RECENSIONI DAL VIVO
importante che reca linfa nuova,
anche perché, come dimostrano le
roventi polemiche, restituisce allo
spettacolo operistico una precisa
funzione sociale, creando profonda
emozione nel pubblico.
Gran merito va all’esecuzione musicale. Roberto Abbado, sul podio
dellíorchestra del Comunale di
Bologna (ottimo il coro) ha concertato con memorabile profondità di
lettura. Sorretta da sempre duttile
vibrazione di accenti e da fraseggio elegante, la sua direzione ha
lumeggiato intensamente le pagine
più intime come quelle concitate
ed epiche, le arie come i bellissimi
pezzi d’insieme. Nel cast, complessivamente buono, si sono distinti
Riccardo Zanellato, Mosè, Alex
Esposito, Faraone, Sonia Ganassi,
Elcìa.
Altra riproposta significativa, Adelaide di Borgogna, stavolta in veste teatrale rispetto all’esecuzione
semiscenica di qualche anno fa, e
nella nuova edizione critica, condotta sulla base di partiture apografe, copiate cioè dall’originale,
essendo purtroppo disperso l’autografo rossiniano. Opera datata a
fine 1817, essa non ha incontrato
fortuna per via di un libretto giudicato fatalmente inefficace. E invece,
la musica di Adelaide dispiega, e
sembrerebbe ovvio trattandosi di
Rossini, la sorpresa di pagine dalla
fattura altissima come nei duetti
del primo atto, e come in gran parte
del secondo. A Pesaro, la debolezza
testuale è stata affrontata, da regia
scene costumi e videoproiezioni
di Pier’Alli, prevalentemente con
soluzioni multimediali. Progetto
riuscito solo in parte, anche per la
compiaciuta insistenza su scelte
decorative. E solo in parte convince
la concertazione di Dmitri Jurowski, anche qui con i complessi del
Comunale di Bologna, nel problematico equilibrio fra buca e voci.
Incisiva e applaudita nel ruolo del
titolo, anche se negli acuti spinge,
la prova di Jessica Pratt. Benissimo
Daniela Barcellona, Ottone; bene
Nicola Ulivieri, Berengario; meno
bene il tenore Bogdan Mikai, Adelberto.
FRANCESCO ARTURO SAPONARO
TOSCANA
INCONTRI IN TERRA
DI SIENA
TUSCAN SUN FESTIVAL
“Queste e altre iniziative
fanno pensare a uno sbarco
di marziani in un deserto
musicale”
T
erra di ulivi e viti, chianine e
salsicce, anche i più sperduti
paesini del Chianti, o della Valdichiana, o della val
d’Orcia
offrono
in agosto - spesso
in ardito abbinamento con tali
delizie - occasioni
musicali multiple
e disparate.
La più sorprendente - per me - è stata
la serie di concerti
Làmole a nove
(terribili)
chilometri da Greve in
Chianti: un’“Estate concertistica”,
comprendente
una “Rassegna di
rarità pianistiche”.
Chiesina anonima e inacustica.
Pubblico non debordante, seduto
sui banchi della chiesa. Eppure là
si esercitano la cultura musicale e
le capacità di programmazione del
pianista Riccardo Risaliti, benemerito docente del Conservatorio di
Milano e dell’Accademia di Imola.
Risultato: ho potuto assistere a uno
dei più strepitosi concerti di Alfonso Alberti, con esecuzioni adamantine e sulfuree insieme di brani - oltre che di Clementi e di Schumann
- di Sostakovic, Ligeti e Messiaen:
i villeggianti seduti sulle panche ne
sono stati a dir poco rapiti, a dimostrazione che un’esecuzione perfetta e ricca di vera comunicativa
può smuovere le pietre anche con
musiche del nostro tempo. Rimane
il problema: che fare per avere un
pubblico numericamente degno di
questo livello?
L’occasione più curiosa è stata a La
Foce, in una villa dai giardini stupendi, a pochi e comodi chilometri
da Chianciano. La piccola stagione
“In Terra di Siena” si svolge in una
pluralità di sedi (chiese, castelli, teatri e cortili) nel raggio di qualche
chilometro, fino a Città della Pieve.
A me è capitato di assistere a un
concerto nel cortile della villa, dopo
aver cenato con tutto il pubblico in
uno spiazzo delimitato da una augusta limonaia e da ieratici cipressi.
Acustica, nel cortile, più che buona.
Pubblico fitto fitto, quasi esclusivamente germanofono, anglofono e
francofono. Sul palco dieci aitanti
musiciste norvegesi - “tenThing
Brass Ensemble”: trombe, tromboni, corno e tuba - di indubbia
bravura, ma che si sono esibite oltre che nel prevedibile Grieg - in
brani trascritti da fonti improbabili
come le Quattro Stagioni di Vivaldi, il noioso Piazzolla di Invierno
porteño e - in uno scatto di esibizionismo soprattutto della prima
tromba - una velocissima Marcia
“Mosè in Egitto” di Rossini al
Rossini Opera Festival
turca di Mozart. Alla fine, dopo la
Suite dalla Carmen, il pubblico ha
dimostrato di aver gradito senza
riserve. Forse però avrei dovuto
scegliere altre serate: il duo pianistico Ashkenazy padre e figlio; un
programma di musica antica; un
quintetto con pianoforte; il quartetto cinese “Chimeng” a cui si è aggiunto, nel Quintetto di Schubert, il
noto violoncellista Antonio Lisy, il
quale è - in collaborazione con la
pianista Kathryn Stott - il direttore
artistico della rassegna. Ci porterò
amici, possibilmente toscani, così
da combattere la… colonizzazione.
L’occasione più importante è stata,
come avviene ormai da nove anni,
il “Festival del Sole”; pardon: il
“Tuscan Sun Festival” di Cortona,
gratificato da un battage pubblicitario assolutamente fuori dall’ordinario (pagine intere su quotidiani e
settimanali). È difficile non essere
grati a questo festival (di cui vien
detto “che celebra l’arte del vivere
con musica, arte, letteratura, sapori, danza e benessere”) per averci
fatto avvicinare, anno dopo anno,
a musicisti del calibro di Antonio Pappano (quando era ancora
quasi sconosciuto in Italia), a violinisti egregi, a magnifici cantanti
accomunati, forse casualmente, da
un look hollywoodiano. Quest’anno è stata la volta, nel concerto di
chiusura, del soprano Danielle de
Niese: uno splendore di aspetto,
di voce, di intensità interpretativa;
coadiuvata e contornata dai Solisti della Scala, che hanno esibito
da par loro anche l’abilità dei loro
solisti. In verità anche quest’anno
è stato difficile decifrare quale sia
l’idea che sta dietro alla programmazione. Accanto a serate molto
tradizionali (due bei concerti con
Pinchas Zuckerman), o ai meno tradizionali accostamenti del concerto
di apertura (protagonista Martha
Argerich e il Tango) e del concerto
di chiusura, a cui abbiamo accennato, è sempre possibile imbattersi
in serate strane, in cui, secondo una
moda che speriamo passi presto, si
allestiscono spettacolini musicali: il
palco del Signorelli si trasforma nel
salotto di George Sand, o di casa
Schumann, o di una casa viennese
all’epoca di Schubert . Quest’anno
ho assistito a una “schubertiade”,
a cui partecipava, dicendo cose non
molto sensate, Robert Schumann
(!). Un’attrice della fama di Greta
Scacchi ha letto (!) banalità condite
di qualche enormità: Fanny moglie
di Felix Mendelssohn (!). Alcuni
musicisti si sono improvvisati attori
con esiti dubbi; e le esecuzioni hanno sofferto non poco di questo clima
di approssimazione; non quelle liederistiche, a dire il vero, dell’ottimo
baritono Werner van Mechelen, ma
soprattutto quelle di un Quartetto
Guttmann ancora molto bisognoso
di affiatamento.
Il Festival è di per sé comunque un
avvenimento clamoroso nella pigra
vita culturale di una cittadina toscana priva di tradizioni musicali di livello. Ma i cortonesi sono pressoché
assenti; gli altri italiani sono una
esigua minoranza; il Comune - che
pur spende cifre anche ingenti per
altri progetti culturali e per lavori
pubblici di utilità tutta da dimostrare - contribuisce al Festival in misura minima. Se non ci fosse l’impresario americano Barrett Wissman a
trovare altrove le risorse, e se non ci
fosse il pubblico americano e quello dei soliti “stranieri”, felicemente
insediatisi da anni in queste valli, il
Tuscan Sun Festival scomparirebbe
dall’oggi al domani.
La verità vera è che tutte queste e
altre iniziative fanno pensare a uno
sbarco di marziani in un deserto
musicale, creato dalla mancanza
di cultura musicale dei politici, vittime anch’essi dell’assenza - litania
eterna! - di un’educazione musicale
anche nelle scuole di questi pur artistici borghi.
GUIDO SALVETTI
TAORMINA
VERDI
NABUCCO
INTERPRETI J. Pons, C. Taigi, F. Ellero
D’Artegna
DIRETTORE Pier Giorgio Morandi
REGIA Enrico Castiglione
TEATRO Antico
FESTIVAL Taormina Arte
´´
“Gli spettatori delle gradinate
fanno ‘oooh’ quando l’Etna
sullo sfondo comincia ad
eruttare”
I
l Teatro Antico di Taormina è
uno spazio perfetto per l’ope-
ponibili. O sulle singole, retoriche,
gestualità individuali.
In fin dei conti la cosa migliore restano le masse artistiche, il coro,
l’orchestra, i tecnici alle prese con
quel puzzle scenografico (ma i tre
intervalli sono interminabili). I
ragazzi dell’Orchestra Sinfonica
Festival Euro Mediterraneo suonano che è una meraviglia, e la stessa cosa fa il coro Francesco Cilea.
Sono giovani e precari, e per questo
– loro malgrado – forti di diverse
esperienze in buca. Li dirige Pier
Giorgio Morandi, alternando con
mestiere antico momenti lenti, cantabili, estatici alle inevitabili strette.
In quest’ondeggiare, teatrale ma
non sfacciato, nuoterebbero bene
le voci: ma quella di Juan Pons è
stanca, “balla”, pur abbondando in
personalità; quella di Chiara Taigi,
eminentemente lirica, si dimostra
inadeguata alle domande vocali di
Abigaille (coloratura compresa),
mentre per Francesco Ellero D’Artegna Zaccaria sarebbe troppo pos-
“Nabucco” di Verdi al
Festival Taormina Arte
ra, con uno scenario ineguagliabile.
D’estate è frequentato da una platea “glocal”, come dice la locandina
sciorinata dagli altoparlanti anche
in inglese, a mo’ di titoli di testa.
Alla prima del Nabucco di Tao Arte
gli spettatori delle gradinate fanno
“oooh” quando l’Etna sullo sfondo comincia ad eruttare. I lapilli e
la scia di lava s’intravedono tra le
mura romane con colonne ellenistiche affacciate sul mare: una scenografia naturale per eroi cantanti
greci, egizi, assiri, esotici. Castiglione la copre invece con proiezioni
cartoon, paratridimensionali e “segnaletiche”: qui siamo nella reggia
babilonese; ora a casa degli ebrei.
Non ci sono dubbi, lo affermano
anche i costumi più che idiomatici
di Sonia Cammarata. D’altra parte
anche la direzione di scena resta
appiattita sulle entrate e uscite delle
masse e la loro statica disposizione
sulla ingegnosa costruzione di scale,
spianate, terrazze, variamente com-
sente: e quegli involi incerti, poco
sostenuti, sempre a rischio, certo
non l’aiutano. Alla fine si finisce tutti per cantare “Va pensiero”, mentre
nel “Fratelli d’Italia” iniziale il pubblico fa scena muta. E poi si dice
che quel coro verdiano sia l’inno
della Lega!
ANDREA ESTERO
JESI
PERGOLESI
L’OLIMPIADE
INTERPRETI J. Rivera, S. Soloviy, L.
Petrova, Y. Arias Fernandez
DIRETTORE Alessandro De Marchi
ORCHESTRA Academia Montis Regalis
REGIA Italo Nunziata
TEATRO Moriconi
´´´´
“Il pubblico si trovava
vicinissimo agli interpreti, e
ciò conferiva una particolare
intensità alla azione teatrale”
P
DAL VIVO RECENSIONI
rosegue il “tutto Pergolesi” iniziato a Jesi nel terzo
centenario della nascita (2010)
dal giovane e intelligente Festival
Pergolesi Spontini, che in settembre proponeva la Salustia (1731),
il geniale esordio operistico del
compositore, L’Olimpiade (1735),
la sua opera seria di maggior
successo, e la notissima Serva
padrona. Quest’ultima era ambientata in un paradossale circo
dalla vivace e intelligente regia di
Henning Brockhaus, che inoltre
ne separava le due parti inserendo
tra l’una e l’altra Atto senza parole
I di Beckett (riservato al mimo che
fa Vespone).
L’Olimpiade (scritta a Vienna nel
1733) è uno dei capolavori tra i
drammi per musica di Metastasio,
magistralmente costruito intrecciando le pene amorose di due
coppie di giovani, la nobile grandezza dell’amicizia di Megacle e
Licida, lo smarrimento di Licida
che in un momento di follia tenta
di uccidere il re Clistene, senza sapere che è suo padre (l’allusione al
mito di Edipo, illuministicamente rovesciato dal lieto fine, non è
per Metastasio meno importante
delle tenere vicende sentimentali). Non è facile portare oggi sulle
scene questo bellissimo testo, ed
è impossibile tentare di “attualizzarlo”: forse la soluzione migliore
è quella intelligentemente adottata dal regista Italo Nunziata, che
pur usando costumi vagamente
allusivi al secolo XVIII (di Ruggero Vitrani), ha creato una ambientazione atemporale (scene di
Luigi Scoglio) con pochi elementi
scenici, sfruttando sapientemente il particolare spazio del Teatro
Moriconi, una ex-chiesa barocca
a pianta centrale (ellittica). La
piccola orchestra era collocata in
fondo, nell’abside, e l’azione teatrale si svolgeva in un palco al
centro della chiesa e nelle quattro
passerelle che ad esso portavano.
Il pubblico si trovava così vicinissimo agli interpreti, e ciò conferiva
una particolare intensità alla azione teatrale. Giustamente questo
pregevole allestimento (agile, ma
con molti tagli) è stato ripreso dal
Festival di Jesi del 2002; ma nuovi
erano tutti gli interpreti. Alessandro De Marchi guidava con sensibile raffinatezza il suo gruppo Academia Montis Regalis e una ben
calibrata compagnia di canto, in
cui si è particolarmente ammirata
Jennifer Rivera (Licida). Anche gli
altri hanno offerto buone prove,
soprattutto Sofia Soloviy (Megacle) e Lyubov Petrova (Aristea). Da
citare inoltre Yetzabel Arias Fernandez (Argene), Antonio Lozano
(Aminta), Milena Storti (Alcandro) e Raul Gimenez (Clistene).
PAOLO PETAZZI
INNSBRUCK
TELEMANN
FLAVIUS BERTARIDUS
INTERPRETI M. Beaumont, N. Bern-
steiner, A.-B. Solvang, A. Abete
DIRETTORE Alessandro De Marchi
REGIA Jens-Daniel Herzog
TEATRO Tiroler Landestheater
´´´´
“Quattro ore e 40 minuti di
Telemann siano decisamente
molti. Ma, questo Flavius
merita l’ascolto, specie di
un secondo atto davvero
indovinato”
L
e Innsbrucker Festwochen
der alten Musik sono un festival specializzato come repertorio
(la musica “antica”) ma non bigotto
nel modo di proporlo. Il genere di
posto dove chiedi informazioni sulla trama di questo ignoto Flavius
Bertaridus, König der Langobarden (1729) e ti viene risposto: “Facile, è la stessa della Rodelinda di
Händel!”. Ah, beh, allora… Si tratta
di uno dei titoli scritti per la mitica
Oper am Gänsemarkt di Amburgo
che, oltre ad avere un nome assai
indicato per un teatro d’opera (“sul
mercato delle oche”), fu la sala dove
nacque l’opera tedesca (benché,
come in questo caso, con alcune
arie stranamente cantate in italiano) e fece i suoi primi passi anche
Händel. Qui invece il compositore
è Georg Philip Telemann su cui, da
quando fu “riscoperto”, le opinioni
correnti sono in sintesi due: che si
tratti del terzo componente di una
trinità che comprende anche Bach
e Händel o che fra lui e la coppia
Bach-Händel ci sia un abisso. Personalmente, appartengo alla seconda fazione. E trovo che quattro
ore e 40 minuti di Telemann siano
decisamente molti. Ma, questo Flavius merita l’ascolto, specie di un
secondo atto davvero indovinato.
E poi la proposta di Innsbruck si è
rivelata così ben fatta che fra il pubblico non si sono verificate quelle
defezioni di massa che si potevano
immaginare. Alessandro De Marchi, direttore artistico del Festival,
dirige con gran gusto per il dettaglio strumentale e buon passo
teatrale la sua Accademia Montis
Regalis, molto rinforzata perché
Telemann scrive per un’orchestra
che, per l’epoca, era un’orchestrona. La compagnia è ottima. Molto
interessante Ann-Beth Solvang che
fa Flavia, sorella di Flavio (ovviamente…) e moglie del cattivissimo
Grimolado, forse la vera protagonista dell’opera (e un personaggio
che – accidenti – nella Rodelinda
non c’è). Impeccabili tanto Maîte
Beaumont nella parte del titolo e
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