KAIRÓS
Una vita differente
Anno VIII n. 1 Settembre 2005
Indice
La Parola
Una vita differente
Silvia Girola
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La Tradizione
I frutti dello Spirito. L’amore
Giuseppe Angelini
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La Preghiera
Cantico 1 Cr 29,10-13
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Se cerchi un libro
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Kairós – La Parola
LA PAROLA
Silvia Girola
UNA VITA DIFFERENTE
MEDITAZIONI SULLA PRIMA LETTERA DI PIETRO
INTRODUZIONE
«II Dio di ogni grazia, che vi ha, chiamati alla sua gloria
eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo la breve sofferenza, vi confermerà, vi renderà forti e saldi» (1 Pt 5,10):
questa frase riassume bene l'intento principale della Prima
lettera di Pietro, quello di confermare nella fede, mediante
l'esempio di Cristo, alcune comunità cristiane che vivono
un'ora di crisi.
Composto con buona probabilità a Roma (cioè, metaforicamente, «Babilonia»: 1Pt 5,13) alla fine del 1 secolo d.C.
da un autore che si richiama all'autorità di Pietro (nel
commento mi riferirò a lui chiamandolo semplicemente
Pietro), questo testo si presenta come una lettera circolare più precisamente uno scritto omiletico-catechetico cui è stata
posta una cornice epistolare - indirizzata alle comunità
cristiane che sono in diaspora nei territori dell'Asia Minore
(cfr. 1 Pt 1, 1).
Si tratta verosimilmente di comunità composte sia da
membri provenienti dal paganesimo, come dimostrano alcune
espressioni che si riferiscono al loro passato idolatrico (cfr.
1Pt 1,18; 2,9-10; 4,3), sia da cristiani di origine giudaica,
come si può ipotizzare sulla base della loro familiarità con i
testi dell'AT (sempre citati nella versione greca dei LXX),
utilizzati con grande frequenza dall'autore.
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Kairós – La Parola
Il corpo della Prima lettera di Pietro, pur estremamente
compatto in sé, può essere strutturato come segue:
1) INDIRIZZO E SALUTO (1 Pt 1, 1-2)
2) BENEDIZIONE TRINITARIA (1Pt 1,3-12)
a) Dio Padre il rigeneratore: 1Pt 1,3-5
b) Gesù Cristo l'amato, ossia l'amore per Gesù Cristo: 1Pt 1,6-9
c) Lo Spirito Santo all'opera nei profeti e negli evangelizzatori: 1Pt
1,10-12
3) LA DIGNITA’ DELLA VOCAZIONE CRISTIANA (1 Pt 1, 13-2,
10)
a) Santità: 1Pt 1,13-21
b) Rigenerazione: 1Pt 1,22-2,3
c) La chiesa, casa e popolo: 1 Pt 2,4-10
4) OBBLIGHI DELLA VITA CRISTIANA (1 Pt 2,11-3,12)
a) Obblighi tra i pagani: 1Pt 2,11-12
b) Obblighi verso ogni creatura: 1Pt 2,13-20
c) Inno cristologico: 1Pt 2,21-25
d) Comportamento del cristiano nella vita matrimoniale: 1Pt 3,1-7
e) Comportamento del cristiano all'interno della comunità: 1Pt
3,8-12
5) ESORTAZIONE Al CRISTIANI NELLA PERSECUZIONE (1Pt
3,13-5,11)
a) Parenesi ai cristiani nella prova ed esempio di Cristo: 1 Pt
3,13-22
b) La sequela in attesa della parusia: 1 Pt 4, 1 - 11
c) La beatitudine di coloro che soffrono con Cristo: 1Pt 4,12-19
d) Parenesi a tutta la chiesa: 1 Pt 5,1-11
6) EPILOGO (1Pt 5,12-14)
Le comunità cui la lettera è indirizzata vivono, si diceva,
una situazione di crisi o, per usare le parole di Pietro, di
«tentazione, prova» (peirasmós: 1,6; 4,12); ciò appare evidente, anche solo a una prima lettura del testo, dalla frequenza con cui l'apostolo ricorre al linguaggio e alle immagini che riguardano la sofferenza, il patire. Ma di cosa si
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Kairós – La Parola
tratta? Il primo pensiero va certamente alle persecuzioni che i
cristiani in quest'epoca subiscono, sia a Roma sia in Asia
Minore, da parte del potere romano; se anche non si è certi
che si tratti di vere e proprie persecuzioni organizzate,
occorre in ogni caso pensare all'ostilità e alla diffidenza
nutrita dai pagani verso la recente e minoritaria fede cristiana,
vista come superstitio nova et malefica (Svetonio).
Ma la nostra lettera pare riferirsi anche a qualcosa d'altro,
forse ancora più delicato: le comunità cristiane alla fine del 1
secolo d.C. si trovavano ad affrontare la crisi della scomparsa
della generazione apostolica, quella che aveva mediato di
persona il legame con Gesù Cristo e, di conseguenza, col
primo fiorire della forma vitae cristiana. La reazione a tale
crisi si configurava probabilmente come un indurimento della
forma istituzionale, forse anche con il rischio di
comportamenti autoritari da parte di chi presiedeva le
comunità cristiane.
L’esistenza di tali pericoli è rivelata dal modo in cui la
nostra lettera, richiamandosi all'autorità di Pietro, tenta di
operare un'interpretazione in termini nuovi della vicenda
cristiana, o meglio di riportarla alla sua freschezza iniziale: si
ricorda che la chiesa (si noti che mai viene usato il termine
ekklesía!) è una fraternità (1Pt 2,17; 5,9), che essa è una
comunione di comunità che vivono in condizione di paroikía
(1Pt 1,17), cioè di pellegrinaggio, che i cristiani sono
pároikoi kaì parepídemoi (1Pt 2,11), stranieri che risiedono
temporaneamente in questo mondo. E, elemento decisivo,
l'unico vescovo (epískopos: IPt 2,25) di queste comunità è
Gesù Cristo, «il Pastore dei pastori» (archipoimen: 1Pt 5,4),
che tutte le guide delle comunità sono chiamate a prendere a
modello. Questa esemplarità di Cristo è posta peraltro davanti
agli occhi di tutti i cristiani, che sono esortati a mettersi in
cammino dietro a lui: «Cristo soffrì per voi, lasciandovi un
esempio, affinché ne seguiate le tracce» (1Pt 2,21)!
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Kairós – La Parola
LA DIFFERENZA CRISTIANA
RADICATA NELLA RESURREZIONE DI CRISTO
(1Pt 1,1-12)
Pietro, apostolo di Gesù Cristo, agli eletti stranieri nella
diaspora nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia,
nell'Asia e nella Bitinia,[eletti] secondo la preconoscenza di
Dio Padre attraverso la santificazione dello Spirito, i . n vi .
sta dell'obbedienza e dell'aspersione del sangue di Gesù
Cristo: grazia e pace a voi in abbondanza.
Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo;
nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante
la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza
viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e
non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla
potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra
salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi.
Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un
po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede,
molto più prezioso dell’oro che, pur destinato a perire,
tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore
nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate pur senza
averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò
esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la
meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che
profetizzarono sulla grazia a voi destinata cercando di
indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse
lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le
sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano
seguirle. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi,
erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate
da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito
Santo mandato dal cielo
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Kairós – La Parola
L'indirizzo è assimilabile a quello delle altre lettere
apostoliche, contrassegnato da mittente e destinatari cui è
rivolto il saluto. La sua singolarità consiste nel mettere in
rilievo la «stranierità» quale cifra della differenza cristiana:
se noi cristiani non siamo capaci di vivere tale differenza
rispetto agli altri uomini, cosa possiamo pretendere di
comunicare loro, o come possiamo pensare di compiere
qualcosa per loro? Tale incipit ci interroga anche sull'oggi
della chiesa di Dio: perché temere il fatto di essere
nuovamente una minoranza nella società, se questo non è
altro che un ritorno alla situazione originaria della chiesa? Il
Signore Gesù torna a direi: «Non temere, piccolo gregge ... »
(Lc 12,32).
All'indirizzo iniziale segue la benedizione, secondo un procedimento tipicamente giudaico, poi ereditato dagli autori
neotestamentari. Questa benedizione compendia la storia di
salvezza nell'oggi del credente che ama Cristo, e in questo
modo ci pone una domanda semplice ma essenziale: abbiamo
ancora il coraggio di trasmettere alle nuove generazioni
cristiane la centralità assoluta dell'amore per Cristo, un amore
forte, virile, appassionato?
1Pt 1,1-2
Pietro, apostolo di Gesù Cristo, agli eletti stranieri nella
diaspora nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia,
nell'Asia e nella Bitinia,[eletti] secondo la preconoscenza di
Dio Padre attraverso la santificazione dello Spirito, i . n vi .
sta dell'obbedienza e dell'aspersione del sangue di Gesù
Cristo: grazia e pace a voi in abbondanza.
Pietro l'apostolo
In apertura della lettera, è sufficiente che l'autore si presenti
quale Pietro, l'apostolo di Gesù Cristo, perché tutti i cristiani
lo identifichino, ne rievochino la storia e la testimonianza, ne
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Kairós – La Parola
riconoscano la funzione di capo dei Dodici e quindi il ruolo
eminente che egli ha nella chiesa apostolica, per un preciso
mandato del Signore.
Sappiamo che il suo nome originario era Shim'on, ma Gesù
gli diede il nome di Kefa', «Roccia», tradotto poi in greco con
Pétros (cfr. Mt 16,17-18; Gv 1,42) nel momento in cui la
chiesa intraprendeva la sua missione in mezzo ai pagani.
Egli si definisce apóstolos, cioè inviato di Gesù Cristo; più
avanti si dirà mártys, testimone delle sofferenze di Cristo,
anziano, anzi co-presbitero, infine padre (ossia maestro) di
Marco, che è con lui a Babilonia, cioè Roma (cfr. 1Pt 5,13).
Tale identificazione del mittente mostra la consapevolezza
di una vera autorità apostolica: chi ha intestato questa lettera
a Pietro sapeva di avere un'autorità, in forza della quale
poteva scrivere da Roma a comunità lontane dell'Asia
Minore, forse comunità visitate da Pietro stesso (cfr. 1Cor
1,12).
I cristiani, eletti e stranieri
L'indirizzo della lettera è altamente significativo perché la
designazione dei destinatari, pur così vaga a livello di
identificazione e provenienza geografica, è molto precisa a
livello di identità spirituale. Essi sono definiti come segue
(1Pt 1,1):
- «eletti» (eklektoi);
- «stranieri nella diaspora» (parepidemoi diasporás), cioè
coloro che abitano presso un popolo non loro.
C'è qui una vera ermeneutica dell'esistenza cristiana nel
mondo. I cristiani sono presentati mediante l'accostamento di
due termini che evocano la tensione dialettica vissuta dai
credenti, in una chiara coscienza che oggi purtroppo è andata
perduta: i cristiani sono eletti, scelti, separati da parte di Dio,
come il popolo dell'AT, scelto tra tutti gli altri popoli (cfr. Dt
7,6; Am 3,1-2), come gli «eletti di Dio» della comunità di
Qumran. E’ proprio questa appartenenza a Dio li rende
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Kairós – La Parola
«stranieri nella diaspora»: ecco la differenza cristiana, ciò
che distingue i cristiani dagli altri uomini. E si faccia
attenzione alla forza di questo accostamento lessicale:
«stranieri nella diaspora», stranieri disseminati, che non
danno vita neppure a una colonia in mezzo agli altri uomini!
La scelta di Dio separa a tal punto gli eletti dalla mondanità
che costoro, vivendo in modo inedito, appaiono stranieri ai
loro concittadini, senza patria nel tempo e nello spazio. E’ la
scelta, l'elezione che li rende tali.
I cristiani sono dunque parepídeimoi, cioè «soggiornanti in
terra straniera», «forestieri»; a questo termine è legato anche
il concetto di paroikia (cfr. 1 Pt 1, 17), che indica «l'abitare
accanto», in condizione di residente di passaggio, il cui
contrario, katoikia, designa invece «l'abitare nel proprio
paese» (cfr. Nm 24,2 l; 1 Cr 7,28). I due vocaboli
parepidemos e pároikos, presenti più oltre in forma di
endiadi (1 Pt 2,1 l; cfr. Lv 25,23), sono già attestati, secondo
la versione greca dei LXX, in passi significativi dell'AT.
Quando, p. es., Abramo dichiara di risiedere di passaggio e
da forestiero tra gli ittiti, lo fa definendosi pároikos kaì
parepidemos (Gen 23,4); nel Sal 38,13 il salmista chiede a
Dio di ascoltare la sua preghiera, perché egli è un forestiero,
uno straniero davanti a lui (pároikos... kai parepidemos),
come tutti i suoi padri; David, in 1Cr 29,15, nella sua
preghiera di benedizione e ringraziamento a Dio, riconosce
che tutti i figli di Israele sono forestieri e pellegrini
(pároikoi... kaì paroikoúntes) davanti a Dio.
Anche la chiesa cristiana primitiva si definirà paroikoúsa,
forestiera nelle città di questo mondo (cfr. Martirio di
Policarpo, prologo; Clemente di Roma, Prima epistola ai
Corinzi, proemio), e un famoso passo dell'A Diogneto (5,5)
giungerà a descrivere i cristiani come coloro che «abitano una
loro patria, ma come forestieri (pároikoi); a tutto partecipano
come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri; ogni terra
straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera». Ma
possiamo scorgere le radici di tale concezione cristiana
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Kairós – La Parola
proprio nella nostra lettera, il cui autore è sedotto dall'idea
della stranierità (cfr. IPt 1,17), al punto da farne il sottofondo
dell'intera sua comunicazione di fede.
Per quanto riguarda la parola «diaspora», nei LXX è la
denominazione usata per indicare la dispersione del popolo di
Dio tra le genti pagane. Tale dispersione dapprima venne
sentita come un castigo di Dio, causato dall'inadempienza da
parte di Israele delle clausole dell'alleanza e strettamente
legato alla distruzione di Gerusalemme (cfr. Dt 28,54; 30,1-5;
Ger 34,17-22). In seguito essa fu recepita come benedizione,
perché comportò la «semina» di Israele nel mondo e la
possibilità della confessione e dell'annuncio del Dio unico a
tutte le genti e a tutte le culture (cfr. 1Mac 15,15-24). E’
proprio questa seconda accezione di diaspora che è assunta
dalla chiesa nascente per qualificare la propria presenza nel
mondo, contraddistinta da mancanza di patria nel tempo e
nello spazio. La chiesa vive come una minoranza tra i non
cristiani, in una situazione esposta e difficile, ma anche piena
di possibilità positive, coerente con la sua vocazione alla
testimonianza.
E qui si faccia attenzione: i cristiani sono stranieri non
perché considerano il mondo cattivo, non perché se ne
separano con disprezzo, non perché il mondo li ripudia, ma
perché essi, mediante l'elezione di Dio, sono stati sottratti al
mondo. Eletti-stranieri è un binomio pieno di tensione tra
storia salvifica e storia profana: non vi è cittadinanza per i
cristiani nel mondo, perché la loro cittadinanza vera, il loro
stile di vita è nei cieli (cfr. Fil 3,20; Eb 11,13-16; 13,14; A
Diogneto 5,9) ed essi non possono avere alcuna patria che
non sia il regno di Dio! Si tratta dunque di mettere in atto
quel movimento delicatissimo contenuto nelle parole di Gesù:
«stare nel mondo senza essere del mondo» (cfr. Gv
17,11-16).
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Kairós – La Parola
Dal Padre, nello Spirito, per il Figlio
L'elezione, che colloca i cristiani come «stranieri nella
diaspora», riposa sulla «preconoscenza» (prógnosis) di Dio,
ossia la sua volontà, in quanto conoscenza efficace che crea
ed elegge (cfr. Rm 8,29-30). Ma Pietro approfondisce tale
elemento, fino a creare una straordinaria formula trinitaria
(IPt 1,2), in cui l'elezione:
- avviene secondo la preconoscenza di Dio Padre (katà
prógnosin theoú patrós), vero principio e fondamento della
fede del credente;
- si attua attraverso la santificazione dello Spirito (en
haghiasmó pnetimatos), energia che può santificare l'uomo;
- è compiuta in vista dell'obbedienza di/a Gesù Cristo (eis
hypakoèn lesoú Christoú): l'obbedienza di Gesù al Padre
conduce il credente a obbedire allo stesso Cristo.
E tale azione trinitaria culmina, non a caso, nell'«aspersione
del sangue di Gesù Cristo (eis rantismòn haimatos Iesoù
Christoù), immagine dal sostrato veterotestamentario (cfr. Es
24,8), evocata per indicare la Nuova Alleanza, quella
celebrata dai cristiani nel battesimo e nell'eucaristia. Si noti,
in sintesi, l'estrema densità del v. 2: un rinvio all'elezione che
ha origine nello spazio della Triunità di Dio e giunge ad
aprirsi allo spazio ecclesiale. E agli eletti che fanno parte di
questo luogo itinerante che è la comunità cristiana sono infine
indirizzate «grazia e pace»: cháris kaì eiréne, ossia l'amore di
Dio, fonte di ogni dono, e lo shalom, la vita piena, binomio
che riassume in sé l'intera esperienza di salvezza.
La benedizione trinitaria
Dopo il saluto, Pietro innalza la sua benedizione a Dio, dal
quale dipendono il messaggio contenuto nello scritto e la sua
buona accoglienza da parte dei destinatari. Si tratta di una
benedizione tanto ricca nei contenuti quanto intricata
nell'esposizione. E’ però possibile risolvere la complessità di
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Kairós – La Parola
questo testo attraverso l'individuazione di una struttura
portante dall'andamento trinitario. Dio è benedetto:
- perché ci ha rigenerati in vista di una speranza viva e di
un'eredità incorruttibile attraverso la resurrezione di Gesù
Cristo (Dio Padre il rigeneratore: vv. 3-5);
- l'azione del Padre ci colma di gioia, nonostante le prove,
grazie all'amore che proviamo per Gesù Cristo (Gesù Cristo
l'amato, ossia l'amore per Gesù Cristo: vv. 6-9);
- animati da questo amore possiamo conseguire lo
scopo della nostra fede, la salvezza profetizzata e
testimoniata dallo Spirito santo (azione dello Spirito santo:
vv. 10-12).
Dio Padre il rigeneratore
Dio Padre è dunque benedetto innanzitutto perché ci ha
rigenerati, cioè ci ha fatti rinascere nella sua grande misericordia (1Pt 1,3). L’esperienza cristiana è caratterizzata da
un novum rispetto all'AT.
I figli di Israele sono figli di Dio e Dio è loro Padre (cfr. Dt
14, l; 32,5; Sal 89,27; Is 1,2; Os 11, 1), ma più che di una
esperienza, si tratta in questo caso di una condizione vissuta
dalla nascita, nel solco delle generazioni. Per i cristiani vi è
invece una rigenerazione - certamente fondata sul battesimo,
di cui però qui non si parla - presentata quale frutto dell'azione misericordiosa di Dio (cfr. anche Gv 3,3-8 e 1Gv
3,9): ebbene, questa nuova nascita è orientata a una speranza
viva che ha il suo fondamento nella resurrezione di Gesù dai
morti, ed è questo evento, solo questo evento, la garanzia
della nostra fede! Non lo si ripeterà mai abbastanza.
Gesù Cristo l'amato, ossia l'amore per Gesù Cristo
Vi è una gioia grande, autentica, sperimentata dal cristiano,
gioia dovuta alla speranza di cui si è detto sopra, che non
viene meno neppure nelle prove, elementi pedagogici e di
verifica della qualità della fede; si tratta in ogni caso di prove
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Kairós – La Parola
passeggere, al termine delle quali la fede, ora provata come
nel fuoco, si rivelerà a lode, gloria e onore dei credenti,
nell’ora dell'apocalisse. dell'apokálypsis, della manifestazione
di Gesù Cristo (1Pt 1,7).
Con grande audacia - che nel NT conosce un parallelo solo
in 1Cor 16,22: «Chi non ama il Signore sia anàtema» -Pietro
sottolinea che questa gioia si esprime soprattutto nell'amare
Gesù Cristo: «Voi amate Gesù Cristo senza averlo visto e
credete in lui, senza per ora vederlo» (1Pt 1,8). La relazione
vitale che intercorre tra il credente e Cristo è una relazione
d'amore. Come i credenti dell'AT sono quelli che amano Dio,
fino ad essere definiti «amanti del Nome» (Sal 5,12; 69,37;
119,132), così i cristiani sono quelli che amano
personalmente Gesù e aderiscono a lui incondizionatamente,
pur senza averlo visto: «Beati quelli che senza avere visto
crederanno!» (Gv 20,29). E Paolo, in 2Cor 5,16, fa eco: «Se
anche avessimo conosciuto Cristo secondo la carne, oggi non
lo conosciamo più così». Il cristiano ne è consapevole: non ha
visto Gesù vivente, e questo può essere per lui motivo di
frustrazione, ma lo vedrà presto. D'altronde, il suo amore per
Cristo significa che la sua fede non è quella di un militante fede posta in una ideologia, in un'utopia -, ma è adesione a
una persona vivente!
Il cristiano è chiamato ad amare con tutta l'anima, con tutta
la mente, con tutte le forze non soltanto Dio (cfr. Dt 6,5), ma
anche Gesù di Nazaret, Dio e uomo, costituito Signore e
Messia: la vera passione del cristiano dovrebbe essere quella
di amare Gesù Cristo, di giungere a contemplarlo con gli
occhi del cuore, nella coscienza che Gesù stesso lo ha visto e
lo ha amato per primo! La Chiesa gioisce dunque innanzitutto
per questo amore, esulta di gioia su tutta la terra perché ama
Gesù Cristo, il quale ritornerà e avrà la sua apocalisse. Questa
apocalisse, di conseguenza, non sarà solo rivelazione di Gesù,
ma anche della Chiesa come sposa amante, pronta per lo
sposo (cfr. Ap 19,7-8; 21,2.9). Solo allora, per la grazia del
suo Signore, la Chiesa riceverà lode, gloria e onore, ossia
riceverà la sua piena manifestazione
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Kairós – La Parola
Lo Spirito santo all'opera nei profeti e negli evangelizzatori
Questa salvezza, che ci è garantita dalla resurrezione dì
Gesù e che sarà manifestata nell'ora della sua venuta nella
gloria, è un grande anelito dell'uomo, è una brama, addirittura
una concupiscenza degli uomini e degli angeli. E questa
brama dipende dallo Spinto santo, il desiderio di Dio in noi
(cfr. Rm 8,27). Lo Spirito santo era presente nei profeti, i
quali proprio grazie a lui potevano indagare e scrutare la
salvezza destinata a tutti gli uomini; era presente nei servi
della Parola che hanno annunciato l'Evangelo; è presente
nell'Evangelo stesso: nei profeti pre-testimoniava, negli
annunciatori dell'Evangelo post-testimonia un'unica e
medesima realtà, Cristo nella sofferenza e nella gloria.
In questo modo la nostra lettera interpreta l'intera storia di
saIvezza come una vicenda animata dallo Spirito santo, il
quale ha ispirato e continua a ispirare la comprensione della
direzione della storia stessa. Questo Spirito santo (I Pt 1, 12)
è lo Spirito di Cristo (tò pneúma Christoú: 1 Pt 1, 11) che ha
reso i profeti testimoni- ante litteram del mistero pasquale, ed
è lo stesso Spirito che ha abilitato gli evangelisti a
testimoniare il medesimo mistero. I profeti e gli apostoli sono
al servizio dei credenti: vi è un'unità grande e profonda della
storia che confluisce nella chiesa, nella comunità dei credenti,
gli eletti che conoscono cose che anche gli angeli bramano
contemplare (1 Pt 1, 12).
In breve: tutto l'AT è pervaso dallo Spirito di Cristo, è
riempito da Cristo stesso nella sua esistenza pre-sarchica,
prima della sua incarnazione. Cristo preesistente era accanto
a Dio prima della fondazione del mondo (cfr. 1Pt 1,20);
Cristo ha parlato per mezzo dei profeti, quale oggetto delle
profezie (cfr. Gv 8,56; 12,41; Eb 11,26); Cristo è presente
all'interno della testimonianza degli evangelizzatori; Cristo
verrà nella gloria, portando a compimento la nostra gioia.
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Kairós – La Parola
1. La condizione del cristiano: l’essere straniero
Le parole di indirizzo della nostra lettera dovrebbero
interrogarci sulla nostra identità cristiana oggi: ogni cristiano
deve farlo, così come ogni comunità e chiesa. Si tratta cioè di
sentire questa lettera come indirizzata anche a noi non più
insediati nella «cristianità», bensì in una situazione di
minoranza tra uomini non cristiani e in massima parte
indifferenti al problema religioso. Il mondo in cui noi cristiani siamo collocati è il luogo della grazia di Dio, è il
mondo che Dio ama (oggi come ieri, non lo si dimentichi!),
ed è in esso che siamo chiamati a vivere da discepoli di Gesù,
manifestando la differenza cristiana: non una differenza
culturale, ma una differenza di vita, frutto della santificazione
operata dallo Spirito santo in noi.
Penso a cosa significhi per me oggi vivere come straniero in
questo mondo. Come esprimo la “differenza cristiana”?
2. Il fondamento: l’essere rigenerati da Dio in Cristo
L’evento della resurrezione, che costituisce la garanzia
della vita futura del credente, anzi il suo stesso inizio,
rigenera i cristiani in vista di una speranza viva (1Pt 1,3) e di
un'eredità incorruttibile (1Pt 1,4): il fatto di essere generati da
Dio rende figli, e i figli hanno diritto all'eredità (cfr. Gal 4,7).
Non si tratta però di essere eredi della terra, secondo la
promessa fatta ai figli nell'AT (cfr. Gen 15,7; Es 32,13),
un'eredità corruttibile e caduca. No, l'eredità donata ai
cristiani rinati è sicura e certa, perché viene custodita da Dio
nei cieli, allo stesso modo in cui Dio stesso custodisce i
credenti sulla terra; e poiché questi sono gli ultimi tempi, tale
eredità è prossima a manifestarsi, ad avere cioè la sua
apocalisse (1Pt 1,5). Non si dimentichi, a tale proposito, la
coscienza dei primi cristiani, espressa mirabilmente nella
lettera agli Ebrei:
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Kairós – La Parola
Nella fede morirono tutti costoro [i nostri padri], pur non
avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli visti e
salutati da lontano, dichiarando così di essere stranieri e
pellegrini sulla terra... Tutti costoro, pur avendo ricevuto per
la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la
promessa [fatta ad Abramo]. Dio aveva in vista qualcosa di
meglio per noi, perché essi non ottenessero la pienezza senza
di noi (Eb 11, 13.39-40).
Con quali linguaggi abitualmente so esprimere su me e sul
mondo il senso della speranza e del futuro. Cosa significa per
me l’esercizio della speranza cristiana?
3. Il fine: la salvezza dell’anima non senza sofferenza
«Esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre
conseguite lo scopo della vostra fede, la salvezza delle vostre
vite (psychón)» (1Pt 1,8-9). Fede e amore stabiliscono un
legame con Gesù Cristo così forte da innescare un processo
di gioia indicibile e gloriosa, nella consapevolezza che qui sta
la salvezza della vita nella sua totalità (il concetto greco di
psyché corrisponde a quello ebraico di nefesh, ossia il soffio
vitale di tutto l'uomo). Noi siamo chiamati a questa salvezza,
che è il vero e proprio scopo (télos) della nostra fede, quale
salvezza dal peccato, dalle potenze mondane, dalla morte.
Tutto ciò avverrà in pienezza nell'apocalisse di Gesù Cristo,
alla fine dei tempi: ma la gioia che già oggi canta nel nostri
cuori è un'anticipazione di ciò che attendiamo con
perseveranza, la certezza che quando il Signore si manifesterà
«anche noi saremo manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4)
e «saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è» (1
Gv 3,2).
Riconsidero se il mio stato di vita è abitualmente pensato
come uno stato gioioso, di una umanità pienamente
realizzata. Mi interrogo su cosa comporti il fatto di un “amare
senza vedere” nella quotidianità della vita spirituale.
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Kairós – La Tradizione
LA TRADIZIONE
Giuseppe Angelini
I FRUTTI DELLO SPIRITO
Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé, contro
queste cose non c'è legge.
(Gal 5,23)
L’AMORE
Il primo dono dello Spirito ricordato da Paolo è quello
supremo; anzi quello che da solo riassume nella sua interezza
il senso della vita secondo lo Spirito, l'amore. La lingua
cristiana, come molte volte è stato sottolineato, ha coniato un
termine nuovo per designare l'amore oggetto del
comandamento di Dio, e anzi sintesi di ogni comandamento
di Dio; infatti agape, il termine al quale il Nuovo Testamento
ricorre per dire amore, assume una densità di significato che è
senza corrispondenti nella lingua greca precedente. Quella
densità di senso è nutrita certo anche dal precedente uso che
già la versione greca dei Settanta faceva del termine. È nutrita
però soprattutto dal riferimento alla figura dell'amore di
Cristo. La decisa ragione di novità che la figura dell'agape
mostra rispetto ad ogni altra figura di amore conosciuta in
precedenza nella lingua greca non autorizza tuttavia una
sbrigativa contrapposizione di essa a tutte quelle figure. Non
autorizza, in particolare, quella contrapposizione tra agape ed
eros, che viceversa è ripetutamente proposta nella tradizione
cristiana tutta. Mentre eros sarebbe l'amore inteso come desiderio, come tensione cioè rivolta al bene capace di saturare
l'indigenza del soggetto, agape sarebbe amore oblativo e
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Kairós – La Tradizione
dimentico di sé. Appunto qnesta definizione di agape,
prodotta per antitesi rispetto ad eros, alimenta l'illusione della
coscienza cristiana che sia possibile amare a procedere, per
così dire, univocamente dal cielo; o magari dalla
considerazione estatica del modello offerto dal Signore Gesù
Cristo; in ogni caso, a procedere da altro luogo rispetto a
quello costituito dalle ragioni di prossimità tra gli umani disposte dal rapporto tra uomo e donna, tra genitori e figli, tra
fratelli, e in genere dal rapporto civile. Tutte queste forme di
prossimità umana apparterrebbero al registro dell'eros, e non
dell'agape.
Per cercare lo Spirito, che solo consente di vivere davvero,
è necessario che l'uomo si strappi all'abitudine e cerchi nella
notte. In quella notte, s'intende, nella quale egli si trova come
immerso, quando esca dalle luci artificiali e non affidabili,
alle quali viceversa si affida la vita di questo mondo.
L’espressíone questo mondo ha assunto nella tradizione cristiana, e prima ancora nei testi del Nuovo Testamento, una
connotazione decisamente negativa. Questo mondo non è
quello creato da Dio; è invece quello creato dagli uomini, e
più precisamente dai figli di Adamo. È quello al quale fa
riferimento la vita comune della città. È quello la cui
consistenza pare scontata, capace cioè di tenersi ferma e
sicura a prescindere dalla qualità delle scelte di ciascuno.
Quando l'espressione sia così intesa, questo mondo appare
come fonte di illusione e di inganno. Per vivere l'uomo deve
usci re da esso.
Il programma radicale della fuga mundi non è certo
soltanto moderno. Esso è chiaramente proposto dalla prima
forma assunta dalla vita religiosa; da quella che soltanto poi
sarà chiamata vita religiosa. Ci riferiamo alla forma di vita
prospettata dal monachesimo. Fino ad oggi, il monaco
occidentale, iscritto nella tradizione benedettina, tra gli altri
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Kairós – La Tradizione
voti (obbedienza e stabilità del luogo) professa questo, della
conversio morum, della conversione dunque dei costumi: una
tale conversione non si consuma mediante la scelta iniziale di
un giorno, ma chiede la quotidiana ripresa. Il monaco non
fugge da questo mondo una volta sola; all'iniziale fuga
visibile segue una fuga interiore, realizzata mediante la correzíone dei pensieri, delle fantasie, dei desideri, delle passioni,
che dura tutta una vita.
L’amore secondo l'Imitazione dl Cristo
Alla visione della vita quale fuga mundi si riferisce con
insistenza l'ideale cristiano proposto dalla spiritualità del
Medio Evo. Nel trapasso dalla stagione medioevale a quella
moderna si colloca la cosiddetta devotio moderna. Questa
corrente di spiritualità è ispirata prossimamente dalla
tradizione cisterciense e insieme da quella francescana. Più
remotamente, dipende da quella tradizione di Agostino, che
segna profondamente tutto il cristianesimo occidentale; ci
riferiamo qui in particolare alla visione della vita cristiana
quale vita interiore, sequestrata cioè rispetto alla inaffidabile
esteriorità dei rapporti mondani. Non uscire fuori, ma rientra
in te stesso. Essa lascia il segno più profondo nella storia
della spiritualità moderna attraverso l'Imitazione di Cristo,
Appunto da questo libretto scegliamo tre pagine, che
illustrano la figura dell'amore quale frutto dello Spirito.
Chi segue me non cammina nelle tenebre, dice il Signore.
Queste sono le parole con le quali Cristo ci raccomanda
di imitare la sua vita e i suoi costumi; soltanto in tal
modo saremo illuminati e finalmente liberati da ogni
cecità del cuore. La nostra cura suprema sia dunque
questa, meditare sulla vita di Gesù. Il suo insegnamento
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Kairós – La Tradizione
supera quello di tutti i santi, e chi avesse il suo Spirito vi
troverebbe una manna nascosta. Accade però che molti,
pur ascoltando spesso il Vangelo, sentano un desiderio
piccolo; la ragione è che essi non hanno lo Spirito di
Gesù. Chi vuole comprendere in pienezza le parole di
Cristo e gustarne il sapore, deve cercare di conformare
tutta la sua vita a Lui. Non sono infatti le parole alte e
profonde a fare l'uomo giusto e santo; è invece la vita
virtuosa che rende l'uomo caro a Dio. Serve assai più
sentire compunzione che conoscerne la definizione. Di
che vantaggio sarebbe conoscere tutta la Bibbia e tutti i
detti dei filosofi, senza amore e senza la sua grazia?
Vanità delle vanità, tutto è vanità, tranne che questo,
amare Dio e servire Lui solo. In questo consiste la
sapienza suprema: tendere al regno celeste mediante il
disprezzo del mondo. [ ... ]. Ricorda spesso quel
proverbio che dice: l'occhio non si sazia mai di vedere,
né l'orecchio mai di udire. Cerca dunque di staccare il
tuo cuore dall'amore delle cose visibili e di passare a
quelle invisibili. Coloro che seguono la voce dei sensi
esterni infatti macchiano la propria coscienza e perdono
la grazia di Dio.
«Ricorda spesso quel proverbio che dice: l'occhio non si sazia
mai di vedere, né l'orecchio mai di udire».
Contro questo desiderio vago propone una lotta strenua la
devotio moderna. Essa raccomanda con insistenza ossessiva
di chiudere gli occhi sul mondo intero, e aprire invece il libro
santo. La figura dell'amore proposta in quello scritto, descritta
come imitazione di Cristo, non fa riferimento alle opere
proposte dal rapporto con il prossimo, il servizio dunque, il
perdono, la misericordia. Quantomeno, non procede dalla
considerazione di questo rapporto, per determinare la qualità
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Kairós – La Tradizione
dell'amore. La figura dell'amore è invece descritta come
esercizio assiduo, quasi ostinato, della meditazione del testo
evangelico. Le immagini proposte dal libro sacro, conosciute
a memoria, dovrebbero dare forma ad un altro mondo, più
sicuro rispetto a quello variopinto e vago, che gli occhi inseguono.
Immagine sintetica della vita diventa dunque l'imitazione di
Cristo, appunto; soltanto chi segue me non cammina nelle
tenebre, dice il Signore; soltanto in tal modo saremo
illuminati e finalmente liberati da ogni cecità del cuore. La
cura suprema della vita diventa «meditare sulla vita di Gesù».
Attraverso una tale meditazione è possibile guadagnare «il
suo Spirito», trovare in tal modo la «manna nascosta», la
quale sola consente di vivere e non morire nel deserto di
questo mondo.
Non basta certo soltanto meditare. Accade infatti che molti,
pur ascoltando spesso il Vangelo, sentano un desiderio
piccolo; essi non hanno lo Spirito di Gesù. Chi vuole
comprendere in pienezza le parole di Cristo e gustarne il
sapore, deve cercare di conformare tutta la sua vita a Lui.
«Serve assai più sentire compunzione che conoscerne la
definizione», avverte il libro. Questa figura della
compunzione costituisce una virtù caratteristica della
tradizione spirituale monastica. Soltanto quello che punge
l'animo, che trafigge, anche edifica. Non edificano nulla
invece le parole, le quali saziano il desiderio di sapere.
Come si vede, l'amore cristiano è definito in prima battuta
quale amore di Dio. L'amore cristiano è quello al quale dà
espressione chiara il comandamento supremo: Amerai il
Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e
con tutta la tua mente. Gesù stesso effettivamente dice che
proprio questo è il più grande e il primo dei comandamenti.
Gesù aggiunge però un secondo comandamento, qualificato
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Kairós – La Tradizione
come simile al primo, amerai il prossimo tuo come le stesso;
non si deve forse riconoscere che questo comandamento, pure
soltanto secondo, non può essere aggiunto in seconda istanza
al primo, ma concorre fin dall'origine a definire il senso del
primo?
Beato colui che comprende che cosa sia amare Gesù, e
che cosa sia disprezzare se stesso a motivo di Gesù.
Occorre lasciare il diletto a favore dell'unico diletto;
Gesù vuole essere amato in maniera esclusiva e al di
sopra di tutte le cose. L’amore della creatura inganna ed
è molto precario; l'amore di Gesù è fedele e
perseverante. Chi aderisce alla creatura caduca, con
essa cade; chi abbraccia Gesù, rimane fermo per sempre.
Lui soltanto dunque sia il tuo amore e tienilo stretto come
un amico; quando tutti ti lasceranno, egli non ti lascerà,
non permetterà che tu muoia per sempre. Da tutte le cose
infatti, che tu lo voglia o no, dovrai alla fine separarti.
Tieniti stretto accanto a Gesù, sia che tu viva sia che tu
muoia; affidati all'amore fedele di colui che solo può
esserti di aiuto, quando tutti gli altri verranno meno. Il
tuo amato è fatto così, non ammette che ci siano altri,
vuole possedere da solo tutto il tuo cuore e sedere in esso
conie siede un Re sul suo trono. Se tu sapessi fare il
vuoto di ogni creatura, allora Gesù con desiderio
dovrebbe venire ad abitare presso di te. Scopriresti che
tutto è perduto, ciò che è affidato agli uomini e non a
Gesù. Non fidarti dunque e non appoggiarti su una canna
che oscilla al vento, perché ogni carne è come l'erba, e
tutta la sua gloria cadrà come il fiore del campo. Sarai
presto deluso, se guarderai soltanto all'apparenza
esteriore degli uomini. Se cerchi il tuo sollievo e il tuo
guadagno negli altri, sempre da capo sentirai ch'esso
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Kairós – La Tradizione
vien meno. Se invece cercherai Gesù in tutte le cose,
certo lo troverai. Se cerchi te stesso, anche troverai te
stesso, per la tua rovina. Nuoce infatti l'uomo a se stesso
più di ogni altro, più che il mondo intero e di tutti i suoi
avversari, quando non cerchi Gesù.
La riflessione dell'Imitazione di Cristo si riferisce qui in
maniera precisa all'amore per Gesù stesso. Un tale amore è
posto in antitesi nei confronti di ogni altro amore umano.
Ogni altro amore è ricondotto infatti alla categoria del diletto,
inteso come piacere, o compiacimento; al diletto così inteso è
contrapposta la figura dell'unico Diletto, che è appunto lo
stesso Signore Gesù Cristo.
Questa antitesi sorprende e lascia perplessi. Effettivamente c'è motivo per essere perplessi. C'è però motivo per
essere perplessi anche di fronte a parole di Gesù, che, almeno
ad una prima lettura, sembrano assai prossime a quelle
proposte dall'Imitazione di Cristo. Ci riferiamo in particolare
alla dichiarazione perentoria che Gesù propose nel giorno in
cui vide che molta gente andava con lui. Egli parve quasi
scoraggiare questa gente, e disse: Se uno viene a me e non
odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le
sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio
discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro
di me, non può essere mio discepolo (Lc 14,26-27).
Il rischio che la nostra fede abbia dubbio bisogno del
conforto di una compagnia, per sussistere, è assai consistente.
Mentre l'amore che è dono dello Spirito deve di necessità
passare attraverso la strettoia della solitudine. Soltanto a
condizione di essere passati attraverso quella porta stretta,
sarà possibile riconoscere anche la verità 'profetica' di ogni
altro affetto umano. Gesù risorto, presso il lago di Tiberiade,
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Kairós – La Tradizione
chiederà a Pietro: Mi ami più di costoro? Soltanto a seguito
della sua risposta positiva, Gesù conferma a Pietro la sua
vocazione: Seguimi. In quel momento, nota il vangelo, Pietro
si volse indietro a guardare quel discepolo che Gesù amava;
chiese allora al Maestro: Signore, e lui? Gesù gli rispose: Se
voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu
seguimi (cfr. Gv 21,19-22). Il breve dialogo suggerisce in
maniera efficace quale sia la verità della meditazione
dell'Imitazione di Cristo. L’amore di Gesù chiede di passare
attraverso la prova della solitudine.
Il senso di questa necessità è più diffusamente illustrato in
un ulteriore passo dell'Imitazione di Cristo, che di seguito
riportiamo. In esso l'amore di Gesù è posto in alternativa
rispetto all'amore dell'amico, dunque all'amore che si nutre di
consolazioni sensibili. E tuttavia è poi riconosciuto come
anche le consolazioni spirituali assumano consistenza di
consolazioni sensibili; non potrebbe trattarsi di consolazioni,
se non sensibili. È in tal modo descritta, affidandosi alla traccia suggerita da un salmo (il Salmo 30), un'esperienza, che
certo è di sempre, che tuttavia assume consistenza
particolarmente insistente nell'esperienza della persona
moderna. La solitudine pare imposta a questa persona dalla
rarefazione di quel tessuto di relazioni civili, che un tempo
pareva assegnare con più sicura univocità al singolo un nome,
una figura, e quindi anche compiti relativamente precisi e da
tutti riconosciuti. Pareva assegnare al singolo - come oggi si
dice - un'identità. La rarefazione delle relazioni sociali opera
per se stessa nel senso di consegnare il singolo al criterio del
sentire per cercare la propria identità sfuggente. Appunto
questa circostanza espone il singolo all'esperienza di
vertiginose oscillazioni. Lo stato d'animo è quasi tutto. Il
rimedio a tale precarietà della vita, e dello stesso rapporto
religioso, è cercato, dall’Imitazione di Cristo, nella direzione
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Kairós – La Tradizione
immediata ed esclusiva della fede, dell'invocazione dunque,
che assume la forma del grido. Questo rimedio è certo, alla
fine, quello radicale. E tuttavia esso non può azzerare l'altra
via, quella volta alla rinnovata scoperta del vincolo di
prossimità che da sempre lega gli umani gli uni agli altri. Il
carattere immediato ed esclusivo della via tutta interiore della
preghiera minaccia di immunizzare il credente nei confronti
di un compito, al quale invece egli non può sottrarsi, in
particolare per praticare il comandamento dell'amore; quello
appunto di ritrovare le ragioni di prossimità con i suoi fratelli.
L’esperienza della vita entro una cella, propria dei monaci, e
propria della stessa devotio moderna, anticipa i tratti di
un'esperienza destinata a divenire comune nella nuova
situazione civile; minaccia insieme di proporre di tale
esperienza
una
comprensione
intempestivamente
escatologica.
Per amore di Dio, impara a staccarti anche dall'amico
che ti è caro e necessario. E non considerare cosa grave
l'essere abbandonato da un amico; dovresti infatti
sapere bene che noi tutti dobbiamo alla fine separarci
gli uni dagli altri. Grande e lunga è la lotta che l'uomo
deve combattere dentro di sé, prima che impari a
superare pienamente se stesso e verso Dio volga
consicurezza tutto il suo affetto. Fino a che l'uomo
rimane piegato su se stesso, scivola con facilità sulle
consolazioni umane. Colui invece che davvero ama
Cristo, che segue con amore tutte le virtù, non inciampa
su quelle consolazioni, non cerca dolcezze sensibili;
cerca invece esercizi difficili e sostiene dure fatiche a
motivo di Cristo. Quando accada che ti sia concessa da
Dio una consolazione spirituale, accoglila con
gratitudine; considera però sempre che essa è dono di
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Kairós – La Tradizione
Dio, non invece tuo merito; e dunque non ti esaltare.
Non gioire troppo, non abbandonarti a vane
presunzioni; sii piuttosto ancor più umile a motivo del
dono, ancor più cauto e timoroso in tutti i tuoi atti,
perché passerà quell'ora e da capo verrà la prova. E
quando la consolazione ti è tolta, non scoraggiarti
subito; con umiltà e pazienza attendi la nuova visita del
cielo, perché Dio può farti da capo dono di una grazia e
di una consolazione ancora più grandi. Questa non è
cosa nuova e inaudita per coloro che hanno esperienza
dei cammini di Dio. Nei grandi santi e nei profeti antichi
spesso c'è stata questa esperienza alternante. Uno di
essi, vivendo un momento di grazia, così esclamava:
Nella mia prosperità io ho detto: Non sarà scosso in
eterno. Venendo poi a mancare la grazia prima conosciuta, aggiunge: quando hai nascosto il tuo volto, io
sono stato turbato. Non si dispera però nel momento in
cui vive una tale esperienza, piuttosto invoca con più
insistenza e dice: A te grido, Signore, chiedo aiuto al mio
Dio. Alla fine raccoglie il frutto della sua preghiera e
rende testimonianza d'essere stato esaudito: Il Signore
ha ascoltato è ha avuto pietà di me; Egli si è fatto mio
aiuto. In che modo? Hai convertito il mio pianto in gioia
e mi hai rivestito di letizia.
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Kairós – La Preghiera
LA PREGHIERA
CANTICO 1 Cr 29,20-13
SOLO A DIO L’ONORE E LA GLORIA
“Dio Padre resuscitò Cristo dai morti
e lo fece sedere alla sua destra nei cieli,
al di sopra di ogni principato e autorità,
di ogni potenza e dominazione
e di ogni altro nome che si possa nominare
non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro.
(Efesini 1,20-21)
Questo intenso cantico di lode, che il Libro delle Cronache
pone sulle labbra di Davide, ci fa rivivere l’esplosione di
gioia con cui la comunità dell’antica alleanza salutò i grandi
preparativi fatti in vista della costruzione del tempio.
Rileggendo dopo secoli quell’evento, il Cronista intuisce i
sentimenti di Davide e quelli di tutto il popolo, la loro gioia e
la loro ammirazione per quanti avevano dato il loro
contributo. Ma non si sofferma che brevemente sulla
soddisfazione umana, per porre subito al centro
dell’attenzione la gloria di Dio: Tua, Signore, è la
grandezza… tuo è il regno… La grande tentazione che sta
sempre in agguato, quando si realizzano opere per il Signore,
è quella di mettere al centro se stessi, quasi sentendosi
creditori di Dio. Davide, invece, attribuisce tutto al Signore.
Non è l’uomo, con la sua intelligenza e la sua forza, l’artefice
primo di quanto si è realizzato, ma Dio stesso.
Davide esprime così la profonda verità che tutto è grazia. Di
qui lo slancio contemplativo di questi versetti. Sembra che
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Kairós – La Preghiera
all’autore del cantico non bastino le parole, per confessare la
grandezza e la potenza di Dio. Egli lo guarda innanzi tutto
nella speciale paternità mostrata a Israele, nostro padre. E’
questo il primo titolo che esige la lode. Lo sguardo
dell’autore si allarga poi al cosmo intero: Tutto, nei cieli e
sulla terra, è tuo. Tutto ciò che di bello e di grande l’uomo
sperimenta, deve essere riferito a Colui che è all’origine di
ogni cosa e tutto governa. La preghiera scandita in questo
Cantico riporta l’uomo alla sua dimensione di “povero” che
tutto riceve.
Sii benedetto, Signore Dio di Israele, nostro padre,
ora e sempre.
Tua, Signore, è la grandezza, la potenza,
la gloria, la maestà e lo splendore,
perché tutto, nei cieli e sulla terra, è tuo.
Tuo è il regno, Signore;
tu ti innalzi sovrano su ogni cosa.
Da te provengono ricchezza e gloria;
tu domini tutto;
nella tua mano c’è forza e potenza;
dalla tua mano ogni grandezza e potere.
Per questo, nostro Dio, ti ringraziamo
E lodiamo il tuo nome glorioso.
Preghiamo.
Insegnaci, Signore, a riconoscere ogni giorno la tua paternità
e la tua grazia. Donaci un cuore povero capace di accogliere
con gioia i frutti dello Spirito. Per Cristo nostro Signore.
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Kairós - Recensioni
SE CERCHI UN LIBRO
Nelle braccia di Maria.
La via dell´abbandono all´amore di Dio
Slawomir Biela
Città Nuova
€ 14.00
"L´abbandono di Maria alla volontà del Padre, che sulla croce
intimamente si unisce a quello abissale del Figlio crocifisso e
abbandonato, è , infatti tutto e solo un abbandono all´Amore.
L´abisso chiama l´abisso. Le parole del Salmo sembrano
ritmare queste pagine, alla fine indicandoci in Maria, abisso
dell´umiltà amorosa che in sé attira e accoglie, per tutta
l´umanità, l´abisso dell´amore infinito della Trinità Santa,
l´icona della Chiesa e, in essa, di ciascuno di noi
Il roveto che arde
Giuseppe Cremascoli
Città Nuova
€ 9.00
Il roveto che arde è il simbolo del rapporto di ogni creatura
con il Creatore nella quotidianità e, dunque, del valore
incorruttibile di tutto ciò che accade perché in relazione con
l´Eterno. Secondo questa prospettiva, l´Autore osserva e
medita su fatti e realtà di oggi - dai grandi avvenimenti
"celebrati" dalla cronaca agli episodi più insignificanti offrendo al lettore piccole, preziose perle di riflessione. La
lettura di questi brevi capitoli diventa occasione per arrestare
il tempo che fugge e costruire un´oasi di meditazione nella
frenesia della vita quotidiana.
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