Metafisica della felicità reale (introduzione) di Alain Badiou È da poco nelle librerie l’ultimo testo, “Metafisica della felicità reale”, di Alain Badiou, uno dei più significativi esponenti della filosofia contemporanea. Di questo libro, pubblicato da DeriveApprodi, offriamo al lettore l’introduzione. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione. Può sembrare paradossale dare per titolo Metafisica della felicità reale a un libro che, soprattutto, appare intento a districare quali siano i compiti della filosofia e che verso la fine tenta persino di descrivere i miei specifici progetti personali attinenti alla filosofia. Basta un’occhiata ai miei libri principali per vedere che la mia filosofia è senz’altro costruita, al pari di qualunque altra del resto, a partire da elementi all’apparenza disparati, ma che essa si distingue per l’uso attivo di materiali raramente associati alla felicità: la teoria degli insiemi, la teoria dei fasci di insiemi sulle algebre di Heyting o quella dei grandi infiniti. Oppure è questione di rivoluzione francese, russa, cinese, di Robespierre, di Lenin o di Mao, tanto le prime quanto i secondi marchiati dall’infamia del Terrore. Altrimenti, ricorro a poemi ritenuti più ermetici che dilettevoli, quelli di Mallarmé ad esempio, di Pessoa, di Wallace Stevens o di Paul Celan. O prendo a esempio l’amore vero, del quale da sempre i moralisti e i prudenti osservano che le sofferenze da esso indotte e la banale constatazione della sua fragilità spingono a dubitare della sua vocazione alla felicità. Senza contare che alcuni dei miei principali maestri, ad esempio Descartes o Pascal, Hegel o Kierkegaard, difficilmente possono passare per grandi allegroni. Davvero non si vede quale sia il rapporto tra tutto questo e una vita tranquilla, l’abbondanza di piccole soddisfazioni quotidiane, un lavoro interessante, un salario come si deve, una salute di ferro, una coppia serena, vacanze delle quali conservare a lungo il ricordo, amici simpatici, una casa ben fornita, una comoda automobile, un animale domestico fedele e tenerone, dei bambini deliziosi, che non danno problemi e vanno bene a scuola, insomma con ciò che di solito e a ogni latitudine si intende per «felicità». Per dare legittimità a questo paradosso potrei ripararmi dietro maestri, spesso considerati indiscutibili, Platone e Spinoza per esempio. Il primo, nella sua Repubblica, fa di una lunga educazione matematica e dei costanti esercizi di logica dialettica una condizione imperativa per qualunque accesso alle verità. Dopodiché dimostra che solo colui che, abbandonando l’obbedienza alle opinioni dominanti, si affida unicamente alle verità delle quali il suo pensiero «partecipa» (è la parola di Platone) può raggiungere la felicità. Poiché la dialettica, della quale la matematica è il preambolo obbligato, non è altro che il movimento razionale e logico del pensiero e poiché questo movimento può essere definito «meta-fisico» nel senso originario della parola (va al di là di ciò che è riducibile a una fisica scientifica), il legame tra matematica, logica e felicità viene a trovarsi interamente fondato da un punto di vista meta-fisico, garantendo la dialettica la coerenza di questo legame. Oppure: se dalla matematica ne consegue la dialettica e dalla dialettica la felicità, chiameremo «metafisica» il pensiero integrale di tale conseguenza. E poiché la felicità è il segnale infallibile di qualunque accesso alle verità, e dunque il fine reale di una vita degna di questo no- me, possiamo dire a ragione che il percorso della metafisica e la sua riflessione integrale sono parte di una metafisica della felicità. Il secondo, nell’Etica, comincia con l’affermare che se non vi fosse stata la matematica, l’animale umano sarebbe rimasto per sempre nell’ignoranza, la qual cosa significa che esso non si sarebbe aperto alcun accesso alle «idee adeguate» (è il lessico di Spinoza), di alcun tipo. Ma la partecipazione immanente dell’intelletto umano a un’idea adeguata può avvenire secondo due regimi, che Spinoza chiama conoscenza di «secondo genere» e di «terzo genere». La conoscenza di secondo genere procede attraverso l’arduo cammino delle dimostrazione, il quale chiama in causa la logica, mentre il terzo genere procede attraverso un’«intuizione intellettuale», che è come la concentrazione in un punto di tutte le tappe di un ragiona- mento, la cattura immediata, in Dio stesso, ovvero nel Tutto, di una verità per altri versi deducibile. Spinoza chiama «virtù» (forse Platone direbbe «giustizia») la condizione di un soggetto umano che perviene alla conoscenza compiuta di una idea adeguata, poiché è riuscito ad accedervi attraverso la conoscenza di terzo genere. Infine, la felicità (Spinoza utilizza la parola latina beatitudo, che è più forte) non è nient’altro dall’esercizio del vero pensiero, cioè la virtù: «La felicità non è la ricompensa della virtù, ma la virtù stessa». Detto altrimenti, la felicità è l’affetto del vero, il quale non sarebbe esistito senza la matematica e non avrebbe potuto concentrarsi in una intuizione se anzitutto non lo si fosse dimostrato. Di nuovo, matematica e logica formano insieme all’intuizione intellettuale ciò che senza difficoltà potremmo chiamare una metafisica della felicità. Insomma, ogni filosofia, anche e soprattutto quando si dispiega attraverso saperi scientifici complessi, nuove opere d’arte, politiche rivoluzionarie, amori intensi, è una metafisica della felicità, altri- menti non varrebbe un’ora di sforzo. Perché, infatti, imporre al pensiero e alla vita le faticose prove della dimostrazione, della logica generale dei pensieri, dell’intelligenza dei formalismi, dell’attenta lettura di poesie, del rischioso impegno nelle manifestazioni di massa, degli amori privi di garanzia, se non fosse perché tutto questo è necessario all’esistenza della vera vita? Quella che Rimbaud dice essere assente, e della quale noialtri filosofi sosteniamo che essa ripugna a tutte le forme dello scetticismo, del cinismo, del relativismo e della vana ironia del non-dupe e che, assente la vera vita, vita non può esserlo mai totalmente. Ciò che segue è la mia versione di questa certezza, in quattro tempi. Innanzitutto procedo a un chiarimento generale di ciò che oggi può rappresentare il vantaggio della filosofia, quando riesce a rispondere alle ingiunzioni della nostra epoca. Detto altrimenti, chiarisco le ragioni per le quali un soggetto umano può (in realtà deve, ma questa è un’altra faccenda) nutrire in sé un desiderio singolare, che semplicemente chiamo desiderio di filosofia. Passando per l’analisi delle coazioni contemporanee mostrerò che la filosofia è oggi in una situazione difensiva e che proprio per questo abbiamo una ragione supplementare per sostenerne il desiderio. Traccerò così un abbozzo delle ragioni per le quali tale supporto è in relazione alla possibilità di una felicità reale. In un secondo tempo, per chiarire ciò che ci spinge nella direzione di una tale felicità e del suo legame col desiderio di filosofia, parlerò dell’anti-filosofia, rappresentata da un’intera costellazione di scrittori brillanti, quali Pascal, Rousseau, Kierkegaard, Nietzsche, Wittgenstein, Lacan. La mia tesi è che questi anti-filosofi, generalmente scettici sulla possibilità di essere allo stesso tempo nel vero e nella beatitudine, inclini all’idea del grande valore del sacrificio, persino inutile, sono comunque necessari affinché il classicismo, che è il mio, non si trasformi in accademismo, il quale è il principale nemico della filosofia e dunque della felicità: l’affetto a partire dal quale riconoscere infallibilmente il discorso accademico è infatti la noia. E sono loro, i grandi anti-filosofi, a insegnarci che tutto ciò che possiede un vero valore si ottiene non attraverso il sentiero degli usi ordinari e l’assunzione delle idee dominanti, bensì attraverso l’effetto, esistenzialmente provato, di una rottura con il corso del mondo. Nel terzo capitolo, affronterò di petto la domanda che l’uomo moderno al pari del marxista convinto sempre rivolgono al filosofo: «A che servi te, con i tuoi raziocini astratti? Te ne stai seduto nella tua camera, c’è poco da interpretare il mondo ma da cambiarlo». A questo punto mi chiedo cosa voglia dire «cambiare il mondo» e, anche a supporre che si possa farlo, quali siano gli strumenti necessari. Questo pezzo di analisi stabilirà che esiste un legame soggettivo tra una risposta alla domanda «come cambiare il mondo?» e la felicità reale. Un legame stabilito facendo valere il senso profondo delle parole «mondo», «cambiare» e «come», impresa che tra l’altro dimostra come nella faccenda presa in esame non vi sia niente che possa sconcertare o invalidare la filosofia, ben al contrario. Il quarto e ultimo tempo è più soggettivo. Si tratta di fornire un esempio locale delle strategie e degli affetti della filosofia: il momento in corso della mia scrittura, del mio pensiero filosofico. Dunque ricapitolerò, senza perdere di vista il legame tra verità e felicità, le tappe precedenti del mio lavoro, tra Teoria del Soggetto (1982) e Logiche dei mondi (2006) passando per L’essere e l’evento (1988), e dunque l’operatività di categorie fondamentali come l’essere-molteplice, l’evento, le verità e il soggetto. Poi, indicherò i problemi ancora in sospeso, singolarmente legati alla questione del «soggetto di verità» colto nell’immanenza del suo atto, in un certo senso dall’«interno», e dunque in ciò che costituisce la sua felicità singolare. Senza mascherare l’estrema difficoltà di ciò che sarà il cuore del nuovo libro, L’immanenza delle verità, indicherò la pista che intendo seguirvi e che in so- stanza è quella di una nuova dialettica tra il finito e l’infinito. La felicità può esservi definita come l’esperienza affermativa di una interruzione della finitudine. In questo libretto si tratta di sgomberare la strada perché lo stratega di filosofia possa dire a chiunque: «Ecco di che convincerti che pensare contro le opinioni e al servizio delle verità, lungi dall’essere l’esercizio ingrato e inutile che tu t’immagini, è la strada più breve per la vera vita, la quale, quando esiste, si esprime attraverso una felicità priva di paragoni».