56 — in vetrina Alla Yale University un convegno su Francesco Cavalli «Manuscript, Edition, Production: Readying Cavalli’s Operas for the Stage» in vetrina P di Nicola Badolato er l’entità e la qualità della sua produzione, Francesco Cavalli (1602-1676) è senza dubbio il compositore dominante nei primi trent’anni del teatro d’opera a Venezia. Quando il teatro di S. Cassiano apre i battenti, 1637, Cavalli è cantore e organista a S. Marco. La carriera di autore teatrale, nella quale fu catapultato di lì a due anni, fece di lui il primo vero «operista»: ma è una carriera che parte quando Cavalli ha già 37 anni, dunque nella piena maturità artistica. Dal 1639 al 1666 compone quasi ininterrottamente per i teatri di Venezia uno o due drammi per musica all’anno. A Venezia l’opera in musica fa parte dei festeggiamenti per il carnevale, ed anzi ne rappresenta il fulcro. La regolarità della vita teatrale esige opere sempre nuove, il che infligge ai librettisti e ai compositori ritmi produttivi assai intensi: ciascun dramma rimane in cartellone di norma una sola stagione. Seppur perfettamente inserito nelle dinamiche del mercato operistico, dunque consapevole che nel sistema impresariale la partitura è considerata null’altro che un prodotto d’uso, di consumo, nondimeno Cavalli disporrà per testamento la conservazione dei propri manoscritti: un gesto, questo, di forte determinazione da parte del compositore, grazie al quale il procuratore Marco Contarini (1632-1689) poté allestire, negli anni 1670-’80, una biblioteca di partiture teatrali veneziane che ha per nucleo proprio i manoscritti cavalliani. Il corpus delle partiture superstiti, oggi nel fondo Contarini della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, costituisce per gli studiosi la risorsa di gran lunga più cospicua per la storia del teatro d’opera veneziano, e forse italiano, nel Seicento. Dopo quasi tre secoli di silenzio, la voce di Cavalli torna oggi a farsi sentire forte e chiara sui palcoscenici dell’ope- ra in musica: la coincidenza della produzione di tre differenti opere alla Scala (La Didone), al Covent Garden (La Calisto) e alla Fenice (La Virtù de’ strali d’Amore) nell’autunno 2008 è l’indizio di una riscoperta di lavori che fino a pochi anni fa erano relegati nei festival di «musica antica» o nelle produzioni dei Conservatori e delle Università. I capolavori di questo antesignano tra gli «operisti» – in un certo senso l’inventore del genere «opera» – stanno godendo di una nuova renaissance. Attorno alla figura e all’opera di Cavalli s’è costituito di recente un gruppo di studio internazionale che ha messo in cantiere l’edizione critica di 28 partiture, per i tipi del Bärenreiter Verlag di Kassel, l’editore delle edizioni critiche di Bach Mozart Schubert Berlioz. La direzione scientifica del progetto è affidata a Ellen Rosand (Yale University), Lorenzo Bianconi (Università di Bologna) e Álvaro Torrente (Universidad Complutense, Madrid). Nel lavoro di edi- zione confluiscono studi che vanno dall’indagine sulle fonti alla ricostruzione del contesto culturale di metà Seicento alla riflessione critica sulla riproposta delle opere di Cavalli nei teatri d’oggi. I primi esiti di queste ricerche sono stati presentati in un convegno celebrato tra il 30 aprile e il 2 maggio scorso a New Haven, nella Yale University, Whitney Humanities Center: Manuscript, Edition, Production: Readying Cavalli’s Operas for the Stage. (L’inglese readying è gergo dell’ippica, e viene a dire all’incirca «assicurare una chance al cavallo più giovane»). Musicologi, teatrologi, italianisti, ispanisti, direttori d’orchestra hanno investigato ad ampio raggio l’opera di Cavalli sotto il profilo delle fonti letterarie e musicali, dell’adattamento per le scene moderne, del rapporto tra il testo e la messinscena nonché tra edizioni critiche ed edizioni d’uso. Il convegno è stato aperto da una tavola rotonda, coordinata da Ellen Rosand (Four Decades of Cavalli Performances), con tre pionieri della riscoperta di Cavalli: i direttori Raymond Leppard, Jane Glover e Alan Curtis hanno tracciato il profilo di quarant’anni di allestimenti, a partire dalle importanti operazioni di revival da loro stessi condotte negli anni sessanta-settanta fino alle recentissime esperienze dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV). Nella prima sessione del convegno (Manuscripts and Editions) sono stati affrontati gli aspetti più strettamente connessi all’edizione critica delle partiture di Cavalli: Álvaro Torrente e Hendrik Schulze hanno discusso i criteri guida delle edizioni di partiture cavalliane nell’ultimo trentennio e il rapporto fra edizioni «critiche» e «d’uso» o «performative». Nella seconda sessione (Production/Performance) gli interventi di Jennifer Williams Brown e Christine Jeanneret hanno messo a fuoco il ruolo svolto dai copisti nella produzione delle partituure manoscritte. Ripercorrendo la pionieristica dissertazione di Peter Jeffery (The Autograph Manuscripts of Francesco Cavalli (1602-1676), Princeton University, 1980) sono emersi i nessi tra le fasi principali in cui si articolò l’attività della «bottega» di Cavalli ed è stato rivalutato il ruolo di Maria Cavalli, la moglie del compositore che, facendogli da copista, potrebbe aver avuto mano anche nel processo compositivo. Gli aspetti connessi alla performance sono stati affrontati dal punto di vista sia della scenografia sia della formazione dei cantanti. Gli effetti scenotecnici erano elementi essenziali d’ogni spettacolo operistico a Venezia: dalle mutazioni sceniche e dalle macchine promanava un’inesausta seduzione per lo spettatore. Illustrando esempi di attrezzature e macchinari documentati nei teatri veneziani, Jonathan Glixon ha considerato di riflesso il danno che, negli allestimenti moderni, arreca il voler ridurre o addirittura eliminare le risorse sceniche originarie. Guillaume Bernardi ha invece sondato i problemi che investono oggi la preparazione dei cantanti per l’opera barocca. Così come per gli attori che interpretano Lope de Vega, Shakespeare o Corneille, anche per i cantanti «cavalliani» gioverebbe un addestramento specifico, che conglobasse anche lo studio approfondito della trattatistica cinque-seicentesca. La sessione Cavalli’s Operas ha proposto interventi su singole opere prodotte da Cavalli sia a Venezia sia per i teatri forastieri. Davide Daolmi ha ricostruito le fasi della produzione dell’Orione (1653), la prima opera fatta allestire da Cavalli fuor di Venezia, e la più antica partitura nota di uno spettacolo operistico milanese. Michael Klaper e Barbara Nestola hanno lavorato sull’Ercole amante, illuminando sia le differenze tra la stesura originale e quella che andò realmente in scena a Parigi nel 1662, sia le ipotetiche influenze stilistiche tra Cavalli e Lully. Io stesso ho lavorato sulle fonti letterarie e teatrali nonché sulla tessitura dell’intreccio nell’Euripo di Giovanni Faustini (1649). Il convegno è stato arricchito dall’allestimento dell’opera cavalliana forse più celebre, il Giasone, libretto di Giacinto Andrea Cicognini (1649). La messinscena è stata curata dallo Yale Baroque Opera Project, un programma di ricerca del Department of Music nella Yale University, coordinato da Ellen Rosand dal 2007 allo scopo d’introdurre gli studenti alla conoscenza delle istanze storiche, estetiche ed esecutive legate all’opera italiana del Sei-Settecento. Coerentemente, al Giasone sono state dedicate due intere sessioni del convegno: l’opera è stata investigata sotto vari profili: drammaturgia (nelle relazioni di Anna Tedesco e Wendy Heller), fonti letterarie classiche e fonti teatrali spagnole moderne messe a frutto dal librettista (interventi di Lorenzo Bianconi e Fausta Antonucci, e di Lawrence Manley), fortuna dell’opera a Venezia e in Italia a metà Seicento (Nicola Michelassi e Beth Glixon). Dato un così promettente abbrivo, il nostro Cavalli promette di correre al galoppo verso il traguardo di una più completa e profonda comprensione musicale e teatrale. ◼ Nelle immagini, le scene realizzate dalla Facoltà di Design e Arti dello Iuav di Venezia per La Virtù de’ strali d’Amore di Francesco Cavalli. in vetrina in vetrina — 57 Il Palazzo dei Tre Oci el 2000 Polymnia Venezia Srl, società strumentale della Fondazione di Venezia, ha acquisito, con esclusione del terzo piano, il Palazzo dei Tre Oci, una delle più alte testimonianze dell’architettura veneziana del XX secolo. Non lontano dal seicentesco Palazzo Minelli e dal palladiano complesso della chiesa delle Zitelle, si affaccia sul canale della Giudecca, con una straordinaria vista su piazza San Marco, la zona delle Zattere, dove è stato appena inaugurato il Museo della Fondazione Vedova, e su Punta della Dogana, che ospita il nuovo centro di arte contemporanea della Fondazione François Pinault. Da San Marco, le Zattere e Punta della Dogana l’immobile è, viceversa, ben riconoscibile grazie ai suoi tre grandi “occhi”, i finestroni archi-acuti del primo piano da cui prende il nome e che ne rappresentano il carattere di- Il palazzo, originariamente chiamato Palazzo “De Maria”, è uno dei principali episodi di architettura neogotica a Venezia e riveste un ruolo di primissimo piano tra i palazzi che prospettano sul bacino marciano. Disegnato nel 1910 dal pittore e fotografo Mario De Maria (Marius Pictor) come propria casa-studio, e costruito nel 1913, è sito in Venezia, all’isola della Giudecca, zona denominata delle “Zitelle”. stintivo, e alla bifora gotico-fiorita che si affaccia sul balcone del secondo piano, inquadrata da due sottili pinnacoli laterali in pietra d’Istria. Sul retro guarda un delizioso giardino, contiguo agli ampi appezzamenti verdi e parzialmente coltivati di proprietà pubblica dell’interno dell’isola. Nel 2007 è stato completato, con il consolidamento degli elementi lapidei e con la ristrutturazione com- N plessiva dei serramenti lignei, il restauro della facciata, la quale rinvia con libertà inventiva a molti tratti architettonici e decorativi di Palazzo Ducale e di altri edifici coevi. È ora in corso il restauro degli interni neo-bizantini, che sarà completato nella primavera del 2010, volto a consentire un impiego molto articolato degli spazi, anche a fini espositivi. Completato il restauro, il palazzo si presterà a molteplici funzioni: potrà ospitare eventi, ricorrenze, feste e momenti conviviali, accogliere mostre permanenti e temporanee, essere destinato a residenza-studio per artisti, e infine, grazie all’ottima localizzazione, potrà essere funzionale per l’organizzazione di incontri, convegni e meeting. In virtù delle sue peculiarità, che lo rendono unico nel panorama veneziano, il palazzo si propone dunque a livello internazionale, dalla primavera del prossimo anno, quale struttura polifunzionale, che potrà accogliere, fra l’altro, anche esposizioni di alcuni beni delle collezioni della Fondazione di Venezia. ⚫