’ostia
consacrata a tutti i bambini con
le mani giunte e silenziosi,
preoccupati soprattutto di non
commettere il terribile errore
sacrilego – da cui si era stati
ossessivamente ammoniti – di
toccare o anche solo sfiorare con
le dita o con i denti la particola. A
questo punto in ginocchio i
bambini,
mentre
in
bocca
scioglievano lentamente l’ostia
intinta nel vino, recitavano una
breve
preghiera
di
ringraziamento
imparata
a
memoria, sbirciando poi verso la
mamma che con un’occhiata
severa, in un viso appena
sorridente,
richiamava
alla
concentrazione.
All’uscita della chiesa vociavano
felici,
in
parte
perché
soddisfatti, in parte perché si
erano tolti un peso, giocavano
rincorrendosi, ma non indugiavano
troppo sul sagrato, sfollavano
insieme ai grandi verso le proprie
abitazioni, perché i lavori in una
società agricola e ancora poco
industrializzata non cessavano
neppure di domenica. E poi il
pranzo della festa aveva bisogno
dei preparativi finali, i fratelli più
piccoli andavano accuditi…
Il pranzo
In
occasione
della
prima
comunione il pranzo era solo un
po’ più ricco del solito, distinto
dai pasti di tutti i giorni per la
presenza della carne e di un dolce
per lo più fatto in casa; per il
resto
non
si
differenziava
granché dalle altre domeniche.
Invitati erano solo i nonni – se
c’erano – , mentre non si usava
ospitare zii e cugini o conoscenti.
Neppure i confetti si usavano,
tanto
meno
bomboniere,
sacchetti di tulle: solo qualcuno
con
maggiori
possibilità
economiche racconta di averli
visti girare per casa.
I ricordini
Anche le famiglie più modeste
non rinunciavano a far stampare
un’immaginetta
ricordo
di
quell’evento, da distribuire a
parenti e vicini, con stampate sul
retro la data, una massima o una
breve preghiera.
Pochi si
potevano permettere invece la
fotografia
del
piccolo
comunicato, vestito a festa,
inginocchiato, lo sguardo estatico
verso l’alto.
Tutti, comunque,
ricevevano un attestato su carta
spessa intitolato “Caro Ricordo”,
riproducente una scena religiosa
che richiamava il sacramento
ricevuto e, nella parte inferiore
del foglio, il nominativo, la data
della fatidica giornata, il nome
della chiesa e la firma del
parroco. I nonni qualche volta
davano anche una piccola mancia,
raccomandando
tuttavia
di
spendere bene quei pochi soldini
faticosamente messi da parte per
l’occasione.
Il pomeriggio
Dopo pranzo, a metà pomeriggio, i
9
neocomunicati
tornavano
in
chiesa, accompagnati solo dalla
mamma, perché il papà aveva da
fare con le bestie o nei campi. Di
nuovo tutti insieme – il numero
variava a seconda degli anni, ma
si trattava pur sempre di
parecchie decine – i bambini si
radunavano in chiesa per una
funzione
speciale,
di
ringraziamento
e
di
consacrazione alla Madonna al
duplice scopo di sottolineare
l’importanza della festa religiosa
e di mantenere un clima di
raccoglimento
per
tutta la
giornata. Il risveglio anticipato
rispetto al solito, le emozioni
provate, l’ansia dell’attesa, gli
occhi di tante persone puntati
addosso, la netta impressione di
aver dovuto superare una prova
per quanto gioiosa, avevano
spossato il povero fanciullo che
spendeva in quell’ora le ultime
energie, cercando di mantenersi
vigile e interessato.
La preparazione
Compiuti i 6 anni, i bambini
iniziavano
il
cammino
di
preparazione
alla
prima
confessione
e
alla
prima
comunione. Il giovedì pomeriggio
– giorno di vacanza dalla scuola
per tutti gli studenti - , i
maschietti sotto la guida del
sacerdote coadiutore all’oratorio
vicino alla stazione (costruito
intorno alla prima decade del
secolo), le femmine dalle suore
dell’asilo (attuale sede della
Croce Rossa) seguivano un breve
itinerario di formazione religiosa
di base. In gruppi abbastanza
numerosi, ma seduti in silenzio,
ascoltavano il prete o la suora
(talvolta una maestra consacrata
o molto devota) che facevano
discorsi semplici, ispirati ai
racconti biblici e alla vita dei
santi. Gli educatori avevano un
metodo di insegnamento valido e
consolidato: chiedevano ad alcuni
bambini di leggere un paio di
domande-risposte del catechismo
di
Pio
X,
rendevano
comprensibile il testo con esempi
elementari,
cercavano
di
appurare poi con domande finali
se il significato della dottrina del
giorno era stato assimilato. Al
termine dell’incontro, il maestro
di
religione
segnava
sul
catechismo di ciascun ragazzo il
compito da svolgere per il giovedì
successivo.
La
settimana
seguente, uno dopo l’altro, ai
bambini era richiesto di ripetere
a memoria e con assoluta
precisione
le
risposte
del
catechismo, quindi seguiva una
nuova spiegazione di altri dogmi,
la narrazione di qualche storiella
edificante
per
illuminare
i
contenuti talvolta oscuri della
materia di fede. E così via, di
lezione in lezione, fino all’esame
finale sostenuto con grande
trepidazione dai singoli bambini
che doveva dimostrare – pena la
(non rara) “ bocciatura” –
l’avvenuta buona conoscenza e la
retta
interpretazione
delle
verità di fede. A giudicarli era il
prevosto che interrogava con
piglio
severo
ed
esigente
(“quanta soggezione! Che paura di
sbagliare!”,
ripetono
concordemente gli anziani, uomini
e donne).
In quelle riunioni la suora e il
sacerdote
non
analizzavano
l’intero catechismo di PioX:
innanzitutto mancava il tempo –
una ventina di incontri erano
insufficienti per trattare a fondo
l’intero volumetto - , ma anche
perché la prima comunione si
inseriva
in
una
formazione
permanente di cui costituiva solo
la prima tappa.
Lo stesso
decreto Quam Singolari del 1910
con cui il papa ammetteva
i
bambini
fin
dai
7
anni
all’eucarestia, raccomandava di
evitare di presentare in modo
completo gli articoli di fede, ma
di insistere solo sui fondamenti.
Dei 149 quesiti che costituivano il
catechismo venivano scelti i
principali: quelli esplicitamente
orientati alla preparazione ai
sacramenti, la sezione relativa a
Dio che premia e che castiga, le
domande
sulla
Chiesa,
i
comandamenti, i sacramenti. la
Trinità e la magnificenza di Dio e
del Figlio Gesù.
Va comunque ricordato che il
catechismo
del
giovedì
si
integrava perfettamente con la
dottrina cristiana della domenica
mattina
e
con
l’educazione
religiosa quotidiana che i genitori
facevano da sempre, insegnando
le preghiere della mattina e della
sera, abituando le giovani menti a
far
l’esame
di
coscienza,
raccontando
sotto forma di
favole le parabole, i miracoli, le
vite dei santi, della Madonna, dei
personaggi
dell’Antico
Testamento.
La prima confessione
Se
per
fare
una
“buona
comunione”
era necessario
10
essere in grazia di Dio, cioè avere
la coscienza pura e libera da ogni
peccato
mortale,
occorreva
prepararsi
bene
alla
prima
confessione.
Tutto
il
catechismo
girava
intorno al quarto sacramento,
suddiviso in 5 parti: 1) l’esame di
coscienza, 2) il dolore dei
peccati, 3) il proponimento di non
commetterne più, 4) l’accusa dei
peccati, 5) la penitenza. Su questi
punti non si facevano sconti. Si
ripetevano
ossessivamente
espressioni quali: l’odio dei
peccati, l’obbligo di confessare
tutti i peccati anche quelli già
confessati male, il pericolo di
commettere un sacrilegio per chi
avesse
taciuto
un
peccato
mortale,
il
peccato
come
disobbedienza non solo verso i
genitori, ma anche verso i
superiori in autorità, il cedimento
a pensieri e desideri cattivi, alle
impurità (azioni, parole, sguardi,
libri,
immagini,
spettacoli
immorali). I bambini dei tempi
andati, gli anziani di oggi,
ricordano
lucidamente
i
sentimenti che provavano:
la
paura di peccare, di cedere alle
tentazioni, lo scrupolo di non aver
confessato tutto, il bisogno di
una
confessione
di
una
precedente
confessione
mal
fatta, magari per una penitenza
non
eseguita
fedelmente,
l’imperante senso di colpa…
Nella
prima
confessione
il
parroco non aspettava l’accusa
dei peccati, ma per facilitare il
compito al povero bambino
paralizzato dalla paura faceva
domande
del
tipo:
hai
chiacchierato in chiesa? hai
disobbedito alla mamma?
hai
detto sempre le preghiere? hai
rubato lo zucchero in cucina? hai
detto le bugie? hai rispettato i
vecchi? hai detto le parolacce?
I
bambini
a
testa
bassa
balbettavano un accenno di
risposta,
registravano
mentalmente
la
penitenza,
chiedevano perdono con “O Gesù
d’amore acceso” e volavano fuori
più leggeri dal confessionale,
pronti a ricevere finalmente il
giorno dopo la prima eucaristia.
La seconda comunione
Due settimane dopo la prima
comunione - nel giorno del Corpus
Domini - seguiva una seconda
comunione
solenne
e
nel
pomeriggio
i
neocomunicati
accompagnati dalle madri e dai
catechisti andavano o in tram o in
pullman o in treno in gita – con
colazione al sacco – verso una
località poco lontana per stare
allegri, ma anche per raggiungere
di nuovo un santuario, una chiesa
significativa. Molti ricordano di
essere andati al Sacro Monte,
qualcuno a Brusimpiano, qualcun
altro ad Arona o ad Angera. I
bambini, che raramente uscivano
dai confini del paese, trovavano
indimenticabili quelle poche ore
passate nei prati di una chiesa a
giocare a palla, a rincorrersi, a
mangiare pane e cioccolato. Il
ritorno dal Sacro Monte, poi,
avveniva a piedi, piedi che si
indolenzivano e si riempivano di
fiacche a causa delle scarpe
nuove di pelle buona, ma un po’
strette e allora i bambini
scendevano la collina camminando
“a pè ‘ntera” con le scarpe in
mano fino a casa, se non avevano
la fortuna di trovare qualche
insperato
passaggio
su
un
carrettino diretto a Gavirate…
Angela Lischetti
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Azione cattolica
L’ultima domenica dello scorso
febbraio, gli adulti dell’Azione
Cattolica di Gavirate hanno
partecipato ad una giornata di
riflessione riunendosi a Venegono
Superiore con gli amici della zona
pastorale di Varese alla presenza
del Vicario Episcopale, Mons.
Luigi Stucchi.
L’incontro
è
stato
molto
stimolante perché ha offerto,
nella sua prima parte, spunti di
riflessione e suggerimenti in
rapporto alla vita associativa che
si
svolge
normalmente
in
parrocchia.
Tuttavia, a me ha colpito
particolarmente il forte richiamo
fatto dal relatore nella seconda
parte dell’incontro circa la
necessità di promuovere nelle
nostre parrocchie una formazione
permanente alla fede. Veniva
sottolineato infatti come, a
partire dai ragazzi nell’età del
dopo-Cresima, sino ad arrivare
agli adulti, la partecipazione dei
nostri parrocchiani a momenti di
catechesi
sia
sempre
più
frammentaria o addirittura nulla,
determinando
così
un
impoverimento
spirituale
e
dottrinale
della
comunità
parrocchiale.
Per gli aderenti di AC, il richiamo
alla
formazione
non
è
assolutamente una novità. La
tradizione dell’Azione Cattolica,
infatti,
è
sempre
stata
caratterizzata da un impegno
formativo qualificato ed originale
nel comunicare il Vangelo: lo
riconoscono i Vescovi italiani negli
Orientamenti
Pastorali
per
questo decennio, in quel passaggio
in cui ci chiedono di continuare a
offrire
quella
“esemplarità
formativa” che è stata preziosa
in passato e di cui le comunità
cristiane anche oggi avvertono
l’esigenza.
La formazione è quindi il cuore
dell'AC ed è l'anima del suo
impegno missionario. È il momento
e il luogo in cui insieme si ascolta
la vita e si interroga la fede. La
formazione in AC è esperienza
aperta ed ospitale verso quanti
desiderano condividere cultura,
stili, proposte; si rivolge a tutti
coloro che intendono compiere un
percorso di ricerca anche sui
grandi temi della vita. Si
caratterizza per uno stile di
accompagnamento
personale,
nell'ascolto del Signore che
opera
nelle
coscienze,
valorizzando la comunicazione
della fede.
È tenendo in conto queste
premesse che, sul finire dell’anno
2004, la Presidenza dell’Azione
Cattolica Italiana ha deciso di
rivedere,
aggiornandolo,
il
progetto
formativo
dell’Associazione.
Il documento che ne è originato
(e che consiglio di leggere) ha,
come titolo, “Perché sia formato
Cristo in noi” ed è prenotabile
presso l’edicola della “Buona
Stampa”.
In questo documento vengono
puntualizzati molti temi di grande
portata
che
dovrebbero
interpellarci seriamente come
credenti. Ecco allora sottolineata
la necessità di far crescere una
fede sempre pensata e capace di
interpretare la vita nella sua
concretezza. Un altro tema
messo in evidenza è quello del
lavoro intellettuale che non si
esaurisce mai e che ha come
scopo quello di mettere sempre al
centro della nostra riflessione la
persona e la coscienza. Ed ancora,
il tema della pazienza che
dobbiamo
esercitare
per
diventare capaci di individuare
itinerari
differenziati
di
formazione, rispettosi dei tempi
di maturazione di ognuno per
aiutarci l’un l’altro a riscoprire la
fede come dono di Dio.
Oltre alle considerazioni circa il
problema
veramente
fondamentale della formazione
alla fede del credente, il nuovo
progetto formativo ribadisce il
carisma dell’AC che è quello di
una associazione di laici dedicati
in modo stabile e organico alla
missione della Chiesa nella sua
globalità.
È
importante
sottolineare in questo contesto
che la Chiesa a cui l’AC si
riferisce è in primo luogo quella
diocesana (e quindi quella locale:
la parrocchia). Come diceva
Giovanni Paolo II (Messaggio
all’Assemblea
Straordinaria
dell’AC, 2003, n. 5), nella diocesi
l’AC vive in comunione con il
ministero del Vescovo, disponibile
a contribuire ed elaborare le
scelte pastorali della comunità e
a curarne l’attuazione, in spirito
di unità con tutti.
Ed infine, il progetto formativo
non poteva eludere il grande tema
dell’impegno del laico di AC come
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testimone e missionario nel senso
più ampio della parola in virtù del
suo battesimo. La formazione
allora deve essere pensata in
modo che possa mettere in grado
il laico cristiano di parlare di
amore, di famiglia, di dolore, di
lavoro, di morte etc. con un
linguaggio
sempre
rispettoso
delle opinioni e della cultura degli
altri, ma ponendo la fede in
maniera forte e nuova in dialogo
con l’esistenza di oggi. Bisogna
infatti contraddire coloro che
sono ancora convinti che gli
impegni della vita cristiana si
giochino nelle cose di Chiesa,
oppure che la fede serva a
rispondere
solo
ai
bisogni
personali, senza porsi in rapporto
con la vita degli altri e con le loro
domande.
Come si può intuire, il lavoro di
formazione che aspetta noi
aderenti all’AC è particolarmente
affascinante
anche
se
decisamente
impegnativo.
Confidiamo nella capacità di
ognuno di rispondere a questo
invito a mettersi in gioco sotto la
guida di don Piero.
Termino ricordando che per gli
interessati a questo lavoro di
formazione, la partecipazione alle
nostre
assemblee
mensili
(normalmente alle ore 15:00 di
ogni seconda domenica del mese
in Casa Parrocchiale) è aperta
anche ai non iscritti. Anzi,
saranno i benvenuti!
Il presidente
dell’AC parrocchiale
Libero Clerici
Qualche asterisco
su "Gesù e Cinema"
Quando si parla di “Gesù al
cinema” - fors’anche a motivo di
un (provinciale) complesso di
sudditanza
verso
il
mito
americano
la
mente va
spontaneamente a grandi successi
di cassetta, quali la realistica e
un po’ truculenta pellicola di Mel
Gibson, The Passion (2003),
oppure
la
rappresentazione
fantasiosa e un po’ blasfema de
L’ultima
tentazione
di
Cristo
(1988) di Martin Scorsese, o
infine la versione musical/hyppie
e un po’ patinata di Jesus Christ
Superstar(1973), per la regia di
Tom Rice.
Non sono pochi, però, i registi
italiani contemporanei che con
maggiore o minore tensione
spirituale hanno avvicinato la
figura di Gesù Cristo. Si possono
ricordare: Roberto Rossellini (Il
Messia), Pier Paolo Pasolini (Il
Vangelo secondo Matteo), Franco
Rossi (Un bambino di nome Gesù),
Ermanno Olmi (Camminacammina),
Luigi Comencini (Cercasi Gesù),
Franco
Zeffirelli
(Gesù
di
Nazareth),
Damiano
Damiani
(L'inchiesta),
Alessandro
D'Alatri (I giardini dell'Eden).
Tre recenti eventi ecclesiali sul
tema “Gesù e il cinema” possono
essere richiamati: a) l’uscita del
libro di don Dario E. Viganò: Gesù
e la macchina da presa. Dizionario
ragionato del cinema cristologico,
[Lateran University Press, Roma
2005] che scheda oltre un
centinaio di pellicole sulla figura
di Gesù; b) la relazione di padre
Lloyd Baugh, gesuita docente alla
Pontificia Università Gregoriana,
L’invenzione cinematografica di
Gesù: il testo evangelico e la
tendenza appocrifale, tenuta nel
quadro del convegno di febbraio
2006 della Facoltà Teologica di
Milano su “La figura di Gesù e la
forma del racconto”; c) il
progetto “Passio”, Cultura e Arte
attraverso il Mistero Pasquale
(Novara, 1 marzo – 3 maggio
2006), promosso dalla Chiesa
Italiana.
[cfr. www.passionovara.it].
Qualcuno forse ricorda che circa
15 anni fa in oratorio, con la
partecipazione di don Tiziano, fu
proiettato L’inchiesta
di D.
Damiani, un film-inchiesta di
sapore introspettivo con al
centro la ricerca di Gesù dopo gli
eventi della Pasqua? L’iniziativa,
sorta nel quadro degli incontri di
catechesi degli adulti, riscosse un
buon interesse. Fra l’altro, del
film ricordato, tratta da un
vecchio soggetto di Ennio Flaiano
e Suso Cecchi D'Amico, è
prevista a breve l’uscita di un
remake omonimo, per la regia di
Giulio
Base
e
con
la
partecipazione dio interpreti
quali Max Von Sydow, Monica
Cruz, Ornella Muti.
Sorge allora spontaneo l’auspicio
che nei mesi a venire si possa
organizzare nel nostro oratorio
un percorso di approfondimento
cinematografico e culturale, nella
forma di un cineforum sulla
figura di Gesù (proiezioni e
dibattiti). Interessa qualcuno?
Marco Vergottini
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Pasqua 2006 - Decanato di Besozzo