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Rosanna Furnari
Soprano
Francesco Celso.
Maestro di musica e di vita
La memoria ancora viva della famiglia Celso nella città di Acireale,
così come in tutta la provincia di Catania, ed il ricordo affettuosissimo del
Maestro Francesco Celso, suscitano in me, ultima tra i suoi allievi, il forte
desiderio di rendere il giusto omaggio e la meritata risonanza ad un grande musicista e didatta della vocalità.
Parafrasando una frase di Debussy mi sento di riassumere la vita del
Maestro con queste parole: “ha servito la musica senza quasi domandarle gloria; quello che ha ricevuto come dono da Dio lo ha restituito all’arte con una
modestia che sfiora quasi l’anonimato”.
Nonostante il Maestro abbia operato ininterrottamente per più di cinquanta anni educando generazioni di giovani al canto, anche attraverso le
sue originali composizioni, il suo lavoro è rimasto piuttosto nell’ombra a
motivo della sua naturale riservatezza e della sua disarmante semplicità.
La maggior parte della sua produzione è ancora inedita non avendo ricevuto la dovuta attenzione da parte di numerosi critici e direttori artistici
di prestigiosi enti e teatri italiani contattati durante la sua vita. Negli scritti del Maestro, semplici articoli stampati su testate locali o brevi saggi
pubblicati da note accademie culturali siciliane, si trova piena conferma
della sua alta preparazione sotto il profilo intellettuale, scientifico, storico
e musicologico.
Suscita, pertanto, un certo stupore il fatto che il nome e l’opera di
Francesco Celso non siano annoverati al fianco dei compositori italiani del
‘900 e che i Conservatori della penisola non facciano tesoro del suo pensiero così come della sua produzione didattica, ostinandosi, invece, sui
tradizionali sussidi e metodi.
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Rosanna Furnari
La vita
Il Maestro Francesco Antonio Celso Palella nacque nel giorno di S.
Antonio da Padova, il 13 Giugno 1903, ad Acireale, in una casa vicina al
Palazzo Pennisi, nella salita di via Vittorio Emanuele II. Il padre, Gabriele,
ferrotipista e pittore di origini agrigentine, uomo signorile ed autorevole
nei modi, fu il primo illustre fotografo acese, conosciuto in tutta la provincia di Catania, per le creative composizioni di ritratti fotografici dei nobili siciliani e degli studenti interni nei prestigiosi collegi della città di
Acireale Pennisi, San Michele e Santonoceto. La madre, Sebastiana Palella,
era una seria e timorata giovane acese e Gabriele l’aveva conosciuta
durante le funzioni sacre presso la chiesetta di S. Antonino, dove il suo
dolce canto l’aveva fatto innamorare. Francesco fu l’ultimo dei quattro
figli nati da quella felice unione; lo precedevano tre bambine, Francesca,
Maria e Rosaria. Prima della “Grande Guerra” il ragazzino ricevette il
sacramento della Cresima, amministratogli da Sua Eccellenza Monsignor
Gian Battista Arista, d. O., secondo vescovo di Acireale, recentemente proclamato “servo di Dio”.
Già dalla fine dell’Ottocento la bella e colta città di Acireale offriva
innumerevoli occasioni per avvicinare le anime dei propri figli alle sorgenti
purissime dell’arte musicale italica. Il suo Teatro Bellini, costruito nel 1864,
rinomato per l’invidiabile cassa armonica e la perfetta disposizione geometrica, ospitava cantanti di prim’ordine per le sue stagioni liriche e fu
persino visitato da Richard Wagner nel marzo del 1882.
La celebrata banda musicale della città, fondata nel lontano 1587, composta da legni ed ottoni, si esibiva ogni domenica sera, in una elegante
divisa bianca, presso un angolo acustico della centrale Piazza Duomo, su
un piccolo palco circondato da quattro aiuole, chiamato, per questo,
Cinque Oro.1
In seguito fu il padiglione del giardino pubblico Belvedere ad accogliere fitte schiere di cittadini musicofili che convenivano per i consueti concerti estivi, diretti da celebri maestri.
Stimolato da un tale appassionato e piacevole clima musicale,
Francesco iniziò a suonare il violino, quando aveva soli sette anni, sotto la
guida del violinista Salvatore Neglia, il quale suonava anche il trombone
proprio nella banda di Acireale. Poco dopo passò allo studio del violoncello con Salvatore La Rosa, tipografo e musicista autodidatta. Da quel
momento in poi Francesco, innamorato del suono rotondo, corposo e
1 Alfio Fichera, Cronache e memorie, Accademia Zelantea, vol II, pag. 39-40,
pag. 163-164, pag.189.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
La famiglia Celso (per gentile concessione del M° Vera Pulvirenti)
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Rosanna Furnari
delle molteplici possibilità timbriche di questo elegante strumento, non se
ne sarebbe più separato. Solo in tarda età, e non senza un velo di nostalgico rimpianto, giunse alla risoluzione di venderlo. Non stupisce, dunque, il fatto che la sua prima composizione seria, scritta all’età di 16 anni,
sia una Sarabanda concepita proprio per l’amato violoncello.
Parallelamente agli studi musicali, Gabriele Celso aveva avviato l’ultimo nato agli studi scientifici. Nei pressi della Piazza Duomo di Acireale,
Francesco frequentò l’Istituto Tecnico Superiore, con indirizzo fisico –
matematico, ottenendo risultati lusinghieri.
In seguito superò il biennio propedeutico alla facoltà di Ingegneria di
Catania ed anche quello di medicina, ma la musica lo avrebbe attirato presto altrove.
Pur essendo già molto impegnato con lo studio tecnico e la preparazione musicale, il giovane riusciva a trovare anche il tempo per l’addestramento e l’allenamento fisico: praticava nobili sport quali la scherma, la
sciabola, la spada e l’equitazione.2
Grazie ai sacrifici dei genitori che, sino a tarda età avrebbe definito
“impareggiabili”, nel 1926 si trasferì a Palermo per studiare al Regio
Conservatorio “Vincenzo Bellini”. La scelta di questo spostamento non
era casuale: era buon amico della famiglia Celso il compositore e didatta
catanese Antonio Savasta (Catania 22 agosto 1874 - Napoli, 2 luglio 1959).
Durante le sue visite domenicali ad Acireale il Maestro Savasta aveva
avuto modo di apprezzare la bella voce di Sara, tanto da dedicarle la lirica da camera intitolata “L’ultima ebbrezza” e anche l’occasione di visionare alcune composizioni scritte per divertimento dal piccolo Francesco:
essendone rimasto entusiasta, aveva incoraggiato i genitori affinché gli
facessero studiare composizione.
Proprio nell’anno 1926, il celebre compositore catanese era stato chiamato a ricoprire la carica di direttore dell’importante istituzione musicale
del capoluogo siciliano, succedendo al Maestro Giuseppe Mulè, mansione, questa, che avrebbe mantenuto fino al 1938.
Antonio Savasta rappresentò un punto di riferimento per il giovane
Francesco quando si trovò per la prima volta ad affrontare tutto da solo la
vita in una grande città, lontana dal calore familiare. A Palermo il giovane
musicista ebbe l’occasione di studiare violoncello e perfezionarne la tecnica
con il Maestro Olivieri ed il Maestro Caminiti (che dedicò all’allievo una
Sonata); il serio impegno e la costanza nell’applicazione portarono presto i
loro frutti tanto che, nel 1931, superò la licenza di 8° anno. Francesco ebbe
come compagno di studi, tra gli altri, anche Ettore Paladino.
2 “Il grazie di cuore del caro Maestro centenario” da Il gazzettino del Sud,
17/06/2003.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
Il M° Francesco Celso (per gentile concessione del M° Vera Pulvirenti)
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Rosanna Furnari
Le giornate al Conservatorio erano ricche di vari appuntamenti poiché
oltre al violoncello era necessario esercitarsi al pianoforte, al violino, dedicarsi all’apprendimento dell’organo, seguire un corso di canto principale
ed uno di canto gregoriano. Il giovane musicista affrontava tutti questi
impegni con dedizione e forte motivazione, in quanto era convinto che
“non si può comporre senza conoscere la voce umana e gli strumenti ad arco, che
sono il perno dell’orchestra”.3
Fra tutti quei doveri, quello di esercitarsi al pianoforte era indubbiamente il meno pesante.
Sin dall’infanzia, Celso aveva avuto la possibilità di conoscere ed
apprezzare le qualità dell’ottimo strumento della sorella che aveva a
disposizione nel salotto di casa.
Francesca, eccellente pianista e valente didatta, nonostante la giovanissima età, oltre ad accompagnare il fratello durante le sue esecuzioni al
violoncello, gli dispensava, abitualmente, preziosi consigli tecnici.
Francesco Celso cominciò a studiare con il Maestro Antonio Savasta
solo dopo un anno dal suo trasferimento, nel 1927, frequentando con profitto i corsi di armonia, composizione, ma anche quelli di fuga, contrappunto ed orchestrazione.
Dopo i primi anni di studio in città, Francesco ebbe la gioia di condividere l’esperienza palermitana con la sorella Sarina, soprano drammatico,
che giunse nel capoluogo per perfezionare gli studi di canto lirico, sotto
l’attento orecchio della famosa interprete Ester Mazzoleni. La mentalità
dell’inizio Novecento, specie quella siciliana, molto restrittiva e condizionante nei confronti delle donne, aveva ostacolato le sorelle Celso, sia Sara
che la pianista Francesca, nello svolgere la carriera concertistica all’estero,
limitandole alla sola Sicilia. Il dovere del caro Francesco era dunque quello di vegliare su di loro; non si trattava di una mansione imposta da genitori dalle idee all’antica, quanto, piuttosto, di una naturale emanazione
del sano clima familiare, espressione di quel meraviglioso legame che
univa il Maestro alle sorelle, così come ai genitori, cementato da un forte
istinto di protezione. Questo senso di appartenenza lo avrebbe accompagnato per il resto della vita così che anche la rinuncia a costruire una vita
privata ed una famiglia propria non sarebbe stato un peso per lui. Sara
rimase a Palermo, a fianco del fratello, per sette anni. Celso fu in quegli
anni anche l’artefice dell’avvio alla carriera musicale di quello che sarebbe divenuto, poi, celebre pianista, compositore, direttore d’orchestra e
scrittore, il Maestro Franco Mannino.
In seguito alla richiesta della sorella Sara, Francesco aveva ascoltato il
3 Aldo Mattina, Il personaggio. Giornale di Sicilia 23/08/1990.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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bambino e si era fatto intermediario presso il Maestro Savasta affinché gli
facesse una audizione e lo ammettesse al Conservatorio.
In un’intervista concessa al professor Aldo Mattina Celso ricordava:
“Andò proprio così, quel ragazzino di otto anni eseguì in modo convincente una
Sonata di Scarlatti e Savasta ne fu molto colpito, vinse la ritrosia del padre e
ammise il bambino al corso di pianoforte”.4
Nel 1933 Antonio Savasta ritenne il suo diligente e prediletto allievo
ormai pronto per la prova finale. Le previsioni del caro professore non
furono disattese: Francesco ottenne con il massimo dei voti il Diploma di
Licenza Superiore in Composizione.
L’esperienza di quell’esame rimase vivida tra i suoi ricordi sino a tarda
età: “Gli esami finali erano molto più difficili di oggi: restavamo chiusi a chiave,
come reclusi, per 24 ore; si trattava di comporre una fuga a quattro voci, un tempo
di Sonata ed una scena lirica; attraverso una porticina comunicavamo solo per
chiedere qualcosa da mangiare”.5
Ritornato nella sua città natale, il neo-compositore continuò ad aiutare
il padre, ormai piuttosto anziano, riprendendo le sue vecchie amicizie di
via Galatea ma rimase tuttavia molto legato al Maestro Savasta (che aveva
sposato nel 1927 una signorina napoletana ma non aveva eredi) e così,
nonostante non alloggiasse più a Palermo, si recava spesso nel capoluogo
per fare visita al suo insegnante e per accudirlo, come un vero figlio, nei
giorni in cui era ammalato e soprattutto nel momento in cui rimase vedovo.
In seguito alla prematura scomparsa della sorella Maria (laureata in
architettura a soli 18 anni, pittrice e professoressa di disegno) ed alla perdita dei genitori, Celso portò avanti la gestione familiare abbandonando
definitivamente l’antica e prestigiosa professione paterna. Tentò più volte
di far parte del Liceo Musicale di Catania come docente ma i suoi sforzi
furono vani. Il Maestro avrebbe in seguito motivato i dinieghi subiti con
queste parole: “Evidentemente qualcuno non mi vide di buon occhio, forse perché provenivo dal Conservatorio di Palermo”.
Così, senza tralasciare mai la composizione, si concentrò sull’insegnamento privato del canto. In un primo tempo aveva affiancato la sorella
cantante ma, nel momento in cui Sarina venne chiamata ad insegnare alla
Scuola di Canto del Teatro Bellini di Catania, egli la sostituì completamente. Era pronto ad accogliere allievi appartenenti ai più svariati ceti sociali,
purché dotati di buone capacità naturali e di forza di volontà: professionisti, dilettanti nel canto, aristocratici e persino giovani popolani, ai quali
4 Aldo Mattina, Il personaggio. Giornale di Sicilia 23/08/1990.
5 Aldo Mattina, Il personaggio. Giornale di Sicilia 23/08/1990.
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Rosanna Furnari
impartiva lezioni gratuite in modo del tutto disinteressato.
Ogni giorno e soprattutto il venerdì pomeriggio, agli alunni si univano anche gli amici per vivere ore spensierate, lontani dalla quotidianità
esistenziale. In quella “Casa delle Muse”, come riferisce il professor
Antonio Pagano, “si viveva di musica e per la musica, di arte per l’arte: ars
gratia artis”.6
Quel caldo e confortevole cenacolo presto cominciò a calamitare intellettuali e studiosi della borghesia illuminata presente ad Acireale nei
primi decenni del secolo, personaggi illustri quali il pittore Giuseppe
Sciuti, il Vescovo illuminato Monsignor Ferdinando Cento, lo scultore e
pittore Michele La Spina, il medico filantropo Teodoro Musmeci, il celebre
tenore Alabiso ed il baritono Titta Ruffo. Non vi era artista di passaggio in
Sicilia, pianista, direttore d’orchestra o cantante, scritturato presso il vicino Teatro Bellini di Acireale, che non visitasse il rinomato salotto dei
Celso. L’abitazione di via Galatea veniva anche chiamata “casa del glicine” per via del rampicante che, partendo da una piccola aiuola della strada, saliva su fino a ricoprire completamente il gazebo posto sulla terrazza
della costruzione. Come scrisse il Professor Cristoforo Cosentini,
Francesco “con la sua arte contribuiva personalmente a vivificare” quella
elegante atmosfera e questa nobile inclinazione venne tanto apprezzata
da far sì che il Lions Club conferisse alla famiglia Celso, nel 1987, il
“Premio Lions”.
Riportiamo di seguito l’incisiva ed essenziale motivazione del riconoscimento:
“Cenacolo romantico d’arte che, dal primo Novecento ha riunito amabilmente nella propria casa di Acireale, appassionati di musica, di canto, di pittura e, con
meritoria opera di elevazione spirituale, generosità e nobile impegno, ha dato a
numerose generazioni di giovani, magistrale insegnamento”.7
Alla fine degli anni Quaranta, il Maestro si dedicò alla composizione
della sua prima ed unica opera lirica, su libretto dell’amico-poeta professor Tommaso Papandrea, intitolata “Abù – Hassan o Il dormiglione risvegliato”, tratta da una novella delle “Mille e una notte”, completata nel
1950. L’ opera, nonostante gli unanimi consensi di critica, non è stata mai
rappresentata. Fino all’ultimo istante l’anziano Maestro visse col desiderio di una realizzazione scenica.
Sul finire degli anni Cinquanta Francesco si cimentò anche nel genere
vocale della canzone “slow” vincendo un concorso di musica leggera
organizzato ad Acireale.
Dall’osservazione sistematica dell’amato violoncello, dall’analisi delle
6 Antonio Pagano. I cento anni del M° F. A. Celso. Biblioteca Zelantea. Acireale
7 Lucio D’agata. Rivista Logos, anno 1992, pag.28
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
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sue componenti e dalla consueta pratica dell’accordatura nacque l’idea di
sperimentare un artigianale meccanismo che potesse trasferire anche alle
corde del pianoforte verticale il facile sistema usato per gli strumenti ad
arco, basato su viti di precisione che permettono di agire sulle corde per
regolarne la tensione. Il Maestro mise a servizio della sua intuizione tutte
le conoscenze nell’ambito della fisica e dell’ingegneria ed attinse a grandi
risorse finanziarie per la costruzione di un prototipo. Creò un innovativo
sistema di caviglie di ancoraggio delle corde del pianoforte che consentisse una veloce accordatura fai da te semplicemente attraverso un minimo
movimento delle dita che effettuano un avvitamento o uno svitamento di
una manopola. Nel 1958 Francesco Celso ottenne, in Francia, il meritato
brevetto, tuttavia, forti interessi economici che ruotavano attorno alla
sfera delle case costruttrici ed alla categoria degli accordatori, fecero sì che
questa innovazione venisse effettivamente ignorata.
Intanto l’attività didattica dei Celso cominciava ad essere sommessamente ostacolata dalla mal celata invidia degli altri docenti di pianoforte
acesi, per cui nel 1962 la famiglia decise di trasferirsi nella vicina e più
grande Catania, in via Vittorio Veneto.
Qui il Maestro riprese subito l’insegnamento ed anzi incrementò la sua
occupazione, facendo, inoltre, della pittura - sua seconda passione - molto
più che un semplice passatempo. Dipingeva con pennellate morbide e
calde, dai tratti netti e decisi, mentre altrove i colori erano sfumati, dall’aspetto di abbozzo, i contorni tenui quasi ad evocare vaghi ricordi,
atmosfere serene ma lontane, come nel caso del ritratto della madre,
custodito accanto al suo pianoforte.
Riuscì a realizzare anche alcune mostre personali e con un pizzico di
orgoglio ricordava che una sua tela era esposta in una sala dell’Ente
Turismo di Catania.8
Nel 1966 Celso vide concretizzare il desiderio di poter eseguire al
Teatro Bellini di Catania la sua nuova fatica compositiva, la “Suite
Americana Azteca” per grande orchestra, composta una decina di anni
prima. In quella occasione il suo lavoro fu diretto dal Maestro Carlo
Frajese.
Il 12 maggio 1990, per “festeggiare uno dei cittadini acesi più illustri, tanto
provvisto di talento quanto ignorato dai nomi che contano”, si dedicò a Francesco Celso l’appendice conclusiva del ciclo “I concerti del Novanta”,
manifestazione culturale organizzata dall’Assessorato alla Cultura del
Comune di Acireale.9
La programmazione della serata previde una conferenza – concerto al
8 Aldo Mattina, Il personaggio. Giornale di Sicilia 23/08/1990.
9 La Sicilia, 22/5/1992.
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Rosanna Furnari
Palazzo di Città, i cui relatori furono il professor Aldo Mattina ed il giornalista Michele La Spina.10
In quella occasione venne attribuito al Maestro il premio “Vivere per
la musica” per additarne al mondo l’impegno, la carriera ed i meriti. Il 24
maggio 1992 il compositore acese assistette personalmente all’esecuzione
del suo “Quartetto in Do” al Teatro Massimo di Catania, interpretato dalla
pianista Vera Pulvirenti e dai solisti dell’Orchestra dell’E.A.R Teatro
Bellini. Questa iniziativa concluse la stagione delle domeniche musicali al
Bellini e la Stagione sinfonica e di balletto del 1991-1992.
Il 13 giugno 1993, in occasione del novantesimo compleanno del
Maestro, i numerosi alunni ed amici festeggiarono, nel foyer del Teatro
Bellini di Catania, la sua pluridecennale e meritata attività didattica, intesa a infondere e stimolare nei giovani l’amore per l’arte e per la musica,
nella sua più alta espressione, il canto. Nel corso della serata, venne ufficializzato il conferimento al Maestro acese della nomina di socio a vita
dell’Accademia degli Zelanti e Dafnici della città di Acireale e nel luglio
1997 gli fu conferito anche il prestigioso ed antico premio “Aci e Galatea”
nello scenario del parco delle Terme acesi. Molto eloquente è la menzione:
“ La sua figura eccelsa fa pensare alle annose querce dei boschi sacri. Nella sua
lunga vita ha formato intere generazioni di giovani nell’arte e nella vita. Uomo
retto, profondamente onesto, limpido e trasparente come l’acqua di sorgente, è
considerato la memoria storica di Acireale”
Qualche mese prima che Francesco Celso compisse 100 anni anche RAI
3 inviò una troupe a casa sua per una intervista. Al Maestro, compositore
originale, che aveva dedicato tutta la vita alla musica, fu dedicata una
intera puntata di un rotocalco sulla longevità della popolazione italiana.
In occasione del centesimo genetliaco, il 13 giugno 2003, gli ex allievi, gli
amici e quanti gli erano più vicini, coordinati dalla professoressa Vera
Pulvirenti, docente di pianoforte presso il Conservatorio “Fausto Torrefranca” di Vibo Valentia, organizzarono un memorabile festeggiamento
pubblico al Teatro Bellini di Catania, patrocinato dalla Regione Sicilia e
dal Comune di Catania, con la partecipazione di numerose autorità militari, politiche e religiose.
Durante la prolusione Angelo Munzone, aveva giustamente affermato
come la “multiforme attività” di Francesco Celso, musicologo, ricercatore,
compositore e Maestro di canto, “rinnovi la fecondissima famiglia di musicisti che hanno tenuto alto il prestigio della plaga etnea nel mondo”. Durante la
manifestazione furono eseguite le più significative tra le numerose composizioni di Francesco Celso, soprattutto pianistiche, cameristiche e vocali, disposte in una sequenza rispettosa della cronologia.
10 A. Strano. Il Gazzettino del Sud, 29 giugno 1993.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Il Maestro fu poi insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’OSJ,
Ordine di Malta e Cavaliere Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme
ed alla fine, molto commosso, soffiò sulle cento candeline di una gigantesca torta.11
Nella ricorrenza dei suoi cento anni il professor Antonio Pagano,
docente di latino e greco, suo ex vicino di casa e socio dell’Accademia
degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale, fu mosso a dettare il testo di una
epigrafe in latino in onore dell’illustre cittadino acese, pubblicata a conclusione di un paragrafo della raccolta “Memorie e rendiconti” della suddetta Accademia.12
Ne riporto integralmente il testo:
Ad Franciscum Antonium Celso Palella Magistero
Centesimo aetatis Tuae expleto iam anno
Tibi insigni ac preclaro Magistro
Aciensium Civitatis dilectissimo filio
Ingenti animi gaudio permoti
Nec non spiritu praeter modum sublati
Ob ingenii lumen multasque laudes
In sublimi Euterpis Musae arte quaesitas meritis
Vetustae Xiphoniae gratulantur municipes
Qui quam plurimi habent atque summopere admirantur Te Magistrum
Cuius aede innumera iuvenum agmina exiere formata
Splendido hoc diutino vitae facto itinere
Acienses laetantur cives bona verba dicentes
Fervidisque ominantes futurum esse ut
Centum nuper pulchros expletos annos
Pulchriores deinde alteri centum feliciter sequantur.
Aciregali idibus iuniis MMIII
Antonius Pagano dictavit
All’inizio del 2006, il Maestro Celso, uomo che aveva sempre goduto
di ottima salute, subì un peggioramento delle sue condizioni fisiche che
gli impedì di alzarsi dal letto. Questo stato di malessere durò per qualche
mese, sino a quando non lo colse la morte il 21 febbraio 2006, alla soglia
dei 103 anni.
11 I cento anni del M° Celso da “La provincia di Catania”, pag. 45.
12 Antonio Pagano. I cento anni del M° F. A. Celso. Biblioteca Zelantea.
Acireale.
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Rosanna Furnari
L’antica giovinezza
Nel descrivere la personalità di Francesco Celso, mi piace ricorrere ad
un efficace ossimoro, quello della “antica giovinezza”. “Antica” e quasi
mitica è la figura della civiltà greca cui sento di assimilare l’immagine di
Francesco Celso. Come un remoto aedo anche il Maestro ha speso tutta la
sua vita per tramandare il suo sapere agli allievi, è stato memoria storica
per diverse generazioni ed ha “lasciato parlare le Muse” per mezzo delle
sue originali composizioni.
“Antica” ed alta era la concezione del Maestro circa l’arte e la vita del
musicista, che egli elevava alla dignità di vera e propria “missione”. Tale
compito si evince facilmente dalle sue stesse parole, pronunciate in occasione del novantesimo compleanno della sorella Francesca: “Poiché mia
sorella non aveva avuto nella sua vita terrena altro desiderio che quello di far
comprendere e amare dai suoi conterranei la divina voce della Grande Musica ed
io, conoscendo la elevatezza del sue aspirazioni, penso che qualsiasi manifestazione, che continuasse l’incremento della vera musica, unico scopo della sua vita terrena, sarebbe accetta al suo spirito eletto”.13
Frutto di qualche contaminazione spiritualistica è l’esaltazione del
concetto di ethos della musica alla quale era attribuito un particolare valore emotivo. Come nell’ideale greco della “kalokagathia”, l’estetica e l’etica si incontrano felicemente nella musica. L’armoniosa bellezza delle
opere di Francesco Celso, creata attraverso il linguaggio dei suoni, è
espressione del mondo interiore del compositore, della sua bontà d’animo
e della sua onestà morale.
Altra faccia della stessa medaglia è poi la “giovinezza” che il Maestro
ha manifestato sino a tarda età: l’energia, il buon umore, il sorriso contagioso e la voglia di tenersi sempre in movimento. Tornato a dare lezione
dopo la rottura del femore, agli allievi che si offrivano di aiutarlo a spostarsi, insistendo per fare tutto da solo, rispondeva con la battuta spiritosa: “Datemi un punto da appoggio e vi solleverò il mondo”.
Dalla giovinezza alla soglia dei cento anni, non passava giorno che egli
non dedicasse una buona mezzora ai suoi esercizi ginnici mattutini: “il
movimento corporeo vivifica, favorisce la circolazione sanguigna, ridesta lo slancio ritmico e l’ispirazione musicale”.
Questa intuizione rimanda ad un’affermazione di Jaques-Dalcroze,
secondo il quale “il dinamismo fisiologico dell’essere umano può esprimersi in
formule ritmiche” musicali, idea confermata anche da Edgar Willems, il
quale asseriva che “è soprattutto attraverso il movimento del corpo che si può
prendere coscienza del valore plastico del ritmo musicale come pure delle sue
13 L. D’Agata. Rivista Logos, anno 1992, pag. 28-29-30.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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diverse possibilità agogiche”.14 In altre parole, Celso era un inconsapevole
sostenitore di quella che, alla fine degli anni ’80, fu definita “l’originaria
gestalt tra suono- ritmo- movimento”.15
Una forte influenza ha esercitato sul suo pensiero il contatto con la
disciplina dello yoga, studiata e praticata per anni. In un primo momento il Maestro si era accostato a tale antichissima tecnica orientale perché
attratto dalla possibilità di provare nuove forme di rilassamento corporeo.
Divenuto padrone della tecnica passò ad un livello mentale, più avanzato, quello della vera e propria meditazione. Attraverso l’immobilità del
corpo otteneva un rallentamento del dinamismo della mente, regolando
minuziosamente la durata delle fasi dell’inspirazione e dell’espirazione
focalizzava il pensiero più sul ritmo e sul suono interiori che su quelli
muscolari e corporei. Le vibrazioni, immaginate e reali (ovvero della
respirazione), risvegliavano echi positivi sulla psiche.16
Francesco Celso era un uomo “giovane nello spirito”, riservato ma
incredibilmente capace di donare serenità a chiunque entrasse in casa sua,
non perdette mai l’entusiasmo nei confronti della vita e della musica.
Manteneva sempre vivo l’interesse verso il mondo della cultura e della
gestione politica della cosa pubblica, compartecipando con attenzione alle
sorti della sua indimenticata Acireale.
Come ricorda anche il professor Antonio Pagano, nonostante il Maestro
vivesse ormai a Catania, della sua città natale “lamentava accoratamente certi
oblii da portare a un preoccupante scadimento dei veri valori dello spirito”.
Fra le gravi dimenticanze da lui spesso indicate, vi era in primo luogo
quella relativa allo storico Teatro Bellini di Acireale, divorato misteriosamente da un incendio nel 1952 e, malgrado retorica e promesse, mai risorto dalle sue ceneri.
Francesco Celso esponeva il suo pensiero con naturale mansuetudine,
senza cadere mai in aspre critiche o impulsive polemiche. In nessun caso
ha proferito parole di disprezzo verso alcuno o ha cercato di metterlo in
ombra pur di emergere: era una uomo di rara onestà intellettuale e rettitudine morale. Il suo pudore e la sua riservatezza gli hanno impedito di
raggiungere la giusta notorietà e di ottenere quei riconoscimenti che altri,
più spregiudicati di lui, hanno raggiunto invece facilmente, ma con meno
merito. Noncurante dei calorosi consensi della critica, egli rimaneva indifferente e mai si mosse per cercare di sfruttare il momento favorevole, anzi,
quasi come Franz Schubert, egli evitava la folla e si rifugiava nel suo salot-
14 Edgar Willems, L’orecchio musicale, vol. I, Edizioni G.Zanibon Padova, pag
69-70.
15 L. M. Lorenzetti, Psicosomatica e Musicoterapica. Assisi, 1984.
16 André van Lysenbeth, I miei esercizi di yoga. Ed. Mursia.
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Rosanna Furnari
to per intrattenersi solo insieme a pochi amici fidati.
Mi piace riportare di seguito una commossa lirica dell’amico - poeta
professor Tommaso Papandrea, che tratteggia un chiaro profilo della personalità di Francesco Celso. La poesia è tratta dalla raccolta “Stagione finale Jonica” del 2007, pubblicata un anno dopo la scomparsa del Maestro.17
Ricordo di Francesco Celso
“Amico mio Francesco
Com’eran dolci i nostri incontri:
si parlasse dei tempi andati
e dei recenti, tanto diversi;
delle vecchie solidali amicizie, o d’altro
- soprattutto di musica e d’arte quei conversari li tengo a mente
eran per me lezioni.
Mi risento vuoto, al momento.
Mi ha privato la sua morte
dell’amico più caro e buono.
Inondava di serenità il suo sorriso
e il suo giudizio – anche in politicaargomento che suol suscitare
animosità e incontrollati rancori
era più incline alla giustificazione
che alla condanna ...
Come si fa a condannare?
Era d’età maggiore della mia;
ma si mantenne d’animo fermo e costante
fin presso la morte.
Giovane, lo collaborai – a sua richiestanella sceneggiatura d’un racconto
delle “Mille e una notte”
e di poi gli scrissi il libretto
dell’opera che mise in musica
e per la cui realizzazione lottò
fino all’ultimo respiro
benché convinto della fine dell’ “opera”
e del suo congelamento.
“Vivrà come memoria l’opera
17 Tommaso Papandrea Stagione finale Jonica Edizioni A & G 2007, pag. 136
– 137 (per gentile concessione).
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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al modo stesso
del teatro d’arte e di prosa
da Eschilo a Sheaskespeare e oltre ...”
La palma oggi è del cinema
e della televisione.
Risucchiano ormai da tanti anni
i migliori artisti di prosa ...
E il mondo non si ferma ...
- aggiungeva- è ancora in cammino.
La Parolmelodia
All’inizio del Novecento, le mutate condizioni sociali, la pressione tecnologica dovuta all’evoluzione dei mezzi di diffusione sonora, lo sfruttamento del linguaggio cantato nel circuito commerciale, avevano determinato una nuova, inconsapevole tendenza nel gusto musicale del pubblico,
che si rivolse alla musica contemporanea “leggera”, manifestando atteggiamenti a volte snobistici nei confronti della musica colta.
Nel corso della sua lunga vita, Francesco Celso è stato testimone attento del processo di evoluzione della canzone in Italia: a partire dalle interpretazioni delle sciantose degli anni Venti o dalle canzoni dell’avanspettacolo negli anni ’40, passando dalla letteratura propagandistica del regime fascista allo sbarco americano del jazz e del rock and roll, per giungere alla trasmissione televisiva Canzonissima ed al Festival di Sanremo. Le
riflessioni del Maestro su questo argomento, un breve saggio dal titolo
“Canto e parolmelodia”, furono pubblicate nel 1995, dall’Accademia di
Scienze, Lettere e Belle Arti degli “Zelanti e dei Dafnici” di Acireale, della
quale egli era membro in qualità di socio corrispondente.
Elemento distintivo della Musica leggera rispetto a quella colta è la
rinuncia alle doti vocali, a favore di una interpretazione quasi parlata che
pone in primo piano solo il testo. Per indicare questo tipo di vocalità il
Maestro aveva coniato un personale neologismo: la parolmelodia.
“Dacché la scienza ha fornito all’uomo il modo di amplificare la sua voce, per
mezzo dei microfoni e degli altoparlanti, si fa una grande confusione fra il canto
lirico (operistico e da concerto) e quello della cosiddetta canzone moderna, che
accoppia anche essa la parola alla melodia; e poiché questo accoppiamento non ha
ancora un nome specifico, per differenziarlo da quello lirico, l’ho chiamato
Parolmelodia.”18
18 Miscellanea Acese. B 80 n° 21. Biblioteca dell’Accademia degli Zelanti e
Dafnici di Acireale 1995, pag. 413.
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Questo tipo di vocalità “disimpegnata”si fonda, nella maggior parte
dei casi, su un approccio istintivo ed empirico della vocalità o, in ogni
caso, su uno studio non classico, è dunque costretta ad avvalersi di mezzi
artificiali per ottenere l’amplificazione della voce.
“Il canto lirico, perché venga ben percepito a distanza, non ha bisogno di
mezzi artificiali, perché la natura ha dato all’uomo i suoi risonatori, che saputi
utilizzare sono sufficienti. Mentre non è così per la parolmelodia che, essendo
insufficiente allo scopo, deve ricorrere ai mezzi meccano - elettrici.”
La parolmelodia non è una pratica di emissione nuova o specifica del
XX secolo ma una consuetudine naturale ed istintuale piuttosto antica,
che ha coinvolto vasti strati sociali nel corso della storia: “Le origini della
parolmelodia si perdono nella notte dei tempi. I primi uomini che cominciarono a
cantare, lo fecero certamente senza le parole e su qualche semplice ritmo, come si
può rilevare dal canto dei selvaggi. Poi, con l’avanzare della civiltà e lo sviluppo
dell’arte, appresero ad unire le parole al ritmo. Così si giunse ai primi aedi greci
che narravano, sempre in parolmelodia, i fatti mitologici e quelli degli eroi. Non
si ha notizia del canto nelle contemporanee civiltà egizia e assiro - babilonese, che,
senza dubbio non avevano maggiore sviluppo di quella greca. Un impulso più
accentuato si ebbe, invece, fra gli Israeliti e i primi cristiani che cantavano in coro.
Nel medioevo, i trovatori e cantastorie diffusero sempre più, il canto individuale, mentre quello corale, si affermò soprattutto con il canto gregoriano.”
Solo alla fine del 1500 si perviene ad una intuizione che consente di
aprire nuove frontiere al canto: “Così si giunse fino al sedicesimo secolo, verso
la fine del quale qualche cantante, dotato della facilità di abbassare la laringe e di
situare il velo pendulo e la lingua in un certo modo, si accorse che la voce veniva
amplificata, perdendo le qualità di quella parlata, per acquistare, invece, quella di
un sonoro strumento, che poteva scandire la parola e conservare un certo volume.
Tale strumento, portato in seguito alla perfezione, nei suoni e nelle infinite sfumature richieste dai testi poetici dei melodrammi, e quello che ha dato e da tuttora lustro alla lunga serie dei grandi artisti del canto lirico. Da quanto è stato
detto, si può rilevare che in tutto il tempo antico, nel Medioevo e nella prima parte
dell’età moderna, si è fatto uso soltanto della parolmelodia, perché ancora non era
stato scoperto il modo di usare lo strumento voce”.19
Seguono a questo punto affermazioni piuttosto radicali che potrebbero risultare più o meno condivisibili e suscitare commenti polemici: “Ma
è bene, però, far rilevare la immensa differenza che corre fra i due modi di cantare. Anzitutto, il canto lirico (sostenuto sempre da una musica molto più complessa, raffinata ed espressiva), può arrivare a commuovere profondamente, mentre la
19 Miscellanea Acese. B 80 n° 21. Biblioteca dell’Accademia degli Zelanti e
Dafnici di Acireale 1995, pag. 413-414
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parolmelodia (accompagnata da musica di genere popolare) ignora al novanta per
cento la commozione. Negli ultimi tempi, si è voluto nobilitare il testo delle canzoni, introducendogli lo scopo sociale; e se esso, talvolta si eleva alquanto, è sempre accompagnato dalle solite ingenue e primitive melodie, che ne tolgono tutta la
loro efficacia espressiva. Inoltre, mentre la parolmelodia esistette soltanto nella
parte media della voce, il canto lirico, invece, spazia fra le profonde note dei bassi
e quelle acutissime dei soprani leggeri, cioè, per tutta la gamma della voce umana.
Poi, va ancora notato che la rapidità dei suoni, nel canto lirico, può arrivare ad
altissime velocità, sia staccandoli, che legandoli e che i singoli suoni possono
giungere a fortissima intensità, senza essere deformati dai microfoni, cosa che è
impossibile al canto parolmelodico, che è costretto a servirsi di essi per la debolezza dei suoni. È poi quasi impossibile che una canzone, concepita per il canto lirico, possa adattarsi per la parolmelodia, alcuni “cantautori” ci si sono provati, ma
essendo stati costretti dalle esigenze vocali odierne, ad abbassare il tono delle canzoni e marcarne il ritmo con l’infernale batteria jazz, ne hanno deformato completamente il senso artistico originale, riducendoli a stucchevoli e noiosi”.
Fra le due tipologie di canto, quella lirica e la parolmelodia, bisogna
ricordare quella intermedia e sui generis derivata dalla pratica della
castrazione. Le reminescenze scientifico-mediche del Maestro spiegano
l’origine di quel particolare tipo di conformazione laringea.
“Un caso a parte è quello dei Musici del Sei e del Settecento: la loro castrazione faceva sviluppare molto il loro corpo, ma la loro laringe non subiva l’alterazione della muta, sicché rimaneva nella dimensione che aveva nell’infanzia e, quindi produceva i soli suoni che dal contralto vanno al soprano”.20
“Ma dato che essi, insieme con il corpo avevano sviluppato anche i polmoni e
il diaframma, la loro voce acquistava una potenza straordinaria, che, unita alla
lunghezza dei loro fiati, poteva gareggiare con il suono degli strumenti d’ottone,
superandoli per le qualità sonore ed espressive e per la tenuta dei suoni. Dato che
la voce “ impostata” per il canto lirico ebbe origine in quel periodo, si presume,
che parte dei musici cantasse in canto lirico e in parte in parolmelodia, ma poiché
tutti avevano dedicato la loro vita al perfezionamento della loro professione, tutti
erano in grado di modulare la loro voce, fin nelle più piccole sfumature.”
Una valutazione critica è riservata anche alle forme di musica leggera
tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’operetta, il Varietè, il
caffé - concerto: “Gli esecutori dell’operetta (oggi quasi scomparsa) e quelli della
canzone italiana e napoletana di una volta, poiché non avevano fatto studi severi, né teorici né vocali, sbagliavano spesso nelle intonazioni e nel tempo ma conservavano una certa voce, come qualità, espressività e volume. I macchiettisti,
20 Miscellanea Acese. B 80 n° 21. Biblioteca dell’Accademia degli Zelanti e
Dafnici di Acireale 1995, pag. 415.
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usavano ed usano ancora la parolmelodia”.
La conclusione del brano suona quasi come affettuosa esortazione alla
nuove generazioni nel considerare l’impostazione lirica sotto una luce
nuova: essa rappresenta un valore aggiunto, capace di donare uno spessore qualitativamente nuovo alla voce che ripaga del tenace e lungo impegno. L’arte deve essere il fine dello studio e la tecnica uno dei mezzi per
raggiungerlo. L’esercizio puramente tecnico ed il virtuosismo vocale rendono solo risultati fittizi, non artistici: “Da quanto si è detto, risulta che la più
antica e diffusa forma di canto è la parolmelodia, ma dato che per trasformare la
voce nel meraviglioso strumento con la parola occorre un lungo studio, comprendente esercizi di respirazione, intonazione, di agilità, di estensione, senza contare quelli complementari di solfeggio, di pianoforte, di arte scenica, di storia della
musica,ecc…; a pochi è concesso di raggiungere le vette dell’arte vocale.”21
Il didatta della vocalità
Disse un giorno Richard Strauss ”la voce umana è lo strumento più
bello, ma, anche il più difficile da suonare”. Dello stesso parere era il
Maestro Celso. Mentre studiava composizione a Palermo Francesco si era
avvicinato al mondo della lirica ed aveva ampiamente fruito della lezione
della signora Ester Mazzoleni, insegnante di Sara, sua sorella maggiore,
cantante lirica. La Mazzoleni, (Sebenico, 12 marzo 1883 – Palermo, 17
maggio 1982) costituiva una prosecuzione del tipo di soprano ottocentesco, drammatico d’agilità, valido esempio di soprano Falcon, dalla limpida e fluente dizione. Aveva esordito nel 1906 al teatro Costanzi di Roma
nel ruolo di Eleonora del Trovatore di Verdi ed aveva inaugurato l’Arena
di Verona con l’Aida nel 1913, ma si era presto ritirata dalle scene, nel
1925, per trasferirsi a Palermo, avendo sposato un gentiluomo del capoluogo siciliano.22
Fu, dunque, docente di canto al Conservatorio di Palermo tra il 1929 e
il 1953 e durante gli anni ’30 anche Sarina Celso, che quale aveva debuttato nel 1916 a soli sedici anni nello storico Teatro Bellini di Acireale, seguì
numerosi corsi di perfezionamento con la signora Mazzoleni, divenendone l’allieva prediletta. Francesco fece tesoro di quegli insegnamenti.
Nella sua lunga attività d’insegnante egli ha avviato alla carriera artistica più di due generazioni di cantanti: moltissimi i coristi del teatro mas-
21 Miscellanea Acese. B 80 n° 21. Biblioteca dell’Accademia degli Zelanti e
Dafnici di Acireale 1995, pag. 416.
22 Grande Enciclopedia della musica lirica, Longanesi & c. periodici. Volume
III.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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simo Bellini di Catania che si sono formati alla sua scuola. Per questa sua
sorprendente longevità didattica il Maestro Celso è stato definito dal professor Aldo Mattina “decano degli insegnanti di musica e bel canto”.23
Alcuni degli allievi, come il soprano Lucia Aliberti, i mezzo soprano
Patrizia Patelmo e Lidia Tirendi, il basso Francesco Palmieri ed i tenori
Alfio Gemmellaro ed Enzo Isaja, sono in carriera anche all’estero, altri si
sono ritirati per raggiunti limiti d’età, altri ancora vivono un po’ in ombra,
magari perché esercitano professioni estranee all’ambito artistico e canoro. Ciascuno ricorda di essersi accostato a lui in completa libertà e serenità, senza alcun timore di essere giudicato, né tanto meno di essere umiliato o inibito.
Il suo ruolo, la sua età e la sua esperienza non lo rendevano superiore,
non lo collocavano in una posizione di preminenza rispetto all’allievo. La
sua grande semplicità gli aveva fatto scegliere un atteggiamento paritario
nei confronti degli alunni anzi direi paterno, affettuoso. Un giorno, durante una chiacchierata dopo la lezione, il Maestro, allargando le braccia, mi
disse: “per me voi alunni siete tutti come dei nipoti!”
Le sue lezioni non erano fredde e sbrigative: il suo sorriso era accogliente, la battuta spiritosa sempre pronta, l’aneddoto puntuale, i consigli preziosi, gli esempi pertinenti.
Dagli allievi egli esigeva uno studio accurato e costante, ma era in
grado di non farne avvertire il peso. Era sempre disposto ad evidenziare
i piccoli tratti positivi o quei minimi progressi tecnici, talora sottovalutati
o addirittura ignorati dallo stesso allievo.
Il critico musicale catanese Angelo Munzone, ha avuto modo di affermare, durante il discorso tenuto al Teatro Bellini in occasione dei festeggiamenti del centesimo compleanno del Maestro Celso, definito “grande
professionista”, che un suo bel pregio è stato quello di essere “insegnante
intellettualmente onesto nel sapere scegliere con cura gli allievi più promettenti
senza illudere nessuno”.24
La testimonianza della più celebre tra le ex- alunne di Francesco Celso,
Lucia Aliberti, soprano di fama mondiale, dalla voce nobile e perfetta,
musicista e compositrice, sintetizza in poche parole la grandezza del
Maestro: “L’ho conosciuto qualche anno prima che mi diplomassi in canto. Con il
Maestro è stata una collaborazione artistica. Oltre che apprendere e ragionare
sulla tecnica vocale studiavo con lui anche la composizione. Quando io lo incontravo, il Maestro mi dedicava, quasi sempre, tutti i pomeriggi e la sera facendo sempre
la pausa del thè e biscottini. Una volta il Maestro esordì dicendo a mio padre che
23 Aldo Mattina. Il personaggio , 23/8/1990.
24 Santo Privitera. Francesco Celso, cent’anni vissuti suonando, Giornale di
Sicilia, 17/06/2003.
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avrebbe dovuto trovare un accomodamento a casa sua perchè io non volevo mai
andarmene. Il Maestro mi chiamava «Lucietta» e ripeteva: devi andare, è tardi.”25
“Oltre ai nostri unici ed irripetibili incontri musicali parlavamo di storia, di
cultura e molto di religione perchè il Maestro aveva una grande fede e delle idee
molto personali. Io custodisco gelosamente un regalo che egli mi fece: un contenitore molto particolare con dentro una corona in madreperla. Mi fece dono anche
di alcuni suoi libri, alcuni suoi scritti e sue foto dedicate a me”.
E continua: “Personalità poliedrica, unica, uomo di grande e rara cultura
unita ad una grande umiltà oltre che profonda saggezza, amava ed insegnava,
innanzitutto, la disciplina sia nella vita che nel lavoro. Personalizzava il suo
insegnamento didattico cercando di capire quali fossero i reali mezzi (qualità e
limiti ) degli allievi.”26
Il Maestro non emetteva giudizi definitivi sull’esatta classificazione del
registro vocale degli allievi se non con estremo scrupolo e cautela giacché
conosceva bene i limiti fisiologici della voce umana ed era in ogni caso
rispettoso delle soggettive caratteristiche timbriche. Era fermamente contrario a quei canoni didattici che, imponendo un modello assoluto di
suono, snaturano e standardizzano la fisionomia vocale del singolo cantante, memore del fatto che tre diversi, prestigiosi insegnanti avevano
definito il registro vocale della sorella Sara in tre modi rispettivamente
differenti: da mezzosoprano, in poco tempo, quella voce era stata classificata da contralto ed infine da soprano drammatico!
Il Maestro aveva trasfuso le sue conoscenze dello yoga sulla attività
musicale e didattica. Era convinto che un musicista e, più specificatamente un cantante lirico, potesse trarre notevoli giovamenti da una tale forma
di rilassamento. Le emozioni negative (paura, insicurezza, agitazione)
infatti, provocano su chi non è pienamente in grado gestirle, un respiro
superficiale ed irregolare ed il fastidioso effetto della gola serrata. Un
costante esercizio di autocontrollo rende, invece, un respiro più ampio e
regolare e, rilassando glottide e corde vocali, contribuisce a migliorare la
qualità della voce stessa.
Un primo passo necessario alla corretta impostazione della voce era
quello di sgomberare la mente dai tanti pensieri per concentrarsi sull’ascolto del proprio corpo.
Il controllo del respiro permette di distendere tutta la fascia della
muscolatura respiratoria interessata (intercostale, diaframmatica ed
addominale).27
25 Testimonianza della Signora Lucia Aliberti del 29/04/2008.
26 Testimonianza della Signora Lucia Aliberti del 29/04/2008.
27 Prassi esecutiva. Enciclopedia della musica UTET, Il lessico, volume II, pag
740 - 742.
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Come ricorda anche la signora Lucia Aliberti: ”il Maestro mi suggeriva,
inoltre, di imparare a respirare senza pensare di dovere respirare, ovvero con
naturalezza”.
L’accenno allo sbadiglio e l’ammorbidimento della lingua sul fondo
della bocca determinano il rilassamento della glottide, delle mascelle e
delle corde vocali, fattori che influiscono notevolmente sulla qualità della
voce.28
Con pazienza illimitata il Maestro attendeva che l’allievo compisse
consapevolmente il passaggio dalla respirazione istintiva e fisiologica a
quella tecnica, che consente di ottenere il massimo rifornimento di aria.
La formazione vocale dell’allievo cominciava da un lavoro propedeutico basato principalmente sulla semplice emissione del suono puro, sul
quale si innestava l’acquisizione della tecnica vera e propria che mira alla
equalizzazione dei registri.
Il bel suono deve essere sempre naturale e morbido, senza presentare
sforzi o durezze, soprattutto nella zona degli acuti dove facilmente si
tende allo stridore metallico; viceversa, nelle zone gravi, la voce non deve
apparire sorda o cupa.
Il sussidio didattico di cui il Maestro si avvaleva era il metodo tecnico ottocentesco di Manuel Garcia, contenente svariati esercizi ed intitolato “Traitè complet du chant”, pubblicato nel 1847, che egli aveva approfondito con personali riflessioni e conoscenze mediche.29
Se del metodo del Garcia aveva assunto il classico “attacco sul colpo di
glottide”, dall’altro lato ne aveva superato l’enfatica distinzione fra i tre
registri di risonanza (petto, falsetto, testa) poiché era convinto che esista
una certa debolezza fra l’estremo suono grave ed il primo dei medi e fra
l’ultimo medio ed il primo degli acuti ma essa si può risolvere semplicemente attraverso un potenziamento della respirazione ed il rilassamento
dell’apparato fonatorio.
Il didatta acese e quello spagnolo (nato a Madrid nel 1805 e morto a
Londra nel 1906) erano stranamente accomunati da alcune coincidenze:
balza immediatamente agli occhi la loro longevità (il primo visse quasi
103 anni ed il secondo 101), entrambi esercitarono una intensa attività
didattica, l’uno in casa, liberamente, l’altro come docente dell’Accademia
Reale di musica di Londra. Come il Garcia, anche Celso compose un’opera metodologica, i Vocalizzi – Lieder, che, pur non avendo grandi dimensioni, rappresenta, comunque, un sussidio didattico validissimo nella
sfera del canto contemporaneo. Impostata correttamente l’emissione delle
vocali, occorreva anche lavorare sulla intelligibile pronuncia delle parole
28 La Voce. Enciclopedia della musica UTET, Il lessico, volume II, pag 750-753.
29 Vocalizzi. Enciclopedia UTET, Il Lessico, volume II.
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così come sulle varie tecniche, oggi pressoché dimenticate, del picchiettato, del martellato e sull’effetto del vibrato che il Maestro definiva “la cornice della voce”.
La Signora Lucia Aliberti serba ancora il prezioso suggerimento del
Maestro: “Egli insisteva maggiormente sulla necessità ed imprescindibilità di
fare tutti i giorni per 10 minuti solo esercizi di tecnica vocale non dimenticando di iniziare dalla tessitura più bassa.”
Esercizi e vocalizzi erano integrati subito con facili arie, antiche e
moderne che egli accompagnava personalmente al pianoforte, cosa che
continuò a praticare fino all’età di 96 anni. In taluni casi si avvaleva della
collaborazione della sorella Francesca o lasciava suonare gli alunni che ne
erano in grado offrendo loro “consigli anche su come accompagnare la voce
tenendo conto che nel belcanto la voce ha il tema armonico melodico”.30
Due lunghe pile di spartiti incorniciavano il suo antico pianoforte: lì
era possibile trovare di tutto, in un “disordine organizzato”, dal brano più
popolare alle rarità, dai pezzi d’opera alle sue personali trascrizioni.
Il Maestro si occupava anche dell’educazione alimentare degli allievi,
raccomandando di non trascurare gli alimenti proteici ed i carboidrati.
Molto efficaci erano poi i suoi rimedi casalinghi contro il mal di gola.
La sua azione didattica non si fermava solo alla corretta impostazione
della tecnica vocale ma inglobava anche l’educazione emotiva del futuro
cantante. Prima raccomandazione era dunque quella di ottenere, anche
nei momenti di evidente defaillance della voce, una certa impassibilità
nelle espressioni del viso ed un sicuro portamento da grandi divi.
Sorridendo il Maestro mi esortava spesso a “rendere la faccia di carta vetrata, adatta ad accendere i cerini!”
Vorrei riportare, infine, il ricordo commosso del celebre soprano Lucia
Aliberti: “Tengo a sottolineare che ho avuto la fortuna di incontrare un genio che
ha segnato la mia vita artistica e umana e con il quale ho sempre mantenuto i
contatti fino a qualche giorno prima che morisse. Egli rappresentava per me una
certezza; con lui mi consigliavo sempre e in qualsiasi momento di difficoltà egli
mi stava sempre vicino; mi ha sempre sostenuta con rigorosità ed incredibile dolcezza.”31
Il compositore e le opere
Lo stile compositivo del Maestro Francesco Celso è frutto di un attento studio alla costante ricerca di nuovi mezzi espressivi, eclettico crogiuo-
30 Testimonianza della Signora Lucia Aliberti del 29/04/2008.
31 Enciclopedia di Catania, Trincale Editore, volume II.
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lo cui convergono il sano classicismo, l’influsso dell’Impressionismo, il
gusto per le ardite sonorità e l’irrequietezza tonale. In completa autonomia rispetto alle dispute teoriche ed ideologiche avanguardistiche o dodecafoniche, la sua opera mostra un certo rinnovamento che è però modellato sulla traccia compositiva del primo Novecento.
Decisiva fu la mediazione fra tanti elementi eterogenei da parte del
paterno maestro di composizione Antonio Savasta (Catania 22 agosto
1874 - Napoli 2 luglio 1959), la cui solida formazione lo condusse, a soli 17
anni, a vincere il concorso per la cattedra di armonia in un istituto di
Firenze e nel 1915 ad insegnare al Conservatorio di Napoli, subentrando
proprio al suo maestro Nicola D’Arienzo nella cattedra di composizione.
Il Savasta fu invitato a ricoprire la mansione di direttore del Regio
Conservatorio “Vincenzo Bellini” a Palermo dal 1926 al 1938, destinato a
lasciare un segno decisivo nella scuola musicale siciliana dei primi anni
Cinquanta del Novecento. Il suo magistero, infatti, avrebbe formato oltre
al Maestro Celso anche altri conosciuti musicisti isolani quali Sangiorgi,
Santonocito, Gargiulo, Longo, Pilati e Francesco Pastura, di origini catanesi, noto più come musicologo e critico.
Punto di forza della produzione e della lezione del Savasta fu l’assimilazione della lettura impressionista di Debussy senza dimenticare mai le
origini etnee. Non a caso i titoli delle sue due opere liriche fanno un esplicito riferimento alla sua terra natale: il nome di Vera e soprattutto il mito
di Galatea, ricavato dalle Metamorfosi di Ovidio, sono il simbolo della
città di Acireale.32
Tali opere ebbero un immediato successo e furono diffuse in Italia dalla
radio Rai, quando ancora la televisione non era conosciuta. “Vera” fu rappresentata al Teatro Massimo Bellini di Catania il 27 marzo del 1913 e
“Galatea” nel 1920, per andare poi in scena nei maggiori teatri lirici del
tempo.
Grazie al Maestro Savasta Francesco Celso conobbe ed approfondì il
linguaggio debussiano, prestando moltissima attenzione al trattamento
timbrico: la voce di ciascuno strumento era considerata come valore assoluto e non mezzo materiale, pertanto, per la sua funzione evocativa, andava usata nella sua purezza. Probabilmente il fascino nei confronti dell’elemento orientaleggiante, carico di mistero e sensualità, trae origine proprio
dallo studio delle opere di Debussy. Tracce del suo stile, impostato sull’uso di scale per toni interi, pentafoniche ed esatonali ed il gusto per
l’arabesco saranno chiaramente ravvisabili nelle composizioni di Celso.
Altra roccaforte dell’insegnamento savastiano fu l’attenzione nei confronti del mondo dell’opera lirica. Pur non avendo intrapreso la carriera
32 Storia della musica Edizioni Garzanti. La musica contemporanea. Vol. X.
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Rosanna Furnari
di cantante lirico, Francesco aveva fatto tesoro delle nozioni apprese
durante i corsi di canto principale e canto gregoriano quando era studente di composizione a Palermo, facendosi un’idea limpida della voce
umana nella varietà dei suoi registri ed indagandone con precisione i
punti di debolezza e di forza. La sua produzione vocale, cameristica ed
operistica vede come diretti antecedenti alcuni tra i rappresentanti della
giovane generazione di operisti della penisola, orientati, nella prima metà
del Novecento, al rinnovamento dell’opera italiana.
Ci si riferisce a Riccardo Zandonai, con il suo stile ricco di coloriture
orchestrali, preziosità di timbri e largo uso di cromatismi, a Francesco
Cilea (che Celso aveva conosciuto personalmente tramite la sorella Sara)
e soprattutto ad Ottorino Respighi, compositore al quale il Maestro fu
legato da stima oltre che professionale anche personale. Possiamo individuare alcuni punti di contatto tra il pensiero e lo stile compositivo di
Francesco Celso e quello di Ottorino Respighi.
Innanzitutto entrambi hanno condiviso quella atmosfera spiritualistica, lontana, però, dagli estremi nazionalistici dannunziani, che considerava la musica come “espressione delle profonde aspirazioni ad una vita
più pura e disinteressata”.33
Un altro elemento comune emerge, inoltre, dalla doppia natura,
modernista e restauratrice, che lascia coesistere il gusto per gli innovativi
impasti timbrici (soprattutto nei lavori sinfonici) con la volontà di non rinnegare mai la tradizione vocale italiana.
Il Maestro Celso aveva rinunciato ai plateali codici dell’opera verista
italiana: gli sfoghi lirici passionali e le esasperazioni delle tensioni vocaliche che sfociavano nel parlato, nel riso amaro o nel grido. Piuttosto, egli
aveva ben assimilato i modelli teatrali francesi delle opera- lirique ed
opera- comique di Jules Massenet e George Bizet. Del primo compositore,
che aveva esordito proprio sotto il segno dell’orientalismo, apprezzava
maggiormente la capacità di far convivere l’intimismo sentimentale ed il
melodismo con lo spettacolare, il pittoresco ed il meraviglioso.
Per quanto riguarda Bizet, Celso era letteralmente ammaliato dalle
opere “Les pecheurs de perles”, ambientata nell’isola di Ceylon e “Carmen”, per la brevità e nitidezza delle idee musicali, per la scelta tipicamente francese di timbri orchestrali puri, per la sintassi avanzata, oltre
che per l’esotismo e l’insinuante “coloeur locale” spagnolo.
Come ricorda l’amico Tommaso Papandrea, Francesco ascoltava sempre incantato l’aria di Josè, tratta dalla Carmen, intitolata “Le fleure que
tu m’avais jetée” ( Il fior che avevi a me tu dato).34
33 G. Bizet. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag. 540.
34 Rimskij- Korsakov. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag. 360.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Per quel che concerne l’orchestrazione, il Maestro acese si ispirò sempre al modello rappresentato dalla lezione di Rimskij – Korsakov, alle sue
sonorità caratterizzate da un forte languore orientale, un acceso colorismo
ed una possente vitalità ritmica.
La predilezione nei confronti della musica sinfonica russa lo fece orientare, inoltre, verso un genere di sviluppo tematico di tipo paratattico, non
deduttivo come quello di filiazione tipicamente germanica.35
Anche lo stile compositivo di Maurice Ravel fu per Celso fonte di ispirazione e di riflessione. Analogo risulta il modo di gestire la composizione con ordine e misura risolvendo gli accordi dissonanti come se fossero
consonanti ed alternando sonorità piene e ritmi forti con melodie struggenti e malinconiche.
Entrambi i compositori sono accomunati, poi, da un certo pudore aristocratico, dalla riservatezza tipica dell’artista che vive del solo lavoro di
libero professionista, senza ricoprire incarichi o legarsi a società o scuole.
Più di tutto risalta la loro affinità di pensiero. Ravel scrisse un giorno:
“Ho sempre pensato che un compositore deve mettere sulla carta ciò che
sente e come lo sente, liberamente e senza tener conto dello stile del
momento. La grande musica deve sgorgare dal cuore”.36
Il Maestro Celso maturò in un modo del tutto personale l’eredità trasmessa da quello che Alfredo Casella aveva definito “Impressionismo
franco-russo” e l’arricchì aprendosi agli intervalli dissonanti, agli accordi
non legati tra loro, alle incursioni extratonali, al colorismo, manifestando
chiaramente la volontà di emancipare il proprio linguaggio, senza cadere
mai nell’artificiosità.37
Nonostante il suo stile compositivo si muova spesso nell’ambito di una
tonalità allargata, si mantiene fedele a quelle che Giacomo Puccini aveva
chiamato “le insuperabili leggi della natura dell’orecchio” ovvero i centri
tonali d’attrazione.
Senza screditare mai il lavoro di quei colleghi che esploravano le
nuove vie dell’Avanguardia (vedi, per esempio, il conterraneo Sangiorgi)
il Maestro Celso manifestò chiaramente una certa diffidenza nei confronti della dodecafonia schoenberghiana, delle sperimentazioni fonematiche
e della tecnica dello Sprechgesang.
A tal proposito la professoressa Vera Pulvirenti, docente di pianoforte
al Conservatorio “F. Torrefranca” di Vibo Valentia, puntualizza: “Lo stile
di Francesco Celso è schivo da orpelli ed esibizionismi di presunta innovazione
musicale, avulso da falsi tentativi di musica atonale, come quella dei costruttori
35 Il mondo della musica. Edizioni Garzanti. Volume II.
36 Storia della musica Edizioni Garzanti. La musica contemporanea. Vol. X.
37 Testimonianza della Professoressa Vera Pulvirenti del maggio 2008.
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o ingegneri della musica, con i loro tentativi così azzardati da confondere e travisare la vera origine della musica e privarla della cosa più importante ovvero la
sensibilità musicale.”
“Il Maestro aveva una capacità di sentire il suono dal di dentro, di analizzarlo fino al cuore, quasi possedesse una lente di ingrandimento per vedere, o meglio,
sentire le sfumature che esso emanava. Il suo modo di pensare i suoni e la loro
architettura ha sempre avuto un unico scopo, quello che lui stesso esponeva dicendo «tutta la musica propriamente detta deve agire sulla sensibilità umana con
l’alternarsi di tutte le infinite sensazioni che le varie combinazioni degli intervalli producono», precisando che «il valore di una musica dipende dalla qualità e dall’intensità delle sensazioni prodotte da essa». Qui riportava l’esempio della differenza che sta tra un intervallo comunemente detto maggiore e le sue caratteristiche e uno detto minore con le sue differenze”.38
Il carattere delle sue composizioni è immagine della sua personalità:
essendo pudico, riservato, restio e contrario a qualsiasi sfoggio del proprio io, lasciò che le sue più intime emozioni rimanessero delicatamente
celate tra i righi musicali, senza alcuna ostentazione affettata.
Per gli svariati riflessi mobili e cangianti delle opere di Francesco
Celso, mi sento di definire il suo come lo stile dell’ “iridescenza”.
La sua copiosa produzione annovera un numero altissimo di composizioni per le quali risulta difficile anche tentare di stilare una cronologia,
essendo prive di datazione. Purtroppo, la gran parte di esse non è mai
stata eseguita pubblicamente e rimane ancor oggi manoscritta, non catalogata anzi pressoché negletta.
La produzione vocale - Le Liriche Cinesi
Per risalire alla genesi delle “Liriche Cinesi” occorre fare un passo
indietro nella storia di padre Gabriele Allegra (nato a S. Giovanni La
Punta, in provincia di Catania, il 26/12/1907 e morto ad Hong Kong il
26/1/1976 ), amico del Maestro Celso e di suo padre. Il frate, missionario
della parola di Dio nel lontano Oriente, era partito alla volta di una Cina
alquanto inquieta nel 1931 ma ritornò in Italia nel 1939 e vi rimase per
circa un anno e mezzo.39
Padre Gabriele era poliglotta, sacerdote dalla cultura sconfinata: conosceva perfettamente le lingue antiche del Mediterraneo ma una volta a
Pechino cominciò a parlare e scrivere correttamente anche il cinese lette-
38 P.Leonardo Anastasi, Profilo spirituale di P.G.M. Allegra,Tipografia Don
Gaunella, Roma, 1988, pag.184.
39 A.Sciacca. Nota introduttiva a Stagione finale Jonica. Edizioni A& G.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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rario, tanto da concepire e realizzare la titanica idea di una integrale traduzione della sacra Bibbia.
Il frate era anche un infaticabile lettore di opere profane cinesi che gli
occorrevano per comprendere meglio la mentalità dei paesi del Sol
Levante. Si dedicò, così alla traduzione di alcuni libri fra i quali il poema
elegiaco “Li Sao”(Incontro al dolore). Egli sapeva bene quanto un compositore sia alla costante ricerca di temi accattivanti, spinto dall’esigenza di
trovare sempre nuove fonti d ispirazione, pertanto provvide a tradurre in
italiano e spedire al Maestro Celso da Roma Appio, il 12 maggio 1940, un
soggetto originale: si trattava di quattro liriche popolari profane, estratte dalla raccolta di antiche poesie cinesi detta “Fonte della poesia antica”.
Francesco Celso musicò in breve tempo i nuovi testi consegnando, nello
stesso anno, quattro bei componimenti da camera per canto e pianoforte.
L’estensione vocale dei brani appare chiaramente medio-alta ed è indicata, di conseguenza, per un registro di voce mezzosopranile o anche di
soprano drammatico.
Il brano dal lungo titolo “La vedova ad un mezzano che le propone
nuove nozze” è un componimento poetico di autore ignoto, molto antico,
da far risalire probabilmente al 200 a. C.; si tratta di un topos tra le forme
letterarie cinesi, ovvero di un Pai-Leu, monumento commemorativo dedicato alle vedove caste. Il testo illustra la decisa volontà di una donna, che
ha ancora il cuore lacero e sanguinante per la morte del marito, di rimanere sola nel suo nido poiché esso era stato preparato solo per lei e l’amato scomparso.
La donna attende dunque con determinazione e fermezza la morte che
giungerà a portare gioia alla sua anima stanca come un lieto cinguettare
di creature alate.
Giacché si tratta di una traduzione di un testo artistico cinese, la struttura metrica è ben lontana da quella tipica della tradizione poetica italiana in rima; la composizione, consistente in quattro strofe, ciascuna composta da versi lunghi, vicini alla prosa, spinse il compositore a variare le
forme classiche della scrittura musicale. Il Maestro fece ricorso, pertanto,
a frequenti cambi di tempo, soprattutto in corrispondenza del passaggio
alle strofe successive: da un iniziale 4/4 si spostò ad un 2/4, toccando il ?,
per concludere, tornando al tempo d’inizio. Nonostante i continui cambiamenti, la lirica mantiene sempre il carattere grave ed elegiaco, sostenuta anche dall’accompagnamento scarno del pianoforte che si anima leggermente solo nell’ultima quartina per enfatizzare l’invito della vedova al
mezzano affinché desista dal suo proposito.
Il secondo brano, intitolato “Amori d’autunno”, è attribuito all’imperatore Ou della dinastia Han e risale al 150 A. C. Contrariamente a quanto il titolo potrebbe far pensare non si tratta di un canto che esalta tristemente la caducità della vita ma di un inno che celebra la natura e l’amo-
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Rosanna Furnari
re. Nella cultura e nelle tradizioni dei paesi del Sol Levante, soprattutto
quelle della Cina Meridionale, patria del poeta – sovrano, la stagione
autunnale viene considerata come la più bella perché prepara la natura al
suo ridestarsi. Mentre il vento leggero spande per l’aria profumi di
magnolia e lascia cadere lentamente le foglie gialle, il pensiero di una fanciulla corre all’amato, che non riesce a dimenticare. Il canto si erge leggiadro su un accompagnamento pianistico fatto di leggere sestine di semicrome.
Il Maestro Celso ebbe una doppia gioia nel veder premiate queste due
liriche in diverse occasioni: vinse il concorso bandito dalla rivista “Musica
d’oggi” nel 1941, la “Mostra di musica contemporanea” di Palermo nel
1941 e il concorso di musica da camera nel 1942 con l’esecuzione finale,
come concerto premio, nella sala Scarlatti del Conservatorio di Palermo.
Verso la fine degli anni Novanta il Maestro, ormai anziano, ebbe la
possibilità di ritornare al convento di San Biagio in occasione di una manifestazione organizzata per celebrare le virtù eroiche del frate ispiratore
delle sue “Liriche Cinesi”, nel corso della quale serata vennero eseguite le
sue composizioni.
L’Abù Hassan
Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, tra il 1945 ed il 1946,
Francesco Celso si rivolse alla realizzazione del suo più grande desiderio,
la composizione di un’opera lirica. Faceva parte della sua cerchia di amici
più intimi il giovane poeta Tommaso Papandrea, suo vicino di casa, allora ancora studente universitario di lettere classiche presso la facoltà di
Lettere e Filosofia di Catania.
Nonostante Papandrea fosse più giovane di circa venti anni rispetto al
Maestro aveva il pregio di mantenere la sua stessa linea di condotta,
mostrandosi in pieno accordo con il suo mondo culturale e morale.
Apparteneva ad una antica famiglia acese che aveva sempre “coltivato
l’arte con quell’atteggiamento che si serba al sacro”.40
Egli era votato non solo alla poesia ma anche alla musica ed all’arte
figurativa: aveva, infatti, cominciato a studiare anche canto sotto la guida
di Sara Celso. Francesco si rivolse all’amico Tommaso perché potesse trovare un soggetto conforme alla sua aspirazione: desiderava, infatti, un
argomento affascinante, fiabesco ed esotico.
Il giovane Papandrea, dopo una breve ricerca in casa, trovò subito i
quattro volumi della collezione Einaudi contenente la raccolta ufficiale
40 G. Bizet. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag. 540.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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delle “Mille e una notte”, prima versione integrale dall’arabo, nella traduzione di Francesco Gabrieli; poiché però nessuna delle trame proposte
aveva suscitato particolare entusiasmo nel Maestro, il poeta gli mostrò
infine l’unico racconto che non compariva nell’antologia in suo possesso.
Si trattava di una novella spuria, direttamente tradotta dal francese,
inclusa in un fascicolo mensile pubblicato dalle Edizioni Nervini. Questa
storia piacque molto al giovane operista e nonostante l’amico librettista
glielo sconsigliasse, in quanto stava cimentandosi per la prima volta nel
genere operistico, obiettivo e traguardo di Francesco Celso era quello di
creare uno spettacolo grand- operistico, dai numerosi atti, dalle coreografie sfarzose, dalle scene d’effetto, con ampi balletti e qualche passo comico.
Stabilita la “fabula”, ovvero l’intreccio, Tommaso si impegnò subito
nella sceneggiatura e l’opera fu intitolata “Abù Hassan o Il Dormiglione
risvegliato”.
La struttura dell’opera dissolve le forme standardizzate e gli stereotipi
metrici verdiani, proponendo una serie di episodi che si susseguono in
una sorta di “prosa musicale”. Nel testo, dunque, mancano i convenzionali numeri chiusi, le strofe isometriche, le reiterazioni verbali ed i tradizionali comici giochi di parole e il libretto è chiaro ed efficace; del resto il
Maestro aveva scelto, molto saggiamente, un soggetto operistico “ideale”,
in cui è presente un’azione senza antefatti e tutta la trama può essere
comunicata sul palcoscenico. Rispetto alla fonte il librettista, uomo di lettere, ha abilmente aggiunto minime varianti, diversi interventi del coro,
posti all’inizio del secondo atto, alla fine del terzo atto e nel concertato
finale ed ha mantenuto il “luogo topico” della burla finale. Originale è
l’aggiunta della canzone - filastrocca del “Cavallino” che apre il III atto,
cantata dal Califfo nei pressi dell’abitazione di Abù.
Le scene, sette in tutto, sono caratterizzate, in genere, da rapidi scambi di battute lapidarie; il linguaggio dell’ “Abù – Hassan è raffinato ed elegante e non cade mai nella retorica mentre i personaggi stereotipati della
favola orientale sono abilmente trasfigurati in caratteri umani, ritratti con
i loro naturali pregi e difetti. Il Califfo, ad esempio, malgrado rimanga vittima della piccola burla da parte di Abù, è pur sempre un dignitario abile
ed astuto, che ricorre a vari travestimenti per poter controllare di persona
il grado di ordine nella sua città; egli è dunque ben lungi dal classico cliché del cosiddetto buffo caricato. Zobeida, la Sultana, è una donna risoluta, fedele ma non eccessivamente sottomessa al marito, capace anche di
sfoderare le docili arti femminili per ottenere i suoi fini.
Quantunque il soggetto rechi in sé i germi di possibili implicazioni di
carattere sociale, religioso e politico, le figure dei protagonisti non si presentano politicizzate. Abù Hassan appartiene ad un ceto sociale notevolmente inferiore in confronto a quello del Califfo, tuttavia nell’opera non si
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Rosanna Furnari
assiste al trionfo del potente sul debole, del nobile sul plebeo, anzi, alla
fine della vicenda, il giovane mercante riesce scaltramente a collocarsi in
una posizione paritaria rispetto a quella del suo Signore, affermando la
propria libertà e dignità umana.
L’opera consiste in una piacevole storia sentimentale - comica, ambientata nella città di Bagdad, al tempo in cui regnava il Califfo Harun al
Rascid.
Questi i protagonisti e le loro vocalità:
Abù
tenore
Il Califfo
baritono
Il Gran Visir Giafar
basso
Il medico
basso
Mesnur, favorito del califfo
basso
Fatima, favorita della Sultana
soprano
Zobeida, Sultana
mezzo-soprano
Schemnelziar
soprano
Nuzhat
mezzo-soprano
Atto I. Una sera, il Califfo, di ritorno da un giro in incognito per la città,
vede sul ponte affacciato sul fiume Tigri, Abù Hassan, figlio di un mercante di stoffe e accetta l’invito di fermarsi un po’a casa sua. Riconosciuti il
buon cuore e la sincerità del giovane, che gli esternava il desiderio di
poter vivere da Califfo almeno per un giorno, decide di accontentarlo e, a
sua insaputa, lo fa addormentare versando una polverina nel vino e lo fa
condurre nella sua sfarzosa Corte. Una volta a Palazzo, Abù si desta e
crede di avere una visione, ma, giacché tutti gli si prostrano innanzi con
naturalezza, presto comincia a convincersi della realtà della sua nuova
esistenza, pertanto va assumendo gradatamente il tono confacentesi al
suo altissimo grado.
Atto II. Al Principe –Abù viene presentata la sua Sultana che altri non
è se non la dama di compagnia di Zobeida, moglie del vero Califfo.
Fatima appare come una meravigliosa creatura ed Abù riconosce il lei la
misteriosa donna dei suoi sogni.
Insieme i due assistono ad un leggiadro ballo in cui le danzatrici spargono fiori per la grande sala.
Atto III. Mentre Zobieda, la Sultana, lamenta la sua solitudine, chiede
a Fatima il motivo della sua tristezza. La sua favorita, da qualche giorno,
ha perduto la fame e piange anche la notte: è, in poche parole, innamorata. Le notizie sul conto di Abù sono causa di un grande sconforto per
Fatima in quanto il giovane, al risveglio dallo stravagante scherzo, non
avendo più riconosciuto la madre, l’aveva stretta violentemente alla gola,
per cui era stato condotto all’ospedale. Il Califfo, divertito, si reca a far
vista al povero Abù, il quale, risentito, gli racconta di aver ricevuto in
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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ospedale dure sferzate sulle spalle per rinsavire. Mal celando il riso, il
Gran Commendatore dei credenti lo invita a Palazzo per concludere
degnamente lo scherzo impietoso. Giunto alla reggia, Abù riconosce
Mesnur e poi lo stesso Califfo, nei panni del mercante di Mussul.
Per ripagarlo delle beffe e dei maltrattamenti subiti, il gran Signore gli
conferisce la carica di suo Consigliere personale, a condizione, però, che
non si innamori mai.
Atto IV. L’ultimo atto si apre con il felice incontro tra Fatima e Abù, un
duetto ricco di luminose ed appassionate immagini poetiche che descrivono il rinverdirsi della speranza grazie all’amore. L’idillio è presto
adombrato dalla promessa di non innamorarsi mai, fatta da Abù al suo
Signore. Lo scaltro mercante riesce però a trovare un espediente per gabbare il suo Padrone e svela il suo piano all’innamorata, decisa a collaborare. Poco dopo tutta la reggia risuona di lamenti e Fatima, scarmigliata,
grida che Abù si trova in fin di vita. Intanto che un medico tenta di rianimare il finto moribondo, tutti i cortigiani gli si stringono intorno ed il
Califfo, commosso, gli concede di esaudire l’ultimo desiderio. Il giovane
astuto chiede di poter abbracciare Fatima. Giunta la fanciulla, Abù balza
in piedi fra lo stupore generale e abbraccia la sua innamorata implorando
il perdono. Il suo signore, irremovibile, vorrebbe punirlo severamente, ma
la Sultana Zobeida intercede per i due giovani presso il marito, ottenendo indulgenza.
L’opera termina con una spiritosa morale pronunciata dal medico:
“Che se Amor sa far morir, sa pur far risuscitare”.
Il Maestro Celso si mise subito a musicare il primo atto dell’Abù, per
dedicarsi poi ai successivi, man mano che gli venivano consegnati dall’amico Papandrea, il quale, nel frattempo, si era laureato e dedicato all’insegnamento. L’opera fu portata a termine prima del 1950. In completa
autonomia rispetto alle dispute teoriche ed ideologiche del primo
Novecento, l’opera mostra un certo rinnovamento che è però modellato
su precisi omaggi, soprattutto russi e francesi. L’ambientazione esotica
non costituisce una novità nell’ambito operistico. Nel corso dell’Ottocento
era in voga la moda letteraria della “Turquerie”, fatta di trame che giocavano sulla diversità di caratteri, usi e costumi, rispetto a quelli occidentali.
Il gusto “turchesco” offriva alla musica la possibilità di usare varie percussioni ed un linguaggio vocale vivace e stravagante in cui abbondavano note extratonali, cromatismi ed acciaccature. “L’Entfrung aus dem
serail” di W. A. Mozart o “L’italiana in Algeri” di Gioacchino Rossini ne
sono un esempio. Anche in tempi più recenti, l’opera francese aveva fatto
abbondante ricorso al filone esotico. Ci si riferisce, in particolare, alle
opera – comique “Les pecheurs de perles” e “Carmen”di George Bizet,
alla opera- lirique “Le Mage” di Jules Massenet, ambientata in Persia e
90
Rosanna Furnari
caratterizzata dalla presenza di protagonisti pagani e cristiani contraddistinti da stili musicali diversi.41
Rispetto ai suddetti modelli, che rientrano nel genere dell’opera –
comique e prevedono l’alternanza di parti recitate con parti musicali, il
Maestro scelse per l’Abù Hassan una forma, tipicamente italiana, tutta
cantata.
L’ Abù Hassan è segnato, nondimeno, dall’impronta rimskiana dell’orchestrazione. Tra l’altro, non ritengo si tratti di una casuale coincidenza il
fatto che anche il compositore russo Rimskj Korsakov si fosse ispirato ad
un racconto tratto dalle “Mille e una notte” durante la stesura della sua
Suite per orchestra intitolata “Seherazada”.42
La dimensione esotica dell’opera, tuttavia, non coincide con il puro folklore locale, ma si manifesta come “colore immaginario” che trascende
tutti i luoghi comuni del passato consentendo nuove definizioni armoniche e timbriche.
Francesco Celso fu un “cantore nato”, non un compositore che si limitasse ad adattare la musica alle parole; grazie alla capacità di immedesimazione psicologica con il significato letterario, la sua mente assimilava il
testo poetico e ricreava la parole in musica.
L’andatura musicale delle scene combacia perfettamente con i dialoghi
dei personaggi, con il tempo dei sentimenti che li animano, senza ristagni
o divaricazioni. Il fluire del declamato melodico, pervaso dall’elaborazione motivica dell’orchestra, è punteggiato, qua e là, da momenti emozionali isolati. La scrittura orchestrale dell’Abù consta di fitte trame, contraddistinte da una chiarezza persino schematica, ma anche da una grande
complessità sintattico-armonica. Lo dimostra, ad esempio, la “Danza
Orientale”, ovvero il balletto situato alla fine del II atto, composto da una
serie di ben 14 brevissime sezioni, tutte diverse tra loro, che mostrano, in
un agile continuum sonoro, tutta la gamma agogica, dal “dolcemente cullante” al “tempestoso”. Qui la sinuosità delle numerose melodie orientaleggianti è accompagnata da “grappoli di accordi” e scandita da studiate
dissonanze, fittissimi cromatismi e ritmi vivaci, gioiosamente esuberanti
che ricordano, talora, l’incisiva modernità di Prokof’ev. Bisogna tuttavia
puntualizzare che questo gusto per gli urti sonori non sconfina mai nella
sospensione vera e propria della tonalità.
Per quanto concerne l’aspetto canoro, quella di Abù Hassan, il protagonista, costituisce l’unica parte dell’opera affidata al registro vocale di
tenore. A questo personaggio sono richieste buone doti anche di interpre-
41 J. Massenet. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag. 708-710.
42 N. Rimskj-Korsakov. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag.
360.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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te che vanno dal comico al sentimentale, dal tono sarcastico dell’episodio
”Conosco ben l’amore” che sfocia in una risata sprezzante, alla inflessione sentimentale e languida del duetto posto all’inizio del IV atto.
Degno di nota è anche il bellissimo monologo di Zobeida, mezzosoprano, in cui, attraverso immagini simboliche, la Sultana confida malinconica la sua solitudine. Ella lo fa con voce sommessa, nel registro medio acuto ed anziché aprirsi nel forte verso l’acuto, malgrado la tensione emotiva, decresce estinguendosi dolcemente nel piano.
Il brano potrebbe apparire a prima vista molto semplice, tuttavia esso
è costellato da continue alterazioni momentanee, che producendo modulazioni ai toni lontani, ne rendono l’esecuzione particolarmente impegnativa. L’accompagnamento orchestrale è ricco: leggeri e veloci arpeggi ai
bassi si accompagnano alle terzine degli archi nella sezione centrale per
animarsi poco dopo in un crescendo di tremoli che sostiene il canto nel
culmine del pathos. Il monologo è caratterizzato, inoltre, da incalzanti
cambiamenti di tempo; nello spazio di sole 31 battute si susseguono ben
tre passaggi: da un Adagio in ? e poi in 4/4 ad un Largo in 2/2 per concludere in un Lento.
Questo procedimento del discorso musicale rientra perfettamente
nella tecnica dei cambi di accentuazione tipica del Novecento, nata dall’influsso di culture musicali etniche ed extraeuropee. Rispetto ad altri
compositori coevi, tuttavia, Francesco Celso non provoca mai senso di
smarrimento ritmico poiché nelle sue composizioni è sempre possibile
avvertire un ordine nelle pulsazioni isocrone ed il riconoscimento delle
cellule binarie e ternarie è sempre esplicito.
Nel 1951, un anno più tardi dalla conclusione della stesura dell’opera,
il maestro Celso decise di partecipare con l’Abù al Concorso Musicale
Internazionale per direttori d’orchestra indetto dal Teatro alla Scala, per
ricordare i cinquanta anni della morte di Giuseppe Verdi e si adoperò
subito per spedire la sua partitura a Milano.
Nonostante l’Opera fosse stata esaminata ed apprezzata da molti
esperti, il concorso venne superato da un direttore di origini argentine,
non iscritto nell’elenco dei partecipanti, che aveva musicato un libretto
scritto da Salvatore Quasimodo. Quella vincita suscitò una certa sorpresa,
in quanto il famoso poeta siciliano ricopriva, in quegli anni, la carica di
docente di drammaturgia per l’appunto presso il Conservatorio di
Milano.43
Stranamente, poi, lo stesso vincitore, il direttore sudamericano, entusiasta dell’Abù Hassan, si preoccupò di far giungere da Buenos Aires le
scenografie per un probabile allestimento dell’opera.
43 Testimonianza del Professor Tommaso Papandrea del 17 / 04 / 2008.
92
Rosanna Furnari
Oltre alla partitura completa per orchestra il Maestro Celso scrisse
anche tutte le riduzioni per canto e pianoforte, al fine di agevolare lo studio da parte dei cantanti. L’opera fu in primo luogo sottoposta al saggio
giudizio di Antonio Savasta sul finire del 1952, che la esaminò subito e
rispose con una missiva del 27 dicembre dello stesso anno. Di seguito il
testo integrale:
“Caro Maestro,
ho letto la sua opera Abù – Hassan per canto e piano, e sono lieto di comunicarle che mi è sinceramente piaciuta. In essa la musica, per il suo colore simpaticamente orientale, aderisce perfettamente all’ambiente del libretto, e lo stile,
quantunque abbastanza moderno, si mantiene strettamente equilibrato, senza
mai trascendere a certe stravaganze armoniche, tanto preferite da moltissimi
moderni per nascondere la povertà della loro inventiva. Sono sicuro che la partitura per orchestra, che non conosco ancora, sarà ugualmente interessante, e perciò le auguro che possa figurare presto nel cartellone di un importante teatro.
Congratulazioni e saluti cordiali
Antonio Savasta”
In un secondo momento l’opera fu esaminata anche dai Maestri Franco
Mannino, Carlo Frajese e Vincenzo Davico, che la apprezzarono e lodarono vivamente e nel 1953 il M° Ottavio Ziino, direttore del Conservatorio
di Santa Cecilia a Roma, telefonò personalmente a Francesco Celso dicendogli che sarebbe stato lieto di dirigere la prima esecuzione dell’opera,
tanto ne era rimasto colpito. Nel 1980 l’opera sembrava essere in procinto
di un imminente allestimento scenico proprio al Teatro di Catania ma,
nonostante il Maestro si fosse premurato a fare stampare tutta la partitura, la promessa cadde subito nel vuoto.44
Nel 1998 una copia della partitura fu inviata anche al Maestro Riccardo
Muti che, favorevolmente colpito dalla bellezza della struttura armonica
e melodica dell’opera, aveva inviato una lettera di risposta a Celso promettendogli che, una volta restaurato il Teatro alla Scala (in quegli anni
chiuso per lavori), lo avrebbe invitato personalmente a Milano per prendere parte alla prima. Ricordo perfettamente il giorno in cui, seduto
davanti al suo pianoforte, il Maestro mi lesse quel foglio con un pizzico di
emozione. Anche in quel caso, però, sopraggiunsero problemi che vanificarono il sogno. Durante gli ultimi anni della sua vita poi il Maestro, consapevole che la scrittura orchestrale dell’Abù Hassan fosse alquanto
impervia, aveva maturato l’idea di procedere ad uno “sfoltimento” dell’opera che potesse facilitarne l’esecuzione ma tuttavia non riuscì a concretizzare quell’intento, essendo ormai troppo anziano.
44 V. Pulvirenti. Il ricordo di un’allieva. Akis , 4/ 3/2006.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
93
Nonostante Francesco Celso avesse dedicato l’impegno più assiduo
alla sua opera lirica, attese per più di cinquanta anni quello che egli stesso, spiritosamente, definiva il “varo”, ma invano.
La produzione sacra
La profonda fede e religiosità che i genitori avevano saputo instillare
nell’animo del piccolo Francesco, così come di tutti i figli, avevano fatto sì
che, quasi naturalmente, essi si accostassero alla chiesa con devozione.
Non bisogna dimenticare che Gabriele Celso, padre del Maestro, era così
in confidenza con un sacerdote della curia di Agrigento, Monsignor
Gerlando Maria Genuardi, da cogliere subito il suo suggerimento e trasferirsi dalla sua città natale ad Acireale. Proprio in quegli anni il monsignore agrigentino fu nominato primo Vescovo della nascente Diocesi di
Acireale.
L’abitazione acese dei Celso si trovava di fronte alla chiesa di San
Camillo de Lellis, sotto la giurisdizione della parrocchia Cattedrale
“Maria Santissima Annunziata” e tutta la famiglia frequentava assiduamente quel prezioso gioiello barocco.
Il professor Antonio Pagano, vicino di casa ed amico del Maestro, definì Francesco “cappuccinoto” di Via Galatea, a rimarcare il fatto che egli
visitasse spesso la parrocchia di Santa Maria degli Angeli, retta in passato dai Frati Francescani Cappuccini.45
La vicinanza a quel luogo, ancora così intriso di francescanesimo,
determinò nel Maestro anche una certa familiarità con la figura del “poverello di Assisi” e la meditazione sulla vita e sulla spiritualità di san
Francesco, predicatore dell’umiltà, lasciò un chiaro segno sul suo carattere, che si distinse sempre per la grande modestia e la saggia semplicità,
che si tradussero poi in segno grafico: è impossibile dimenticare il meraviglioso quadro fissato alla parete dello studio raffigurante San Francesco
d’Assisi, immerso nella contemplazione della creazione.
Altro elemento da non sottovalutare nella formazione spirituale di
Francesco Celso fu il suo contatto con il padre francescano Gabriele
Allegra, appartenente all’Ordine dei Frati Minori, che, tra un periodo di
missione in Cina e l’altro, sostava ad Acireale nel convento di S. Biagio.46
Il frate, anima in costante “colloquio con Dio e la Vergine Maria”, già
45 Antonio Pagano. I cento anni del M° F. A. Celso. Biblioteca Zelantea.
Acireale, 2003.
46 Umberto Castagna , Un apostolo della Cina alle soglie del terzo millennio,
Arte tipografica , Napoli 2002, pag. 11.
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Rosanna Furnari
Servo di Dio per l’eroicità delle sue virtù e per la sua generosa carità verso
i lebbrosi, ebbe un breve rapporto epistolare con il Maestro.
Francesco intrattenne, poi, una sincera amicizia anche con il vescovo
Monsignor Ferdinando Cento, Nunzio Apostolico e poi Cardinale, letterato, giurista e filosofo, oltre che grande uomo di Chiesa.47
La religione rappresentò dunque per il Maestro una regione della propria esperienza umana dalla quale attingere seri contributi all’arte. La sua
produzione sacra non è dunque copiosa ma è tuttavia significativa ed
annovera, in primo luogo, una Messa composta nel 1962, dedicata non a
caso a Papa Giovanni XXIII e premiata ad un concorso di composizione a
Palermo. Questa fatica musicale si può inserire in quel filone di fioritura
della musica sacra, inaugurato, all’inizio del Novecento da Lorenzo
Perosi. Quest’ultimo, allontanandosi dalla tradizione polifonica tipicamente palestriniana, non aveva disdegnato l’impronta per così dire operistica nel musicare i soggetti liturgici, rappresentati con aperta cantabilità.
Nella Messa in questione è incontestabile la matrice lirica. Altro brano da
menzionare è l’ “Ave Maria” per coro a cappella, nata qualche anno più
tardi, breve Larghetto nella tonalità di re maggiore, composto per quattro
voci dispari che, di fatto, sono cinque nella parte iniziale giacché la linea
melodica del soprano si sdoppia.
Piena di intensa religiosità è l’ “Ave Maria” per voce e pianoforte in si
maggiore, composta il 21 dicembre 1965, dedicata ed inviata al Papa. Si
tratta di un brano di piccole dimensioni ma di grande e traboccante commozione. All’inizio la melodia, affidata alla voce, è calma e serena, in un
secondo momento si anima e muta il carattere. Particolarmente in corrispondenza delle concitate invocazioni ”Ora pro nobis peccatoribus” la
musica crea una forte tensione emotiva in cui, nell’implorare aiuto dalla
Vergine Santissima, Celso fa toccare con mano il vuoto, il nulla di cui è
fatta la creatura umana di fronte al suo Creatore. Il forte anelito dell’anima non si effonde verso l’acuto con un’emissione forte ma decresce, rassegnato, sul “Così sia” per dissolversi serenamente tra le ultime note del
pianoforte.
Rientra, secondo me, a pieno titolo, fra le opere sacre, il poemetto per
pianoforte, intitolato “Verso il Golgota”. Giacché manca la data di composizione, da una prima mia analisi del manoscritto evinco che si tratti di
una delle ultime fatiche del Maestro e che, per questo, faccia meglio trasparire la sua esperienza esistenziale del dolore e la personale riflessione
sul “tanathos”. Forti immagini sinestetiche dominano questo brano dalla
straordinaria efficacia evocativa, che mi piace definire come un “lungo
47 Alfio Fichera, Cronache e memorie, vol.I e II, Accademia Zelantea, I.T.E.S.
Catania.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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attraversamento sonoro” degli stati emozionali del divino martire del
Calvario. Qui Celso ha concepito una musica che può essere percepita da
tutti i sensi: l’iniziale iterazione di piccole cellule, l’una cromatica al basso
e l’altra diatonica alla mano destra, sovrapposte scientemente, trascina
l’ascoltatore nel vortice caotico degli scherni, degli insulti e delle grida
rivolti a Gesù, condannato a morte. Il ritmo puntato della mesta melodia
orientaleggiante, pare riprodurre plasticamente il passo stentato e stanco
del Cristo schiacciato dal peso della croce e dei peccati dell’umanità. La
marcata accentuazione, in corrispondenza di una progressione ascendente, rende visivamente lo sforzo della salita. Giunti nel luogo della crocifissione, una inaspettata e chiarissima melodia, fatta di doppi tremoli in
chiave di violino, pare avvolgere la croce gloriosa. La luce vivissima che
il suono promana illumina l’oscurità più recondita dell’intimo, invade il
cuore di una serena consolazione e lo proietta verso l’eternità.
In virtù dei messaggi religiosi contenuti in queste opere sacre, il santo
Padre Giovanni Paolo II elargì una speciale benedizione pontificia al
Maestro Celso, in occasione del suo centesimo compleanno, impartita per
mano dell’arcivescovo metropolita di Catania Monsignor Salvatore Gristina, “ulteriore dono del Signore e segno della mano della Provvidenza
nella sua operosa esistenza”.
La musica leggera
Alla fine degli anni Cinquanta Francesco Celso si cimentò anche nel
genere vocale della canzone leggera: le sue tre canzoni slow “Sempre”,
“L’hai voluto tu”e “Dove sarà”, concepite come genere d’intrattenimento
per far svagare e sognare il pubblico, senza alcuna velleità estetica, vanno
collocate sotto la denominazione di musica leggera. Bisogna subito specificare, tuttavia, che si tratta di una produzione di prima qualità, per nulla
assoggettata alla standardizzazione imposta dalle ragioni di mercato e
che, pertanto, non vivendo, come altri, di una “creatività riflessa”, presenta una personale impronta.
L’elegante carattere delle canzoni slow deriva dai rapporti dinamici
tenuti dal compositore con il genere del melodramma, filtrato attraverso
il patrimonio tramandato dall’operetta, la romanza da camera e la canzone napoletana. In altre parole, la piccola produzione in questione rientra
nel genere della musica leggera per il sentimentalismo e per la facilità
d’ascolto, ma se ne distanzia, allo stesso tempo, giacché non si sottomette
alla prevedibilità di determinate formule musicali.
Il sottotitolo di canzone “slow” lascia intendere una certa simpatia, da
parte dell’autore, per il genere americano delle songs. Infatti, nella formula d’accompagnamento pianistico delle tre canzoni, s’intravede qualche
96
Rosanna Furnari
traccia del ritmo sincopato americano, soprattutto nei ritornelli che si presentano poliritmici, caratterizzati dalla simultaneità di ritmi contrastanti,
alternati tra il canto ed il pianoforte. Minimi accenni alla forma musicale
americana si riscontrano pure nella ripetuta aggiunta di terze e settime
minori alla scala diatonica. Sotto l’aspetto melodico, invece, Celso rivela
chiaramente di non essersi lasciato travolgere dalla moda del jazz d’oltre
oceano.
Tema principale delle tre canzoni è l’amore, mostrato in tutte le sue
sfumature. Ad esempio, il testo della canzone “Dove sarà”, scritto da G.
Musmeci, narra di un amore nato da un fugace incontro alla stazione ferroviaria, che, alla partenza del treno, lascia già un vuoto incolmabile nel
cuore dei due giovani, costretti a separarsi.
La canzone intitolata “Sempre”, è un giuramento d’amore e di fedeltà
per tutta la vita, mentre, al contrario, “L’hai voluto tu” descrive il risentimento di un giovane, abbandonato dalla sua innamorata che non riesce
più a perdonare l’infedeltà subita e congeda la ragazza, in seguito ravveduta, con le parole “…un dì ti ho amato tanto, ora non ti amo più!...”.
La forma del brano “Dove sarà” (come delle altre canzoni slow) è quella classica della canzone A – B – A’: preceduto da una breve introduzione
del pianoforte il ritornello è costituito da un periodo binario in cui le frasi,
antecedente e conseguente, sono melodicamente e ritmicamente affini; la
melodia, estremamente orecchiabile, presenta momenti di intensità, come
quello in corrispondenza della frase “Per sempre questo cuore suo resterà”. La sezione centrale, di dimensioni pressoché uguali rispetto al ritornello, varia nell’accompagnamento pianistico che è accordale e presenta
numerose modulazioni ai toni vicini. Qui il carattere della linea melodica
si fa più discorsivo ed i valori si dimezzano in confronto a quelli precedenti. La coda finale, lunga 7 battute, prevedeva una conclusione nel registro medio, in un secondo momento è stato aggiunto un acuto giacché il
brano è divenuto appannaggio delle voci liriche sia tenorili che sopranili.
Con la canzone “Dove sarà” Francesco Celso vinse il concorso di musica leggera al quale aveva partecipato in qualità di autore, nascosto sotto
lo pseudonimo di Antonio Palella, creato adottando il cognome materno
preceduto dal suo secondo nome. Come testimonia Salvatore Piro, primo
alunno di canto del Maestro, si trattava dell’unico “Festival della canzone” programmato ad Acireale dal comitato organizzatore della manifestazione “Il più bel Carnevale di Sicilia”. La competizione si svolse presso il
Teatro Maugeri nell’inverno del 1957 e portò nella bella cittadina barocca
importanti nomi del mondo della canzone melodica italiana di allora
quali il celebre direttore d’orchestra Maestro Nello Segurini ed i cantanti
Rosalba Lori, Luciano Benevene ed Arturo Testa.
A questi ultimi si richiedeva l’esecuzione delle dodici canzoni finaliste,
sottoposte poi al giudizio di una seria commissione di tecnici, composta,
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
97
tra l’altro, dai maestri acesi Cristina e Fiorini oltre che dal pubblico presente in sala.
La sorte volle che ad interpretare il pezzo di Celso - Palella fosse proprio Arturo Testa. Dotato di una bella voce baritonale, pur avendo studiato canto lirico, egli era passato a quello leggero nel 1956 e si esibiva già in
trasmissioni radiofoniche.48
Alla fine “Dove sarà” fu proclamata canzone vincitrice e dopo qualche
giorno Francesco Celso uscì allo scoperto per donare, come ricordo e
segno di gratitudine, una medaglia d’oro ciascuno al maestro Segurini e
ad Arturo Testa.
L’esperienza acese portò molta fortuna al giovane cantante, visto che
dopo due anni, nel 1959, riuscì a classificarsi secondo ad un Festival ben
più prestigioso, quello di Sanremo, con la canzone “Io sono il vento” ed
ottenne ottimi piazzamenti anche nelle successive sue quattro presenze.
Fra le canzonette melodiche leggere, ma libera dalla denominazione di
slow, compare pure quella intitolata “Cinesina di Shangai”, dal testo frizzante e gradevole. Già a partire dalle prime note dell’introduzione, affidata al pianoforte, emerge la capacità del maestro Celso di ricreare perfettamente lo stile musicale tipico cinese. Si odono quasi i rintocchi delle campane della pagoda, ottenuti con accordi costruiti sulla scala pentafonica,
che non a caso era la scala cinese arcaica, usata per le melodie sacre del
tempio. Chiarissima è l’insistenza sui caratteristici intervalli di quarta
nella linea melodica del ritornello così come nei bicordi dell’accompagnamento pianistico della strofa intermedia.49
L’unico elemento occidentale del brano si può individuare nel ritmo
sincopato che fa capolino, di tanto in tanto, al basso.
I Vocalizzi-Lieder
Francesco Celso incarnò il tradizionale modello di maestro - compositore che aveva dominato nel campo della didattica vocale dal Seicento alla
fine dell’Ottocento, che accompagnava l’evoluzione degli stili compositivi unendo la fantasia poetica alla sapienza pedagogica e tecnica.
Dopo la pubblicazione dei “Vocalizzi nello stile moderno” del 1920,
raccolta di brani firmati da vari autori italiani del Novecento, si era creato un vuoto nell’ambito tecnico- vocalistico. Le nuove forme proposte più
tardi da Stockhausen o da Bussotti, diretti contemporanei di Celso, sche-
48 Musica leggera. Arturo Testa. Il mondo della musica, Edizioni Garzanti.
Volume II.
49 Musica cinese. Il mondo della musica, Edizioni Garzanti. Volume I.
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Rosanna Furnari
mi ideografici da variare aritmicamente e dinamicamente, apparivano
troppo approssimative e dispersive.
Il maestro Celso così, da scrupoloso insegnante quale era, aveva avvertito l’esigenza di comporre una raccolta contemporanea di vocalizzi destinata agli allievi diplomandi in canto lirico, ad uso dei Conservatori di
Musica, alla quale volle dare una veste originale, quella dei “Vocalizzi –
Lieder”. Si tratta di una raccolta dalla forma innovativa che coniuga
l’esercizio tecnico, stimolo al virtuosismo esecutivo, con il profondo contenuto compositivo e la cantabilità del genere del Lied. Come i “Lieder
ohne worte” (Lieder senza parole) di Mendelssohn, i “Vocalizzi – Lieder”
non musicano testi poetici (i poeti simbolisti affermano che l’arte non è
tenuta a dire tutto, ma deve lasciare all’immaginazione ed al sentimento
dell’esecutore e dell’ascoltatore la possibilità di definirsi) e i titoli che precedono i singoli brani non si propongono di svelare né il fine né il punto
di partenza delle intenzioni del compositore ma vogliono offrire semplicemente una chiave di comprensione per l’interprete attraverso l’evocazione di qualche immagine su cui possa liberarsi la sua immaginazione. Il
lavoro è costituito da nove esercizi da cantare su vocali, che mirano a perfezionare, soprattutto sotto il profilo stilistico, l’allievo giunto ad un livello avanzato di studio.
Mentre nei vocalizzi tradizionali ottocenteschi il pianoforte sosteneva
armonicamente e ritmicamente il canto, riproducendo talora in maniera
fedele la linea melodica, nei vocalizzi contemporanei si richiede alla voce
un notevole impegno nel mantenere la giusta intonazione rispetto all’esecuzione del pianoforte, cui è affidato un ruolo autonomo e comprimario
che sarebbe troppo riduttivo considerare di puro accompagnamento.
Tale genere di esercizi esige altresì una notevole precisione da parte
dell’esecutore anche in considerazione dei numerosi cromatismi, delle
continue modulazioni, che creano uno sfondo armonico piuttosto vago e
compromettono frequentemente la stabilità tonale. Anche l’assenza di
esercizi specifici sugli abbellimenti tradizionali (appoggiature, mordenti o
gruppetti) rientra nel disegno dell’autore di approfondire le nuove tendenze tecnico-vocali novecentesche, che mirano a superare gli stilemi belcantistici dell’Ottocento. Componente costante del ciclo dei Vocalizzi è
l’architettura tripartita, contenente una sezione centrale dalla fisionomia
chiaramente distinta che condensa in pochissime battute trascoloranti
modulazioni.
Apre la raccolta un maestoso “Oriente”, in re maggiore, dedicato allo
studio dei grandi intervalli di ottava, brano adatto per i registri di soprano o tenore visto che si mantiene su una tessitura acuta. Se per un verso il
pezzo non presenta troppe difficoltà tecniche e vocali, essendo privo di
passi di agilità o di acuti notevoli, per un altro esso costringe l’allievo ad
affrontare il disegno melodico in dissidio con il pianoforte.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Il secondo esercizio, intitolato “Favoletta”, in sol maggiore, è un sintetico Lento per il medium della voce dal cullante ritmo in 12/ 8, quasi da
barcarola, che insiste sull’esatta esecuzione degli intervalli di semitono e
richiede una perfetta intonazione della sezione centrale oltre che un serio
studio metrico- ritmico, vista la presenza di numerosi gruppi irregolari. Il
brano successivo è intitolato “Elegia”, in sol minore, suddiviso nei rapidi
momenti Lento - Mosso - tempo I. Il vocalizzo, dall’estensione medioacuta in tempo 3/2, presenta nella prima parte uno studio sugli intervalli di terza maggiore e minore. La sezione centrale consente di approfondire lo studio del suono “filato”, ottenuto calibrando l’intensità dell’emissione del fiato dal piano al fortissimo, passando per tutti i livelli intermedi.
Il quarto brano è l’andantino, intitolato “Indovinello”, in La maggiore
e in tempo binario 2/4. Si tratta di un esercizio propedeutico all’agilità che
propone quartine di semicrome a breve distanza tra loro. Come preannuncia lo stesso titolo “Scioglilingua”, in la minore, il quinto tra i vocalizzi, pretende uno studio impegnativo del trillo attraverso l’esecuzione di
incalzanti terzine di crome a distanza di tono tra loro. Lo studio, indicato
per l’agilità dei soprani leggeri, ha una tessitura abbastanza acuta. Un
esercizio sul legato della voce è il numero 6, che ha per titolo “Barcarola”,
in mi bemolle maggiore. Questo andante assai calmo, in tempo 6/8, consente uno studio sull’emissione dei suoni e sulle sfumature che vanno dal
pianissimo al mezzoforte. Esso va assimilato attenendosi scrupolosamente alle indicazioni dell’autore. Un tempo di marcia si ha nel settimo brano,
intitolato “Soldati”, consigliato per l’agilità nei registri di voce acuta.
Risulta piuttosto faticoso evitare imperfezioni nell’intonazione di questo
brano in quanto la melodia, affidata alla voce, deve sovrapporsi ad un
marcato accompagnamento pianistico che segue una propria linea, basata su figurazioni di crome puntate alla mano sinistra e di quartine di semicrome alla destra, le quali sembrano richiamare il passo pesante dei militari.
Il numero 8, denominato “Idillio romantico”, in la bemolle maggiore, è
uno studio sulla capacità di interpretazione, dal dolce all’appassionato.
Esso presenta numerose indicazioni agoniche e dinamiche nonché frequenti cambi di tempo. Multiforme è anche la scrittura del pianoforte.
L’ultimo brano è l’allegro in 12/8 intitolato “Primavera”, che prevede un
fitto accompagnamento del pianoforte fatto di veloci sestine alla mano
destra e, nella sezione centrale, di arpeggi fluenti suddivisi su entrambe
le mani. La tessitura è piuttosto acuta e consente una doppia soluzione sul
finale: un acuto per i registri vocali più alti o un suono facilmente accessibile alle voci intermedie.
Tra le innumerevoli pagine composte da Francesco Celso questa raccolta, di alta fattura e chiara utilità didattica, è l’unica, insieme al Trio in
100
Rosanna Furnari
sol minore, ad avere il pregio di essere stata pubblicata, grazie ad alcuni
sponsor e consegnata al maestro come dono proprio durante i festeggiamenti nel giorno del suo centesimo compleanno. Auspico, pertanto, che
tutti i docenti di canto presso i Conservatori ed i Licei Musicali d’Italia
possano adottare presto questo nuovo sussidio tecnico.
Le Liriche da Camera
Fanno parte della produzione cameristica anche i pezzi per canto e pianoforte. Ricorderemo in particolare le liriche “Così il giorno ed
Odysseus”, composta alla ammirabile età di 98 anni. Il testo poetico di
“Così il giorno” è tratto da una delle raccolte giovanili di componimenti
del poeta Tommaso Papandrea che, come ricorderemo, si era già cimentato con successo nell’attività di librettista sotto esplicita richiesta del
Maestro.
Nel genere della poesia Papandrea rivela la sua vera vocazione, che si
distingue per lo scavo psicologico, la contemplazione della natura, la
nostalgica rievocazione del passato. Il linguaggio, che risente dell’assimilazione dei grandi poeti del Novecento, è fresco ed essenziale (la raccolta
in questione, intitolata “Nascono le foglie”, vinse non a caso nel 1951 il
premio nazionale E. G.A. I. “Città di Pistoia”).
Francesco Celso aveva avuto il privilegio di poter visionare la silloge
dell’amico poeta prima che andasse in stampa e fu colpito, fra una ventina di liriche, proprio dall’ultima, uno splendido inno all’amore intitolato
“Così il giorno”. E’ lecito pensare che la predilezione per tale brano fosse
nata dal ricordo ancora vivo nel cuore di Francesco di una giovane signorina acese per la quale egli provava un particolare sentimento, costretta a
seguire i familiari lontano dalla Sicilia.
Negli anni Ottanta il maestro Celso decise di musicare questo testo così
intenso: rispetto all’originale furono esclusi solo due versi al fine di creare una struttura quasi tripartita, più funzionale alla composizione musicale. L’immensità del sentimento descritto dal poeta pervade panicamente la ridente natura siciliana e la musica ne oggettivizza la bellezza sonoramente senza scadere nella composizione paesaggistica. Il maestro ottiene in questo brano un perfetto isomorfismo fra le immagini poetiche sinestetiche ed il contenuto musicale facendo ricorso a quelle che il professor
Salvatore Ivan Emma, docente di Storia ed Estetica della Musica all’ISSM
“Vincenzo Bellini” di Caltanissetta, ha definito “luci sonore”.50
50 S. Ivan Emma, Francesco Celso, Una vita per la musica. Casa Editrice
Novecento.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
101
All’inizio il canto discende scuro al grave evocando l’atmosfera onirica della notte. Nella sezione centrale la melodia ripercorre i luoghi visitati dal poeta con un effetto di anafora, impreziosita da impreviste modulazioni ed un graduale crescendo che intensificano il pathos. La terza parte
conclude con uno slancio verso l’acuto in corrispondenza delle parole
“con ali e braccia di desiderio”. L’interpretazione di questo brano esige
una tenace preparazione tecnica, ritmica e nell’intonazione da parte del
cantante, in quanto, soprattutto la sezione centrale, è contraddistinta da
uno sfondo sonoro piuttosto ambiguo dal punto di vista tonale.
Alle soglie del 2000, il maestro Celso diede vita al suo ultimo lavoro,
una lirica per canto e pianoforte intitolata “Odysseus”, su testo tratto
dalla raccolta di versi scritta dall’ex- allievo, il basso Francesco Palmieri,
di origini calabresi. La pagina fu eseguita in prima assoluta al Teatro
Rendano.
La linea melodica di questa brevissima lirica, maestosa ed enfatica,
predilige il registro medio – acuto della voce ed alterna sezioni di agilità
al declamato. Nella seconda delle due quartine del testo, la musica raffigura nitidamente il fluttuare con “nere navi” fra le “acque oscure” del
“fondo degli abissi” attraverso un momento di indeterminatezza tonale,
dovuta ad audaci cromatismi che rievocano intensamente l’Agitato introduttivo del poemetto per pianoforte “Verso il Golgota”. Con la ripresa
delle prime cinque battute della strofa iniziale il brano viene riportato alla
tonalità d’impianto e l’originaria atmosfera, dalla forte intensità luminosa, sfocia, contrariamente alla prassi consueta del compositore, in uno
stentoreo ed ottimista crescendo. L’incantevole “Odysseus” sembra,
secondo me, suggellare il lungo iter artistico e compositivo di Francesco
Celso con un chiaro messaggio di speranza: nonostante le incomprensioni e le avversità “come un tempo partirem, torneremo a navigar… contro
tutto, contro il mondo!...”
Mi piace inserire in questo paragrafo anche quella che reputo la più
apprezzabile tra le tante trascrizioni, per canto e pianoforte, di brani celebri, realizzate dal Maestro Celso.
Si tratta dell’aria più celebre dell’autore russo Alexander Alexandrovich Alyabiev (1787– 1851), intitolata “Le rossignol” (“L’Usignolo”). Il
brano, ricco di colore tipicamente caucasico, è stato oggetto nel corso dei
secoli scorsi di notevoli rielaborazioni per le più svariate compagini
orchestrali. Il compositore acese elaborò personali e virtuosistiche cadenze del brano, secondo lo stile del belcanto, ricche di abbellimenti ed agili
volate ed il pezzo è tuttora ricordato dal soprano Lucia Aliberti come
“un’aria brillante con grandi effetti vocali e con un impiego orchestrale
imponente”.
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Rosanna Furnari
La musica strumentale
Nonostante Celso fosse un profondo ammiratore delle opere strumentali di Ottorino Respighi e di Rimskj-Korsakov restò irrevocabilmente
attratto dal repertorio pianistico e vocale. Il numero dei suoi lavori orchestrali, infatti, appare piuttosto esiguo rispetto alla quantità di pezzi scritti
per pianoforte o ancora da camera, essendo costituito unicamente da un
poema sinfonico e da una Suite per grande orchestra.
Il poema sinfonico, del 1950, è “I Malavoglia”, ispirato all’omonimo
romanzo verista dello scrittore siciliano Giovanni Verga: la scelta del soggetto, quasi programmatico, si inserisce sulla scia della valorizzazione
dell’elemento locale intrapresa dal maestro Antonio Savasta nelle sue
opere. Il lavoro si suddivide in tre movimenti: “La festa di San Giovanni”,
che si apre con una affascinante barcarola siciliana, “La Provvidenza di
Padron Ntoni” ed il finale denominato “Epilogo”.
Il maestro Celso continuò ancora nel filone della musica sinfonica componendo, verso il 1955, la “Suite Americana Azteca” per grande orchestra,
anch’essa quasi programmatica, costituita da cinque schizzi sinfonici intitolati “Western”, “Wiig-waam”, “Lungo il Missouri”, “Notturno Azteco”,
“Cuzco”. Nel 1966 la Suite approdò al Teatro Bellini di Catania con
un’esecuzione affidata alla direzione del maestro Carlo Frajese.
Il critico catanese Michele La Spina scrisse che questo lavoro “risente
degli echi del precedente poema sinfonico I Malavoglia” ed “offre ottimi
argomenti ai sostenitori della universalità del pentagramma”. Il giornalista dell’epoca Lino Caruso firmò un articolo sul Giornale di Sicilia a proposito dell’opera sinfonica del maestro, del quale si riporta uno stralcio:
“si avvale di materiale folkloristico senz’altro ampiamente descrittivo. Esercita
sul pubblico una immediata comunicativa e rivela, da parte del compositore, una
sensibilità delicata, una ricerca raffinata di mezzi espressivi ed una fantasia quanto mai feconda, elementi, questi, che hanno permesso al musicista di creare pagine assai interessanti, rese con uno strumentale ricco ed appropriato”.51
La musica da camera
La grande abilità di Francesco Celso nella composizione è evidente
soprattutto nel campo cameristico. Essa comprende tutte le formazioni
polistrumentali, dalle più piccole, del duo, alle combinazioni più nutrite
del quintetto o sestetto.
51 Il giornale di Sicilia , 27/12/ 1966.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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La ricca produzione si distingue per il costante impiego di forme dalle
piccole dimensioni, basate sul ciclo ternario ABA’ e per il perfetto equilibrio costruttivo che distribuisce il materiale tematico con un procedimento dialogico tra gli strumenti. Il tutto viene impreziosito da una sapiente
varietà timbrica e dalla tipica iridescenza del suo stile compositivo. Colpisce la grande meticolosità del maestro nel segnare sui manoscritti le precise arcate: avendo studiato per anni violino e violoncello, Celso aveva
piena conoscenza dei differenti caratteri che possono essere impressi al
suono, a seconda dei diversi movimenti dell’arco sulla corde.
La produzione cameristica annovera numerose composizioni per violino e pianoforte, fra le quali è degno di nota il “Canto di Primavera”,
composto nel 1948 e l’ “Andante Elegiaco”, costruito su un preludio in do
minore di J. S. Bach. In questo caso, l’originale pezzo del grande compositore tedesco, tratto dalla raccolta dei “12 Piccoli Preludi”, mirabile successione di accordi arpeggiati, dal carattere impetuoso, ben si adoperava
a fare da “canto dato” sul quale innestare una nuova, patetica melodia.52
Nell’ “Andante Elegiaco” il preludio bachiano rimane pressoché invariato ad eccezione del tempo, volutamente dilatato da Celso ( l’allegro
moderato cede infatti il passo ad un andante mesto) per dare maggior
spazio al librarsi della “profonda malinconia” della nuova linea melodica, affidata alla voce del violino, chiamato ad ottenere, tra l’altro, impalpabili ed acutissimi suoni. Una tale operazione non appare affatto nuova
nell’ambito compositivo se guardiamo alla popolare “Meditation” di
Charles Gounod, costruita sul I Preludio del “Clavicembalo ben temperato” di J. S. Bach.
Fra le abbondanti opere per violoncello ricordiamo la “Sarabanda”,
sua prima composizione, del 1919, la “Romanza” in re bemolle minore e
le Sonate per violoncello e pianoforte in re minore e in fa maggiore, scritte nel 1937, grazie alle quali il maestro Celso ottenne il primo premio al
Concorso “Musica d’oggi” di Palermo.
Da menzionare sono pure la “Sonata per archi” del 1940, un “Preludio
in Sol Minore” per violino, violoncello e pianoforte (unico lavoro cameristico ad essere stato pubblicato) ed il “Quintetto in Fa” per archi e pianoforte. Molte di queste composizioni cameristiche furono eseguite all’EIAR
ed alla RAI, altre furono selezionate per le esecuzioni di “Musica
Contemporanea” negli anni 1933, 1937, 1940 e 1941.
Il “Quartetto in Do minore”, composizione giovanile del 1945, per trio
d’archi (violino, viola e violoncello) e pianoforte, rappresenta un raro caso
di quartetto composto nel Novecento giacché pochi musicisti furono
52 J. S.Bach. 23 pezzi facili per pianoforte. Edizione Ricordi.
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Rosanna Furnari
disposti a scrivere per questa formazione in quegli anni a causa di oggettive difficoltà di elaborazione. Il lavoro venne eseguito alla presenza del
Maestro stesso presso il Teatro Bellini di Catania il 24 maggio 1992 dalla
pianista acese Vera Pulvirenti e dai solisti dell’Orchestra dell’E.A.R Teatro
Bellini, a conclusione della stagione concertistica mattutina domenicale
del Teatro Massimo (1991-1992), dedicata ogni volta ad uno o più autori
di spicco.
Mi piace ricordare, a tal proposito, una frase tratta da un articolo comparso in quella occasione su una testata giornalistica siciliana: “il cuore
antico di Acireale, battendo più forte del solito, colmerà la distanza e sarà lì a scaldarsi e a gioire, come quello di un ragazzo al primo appuntamento d’amore”.53
Il Quartetto in questione si presenta come una tra le composizioni più
complesse della produzione di Francesco Celso. Nonostante la denominazione faccia esplicito riferimento alla tonalità di do minore, è ardito poter
affermare che si tratti di un pezzo davvero tonale.
Una determinazione tonale risulta estremamente difficoltosa, vista la
presenza, già alle prime battute di un arpeggio affidato al pianoforte, su
un accordo di re settima, che passa immediatamente a un accordo di nona
minore sul si bequadro, eseguito da tutti gli strumenti. Durante il primo
tempo, la frase iniziale viene ripresa altre quattro volte, con piccole
varianti e punteggiata da diversi episodi armonicamente agitati.
Il secondo movimento, un “Andante elegiaco” affida l’incipit al pianoforte che esegue un accordo di Re minore per cedere il passo all’assolo
appassionato del violoncello accompagnato da melodie discendenti.
Il terzo tempo è un “Allegro con fuoco”, strutturato come una sorta di
classico rondò. Visto il tema esposto dal violino nella tonalità di do maggiore, questo movimento si presenta come quello più prossimo al sistema
tonale di tutto il Quartetto.
Durante gli anni Novanta Francesco Celso seguì con grande apprensione le notizie relative alla guerra nella vicina ex Jugoslavia; in particolare rimase profondamente impressionato dal contenuto di un reportage
televisivo che mandò in onda la cruda scena di un bambino dalla gamba
completamente dilaniata da una bomba che, rimasto solo, si guardava
intorno in cerca di aiuto. Da questa forte impressione drammatica scaturirono due pezzi struggenti, la Sonata per violino e pianoforte intitolata
“Sarajevo 94” e la sonata “Nostalgia” per pianoforte a quattro mani;
entrambi i pezzi paiono accomunati da una analoga figurazione nell’accompagnamento pianistico, echeggiante la marcia sfiancata dei soldati.
“Sarajevo 94” è una pagina intensa, dedicata al violinista Uto Ughi, origi-
53 E. Catania. La festa a Catania.La Sicilia, 23/ 05/ 1992.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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nario di quella zona; qui la melodia dolcissima e disperata, affidata al violino, pare elevarsi a tratti verso il cielo, alla ricerca di una spiegazione a
tanto dolore.
“Nostalgia” nasce da un malinconico rimpianto per il periodo in cui si
viveva al riparo da scellerate lotte e discriminazioni razziali; in questa
sonata il ricorrente avvicendamento tra le quattro mani genera una melodia rasserenante, seppur dolorosa.
Nel 1996, il Maestro compose anche un Quintetto per archi e pianoforte, espressamente dedicato al gruppo strumentale cameristico tutto al
femminile delle “Quinquies Domina”, fondato dalla pianista Vera
Pulvirenti. Questo lavoro si distingue per le ardite sonorità oltre che per il
fitto intreccio degli strumenti che dialogano tra loro in un ricamo di voci.
Le composizioni per pianoforte
La produzione pianistica di Francesco Celso è frutto dell’assimilazione
eclettica dei grandi classici da Bach a Chopin, da Brhams a Liszt, dell’impiego di ritmi popolari, senza rifiutare nella scrittura e nelle indicazioni di
fraseggio sfumato, un Impressionismo alla maniera di Debussy, dai colori raffinati e dalle armonie distese, basate sul sistema esatonale e sulle
scale orientali. La sua immaginazione, più che strettamente strumentale
ovvero legata all’elaborazione drammatica dei temi, era preminentemente vocale, sottomessa alla bellezza sensuale della melodia di ampio respiro.
Il maestro Celso compose brani pianistici di vario tipo affrontando con
maggior efficacia le semplici architetture e le strutture più piccole. Le sue
composizioni sono brevi, con esposizioni essenziali, racchiuse in poche
battute; costruite su una idea principale, sono generalmente alternate ad
una sezione centrale di carattere contrastante. Le melodie sono fluide,
esposte senza indugiare mai in stucchevolezze o esagerare in ornamenti.
Le frasi cristalline nascondono passaggi difficili che solo un pianista veramente capace può suonare con disinvoltura.
Pietra di paragone della sua difficile scrittura pianistica era la sorella
Francesca, valentissima pianista nonché arpista, dall’abilità tecnica ed
espressiva non comune.
La musicista si era diplomata a soli 16 anni al Regio Conservatorio di
Napoli con i nomi storici più illustri del pianismo italiano del Novecento.
Interprete impeccabile dei brani più virtuosistici del repertorio pianistico,
aveva una ferrea memoria ed una lettura a prima vista perfetta. Fu proprio lei la principale ed infaticabile ambasciatrice delle composizioni per
pianoforte di Francesco sin dai tempi dei concerti organizzati dalla Croce
Rossa in favore dei combattenti della Prima guerra Mondiale.
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Rosanna Furnari
Abitualmente coinvolgeva i migliori allievi nell’intensa attività concertistica, come testimonia, ad esempio, il concerto pomeridiano realizzato alla
biblioteca Zelantea di Acireale il 23 aprile del 1972.54
La pianista non perse mai occasione per far conoscere i pezzi scritti dal
fratello Francesco: anche nel giorno del suo novantesimo compleanno, il 31
luglio 1986, durante il concerto tenuto proprio da lei al circolo musicale
“Santo Nocito” di Catania, non mancò l’esecuzione di un “Improvviso”
pieno di impeto composto dal fratello Francesco.
I pezzi per pianoforte del compositore acese si presentano notevolmente difficili sotto il profilo tecnico. A tal proposito la professoressa Vera
Pulvirenti ricorda che una volta chiese al Maestro “se avesse composto
qualcosa di più accessibile, tale da poter essere letta ed eseguita a prima
vista, senza essere messi in difficoltà” ed “egli, con la sua risata argentina,
un po’ tra il sornione e, nello stesso tempo, bonario, non offensivo, rispose
che scriveva in base alla bravura della sorella Francesca, la quale, essendo
nata per la musica e per il pianoforte, in particolare, godeva di una prima
vista formidabile!”.
Tra le composizioni di Francesco Celso per pianoforte solo ricordiamo
Elegie, Notturni, Valzer, Preludi, Studi, Berceuse, Mazurke, Fogli d’album,
Toccate, Sonate ed Improvvisi. I Notturni mostrano tutta l’ampiezza della
sua intensità poetica ed hanno un carattere riflessivo e meditativo. Negli
Improvvisi e nei Preludi egli ebbe modo di mettere in luce lo spirito salottiero che era proprio, fatto di eleganza e liricità. Questo carattere emerge
chiaramente, ad esempio, dal “Canto del ruscello”, una composizione dalle
dimensioni ridotte, ideata per il pubblico raffinato e sentimentale della sua
“casa delle muse”. La musica, condensata in pochi righi, non pretende di
descrivere un luogo fisico, ma registra delle impressioni, rievoca sonorità e
sentimenti. Il titolo guida semplicemente la fantasia dell’ascoltatore lasciandogli, tuttavia, la facoltà di immaginare i particolari secondo la propria ispirazione. Un leggero sfondo sonoro, fatto di sestine arpeggiate, affidate alla
mano sinistra, sembra riprodurre l’ostinato mormorio delle acque.
Il motivo sereno, che emerge sulle onde, è proposto due volte, inframmezzato, nella parte centrale, da una brevissima digressione modulante. Il
tema iniziale sembra riapparire nuovamente nella sezione finale, ma muta
subito aspetto e gli arpeggi cedono il passo a delicati trilli che si estinguono
su un rallentando ed un diminuendo. Qui, alla mano sinistra non viene affidato solo il compito del sostegno armonico, ma una vera e propria parte
espressiva che esige un tocco non appesantito.
Fra gli Studi, in cui spesso affiora l’impronta chopiniana, compaiono
anche alcune composizioni di tecnica trascendentale, omaggio al grande
54 Memorie e rendiconti. Accademia degli Zelanti e dei dafnici, Acireale, 1972.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Franz Liszt. Questi pezzi sono un’opera d’importante valenza didattica, che
mette a dura prova il pianista perché vanno oltre il semplice studio meccanico. Il maestro Celso, tuttavia, prese le distanze dagli atteggiamenti esibizionistici del virtuosismo impressionante, essendo maggiormente incline
alla interiorizzazione ed alla razionalizzazione.
Tra i brani per pianoforte sono da annoverare il piccolo poema pianistico intitolato “Il campanile della montagna”, dai toni agresti e dal variopinto fraseggio, l’ “Antica Aria del Nord - Notturno ungherese”, che ricorre a
ritmi popolari magiari, la Sonata in Sol minore, composta nel 1935.
In alcuni lavori i punti di contatto con la tradizione Ottocentesca sono
più apparenti che reali. Ad esempio, nella “Berceuse” in fa maggiore, fatta
eccezione per l’iniziale, tipico accompagnamento cullante, la sostanza
musicale appare tutt’altro che romantica.
Il motivo, di sapore raveliano, è ricchissimo di modulazioni piuttosto
ardite;.inaspettata è senz’altro la parte centrale del pezzo in cui fanno capolino, su un basso di sestine arpeggiate, vivaci terzine di sapore chiaramente cinese, fatte di intervalli simultanei di quarte, appartenenti alla scala pentatonica.55
Palesi riverberi impressionistici si concretano, poi, negli eleganti disegni
di “Aria antica” o di “Preludio in La minore”.
Una passeggera avventura futurista è rappresentata invece dal pezzo
intitolato “Il telefono è occupato”. Da menzionare anche la Sonata per solo
pianoforte dedicata da Celso al maestro Franco Mannino che, nel riceverla,
ebbe per lui parole di elogio e commozione, sorpreso dalla sua longevità
artistica e compositiva.
Un capitolo a parte, ma davvero cospicuo, è costituito dalle trascrizioni
e trasposizioni in tonalità diverse rispetto all’originale, di arie sacre, profane o di canzoni leggere, pensate e realizzate espressamente per gli amici
della “casa del glicine” e per gli allievi affinché nessun registro vocale
potesse privarsi del piacere di cantare il pezzo preferito.
Ricordiamo pagine come “Vaga luna” di V. Bellini, i “Wiegenlieder” di
Max Reger, W.A. Mozart o Brahms, la fantasia spagnola “Granada” di Agustin Lara ed altri brani.
Tra le trascrizioni per pianoforte è opportuno comprendere quella della
“Suite Americana Azteca” così come quella dell’opera “Abù Hassan”.
Infine, ritengo giusto citare in questa sede anche l’unica “Sonata per
organo” del maestro Celso, una delle poche composizioni novecentesche
dedicate ad un genere che nel corso del XX secolo pareva aver perduto
parte della sua antica importanza; la composizione è frutto della solida
55 Musica cinese. IL Lessico.Enciclopedia della musica UTET. Volume I, pag.
560-561.
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Rosanna Furnari
conoscenza della tecnica organistica appresa durante gli anni di studio al
Conservatorio di Palermo.
Le composizioni più note
Liriche da camera
- Quattro Liriche cinesi per soprano e pianoforte. 1940
La vedova ad un mezzano che le propone nuove nozze
Amori d’autunno
- Così il giorno per soprano e pianoforte. 1980
- Odysseus per basso e pianoforte. 2000
Opere liriche
- Abù Hassan o Il dormiglione risvegliato, commedia lirica in 4 atti. 1950
Opere didattiche
- 9 Vocalizzi. Lieder, pubblicati nel 2003
Opere sacre
-
Messa in onore del Papa Giovanni XXIII. 1962
Ave Maria per coro a cappella. 1965
Ave Maria per soprano e pianoforte. 1965
Poemetto pianistico Verso il Golgota
Musica leggera
- Canzoni slow. 1957
Dove sarà
L’hai voluto tu
Sempre
- Cinesina di Shangai
Musica sinfonica
- Poema sinfonico in tre movimenti “I Malavoglia”. 1950
- Suite Americana Azteca in 5 schizzi sinfonici. 1955
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
Musica da camera
- Sonate per violino e pianoforte
Andante elegiaco
Canto di primavera. 1948
Sarajevo ’94. 1994
- Sonate per violoncello e pianoforte
Sarabanda. 1919
Sonata in Re minore. 1937
Sonata in Fa maggiore. 1937
- Trii
Preludio in Sol minore per violino, violoncello e pianoforte
- Quartetti
Quartetto in Do minore per trio d’archi e pianoforte. 1945
- Quintetti
Quintetto in Fa
Quintetto per le Quinquies Domina. 1996
- Sestetti
Produzione pianistica
- Sonate
Sonata dedicata a Franco Mannino
Sonata in Sol minore. 1935
- Mazurke
- Notturni
Notturno ungherese
- Elegie
- Valzer
- Preludi
Preludio in La minore
- Improvvisi
Il canto del ruscello
- Berceuse
Berceuse in Fa
- Fogli d’album
- Studi
- Poema pianistico “Il campanile della montagna”
- Pezzi a quattro mani
Nostalgia. 1994
- Sonata per organo
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Rosanna Furnari
Francesco Celso dai “Vocalizzi”
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Il M° Francesco Celso e il soprano Rosanna Furnari
Rosanna Furnari
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