ORGANO DELLA PASTORALE SANITARIA DELLA DIOCESI DI ROMA POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE ABB. POSTALE DL 353/2003 (CONV.IN L. 27/02/2004 N° 46) ART. 1 COMMA 2 DCB ROMA N. 59 giugno 2009 N. 59 giugno 2009 SOMMARIO Il cammino è nella speranza Organo della Pastorale Sanitaria della Diocesi di Roma Direzione, Redazione e Amministrazione Vicariato di Roma P.zza S. Giovanni in Laterano, 6/a 00184 Roma Tel. 06/69886227 - Fax 06/69886182 E-mail: [email protected] Sito: www.vicariatusurbis.org/sanita Direttore: Armando Brambilla Direttore Responsabile: Angelo Zema Coordinamento Redazionale: Dr. Sergio Mancinelli Comitato di Redazione: Don Sergio Mangiavacchi, Padre Carmelo Vitrugno, Elide Rosati Maria Adelaide Fioravanti Amministrazione: Dr. Vincenzo Galizia Editore: Diocesi di Roma Piazza S. Giovanni in Laterano, 6/a 00184 Roma Tel. 06/69886227 - FAX 06/69886182 Versamenti sul conto corrente postale n. 31232002 Specificando la causale: “Pastorale Sanitaria 54-5-6” Periodico Trimestrale Registrato al Tribunale di Roma Reg. Stampa n. 200 del 12.4.95 3 Per non riportare indietro le lancette della storia 5 Far dormire non è far morire 9 Visita pastorale a Villa Pia Dopo la visita del Vescovo alla clinica Guarnieri La mia vita appartiene a Dio 11 12ª Edizione del Premio “Il Buon Samaritano” 12 Il centro di aiuto alla vita Eur S. Eugenio compie 10 anni - Ecco la storia 14 Che cosa è la pillola RU 486 e perché esserne contrari - La carità - La vita è come er sole 17 Cenni sulle problematiche della bioetica 18 Pagine di vita 19 Amare la Vita, fino alla fine I due precetti dell’amore 20 La carezza del Papa a «Capitan Uncino» 22 Testimonianza - Divin Salvatore! Er succo der Vangelo 23 Teresa Orsini Doria Pamphilj Lante 24 Lettera a Gesù - Il meglio di te Le stagioni della vita 27 «Una vita spesa per amare» Padre Livio Petroselli 28 Vita umana 29 25° anniversario della morte del prof. Antonio Mosca e di suor Luciana Iezzi all’ospedale CTO 30 Il terremoto dell’Aquila 31 Prendersi cura 32 Etica e Sanità 33 Un punto di vista 34 Preghiera alla Madonna della Salute 35 Una lettura, anche spirituale, per l’estate: i racconti di Karen Blixen 36 Un «anno sacerdotale» 38 Sotto il segno del curato d’Ars 40 Pellegrini in Terra Santa 41 Invocazione allo Spirito Santo 43 Fede, carità e anziani malati 44 L’ospedale delle Grazie a porta Angelica 47 ABBONAMENTO ANNUO: Socio sostenitore: É 51,00 Comunità o Istituti: É 26,00 Ordinario: É 16,00 Finito di stampare l’11 giugno 2009 per i tipi della PrimeGraf Tel. 062428352 (r.a.) - Fax 062411356 E-mail: [email protected] PAG Sono sottoscrivibili abbonamenti cumulativi. 2 I IL CAMMINO È NELLA SPERANZA l cammino nella speranza ci ha accompagnati quest’anno pastorale in un modo speciale, grazie al nostro Vescovo, il Papa Benedetto XVI, che ci ha invitati a «Educarci alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza» guidati dalla sua enciclica Spe salvi. Siamo stati invitati a sentire il «gusto del futuro», impegnati a vivere il presente con coraggio, alla scuola di Gesù maestro di vita. Educarci alla speranza ci ha continuamente spronati a ricercare i valori fondativi che danno respiro alla vita quotidiana. Il Papa ci ha detto nella sua enciclica che sono da valorizzare tutte le speranze umane, ma che queste non sono il tutto. «L’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre» (Spe salvi 30). Questa speranza non può che essere Dio, che abbraccia l’universo, e in primis 1’uomo amato da Lui. «Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa d’infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere... Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gra- tificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi Dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è veramente vita» (Spe salvi, 30-31). Il regno di Dio è presente già fin d’ora li dove «Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge». L’impegno di ogni anno pastorale è quello di crescere personalmente e comunitariamente nell’amore del Signore, e renderlo presente nei luoghi di sofferenza; questo significa vivere e, in qualche modo, anticipare la speranza futura. Dice ancora il Papa al n. 27 della Spe salvi: «Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe “vita”». L’impegno a rendere gli ospedali e i luoghi di cura, più umani, più pieni di vita, per un cristiano, non è un discorso puramente filantropico, ma un impegno di testimonianza dell’amore di Dio Padre, del figlio suo Gesù, della potenza dello Spirito Santo operante in noi e nel mon3 do con dolcezza ma anche con forza. Questa profonda umanizzazione nel mistero trinitario diviene il terreno ideale per quel rinnovamento che tutti si auspicano, ma che non si realizza mai. Ciascun battezzato, e la comunità cristiana nel suo insieme, presente in ospedale e nelle cliniche, deve continuamente progredire nella immedesimazione al mistero della salvezza, per assumere sempre più la chiamata a condividere la vita nei luoghi di cura e portarvi la speranza cristiana. Aiutare a rendere più umani i luoghi di cura, per noi cristiani, non è una cosa facoltativa ma un obbligo morale. e donarci la vita nuova, la vita eterna. Chiunque, nella fede, accolga il messaggio evangelico e lo celebri nell’assemblea liturgica scopre un significato nuovo della sua vita sana ma anche della sua vita malata. L’incontro con Cristo porta una trasformazione di tutte le nostre speranze e ci apre alla speranza eterna, della gioia che non avrà mai fine. La vocazione dell’uomo è quella di essere felice e vivere nella gioia: lo Spirito Santo donatoci dal Padre, per mezzo del figlio suo Gesù Cristo, ci plasma per renderci capaci di accogliere i doni di Dio che ci comunicano la vera gioia e la felicità, che si può provare anche nella prova e nel dolore. La bellezza della rivelazione di Gesù si può cogliere anche accostandoci all’uomo malato, anziano, handicappato, perché Gesù ci ha detto: «Ero ammalato e tu ti sei preso cura di me». Perciò accostiamo il malato come un «sacramento», cioè la presenza dolorante di Gesù, che continua la sua opera di salvezza attraverso la debolezza umana dell’uomo sofferente. Non dobbiamo dimenticare che Gesù ha salvato il mondo sul letto della croce. D’altra parte non lasciamo mai mancare ai malati il sostegno eucaristico, il viatico ai moribondi, sacramento di salvezza per i vivi. Accompagniamo sempre con grande amore e partecipazione i viandanti della vita che sono segnati nella carne dalla malattia, ma che a volte sono più segnati nello spirito, perché vivono la paura dell’abbandono, della fragilità, della dipendenza, della solitudine, del sentirsi un peso per la famiglia e la società. Il conforto di Gesù eucaristico, pane del pellegrino, e la nostra vicinanza otterranno i miracoli dell’amore. L’Eucaristia, pane di vita. Il mistero eucaristico È nel mistero eucaristico che il discepolo del Signore riscopre continuamente il significato portante della propria esistenza e del proprio agire, perché in esso trova i parametri per la sua vita d’amore, di donazione, di morte e risurrezione. L’eucaristia è il Viatico che alimenta la vita dell’uomo, destinato ad andare al di là della morte. È nell’incontro con Cristo sacramentale che si attua la vera vita, che si riscopre la luce per trovare il significato evangelico dell’esistenza, del soffrire, del vivere e del morire. Allora la bellezza creatrice dell’eucaristia si traduce in un canto di lode e di ringraziamento al Dio che si è fatto, in Gesù Cristo, uomo per noi, ha preso su di sé la nostra debolezza, il nostro peccato, per riscattarci dal male Armando Brambilla Vescovo Ausiliare di Roma Delegato per la Pastorale Sanitaria 4 S gli schieramenti politici e ideologici così da imporsi come una realtà profondamente naturale e per questo universale. In un suo saggio sull’etica, il grande medico Albert Schweitzer scriveva così: «Chiunque s’imbarca sulla navicella del rispetto della vita non è un naufrago che va alla deriva; è, piuttosto, un passeggero intrepido che sa dove deve andare e come mantenere fermo il timone nella giusta direzione». L’immagine colpisce per la sua attualità e per la carica di verità che vi è contenuta; occuparsi oggi del tema della vita, d’altronde, equivale a inserirsi in un cammino che richiede una buona dose di coraggio e, soprattutto, una visione lungimirante. Intorno a questo tema, infatti, si gioca il futuro della società, delle giovani generazioni che in questo momento sono inconsapevoli spettatrici di quanto stiamo preparando per il loro modo di pensare e di comportarsi e della stessa Chiesa che tocca con mano quanto la missione dell’evangelizzazione sia sempre una sfida aperta sul terreno della storia. L’annuncio della vita appartiene al DNA della Chiesa perché è testimone diretta non solo del pieno valore che la vita personale possiede, ma soprattutto perché annuncia una vita che ha vinto il limite della morte. E intorno a questa dimensione che si incontrano e scontrano le varie visioni sulla vita umana, ma è anche questo lo spazio dove vengono a confluire le domande che richiedono una risposta carica di senso, non più soggetta alle ipotesi o teorie di lavoro, ma capace di dare certezza per permettere di costruire la vita di ognuno su un fondamento reale, stabile e sicuro. La cultura contemporanea si evolve costantemente nella ricerca di nuove for- econdo una felice consuetudine i documenti del magistero della Chiesa condensano nelle prime parole il loro contenuto. Dignitas personae non fa eccezione. I due termini che compongono l’ultima istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede evidenziano immediatamente l’obiettivo del documento. La dignità della persona non può essere un proclama astratto che in diversi momenti della storia si sente il bisogno di riaffermare; è molto di più. Esprime, infatti, un fondamento reale, inequivocabile e non in balia di arbitrarie interpretazioni soggette al sentire del tempo. Nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, questa istruzione viene a ribadire alcuni principi che sembrano sempre più oscurati per il sorgere di nuovi diritti che manifestano spesso un’inspiegabile e ingiustificata pretesa individuale. La dignità della persona costituisce la base su cui ognuno costruisce la propria identità, le relazioni interpersonali che segnano la vita e la solidarietà che forma le diverse società sparse per il mondo intero. La dignità della persona è una conquista faticosa dell’umanità, non una palla al piede per il suo progresso. Dimenticare il grande dibattito e le battaglie che hanno segnato le diverse epoche storiche, portando alla codificazione del principio d’uguaglianza di ogni persona e della sua irrinunciabile dignità, equivarrebbe a riportare indietro le lancette della storia di alcuni secoli. Nessuno, si spera, vorrà cadere in una simile trappola col negare il principio basilare del vivere personale e sociale; è un fatto di tale evidenza che per fortuna va al di là de- e n l o o n etr a r e P indi tori s e a r l a l t e r o d rip cette lan 5 me sperimentali che consentano di espri- stero della materia, per paradossale che mere al meglio la propria esistenza no- possa sembrare, più l’enigma invece di nostante la spada di Damocle dell’im- restringersi e condurre a soluzioni si previsto, della malattia non programmata espande a dismisura e non smette di proe della morte inevitabile. Ogni giorno il vocare meraviglia e stupore. I problemi progresso della tecnica mentre, da una etici intorno al tema della vita proprio parte, spalanca nuovi orizzonti che per- per questo si moltiplicano e spesso semmettono fortunatamente di superare la brano entrare in conflitto realtà che sosofferenza e il dolore, dall’altra pone no chiamate invece a collaborare per una sempre nuovi interrogativi che si esten- soluzione che trovi l’accordo della sciendono inevitabilmente all’istanza etica za con il principio etico. per le implicanze che possiedono. Me- Non è necessario credere in Dio per sarito di Dignitas personae è quello di ri- pere che la vita è un bene prezioso e un badire con forza e a più riprese il valo- dono di cui dobbiamo essere grati e rire dell’etica nella scienza, nella speri- conoscenti a qualcuno. La scoperta esistenziale di dipenmentazione e nelle dere da qualcuno varie tecnologie bionon è un dogma delmediche. Qualcuno, la Chiesa ma un in nome del proprincipio filosofico gresso, vorrebbe eliovvio e universalminare tout court mente accolto. E l’etica da questi amproprio nel riconobiti. Tentativo imscimento di questa possibile perché ciò relazione di dipenche si vorrebbe far denza che nasce la uscire dalla porta enconsapevolezza deltrerebbe di nuovo la gratuità e dell’econ insistenza dalla nigmaticità dell’esifinestra per rimane- La vita è un bene prezioso. stenza. Avrei potuto re in casa a dispetto di quanti ne vorrebbero l’eliminazione. non essere, eppure, non sono il frutto L’etica appartiene all’uomo di ogni tem- della casualità. Sono stato pensato, depo e di ogni cultura; è una condizione siderato, voluto: questo è ciò che ogni cardine dell’uomo nella sua ricerca di uomo alla fine pensa di sé per non lafelicità. Porla fuori gioco equivarrebbe sciare la propria. vita nel vago e nel a imporre spazi in cui entra solo la re- vuoto dell’indeterminatezza. La vita gola del più forte di turno, per le ingen- umana non è un esperimento da laboti risorse finanziarie che si sono investi- ratorio, ma un atto d’amore che segna te in questi ampi spazi della nuova per sempre l’esistenza. Per questo è un economia. Dignitas personae presenta bene inviolabile e indisponibile che molti degli interrogativi che tanti si pon- ogni ordinamento giuridico è costretto gono dinanzi al progresso delle tecno- a porre a proprio fondamento. Succelogie e che soprattutto nell’ingegneria de, purtroppo, che in alcuni casi questo genetica presentano tratti talmente nuo- principio venga violato e contraddetto. vi da affascinare, ma non per questo da Ciò non costituisce una conquista che apparire meno problematici. Il campo di rende alcuni Paesi più evoluti di altri; indagine è ampio e più si entra nel mi- al contrario, è ciò che rende evidente, 6 purtroppo, la contraddizione in cui cadono quando si pongono nel cono d’ombra del relativismo. In questo contesto, una riflessione di particolare interesse merita il richiamo di Dignitas personae al tema della scienza e della ricerca. L’istruzione fin dall’inizio della sua argomentazione esprime fiducia nella scienza, riconosce gli ingenti progressi che si sono verificati per la passione e la dedizione di tanti scienziati ed esprime il suo giudizio positivo per quanto l’ulteriore ricerca potrà compiere a favore dell’umanità per debellare alcune malattie e ridurre il dolore e la sofferenza: «Negli ultimi decenni le scienze mediche hanno sviluppato in modo considerevole le loro conoscenze sulla vita umana negli stadi iniziali della sua esistenza. Esse sono giunte a conoscere meglio le strutture biologiche dell’uomo e il processo della sua generazione. Questi sviluppi sono certamente positivi e meritano di essere sostenuti quando servono a superare o a correggere patologie e concorrono a ristabilire il normale svolgimento dei processi generativi» (Dignitas personae, n. 4). Sarebbe ingiusto che i commentatori di questo documento soprassedessero su queste riflessioni per procedere immediatamente alla contestazione circa il giudizio negativo dato su alcuni aspetti della sperimentazione. Non sarà da dimenticare un principio fondamentale dell’ermeneutica, la quale richiede che un’espressione sia letta e interpretata all’interno del contesto e della globalità del testo, non astraendola dal tutto e alterandone il significato. Se, comunque, il documento non ha remore nel riconoscere ed esprimere un giudizio positivo sul progresso della scienza i vari ambiti della ricerca medica, non ha neppure timore nel dover constatare come la sperimentazione sull’embrione possa portare alla sua distruzione. Que- sto fatto, oltre a essere intrinsecamente male perché parte dal presupposto che in quell’embrione non vi sia vita veramente umana, contraddice ogni forma di rispetto dovuto alla dignità di un essere umano vivente. Un passaggio importante viene richiamato dall’istruzione perché porta una novità, soprattutto se confrontata con il documento Donum vitae della stessa Congregazione. Si legge infatti: «La realtà dell’essere umano per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale poi- Soccorrere una vita umana è compiere un atto di amore. ché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica. L’embrione umano, quindi, ha fin dall’inizio la dignità propria della persona» (Dignitas personae, n. 5). Come si nota non si afferma esplicitamente che l’embrione è «persona» per non entrare nel merito del complesso dibattito filosofico e giuridico; in ogni caso, implicitamente si ammette che lo sia perché se ne riconosce la «dignità» dovuta alla persona. La cosa non è di poco conto per il giudizio morale e per la valutazione che si è chiamati a compiere nei confronti delle varie tecniche sperimentali. Dignitas personae si muove giustamente con prudenza quando si trova a dover 7 sione di fede che attesta ogni persona essere «immagine di Dio» (cfr. n. 8). Come si nota, i primi sono principi che la ragione raggiunge nel suo riflettere sulla realtà, mentre l’essere immagine di Dio Trinità è frutto della fede. Proprio l’unità di questa prospettiva dovrebbe aiutare a comprendere meglio l’intrinseco valore che la vita umana possiede e come la sua e inviolabilità e sacralità non siano altro che due facce della stessa medaglia. Giustamente l’istruzione afferma: «Non c’è contrapposizione tra l’affermazione della dignità e quella della sacralità della vita umana» (n. 7). È su questa strada che gli scienziati dovrebbero porsi perché la loro ricerca sia il più possibile conforme ai principi etici e capace di superare eventuali conflitti che potrebbero venire a crearsi con i giudizi etici e morali presenti nei diversi contesti culturali, religiosi e sociali. Forse, potrebbe richiedere più tempo e investimenti maggiori, ma la certezza di compiere qualcosa di straordinario che permette di collaborare con il Creatore di tutto l’universo non dovrebbe creare dubbi. La vera scienza si coniuga con l’umiltà non con l’arroganza; essa si nutre di gratuità non di facile guadagno. Il rispetto che si richiede per la propria persona e per il lavoro che si svolge a servizio di tutti invoca uguale consapevolezza che nella propria ricerca si sta toccando qualcosa che non è neutrale o generico, ma è vita umana che impone a tutti, nessuno escluso, il rispetto per la dignità di cui è rivestita. Dignitas personae, pertanto, viene a ricordare il carattere inviolabile della vita umana: un valore che si applica a tutti senza distinzione alcuna. Una sfida che, se accolta, può rappresentare una tappa significativa per il progresso coerente dell’umanità. S. E. Mons. Rino Fisichella Anche la persona malata ha la sua dignità. giudicare sperimentazioni con finalità terapeutiche che ancora non hanno ottenuto il consenso della comunità scientifica e si muovono su un terreno che richiede ulteriore studio e riflessione (cfr. n. 26). Quando, invece, deve affrontare casi concreti che già permettono di verificare quanto avviene nell’abuso delle cellule embrionali o degli stessi embrioni allora il suo giudizio si fa moralmente certo senza lasciare spazio a dubbi. Le parole del documento in questi casi riflettono non solo la giusta preoccupazione che la Chiesa manifesta in proposito, ma ribadiscono giustamente anche il male intrinseco che queste azioni posseggono quando viene meno il principio fondamentale del rispetto della dignità e dell’uguaglianza degli esseri umani. È bene, pertanto, che si possa distinguere nell’argomentazione di Dignitas personae quanto serve per una finalità terapeutica, che non solo viene approvata moralmente come lecita ma anche sostenuta perché possa produrre di più; e quanto, invece, diventa arbitrio individuale che impone il sacrificio di essere umani oppure la loro selezione eugenetica. Dignitas personae si richiama ad alcuni principi fondamentali che, come s’è accennato, hanno il loro fondamento nella dignità della persona, nell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani e nella profes- Arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita 8 La sedazione palliativa nei malati terminali «I Far dormire non è far morire o dormo ma il mio cuore veglia» (Cantico dei Cantici, 5, 2). L’uomo di ogni tempo ha sempre avvertito come strettamente imparentati il sonno e la morte. Una delle più evidenti dimostrazioni di ciò si ha nel pensiero mitologico greco: Hýpnos, il sonno, e Thànatos, la morte, sono divinità figlie di un’unica madre, Nýx, la notte. Espressioni come «riposare», «dormire il sonno eterno» e altre simili, frequentemente leggibili sulle lapidi dei nostri cimiteri, ci ricordano come anche nella tradizione cristiana il varcare la soglia della morte sia spesso stato visto come un riposare in attesa della resurrezione. Il Vangelo stesso riporta alcuni episodi della vita di Gesù indicativi in tal senso, uno per tutti quello descritto in Matteo (9, 23-26), nel quale la protagonista è una fanciulla che Gesù resuscita dopo aver detto «non è morta ma dorme». E forse per tali ragioni storiche e culturali che in campo medico l’induzione farmacologica del sonno allo scopo di alleviare il dolore, ad esempio durante pratiche chirurgiche, è sempre stata avvertita come una fase delicata e gravida di molti timori, primo fra tutti quello di non riacquistare lo stato di coscienza al termine del trattamento; e questo parimenti potrebbe essere il terreno nel quale affondano le radici della paura con la quale i pazienti gravi e i loro familiari continuano, a livello conscio e inconscio, a vivere la notte come ancora madre del sonno e della morte, momento di solitudine, passaggio oscuro. La pratica di indurre il sonno profondo mediante la somministrazione di farmaci non è esclusiva della chirurgia; an- che la medicina palliativa, nelle fasi terminali di malattie degenerative croniche come i tumori, può farvi ricorso a precise condizioni: si parla in tali casi di sedazione farmacologica o sedazione palliativa. A questo proposito è stato qualche tempo fa pubblicato dall’agenzia Fides della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli un dossier che tra le altre problematiche di fine vita affronta anche quella della sedazione farmacologica nell’ambito appunto della medicina palliativa. Il documento ci permette di fare alcune considerazioni su una questione tanto delicata dal punto di vista bioetico quanto frequentemente bistrattata dai mass media in occasione di casi eclatanti finiti sulle prime pagine di giornali e notiziari televisivi. La sedazione farmacologica, quando è profonda, continua e intenzionale, consiste nella somministrazione di un farmaco con lo scopo di far perdere la coscienza a un malato in fase terminale gravato dalla presenza di uno o più sintomi refrattari. Tale definizione permette di far emergere quelle precise condizioni alle quali sopra ci riferivamo e che, allo scopo di fugare qualsiasi dubbio, possiamo esaminare con ordine. Innanzitutto il nome: «sedazione farmacologica». Sarebbe bene non utilizzare l’espressione «sedazione terminale» dal momento che quest’ultima potrebbe indurre a pensare che la sedazione, in alcuni casi, rivesta il ruolo di 9 una pratica eutanasica volta ad abbreviare intenzionalmente la vita di un paziente. Un importante documento della European Association of Palliative Care del 2003 è chiarissimo in proposito: a livello di intenzione, di procedura utilizzata e di risultato ottenuto la sedazione è tutt’altra cosa rispetto all’eutanasia. L’intenzione è infatti quella di far fronte a sintomi refrattari e non di uccidere il malato, la procedura esclude la somministrazione di farmaci letali e il risultato è quello di far dormire profondamente il paziente, non di ucciderlo. Questo è talmente vero che gli studi delle curve di sopravvivenza di malati sedati rispetto a quelli non sedati a parità di condizioni cliniche iniziali mostrano una sopravvivenza maggiore nel primo gruppo, rendendo in tal modo perfino superfluo il ricorso al principio del doppio effetto per giustificare eticamente tale procedura. In secondo luogo i farmaci: le benzodiazepine sono i più frequentemente utilizzati per ottenere il sonno profondo. Né la morfina – largamente usata per il controllo del dolore, della dispnea, cioè della sensazione di fame d’aria, e della tosse in fase avanzata di malattia – né i cocktail di più molecole dovrebbero trovare applicazione in tal campo. Inoltre la definizione sopra fornita parla di «malato terminale»: la sedazione farmacologica è e deve restare pratica rara in cure palliative, riservata a quei casi che si trovano a pochissimi giorni dal naturale decesso, a volte a poche ore. I maggiori centri europei di cure palliative riferiscono di percentuali di malati sedati che in genere non superano il 5 o 10 per cento del totale dei pazienti seguiti e ciò è ampiamente confermato anche dalla nostra esperienza degli ultimi dieci anni. Infine i sintomi per i quali si decide di intervenire sedando il malato devono essere rigorosamente «refrattari»; devono cioè essere intrattabili con i comuni farmaci che non alterano lo stato di coscienza. Ci sentiamo di dire che oltre ai farmaci ogni misura terapeutica nel senso più pieno del termine deve essere tentata prima di considerare realmente «refrattario» un sintomo; se questo è vero per i sintomi fisici lo è ancora di più per quelli psichici, originati o esacerbati dall’abbandono terapeutico e umano nel quale si trovano spesso i malati in fin di vita. «La richiesta di farla finita – scriveva Paolo Cattorini – è per lo più una travestita domanda di conforto: per l’incuria e il silenzio in cui mi avete confinato, chiedo di venir sottratto a patimenti che, da solo, non riuscirei a sopportare». Il triste caso di Piergiorgio Welby ci permette infine di fare un esempio di quanto sia fondamentale l’esattezza terminologica nel trattare argomenti così complessi e ricchi di implicazioni etiche: si è letto più volte che la sedazione farmacologica sarebbe stata utilizzata, nel caso in questione, come mezzo per ottenerne la morte. Le cose stanno diversamente; e ancora una volta «assolvono» la sedazione farmacologica: Welby è morto per l’insufficienza respiratoria provocata dalla sospensione della respirazione artificiale. Dal momento che tale manovra avrebbe inevitabilmente provocato l’atroce sofferenza di una morte accompagnata dalla sensazione di soffocamento, il paziente è stato sedato profondamente prima del distacco del respiratore. Il sonno ha preceduto la morte, non l’ha causata; solamente eliminando i problemi che sempre derivano dalla coscienza ha fatto cadere con essa le ultime primordiali difese oltre le quali è rimasto solo un volto da contemplare nella sua fragilità. Tornano alla mente le parole di Lévinas: «L’assoluta nudità del volto, questo volto assolutamente indifeso, senza schermo, senza abito, senza maschera, è tuttavia ciò che si oppone al mio potere su di esso». Ferdinando Cancelli 10 zio apostolico nella struttura, insieme ad alcune rappresentanze di operatori sanitari medici e paramedici e di pazienti, ha avuto luogo la celebrazione della S. Messa. È seguita una lunga visita a tutti i reparti (medicina, chirurgia, ginecologia e ostetricia, urologia) ove il Vescovo è sostato benedicente avendo per ogni sofferente parole di conforto e di augurio. Dopo una breve pausa negli uffici della Direzione è seguito un rinfresco e la visita si è conclusa. Le nostre più vive congratulazioni alla proprietà per l’eccellenza delle strutture alberghiere e la ricca dotazione dei servizi. Grande la disponibilità del personale che vi presta la sua opera. Ad maiora! Visita pastorale a Villa Pia M artedì 28 aprile scorso, accolto dalla squisita cortesia delle sorelle Bottari, titolari della Casa di Cura e dal Dr. Massimo Cicchinelli responsabile medico, S. E. Mons. Armando Brambilla Vescovo Ausiliare di Roma e delegato per la Pastorale Sanitaria negli Ospedali, ha fatto visita alla clinica Villa Pia. Nella raccolta e suggestiva cappella, alla presenza del cappellano Don Luis Fernando Yepes Acevedo concelebrante e delle suore della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo che prestano il loro servi- Dr. Sergio Mancinelli La mia vita appartiene a Dio Dopo la visita del Vescovo alla clinica Guarnieri E ccellenza Reverendissima non è solo il dovere la ragione di questa lettera di ringraziamento, ma è la certezza di averLa avuta come ospite illustre nella nostra comunità sanitaria, che per anni, unico presidio ospedaliero nella parte sud orientale della città di Roma, l’hanno contraddistinta e caratterizzata. È a fianco di persone come Lei , che partecipano attivamente e divulgano con la propria testimonianza «la presenza e l’azione della Chiesa per recare luce e la grazia del Signore a coloro che soffrono e a quanti ne prendono cura» che troviamo la forza per continuare nella nostra missione. È stata una bella esperienza che tutti hanno vissuto intensamente. La ringrazio sentitamente. Il 24 luglio voi mi deste la vita Io l’ho vissuta sempre In vostra compagnia E spero di finirla con voi E così sia. Grandi soddisfazioni e gioie Mi avete concesso Anche se nel declino Ove mi trovo adesso Qualche affanno mi angustia Forse perché ho peccato E spesso son costretto Ad essere ammalato. Son contento lo stesso Perché so che il mio io Un giorno potrà essere Vicino a voi Mio Dio. Aldo Longo Bifano dott. Domenico Zerella 11 nche quest’anno, così come ormai avviene da ben dodici anni, domenica 17 maggio la famiglia della Pastorale Sanitaria si è ritrovata, sempre numerosa, presso il teatro della parrocchia della Natività in Via Gallia per l’attribuzione del premio «Il Buon Samaritano». In apertura S.E. Mons. Armando Brambilla, ideatore del «Premio», ha rivolto il suo saluto ai presenti sottolineando che il riconoscimento del «Buon Samaritano», in questi 12 anni, ha premiato un folto numero di persone appartenenti a diverse categorie (sacerdoti, suore, infermieri, volontari, gruppi ed associazioni, ammalati, familiari, alla memoria). In tutti i destinatari è stata evidenziata una innata vocazione a donarsi agli altri in silenzio, senza fare chiasso e soprattutto senza mai pubblicizzare il loro operato in favore dei più sfortunati, degli ultimi e degli infermi, sempre cercando di lenire ed alleviare i tanti mali che affliggono l’umanità. Per il rituale intrattenimento, padre Carmelo Vitrugno – cappellano dell’ospedale S. Pertini – ha invitato due giovani ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità, appassionati di musica: Giampaolo ed Antonella. Per oltre un’ora ci hanno allietato con belle melodie esibendosi in vari brani di musica sacra (una particolare «Ave Maria») e di musica leggera con canzoni di Celentano, Matia Bazar, etc. Le ottime doti canore dei giovani artisti hanno riscosso il gradimento del nutrito pubblico che ha tributato loro lunghi applausi. Dopo l’intervallo musicale si è entrati nel vivo della consegna dei riconoscimenti con la collaborazione della giornalista Maria Grazia Giordano, presidente dell’associazione S.O.S. Alzheimer, che si è gentilmente prestata al ruolo della «presentatrice». Per i cappellani è stato premiato Mons. Giacomino Feminò del complesso Columbus che si è sempre prodigato senza risparmio per chiunque fosse bisognoso di aiuto. Per i medici la targa è stata attribuita «alla memoria» al dr. Stefano Ricciardi che visse sempre la sua professione con spirito missionario ed al dr. Michelangelo Malacrinis che nell’ambito della Caritas ha prestato le sue cure agli immigrati assumendo anche l’incarico di re- A sponsabile per l’assistenza ai malati di AIDS. Ora è direttore del centro di diagnosi e cura dell’ipertensione dell’ospedale S. Giovanni-Addolorata. È stata poi la volta dei volontari che si spendono per i malati assistendoli con discrezione, amorevolezza, costanza ed entusiasmo: Brixia Aprile (Arvas), Jole Cevoli, Adriana Rosini e Rossana Di Paolo (Arvas ospedale S. Giovanni-Addolorata), Maria Romana Rinaldi (Opera ospedaliera S. Vincenzo de’ Paoli), Iolanda Farina (ospedale S. Pertini), Gabriella Bossi e Lucia Ferretti (ospedale G. B. Grassi di Ostia), Nino Pinna (Ministro della Comunione ospedale S. Eugenio), Maria Palumbo (Arvas e catechista parrocchia S. Monica di Ostia), Serena Pagliari (Arvas ospedale S. Eugenio) ed infine Antonio Grottoli, ex carabiniere che più volte si è fatto carico, con generosità, di varie problematiche inerenti la salute psico-fisica di persone ospiti di ospedali e case di cura. Anche gli infermieri Maria Antonietta Nardella (ospedale S. Eugenio) ed alcune appartenenti alla Scuola Convitto Regina Elena (SCRE) del Policlinico Umberto I, hanno ritirato la targa loro assegnata per l’impegnativo lavoro svolto con i malati svolgendo la loro professione con grande preparazione e generosità. Per i gruppi il premio è stato attribuito ai «volontari ed operatori per i malati di Alzheimer e di demenza» (O.M.A.) per 1’impegno, la dedizione e la competenza dimostrate. Questi operatori hanno potuto svolgere la loro attività grazie all’iniziativa dell’associazione SOS Alzheimer ed alle suore del centro Sacro Cuore che mettono gentilmente a disposizione i locali per l’intrattenimento dei pazienti e dei loro familiari. In un clima festoso si è conclusa la cerimonia con la benedizione di S.E. Mons. Brambilla e con il suo incitamento a rendere credibile la parola di Gesù con il nostro comportamento. Purtroppo non vi è stato il solito «rinfresco» delle suore. Crisi economica... docet!!! Speriamo che per riparare sia più consistente e fornito il prossimo anno. Maria Adelaide Fioravanti sto ripetutamente, lungo gli anni, perché non si potesse fare nulla per salvare almeno qualcuna di quelle tredicimila vite umane abortite ogni anno negli ospedali di Roma. Davanti ad una tragedia così immane come posso io rassegnarmi alla passività totale? Non sono forse anch’io un essere umano chiamato per natura alla solidarietà? E la carità di Cristo forse non brucia? II mio essere sacerdote non mi dona, in aggiunta, nessuna spinta? Perché mai quei cappellani ospedalieri (con cui ne parlai) dissero che non si può far niente? E come è possibile, allora, che già esistono CAV interni in tanti ospedali d’Italia? Perché solo a Roma sarebbe impossibile fare ciò che è stato fatto altrove? Proprio a Roma! Roma che è il centro della cristianità universale! Proprio a Roma dove c’è il Papa, suo Ve- I parte: anni 1998-2000 Al 31-12-08 risulta che il nostro CAV ha aiutato, seguito e salvato ben 220 bambini con le loro mamme. È un dato che ci riempie di gioia oggi, inimmaginabile all’atto della fondazione. Infatti basterebbe un solo bambino salvato dall’aborto per regalarci una gioia intramontabile, direi eterna. Nel 1990 ebbi l’occasione di collaborare con il CAV di Palermo e rimasi colpito dal gran numero di volontari e dalla passione che animava quelle persone. A partire da quel momento la mia sensibilità restò «toccata» (per grazia di Dio) dall’insuperabile fascino del mistero della vita. I film che mi fecero vedere e poi il libretto «La vita umana prima meraviglia» risultarono per me come una impronta in- Il Centro di aiuto alla vita Eur S. Eugenio compie 10 anni - Ecco la storia scovo, che è così fortemente appassionato e martellante sul tema dell’aborto! Appena fui nominato dal Vescovo per la prima volta coordinatore della Cappellania di un ospedale romano immediatamente mi misi all’opera per fondare un CAV interno all’ospedale. Tanto più che mi accorsi che a Roma mancava anche un sufficiente numero di CAV sparsi sul territorio. Era il 28 settembre 1998 quando con la prima volontaria andai a parlare con Olimpia Tarzia, segretaria nazionale del Movimento per la Vita, per chiedere a lei aiuto e consiglio. Non si può pensare che una città con più di tre milioni di abitanti possa essere servita sufficientemente da un solo CAV sul territorio, per quanto eroico e lodevole possa essere. delebile, un incontro tangibile con la straordinaria bellezza e grandezza di Dio presente nello sviluppo dell’embrione e del feto. Chi mai avrebbe potuto bloccare quel mirabile e formidabile sviluppo dell’embrione? Cioè quel prodigio talmente grande che supera le nostre capacità ricettive e che già possiede l’infinita dignità di un essere umano. Chi mai (pensavo) avrebbe potuto bloccare Dio in persona che fa sviluppare un essere umano e irripetibile nell’arco dell’intera vita dell’Universo? Se Cristo Signore nostro ci ha comandato di aiutare i poveri, l’embrione e il feto sono in assoluto i più poveri e indifesi di tutti, perché non possono neanche parlare. Operando come cappellano negli ospedali di Roma fin dal 1994, mi ero chie14 può dare l’avviso a un loro incontro. Le donne più sensibili al problema si passano facilmente voce l’una con l’altra: è questo l’apporto più prezioso. Diffondere la voce anche presso tutti i volontari già presenti in ospedale affinché ognuno, a sua volta, possa diffondere la voce presso amici e parenti. In questo modo sono arrivate a me decine di richieste di adesione a causa del fatto che l’aborto è profondamente sentito, come una sconfitta, specie da chi lo ha subito sia spontaneamente che volontariamente. Il problema non è consistito nella scarsità delle adesioni, ma al contrario nell’abbondanza di esse e quindi nel sapere discernere e accettare solo coloro che rifiutano l’aborto con decisione, anche nella eventualità di figli handicappati e che, cosa per me importante, in aggiunta abbiano avuto una sufficiente militanza in qualche gruppo cattolico che abbia donato loro delle sicure basi di fede e di dottrina. Il campo di attività è delicato, e almeno alla partenza ho ritenuto necessario avere persone assolutamente sicure. In primo luogo dunque ho fatto un paziente lavoro di lungo colloquio con ogni singolo aspirante volontario. Raccolti i primi volontari affidabili ho iniziato a fare riunioni di formazione allo scopo anche di farli conoscere fra loro. Sia per i percorsi burocratici, sia per la formazione dei volontari, ci sono stati molto vicini e stupendamente premurosi il Movimento per la vita romano e la segreteria nazionale del Movimento. Come sede avemmo per circa un anno l’alloggio dei cappellani: si tratta di fare ogni due In genere fa paura il pensiero di dover sfidare la legge sull’aborto all’interno proprio di un ospedale pubblico ove si praticano con disinvoltura migliaia di aborti l’anno. Per questo motivo si preferisce in genere non esporsi a rischi e pericoli. La realtà, invece, è per nostra fortuna opposta: è precisamente la legge dello Stato sull’aborto che prevede la collaborazione con associazioni di volontariato; allo scopo di tutelare la vita del nascituro e di evitare che l’aborto (I.V.G. ) diventi un mezzo anticoncezionale. Dunque non si deve avere nessun timore infondato, perché un piccolo CAV nascente può essere tutelato e favorito da una forte organizzazione che è il Movimento Nazionale per la Vita e la Federazione nazionale dei CAV. La vita è un dono. Come è nato il CAV nell’ospedale S. Eugenio La fondazione del CAV interno a un ospedale è sì impegnativa ma meno difficile di quanto si possa immaginare. Lo dico per esperienza vissuta. Infatti è sicuro che in un ospedale vi sono molti medici, infermieri e dipendenti vari che sono obiettori e che in una qualche misura hanno sul problema dell’aborto una sensibilità più spiccata rispetto alla massa. È sufficiente iniziare, senza grandi pretese, con un non grande numero di volontari interni e anche di volontari esterni. Bisogna diffondere la voce nei gruppi e movimenti delle parrocchie vicine all’ospedale. Un qualsiasi frequentatore di un gruppo 15 Ogni bimbo è un capolavoro di Dio. re un locale interno all’Ospedale, ma i locali erano inesistenti e contesi ferocemente dai primari. Quindi iniziammo a spargere voce che cercavamo un appartamento gratuito (o quasi) all’Eur, ove i prezzi degli affitti sono alle stelle! La Provvidenza ci fece trovare un piano terra di proprietà di un condominio di un palazzo, grazie al suggerimento di un socio, Salvatore Terlizzi, che abitava proprio in quello stabile. E così si fortificò l’associazione con l’aiuto anche della parrocchia dello Spirito Santo e della benedizione di S.E. Mons. Rino Fisichella, vescovo ausiliare del Settore Sud di Roma che venne a inaugurare la nuova sede nell’anno duemila. Nel giugno del 2000 arrivò la benedizione solenne non di un vescovo ma del Signore stesso in persona: fu eletta alla carica di presidente del CAV la dott. ssa Miranda Lucchini. Miranda era da poco andata in pensione e grazie al suo tempo libero e al suo enorme bagaglio di esperienze accumulate nella sua vita lavorativa di dirigente amministrativo della ASL Roma C, trasformò in pochi anni il CAV nascente in una struttura di grande serietà professionale nonché di importanti collegamenti con molte strutture pubbliche e private di Roma, del Lazio e nazionali; e con le fondazioni bancarie. I bambini salvati sono diventati centinaia, con la nostra gioia eterna. Ma a questo punto lascio la parola a Miranda nella prossima puntata. Don Nicola Mariangeloni mesi l’incontro del Consiglio Direttivo; infatti non c’è assolutamente bisogno di organizzare turni all’interno della sede: è sufficiente diffondere il numero del cellulare del presidente e dei soci che sono dipendenti dell’ospedale e quindi reperibili immediatamente per ogni urgenza. Inoltre ricevemmo dal parroco della parrocchia dello «Spirito Santo» il permesso di usare frequentemente i locali della parrocchia. Durante il 1999 venimmo a volte chiamati dai medici anestesisti che in ambulatorio fanno una visita a quelle donne che giorni dopo devono affrontare l’intervento di aborto. Scrivemmo lo statuto, l’Atto giuridico di fondazione dell’Associazione (il 31 maggio), la Convenzione tra il CAV e l’Azienda USL che permette il libero accesso in ospedale ai soci del CAV e ottenemmo la accettazione del nostro ingresso nella fondazione nazionale dei CAV. Tutti ci auguriamo, a partire dal Papa, anzi, a partire dal Signore e da Maria SS.ma Annunziata, che possa diffondersi negli ospedali di Roma e sul territorio questo volontariato così prezioso. Successivamente sentimmo l’esigenza di radicare il CAV sul territorio dell’EUR coinvolgendo alcune parrocchie vicine, qualche Istituto religioso e altre realtà e aggregazioni laicali. Per questo motivo c’era assolutamente bisogno di avere una sede esterna all’ospedale, perché l’alloggio dei cappellani e la cappella ospedaliera erano inadeguate a ricevere gestanti per colloqui con psicologi o con le volontarie. Provammo pure a chiede- Cappellano Coordinatore Ospedale S. Eugenio 16 La Che cosa è la pillola Ru 486 Ru 486 non è una medicina. Non cura alcuna malattia. Non aiuta la vita, la stronca sul nascere perché è una pillola abortiva. La Ru 486 non è amichevole nei confronti delle donne. Non realizza in alcun modo un aborto indolore, posto che sia possibile realizzarlo. È al contrario un sistema abortivo altamente controverso anche dal punto di vista della sua sicurezza ed efficienza clinica. Più importante ancora, la pillola abortiva tende a deresponsabilizzare il sistema medico, e a ridurlo a dispensario di veleni, e lascia sole le donne, inducendole a una sofferenza fisica e psichica pro- e perché esserne contrari lungata e domestica, molto simile alle vecchie procedure dell’aborto clandestino. Per queste ragioni etiche siamo contrari alla pillola Ru 486 e alla sua introduzione in Italia, anche perché la sua utilizzazione è incompatibile con le norme della legge 194/1978. E pensiamo che occorra fare di tutto, ciascuno nelle forme pertinenti il proprio ruolo, per impedirla. Jerome Lejeune, noto genetista scopritore della sindrome di Down, definì la Ru 486 come un «pesticida umano». La carità La vita è come er sole La carità è come ‘na fiammella de ‘na cannela, a tutti da’ la luce senza distingue er bono da chi è truce, è silenziosa e nun s’atteggia a stella, e nun pretenne manco d’esse amata fino a chè nun s’è tutta consumata. Come er sole ci ha fatto er creatore, che quanno nasce all’arba è frizzantino, a mezzogiorno è er gran trionfatore, poi lemme lemme ariva er ponentino, quanno senti sonà l’Ave Maria ariva er bujo che te porta via. Elio Cesari Elio Cesari (detto Cesaretto) (detto Cesaretto) 17 E all’etica dei principi e dei valori. «Il male e il bene non sono problemi scientifici, ma resta il fatto che comunque l’etica occupa un posto ben preciso accanto, dentro e al di là dell’aspetto scientifico». «Corpore et anima unus». Questa la visione antropologica cui fare riferimento per fornire risposte cristiane alle problematiche poste dall’incedere tumultuoso e incontrollato delle conquiste biomediche. La supremazia morale che proviene dagli insegnamenti del Vangelo, abilita la Chiesa a compiere il suo dovere apostolico allorché si pone in coraggioso confronto con il tecnicismo laico e i pronunciamenti bioetici suggeriti da credi diversi, «promuovendo la “cultura della vita”» che si contrappone alla «cultura della morte». L’etica universale e il Magistero, sollecitano i medici e i ricercatori ad una visione olistica dell’uomo e li invitano ad acquisire un sempre più approfondito sapere capace di esprimere una etica medica che consigli interventi terapeutici adatti a porre rimedio non solo ai danni fisici ma anche a quelli spirituali. Piena e ammirata accoglienza all’aggiornamento delle conoscenze cliniche, delle audaci esperienze della ricerca scientifica e tecnologica, ma anche assai auspicabile riappropriamento del senso morale e religioso della vita, perché il primato dell’etica possa sempre più imporsi alle coscienze individuali e collettive. Ancora una volta la saggezza e la elevata dimensione pastorale di Giovanni Paolo II «il grande» si esprimono attraverso la Lettera enciclica «Fides et ratio»: «La Chiesa, infatti, permane tica, bioetica e morale. Espressioni frequenti nelle tematiche comunicative mass mediali, direi quasi abusate, ma non tradotte spesso in comportamenti. Questi termini nella loro accezione, hanno significati differenti, essendo infatti «l’etica” una riflessione basata su motivi razionali e «la morale” una riflessione sostenuta da premesse di fede. Le etiche a cui noi dobbiamo fare riferimento sono «l’etica professionale» che esprime i comportamenti che caratterizzano una attività professionale e la «bioetica» che prende in considerazione «le questioni etiche, giuridiche, filosofiche e teologiche che sono poste o dovrebbero essere poste nella società per effetto dello sviluppo delle scienze biomediche». Il buon senso e la sapienza del cuore ci inducono a delle considerazioni di contenuto spirituale, morale e religioso. Il progredire delle bioscienze, i progressi significativi delle biotecnologie, rendendo sempre più attuali e pressanti le responsabilità che investono la categoria professionale dei medici, dovrebbero suggerire una estrema prudenza affinché l’uomo non scada ad oggetto di ricerca, non corra pericoli di vita o peggiori il suo male e sia rispettato per quello che è, cioè «“persona” dal primo istante del suo concepimento fino all’ultimo istante del suo alito vitale». Questi motivi impongono l’attuazione di un codice etico rigoroso, affinché gli interessi particolari economici e ideologici non assumano un significato negativo e contrario alla sacralità dell’uomo. Diamo dunque spazio all’etica delle virtù, Cenni sulle problematiche della bioetica 18 nella più profonda convinzione che Fede e Ragione si recano un aiuto scambievole esercitando l’una per l’altra una funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a progredire nella ricerca e nell’approfondimento». E ancora rivolgendosi agli scienziati: «...il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a stupirci; nell’esprimere la mia ammirazione e il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l’umanità tanto deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell’orizzonte sapienziale in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche si affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica e imprescindibile della persona umana». Dalla «Medicina Pastoralis in usum Confessariorum» del 1891, attraverso deontologie mediche susseguitesi nel tempo, al concetto di bioetica chiusa al trascendente, che ha come espressione esplicativa «Il nuovo paradigma» accettato nell’ambito delle maggiori organizzazioni internazionali e che fa riferimento ad una nuova spiritualità senza Dio e tutta proiettata verso il benessere egoistico dell’uomo (lotta alla sovrappopolazione, al degrado ambientale, all’industrializzazione, agli integralismi ecc); e a quello di bioetica aperta «alla piena comunicazione di Dio, Padre Onnipotente che realizza in noi la verità di suo Figlio per la sua Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione. È la bioetica aperta che colma tutte le nostre aspirazioni portandoci per la via che è Cristo, nella pienezza dell’amore del Suo Spirito. L’Etica e la Bioetica cattoliche sono il camminare in noi di Cristo verso suo Padre attraverso la Sua morte e resurrezione, nel- l’amore dello Spirito Santo. La Bioetica sarà così il camminare in noi dello Spirito per le vie delle scienze della vita e della salute» (J.L. Barregan). Il nostro auspicio più convinto è che l’Etica e la Bioetica, in particolare le applicazioni pratiche biomediche, siano basate sui fondamenti intellegibili dell’ordine morale e universale, scritto nel cuore dell’uomo da Dio stesso. Dr. Sergio Mancinelli Pagine di vita Ogni giorno è Una “Pagina nuova” Dove scorre Veloce la vita. Sono gioie, tristezze, Dolori… Emozioni, speranze Attese, illusioni… È una trama D’Amore… Un “Poema” Di storie infinite … la vita! Pur se brutta o bella O sbiadita È un dono d’Amore La vita! Ogni vita è un libro stampato Un ricamo su “Pagine d’oro” che una mente divina ha pensato, con cuore di Padre ha guidato! Beato chi l’ha capito E, serenamente, la sua vita a “LUI” ha affidato Santina Lamia 19 È nata l’Associazione “Scienza & Vita” Alleati per il futuro dell’uomo «Liberi per vivere» L’ Solo amando la vita di ciascuno fino alla fine c’è speranza di futuro per tutti. no nelle condizioni più gravi ciò che la persona trasmette in termini affettivi, simbolici, spirituali ha una straordinaria importanza e tocca le corde più profonde del cuore umano. Certo, la possibilità di levar la mano contro di sé, di rinunciare intenzionalmente a vivere, c’è sempre stata nella storia dell’umanità: ma in nessun popolo è esistita la pretesa che questa tragica possibilità fosse elevata al rango di diritto, di un «diritto di morire», che il singolo potesse rivendicare come proprio nei confronti della società. La persona umana, del resto, si svi- uomo è per la vita. Tutto in noi spinge verso la vita, condizione indispensabile per amare, sperare e godere della libertà. Il dramma della sofferenza e la paura della morte non possono oscurare questa evidenza. Chi sta male, infatti, chiede soprattutto di non essere lasciato solo, di essere curato e accudito con benevolenza, di essere amato fino alla fine. Anche in situazioni drammatiche, chiedere la morte è sempre l’espressione di un bisogno estremo d’amore; solo uno sguardo parziale può interpretare il disagio dei malati e dei disabili come un rifiuto della vita. Persi- I due precetti dell’amore meditare e ricordare, praticare e attuare. L’amore di Dio è il primo come comandamento, ma l’amore del prossimo è primo come attuazione pratica. Colui che ti dà il comandamento dell’amore in questi due precetti, non ti insegna prima l’amore del prossimo, poi quello di Dio, ma viceversa. Siccome però Dio tu non lo vedi ancora, amando il prossimo ti acquisti il merito di vederlo; amando il prossimo purifichi l’occhio per poter vedere Dio, come chiaramente afferma Giovanni: Se non ami il fratello che vedi, come potrai amare Dio che non vedi? (cfr. 1 Gv 4, 20). Se sentendoti esor- È venuto il Signore, maestro di carità, pieno egli stesso di carità, a ricapitolare la parola sulla terra (cfr. Rm 9, 28), come di lui fu predetto, e ha mostrato che la Legge e i Profeti si fondano sui due precetti dell’amore. Ricordiamo insieme, fratelli quali sono questi due precetti dell’amore. Essi devono esservi ben noti e non solo venirvi in mente quando ve li richiamiamo: non si devono mai cancellare dai vostri cuori. Sempre in ogni istante abbiate presente che bisogna amare Dio e il prossimo: Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente; e il prossimo come se stessi (cfr. Mt 22, 37. 39). Questo dovete sempre pensare, 20 luppa in una fitta rete di relazioni personali che contribuiscono a costruire la sua identità unica e la sua irripetibile biografia. Troncare tale rete è un’ingiustizia verso tutti e un danno per tutti. Teorizzare la morte come «diritto di libertà» finisce inevitabilmente per ferire la libertà degli altri e ancor più il senso della comunità umana. Per chi crede, poi, la vita è un dono di Dio che precede ogni altro suo dono e supera l’esistenza umana; come tale non è disponibile, e va custodito fino alla fine. Esistono malattie inguaribili, ma non esistono malattie incurabili: la condivisione della fragilità restituisce a chi soffre la fiducia e il coraggio a chi si prende cura dei sofferenti. La vera libertà per tutti, credenti e non credenti, è quella di scegliere a favore della vita, perché solo così è possibile costruire il vero bene delle persone e della società. Per questo sentiamo di dover dire con chiarezza: tre grandi SÌ: • SÌ alla vita • SÌ alla medicina palliativa • SÌ ad accrescere e umanizzare l’assistenza ai malati e agli anziani tare ad amare Dio, tu dicessi: Mostrami colui che devo amare, io non potrei che risponderti con Giovanni: Nessuno mai vide Dio (cfr. Gv 1, 18). Ma perché tu non ti creda escluso totalmente dalla possibilità di vedere Dio, lo stesso Giovanni dice: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio» (1 Gv 4, 16). Tu dunque ama il prossimo e guardando dentro di te donde nasca quest’amore, vedrai, per quanto ti è possibile, Dio. Comincia quindi ad amare il prossimo. Spezza il tuo pane con chi ha fame, introduci in casa i miseri senza tetto, vesti chi vedi ignudo e non disprezzare quelli della tua stirpe (cfr. Is 58, 7). Facendo questo che cosa otterrai? «Allo- ra la tua luce sorgerà come l’aurora» (Is 58, 8). La tua luce è il tuo Dio, egli è per te la luce mattutina perché verrà dopo la notte di questo mondo: egli non sorge né tramonta, risplende sempre. Amando il prossimo e prendendoti cura di lui, tu cammini. E dove ti conduce il cammino se non al Signore, a colui che dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente? Al Signore non siamo ancora arrivati, ma il prossimo l’abbiamo sempre con noi. Aiuta, dunque il prossimo con il quale cammini, per poter giungere a colui con il quale desideri rimanere. Dai “Trattati su Giovanni” di sant’Agostino, vescovo e tre grandi NO: • NO all’eutanasia • NO all’accanimento terapeutico • NO all’abbandono di chi è più fragile Come cittadini sappiamo che la nostra Costituzione difende i diritti umani non già come principi astratti, ma come il presupposto concreto della nostra vita che è nello stesso tempo fisica e psichica, privata e pubblica. Mai come oggi la civiltà si misura dalla cura che, senza differenze tra persone, viene riservata a quanti sono anziani, malati o non autosufficienti. Occorre in ogni modo evitare di aggiungere pena a pena, ma anche insicurezza ad insicurezza. Chiediamo che le persone più deboli siano efficacemente aiutate a vivere e non a morire, a vivere con dignità, non a morire per falsa pietà. (Tratt. 17, 7-9: CCL 36, 174-175) 21 C apitano Uncino – è stato lui con straordinaria ironia a battezzarsi così – non s’aspettava che il Santo Padre si avvicinasse, ma quando la moglie gli ha detto: «Giampiero, è il Papa che ti sta accarezzando», lui ha sorriso come solo sa fare, muovendo metà della bocca. La sindrome di Locked-in consente a Giampiero Steccato soltanto di muovere il mignolo della mano sinistra e un po’ le labbra, e non lascia speranze. «Santità – ha detto la moglie Lucia – mio marito non può vederla, ma sente e capisce», allora il Papa ha assicurato che lo affiderà nella sua preghiera alla Madonna e pregherà per tutta la sua famiglia, per la moglie e per i figli Daniele e Silvia che negli occhi portano scritto un amore straordinario per il loro papà a cui resta soltanto un mignolo per ricambiare questo affetto. Giampiero Steccato ritorna a Roma dopo dieci anni. Proprio a Roma fu colpito dal male. Ma quando il Papa ha chiesto alla signora Lucia cosa li abbia spinti a venire, lei ha risposto: «Per festeggiare in modo degno i nostri 35 anni di matrimonio». Il Papa lo ha accarezzato ancora poi ha preso la lettera che quest’uomo ha dettato servendosi di un linguaggio fatto di gesti. Muovendo metà bocca e sfiorando con il mignolo della mano sinistra un sensore laser, Capitan Uncino ha scritto queste parole al Papa: «Con queste poche righe, vorrei trasmetterle quello che il mio corpo rischia di celare: ho voglia di vivere, sono entusiasta e curioso, amo la natura e il mondo in cui ho la fortuna e il privilegio di esistere. Sono consapevole – dice ancora nella lettera – che la mia fortuna è frutto della volontà del Signore e ringrazio infinite volte per quanto mi viene concesso, confido proprio nel Signore e anche nella Sua persona, perché spero che la Sua influenza possa permettere all’umanità un futuro migliore, la pace per chi vive in guerra, un po’ di pane per coloro che hanno fame e un po’ di solidarietà in una società troppo individualista». Giampiero Steccato, o Capitan Uncino per quell’occhio che il morbo gli ha chiuso, è fatto così: «Non chiede mai per sé», come dicono pure gli amici che lo hanno accompagnato a Roma. Gli sta vicino l’amico di sempre, Giovanni Badini, e il cardiologo Ugo Gazzola, ex primario a Piacenza e adesso volontario con la Croce Rossa Italiana. Ad accompagnarlo in questo viaggio, che nelle sue condizioni gli è spesso sembrato irrealizzabile come un sogno, anche il vescovo di Piacenza monsignor Gianni Ambrosio. Giampiero Steccato non può muoversi senza una sedia a rotelle particolarmente attrezzata ed ha bisogno costante di alcune apparecchiature. Anche il figlio è raggiante: «A papà non è parso vero finché non ci siamo imbarcati su una aereo messo a disposizione dall’Aeronautica Militare». L’Arma Azzurra non è nuova a queste iniziative umanitarie. Lo ha preso in cura l’equipaggio di un C-27J della 46esima Brigata Aerea di Pisa: «Sono stati straordinari – dice il ragazzo –. Siamo commossi per quanto hanno fatto per noi. La gente quando vede il mio papà, per le condizioni in cui si trova dimostra compassione e spesso guarda dall’altra parte. Sull’aereo, invece, hanno dimostrato affetto». Giampiero sullo scialle di lana che lo protegge porta due distintivi dell’Aeronautica, dono dell’equipaggio. Quando il Papa lo ha lasciato, ha detto alla moglie: «Non pensavo che mi accarezzasse». Con il mignolo e metà bocca, ma si è fatto capire. La carezza del Papa a «Capitan Uncino» Gianni Ruggiero 22 TESTIMONIANZA Testimonianza E cco, nella sua visita alle stanze degli ammalati don Edward è giunto alla porta di papà. Entra da benvenuto e subito domanda: «Quanti anni ha?» «Novantanove. È entrato nel suo centesimo anno». «Che Dio lo benedica! E la mamma? Da quanto tempo l’avete persa?» «La mamma? Ha novantasei anni ed è ancora molto attiva e dinamica». A questo punto il volto di don Edward esprime vera meraviglia, quasi una beata costernazione, e lui m’invita a scrivere su papà un breve contributo per Diaconia. Non posso raccontare avventure fantastiche a tinte sgargianti, ma certo è stata una grande avventura, una lotta fra la vita e la morte, quella che papà ha combattuto e vinto, operato con protesi all’anca alla sua ragguardevole età. Lo vedo paziente nel letto. Tutte le infermiere lo vezzeggiano: «È un amore», dicono, mentre lui porge le dita per farsi misurare la glicemia, si lascia cercare le vene indurite per le flebo, collabora a rigirarsi nel letto di qua e di là, accetta con sopportazione di deglutire una pasticca dopo l’altra. Lo ricordo giovane, attraente, pieno di vita. I colleghi avvocati gli chiedevano consiglio per le loro cause, la mamma lo reclamava con affetto imperioso: «Carlo, Carlo!». esù, Nostro Divin Salvatore, che benedicente accogli coloro che varcano la nostra soglia per chiedere aiuto: Fai che i nostri cuori siano sempre Pronti ad accoglierli, la nostra mente illuminata per capirli, le nostre mani capaci di aiutarli. Fai che in ognuno di loro vediamo il tuo volto Sofferente rivolto a noi dicendo: «Ho sete». Fai che alla fine delle nostre fatiche Possiamo accettare la tua volontà senza esaltarci ne deprimere. Fai che nei momenti di sconforto sappiamo Chinare la testa e ripetere con Te «Abba, Padre mio! Non ciò che io voglio, ma quello che tu vuoi». Vincenzo Giulio Bilotta MEDICO È stato l’atteggiamento di papà che mi ha reso intimamente forte, capace di sopportare le vicissitudini dell’esistenza, perché papà mi ha fatto capire e sentire che ero protetta, che ero molto amata. Quest’affetto che ha accompagnato la mia infanzia, espresso in gesti e in parole piene di tenerezza, ma prive di permissività mi ha dato quella sicurezza in me stessa, quella fiducia nel mondo che permette di superare anche delusioni molto gravi. Papà mi leggeva la Bibbia, da bambina, quando non andavo ancora a scuola, e anche così ha gettato delle basi, importanti per il mio futuro. Ora è là, a letto, e nessuno sa quanto potrà recuperare della sua indipendenza. Oggi però, quando gli ho chiesto se aveva bisogno di qualcosa, mi ha risposto: «Ho bisogno solo del tuo amore». Maria Aurora Salto von Hase Er succo der Vangelo uanno è l’ora d’anna dar Padreterno nun ci annà tutt’ignudo senza gnente, cor rischio de finì drento l’inferno, ma portete ‘n bagajo consistente pieno d’opere bone a li cristiani, ai poveri, ai drogati, ai musurmani. Elio Cesari (detto Cesaretto) TESTIMONIANZA 23 Tribunale Diocesano del Vicariato di Roma Teresa Orsini Doria Pamphilj Lante 15 Maggio 2009 Sessione di chiusura dell’inchiesta diocesana nel Processo di Beatificazione e Canonizzazione della Serva di Dio Fondatrice delle Suore Ospedaliere della Misericordia to valore della sua testimonianza evangelica, le sue figlie spirituali, le suore ospedaliere della Misericordia, hanno raccolto l’eredità della Serva di Dio, affinché l’eroismo e il fascino della loro madre rifulgessero anche attraverso la testimonianza della loro vita, impegnate ad incarnarne il carisma spirituale. La Serva di Dio Teresa Orsini nacque a Gravina in Puglia, il 23 marzo 1788, giorno di Pasqua di Resurrezione, primogenita di Domenico, principe di Solofra, e della principessa Faustina Caracciolo. Fu battezzata lo stesso giorno al medesimo fonte battesimale della cattedrale di Gravina, dove più di cento anni prima era stato battezzato un suo prozio, Vincenzo Maria Orsini, il futuro Papa Benedetto XIII. All’età di due anni, Teresa rimase orfana di padre, mentre sua madre Faustina era in attesa del secondo figlio. Per ricevere una preparazione adeguata al suo stato aristocratico e al suo rango di principessa, ben presto la piccola Teresa venne inviata a Napoli, capitale del Regno, al fine di consentirle di studiare nel collegio annesso al monastero della Sapienza. La presenza a Napoli dei nonni materni poteva garantire alla bambina un ambiente ricco di affetto e soprattutto sicuro, nella difficile congiuntura politica del momento, a motivo dei rivolgimenti europei che seguirono alla rivoluzione francese e in concomitanza con l’avvento al potere di Napoleone. Il 15 maggio 1801 Teresa ricevette il sacramento della Confermazione, e nei primi mesi del 1802 i suoi parenti pensarono all’opportunità di un trasferimento del- Altezze, Eccellenze, Distinte Autorità, Signore e Signori! Il mio cordiale saluto agli Eccellentissimi membri del Sovrano Militare Ordine di Malta e del Corpo diplomatico, agli eccellentissimi familiari della Serva di Dio delle famiglie dei Principi Orsini e Doria Pamphilj, alle carissime suore ospedaliere della Misericordia. Il mio vivo ringraziamento va al reverendo Mons. Gianfranco Bella, Vicario Giudiziale del Tribunale diocesano del Vicariato di Roma e a tutti i rev.mi e Ill.mi Officiali del medesimo tribunale, che hanno lavorato alla causa ed oggi ci permettono di condurla a compimento. Infatti si conclude oggi l’inchiesta diocesana del processo di Beatificazione e Canonizzazione della Serva di Dio Teresa Orsini Doria Pamphilj, fondatrice delle suore ospedaliere della Misericordia. L’indagine canonica, condotta secondo la speciale normativa della chiesa, ha rivelato – dall’esame della vita e delle opere della Serva di Dio – il suo luminoso cammino spirituale di grande donna cristiana, sposa, madre, fondatrice, testimone e operatrice di misericordia sulle orme di Cristo, che a Roma ha consumato la sua esistenza terrena. La Serva di Dio Teresa Orsini Doria Pamphilj è una figura straordinaria ed originale nell’agiografia cristiana, che, in certo modo, può essere avvicinata a santa Elisabetta d’Ungheria e a santa Francesca Romana. Perdurando la fama della sua santità e la credibilità della sua opera, che continua e si sviluppa nel mondo, fondata nell’al- 24 emarginati della società del suo tempo. Pur appartenendo ad una delle più nobili famiglie romane, non dimenticò la gente semplice, armonizzando i suoi impegni sociali con la premurosa carità verso i bisognosi. Molte furono le iniziative caritatevoli da lei promosse a favore dei più diseredati: ammalati, abbandonati, donne in difficoltà e pellegrini. Teresa era sempre presente in ogni ambiente di dolore, pronta nel curare con le sue stesse mani le piaghe del corpo e, con la sua comprensione, i disagi dello spirito. Perché la fiaccola di carità da lei accesa non si estinguesse, pensò ed attuò un suo progetto di carità: radunò attorno a sé delle giovani donne che, senza interesse, potessero donare la vita a sollievo dei malati negli ospedali, dove spesso giacevano abbandonati. Nacque così, il 16 maggio 1821, all’interno dell’ospedale San Giovanni in Roma, con regole proprie, la Congregazione delle Suore Ospedaliere della Misericordia. Nel 1825 la principessa era in piena attività benefica e, del tutto immersa nelle opere di carità, correva in modo instancabile da un ospedale all’altro di Roma. Si rendeva conto che le esigenze dei poveri ricoverati negli ospedali di San Giovanni, di San Giacomo in Augusta e di San Gallicano erano molteplici e che le autorità preposte non riuscivano a soddisfarle. Non esitò così, con il pieno consenso del marito, a usare parte delle sue rendite per le opere di carità. Le volontarie che si strinsero intorno a lei si erano ormai ben inserite negli ospedali, in particolare in quello di S. Giovanni, ma era necessario dare un’organizzazione precisa e delle norme adeguate a quel gruppo di donne generose, che tanto si prodigavano nell’assistere gli infermi. Nonostante ciò, Ella non ebbe mai a trascurare la propria famiglia, seguendo con premura materna e tenerissimo affetto i figli nella loro crescita. Ne sono testimonianza le tante lettere che Teresa indirizzò a loro. Un tale sforzo fisico con l’andare del tem- la fanciulla a Roma. Teresa arrivò a Roma a dodici anni per terminare il corso degli studi, prima dalle Orsoline, poi dalle Benedettine di Tor de’ Specchi. Ne uscì ben formata, preparandosi culturalmente ed umanamente ad essere una buona sposa del giovane principe Luigi Andrea Doria Pamphilj, al quale era già stata promessa. Il principe l’aveva conosciuta in occasione di vari ricevimenti ed aveva provato per lei un profondo sentimento di affetto che diventò amore intenso, affascinato dalla grazia e della vivacità della Serva di Dio, per cui, quando si decise a sposarla, lo fece con piena consapevolezza e con tutto l’entusiasmo della sua giovinezza. Espletate le formalità giuridiche e stabilite le modalità tra le due nobili famiglie, il matrimonio fu celebrato il 2 ottobre 1808, a Roma, nella chiesa di Santa Maria in Via Lata. Dal matrimonio, il 13 dicembre 1810 nacque un primo figliolo, che fu chiamato Andrea, seguito a breve distanza da altri tre fratelli. Teresa poteva certamente vantare l’avvenenza fisica, come ben risulta dai ritratti di lei ancora conservati. Ma una bellezza più grande Ella rivelava per quell’aureola di doti morali e spirituali, che la rendevano una donna ammiratissima e molto stimata. Nel 1820 Teresa si ammalò gravemente; ebbe una crisi di «umori del corpo» – come venne diagnosticato dalla medicina del tempo – che la tenne a letto per oltre sei mesi con fortissimi dolori di reumatismo. In quella dolorosa circostanza, oltre alle premure dei suoi familiari, ricevette l’assistenza della Pia Unione delle sorelle della carità di S. Maria ai Monti. Fu per lei un’esperienza preziosa, che le fece nascere nell’animo il desiderio di mettersi al servizio degli altri. Dio le aveva donato tutte le virtù fisiche e morali: era una vera nobildonna, una sposa felice, una madre affettuosa, una donna di carità, impegnata nel sociale, al servizio dei malati, dei diseredati e degli 25 tità cristiana consiste nell’unione con Cristo, Verbo incarnato e nostro redentore, unico mediatore tra Dio e gli uomini e fonte di ogni grazia e santificazione. L’obbligo morale di tendere alla santità è di tutti i membri della chiesa, «per fede creduta indefettibilmente santa... Infatti Cristo, ... proclamato “il solo santo”, amò la Chiesa come sua sposa e diede se stesso per essa, al fine di santificarla» (L.G., 39). Di qui l’obbligo morale di tutti i battezzati di tendere alla santità, in ragione della loro ontologica appartenenza e unione alla chiesa. La santità della chiesa dunque deriva totalmente dalla santità di Cristo e dal suo amore per essa. Lo Spirito Santo – principio e origine della santità della chiesa – è l’anima del corpo mistico, che permeandolo tutto lo vivifica e lo unisce a Cristo e in lui rende partecipi della vita divina. «Nei vari generi di vita – ha insegnato il Concilio Vaticano II – ... una unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre,... seguono Cristo povero, umile e carico della croce per meritare di essere partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni ... deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità» (L.G., 41). La Serva di Dio Teresa Orsini Doria Pamphilj è certamente un esempio di questa vita cristiana vissuta in pienezza. E noi auspichiamo che la Chiesa, dopo un attento esame della sua vita e verificata la pratica delle virtù cristiane in grado eroico, – se così piacerà al Signore – possa iscriverla nell’albo dei Beati. Alle sue figlie, le Suore Ospedaliere della Misericordia, auguriamo che sull’esempio della loro fondatrice possano continuare il cammino di dedizione incondizionata ai malati e, come il Buon Samaritano, versare sull’umanità sofferente «l’olio della consolazione e il vino della speranza». po peggiorò le sue condizioni di salute. Leggiamo nella cronaca, lasciata dai contemporanei: «La sera del 12 giugno [1829] a causa di una forte perdita di sangue per lesioni interne, la principessa era costretta ad allettarsi e parve che la morte fosse imminente. Nella sera stessa volle essere munita di Gesù Eucarestia... la mattina del 3 luglio sopraggiunse una febbre altissima e i medici dissero che era l’inizio della fine». Teresa comprese che era giunta l’ora del supremo sacrificio e consapevolmente volle prepararsi all’incontro con l’Amore Eterno. Il Papa le aveva inviato la sua speciale benedizione apostolica e alla presenza del Card. Zurla, Vicario di Roma, la Serva di Dio ricevette con profonda pietà gli ultimi sacramenti. La medesima cronaca continua: «Con serena tranquillità, con umile fiducia in Dio, con voce di speranza e di amore rese la sua bell’anima al Creatore in un amplesso di amore. Erano le ore 01.00 del 3 luglio 1829. Aveva 41 anni di età». La nobiltà e il popolo romano la piansero e unanimemente dissero: è morta una santa. La sua salma fu sepolta nella cripta della chiesa di S. Agnese in Agone a piazza Navona. La fiaccola di carità cristiana passò dalla mano di Teresa a quella delle suore ospedaliere della Misericordia, nate dal grande cuore della Serva di Dio, le quali resero vivo il carisma specifico della Misericordia. Nel 1834, a cinque anni dalla morte della fondatrice, le suore erano già trentotto e, in pochi anni, la congregazione religiosa diffuse la sua presenza, oltre alla città di Roma, anche in altri ospedali dello Stato Pontificio (Alatri, Frosinone, Sezze Romano, Civitavecchia, Velletri, Tolfa, Umbertide, Urbino, Marsciano, Abbadia San Salvatore). Per meglio vivere e conformarsi al carisma della fondatrice, le suore ospedaliere della Misericordia professano un quarto voto: quello dell’ospitalità (Cost. Art. 22). Cari amici, è opinione condivisa da tutti i teologi e gli autori spirituali che la san- Agostino Card. Vallini Vicario della Diocesi di Roma 26 Lettera a Gesù L’uomo è irragionevole, illogico, egocentrico: non importa, amalo. Il meglio di te Forse eri Tu che passavi vicino, sorridendo sereno, la schiena un po’ curva, quasi a farmi un inchino. O forse eri Tu, l’uomo straniero che parlava con gli occhi rimanendo a distanza, con lo guardo severo. Quanta strada nel mio lungo passato io chiedevo a chiunque… come faccio a trovarti? …Quanto tempo ho bruciato. Mi fermavo talvolta a pensare Chi sei? Dove sei? Sei dentro di me? O sei nel vento di mare? Sei nell’acqua? Nel cuore? Nella luce di stelle? Nella mano di un figlio? O sei in questo fiore? Dolcemente ed in modo pacato, ricordo, mi rispose una voce: “Non appena mi cercherai, ecco, in quel momento tu… mi avrai trovato”. Sergio Martinola Se fai il bene, diranno che lo fai per secondi fini egoistici: non importa, fà il bene. Se realizzi i tuoi obbiettivi, incontrerai chi ti ostacola: non importa, realizzali. Il bene che fai forse domani verrà dimenticato: non importa, fà il bene. L’onestà e la sincerità ti rendono vulnerabile: non importa, sii onesto e sincero. Quello che hai costruito può essere distrutto: non importa, costruisci. La gente che hai aiutato, forse non te ne sarà grata: non importa, aiutala. Dà al mondo il meglio di te, e forse sarai preso a pedate: non importa, dà il meglio, di te. Così ti addormenti ma, nell’oscurità ti sono sempre accanto, veglio su di te. Quando poi il mattino ti risveglierai di nuovo accanto a te mi troverai. Le stagioni della vita C’è la stagione della giovinezza Quando il mondo lo vedi tutto rosa, quando dell’aria ne senti gusto ed ebbrezza e lo spirito e l’anima si ristora. Corre il tempo! Eccomi all’età matura. Tempo di dolci ricordi e di sconfitte amare. Non c’è però tristezza nel mio cuore e c’è un perché: perché nella mia vita ho saputo amare! Ti senti felice, forse non sai perché Ma, se ti prendi un attimo di sosta, ascolta, e senti una voce che ti dice: “Se vuoi essere felice? Segui Me!” Ti ho seguito Signore. Ho inteso su di me il tuo sguardo. Ora però ti prego: fai ancora uno sforzo Gesù e… accompagnami al traguardo! Ora ecco il tempo della maturità; sei molto stanco la sera, non puoi pensare a Me… Iva Girelli 27 «Una vita spesa per amare» I Padre Livio Petroselli l giorno 16 aprile 2009, alle ore 3,30 del mattino, presso l’infermeria provinciale Regina Apostulorum di Roma, padre Livio Petroselli è tornato alla casa del Padre. Aveva 88 anni di cui 71 di professione religiosa e 65 di ministero sacerdotale. Era nato a Valentano (Viterbo), il 28 aprile 1921. Il 25 agosto 1937, nel ritiro «San Francesco» di Bellegra, emise la prima professione temporanea e ricevette i panni della prova. Il 1° gennaio 1943, si consacrò al Signore, nell’ordine Francescano dei frati minori. Il 16 luglio di quello stesso anno fu ordinato presbitero. Dal 1967 e per il resto della sua vita fu cappellano ospedaliero al Policlinico «Agostino Gemelli» di Roma. Nei lunghi anni trascorsi al Policlinico ha fasciato le piaghe di tanti cuori provati dalla sofferenza; ha consolato con parole di conforto i familiari che erano in lutto per la perdita dei loro cari; ha ravvivato la speranza in coloro che avevano smarrito la luce della fede; ha esercitato con particolare dedizione il ministero della riconciliazione trascorrendo molto tempo in confessionale. L’icona che meglio potrebbe riassumere la vita consacrata di padre Livio è quella del «buon samaritano». Caratteristica della sua sequela a Cristo, per la qua- le padre Livio ha, peraltro, ricevuto un riconoscimento da parte di Sua Ecc.za Mons. Armando Brambilla, in occasione della quinta edizione del premio «Il Buon Samaritano», il 26 maggio 2002. Il suo funerale ha avuto luogo il giorno 17 aprile c.a. nella chiesa del «Sacro Cuore», al Policlinico Gemelli ed è stato officiato da Sua Ecc.za Mons. Elio Sgreccia con la concelebrazione di molti frati minori francescani e sacerdoti diocesani. Alla presenza del direttore generale del Policlinico «Agostino Gemelli» di Roma, con una viva e commossa partecipazione del personale medico, infermieristico e delle suore della carità dei reparti ospedalieri visitati da padre Livio. Nell’omelia Sua Ecc.za Mons. Elio Sgreccia, ha definito i tratti della P. Livio Petroselli. spiritualità di padre Livio, come idealmente e tipicamente «francescani» ricordando l’amicizia che da tempo li aveva uniti. Suor Carla Fiammeni anche in rappresentanza delle altre suore della carità del Policlinico, ha ringraziato padre Livio per il bene e la stima donati, ricordandolo per la sua personalità carismatica, per la sua totale dedizione ai malati, per la sua infaticabile operosità, per la sua disponibilità rispettosa verso i più deboli e bisognosi, per il suo costante sostegno ed incoraggiamento; concludendo che padre Livio ha inciso questo te28 tuale, principale fondamento per una crescita umana ed intellettuale. Egli, infatti, sosteneva che tutte le azioni umane che facevano emergere le grandi capacità intellettuali dell’uomo, portandolo al successo, avrebbero dovuto considerarsi una manifestazione del divino e non un modo per accrescere il proprio senso di onnipotenza e di onniscienza. Erano la misura di quanto fossimo simili a Dio e di quanto dovessimo amarlo e non piuttosto dimenticarlo o ignorarlo. L’umiltà è quella ricchezza spirituale che fa superare le barriere delle disuguaglianze umane e apre il cuore dell’uomo. Grazie padre Livio! stamento spirituale nei loro cuori. Personalmente ho conosciuto padre Livio tre anni fa quando il suo male incurabile l’aveva già colpito e reso debole. Ho notato da subito che si trattava di un uomo dalla personalità forte e determinata, nonostante la malattia. La sua spiritualità francescana era improntata alla sobrietà, alla semplicità e alla umiltà. Padre Livio viveva la sua missione con coraggio spendendosi con generosità. Era indubbiamente un frate saggio la cui forza spirituale e la cui determinazione lo spingevano a condannare le iniquità, le incoerenze e gli egoismi umani. La sua figura spirituale indicava il Cristo: «via, verità e vita». Padre Livio mi ha trasmesso soprattutto umiltà quale importante valore spiri- Angela G. Colicchio Vita umana far qualcosa ma saremo tutti chiamati a giudizio. Poi non parliamo di quei poveri bambini nati da madri, non mamme per davvero che vengono abbandonati come teVita umana diventata spazzatura neri gattini. Vita umana buttata nel cassonetto Buttati sulla strada a tutte le intemperie Come un cartone vuoto, per la con un gesto incomprensibile e trericiclatura. mendo gesti, ripetuti ormai in una Che bontà che accoglienlunga serie… za così si dimostra Poveri piccoli, generati non nelSe l’essere umano per l’amore, ma nel viripararsi da questo zio e nel sesso dimondo muore stritochiarato, però della lato nel secchione madre sentivano il della strada nostra? battito del cuore! In mezzo all’indifferenBattito, in un muscolo priza della gente frettolosa vo di sentimento, in un cuoche appena sa, si indigna Fe re che non fa rima con l’ato con il mondo e punta il dito a3 more, cuore, in cui abbiamo . i m es contro chi e che cosa? messo un paravento. Criticare, si sa, è un nostro vecchio vizio, additare chi secondo noi, dovrebbe Fiorina Filippi 29 Testimonianza per la morte di due brave persone 25° anniversario della morte del prof. Antonio Mosca e di suor Luciana Iezzi all’ospedale CTO evento che ha segnato profondamente la vita della nostra comunità ospedaliera. Il 2 marzo u.s. alle ore 12 è stata celebrata la S. Messa dal cappellano don Martino. Erano presenti: la moglie del prof. Mosca, visibilmente commossa, malati, suore, medici, in particolare un folto gruppo di anestetisti, infermieri e dipendenti. Il celebrante, durante l’omelia, ha citato alcuni passi del discorso pronunciato dal Cardinale Angelini durante il rito delle esequie: «Oggi stiamo dando il nostro saluto a due carissime creature: un medico e una infermiera capo-sala. Due persone che hanno consacrato la loro esistenza a servizio dei fratelli infermi. In questi giorni ho sentito espressioni all’indirizzo del prof. Antonio Mosca e della carissima suor Luciana Iezzi equivalenti al riconoscimento di esemplarità umana e cristiana e, perché no?, di santità. Un collega del prof. Mosca diceva: “Avevamo tra noi un altro Giuseppe Moscati!” Un santo tra noi. Il ricordo di queste due stimatissime creature deve restare tra noi a conforto ed incoraggiamento per continuare a lavorare con motivato e intelligente ottimismo, con molta speranza, contro le difficoltà vere e false, contro tutti coloro che non hanno senso di responsabilità». L’omelia continuava illustrando la figura del prof. Mosca, di cui venivano messe in evidenza sia l’elevatissima preparazione professionale, sia le doti uma- Sono trascorsi 25 anni dalla tragica morte del prof. Antonio Mosca e di suor Luciana Iezzi ma il ricordo di quel tragico evento è ancora molto vivo all’ospedale CTO. Il 2 Marzo 1984 alle ore 11,30 circa, suor Luciana si recò in farmacia, al 2° sotterraneo, per ritirare un medicinale urgente. Quindi riprese l’ascensore per ritornare in reparto e incontrò il primario prof. Mosca. Insieme scesero al 3° sotterraneo non sapendo nulla dell’incendio scoppiato qualche secondo prima. Muoiono entrambi nell’ascensore avvolti dal fuoco e dal fumo. La triste notizia della loro morte si diffonde rapidamente nell’ospedale recando in tutti sconcerto e profondo dolore, presenti nel ricordo di tante persone fino ad oggi. Il 6 Marzo 1984, nell’atrio dell’ospedale, furono celebrati con molta solennità i funerali, presieduti dal Cardinale Angelini, alla presenza dei familiari delle vittime, delle autorità e di una grande folla di persone riunite a dare l’ultimo saluto a quelle due carissime creature. Da quel giorno il C.T.O. è cambiato, non è stato più lo stesso. Si è avverata l’esortazione del Cardinale Angelini: «Amici carissimi, medici, paramedici, personale tutto: davanti a queste due bare promettiamo di farci coraggio, di farci migliori nella vita personale e professionale, di elevare le condizioni sanitarie dei luoghi in cui operiamo, di intraprendere un cammino di responsabile laboriosità...». Abbiamo avvertito quindi l’esigenza di commemorare in modo particolare un 30 ne. È stato ricordato che il prof. Mosca era per i suoi collaboratori non solo il primario, ma anche un grande maestro e padre. Era l’uomo di un profondo amore ai malati, l’uomo di una dedizione illimitata, l’uomo di profonda fede. Ogni mattina, prima di iniziare il servizio, egli trascorreva qualche tempo in cappella, in ginocchio, in silenziosa preghiera. Invece suor Luciana, delle suore Minime dell’Addolorata, era la più giovane suora della comunità religiosa che operava in ospedale, sempre piena di entusiasmo, gioiosa, attenta a tutte le necessità dei suoi pazienti, che curava con amore e professionalità. Durante la meditazione del mattino, poche ore prima di morire, scrisse in un bigliettino: «Signore, tu sei sempre tra noi, ravviva la mia fede perché io possa metterti al centro della mia vita. Gesù la tua morte dia significato alla mia morte, la tua risurrezione dia significato alla mia vita». Questo ci ha fatto comprendere che la morte del prof. Mosca e di suor Luciana non era stato solo un evento tragico e assurdo, ma un sacrificio gradito a Dio e fecondo di bene. Il ricordo esemplare del prof. Mosca e di suor Luciana, la loro figura che ancora sembra aleggiare nelle corsie di questo ospedale sono anche oggi di monito, di incoraggiamento, di sostegno. Per questo fatto alla memoria del prof. Mosca e di suor Luciana, in data 4 luglio 2000, è stato assegnato il «Premio del Buon Samaritano». Oggi, nel momento di importanti trasformazioni, affidiamo alla loro preghiera e alla loro intercessione il nostro C.T.O. perché in ogni scelta prevalga il vero bene dei malati e di tutto il personale ospedaliero. Suor Dolores Il terremoto dell’Aquila Ospedale C.T.O. Giuseppe Maria Lotano Il Sig. Giuseppe Maria Lotano – volontario ARVAS presso il Policlinico Umberto I di Roma ha inviato una poesia – L’Aquila (6 aprile 2009) – scritta sulla emozione dei gravi fatti a carico della popolazione dell’Abruzzo, fatti analoghi da cui fu lui direttamente interessato durante il terremoto del 1980 a Castelgrande (PZ). La poesia vuole essere una testimonianza e considerazione sulla vanità delle cose terrene ed un invito ad un costante impegno per potere essere sempre capaci di vivere l’insegnamento della parola di Dio e fortificarci per non essere colti impreparati. «Penso che il manifestarsi di tali disastri confermi, usando la misura umana delle cose, inequivocabilmente, il senso del legame dell’uomo alle cose terrene e, contemporaneamente testimoni il valore della solidarietà e condivisione delle necessità di tutti i fratelli forza della nostra fede e missione di cristiani contro ogni senso di sfiducia e di risentimento». L’Aquila (6 aprile 2009) Irrompi cupo tremore di viscere della terra a dare dolore e colori sconosciuti al tempo della vita dei sapori a chiedere di scavare con strette di mani tra pietre confuse ultimo segno di calore. Grato per l’attenzione. 31 Prendersi cura Ogni anno l’U S M I (unione superiore emozioni anche piangendo senza che si maggiori d’Italia) organizza un conve- senta giudicato. I meccanismi di difesa gno di pastorale sanitaria a Rocca di Pa- che questi individui provano sono nepa ed io ho partecipato dal 2 al 7 Marzo. cessari: la negazione, la proiezione, la I temi sono sempre utili ed importanti per regressione, la sublimazione. Per poter dare un aiuto alle suore e anche agli ope- sedere tranquillamente vicino ad un maratori sanitari laici nell’assistenza alle lato inguaribile e comunicare con lui persone che soffrono. senza angoscia dobbiamo prima consiTema di quest’anno: «L’Oncologia og- derare molto seriamente il nostro atteggi nei suoi aspetti sanitari, etici, legi- giamento verso la morte e il morire, esslativi psicologici». Ai nostri giorni do- sere consapevoli dei nostri limiti ed avepo la morte per cause cardiovascolari re una forte maturità personale. c’è la morte per tumore, per questo è bene essere preparati a questo grande Verità e speranza evento. I relatori di questo convegno si possono convivere sono dimostrati ben preparati e ricchi di contenuti per una formazione uma- La speranza è il sentimento confortanna, spirituale e psite che proviamo cologica. quando scorgiamo Essi ci hanno guicon l’occhio della dato nel prendere mente il cammino coscienza che per che può condurci a questi malati oncouna condizione milogici è bene pasgliore. C’è un mosare dal curare al do di comunicare prendersi cura rila diagnosi che veimanendo vicino a cola speranza, picqueste persone con cole realizzazioni la sapienza del possibili. La sicucuore. rezza di non essere Suor Cristina in visita agli ammalati. Questi malati si troabbandonati gli vano a vivere come dentro uno tsuna- rende più sopportabile la malattia. mi, oppure in mezzo a un deserto. Per A confrontarsi con la malattia non è soloro noi dobbiamo essere delle Oasi nel- lo il malato, sono i familiari e gli amici le quali esiste una fonte di acqua che più intimi. disseta e che può dare speranza di vita Gli atteggiamenti della famiglia si riaiutando queste persone nella lotta per flettono sempre vantaggiosamente o mevivere con coraggio e forza superando no sul malato stesso. Un atteggiamento paure e depressioni. di fiducia nella famiglia crea ad esemÈ importante per gli operatori sanitari pio, un clima che si riflette positivaoffrire adeguate e tempestive informa- mente sul malato. Lo sconforto del fazioni sulla malattia e sul trattamento la- migliare diventa un messaggio distrutsciando che il malato esprima le sue tivo. Le emozioni entrano in un circui32 religiosa. Vorrei terminare queste mie brevi riflessioni su questo grande convegno con una preghiera del Cardinale Angelo Comastri a Maria addolorata: «O Madre, tu hai conosciuto il dolore, ma l’hai vissuto riempiendolo d’amore. Tu hai camminato sulle orme di Gesù e non ti sei fermata quando hai visto che andavano verso la croce. Tu hai creduto che l’amore è onnipotente, tu hai creduto che la bontà, quando è crocifissa, vince e risorge». Amen to relazionale in cui famiglia e malato si rinforzano reciprocamente. La malattia che dura nel tempo è come un filo rosso che colora le varie relazioni e collega i vari momenti della storia personale e famigliare. Una grossa parte di tensione e di sofferenza che le famiglie vivono nel caso della malattia di un loro membro potrebbe essere evitata o per lo meno diminuita se ci fosse più attenzione, una buona relazione di aiuto e un adeguato sostegno, a livello psicologico, sociale, economico e spirituale da parte di chi cura il malato e della comunità civile e Suor Cristina Fantin Etica e Sanità L’attuale tempo «moderno» porta ad aver un’eccessiva fede nella tecnologia e nella scienza: pare quasi che la «scienza» sia diventata oggi l’unica fonte di forza e di certezza e che da sola sia capace di soddisfare l’animo dell’uomo e che ne migliori la qualità di vita. Anche il settore sanitario è oggi tanto permeato di tecnologia che il paziente e gli stessi medici sembrano essere soddisfatti e sicuri della strada terapeutica intrapresa soltanto quando la tecnologia supporta e conferma la loro certezza diagnostica. Sembra diventato addirittura obsoleto ricercare il «contatto» umano, fisico con il malato perché l’interfaccia con la macchina farebbe sembrare tutto l’atto sanitario più semplice e soddisfacente, quasi più «sterile»! Niente di più falso ed ai fini diagnostici persino ingannevole! Infatti anche in questi tempi «moderni» la sicurezza diagnostica e quindi il successivo percorso terapeutico si ricava dall’indispensabile contatto fisico con il malato fondato sui sempre validi ed eterni caratteri semiologici già anticamente descritti da Celso, enciclopedista e medico romano nato nel 14 a.C., consistenti dalla ispezione – palpazione – percussione ed ascoltazione; questi elementi associati all’anamnesi, ancor oggi, indirizzano verso l’esatta diagnosi meglio di ogni sofisticato macchinario (TC e RM), prima di qualsiasi avanzata tecnologia che comunque risulta utile solo in una seconda battuta come conferma del sospetto ipotizzato. Inoltre il rapporto «umano» col malato permette, ove sia stato sincero e interessato, di compatirne la sofferenza nel senso più profondo per meglio così capire quale sia la causa della sintomatologia presentata, il sanitario deve avere particolare interesse per l’anamnesi del paziente e saper coglierne tutti i sintomi per poi giungere, attraverso lo strumento della semiotica fisica, alla corretta diagnosi, diagnosi che altrimenti sarebbe ben arduo anche solo ipotizzare. Se vi è una certezza nella scienza medica, scienza tanto lontana dalla matematica in quanto materia biologica, scienza tanto mutevole e tanto singolare come singolari e mutevoli sono i diversi individui, questa certezza sanitaria deriva prevalentemente dall’aver messo «le mani addosso» al paziente e dall’aver tratto certezze dal concreto contatto fisico con l’altro uomo per poi trarne il più preciso sospetto diagnostico. Il sanitario deve quindi far suo il problema del malato, lo deve vivere e così col suo personale compatimento troverà la strada ideale per giungere alla diagnosi ed alla terapia, aiutato poi anche dalla moderna tecnologia che, soltanto in seconda battuta, confermerà o meno quanto ha ipotizzato. Solo questo sforzo umano e scientifico congiunto darà piena soddisfazione al medico ed al malato e sarà anche un ottimo metodo per esprimersi al meglio nella pratica pastorale sanitaria. Dr. Luciano Pagliari 33 I dea se esegue più di 30 tiroidectomie totali all’anno, un’altra è altamente specializzata in chirurgia gastrica se esegue più di 30 gastrectomie totali all’anno e così via. Oggi la scienza medica progredisce così rapidamente che un medico non può garantire ad un paziente il miglior trattamento possibile se non in uno o due capitoli della medicina e chirurgia. Ad esempio, un medico sarà tra i migliori specialisti per il trattamento del diabete, un altro per l’ipertensione arteriosa, un altro ancora per l’osteoporosi, mentre un chirurgo sarà tra i migliori per la chirurgia della tiroide, un altro per la chirurgia della mammella, un altro ancora per la chirurgia gastrica e così via. Gli ospedali generalisti di zona dovranno essere sostituiti dai centri di eccellenza, dotati di strutture recettive adiacenti per l’ospitalità dei familiari. Il passaggio dalla cultura dell’«Ospedale vicino casa» alla cultura dell’ospedale d’eccellenza ci consentirà di migliorare i risultati terapeutici e di risparmiare risorse preziose. Ancora oggi la spesa sanitaria privata delle famiglie italiane è valutabile in 25 miliardi di Euro all’anno, pari al 2% del PIL ed al 20% della spesa sanitaria totale. Il 57% di tutte le visite specialistiche è pagato di tasca propria dai cittadini, i quali pagano le tasse per l’assistenza sanitaria pubblica e pagano di nuovo per le visite specialistiche: il pagamento plurimo per le stesse prestazioni è assolutamente da bandire. I cittadini hanno però il diritto di scegliere lo specialista di propria fiducia e di essere curati oppure operati da quello specialità. Non sempre la scelta del paziente è fondata su criteri oggettivi di qualità e professionalità dello specialista prescelto, perché spesso il paziente as- l Servizio Sanitario Nazionale Italiano è universale e garantisce a tutti l’assistenza sanitaria gratuita, fondandosi sulla medicina di famiglia, sulla continuità assistenziale territoriale, sul pronto soccorso, sulla specialistica ambulatoriale e sulla rete ospedaliera. La spesa per il Servizio Sanitario Regionale supera generalmente il 50% del bilancio complessivo di una Regione fino a raggiungere punte dell’80% in qualche Regione. L’aumento progressivo dell’età media della popolazione italiana, con un’aspettativa di vita di 79 anni per gli uomini e di 84 per le donne, ha condotto l’Italia ad essere il paese più longevo d’Europa, concorrendo peraltro ad aumentare anche la spesa sanitaria. Il carattere universale della sanità pubblica italiana ha meritato all’Italia il 2° posto, subito dopo la Francia, nella classifica OMS su 196 paesi, ma se il bene salute non ha prezzo, la sanità ha un costo elevato e le risorse disponibili devono essere ben spese, secondo i principi dell’economicità di gestione. In alcune Regioni, soprattutto del centro-sud d’Italia, ci sono troppi ospedali generalisti in rapporto alla popolazione residente: molti comuni hanno voluto il proprio ospedale, per dare ai cittadini la possibilità di essere ricoverati vicino casa, senza doversi allontanare e, con essi, i loro familiari. È una idea sbagliata e pericolosa: oggi non ha più senso mantenere divisioni di medicina e di chirurgia generale dei numerosi ospedali nelle Regioni, perché è dimostrato che migliori risultati terapeutici sono raggiunti dalle “equipe” altamente specializzate in una o più specialità medico-chirurgiche. Ad esempio, un’equipe chirurgica è altamente specializzata in chirurgia tiroi- Un u p o t n 34 v i d a t is sume informazioni parziali e giudizi soggettivi che possono non corrispondere alla realtà. Ai fini della trasparenza e del controllo di qualità delle prestazioni, è indispensabile controllare tutte le cartelle cliniche (e non soltanto il 2% di essere come succede adesso) e pubblicare in Internet i risultati ottenuti da tutte le unità operative operanti in Italia. Al fine di rendere più efficiente il servizio sanitario pubblico, ben venga l’integrazione con il privato e con l’attività libero-professionale intramoenia, purché i cittadini non debbano pagare di tasca propria le prestazioni ma siano garantiti dalle Assicurazioni oppure dai Fondi Sanitari Integrativi. Con il decreto del Ministero della Salute del 17/03/2008 è stata istituita l’anagrafe dei fondi e ne sono stati già censiti più di 500. In sede di contrattazione collettiva, è auspicabile che le aziende assicurino a tutti i lavoratori ed alle loro famiglie l’attivazione dei Fondi Sanitari Integrativi per le prestazioni sanitarie non incluse nei L.E.A. ed anche per quelle incluse nei L.E.A. ma per le quali i lavoratori ed i propri familiari vogliano avvalersi del diritto della libera scelta del medico. Per i lavoratori autonomi ed i loro familiari, è auspicabile agevolare la stipula di un’assicurazione privata, grazie al sistema delle deduzioni fiscali, già previste fino ad un massimale di Euro 3.615 all’anno. I professionisti, accreditati presso il Servizio Sanitario Nazionale, potranno convenzionarsi con le assicurazioni e con i Fondi Sanitari Integrativi al fine di offrire a tariffe agevolate le prestazioni sanitarie comprese nella propria specializzazione o, meglio, superspecializzazione. Prof. Vito D’Andrea Preghiera alla Madonna della Salute O vera sorgente di vita, o fonte perenne di ogni nostra salute, gran Regina dei cieli, Maria, rivolgi, Ti prego, verso di me l’occhio benigno della tua misericordia. Sollevami dal peso delle mie colpe, e col favore della tua potente intercessione, e per i meriti di San Giuseppe e di San Camillo de Lellis, fa’ che io ottenga da Dio, con la salvezza dell’anima, la salute del corpo, e quella grazia di cui ho tanto bisogno e che ti raccomando affinché, potendo meglio servire e lodare Dio in questa vita, venga poi un giorno ad amarLo e ringraziarLo con Te, per tutta l’eternità, beato nel cielo. O Maria, salute degli infermi, proteggi i malati che giacciono negli ospedali o nelle loro case, specialmente quelli più provati dal dolore nell’anima e nel corpo. Non abbandonarli! Io ti offro tutta questa umana sofferenza per ottenere da Te il perdono, la pace e la salvezza per tutta l’umanità. O Madre della salute, non disprezzare la mia voce, ma benigna ascoltami, esaudiscimi, salvami. Amen Docente di Chirurgia Generale all’Univesità della Sapienza Con approvazione ecclesiastica 35 Una lettura, anche spirituale, per l’estate: «Raccontare la quotidianità» come storia sacra In questo contesto ci sembra di stimolo e di aiuto, a livello spirituale, pastorale e anche teologico, fare riferimento ad alcune profonde intuizioni espresse con l’eloquente linguaggio simbolico della comunicazione artistica. Ricordiamo il bellissimo film di Ermanno Olmi «Centochiodi» (marzo 2007). È la rappresentazione di una parabola esistenziale che, dalle rive del Pò, allude poeticamente alla vita di Gesù – specialmente al suo stile di amicizia – attraverso la figura del professore. Questi, inchiodando letteralmente i libri anche preziosi, scende dalle presunzioni della sua cattedra, fugge via dalla università. Va a condividere senza demagogia, nell’amicizia e nel lavorare insieme, la vita dei semplici, fino a rischiare in prima persona. Cordiale e affascinante è il recentissimo libro del teologo Enzo Bianchi, proprio della comunità laica monastica di Bose: «Il pane di ieri» (Einaudi, Torino 2008, pp. 114). È uno spaccato di teologia esistenziale vissuta che racconta storie, rievoca volti e momenti di vita familiare, religiosa e paesana: in modo umanissimo, con sorridente, calda e realistica saggezza. «Il pane di ieri» rimasto sulla tavola, luogo di incontro e di festa, «è buono anche domani»: perché il sapore più vero della vita e della fede quotidiane – che le pagine del libro ci fanno assaggiare – è sempre nuovo e insieme antico. i racconti di Karen Blixen A Gli anni di Gesù a Nazaret: lo straordinario dell’ordinario Nazaret Gesù è vissuto trenta’anni: la maggior parte della sua storia terrena. Confuso nell’anonimato, come quasi tutti gli uomini, condivide con essi una genuina umanità che, proprio così, esprime il suo essere eguale al Padre (Fil 2,6), maturando nella ordinarietà della esistenza quotidiana. La sua predicazione – appena due anni e mezzo – non farà altro che svelare il tesoro nascosto nella «terra degli uomini»: la perla preziosa racchiusa in questa ordinarietà senza clamore. La morte e risurrezione non sarà altro che portare a compimento quell’amore che egli ha «imparato» (Eb 5,8) e testimoniato con semplicità negli incredibili lunghi anni di Nazaret. Alla luce tenue e discreta del «diventare» uomo, giorno dopo giorno, di Dio nel villaggio di Nazaret, va compresa e vissuta la chiamata della comunità cristiana alla nuova evangelizzazione. Si tratta non di dare spettacolo, di far sentire che siamo forti, ma di seguire l’esempio di Gesù che ha rivelato la realtà e il vero senso del suo essere Dio attraverso la genuinità del suo essere uomo. È uno stile, un modo di sentire e di agire con la forza dell’umile amore, che possiamo apprendere dalla meditazione del Vangelo – specialmente esistenzialmente a partire dal «libro aperto» della quotidianità vissuta. Karen Blixen «trasformare la propria vita in racconto» Per scoprire meglio e quasi assaporare il valore straodinario dell'ordinario – nella vita di Gesù a Nazaret e nella nostra – ci è di stimolo una grande scrittrice dei nostri tempi, la danese Karen Blixen (18851962). È una maestra dell’arte di «narrare storie». In esse sono frequenti i riferimenti di tipo religioso. Critica verso il 36 dualismo di quella tradizione cristiana che oppone fra loro terra e cielo, appartiene per origine al cristianesimo evangelico ma, specialmente nella corrispondenza con il fratello Thomas, riconosce di essere quasi una cattolica, anzi un prete cattolico. Ha soggiornato più volte a Roma, nel 1912, nel 1952 (incontrando anche Pio XII) e nel 1956. La sua fedele segretaria Clara Svendsen era cattolica e buona conoscitrice della teologia cattolica. La Blixen è conosciuta specialmente per gli stupendi film che traducono in linguaggio cinematografico due fra i suoi libri: «La mia Africa» (Feltrinelli) e «Il pranzo di Babette» (in «Capricci del destino») (Feltrinelli). Quest’ultimo è una limpida intensa parabola che, con una delicata vena di humour, racconta la vita di una comunità di pescatori. Babette, una ex-partigiana di Parigi, divenuta un’ottima domestica, sacrifica tutta la sua fortuna economica (sopraggiunta all’improvviso) offrendo una cena favolosa, che lei stessa prepara come una grande artista. Intorno alla tavola in festa la litigiosa religiosità degli invitati si scioglie, aprendosi (con una risonanza quasi «eucaristica») ad una vita nuova che è capacità di una gioiosa umiltà e fraternità. Gli scritti della Blixen, quasi tutti racconti, narrano come ognuno con la sua vita quotidiana va scrivendo la «sua» storia. Alla base c’è sempre la domanda, il grido, il desiderio profondo di conoscere : «Chi sono io?» La risposta sta proprio nella concretezza della mia storia dove «gli eventi traggono il loro significato dal nostro stato d’animo» per cui «agli occhi di due uomini nessun evento è il medesimo». Il senso di tale storia è dare risposta (quasi «artistica») all’idea che Dio ha avuto su di me quando sono uscito dalle sue mani. È un’idea, un «destino» (un concetto caro agli indigeni de «La mia Africa»), un disegno provvidenziale (secondo il linguaggio cristiano) in cui tutto, «guardato dall’Alto» – come nei voli di aereo con Denys – ha un posto: gioie e sofferenze (le «perdite»), libertà e necessità. Il vero «orgoglio» (o fierezza) dell’uomo è condurre a termine responsabilmente il proprio destino provvidenziale, aver fede nell'idea che Dio ha avuto su di lui creandolo. Per vivere la nostra quotidianità che diviene storia è necessario fermarsi per raccontarla a noi stessi, anche più volte. Scrive la Blixen: «Riuscire a trasformare le vicende della propria vita in racconto è una grande gioia: forse l’unica felicità che un essere umano possa trovare in questa terra... L’arte divina è la storia: in principio era la storia. Alla fine avremo il privilegio di vederla, e di rivederla, nel suo insieme – e questo è ciò che viene chiamato il giorno del giudizio». Secondo lei la storia dell’umanità nel suo insieme assomiglia in certo modo ad un romanzo composto di numerevoli racconti intrecciati. In questo intreccio «visto dall’Altro» è possibile respirare una certa aria di famiglia: quella somiglianza (non... uguaglianza) fra tutte le persone umane che, quando c’è genuina umanità, amore, non disprezza ma valorizza l’identità di ognuno, la originalità delle singole storie. La genuina umanità: rivelazione di Dio La scrittrice danese – soprannominata dagli indigeni «colei che presta attenzione» (Jerie) – con i suoi numerosi racconti pubblicati in Italia da Adelphy e da Feltrinelli, ci rivela che «nella vita ci sono molte cose che un essere umano... non può raggiungere con i propri sforzi. Ma esiste una umanità genuina che resterà sempre un dono, e che un essere umano deve accettare da un altro essere umano così come egli glielo offre. Colui che dona ha a sua volta ricevuto. In questo modo, un anello per volta, si forma una catena da una terra all’altra, e da una generazione all’altra» («Ultimi racconti», Adelphy, p. 102). A noi 37 sembra che, alla luce della fede nella incarnazione salvifica di Dio in Cristo, dobbiamo riconoscere la centralità di questa genuina umanità che gli uomini vivono, anche se spesso inconsapevolmente («non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra»: Mt 6,3). Ed è proprio questa la via fondamentale della rivelazione di Dio avvenuta in «tutta» la storia terrena di Cristo, nei lunghi anni di Nazaret, culminate nella sua morte e risurrezione e prolungata nelle membra del Cristo «totale». «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Attraverso la via della umanità (del Cri- sto «totale») zampilla e scorre il dono della Grazia infinita di cui parla il generale Loewenhielm nel meraviglioso discorso che tiene nel «Pranzo di Babette». «...tanta è la nostra umana stoltezza e imprevidenza che immaginiamo la grazia divina essere finita. E perciò tremiamo... Ma viene il giorno in cui i nostri occhi si aprono e vediamo e capiamo che la grazia è invece infinita. La grazia, amici miei, ci chiede soltanto di aspettarla con fiducia e di accoglierla con riconoscenza... Perché la misericordia e la verità si sono incontrate, la rettitudine e la felicità si sono baciate!» Don Carmelo Nigro Cappellano dell’Ospedale Fondazione S. Lucia Un «anno sacerdotale» Nel 150 ° della morte del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, «vero esempio di Pastore a servizio del gregge di Cristo», Benedetto XVI ha deciso di indire uno speciale «anno sacerdotale», dal 19 giugno prossimo fino al 19 giugno 2010. Lo ha annunciato durante l’udienza alla plenaria della Congregazione per il Clero, ricevuta nella Sala del Concistoro lunedì mattina, 16 marzo Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio! Il tema che avete scelto per questa Plenaria – «L’identità missionaria del presbitero nella Chiesa, quale dimensione intrinseca dell’esercizio dei tria munera» – consente alcune riflessioni per il lavoro di questi giorni e per i frutti abbondanti che certamente esso porterà. Se l’intera Chiesa è missionaria e se ogni cristiano, in forza del Battesimo e della Confermazione, quasi ex officio (cfr. CCC, 1305) riceve il mandato di professare pubblicamente la fede, il sacerdozio ministeriale, anche da questo punto di vista, si distingue ontologicamente, e non solo per grado, dal sacerdozio battesimale, detto anche sacerdozio comune. Del primo, infatti, è costitutivo il mandato apostoli- co: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15). Tale mandato non è, lo sappiamo, un semplice incarico affidato a collaboratori; le sue radici sono più profonde e vanno ricercate molto più lontano. La dimensione missionaria del presbitero nasce dalla sua configurazione sacramentale a Cristo Capo: essa porta con sé, come conseguenza, un’adesione cordiale e totale a quella che la tradizione ecclesiale ha individuato come l’apostolica vivendi forma. Questa consiste nella partecipazione ad una «vita nuova» spiritualmente intesa, a quel «nuovo stile di vita» che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli. Per l’imposizione delle mani del Vescovo e la preghiera consacratoria della 38 Chiesa, i candidati divengono uomini ad ogni autentica missione e, sola, ne ganuovi, divengono «presbiteri». In que- rantisce la spirituale efficacia. I quattro sta luce appare chiaro come i tria mune- aspetti menzionati devono essere semra siano prima un dono e solo conse- pre riconosciuti come intimamente corguentemente un ufficio, prima una parte- relati: la missione è «ecclesiale» perché cipazione ad una vita, e perciò una pote- nessuno annuncia o porta se stesso, ma stas. Certamente, la grande tradizione dentro ed attraverso la propria umanità ecclesiale ha giustamente svincolato l’ef- ogni sacerdote deve essere ben consaficacia sacramentale dalla concreta si- pevole di portare un Altro, Dio stesso, tuazione esistenziale del singolo sa- al mondo. Dio è la sola ricchezza che, cerdote, e così le legittime attese dei fe- in definitiva, gli uomini desiderano trodeli sono adeguatamente salvaguardate. vare in un sacerdote. La missione è «coMa questa giusta precisazione dottrinale munionale», perché si svolge in un’unulla toglie alla necessaria, anzi indi- nità e comunione che solo secondariaspensabile, tensione verso la perfezione mente ha anche aspetti rilevanti di visimorale, che deve abitare ogni cuore au- bilità sociale. Questi, d’altra parte, derivano essenzialtenticamente samente da quell’incerdotale. timità divina della Proprio per favoquale il sacerdote rire questa tenè chiamato ad essione dei sacersere esperto, per doti verso la poter condurre, perfezione spiricon umiltà e fidutuale dalla quale cia, le anime a lui soprattutto dipenaffidate al medeside l’efficacia del mo incontro con il loro ministero, ho Signore. Infine le deciso di indire Ecc. Mons. Brambilla con i cappellani del dimensioni «geuno speciale Sua Policlinico Umberto I. rarchica» e «dot«Anno Sacerdotale», che andrà dal 19 giugno prossimo trinale» suggeriscono di ribadire l’imfino al 19 giugno 2010. Ricorre infatti il portanza della disciplina (il termine si 150° anniversario della morte del Santo collega con «discepolo») ecclesiastica Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, e della formazione dottrinale, e non sovero esempio di pastore a servizio del lo teologica, iniziale e permanente. gregge di Cristo. Sarà cura della vostra La consapevolezza dei radicali cambiaCongregazione, d’intesa con gli Ordina- menti sociali degli ultimi decenni deve ri diocesani e con i superiori degli Istitu- muovere le migliori energie ecclesiali a ti religiosi, promuovere e coordinare le curare la formazione dei candidati al mivarie iniziative spirituali e pastorali che nistero. In particolare, deve stimolare la appariranno utili a far percepire sempre costante sollecitudine dei pastori verso i più l’importanza del ruolo e della mis- loro primi collaboratori, sia coltivando sione del sacerdote nella chiesa e nella relazioni umane veramente paterne, sia preoccupandosi della loro formazione società contemporanea. La missione del presbitero, come evi- permanente, soprattutto sotto il profilo denzia il tema della plenaria, si svolge dottrinale e spirituale. La missione ha le «nella Chiesa». Una tale dimensione ec- sue radici in special modo in una buona clesiale, comunionale, gerarchica e dot- formazione, sviluppata in comunione con trinale è assolutamente indispensabile l’ininterrotta tradizione ecclesiale, senza 39 cesure né tentazioni di discontinuità. In tal senso, è importante favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa. Urgente appare anche il recupero di quella consapevolezza che spinge i sacerdoti ad essere presenti, identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore della missione della Chiesa. Come chiesa e come sacerdoti annunciamo Gesù di Nazaret Signore e Cristo, crocifisso e risorto, sovrano del tempo e della storia, nella lieta certezza che tale verità coincide con le attese più profonde del cuore umano. Nel mistero dell’incarnazione del Verbo, nel fatto cioè che Dio si è fatto uomo come noi, sta sia il contenuto che il metodo dell’annuncio cristiano. La missione ha qui il suo vero centro propulsore: in Gesù Cristo, appunto. La centralità di Cristo porta con sé la giusta valorizzazione del sacerdozio mini- steriale, senza il quale non ci sarebbe né l’Eucaristia, né, tanto meno, la missione e la stessa chiesa. In tal senso è necessario vigilare affinché le «nuove strutture» od organizzazioni pastorali non siano pensate per un tempo nel quale si dovrebbe «fare a meno» del ministero ordinato, partendo da un’erronea interpretazione della giusta promozione dei laici, perché in tal caso si porrebbero i presupposti per l’ulteriore diluizione del sacerdozio ministeriale e le eventuali presunte «soluzioni» verrebbero drammaticamente a coincidere con le reali cause delle problematiche contemporanee legate al ministero. Sono certo che in questi giorni il lavoro dell’Assemblea plenaria, sotto la protezione della Mater Ecclesiae, potrà approfondire questi brevi spunti che mi permetto di sottoporre all’attenzione dei signori Cardinali e degli Arcivescovi e Vescovi, invocando su tutti la copiosa abbondanza dei doni celesti, in pegno dei quali imparto a voi e alle persone a voi care una speciale, affettuosa Benedizione Apostolica. Sotto l segno del curato d’Ars Avrà come tema «Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote» lo speciale anno sacerdotale in programma dal 19 giugno 2009 al 19 giugno 2010. Il Pontefice lo aprirà presiedendo la celebrazione dei Vespri il prossimo 19 giugno, solennità del sacratissimo Cuore di Gesù e giornata della santificazione sacerdotale, dinanzi alla reliquia di san Giovanni Maria Vianney, che sarà portata dal vescovo di Belley-Ars. Lo stesso Benedetto XVI lo chiuderà dopo un anno prendendo parte a un incontro mondiale sacerdotale in piazza San Pietro. Durante questo anno giubilare il Papa proclamerà san Giovanni Maria Vianney «patrono di tutti i sacerdoti del mon- do». Sarà inoltre pubblicato il Direttorio per i confessori e direttori spirituali, insieme a una raccolta di testi del Pontefice sui temi essenziali della vita e della missione sacerdotale nell’epoca attuale. La Congregazione per il clero, d’intesa con gli ordinari diocesani e i superiori degli istituti religiosi, si preoccuperà di promuovere e coordinare le varie iniziative spirituali e pastorali che saranno poste in essere per far percepire sempre più l’importanza del ruolo e della missione del sacerdote nella chiesa e nella società contemporanea, come pure la necessità di potenziare la formazione permanente dei sacerdoti legandola a quella dei seminaristi. 40 Pellegrinaggio in Terra Santa i l 29 aprile 2009 è iniziato il pellegrinaggio in Terra Santa e Giordania guidato da S. E. Mons. Armando Brambilla, che ha alternato la sua preziosa presenza per «par conditio» tra i due gruppi «bianco» e «arancione»: il gruppo bianco costituito prevalentemente dai farmacisti cattolici (gruppo organizzato dal dott. Eugenio Dragoni) e il gruppo arancione costituito prevalentemente da medici e operatori sanitari dell’ospedale «Columbus». Dopo un volo tranquillo di tre ore circa dall’aeroporto di Fiumicino siamo arrivati a Tel Aviv e dopo un breve percorso in pulman abbiamo raggiunto il monte Carmelo, dove, secondo la tradizione, il Profeta Elia, su un carro di fuoco, fu trasportato in cielo. Nel convento delle Carmelitane è stata concelebrata la S. Messa. Non senza significato la prima tappa al Carmelo. Il nostro viaggio inziava con la benedizione della Vergine Maria. Il salmo responsoriale del giorno recitava: «Ti seguiremo ovunque ci condurrai Vergine Maria». Abbiamo poi raggiunto Nazareth. ll secondo giorno è stato indimenticabile, in un certo senso il fulcro del nostro pellegrinaggio, la visita dei luoghi in cui Gesù ha iniziato la sua missione con la scelta dei suoi discepoli. È stato molto emozionante vedere e cal- pestare i luoghi in cui Gesù ammaestrava e compiva miracoli: Tabgha (miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci); la Sinagoga di Cafarnao, il primato di Pietro; il Monte delle Beatitudini. Attraversare il lago di Tiberiade è stata poi un’esperienza unica. La mente riandava ai passi del Vangelo riguardanti la pesca miracolosa e la tempesta che molto aveva fatto dubitare Pietro. Momenti toccanti sono stati anche quelli vissuti nella chiesa dell’Annunciazione a Nazareth: il Sì, senza riserve, di un’umile fanciulla ha dato inizio al disegno di Dio per la salvezza dell’umanità. Interessanti sono stati i due giorni trascorsi in Giordania: Madaba, Jerash, Petra ed Amman. Notevoli a Jerash i resti della presenza romana; l’arco di Adriano e le rovine della città. Affascinante il sito dell’antica Petra con il suo capolavoro scolpito nella roccia dalle sfumature rosa e la città di Amman veramente moderna ed elegante nella zona residenziale. Ma nel nostro pellegrinaggio in Giordania i luoghi più significativi sono stati: il Monte Nebo, dove Mosè intravide la terra promessa, portando a termine il compito assegnatogli da Dio e il sito del battesimo di Gesù, dove tutti insieme ab41 Terra Santa: S. Messa nel deserto. biamo rinnovato le promesse battesimali e siamo stati benedetti con l’acqua del Giordano da S. E. Mons. Armando Brambilla. La sosta nel deserto di Giuda per la celebrazione della S. Messa di domenica 3 maggio è stato un altro momento molto coinvolgente, con la mente pensavo all’esperienza di Gesù nel deserto: i quaranta giorni che hanno preceduto il suo «Sacrificio». La grotta dei pastori e la chiesa della Natività a Bethlemme hanno fatto rivivere nei nostri cuori la nascita di Gesù, la sosta poi al santuario della Visitazione ad Ain Karem ci ha fatto riflettere sullo spirito di servizio che ogni cristiano dovrebbe avere. L’ultima tappa del pellegrinaggio è stata Gerusalemme. Il passaggio quotidiano da Bethlemme (dove abbiamo alloggiato dal 4 maggio) a Gerusalemme ci ha fatto toccare con mano la difficile coesistenza tra Israeliani e Palestinesi; il muro eretto tra la zona israeliana e i territori palestinesi è una ferita inferta, che soltanto una grande volontà di pace tra i due popoli potrà sanare. I due giorni dedicati a Gerusalemme sono stati molto intensi. Tutti i luoghi che hanno visto la presenza di Gesù sono stati visitati: il Monte Sion, il Cenacolo, S. Pietro in Gallicantu, il Monte degli Ulivi, il Getsemani, la chiesa del Pater Noster, la Basilica dell’agonia e il Dominus flevit. La Via Crucis, per le vie della città vecchia, la visita al S. Sepolcro e la celebrazione della S. Messa «in Resurrectione Domini», nella cappella antistante il S. Sepolcro, hanno dato il sigillo finale al nostro pellegrinaggio. Il 6 maggio, dopo una sosta ad Emmaus, per la celebrazione della S. Messa, abbiamo raggiunto l’aereoporto di Tel Aviv per il ritorno a Roma. Posso concludere che il pellegrinaggio in Terra Santa dovrebbe essere fatto da ogni credente per rinsaldare la propria fede, in quanto il nostro Credo è proprio in quei luoghi che può essere confermato e rinvigorito. Una pellegrina Il Crocifisso sul Monte Calvario. 42 Invocazione allo Una preghiera del Vescovo di Molfetta don Tonino Bello defunto nel 1993 Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l’hai proclamato Messia, dilaga su questo corpo sacerdotale raccolto davanti a te. Adornalo di una veste di grazia. Consacralo con l’unzione e invialo a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri e a promulgare l’anno di misericordia del Signore. Se Gesù ha usato queste parole di Isaia per la sua autopresentazione nella sinagoga di Nazareth e per la stesura del suo manifesto programmatico, vuol dire che anche la chiesa oggi deve farsi solidale con i sofferenti, con i poveri, con gli oppressi, con i deboli, con gli affamati e con tutte le vittime della violenza. Facci capire che i poveri sono i «punti di entrata» attraverso i quali tu, Spirito di Dio, irrompi in tutte le realtà umane e le ricrei. Preserva, perciò, la tua sposa dal sacrilegio di pensare che la scelta degli ultimi sia l’indulgenza alle mode di turno e non invece la feritoia attraverso la quale la forza di Dio penetra nel mondo e comincia la sua opera di salvezza. Spirito Santo, dono del Cristo morente, fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci. Quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto e ripeta col salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli». Rendila protagonista infaticabile di deposizioni dal patibolo, perché i corpi schiodati dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di madre. In quei momenti poni sulle sue labbra canzoni di speranza. E donale di non arrossire mai della croce, ma di guardare ad essa come all’ antenna della sua nave, le cui vele tu gonfi di brezza e spingi con fiducia lontano. Spirito Santo Spirito Santo, luce che rischiari la notte. Spirito di Pentecoste, ridestaci all’ antico mandato di profeti. Dissigilla le nostre labbra, contratte dalle prudenze carnali. Introduci nelle nostre vene il rigetto per ogni compromesso. E donaci la nausea di lusingare i detentori del potere per trarne vantaggio. Trattienici dalle ambiguità. Facci la grazia del voltastomaco per i nostri peccati. Poni il tuo marchio di origine controllata sulle nostre testimonianze. E facci aborrire dalle parole, quando esse non trovano puntuale verifica nei fatti. Spalanca i cancelletti dei nostri cenacoli. Aiutaci a vedere i riverberi delle tue fiamme nei processi di purificazione che avvengono in tutti gli angoli della terra. Aprici a fiducie ecumeniche. E, in ogni uomo di buona volontà facci scorgere le orme del tuo passaggio. Spirito del Signore, dono del Risorto agli apostoli nel cenacolo, gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente e con l’olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro. Liberali dalla paura di non farcela più. Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa risplendere di gioia i loro corpi. Rivestili di abiti nuziali. E cingili con cinture di luce. Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà. Don Tonino Bello 43 FEDE, CARITÀ E ANZIANI MALATI Introduzione In questo intervento non intendo parlare di fede e carità di coloro che si prendono cura degli anziani malati. Preferisco invece focalizzare la mia riflessione sulla questione relativa alla crescita, in fede e carità, di coloro che, a motivo della tarda età e della malattia, si avvicinano al termine della vita. Mentre la morte si profila minacciosamente dinanzi a tutti noi, questioni riguardanti il suo mistero, il suo significato teologico e la preparazione immediata al passaggio finale diventano più acute negli stadi finali della vita, anche quando in questi ultimi momenti competenza intellettuale e consapevolezza psichica possono essere ridotte o seriamente compromesse. Quali conoscenze ci può offrire la riflessione teologica, illuminando l’esperienza spirituale del viaggio finale? In che modo i cambiamenti causati dallo sviluppo delle tecniche mediche, possono influenzare questa esperienza spirituale? Come sempre, gli interrogativi teologici devono guardare verso Cristo per trovare la risposta. Gesù Cristo, Figlio del Padre eterno, passò per la morte e la resurrezione. Il mistero pasquale, pertanto, deve essere compreso, alla ricerca del significato per il passaggio finale dei cristiani. L’amore del Padre sorregge il figlio crocifisso. La morte di Cristo Nella sua meditazione sulla passione di Cristo come la presenta il Vangelo di San Matteo, il teologo belga, padre Servais Pinckaers OP, si è concentrato principalmente sul dono di sé di Gesù. Nella pietà popolare, a volte in tali meditazioni predomina un accento doloroso sui vari aspetti della sofferenza di Gesù. Una lettura attenta del Vangelo, tuttavia, mostra che non è la sofferenza a essere al centro del dramma. Le donne che guardavano la croce da lontano non stavano semplicemente piangendo di fronte alla brutalità. Nel loro sguardo contemplativo esse vedevano Gesù donarsi totalmente al Padre e all’ umanità. Il Cardinale Albert Vanhoye afferma che il sacrificio di Cristo non consiste unicamente nella Sua morte, ma nella trasformazione di quella morte in fonte di nuova vita. Nella comprensione moderna delle parole “espiazione” e “sacrificio”, noi pensiamo a punizione e sofferenza. Ma così come “semplificare” significa “rendere semplice una cosa”, e “santificare” significa “rendere santo qualcosa”, anche “sacrificare” vuol dire “rendere sacro qualcosa”. Il sacrificium di Gesù, il suo sacrificio, è rendere la sua volontà umana supremamente santa in quanto essa è piena dell’amore che è lo Spirito Santo. Donandosi totalmente, in completa apertura al Padre, Gesù ci ha mostrato come la volontà dell’uomo possa essere pienamente arricchita e ampliata oltre i suoi limiti naturali dall’amore che scaturisce dalla Trinità. Nella passione di Cristo il ruolo dello Spirito Santo consistette nel colmare il cuore umano di Gesù con tutta la forza dell’amore divino, in modo tale che in quella morte, sofferta contro ogni giustizia, fu stret- mente essa è entrata in una dimenta un’alleanza ultima tra Dio e l’uma- sione completamente nuova e in un nità. Il fuoco dello Spirito Santo tra- nuovo ordine: è stata legata all’amosformò quella morte in sacrificio di re, a quell’amore [...] che crea il bene unione, in strumento per rendere santo ricavandolo anche dal male, ricavanil cuore umano di Gesù e i nostri cuori dolo per mezzo della sofferenza, così che si uniscono a Lui. Attraverso il do- come il bene supremo della redenziono totale di sé, nella sua solidarietà con ne del mondo è stato tratto dalla Croi peccatori, Gesù ha dato accesso a que- ce di Cristo, e costantemente prende sto amore divino, che scaturisce per noi da essa il suo avvio. dal suo cuore aperto. Nel mistero pa- Gesù avrebbe potuto salvarci infondensquale noi meditiamo il cambiamento do amore divino supremo al suo sorridella morte di un uomo, trattato come so nella grotta di Bethlemme. Poiché ogni atto umano può escriminale e punito con sere nutrito dal di dentro morte crudele, in uno dall’amore di Dio, e in strumento di comunione Gesù il suo amore divino suprema con Dio e con era supremo e infinito, l’umanità. Questa trabenché anche soggetto a sformazione è di grancrescita umana, teoricadissima importanza e mente Egli avrebbe pofonte ultima di quell’ultuto manifestare quell’ateriore cambiamento che more supremo in manieè poi la transustanziara più semplice della zione del pane e del viIl Cristo nella gloria. morte di croce, anche se no nel corpo e nel sanavremmo avuto maggiore difficoltà a rigue di Cristo. Nella Lettera Apostolica Salvifici dolo- conoscerlo. Continuando a dare se stesris, del 1984, Giovanni Paolo II riflette so nella morte, nonostante il suo rifiusulla sofferenza umana con un’atten- to e la persecuzione, nel pieno controlzione analoga al mistero pasquale inte- lo di sé, anche se negli eventi della sua so come mistero di amore divino, che passione e morte sembra che Gesù fosredime il peccato dell’uomo mediante se condotto da altri e costretto nella sua il potere di quell’amore. Nella soffe- libertà, dicendo solo cosa voleva dire e renza di Gesù i peccati vengono can- quando voleva e rifiutando di usare il cellati proprio perché egli solo, come suo potere divino per fermare i suoi perFiglio unigenito, poté prenderli su di sé, secutori, Gesù ha mostrato la pienezza assumerli con quell’amore verso il Pa- dell’amore divino, più potente della sofdre che supera il male di ogni peccato; ferenza e della morte. Nella sua morte in un certo senso annienta questo male e resurrezione, come espresso dalla sua nello spazio spirituale dei rapporti tra preghiera sul Getsemani, noi vediamo Dio e l’umanità, e riempie questo spa- il suo do-no, il suo arrendersi totalmente zio col bene.... Le parole della preghie- al Padre e la sua totale apertura al dono ra di Cristo al Getsemani provano la ve- ricevuto, in cui consiste la sua obberità dell’amore mediante la verità del- dienza. La sofferenza di Gesù nella morla sofferenza [...]. L’umana sofferenza te rese la sua trasparenza al Padre e al ha raggiunto il suo culmine nella pas- potere dello Spirito più visibile. sione di Cristo. E contemporanea- Possiamo provare a far comprendere 45 creazione del mondo e i peccati dell’umanità (Ef 1, 4), si compiace della potenza dell’amore, che il Figlio non solo ha manifestato ma esteso nella sua morte verso l’umanità ferita. La percezione del significato profondo del mistero pasquale può gettare luce sugli stadi finali del viaggio spirituale dell’uomo in cui le persone anziane si preparano per il passaggio ultimo. Dopo il mistero pasquale, la morte non è più solo un momento orribile della separazione finale di corpo e anima, della persona e della sua famiglia e comunità. La morte cristiana è una conquista, un’unione suprema con Dio (Fil 1,21) da vivere in amore, e non in paura (Eb 2,15) sulla base di quell’amore supremamente divino che ci è stato liberamente offerto. La questione tuttavia non è come sfuggire alla morte, (cosa che non possiamo fare), ma come entrare nella morte in modo tale che la ricchezza spirituale di questo passaggio, in unione con il passaggio di Cristo attraverso la morte e la resurrezione nella gloria, sia occasione di apertura suprema alla vita divina liberamente data. Per questo San Paolo scrive: “Perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8) e noi “sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli” (2Cor 5,1), e anche: «Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: “La morte è stata ingoiata per la vittoria”» (1 Cor 15,54). P. Wojciech Giertych OP Mons. Brambilla in visita ad una anziana. questo mistero con un semplice paragone. Un medico che va a lavorare in un paese lontano dove contrae una malattia grave e muore, o un sacerdote che va come missionario in un paese straniero e vi viene ucciso, manifestano la potenza del loro amore. I genitori del medico o del missionario proveranno grande dolore per il fatto che il proprio figlio sia morto o sia stato ucciso. Ma a un livello spirituale più profondo, essi si rallegreranno del fatto che nel cuore del figlio l’amore che gli avevano insegnato ha vinto, che nella sua morte, che umanamente sembra inutile, la potenza dell’amore ha mostrato la sua forza più completa, generando una suprema generosità che si dona sino alla fine. Naturalmente il figlio avrebbe potuto esprimere il proprio amore senza morire come missionario in terra straniera, ma la sua morte ha manifestato senza nessun offuscamento la qualità del suo amore. Allo stesso modo, possiamo presumere una gioia simile nel cuore del Padre eterno, che vede la vittoria dell’amore che anima la Trinità resa manifesta nel dono ultimo di sé del Figlio. “Questo è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (cfr. Mt 3,17; 17,5; Mc 1,11; Lc 3,22). Il Padre eterno, mosso dall’amore della sua grazia originale che ha preceduto la (Continua) 46 Teologo della Casa Pontificia Santa Sede Antichi ospedali romani minori P L’OSPEDALE DELLE GRAZIE A PORTA ANGELICA stesso divenne un nome esemplare e popolare, un po’ come quel famoso “Fatebene-fratelli” che fu assunto come denominazione ufficiale dell’ordine ospedaliero di S. Giovanni di Dio. Raggiunta dopo vari viaggi anche Gerusalemme, Albenzio ne era ritornato recando con sé una bella icona mariana. Durante il viaggio una furiosa tempesta minacciò di far naufragare il vascello ma Albenzio, recatosi a prua, protese l’immagine verso i marosi invocando l’aiuto della Vergine e subito il mare si calmò, assicurando la salvezza. Albenzio ne fu sempre molto geloso, tanto da custodirla esclusivamente nella propria cella e mostrarla raramente solo a qualche confratello, comunque mai in pubblico. In punto di morte, stremato dalle dure penitenze, si fece portare la tanto amata icona e raccomandò ai suoi discepoli di esporla in permanenza, annunciando che essa sarebbe stata assai venerata con il titolo di «Santa Maria delle Grazie». Nel suo pellegrinare Albenzio era giunto dunque a Roma, dove rimase fortemente colpito dalla gran quantità di poveri ma soprattutto di pellegrini che, provenienti da terre anche lontanissime, arrivavano a San Pietro ormai stanchi e malati. Chiese allora a papa Sisto V un ricovero per quel popolo dolente e ne ottenne il permesso (1587) di chiedere al Cardinale Vicario un terreno ove costruire una casa d’accoglienza per gli eremiti, i pellegrini ed i forestieri. Il terreno fu individuato nel rione Borgo, rima di parlare di quello che fu un minuscolo ma preziosissimo luogo di cura e pietà cristiana, occorre anzitutto disegnare - sia pure sinteticamente - la formidabile figura di colui che ne fu l’ideatore e l’instancabile guida: il Ven. fra’ Albenzio De Rossi (Cetraro, Cosenza, 1542 – Roma 1606), un sant’uomo praticamente sconosciuto ai più ma che meriterebbe invece grande onore e devozione. Sull’esempio del suo grandissimo conterraneo Francesco da Paola, Albenzio era un frate eremita in cui fede e carità ardevano come fuoco inestinguibile. Predicava incessantemente la penitenza, vestendo un poverissimo saio e portando un teschio legato alla cintola, pellegrinando ovunque lo portasse il suo desiderio di ammaestrare i fedeli. Era rimasto molto colpito da alcune parole di S. Paolo (Galati VI, 7-10) e ne aveva tratto un motto che divenne poi - se ci si consente una espressione profana ma efficace - lo “slogan” più efficace del suo apostolato: “facemo bene adesso che havemo tempo”. E fu tanto valido che lo Edicola in memoria dell’antica Chiesa demolita. 47 S. Maria delle Grazie con annesso ospizio (G. Vasi 1761). più o meno in un’area che oggi sarebbe compresa tra via di Porta Angelica, via del Mascherino e Borgo Angelico, dove peraltro ancora esiste una “Via delle Grazie”. La generosità di tanti benefattori consentì, in soli quattro anni, di costruire la casa con annessa chiesetta, che volle dedicare all’Ascensione di Nostro Signore ma che dopo la morte di fra’ Albenzio fu chiamata correntemente S. Maria delle Grazie. Come in molti altri casi simili, l’istituzione pur nella sua sobrietà era complessa, nel senso che era un ospedale ma nel contempo anche un ospizio per i pellegrini, ricovero per gli eremiti e mensa per i poveri. Il comprensorio era piccolo ma molto ben organizzato. Disponeva di una cucina con dispensa e di un refettorio; gli ortaggi per la mensa venivano coltivati in un orticello interno. Ben presto, come era consuetudine, fu ricavato in loco anche un piccolo cimitero. Non è noto di quanti letti disponesse in via ordinaria, ma si sa che le poche stanze all’uopo adibite si rivelarono ben presto insufficienti. Per i soccorsi urgenti funzionava invece un apposito locale con sei letti. I trattamenti terapeutici si limitavano comunque a pochi protocolli essenziali. Mariano Armellini, citando gli Acta Visitationis redatti al tempo di papa Alessandro VII Chigi (1655 - 1667), riporta che qualora tra i poveri a cui tutte le sere si dava da mangiare e da dormire ci fossero degli infermi, questi venivano all’istante messi a letto “facendoli subito confessare”. La mattina seguente, “ricevuto il SS. Sacramento”, venivano indirizzati agli ospedali di maggiore importanza onde ricevere le cure più appropriate. Succedeva tuttavia per vari motivi che tali malati “talvolta erano ributtati da quegli ospitali”, sicché ai poveretti non restava che tornare all’ospizio di provenienza, dove però “con carità erano accettati et rimessi a letto sin tanto che il Sig. Iddio provvedesse al loro bisogno”. Non abbiamo notizie certe circa la fine dell’attività del piccolo ricovero, ma sappiamo che nel 1806 esso era certamente ancora in esercizio. Da alcuni documenti si può comunque desumere che la cessazione definitiva debba essere avvenuta non oltre la metà dell’Ottocento. Quanto all’edificio, dopo varie vicende - culminate nel 1936 con la demolizione dell’intero complesso ormai fatiscente - di esso rimane solo la bella immagine miracolosa della Madonna delle Grazie, che dal 1941 è custodita presso l’omonima parrocchia al Trionfale. Domenico Rotella 48