CIMAROSA dio nel dicembre dello stesso anno. I Berliner avevano già inciso Lo schiaccianoci con Semyon Bychkov e altre grandi interpretazioni non mancano certo in discoteca, basti pensare a quelle di Ansermet, Rodzinski, Dorati, Jansons, Ozawa, Previn, Dutoit e Gergiev. La lettura di Rattle si pone comunque fra le migliori in assoluto e costituisce uno dei dischi più riusciti mai realizzati dal direttore inglese. Il suo approccio lucido e minuziosamente analitico, ma non distaccato, punta a evidenziare le innumerevoli sorprese timbriche della partitura che non hanno mancato di esercitare una suggestione fortissima su tanti musicisti del Novecento a cominciare da Ravel. Ogni singolo episodio viene osservato al microscopio e, grazie all’apporto di virtuosismo superlativo delle prime parti dell’orchestra, riceve una definizione dei dettagli senza precedenti. Rattle non si accontenta però di sezionare la partitura e di indicarne all’ascoltatore la raffinatezza ma la ricompone in un percorso narrativo serrato e avvincente e ne rispetta esemplarmente lo spirito coreografico. A parte le danze caratteristiche del secondo atto raccolte nella celebre Suite sotto questo aspetto è indicativa soprattutto la dimensione di racconto fantastico della prima parte con la descrizione della festa intorno all’albero di Natale, l’arrivo di Drosselmeyer, la battaglia contro i topi e il viaggio nella tempesta di neve. Nel microscopico e puntiglioso realismo dell’interpretazione di Rattle, a metà strada fra il candore della fiaba e sulfureo incubo hoffmanniano c’è posto per la frenesia visionaria, la tenerezza e la malinconia ma non per l’enfasi sentimentale cara ad altri direttori. Indicativo a questo proposito lo struggente Pas de deux che per esempio nell’incisione di Gergiev viene reso con ben altro empito e pienezza di canto, nonostante la superiore plasticità e bellezza di suono espressa in questo caso dai Berliner. Certo una maggiore visceralità avrebbe turbato la compattezza e l’eleganza di questa magnifica esecuzione coerentemente tesa a illustrare la moderna grandezza di Ciaikovski lontano dai vezzi del ciaikovskismo di maniera. Giuseppe Rossi CD CIMAROSA Requiem in sol basso Gustav Belacek contralto Terezia Kruzliakova soprano Adriana Kucero- 64 Ricordatevi di rinnovare l’abbonamento a MUSICA va tenore Ludovit Ludha Lucnica Chorus, Capella Istropolitana, direttore Kirk Trevor B NAXOS 8.572371 DDD 51:45 . HHH Cimarosa scrisse questa vasta e commovente Messa da Requiem nel volgere di pochi giorni nel 1787 (mentre si trovava a San Pietroburgo) in occasione della morte della moglie dell’ambasciatore francese presso la corte degli Zar. Una musica solenne e ponderosa nella quale si inserisce una soave vena melodica di grande comunicativa. Il coro è impegnato in vasta scala, sempre sostenuto da una compagine orchestrale che non si limita a un semplice accompagnamento ma che canta assieme alle voci, oppure le sostiene con raffinati arabeschi memori della scuola napoletana più arcaica e in particolare dei modelli di Scarlatti e Pergolesi (di cui si avverte qualche influenza ad esempio nel Kyrie). I brani a voce sola (o in cui le voci dei singoli hanno modo di emergere) evidenziano l’esperienza del Cimarosa operista, conferendo al tutto un pizzico di teatralità discreta e mai fuori luogo. È sempre un piacere riascoltare questa pagina, qui proposta nella lettura decisamente robusta di Kirk Trevor, alle cui sollecitazioni rispondono con precisione (ma con poca varietà di colori) un coro solido e affiatato, quattro solisti avveduti (ma talvolta votati a un’espressione molto marcata, di stampo quasi verista, come il tenore Ludovit Ludha) e un’orchestra in cui tutto funziona a dovere. Spartane le note di copertina, sobria la veste editoriale come d’abitudine per Naxos. Mario Marcarini CD COTONE 12 Castighi violino Nino Cotone PHANTOM 892226 A DDD 23:45 HHH . La figura del violinista improvvisatore è oggigiorno sempre più rara e i grandi modelli del passato (Joe Venuti, Stephane Grappelli e Jean Luc Ponty) sembrano ormai piuttosto lontani. Di quei tre l’unico ancora in vita e in carriera è il france- musica 221, novembre 2010 se Ponty, che ha saputo coniugare l’alta formazione accademica a una fantasia creativa fuori dal normale, spaziando dal jazz puro fino al rock e alla pop music. Questi 12 Castighi del violinistaimprovvisatore Nino Cotone sembrano in prima battuta ispirarsi per il titolo a quelle « cadenze » che i primi violinisti, come il veronese Giuseppe Torelli (1658-1709), o il bergamasco Pietro Antonio Locatelli (1695-1764), inserivano nella parte conclusiva dei Concerti per violino. Se il Locatelli definisce quelle cadenze « Capricci », facendo da battistrada a quelli più celebri di Paganini, Torelli le chiama addirittura « Perfidie ». Ed è perfida la scrittura di Nino Cotone, violinista uscito da rigorosi studi di conservatorio, che possiede una brillante vena creativa e la pone al servizio del suo strumento d’elezione. Perfida perché densa di complessità sia per la mano sinistra sia per la mano destra, che il giovane violinista cerca di ben governare attraverso la ricerca di una propria identità stilistica. Certo il suono risulta, a volte, ancora acerbo, ma l’indubbio estro creativo permette a Cotone di spaziare dalle atmosfere delicate di Tony Rack a quelle più rapsodiche di Strappado, nn. 1 e 12, fino a veri e propri Studi sulle principali complessità violinistiche come i cambi di corda (Brazen Bull), il balzato e il richochet (Neck Violin e Untetranse), il pizzicato (Cat’s Paw Boogie e Pillory Pop) e la scrittura polifonica (Alfet River). Una silloge delle complessità violinistiche dalla quale emergono barlumi d’invenzione che evocano ora un linguaggio rapsodico tardo-romantico (Grimula e Tabilla), ora lo swing (Tonky Rack), ora atmosfere decisamene minimaliste come nella graziosa Pear of Anguish o nelle suggestiva Unteranse, dove ritroviamo il meglio di un giovane compositore pieno di belle idee, che non deve lasciarsi travolgere dal desiderio di stupire a tutti i costi. Carlo Bellora CD FARINELLI « Il quaderno dell’imperatrice: arie per soprano dedicate a Maria Teresa d’Austria » soprano Angelo Manzotti Ensemble Isabella Leo- narda, direttore Maurizio Schiavo CONCERTO CD 2007 DDD 51:44 H H H /H HHHH .A Stando alla testimonianza di Charles De Brosses, il timbro dei castrati « ricordava molto quello dei pueri cantores » dato che l’operazione di orchiectomia, « praticata prima della muta, bloccava la crescita della laringe », anche se lo studio assiduo avrebbe poi permesso di sviluppare notevolmente l’estensione e la potenza della voce. Assai poco di tutto questo ritroviamo, in genere, nei controtenori e nei sopranisti attuali, nei quali risulta spesso assente la luminosità timbrica, il volume di suono, l’estensione, la precisione nell’intonazione. Carenze, queste, che solo in parte abbiamo riscontrato nell’interprete di questo disco, il ben noto sopranista Angelo Manzotti, il quale è riuscito ad ovviare ai limiti menzionati grazie a una notevole esperienza nel repertorio belcantistico, a una apprezzabile sensibilità espressiva e a un’adeguata ricerca stilistica, tali da permettere esecuzioni spesso sorprendenti. Le quattro ampie e gradevoli Arie dedicate a Maria Teresa d’Austria (1753) firmate da uno dei più celebri castrati settecenteschi (del quale costituiscono una sorta di testamento spirituale) e caratterizzate da una peculiare fluidità melodica, sono cosı̀ delineate con scioltezza, con fraseggio flessibile e con discreta precisione negli ampi e frequenti vocalizzi (è il caso, tra gli altri dell’aria ipervirtuosistica « Quell’usignolo che innamorato » di Geminiano Giacomelli, alla quale il Farinelli aggiunse un’ornamentazione pletorica), anche se gli acuti risultano talvolta forzati e la dizione non è sempre chiara. Un percorso complessivamente intrigante, grazie anche al notevole apporto dell’Ensemble Isabella Leonarda (con strumenti d’epoca), diretto da Maurizio Schiavo, il quale contribuisce a dar vita a un itinerario serenamente disteso, nel contesto di una non comune vitalità e ricchezza di colori. Claudio Bolzan DVD Video MIRELLA FRENI « A life devoted to Opera » film-documento di Marita Stocker PUCCINI La bohème (opera il quattro atti su libretto di G.Giacosa e L.Illica) M. Freni, L. Pavarotti, S. Pacetti, G. Quilico, N. Ghiaurov, S. Dickinson, I. Yajo, D. Harper, M. Coles, C. Henley, J. Wheeler-Rappe; Coro e Orchestra della San Francisco OPera, direttore GALUPPI Tiziano Severini regia Francesca Zambello scene David Mitchell regia video Brian Large GIORDANO Fedora melodramma in tre atti su libretto di A. Colautti) M. Freni, P. Domingo, A. Scarabelli, A. Corbelli, S. Mazzoni, M. Minarelli, E. Gavazzi, A. Bottion, L. Roni, A. Giacomotti; Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, direttore Gianandrea Gavazzeni regia Lamberto Puggelli scene e costumi Luisa Spinatelli ARTHAUS 101519, 100047, 107143 (3 DVD) M 287:00 HHHHH . Cofanetto di tre DVD: omaggio di lusso a Mirella Freni, a questa mite Micaela dall’anima ardente e dalle inesauribili risorse vocali, a questa antidiva del divismo popolare che ha attraversato mezzo secolo di teatro senza passare attraverso i graffi del tempo. Un fenomeno di tecnica e di intelligenza. L’immagine tenera della cantante modenese che sembrava votata al popolaresco bozzetto del suo debutto in Carmen e poi alla patetica morbidezza di una leggendaria Bohème, è uscita dalle sue stanzette, dallo scenario provinciale, guadagnando passo dietro passo i corridoi di una galleria infinita, a perdita d’occhio. Certo continueremo ad identificarla con quell’Immaginario. Chi dirà Freni, dirà ancora a lungo Mimı̀ e subito dopo Butterfly, non fosse altro per quel modello difficilmente superabile plasmato ed immortalato da Herbert von Karajan nei primi anni settanta, sempre con Mirella accanto al suo partner coetaneo e conterraneo, in un impasto di smalti vocali da empireo pucciniano. Difficile dissociare la soavità della sua arcata vocale dai ruoli lirici della « giovinezza », che più aderivano alla schiettezza del suo carattere lontano da voluttà esibizionistiche. Non a caso il delizioso documentario « made in Germany » di Marità Stocker sceglie per il montaggio della sigla l’aria di Lauretta dal Gianni Schicchi, paradigma del bel canto della Freni cosı̀ come lo sintetizzava il suo maestro Campogalliani. E come riaffiora, modulato, maturato dall’esperienza nel corso della lunga carriera. Il film intreccia il tono colloquiale della stessa artista nelle interviste o nelle aule della sua Accademia dove tiene lezione con la fedelissima Paola Molinari e con Lamberto Puggelli (un tempo con lei c’era pure Ghiaurov), alle testimonianze di colleghi e collaboratori famosi, a documenti d’epoca a partire dall’emozionante biancoe-nero della Bohème modenese del ’67, non senza lo storico passaggio in televisione dell’Otello scaligero affettuosamente rievocato da Domingo. Mirella ovvero « piccole donne crescono » in una progressione di bellezza vocale, di coerenza, di omogeneità e di rigore che le consentiranno di conquistare vette proibitive e persino di superare le insidie avventurose, armate dal fondamentalismo postcallasiano, di Traviata. Dalla straordinaria facilità di controllo del proprio strumento e dalla intensità drammatica sempre radicata nelle ragioni della musica (da Mozart e Donizetti alle esperienze eccentriche del repertorio russo) emerge una sontuosità nella quale scorre una vena elegiaca che incanta e commuove. La si ritrova anche nelle due registrazioni live che nel cofanetto fanno da corollario al film-ritratto. Si dirà ovviamente che, fra le testimonianze audiovisive della Freni, se ne sarebbero potute scegliere almeno una dozzina di migliori. La scelta è però significativa, essendo le due produzioni (quella di San Francisco e quella della Scala) ampiamente citate nel documentario tedesco. Entrambe fra l’altro di eccellente qualità. La Bohème dell’89 è un’edizione d’emergenza assemblata dall’Opera di San Francisco per la coppia illustre Freni-Pavarotti. La messinscena accurata nella tradizione figurativa, ariosa e professionale di Francesca Zambello è una tranche di buon vecchio teatro, dove tutto però si muove con la naturalezza di un film. Merito anche di un accorto lavoro di sala e di una concertazione che sostiene il respiro dell’opera senza ostentare iperboli. Dirigere in quel periodo il big Luciano, già icona tenorile di se stesso, pronto a scappare musicalmente parlando da tutte le parti, non era facile. Ci riescono la personalità e la sensibilità dell’allora emergente Tiziano Severini, direttore inspiegabilmente quasi assente dai cartelloni lirici italiani di questi ultimi anni. Intorno alle due star una compagnia ben assortita, ancorché la zimarra di Colline risulti un po’ stretta a Ghiaurov. In particolare si apprezzano la disinvoltura di Gino Quilico (Marcello), una soda e sanguigna Musetta (Sandra Pacetti) che pare uscita dalle file di French Cancan, la caratterizzazione del mitico Italo Tajo (Benoit). Accanto a un Pavarotti sempre in grado di dispensare (pur con qualche artifizio di mestiere) i doni della sua cremeria vocale, la Freni è prodigiosa: a cinquant’anni passati la sua Mimı̀ sembra averne venti; tale è la credibilità che fluisce nella densità espressiva del suo legato, di un fraseggio, di un’emissione luminosa che quasi la trasfigura e la riporta alla trepidante « piccola donna » di vent’anni indietro. Un salto avanti di altri quattro anni ed eccola indossare la mise sfarzosa e il diadema principesco di Fedora nell’edizione scaligera del 1993. Il salto di spessore drammaturgico come tragédienne potrebbe risultare rischioso. Ma il carisma di Mirella Freni è carisma antico; non forza la propria natura lirica; aggiunge solo fibre nuove all’ancora integra magnificenza di artista. Dalla regale entrata con « O grandi occhi lucenti di fede » alla tinta del crepuscolo sempre fluente sul fiato, la Freni cresce persino di statura. L’aiuta nell’impresa, prima di tutto, la sapienza di Gianandrea Gavazzeni: una delle sue ultime imprese. Quanta tenerezza rivedere – nel contesto festoso della serata, nella Scala gremita – un grande amico che tanto ci manca e che, nella sua onniscienza, molto amava il congegno drammatico-musicale di quest’opera. Fedora ritrova qui un equilibrio che emana un fluido irresistibile, inquadrato nella cifra « luchiniana » di Lamberto Puggelli, regista e collaboratore storico di Mirella Freni, con l’allestimento elegantissimo di Luisa Spinatelli. Messinscena funzionale anche ai primi piani della ripresa video, stupendamente sostenuti da un Placido Domingo (l’ovazione dopo « Amor ti vieta » blocca quasi la rappresentazione). Come tutte le belle edizioni da conservare in archivio anche questa Fedora, nella cornice di una cronaca trionfale, si arricchisce di un contorno esemplare: Alessandro Cor- belli, forse il miglior Des Siriex che io ricordi, la gustosa Adelina Scarabelli (Olga), persino il Dimitri di Silvia Mazzoni. Gianni Gori CD GALUPPI Sonata in RE; Sonata in SI bemolle; Sonata in mi op. 2 n. 3; Sonata in la; Sonata in do « Passatempo al cembalo », 1781; Sonata in la op. 1 n. 3; Sonata in SOL; Sonata in LA bemolle op. 1 n. 6; Sonata in DO clavicembalo, clavicordo, fortepiano ed organo Luca Guglielmi ACCENT ACC 24227 A DDD 76:43 HHHHH . È un’emozione ascoltare Luca Guglielmi in queste sonate di Galuppi, eseguite su cinque diversi strumenti con ammirevole proprietà di stile e fantasia interpretativa. L’alternanza rispecchia la prassi dell’epoca, che per le opere tastieristiche non prevedeva, come spiega Michael Talbot nel booklet (per una volta anche in italiano), una specifica destinazione strumentale, soprattutto a sud delle Alpi. È anche il mezzo, però, per mettere in rilievo le differenze tra le singole sonate, decisamente interessanti sul piano espressivo e, in alcuni casi, della rielaborazione motivica. Baldassarre Galuppi (1706-1785) ha lasciato circa centotrenta sonate, molte delle quali sono ancora in attesa di essere pubblicate e registrate e sulla cui conoscenza il recente CD di Andrea Bacchetti per la RCA (cfr. n. 202 di MUSICA) ha aperto nuove prospettive. Il pianista genovese, però, interpreta Galuppi al pianoforte nel segno di una eleganza stilizzata e preziosa, con un suono trasparente e smaterializzato. Con musica 221, novembre 2010 65