LETTERATURA ITALIANA II
PROF. ERALDO BELLINI
A.A. 2013-14
Università Cattolica del Sacro Cuore - Facoltà di Lettere e Filosofia
Introduzione
Il corso di Letteratura italiana II non presenta la canonica bipartizione tra istituzionale, nel primo
semestre, e monografico, nel secondo semestre, bensì ricostituisce un unico grande corso
istituzionale, della durata di due semestri e fornente 12 cfu, tenuto dal prof. Eraldo Bellini. Esso si
ripresenta sempre uguale, di anno in anno, e si rivolge agli studenti di tutte le branche della facoltà
di Lettere e Filosofia, tranne quelli di Scienze della comunicazione. Esso intende fornire
informazioni di base sulla letteratura italiana del rinascimento, attraverso inquadramenti teorici di
genere ed attraverso la lettura di alcuni testi significativi, il tutto relativamente a nove autori
soltanto, ovvero Machiavelli, Bembo, Ariosto, Michelangelo, Castiglione, Guicciardini, Della Casa
e Vittoria Colonna. Per esaurire maggiormente il “Furioso” e la “Liberata”, inoltre, sono attivi dei
seminari condotti da parte degli assistenti del professore.
La presente dispensa contiene un completo ed esauriente compendio degli autori e delle opere
richiesti all’esame, così come spiegati nelle lezioni del professore e nei seminari degli assistenti,
integrati poi dalle parti teoriche del volume da preparare per l’esame, ossia U. Motta, I volti e le
parole, Educatt, Milano, riassunto a dovere in questa dispensa. Si tratta dunque di una serie di
ritratti di vita, opere, stile e pensiero di tutti gli autori da conoscere per l’esame, basata anche su
celebri manuali come il Segre-Martignoni, il Contini ed il Ferroni. Esclusi da questa dispensa
rimangono, tuttavia, da un lato i testi commentati a lezione, che vanno portati all’esame e si trovano
tutti sul volume di Motta (da preparare integralmente), dall’altro la lettura approfondita ed integrale
dell’“Orlando Furioso” e della “Gerusalemme Liberata”, sulle quali però risulta molto solida la
parte teorica di questa dispensa, dato che comprende in sé anche le lezioni appositamente tenute in
seminario dagli assistenti e pure tracce dei libercoli C. Dini, Ariosto. Guida all’Orlando furioso,
Carocci, Roma, ed E. Russo, Guida alla lettura della Gerusalemme liberata, Roma-Bari, Laterza. In
appendice alla dispensa sono inoltre disposti due riassunti dettagliatissimi e molto ampi, divisi in
capitoli ed in sequenze, di entrambi i capolavori.
L’esame richiede una buona mole di studio e si divide in due momenti: da un lato, un test scritto,
fatto di cinque domande aperte (da scegliere da un elenco di sei proposte) che vertono solamente sui
due poemi, dall’altro un orale conclusivo, in cui si chiedono tutti i contenuti del corso, da vita ed
opere degli autori ai testi, dagli appunti delle lezioni al volume di Motta, escludendo però i testi dei
due poemi (chiedibili tuttavia a livello di narrazione e di teoria), in cui interrogano solitamente gli
assistenti, che sono molto precisi. Si possono infine richiedere esempi di domande uscite nei
precedenti test e di ottimi esempi di loro svolgimento scrivendo a [email protected].
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Pietro Bembo
Pietro Bembo (Venezia, 1470 – Roma, 1547) è un poeta, scrittore e religioso italiano. Nasce in una
famiglia di nobili ed antiche origini, dove il padre è il celebre Bernardo, ambasciatore della
serenissima repubblica di Venezia, che Pietro, in infanzia, segue spesso nei viaggi diplomatici. Da
giovane Bembo entra nella vita politica di Venezia, ma dimostra una spiccata attitudine alle lettere,
tale che il padre acconsente due viaggi di formazione al figlio, accompagnato dall’amico Angelo
Gabriele, della durata di circa un anno: nel 1492 a Messina, per apprendere il greco dal chiaro
maestro Costantino Lascaris, e nel 1494 a Padova, per compiere studi filosofici all’università
patavina. Rimpatriato, lega con Aldo Manuzio, celebre editore veneziano, e la sua accademia
aldina. Quando da Venezia il padre Bernardo è chiamato alla corte estense di Ferrara, nel 1497,
anche Bembo vi si reca in qualità di rappresentante della Serenissima, ma dopo un soggiorno
biennale il padre è richiamato in patria, così Pietro chiede di rimanere nell’ambiente cortigiano di
Ercole I d’Este, nonostante ciò freni bruscamente la sua carriera politica a Venezia; nel periodo
ferrarese Bembo approfondisce la conoscenza del latino, presso il maestro Ercole Strozzi, poi
s’innamora, riamato, di Lucrezia Borgia, infine conosce molti artisti della cerchia estense, tra gli
altri Ludovico Ariosto, con cui stringe un profondo legame amicale. Tuttavia l’idillio ferrarese è
interrotto nel 1503 quando, morto il fratello Carlo, Bembo torna nella sua casa veneziana a
consolare il padre, così è costretto a ricandidarsi per ambascerie all’estero, ma l’insuccesso politico
segna il suo distacco sia da Venezia sia dalla imposita carriera politica. Quindi, quando nel 1505
segue il padre Bernardo in un’ambasceria a Roma da papa Giulio II della Rovere (1503-13),
intuisce che per proseguire l’otium degli studi deve approdare alla curia romana, così prende gli
ordini minori di chierico per avere un minimo di rendita e poter rinunciare al negotium politico;
infatti nel 1506, di ritorno da Roma, decide di fermarsi nel ducato feltrino di Urbino, i cui sovrani,
Guidobaldo di Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga (già noti in quanto residenti a Venezia durante il
periodo di spodestamento da parte del Valentino), possono garantirgli miglior prestigio agli occhi
della curia, in vista di un futuro trasferimento. Nel periodo alla corte urbinate, tra 1506-12, è
impegnato in uno studio raffinatissimo (talora nel locus amoenus del monastero camaldolese di
Fonte Avellana), circondato da personaggi quali Raffaello, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Federico
Fregoso e Baldassarre Castiglione, con quest’ultimo molto amico, ma vede sfumare il sogno
dell’otium romano quando l’amicizia con Galeotto della Rovere, giovane cardinale e nipote di papa
Giulio II della Rovere, non sortisce gli effetti sperati. Solo nel 1512 finalmente entra in Roma,
ospite del Fregoso che è alle dipendenze papali, e quando è eletto papa Leone X de Medici (151321), questi nel 1513 stesso sceglie Bembo come suo segretario personale ai brevi (accanto all’amico
Iacopo Sadoleto, anch’egli segretario): il Veneziano corona allora il sogno d’essere umanista di
professione. Tuttavia il papa lo sfrutta per guadagnare alla propria causa antifrancese, nel contesto
della guerra franco-spagnola (1494-1559), la repubblica di Venezia, e lo spedisce come
ambasciatore nella sua città: invisa all’atteggiamento di Bembo, Venezia rifiuta l’alleanza. Prosegue
nel periodo romano come segretario di Leone X, fortemente motivato a far carriera ecclesiastica, ma
nel triennio 1518-20 torna a Venezia per avvicinarsi al padre, morente; tuttavia nel frattempo a
Roma la situazione degenera: perde l’appoggio dei sostenitori, acquisisce debiti paterni, incontra
resistenze e concorrenze alla carriera. Decide quindi nel 1521 di trasferirsi nella villa di famiglia a
Padova, dato che il nuovo papa Adriano VI (1522-23) è estraneo a Bembo ed alle arti, e decide di
accelerare la carriera verso il cardinalato diventando un monaco gerosolimitano, pur avendo nel
periodo padovano accanto una cara donna che gli è moglie in segreto, Faustina Morosina della
Torre, da cui ha tre figli. Benché dedichi alcune opere a personaggi della curia del nuovo papa,
Clemente VII de Medici (1523-34), in vista di un suo eventuale e futuro ritorno a Roma, Bembo nel
1530 improvvisamente accetta di rientrare a Venezia, chiamato con incarichi umanistici, non
politici, infatti diviene storiografo della repubblica e custode della biblioteca marciana, lavorando
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attivamente per la repubblica veneta. La svolta avviene nel 1539, quando grazie all’amico
Alessandro Farnese, giovane cardinale e nipote del nuovo papa, Paolo III Farnese (1534-49), riesce
ad ottenere il titolo di cardinale e si trasferisce a Roma, dove lega con Vittoria Colonna: prosegue
poi la carriera come vescovo di Gubbio e di Bergamo (pur rimanendo, come di prassi all’epoca,
distante dalle sedi diocesane, soggiornandovi infatti per poco tempo), però dal 1544 è a Roma
stabilmente, dove muore ed è sepolto nella basilica di santa Maria sopra Minerva.
“RIME” E PETRARCHISMO
Tra il 1508-10 è stesa la prima inedita silloge di liriche, detta Urbinate, dedicata ad Elisabetta
Gonzaga, duchessa di Urbino, di cui c’è l’autografo alla biblioteca marciana di Venezia:
l’ascendenza è totalmente il “Canzoniere” di Petrarca in temi e stile, dato che Bembo ha tra le mani
gli autografi petrarcheschi e li indaga. Tuttavia la prima edizione, in seguito all’ampliamento ed alla
sistemazione delle poesie durante il soggiorno padovano, è quella del 1530 a Venezia, e la seconda
nel 1535 sempre a Venezia; il cardinale poi rivede e sistema l’opera, escludendo anche alcune rime
stravaganti, così la terza edizione è postuma, del 1548, curata dagli amici a Roma.
Le “Rime” bembesche promuovono in tutt’Europa la corrente del petrarchismo, la quale risulta
particolarmente cara al Cinquecento italiano, e pure inglese, francese e spagnolo, non solo come
fenomeno letterario legato ad un preciso codice, bensì anche quale étiquette e situazione di moda e
costume nelle corti: la lirica di Bembo si configura come il recupero del Petrarca volgare del
“Canzoniere” e minormente dei “Trionfi”. È celebre a tal proposito il cosiddetto “petrarchino”,
ossia il libretto tascabile edito dalle stamperie veneziane di Aldo Manuzio nel 1501, a cura di un
giovane Pietro Bembo, col “Canzoniere” di Petrarca, in formato tascabile. Il petrarchismo esplode
però nei decenni successivi alla pubblicazione delle “Rime” (benché il clima medesimo permetta
vari precursori), infatti si va inserendo verso il periodo del secondo rinascimento, ossia il
manierismo, in cui l’arte della poesia non ha più lo scopo di imitare la realtà del vero naturale, ma
di imitare l’arte stessa, appunto il Petrarca, ricercando in esso regole e modelli prettamente formali
che, con l’andare del tempo, vengono contestati dall’interno e portano all’abbandono del concetto
del classico. Il cardinale veneziano cerca di assurgere Petrarca quale modello unico da imitare, di
contro a tanta tradizione umanistica che suole attingere da più fonti come sfoggio erudito, benché
spesso anche lui si abbandoni a citazioni e quotazioni di altri grandi della letteratura classica e
coeva. Inoltre, col petrarchismo, la poesia viene dischiusa anche ai non esperti di greco e latino,
fondando una sorta di nuovo canone lirico, nel quale si inseriscono, per la prima volta, anche donne
e personaggi meno sapienti, in virtù proprio di questa apertura non troppo erudita.
Si hanno così, nella forma, la sintassi semplice ed in prevalenza paratattica, il sonetto, qualche
canzone e qualche madrigale (ma, assenti in Petrarca perché nati nel Quattrocento, sono di moda le
ottave), la prassi dell’enumerazione, della dittologia talora sinonimica o dell’endiadi, dell’antitesi e
del parallelismo, il gusto per le figure di suono, l’unilinguismo di lemmi sia rarefatti e generici sia
assai pochi e semplici, la ripresa delle stesse parole del Petrarca in posizione di rima; invece, nei
contenuti, si ha la stilizzazione dei più comuni topoi amorosi, quali i capelli biondi e mossi, al
vento, l’amata nel locus amoenus, il dissidio del poeta avvolto da sentimenti contrastanti, la
fenomenologia amorosa, il poeta solitario, il paesaggio come specchio dell’anima, la vanità delle
cose terrene e materiali come l’amore; infine, petrarchesche sono l’idea di un canzoniere strutturato
ed organico, con attenta disposizione delle poesie, e l’idea di una lirica proemiale, che ripercorra
l’esperienza sentimentale del poeta fornendo une una chiave di lettura, o di una lirica finale di
pentimento e rivolgimento a dio, in netta palinodia con ciò ch’è precedentemente stato dichiarato.
Tuttavia, nel canzoniere bembesco, pur dominando il tema amoroso, manca la figura unificante
della Laura petrarchesca, eppure sono presenti le rime in morte (nell’edizione postuma del 1548 c’è
proprio la bipartizione vita-morte) e le rime d’occasione, ma sono per amici e parenti, non per
l’amata.
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“ASOLANI”
Gli “Asolani” sono la prima opera volgare del Bembo. Iniziati nel periodo ferrarese, a partire dal
1497, l’autore li pubblica solo nel 1505 a Venezia presso il Manuzio, accompagnati da una lettera di
dedica a Lucrezia Borgia, ma, dopo un’ampia revisione nel periodo padovano, la seconda e
definitiva tiratura è stampata sempre a Venezia nel 1530. L’opera è un prosimetro, su modello della
“Vita Nuova” dantesca, che alterna dunque prosa e liriche, in tre libri sull’amore sotto forma di
dialogo platonico e ciceroniano, che dura tre giorni, uno per libro, ed è ambientato nel castello
trevigiano presso Asolo, locus amoenus dove è rilegata la patrizia veneziana Caterina Corner,
ultima regina di Cipro del XV secolo. Ad alternare le liriche ed i racconti sull’amore è una cornice,
di ascendenza boccacciana, in cui si raccontano le vicende della villa, e dentro la quale hanno gran
voce tre giovani letterati e tre bellissime donne, invitati a corte. Nel primo libro Perottino, amante
deluso ed infelice, tratteggia un’idea negativa dell’esperienza amorosa. Nel secondo libro
Gismondo, amante ricambiato e felice, confuta la tesi precedente e delinea un’idea positiva
dell’esperienza amorosa, anche carnale (sembra questa la prospettiva dominante nel giovane
Bembo). Nel terzo libro Lavinello indica infine la natura spirituale ed edificante dell’amore,
esaltando l’amor platonico come desiderio di bene e bellezza (sulla scia del neoplatonismo
fiorentino di Marsilio Ficino) e negando l’amor terreno e materiale, affiancato nel discorso da un
altro personaggio, un eremita che attribuisce all’amore movenze e doti tipiche della filosofia
neoplatonica e della religione cristiana, tra loro assai vicine. Tuttavia il dialogo è aporetico, non
offrendo alcuna soluzione definitiva sulla questione amorosa.
Lo stile prosastico bembesco, pur nella sua forma iniziale, si conforma al Boccaccio del
“Decameron” delle introduzioni e della cornice, e ciò è ribadito con la revisione nell’edizione
definitiva, che si allinea colle teorie delle “Prose Della Volgar Lingua”: una prosa ampia ed
ipotattica nella narrazione e nei dialoghi, ciceroniana e classicistica nella sintassi, dato che si
trovano costrutti complessi e nominali, parallelismi, verbi in fondo alla frase, disgiunzioni ed
inversioni. Il lessico e la fonetica disdegnano però il latino (nonostante alcuni latinismi grafici siano
ancora presenti) in favore dell’uso del classicismo volgare.
“PROSE DELLA VOLGAR LINGUA”
Le “Prose Della Volgar Lingua” sono il manifesto del classicismo volgare di Bembo sulla questione
della lingua, in tre libri editi a Venezia dai tipi del Manuzio nel 1525. In realtà i primi due tomi sono
iniziati nel 1511 e nel 1513 ultimati, durante il periodo urbinate, ma solo nel 1525, al soggiorno
padovano, è pronto il terzo volume, una grammatica: ciò non solo perché è complessa, ma anche
perché Bembo è impegnato in segreteria papale. Le “Prose” sono un dialogo, sulla scia di Platone e
Cicerone, in tre giorni, uno per libro, tenutosi a partire dal 10/12/1502 a Venezia, nell’aristocratica
casa dei Bembo, da cui però Pietro è assente perché a quel tempo non è a Venezia: le sue idee e le
teorie altrui sono riportate da altri personaggi, per essere più imparziali. Nel proemio, l’argumentum
spiega che nell’opera non si cerca una lingua unificante nazionale, ma la lingua letteraria
esclusivamente scritta della poesia e della prosa (e regola il modello da Petrarca al Carducci,
insomma fino al decadentismo), invece la dedica, fatta a papa Clemente VII de Medici, lo chiama
ancora cardinal Giulio, perché nel 1516 esce la grammatica del Fortunio, dunque Bembo vuole
retrodatare l’opera per contendere il primato temporale al Fortunio, dato che in effetti è vero che già
dal 1511 l’opera è in formazione.
I primi due libri sono dialoghi su vari temi, teorie e questioni, sostenuti da quattro interlocutori
principali: 1) Giuliano de Medici, nobile fiorentino del XV-XVI secolo, figlio di Lorenzo il
Magnifico, portavoce dell’umanesimo volgare, rivalutante la sua lingua fiorentina del ‘400 e
soprattutto del ‘500; egli porta avanti il primato naturalistico del fiorentino, cioè sostiene che Dante,
Petrarca e Boccaccio siano diventati famosi perché hanno parlato in fiorentino, lingua già più
perfetta rispetto alle altre italiane, e pensa addirittura che il fiorentino del ‘500 sia migliorato
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rispetto al trecentesco, in quanto la lingua è la lingua dell’uso. Bembo fa controbattere che il
fiorentino del ‘500 è corrotto, “l’essere a questi tempi nato fiorentino […] non sia di molto
vantaggio”: è il fiorentino del Trecento, modellato sulle tre corone, che è stato perfetto; 2) Federico
Fregoso, nobile cardinale e generale genovese del XV-XVI secolo, proponente teorie alternative,
come la teoria cortigiana, basata sulle idee del Calmeta (soprannome boccacciano di Vincenzo
Colli, nobile poeta lombardo del XV secolo, autore di un perduto “Sulla Volgar Poesia”), ritenente
che il volgare più nobile è quello delle corti italiane: infatti, pur partendo da una base toscana del
Trecento, quella delle tre corone, ritiene necessario perfezionarla frequentando le corti italiane,
soprattutto la curia romana in quanto lì sono presenti le ambascerie di tutta Italia, e dunque è al di
sopra del municipalismo linguistico. Un simile sovraregionalismo sarà sostenuto dall’Equicola e dal
Castiglione, che definiscono entrambi la propria lingua “commune”, ed è affine anche la cosiddetta
teoria italiana che sarà proposta dal Trìssino nel “Castellano” del 1529. Bembo fa ribattere che la
lingua da loro proposta non è definibile in maniera precisa, non è omogenea e non ha modelli fissi,
per di più a Roma i papi e l’enturage cambiano non solo di regione in regione ma anche di nazione
in nazione, ed inoltre risulterebbe una lingua al massimo parlata, non adatta alla produzione scritta;
3) Ercole Strozzi, nobile latinista ferrarese del XV secolo, attivo alla corte estense e figlio di Tito
Vespasiano Strozzi, favorevole al solo latino, avverso ad ogni altra tesi, accusa di tradimento verso
la lingua madre ogni teoria a favore del volgare italiano; egli propone il classicistico binomio di
Cicerone e Virgilio, modelli di prosa e poesia, e ritiene il latino una lingua universale perché stabile,
regolata dai grammatici ed immutabile, che si impara dallo spoglio degli autori e dai dizionari;
inoltre, Strozzi riprende l’idea del Biondo per la quale il latino in antichità è stato unico,
monolingue, cioè quello aulico, ed a partire da esso, per corruzione delle invasioni germaniche
esterne, si è evoluto il volgare italiano. Bembo fa contrapporre l’esaltazione del latino da parte di
Strozzi all’osteggiamento di tutti gli altri tre, tuttavia mette in bocca al Ferrarese idee che lui stesso
sostiene, ossia il binomio, solo a livello del latino però, di Cicerone e Virgilio, e l’origine del
volgare dalle contaminazioni barbariche (di ascendenza biondea); 4) Carlo Bembo, nobile
veneziano del XV-XVI secolo, fratello di Pietro e portavoce indiretto delle idee fraterne: è tramite
questi che prendono vita i reazionari pensieri del Bembo sulla questione della lingua, dato che
promuove il fiorentino colto scritto trecentesco di Petrarca (poesia) e Boccaccio (prosa della cornice
e delle introduzioni, non nelle novelle che sono troppo dialettali e realiste), solo in parte Dante (non
apprezza il plurilinguismo, l’ascesa a toni comici, bassi e realistici), e non dei poeti minori o
minimi, ma solo dei due maggiori, appunto Petrarca e Boccaccio, modelli per la poesia e per la
prosa.
Il terzo libro, una grammatica in forma di dialogo, depura il volgare dalle imperfezioni e chiarisce la
“norma” della nuova lingua aristocratica e letteraria (in ambito fonetico e morfologico), ribadendo
anche regole ortografiche (già proposte nelle aldine di Petrarca e Dante, del 1501 e 1502) quali
apostrofo, virgole, punti e virgole ed accenti.
OPERE MINORI
Nel 1496 Bembo pubblica il “De Aetna”, con dedica all’amico Angelo Gabriele, la sua prima prova
letteraria, in latino, che racconta, in forma di dialogo col padre, l’ascensione sull’Etna (probabile
modello è l’epistola petrarchesca “Familiares” IV,1, contenente l’ascesa al mont Ventoux) fatta
durante il soggiorno siciliano tra 1492-93, il cui tema trasparente è l’urgenza e la necessità di una
vita negli studi umanistici, anziché nella carriera politica prospettata dal padre.
L’amicizia con l’editore Aldo Manuzio e la sua frequentazione dell’accademia aldina in Venezia
non sono un mistero. Già nel 1495 la preziosa grammatica greca del Lascaris, portata da Bembo, è
fatta riprodurre dal Manuzio. Nel 1501 e nel 1502 Bembo pubblica presso le stesse stamperie le
aldine del “Canzoniere” (il celebre “petrarchino”) e della “Commedia”, due edizioni curate da lui
personalmente, coi titoli di “Le Cose Volgari” e “Terze Rime”; già nella prefazione che Manuzio
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tiene alle “Cose Volgari” si intravede la questione della lingua, perché prende le difese di Bembo
nella scelta di “volgari” e non del latinismo “vulgari”, e nell’uso di “canzoni” al plurale anziché
“canzone” (plurale di canzona). La stamperia del Manuzio a Venezia accoglie per prima le riforme
ortografiche sulla punteggiatura di Bembo, nelle edizioni di Petrarca e Dante del 1501 e 1502,
introducendo apostrofo, virgole e punti e virgole per la prima volta nella storia della tradizione, e
proponendo anche gli accenti, questi già presenti tradizionalmente, ma usati nel senso moderno,
come si fa oggigiorno.
Nel 1507, insieme all’amico Ottaviano Fregoso, Bembo scrive le “Stanze”, una favola pastorale in
ottave in volgare, su stile petrarchesco, recitata dai due in persone alla corte di Urbino in occasione
del carnevale dello stesso anno; fa da sfondo la materia arcadica e bucolica (le fonti sono
essenzialmente Virgilio e Teocrito), di una natura serena e primaverile adornata da fonti e boschi,
fanciulle e fanciulli, insomma un mondo insieme naturale ed ideale, poiché dietro ai personaggi si
travestono, secondo una convenzione tipicamente umanistico-rinascimentale, i personaggi della
corte, in questo caso feltrina; nella storia, due personaggi (Bembo e Fregoso) sono inviati come
ambasciatori con dei doni della dea Venere alla corte feltrina di Urbino, dove li attendono le
nobildonne Elisabetta Gonzaga, la duchessa, ed Emilia Pio, sua cognata.
Lo stile ciceroniano e limpido del Bembo latino, che tanto piacerà alla curia romana, si conferma
poi nel carme encomiastico verso i suoi protettori urbinati, scritto tra 1508-11 ma risistemato ed
edito nel 1530, ossia il dialogo “De Guido Ubaldo Deque Elisabetha Gonzagia”.
La questione “De Imitatione” sono invece due lettere, una del 1512 di Giovan Francesco Pico della
Mirandola verso Pietro Bembo, ed una del 1513 di risposta di Bembo a Pico, che riguardano i
modelli latini da imitare per raggiungere un eccelso stile del latino. Se il primo propone
l’eclettismo, la pluralità dei modelli e l’anarchia stilistica, dati dall’apertura a qualsiasi contenuto o
livello di scrittura, invece Bembo sostiene la necessità di una regola, di un modello fisso ed unico
attraverso cui filtrare la propria prosa latina per poter avere una forma decisa a priori di qualsiasi
contenuto. La diatriba sul linguaggio di stampo latino risale al 1485 circa, quando ha coinvolto il
Poliziano, sostenitore di una “docta varietas”, cioè un’improvvisazione geniale e frutto di molte
idee e modelli, di contro a Paolo Cortesi, che richiede modelli fissi ed uniformi di lingua e stile.
Nel 1520 è autore dell’epitaffio per l’amico Raffaello, sepolto nel Pantheon a Roma, e nel 1529 è
autore dell’epitaffio per l’amico Castiglione, sepolto in santa Maria delle Grazie a Mantova.
L’amministrazione della repubblica di Venezia gli commissiona nel 1530 la stesura della “Historia
Veneta”, in latino, dall’anno 1487 al 1513, che continui l’opera storica di Marcantonio Sabellico.
L’incarico è inaspettato ed è il pretesto per Bembo di far vanto del suo perfetto latino ciceroniano,
ma è un grosso sforzo storiografico, che tra le fonti predilige i “Diarii” del Sanudo. È conclusa ma
sarà pubblicata postuma nel 1551, difatti già tradotta dallo stesso Bembo in volgare tra 1544-46 col
nome di “Istoria Viniziana”.
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