...in cammino Pasqua 2006 Parrocchia S. Giovanni Evangelista - Gavirate Celebriamo un'altra volta la Pasqua Un’occasione da non perdere. È un mistero tanto ricco, che rischia di scivolare via senza essere minimamente compreso. È importante allora cogliere almeno un aspetto di questa ricchezza, perché ogni Pasqua celebrata ci parli in modo nuovo ed originale. Il senso dei gesti In questa Pasqua la nostra attenzione è posta sui grandi gesti di Gesù, che ci educano a ripensare i tanti gesti che compiamo nelle nostre giornate e rischiano con l'andare del tempo di diventare sempre più poveri e inefficaci, forme vuote, che non comunicano più vita. Indice Il gesto di lavare i piedi 3 Un comunità che vuole comunicare 6 Prima comunione a Gavirate 8 6 7 8 La povertà dei nostri gesti quotidiani È abbastanza evidente nella vita concreta questa povertà dei gesti. I nostri gesti non hanno più, spesso, quella dignità e quella grandezza di cui sentiamo il bisogno. Ognuno è alla ricerca dell' "occasione della vita", di quel gesto, in cui poter racchiudere tutta la grandezza che vive in lui, tutta l' attesa, la speranza, il sogno, che a lungo ha coltivato nella sua vita. Ma questa occasione rischia di non venire mai. E i gesti quotidiani esprimono sono la schiavitù nei confronti di quelle necessità, che tengono soggiogata la vita. Sono chiusi nella fretta e nell'affanno della vita. Lasciano trasparire solo la penosa dispersione della vita, la fatica di ricondurre in unità il cuore, la mente, la volontà. Denunciano il pesante condizionamento imposto dalle situazioni in cui viviamo. E così difficilmente i nostri gesti "liberano l'anima", esprimono davvero il cuore, ricostruiscono l'unità della nostra vita. Di fronte a questo modo d'agire stanno invece i gesti solenni di Gesù nella sua "ora", nel momento cruciale e determinante della sua passione, morte e risurrezione. Questi gesti hanno una autorevolezza ed una forza educativa grande, una fecondità di grazia, che non possiamo certo ignorare. Gesù trasforma i nostri gesti quotidiani in liturgia per comunicare con noi " prese il pane… prese il vino". Il gesto di Gesù è ispirato dall'amore e l'amore gli conferisce verità e solennità, trasforma in liturgia anche il gesto più semplice quotidiano qual è quello di prendere il pane e di assumere il vino. Tutto in questo gesto parla di presenza di unità. Gesù si rende presente, in questo po' di pane e in questa piccola quantità di 2 vino, nella pienezza del suo mistero. Il pane e il vino ci parlano di colui che è presente, ci parlano del cuore di Gesù, che ci ama, del suo pensiero, che cerca sempre vie nuove per entrare in comunione con noi, della sua volontà di non lasciare nulla di intentato per convincerci ad aprire la nostra vita a lui, della sua umanità che dà visibilità a questa volontà di amare e di incontrare, che vive in lui. Questa presenza è così forte e reale da non poter più distinguere il pane da Gesù, il suo gesto da lui: "questo pane sono io"… "questo vino sono io". Così i gesti attorno al pane assumono solennità diventano gesti, che hanno la forza di varcare il tempo e lo spazio, di parlare al cuore di tutti, di diventare esperienza determinante e trasformante per la vita di tutti. Il gesto più semplice e più quotidiano, vissuto così, diventa eterno, capace di aprire la vita all'eternità, di rimanere per sempre. Da questo gesto siamo richiamati anche noi a pensare che non sono i gesti straordinari a rendere straordinaria la vita, ma i gesti della quotidianità, in cui l'amore ci spinge a racchiudere tutta la potenza della nostra esistenza. E i gesti quotidiani, ispirati e abitati dall'amore e da una vita riunificata, incominciano davvero a parlare, a ritrovare forza, ad imprimere alla vita la capacità di andare oltre… La croce… Il gesto dalla massima costrizione diventa anche il gesto della massima libertà. La croce imposta, è da Gesù liberamente accettata e l'amore libero trasfigura la croce. Un momento di rifiuto e di rottura diventa momento forte di comunione e di dialogo. Questa croce "libera lo Spirito", e Gesù lo restituisce al Padre, realizzando così pienamente il mistero di ogni vita umana, che è il dono che viene da Dio e a lui va restituito, ricostruendo quel dialogo, che è il senso di ogni vita e che invece purtroppo è interrotto da tante barriere e da tante paure. La croce è un gesto che unisce cose lontane, che non si parlano più. È un ponte fra la terra è il cielo, tra lo spirito e la carne, che gli si oppone, fra la verità e la menzogna in cui l'uomo è cacciato proprio dalle sue paure e dai suoi sospetti, tra l'io e l'altro, che, sempre per paura, non si parlano e non si accolgono più. La potenza di questo gesto della croce riscatta tanti gesti, che hanno invece devastato la vita dell'uomo, introducendo divisioni e tensioni di ogni tipo. Gesù sulla croce ci richiama alla verità profonda di ogni gesto umano: il gesto vero unisce, crea comunione, coinvolge. Ed è molto importante per noi, che tante volte invece proprio attraverso i nostri gesti introduciamo nella vita tante rotture, e pretendiamo che una parte prevalga sull' altra, e vogliamo affermare l'interesse di una parte sul tutto. Che l'azione dell'uomo torni ad essere pacificatrice, costruttrice di ponti, di relazioni vere, che realizzano davvero l'io è l'altro, che così diventa fratello… La presenza misteriosa del risorto. Anche nel mistero del risorto 3 possiamo attingere delle preziose indicazioni per il nostro agire. La sua presenza non può essere immediatamente vista con gli occhi del corpo, non può essere immediatamente toccata, deve invece essere percepita attraverso il suono della voce, i gesti, che richiamano e rimandano al mistero, il racconto dei fratelli, un "toccare", che non è frutto dell'iniziativa dell'uomo e della sua violenza, ma è dono di Dio, e gesto guidato dalla grazia. Tutto questo crea quello spazio in cui il mistero può essere riconosciuto e rispettato e l'uomo può crescere attraverso la sua esperienza e i gesti che è chiamato a compiere. Questo spazio e questa attesa, aperti dai gesti del Risorto, sono proprio dignità ed importanza. Per noi che siamo tentati di fare tutto e subito e da soli, questo spazio è un richiamo importante: senza di esso infatti ogni gesto risulta mortificante. ciò che manca spesso nei nostri gesti, che invece sono tutti giocati nell'immediatezza, sono gesti guidati dall'istintività, gesti che non hanno quasi mai la forza di diventare una vera esperienza. Gesù risorto, con la sua presenza, che si sottrae ad ogni pretesa umana, ci conduce in avanti a sperimentare davvero la novità della vita della risurrezione. Un invito a verificarsi Su questi gesti solenni di Gesù, la comunità è invitata, in questa Pasqua, a verificarsi e a misurarsi perché la vita di tutti diventi quella solenne liturgia in cui è possibile vedere espressa, in ciò che si dice e si fa, la verità di Dio e dell'uomo, in cui la vita pur essendo ancora pienamente della terra e già pienamente abitata dal cielo, in cui Dio è davvero presente. E se accadrà qualcosa di questo mistero, sarà per noi davvero una buona Pasqua. I suoi gesti si alimentano nella memoria e sono aperti al futuro. "Ma egli si sottrasse alla loro vista…". E nello spazio di questo darsi e sottrarsi di Gesù ogni uomo è chiamato a camminare e a crescere. Il gesto di Gesù crea quello spazio in cui tutti possono incontrare la vita vera. Il dono di Gesù non mortifica mai la risposta dell'uomo ed il suo agire, al contrario conferisce ad essi Don Piero Il gesto di lavare i piedi (Gv 13,-20) Una scelta letteraria originale e inattesa contraddistingue il racconto dell’ultima Cena secondo l’evangelista Giovanni, a differenza delle versioni di Marco, Matteo e Luca. Nel quarto evangelo, infatti, non v’è traccia alcuna dell’istituzione dell’eucaristia – il cui tema è stato ampiamente trattato nel cap. 6-; mentre al suo posto viene introdotta con dovizia di particolari la scena della lavanda dei piedi. È interessante al riguardo riportare in parallelo le somiglianze e le differenze dei quattro vangeli canonici, relativamente agli antefatti della Passione di Gesù. MATTEO MARCO LUCA GIOVANNI L’ultima Cena Il complotto contro Gesù L’unzione di Betania Il tradimento di Giuda La lavanda dei piedi Gesù svela il traditore Istituzione dell’Eucarestia Annuncio rinnegamento di Pietro Il comandamento nuovo I discorsi di addio di Gesù 26, 1-5 26, 6-13 26, 14-16 14, 1-2 14, 3-9 14, 10-11 22, 1-2 7, 36-50 22, 3-6 26, 20-25 26, 26-29 26, 30-35 - 14, 17-21 14, 22-25 14, 26-31 - 22, 21-23 22, 14-20 22, 31-34 - 11, 47-53 12, 1-8 13, 1-20 13, 21-30 13, 36-38 13, 31-35 14-17 4 Li amò sino alla fine Subito in apertura del cap. 13 l’evangelista Giovanni anticipa il tema dominante la serie dei gesti e dei discorsi che Gesù proporrà ai suoi: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). La scena del banchetto secondo Giovanni si svolge in assoluto silenzio, fintanto che d’improvviso l’attenzione del lettore è catturata dal succedersi incalzante di una serie di verbi che descrivono i gesti compiuti da Gesù: «si alzò, depose la veste, preso unpanno di lino, se lo cinse. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il panno di lino di cui si era cinto» (Gv 13, 4-5). Gesù interrompe il silenzio soltanto per rispondere all’accalorata reazione dell’apostolo Pietro, secondo cui è inaudito che il signore compia un servizio tanto umiliante. Solo quando avrà finito di lavare i piedi ai dodici Gesù provvede a illustrare il significato del suo agire. «Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese la veste, si sdraiò di nuovo e disse loro: «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, ne un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (Gv 13, 13-18). Per spiegare questo racconto spesso si è ricordato come nel mondo antico fosse una consuetudine, un atto di cortesia quello di lavare i piedi all’ospite di riguardo o al padrone che entra in casa, in quanto il tipo di calzature e le strade rendevano necessario tale gesto, che comunque era ovviamente eseguito dagli schiavi. Ciò potrebbe indurre a ritenere che il gesto di lavare i piedi raccontato da Giovanni possa costituire un segno di protezione e di accoglienza a favore un estraneo; oppure che costituisca un lavaggio rituale così da passare dalla condizione di contaminazione a quella di purità. In realtà, le cose stanno altrimenti nell’episodio giovanneo, al cui centro sta una “inversione di ruolo” fra padrone e servi; più precisamente, entrando in collisione con i canoni sociali dell’epoca, Gesù reimposta il rapporto discepolo/maestro, sollecitando una conversione di sé del discepolo e l’imitazione dei gesti del Signore. Un gesto “fuori posto”? Un particolare soprattutto merita di essere attentamente considerato: la lavanda dei piedi nel racconto giovanneo non avviene all’inizio della cerimonia, nell’anticamera della sala adibita al banchetto. Se Gesù l'avesse compiuta al momento iniziale del convivio, per quanto straordinaria fosse, l'iniziativa di mettersi a servire i propri discepoli poteva essere interpretata semplicemente come un usuale atto di benevolenza e di accoglienza. Il rito compiuto da Gesù avviene invece durante il banchetto («mentre cenavano») e ha luogo nello spazio stesso ove è imbandita la tavola; in questo senso è lecito affermare che il gesto di Gesù è “fuori tempo” e “fuori posto”. Non è un fatto di mera convenienza o di bon ton, bensì è un gesto simbolico che prefigura una norma di vita comunitaria: se io ho lavato i vostri piedi (indicativo cristologico), anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri (imperativo cristiano). 5 Collocando il rito della lavanda in un tempo e in uno spazio inconsueti e imprevedibili (probabilmente i presenti già si sono ripuliti prima di entrare nella sala da pranzo), Gesù svuota il rito della sua funzione ordinaria, rivestendolo di un valore simbolico assolutamente inedito. Il significato del gesto chiede di essere iscritto nella cornice dell’evento della convivialità, quello di condividere il pasto insieme, con una forte insistenza sui tratti comunicativi e simbolici del partecipare alla stessa mensa. Un “rito di ingresso” nella comunità Secondo l’evangelista Giovanni, la cena non appare solo come il momento in cui si esprime il legame di Gesù con i suoi, ma costituisce l’inizio del momento finale del suo amore, quello che il quarto vangelo indica spesso come l’«ora». La lavanda dei piedi è un atto di amore rivolto da Gesù ai suoi (non alle folle), in un luogo privato e riservato (non all’aperto), così da concentrare l’attenzione sulla relazione fra Gesù e i discepoli. Lavando i piedi ai suoi, il Signore compie un rito di iniziazione dopo che la cena ha già contribuito a realizzare una riunione del gruppo. In altre parole il suo atto mira a suscitare nell’immaginario dei discepoli un nuovo modello di “comunità”, cui è dato essere immessi soltanto a condizione di seguire Gesù, di imitare i gesti del Maestro, di interiorizzare il suo modo di sentire, parlare e stare in silenzio. Con il racconto della lavanda dai piedi Giovanni sceglie di modificare l’immagine culturale consueta del rapporto maestrodiscepolo, in cui il maestro assume la funzione del padrone e il discepolo quella dello schiavo. Gesù nel cenacolo rilancia un progetto di comunità che egli spera i suoi discepoli formino dopo la sua morte, nell’atto in cui scelgono di porsi in un atteggiamento di imitazione/sequela del maestro. Infine, per svolgere il rito della lavanda dei piedi, Gesù modifica il suo aspetto, rivestendosi dei panni degli schiavi, simbolo di una condizione inferiore. Ciò comporta che egli finisca per assumere lo status dello schiavo, e tuttavia al discepolo è dato intuire che Gesù mira a ridefinire la logica e la qualità della relazione fra maestro e discepolo. Gesù il Signore si fa servo, lui che è il Primo si fa ultimo. Grazie a questa inversione di ruolo, i discepoli sono a entrare nella sollecitati economia della Pasqua, che comporta l’abbassamento e l’avvicinamento del Maestro alla condizione servile (“fino alla morte di croce”), pur di assicurare la prossimità di Dio all’umanità in fuga da lui. Marco Vergottini Le iniziative di Kairòs La vera tradizione non è testimonianza di un passato ormai conclusosi; ma è una forza vitale che stimola e istruisce il presente. Igor Stravinskij Kairòs, sensibile al valore della tradizione, ha presentato un DVD, Gavirate. La ricerca dell’anima. che può essere ricevuto in omaggio prenotandolo presso la biblioteca comunale, che contiene racconti fatti con oltre 2600 immagini di Gavirate dal secolo scorso ai giorni nostri. Inoltre ha lanciato l’idea della celebrazione del 80° anniversario della nascita di Luigi Brunella del 8 giugno 2007 e della realizzazione di un catalogo generale delle sue opere. Chi disponesse di immagini, opere o conoscesse aneddoti sulla vita di questo nostro grande artista o della nostra storia può prendere contatto con [email protected] o 0332.744242 per la loro raccolta destinata alle future pubblicazioni. 6 Un comunità che vuole comunicare Anche chi non li conosce non vede avere paura se parliamo di Personal Computer (scusate la parolaccia ma mi capireste se dicessi calcolatore personale?) e di Internet (altra parolaccia che potremmo tradurre come grande rete di comunicazione con cui i computer parlano tra loro come noi facciamo col telefono) perché sono cose semplici che possono usare tutti con pochissime informazioni. aggiornate in continuità, consultabili da casa e non solo, e possono essere fatti anche per un piccolo numero di persone come le comunità come le parrocchiali. Ma tramite Internet è possibile anche fare ricerche per avere informazioni di ogni tipo, comunicare, acquistare, firmare contratti, verificare lo stato delle operazioni che intraprendiamo e pagare senza spostarsi da casa. Ma molti si chiedono: servono davvero?, come molti si chiesero quando nacquero il telefono e la televisione e poi sappiamo come è andata a finire. Già oggi molte persone passano più tempo sul computer che davanti al televisore che presto unificherà telefono e computer per: informarci, divertirci e comunicare. Ma tutto questo, serve, qui a noi, a Gavirate? La prima risposta è che dipende da quanti poi se ne servono. Infatti soltanto se i gaviratesi se ne servono Siti ed Internet sono utili. La risposta che le parrocchie del Decanato hanno dato è semplice: visto che è sempre più ridotto il numero di sacerdoti ma non diminuiscono le necessità di comunicazione, è necessario cominciare ad utilizzare nuovi mezzi per comunicare e fornire informazioni e servizi ed hanno unito le loro forze e dato vita al sito del Decanato di Besozzo e alle rubriche parrocchiali e decanali di indirizzi di posta elettronica. Noi possiamo paragonare Internet ad un servizio postale, che invece di portarci a casa lettere, riviste, giornali, cataloghi, pubblicità e libri, ce li mostra e noi possiamo anche ascoltare e stampare. Ma oltre la posta elettronica ci sono anche i siti, le riviste che invece che essere fatte di carta, di essere pubblicazioni periodiche, aver bisogno delle edicole o degli abbonamenti e di un numero elevato di lettori, sono visibili su uno schermo, Il sito a cui si accede tramite l’indirizzo www.decanati.it contiene attualmente: gli orari della messe feriali e festive di tutte le parrocchie del decanato, i calendari delle iniziative decanali, una breve storia della Pieve (l’antico nome del decanato), una serie di documenti prodotti o raccolti da Kairòs su tempi di interesse generale, l’accesso alle pagine di tutte le parrocchie del decanato e per la nostra parrocchia anche la storia del culto dell’Addolorata e di Gavirate. Inoltre dalla prima pagina si arriva con grande facilità a visitare tanti altri siti che consentono di dialogare con le pubbliche amministrazioni, enti pubblici e culturali ed di iniziare la ricerca su qualsiasi argomento. Invece per le comunicazioni settimanali per il momento si è scelto di distribuirli mediante la posta elettronica in modo da facilitare la comunicazione con coloro che già oggi operano col computer. Pertanto se vuoi fare circolare le tue idee, vuoi essere informato tempestivamente o partecipare a qualche breve corso sull’uso del computer comunica il tuo indirizzo di posta elettronica a: [email protected] . Luciano Folpini 7 8 Prima comunione a Gavirate. Dal libro della memoria Fino a tutti gli anni ‘50 del secolo passato, la domenica dell’Ascensione di mattina presto i bambini di 6/7 anni ricevevano a Gavirate la prima comunione nella chiesa parrocchiale durante una celebrazione solenne ma sobria. Accompagnati dai familiari più stretti – genitori, fratelli, nonni – seduti sulle panche disposte le une di fronte alle altre nella navata centrale, i maschi di qua e le femmine di là si accostavano al terzo sacramento della loro vita. Tutti erano vestiti a festa, i ragazzini con pantaloni di solito corti, camicia e giacchetta (per un certo periodo imperò il vestito “alla marinara”), le femmine coperte da un vestito bianco, lungo fino ai piedi con il velo in testa e talvolta una coroncina di fiori. Ai piedi tutti portavano rigorosamente scarpe nuove e lucidissime, tra le mani tenevano il libretto della messa con la copertina di madreperla. I bambini, ripuliti ben bene la sera prima, rigorosamente a digiuno dalla cena precedente, rimanevano con le mani giunte silenziosi, un po’ emozionati, ansiosi e impacciati. Tra canti semplici, ma solenni e letture bibliche, formule rituali tutte in latino, una predica essenziale, la messa scorreva veloce verso il suo centro, la consacrazione e poi al termine della celebrazione, dopo la benedizione… il momento tanto atteso della prima comunione. Il prevosto distribuiva l’ostia consacrata a tutti i bambini con le mani giunte e silenziosi, preoccupati soprattutto di non commettere il terribile errore sacrilego – da cui si era stati ossessivamente ammoniti – di toccare o anche solo sfiorare con le dita o con i denti la particola. A questo punto in ginocchio i bambini, mentre in bocca scioglievano lentamente l’ostia intinta nel vino, recitavano una breve preghiera di ringraziamento imparata a memoria, sbirciando poi verso la mamma che con un’occhiata severa, in un viso appena sorridente, richiamava alla concentrazione. All’uscita della chiesa vociavano felici, in parte perché soddisfatti, in parte perché si erano tolti un peso, giocavano rincorrendosi, ma non indugiavano troppo sul sagrato, sfollavano insieme ai grandi verso le proprie abitazioni, perché i lavori in una società agricola e ancora poco industrializzata non cessavano neppure di domenica. E poi il pranzo della festa aveva bisogno dei preparativi finali, i fratelli più piccoli andavano accuditi… Il pranzo In occasione della prima comunione il pranzo era solo un po’ più ricco del solito, distinto dai pasti di tutti i giorni per la presenza della carne e di un dolce per lo più fatto in casa; per il resto non si differenziava granché dalle altre domeniche. Invitati erano solo i nonni – se c’erano – , mentre non si usava ospitare zii e cugini o conoscenti. Neppure i confetti si usavano, tanto meno bomboniere, sacchetti di tulle: solo qualcuno con maggiori possibilità economiche racconta di averli visti girare per casa. I ricordini Anche le famiglie più modeste non rinunciavano a far stampare un’immaginetta ricordo di quell’evento, da distribuire a parenti e vicini, con stampate sul retro la data, una massima o una breve preghiera. Pochi si potevano permettere invece la fotografia del piccolo comunicato, vestito a festa, inginocchiato, lo sguardo estatico verso l’alto. Tutti, comunque, ricevevano un attestato su carta spessa intitolato “Caro Ricordo”, riproducente una scena religiosa che richiamava il sacramento ricevuto e, nella parte inferiore del foglio, il nominativo, la data della fatidica giornata, il nome della chiesa e la firma del parroco. I nonni qualche volta davano anche una piccola mancia, raccomandando tuttavia di spendere bene quei pochi soldini faticosamente messi da parte per l’occasione. Il pomeriggio Dopo pranzo, a metà pomeriggio, i 9 neocomunicati tornavano in chiesa, accompagnati solo dalla mamma, perché il papà aveva da fare con le bestie o nei campi. Di nuovo tutti insieme – il numero variava a seconda degli anni, ma si trattava pur sempre di parecchie decine – i bambini si radunavano in chiesa per una funzione speciale, di ringraziamento e di consacrazione alla Madonna al duplice scopo di sottolineare l’importanza della festa religiosa e di mantenere un clima di raccoglimento per tutta la giornata. Il risveglio anticipato rispetto al solito, le emozioni provate, l’ansia dell’attesa, gli occhi di tante persone puntati addosso, la netta impressione di aver dovuto superare una prova per quanto gioiosa, avevano spossato il povero fanciullo che spendeva in quell’ora le ultime energie, cercando di mantenersi vigile e interessato. La preparazione Compiuti i 6 anni, i bambini iniziavano il cammino di preparazione alla prima confessione e alla prima comunione. Il giovedì pomeriggio – giorno di vacanza dalla scuola per tutti gli studenti - , i maschietti sotto la guida del sacerdote coadiutore all’oratorio vicino alla stazione (costruito intorno alla prima decade del secolo), le femmine dalle suore dell’asilo (attuale sede della Croce Rossa) seguivano un breve itinerario di formazione religiosa di base. In gruppi abbastanza numerosi, ma seduti in silenzio, ascoltavano il prete o la suora (talvolta una maestra consacrata o molto devota) che facevano discorsi semplici, ispirati ai racconti biblici e alla vita dei santi. Gli educatori avevano un metodo di insegnamento valido e consolidato: chiedevano ad alcuni bambini di leggere un paio di domande-risposte del catechismo di Pio X, rendevano comprensibile il testo con esempi elementari, cercavano di appurare poi con domande finali se il significato della dottrina del giorno era stato assimilato. Al termine dell’incontro, il maestro di religione segnava sul catechismo di ciascun ragazzo il compito da svolgere per il giovedì successivo. La settimana seguente, uno dopo l’altro, ai bambini era richiesto di ripetere a memoria e con assoluta precisione le risposte del catechismo, quindi seguiva una nuova spiegazione di altri dogmi, la narrazione di qualche storiella edificante per illuminare i contenuti talvolta oscuri della materia di fede. E così via, di lezione in lezione, fino all’esame finale sostenuto con grande trepidazione dai singoli bambini che doveva dimostrare – pena la (non rara) “ bocciatura” – l’avvenuta buona conoscenza e la retta interpretazione delle verità di fede. A giudicarli era il prevosto che interrogava con piglio severo ed esigente (“quanta soggezione! Che paura di sbagliare!”, ripetono concordemente gli anziani, uomini e donne). In quelle riunioni la suora e il sacerdote non analizzavano l’intero catechismo di PioX: innanzitutto mancava il tempo – una ventina di incontri erano insufficienti per trattare a fondo l’intero volumetto - , ma anche perché la prima comunione si inseriva in una formazione permanente di cui costituiva solo la prima tappa. Lo stesso decreto Quam Singolari del 1910 con cui il papa ammetteva i bambini fin dai 7 anni all’eucarestia, raccomandava di evitare di presentare in modo completo gli articoli di fede, ma di insistere solo sui fondamenti. Dei 149 quesiti che costituivano il catechismo venivano scelti i principali: quelli esplicitamente orientati alla preparazione ai sacramenti, la sezione relativa a Dio che premia e che castiga, le domande sulla Chiesa, i comandamenti, i sacramenti. la Trinità e la magnificenza di Dio e del Figlio Gesù. Va comunque ricordato che il catechismo del giovedì si integrava perfettamente con la dottrina cristiana della domenica mattina e con l’educazione religiosa quotidiana che i genitori facevano da sempre, insegnando le preghiere della mattina e della sera, abituando le giovani menti a far l’esame di coscienza, raccontando sotto forma di favole le parabole, i miracoli, le vite dei santi, della Madonna, dei personaggi dell’Antico Testamento. La prima confessione Se per fare una “buona comunione” era necessario 10 essere in grazia di Dio, cioè avere la coscienza pura e libera da ogni peccato mortale, occorreva prepararsi bene alla prima confessione. Tutto il catechismo girava intorno al quarto sacramento, suddiviso in 5 parti: 1) l’esame di coscienza, 2) il dolore dei peccati, 3) il proponimento di non commetterne più, 4) l’accusa dei peccati, 5) la penitenza. Su questi punti non si facevano sconti. Si ripetevano ossessivamente espressioni quali: l’odio dei peccati, l’obbligo di confessare tutti i peccati anche quelli già confessati male, il pericolo di commettere un sacrilegio per chi avesse taciuto un peccato mortale, il peccato come disobbedienza non solo verso i genitori, ma anche verso i superiori in autorità, il cedimento a pensieri e desideri cattivi, alle impurità (azioni, parole, sguardi, libri, immagini, spettacoli immorali). I bambini dei tempi andati, gli anziani di oggi, ricordano lucidamente i sentimenti che provavano: la paura di peccare, di cedere alle tentazioni, lo scrupolo di non aver confessato tutto, il bisogno di una confessione di una precedente confessione mal fatta, magari per una penitenza non eseguita fedelmente, l’imperante senso di colpa… Nella prima confessione il parroco non aspettava l’accusa dei peccati, ma per facilitare il compito al povero bambino paralizzato dalla paura faceva domande del tipo: hai chiacchierato in chiesa? hai disobbedito alla mamma? hai detto sempre le preghiere? hai rubato lo zucchero in cucina? hai detto le bugie? hai rispettato i vecchi? hai detto le parolacce? I bambini a testa bassa balbettavano un accenno di risposta, registravano mentalmente la penitenza, chiedevano perdono con “O Gesù d’amore acceso” e volavano fuori più leggeri dal confessionale, pronti a ricevere finalmente il giorno dopo la prima eucaristia. La seconda comunione Due settimane dopo la prima comunione - nel giorno del Corpus Domini - seguiva una seconda comunione solenne e nel pomeriggio i neocomunicati accompagnati dalle madri e dai catechisti andavano o in tram o in pullman o in treno in gita – con colazione al sacco – verso una località poco lontana per stare allegri, ma anche per raggiungere di nuovo un santuario, una chiesa significativa. Molti ricordano di essere andati al Sacro Monte, qualcuno a Brusimpiano, qualcun altro ad Arona o ad Angera. I bambini, che raramente uscivano dai confini del paese, trovavano indimenticabili quelle poche ore passate nei prati di una chiesa a giocare a palla, a rincorrersi, a mangiare pane e cioccolato. Il ritorno dal Sacro Monte, poi, avveniva a piedi, piedi che si indolenzivano e si riempivano di fiacche a causa delle scarpe nuove di pelle buona, ma un po’ strette e allora i bambini scendevano la collina camminando “a pè ‘ntera” con le scarpe in mano fino a casa, se non avevano la fortuna di trovare qualche insperato passaggio su un carrettino diretto a Gavirate… Angela Lischetti 11 12 13 Azione cattolica L’ultima domenica dello scorso febbraio, gli adulti dell’Azione Cattolica di Gavirate hanno partecipato ad una giornata di riflessione riunendosi a Venegono Superiore con gli amici della zona pastorale di Varese alla presenza del Vicario Episcopale, Mons. Luigi Stucchi. L’incontro è stato molto stimolante perché ha offerto, nella sua prima parte, spunti di riflessione e suggerimenti in rapporto alla vita associativa che si svolge normalmente in parrocchia. Tuttavia, a me ha colpito particolarmente il forte richiamo fatto dal relatore nella seconda parte dell’incontro circa la necessità di promuovere nelle nostre parrocchie una formazione permanente alla fede. Veniva sottolineato infatti come, a partire dai ragazzi nell’età del dopo-Cresima, sino ad arrivare agli adulti, la partecipazione dei nostri parrocchiani a momenti di catechesi sia sempre più frammentaria o addirittura nulla, determinando così un impoverimento spirituale e dottrinale della comunità parrocchiale. Per gli aderenti di AC, il richiamo alla formazione non è assolutamente una novità. La tradizione dell’Azione Cattolica, infatti, è sempre stata caratterizzata da un impegno formativo qualificato ed originale nel comunicare il Vangelo: lo riconoscono i Vescovi italiani negli Orientamenti Pastorali per questo decennio, in quel passaggio in cui ci chiedono di continuare a offrire quella “esemplarità formativa” che è stata preziosa in passato e di cui le comunità cristiane anche oggi avvertono l’esigenza. La formazione è quindi il cuore dell'AC ed è l'anima del suo impegno missionario. È il momento e il luogo in cui insieme si ascolta la vita e si interroga la fede. La formazione in AC è esperienza aperta ed ospitale verso quanti desiderano condividere cultura, stili, proposte; si rivolge a tutti coloro che intendono compiere un percorso di ricerca anche sui grandi temi della vita. Si caratterizza per uno stile di accompagnamento personale, nell'ascolto del Signore che opera nelle coscienze, valorizzando la comunicazione della fede. È tenendo in conto queste premesse che, sul finire dell’anno 2004, la Presidenza dell’Azione Cattolica Italiana ha deciso di rivedere, aggiornandolo, il progetto formativo dell’Associazione. Il documento che ne è originato (e che consiglio di leggere) ha, come titolo, “Perché sia formato Cristo in noi” ed è prenotabile presso l’edicola della “Buona Stampa”. In questo documento vengono puntualizzati molti temi di grande portata che dovrebbero interpellarci seriamente come credenti. Ecco allora sottolineata la necessità di far crescere una fede sempre pensata e capace di interpretare la vita nella sua concretezza. Un altro tema messo in evidenza è quello del lavoro intellettuale che non si esaurisce mai e che ha come scopo quello di mettere sempre al centro della nostra riflessione la persona e la coscienza. Ed ancora, il tema della pazienza che dobbiamo esercitare per diventare capaci di individuare itinerari differenziati di formazione, rispettosi dei tempi di maturazione di ognuno per aiutarci l’un l’altro a riscoprire la fede come dono di Dio. Oltre alle considerazioni circa il problema veramente fondamentale della formazione alla fede del credente, il nuovo progetto formativo ribadisce il carisma dell’AC che è quello di una associazione di laici dedicati in modo stabile e organico alla missione della Chiesa nella sua globalità. È importante sottolineare in questo contesto che la Chiesa a cui l’AC si riferisce è in primo luogo quella diocesana (e quindi quella locale: la parrocchia). Come diceva Giovanni Paolo II (Messaggio all’Assemblea Straordinaria dell’AC, 2003, n. 5), nella diocesi l’AC vive in comunione con il ministero del Vescovo, disponibile a contribuire ed elaborare le scelte pastorali della comunità e a curarne l’attuazione, in spirito di unità con tutti. Ed infine, il progetto formativo non poteva eludere il grande tema dell’impegno del laico di AC come 14 testimone e missionario nel senso più ampio della parola in virtù del suo battesimo. La formazione allora deve essere pensata in modo che possa mettere in grado il laico cristiano di parlare di amore, di famiglia, di dolore, di lavoro, di morte etc. con un linguaggio sempre rispettoso delle opinioni e della cultura degli altri, ma ponendo la fede in maniera forte e nuova in dialogo con l’esistenza di oggi. Bisogna infatti contraddire coloro che sono ancora convinti che gli impegni della vita cristiana si giochino nelle cose di Chiesa, oppure che la fede serva a rispondere solo ai bisogni personali, senza porsi in rapporto con la vita degli altri e con le loro domande. Come si può intuire, il lavoro di formazione che aspetta noi aderenti all’AC è particolarmente affascinante anche se decisamente impegnativo. Confidiamo nella capacità di ognuno di rispondere a questo invito a mettersi in gioco sotto la guida di don Piero. Termino ricordando che per gli interessati a questo lavoro di formazione, la partecipazione alle nostre assemblee mensili (normalmente alle ore 15:00 di ogni seconda domenica del mese in Casa Parrocchiale) è aperta anche ai non iscritti. Anzi, saranno i benvenuti! Il presidente dell’AC parrocchiale Libero Clerici Qualche asterisco su "Gesù e Cinema" Quando si parla di “Gesù al cinema” - fors’anche a motivo di un (provinciale) complesso di sudditanza verso il mito americano la mente va spontaneamente a grandi successi di cassetta, quali la realistica e un po’ truculenta pellicola di Mel Gibson, The Passion (2003), oppure la rappresentazione fantasiosa e un po’ blasfema de L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese, o infine la versione musical/hyppie e un po’ patinata di Jesus Christ Superstar(1973), per la regia di Tom Rice. Non sono pochi, però, i registi italiani contemporanei che con maggiore o minore tensione spirituale hanno avvicinato la figura di Gesù Cristo. Si possono ricordare: Roberto Rossellini (Il Messia), Pier Paolo Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo), Franco Rossi (Un bambino di nome Gesù), Ermanno Olmi (Camminacammina), Luigi Comencini (Cercasi Gesù), Franco Zeffirelli (Gesù di Nazareth), Damiano Damiani (L'inchiesta), Alessandro D'Alatri (I giardini dell'Eden). Tre recenti eventi ecclesiali sul tema “Gesù e il cinema” possono essere richiamati: a) l’uscita del libro di don Dario E. Viganò: Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico, [Lateran University Press, Roma 2005] che scheda oltre un centinaio di pellicole sulla figura di Gesù; b) la relazione di padre Lloyd Baugh, gesuita docente alla Pontificia Università Gregoriana, L’invenzione cinematografica di Gesù: il testo evangelico e la tendenza appocrifale, tenuta nel quadro del convegno di febbraio 2006 della Facoltà Teologica di Milano su “La figura di Gesù e la forma del racconto”; c) il progetto “Passio”, Cultura e Arte attraverso il Mistero Pasquale (Novara, 1 marzo – 3 maggio 2006), promosso dalla Chiesa Italiana. [cfr. www.passionovara.it]. Qualcuno forse ricorda che circa 15 anni fa in oratorio, con la partecipazione di don Tiziano, fu proiettato L’inchiesta di D. Damiani, un film-inchiesta di sapore introspettivo con al centro la ricerca di Gesù dopo gli eventi della Pasqua? L’iniziativa, sorta nel quadro degli incontri di catechesi degli adulti, riscosse un buon interesse. Fra l’altro, del film ricordato, tratta da un vecchio soggetto di Ennio Flaiano e Suso Cecchi D'Amico, è prevista a breve l’uscita di un remake omonimo, per la regia di Giulio Base e con la partecipazione dio interpreti quali Max Von Sydow, Monica Cruz, Ornella Muti. Sorge allora spontaneo l’auspicio che nei mesi a venire si possa organizzare nel nostro oratorio un percorso di approfondimento cinematografico e culturale, nella forma di un cineforum sulla figura di Gesù (proiezioni e dibattiti). Interessa qualcuno? Marco Vergottini 15 16