Estratto distribuito da Biblet FËDOR DOSTOEVSKIJ MEMORIE DA UNA CASA DI MORTI e MEMORIE DAL SOTTOSUOLO Testo russo a fronte Introduzione di Armando Torno BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Estratto della pubblicazione BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Direttore GIOVANNI REALE Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio Collaboratori Alberto Bellanti Vincenzo Cicero Diego Fusaro Giuseppe Girgenti Roberto Radice Glauco Tiengo Estratto distribuito da Biblet Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet FËDOR DOSTOEVSKIJ MEMORIE DA UNA CASA DI MORTI E MEMORIE DAL SOTTOSUOLO Testo russo a fronte Introduzione di Armando Torno BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet Per Memorie da una casa di morti © Sansoni, Firenze 1958 Per Memorie dal sottosuolo © Sansoni, Firenze 1943 L’Editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali mancanze o inesattezze. ISBN 978-88-587-5477-1 © 2012 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Prima edizione digitale 2012 da I edizione Il pensiero Occidentale maggio 2012 Estratto della pubblicazione INTRODUZIONE di Armando Torno Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet Cosa hanno in comune le due opere di Dostoevskij Zapiski iz mertvogo doma e Zapiski iz podpol’ja? Ovvero Memorie da una casa di morti e Memorie dal sottosuolo? Oltre la vicinanza della data di pubblicazione — la prima apparirà integralmente sulla rivista “Vremja” tra il 1861 e il 1862, la seconda su “Epocha” nel 1864 — condividono un denominatore comune, da non individuare esclusivamente nella parola “Memorie”. Non è facile calcolarlo come in un’operazione matematica, si può soltanto osservare che sono due libri nei quali si riesce a cogliere quell’assenza di luce che spinge Dostoevskij alla radice delle domande esistenziali. Né va dimenticato che quando Vasilij Vasil’evic Rozanov cominciò a pubblicare nel 1891 sul “Russkkij Vestink” il suo celebre commento alla Leggenda del grande inquisitore — quest’ultimo è un racconto che vale più di un’opera filosofica e se ne sta ne I Fratelli Karamazov come Giona nel ventre della balena — si accorse che i punti topici del lascito dostoevskijano, quelli dove si decide la sua interpretazione nonché le caratteristiche di una religiosità che pone ancora a noi domande, andavano ritrovati appunto nella Leggenda e nelle Memorie dal sottosuolo. Qualcuno potrà impugnare codesta interpretazione, ma è altresì vero che Rozanov conoscerà un successo notevole e capillare pubblicando in volume il commento alla Leggenda nel 1894, tanto che la sua opera avrà tre edizioni nei successivi quindici anni. Vero è che Dmitrij Petrovic Mirskij, nella fascinosa e insostituibile “Storia della letteratura russa” (tradotta e continuamente ristampata da Garzanti), riprende l’intuizione di Rozanov e sottolinea come le Memorie dal sottosuolo siano al centro della produzione del grande scrittore russo e rappresentino l’espressione di un “morboso anelito alla libertà totale, inclusa la libertà di non volere la felicità”. Che dire? Rozanov probabilmente fu vicino al vero, anche se ci troviamo Estratto distribuito da Biblet ARMANDO TORNO 8 a far tesoro di intuizioni di un letterato contradditorio e cinico. Del resto, fu con lui che queste Memorie si trasformeranno in un punto di riferimento nel lascito del sommo russo, giacché quanto aveva notato il critico Nikolaj Konstantinovic Michajlovskij in Žestokij talant, cioè Un talento crudele del 1882, intorno alle tendenze sadomasochiste dello scrittore dimostrate proprio in un’opera considerata secondaria, troverà eco soprattutto nell’ambito dei populisti, tra i quali tale sociologo e critico veniva considerato un campione. Rozanov, diversamente, fa compiere un balzo alle pagine, trasformandole nel romanzo che divide in due parti il lascito di Dostoevskij. Più o meno, possiamo notare che nella prima egli vedeva un “umanesimo schilleriano”, nella seconda si concretizzava la presenza del tragico. Ma conviene lasciare direttamente a lui la parola, seppure per qualche riga, riaprendo il suo commento critico a La leggenda del Grande Inquisitore (utilizziamo l’edizione italiana, Marietti 1989, p. 34): “L’uomo del sottosuolo è un uomo che si è rinchiuso profondamente in se stesso, che ha preso in odio la vita e muove all’ideale degli utopisti razionali una critica astiosa, basata su una precisa conoscenza della natura umana, frutto di una solitaria e prolungata osservazione di se stesso e della storia”. Saranno queste considerazioni, e le numerose altre presenti nel saggio, che feconderanno molta critica negli anni successivi. Prova ne è che Lev Isaakovic Scwarzmann, meglio noto con lo pseudonimo di Lev Šestov, in un’opera del 1903, La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche, osserverà che gli scritti dei due autori non contengono una risposta ai tanti quesiti circolanti nel pensiero del tempo ma pongono una domanda. Ed essa la possiamo riassumere in questo modo: hanno una speranza gli uomini respinti dalla scienza e dalla morale, ovvero è possibile una filosofia della tragedia? Per questi e per altri motivi un ricercatore come Alessio Scarlato, autore del saggio L’immagine di Cristo, le parole del romanzo. Dostoevskij e la filosofia russa (Mimesis 2006) ha parlato del sommo scrittore come di un “profeta dal sottosuolo”, dedicando un capitolo a tale argomento nel suo libro. Noi, più semplicemente, dovendo presentare per la prima volta ai lettori italiani queste pagine di Dostoevskij con il testo originale a fronte, seguendo l’edizione classica lasciata a suo tempo dal grande Ettore Lo Gatto (della quale vengono conservate le note, Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet 9 INTRODUZIONE sia introduttive che esplicative) aggiungiamo che il sottosuolo “tragico” ed esistenziale che sovente fa accostare l’autore de I Fratelli Karamazov a Nietzsche nasce qui. In fondo I Demoni non sono anch’essi popolati da figli del sottosuolo della società? Se il teatro rappresentato dai rivoluzionari era concreto e ben visibile agli occhi del mondo, alimentato con bombe e congiure, le ragioni che ne hanno consentito l’allestimento giungono, per Dostoevskij, da una dimensione senza luce. La quale, per il grande scrittore russo si può individuare, appunto, nel sottosuolo della politica. E il delitto che si aggira come un’ombra nelle sue ultime pagine, scritte in una stanza di una casa popolare di San Pietroburgo, proprio quella dove si celebra la tragedia dei Karamazov? Alla fine il lettore attento si chiede chi sia il vero assassino e scopre che anche lui stesso potrebbe essere stato coinvolto diventando, per una ragione quasi imperscrutabile, un colpevole. Come dire: siamo tutti compromessi perché le nostre scelte vengono decise in quel sottosuolo dell’anima che non riusciamo né a governare, né tanto meno a scrutare. Per questo, ripeterà in diverse occasioni con voce stentorea Dostoevskij, Dio è necessario. E per il medesimo motivo Cristo è la sola speranza a disposizione dell’uomo di oggi. È superiore alla verità — lo afferma in una celebre lettera — non perché sia possibile confrontare il dono dell’incarnazione divina con quello delle speculazioni filosofiche, ma per il semplice motivo che il Figlio di Dio è luce e non un’entità che la mente ricava nelle sue odissee tra pensieri e dimostrazioni. Šestov, per puntualizzare la propria instancabile ricerca, aggiunge qualcosa di più alle osservazioni che ha lasciato: l’uomo del sottosuolo è Dostoevskij. I suoi romanzi, lungi dall’essere intesi come opere di narrativa legate a una trama, mettono in scena continuamente esseri che cercano disperatamente qualcosa alla luce perché giungono dal sottosuolo. Eccoli, incerti, attenti, accecati dai lampi della realtà: Ippolit nell’Idiota, Kirillov ne I Demoni, Ivan nei Karamazov. Šestov arriva al cuore del problema: Le Memorie dal sottosuolo sono un urlo d’orrore che dilania l’anima, gettato da un uomo, il quale a un tratto si è convinto che nel corso di tutta la vita ha mentito e finto, assicurando se stesso e gli altri che lo scopo supremo dell’esistenza è ’servire l’ultimo degli uomini” (in La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche). È un percorso ermeneutico di grande fascino, Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet ARMANDO TORNO 10 che accenniamo per offrire una chiave di lettura non scontata delle pagine che stiamo presentando, ma che porta lontano. Anche Nietzsche acquista valori diversi quando l’analisi della sua opera è condotta accanto a Dostoevskij. Per tale motivo Šestov sottolinea come per il filosofo tedesco esistesse un solo disperato interrogativo. Si può riassumere in questa domanda: Signore, perché mi hai abbandonato? Gli farà eco appunto Dostoevskij, senza conoscere le parole del suo alter ego, chiedendo: Signore, perché i bambini muoiono? Anche se tali quesiti non hanno ottenuto una risposta vera fatta di parole ma soltanto un sussurro spirituale indirizzato a chi li ha posti, va ricordato che il sottosuolo da cui sembrano provenire, popolato da uomini e da idee, da voglie e da enigmi, ha qualcosa che lo fa assomigliare al peccato originale. A quella caduta — evento inspiegabile utilizzando soltanto le forze della ragione — che ha “costretto” Dio a incarnarsi. Tornando alle Memorie da una casa di morti, romanzo che è possibile definire una sorta di palinsesto del sottosuolo dostoevskijano, occorre innanzitutto ricordare che venne scritto al termine della pena che l’autore scontò in Siberia, vale a dire alla fine del 1859 (la pubblicazione, come abbiamo ricordato, avverrà più tardi). L’opera è in parte autobiografica e il resto fu ispirato da situazioni nelle quali Dostoevskij era testimone diretto. Sono pagine che ci riportano agli anni giovanili dell’autore. Arrestato nel 1849, condannato a morte, fu graziato — la pena commutata in quattro anni di Siberia — quando era già davanti al plotone di esecuzione. Ma il trauma subito, e il successivo periodo di lavori forzati, lasciarono in lui segni indelebili. E sono proprio gli anni passati in cattività che crearono l’esperienza delle Memoria da una casa di morti, opera che fu dapprima concepita come una sorta di studio sul rapporto tra il delinquente e il delitto, ma poi diventerà una toccante testimonianza. Queste pagine hanno la forma di un diario, del quale l’autore, nella introduzione, attribuisce la stesura a un recluso immaginario di nome Aleksàndr Petrovic che avrebbe ucciso la moglie in seguito a un impeto di odio. Dostoevskij, al contrario, era stato arrestato nel 1849 per aver preso parte ad attività “sovversive”. Egli affronterà la prova portando con sé un unico libro, ovvero l’Evangelie Gaspoda nasego Iisusa Christa Noivyi Zavet, un’edizione del Vangelo in Estratto della pubblicazione 11 INTRODUZIONE russo che vide la luce a San Pietroburgo nel 1823. D’altra parte, questa era anche la sola opera che i condannati potevano tenere con sé. I personaggi che la popolano, vale a dire i reclusi condannati ai lavori forzati, con i loro carcerieri e alcune figure del popolo russo sullo sfondo, sono descritti con grande perizia psicologica e in molteplici occasioni emerge la loro umanità celata in quel luogo di pena. Dostoevskij coglie l’insieme e il particolare con frasi particolarmente intense. Prova ne è questa descrizione nella prima parte: “... non ho mai veduto fra quella gente il minimo segno di pentimento, né la minima contrita meditazione sul proprio delitto... la maggior parte di loro nell’intimo crede di avere assolutamente ragione. Questo è un fatto. Certo, la vanità, i cattivi esempi, la baldanza, una falsa vergogna ne sono, in gran parte, la causa. D’altro lato, chi può dire di avere esplorato il fondo di quei cuori perduti e di averci letto ciò che è celato al mondo intero?”. Le pagine contengono riflessioni sulla condizione umana nei momenti difficili, ma non soltanto. Dostoevskij descrive con notevole perizia quelle speranze che nascono in noi quando si soffre. D’altra parte, ogni recluso riesce a vivere sognando la liberazione, costruendosi una dimensione in cui un immaginato futuro migliore cancella le pene del presente, soffrendo sempre più man mano il momento della libertà si avvicina. E quando essa arriva, la gioia non l’accompagna, perché altri problemi che non si potevano prevedere subentrano ai precedenti. Ma questo è, in parole semplici, il destino degli uomini. Indipendentemente dalla loro condizione e dalla società in cui vivono. Dostoevskij ha un piano per uscire dalle gabbie dell’infelicità: applicare alla vita i precetti del Vangelo. Ritornare a essi, riscoprendo il bene della fratellanza, che comunque si manifesta anche tra i condannati — coloro che abitano la “casa di morti”, la medesima che regge il titolo dell’opera — e che lenisce i dolori recati dalla sofferenza dei giorni. Inoltre, la condivisione del dolore consente di scoprire ancora una volta i piccoli gesti di carità cristiana: è il caso che accade un giorno allorché i condannati sacrificano parte del pranzo per sfamare un cane randagio che si aggira per il campo. La stessa forza che i cristiani sanno trarre dalla fede in un Dio redentore è colta da Dostoevskij anche in persone appartenenti ad altre religioni, Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet 12 ARMANDO TORNO quali l’ebreo che prega ogni sera ondulando il capo; oppure avverte tale energia manifestarsi in un gruppo di condannati musulmani che, pur restando diffidenti anche nei confronti del simbolo della Croce, scoprono il Discorso della Montagna. Nelle Memorie da una casa di morti c’è dunque, di fatto, anche una riflessione sugli eterni valori della tolleranza religiosa, oltre che sulla libertà da tutte le possibili prigionie materiali e morali. Ma queste pagine sono percorse da una comprensione — che diventa in più parti cristiana indulgenza — verso i malfattori, gente rea di crimini contro la legge, anche se in definitiva assomigliano a persone più sfortunate e infelici di tante altre. Per questo sono amate da Dio, dal quale giunge al mondo il desiderio della salvezza del peccatore e non il bisogno o la conferma di una condanna. Si è dunque alla presenza di un microcosmo che anela alla libertà, o meglio a una nuova vita. Ma anche, e soprattutto, alla «resurrezione dai morti». Pagine da leggere con attenzione continua, perché in esse si presenta il desiderio evangelico del giovane Dostoevskij, che guarda le situazioni tristi del mondo e riesce a metterle in nuova luce. Più tardi lo scrittore, che trascorrerà una vita né facile né semplice, si aggrapperà disperatamente a Cristo — come ne I Fratelli Karamazov — ma i giudizi sulla società verranno da lui mutati, quasi rovesciati, e quella comprensione nata dalle meditazioni evangeliche lascerà spazio a una pietà non completa, sovente permeata da idee conservatrici, nella quale intingerà la penna per dar vita alle pagine del Diario di uno scrittore. In fondo è questo l’itinerario di Dostoevskij: inseguire il Dio che si incarna in tutte le possibili situazioni e poi giungere ad amarlo attraverso le molteplici esperienze e il mutare delle idee. In margine a questo libro è il caso di aggiungere una riflessione sulla sua fortuna. Il musicista ceco Leóš Janácek che compose l’opera in tre atti Z mrtvého domu, ovvero Da una casa di morti, non soltanto capì come pochi altri il messaggio lasciato da Dostoevskij, ma lo traghettò nel futuro. Il lavoro andò in scena per la prima volta il 12 aprile 1930, quando il maestro era già scomparso da due anni; fu scritto tra il febbraio del 1927 e la primavera del 1928. Non è il caso di soffermarci sulle diverse fasi della rappresentazione, giacché in un primo tempo si intervenne per rendere l’opera meno pessimista e Estratto distribuito da Biblet 13 INTRODUZIONE soltanto nel 1958, quando fu messa in scena per la prima volta dopo la guerra a Praga in un’edizione rispettosa del libretto e della musica di Janácek, si comprese veramente la sua forza. In essa taluni critici hanno individuato una sorta di testamento del compositore: di fatto è la sua ultima creazione e con essa il maestro era arrivato veramente a toccare la morte, ai confini della sua arte (c’è una lettera eloquente dell’ottobre 1927 a Kamila Stösslová). Janácek, d’altra parte, si immedesimò in maniera sorprendente con il materiale narrativo messo a disposizione da Dostoevskij. Durante la stesura, confessò a un amico: “Ho la sensazione di scendere, gradino per gradino, sempre più in basso, e di camminare nei bassifondi più miserabili degli esseri umani. E sono passi molto penosi”. Senza saperlo, seguendo Dostoevskij, aveva messo in scena quello che sarebbe successo di lì a poco in Europa, con i campi di lavoro, quelli di sterminio e gli altri possibili ispirati da idee che provenivano dal sottosuolo della storia. I loro nomi sono noti. Per una volta non li elencheremo, lasciandoli avvolti nel buio dei sentimenti che li hanno generati. L’altra opera contenuta in questo volume è Memorie dal sottosuolo. Un romanzo diviso in due parti. La prima ha come titolo Il sottosuolo, la seconda A proposito della neve bagnata. Vladimir Nabokov la giudicò con le seguenti parole: “Questo racconto lungo, il cui titolo significa anche ‘Memorie da una tana di topi’, può essere definito da alcuni l’anamnesi di una mania di persecuzione, con qualche variante... È la migliore immagine che abbiamo dei temi, delle formule e dei toni di Dostoevskij. È un concentrato di Dostoevskij” (in Lezioni di letteratura russa, Garzanti, Milano 1987). Si comincia con un monologo di critica sociale, in cui sono messi alla berlina gli ideali ottimistici del positivismo, che secondo l’autore non potrebbero mai condurre alla tanto sospirata società del benessere, quella che per l’Ottocento («lo stupido secolo XIX», secondo Léon Daudet) si sarebbe dovuta fondare sulla scienza, sul progresso, sul benessere e sulla ragione. Il motivo? La risposta di Dostoevskij è puntuale: l’uomo, o meglio l’individuo, è come se fosse continuamente colpito da un segreto desiderio di sofferenza e di autoumiliazione, che lo spingono verso ciò che è sporco. Questa tendenza non riesce ad essere contenuta o rintuzzata dalle diverse teorie della ragione, né tanto meno Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet ARMANDO TORNO 14 da quelle ipotesi religiose che propongano zuccherosi ideali di fratellanza. Il protagonista è, appunto, un esempio di questo “bisogno” di sofferenza. Tra l’altro, narra come non sia riuscito a «diventare nemmeno un insetto». Il suo dramma prende forma attraverso una allucinante interiorizzazione della realtà: si considera riflessivo sino all’eccesso, avverte di essere continuamente impegnato a ricercare la causa prima delle sue azioni, è afflitto da una complessa accidia. Si direbbe, per esprimerci in soldoni, che egli sia l’anti-ritratto degli uomini d’azione, di coloro che si industriano in mille modi. Insomma non fa parte della categoria che, allora come oggi, anzi sempre, sa come cavarsela con il mondo: quella che si impone, e ottiene. In essa non vi sono individui tormentati da domande esistenziali o talmente sensibili da porsi i perché delle azioni compiute. Costoro fanno, prendono, realizzano, se necessario opprimono. Senza le catene della sensibilità o delle questioni profonde. Non si legge forse nell’acutissimo libro biblico di Qohelet: “Più intelligenza avrai, più soffrirai”? Qualcuno potrà aggiungere che l’uomo messo in pagina da Dostoevskij si presenti con una condotta svantaggiosa oltre che irrazionale, ma lo scrittore ha pronte le sue obiezioni; o meglio, mette in scena quelle prove che consentono di credere nell’irrazionalità dell’essere umano basandosi sulla storia. Per quei giorni, quelli da lui evocati, erano piuttosto fatti di cronaca: le guerre di Napoleone Bonaparte (ancora ben presenti e commentate) e quelle di Napoleone III, lo scontro fratricida della secessione americana (dove compare l’ideologia e una violenza nuova sulla popolazione), ma anche il secondo conflitto dello Schleswig. Quest’ultimo, di notevole interesse per la stampa russa nei giorni in cui veniva composta l’opera di Dostoevskij, era noto in lingua danese come Slesvigske Krig e in quella tedesca come Zweiter Schleswig-Holsteinischer Krieg. Fu, insomma, la Guerra di successione dello Schleswig-Holstein o Guerra dei Ducati. Si trattava dell’ostilità scoppiata nel 1864 che vide contrapposti da un lato Prussia e Austria e dall’altro la Danimarca. Nabokov sottolinea che “questi riferimenti all’attualità sono però vaghi e privi di forza strutturale”. Certo, Dostoevskij amava la generalità più che un certo dato specifico; ma tale scelta, che lo accompagna in tutta la sua opera, riflette anche le tematiche che affronta. Va aggiunto che c’è una certa Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet 15 INTRODUZIONE differenza con Tolstoj. Se anche quest’ultimo amava i giornali, agiva tuttavia sempre con il tocco d’arte: lo prova l’inizio di Anna Karenina, dove definisce Oblonskij utilizzando il genere d’informazioni che legge al mattino, ma fissa con precisione storica le sue coordinate. Sulle cause dell’irrazionalità e del richiamo esercitato dalla sofferenza caratterizzanti l’uomo del sottosuolo, va aggiunto che, anche se non è chiamata in questo modo, la sua figura si presenta (e si intravede) nella pagine di molti autori ottocenteschi, da Leopardi a Balzac. In sostanza, questo individuo, disposto anche all’inattività e al ritiro dalla vita sociale, si rifugia continuamente in una dimensione buia che gli si apre davanti. Perché dopo ogni disgustoso atto commesso — precisa ancora Nabokov — “torna strisciando nella propria tana e comincia a godersi l’esecranda voluttà della vergogna, del rimorso, il piacere della propria bassezza, della degradazione”. Con tutte le complicazioni e le componenti del caso. Si prenda, per esempio, il IV capitolo. In esso si conosce che il suo piacere è simile a quello di una persona con il male di denti che si accorge di tenere svegli i famigliari con i suoi lamenti, ma possono essere quelli di un impostore. Si tratta di un piacere non semplice, nel quale si rincorrono componenti complesse. Sappiamo, comunque, che l’uomo-topo rincorre continuamente la finzione, mentre sta barando, falsificando. Deve simulare e mentire per ritrovare se stesso. Nabokov coglie questo aspetto con un tocco polemico: “L’uomo da lui descritto vive solo come un maniaco, come groviglio di atteggiamenti. I mediocri imitatori di Dostoevskij, come Sartre, un giornalista francese, hanno perpetuato questa tendenza sino a oggi”. La seconda parte dell’opera, invece, è un racconto in prima persona, in cui l’autore del precedente grigio monologo confessa alcune basse azioni compiute, per dimostrare che anche i cosiddetti «istruiti», o coloro che vengono considerati dalla vigente morale come persone «a modo», riescono ad essere spregevoli e vili. Sono fatti, quelli narrati, risalenti ad alcuni lustri prima del cupo monologo (qui l’uomo del sottosuolo ha ventiquattro anni, rispetto ai quaranta della prima parte). Il protagonista racconta di quando era impiegato nella burocrazia. Era già allora tormentato dai dubbi e dal senso di inadeguatezza, in particolare verso i colleghi per i quali provava Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet ARMANDO TORNO 16 disprezzo, anche se nel suo intimo avvertiva inferiorità nei loro confronti. In questo gioco di maschere e di autoinganni, di meschinità rivolte anche a se stesso, delle quali l’uomo-topo si alimenta per trovare un senso alle proprie azioni, in lui sorge un bisogno, quasi una costante voglia di affermare la propria esistenza e di non soccombere all’ignavia. E la sua unica strada la trova cercando di apparire, commettendo le sole azioni di cui è capace: quelle indegne. Il primo episodio narrato riguarda un tentativo di sfidare a duello un ufficiale che l’aveva trattato con sufficienza. Vorrebbe affrontarlo, gli scrive una lettera per invitarlo alla sfida ma con la speranza di costruire con questo avversario creato da futili motivi una successiva amicizia che sarebbe seguita ai contrasti. Alla fine, però, non invia la missiva e si limita a scontrarsi con l’avversario battendo la propria spalla contro quella dell’ufficiale sulla Prospettiva Nevskij, la strada più elegante di San Pietroburgo, dove sovente gli capitava di incontrarlo. Una scelta a dir poco meschina, stando alle regole dei gentiluomini del tempo, che gli reca soddisfazione soltanto per poco tempo, giacché subito dopo si moltiplicano in lui dubbi, incertezza, sensi di colpa. È passato da una “gara di sguardi” a una “gara di spinte” senza riuscire a rispondere alle proprie ansie. Inoltre, egli cerca di trovare spazio in società ritornando a frequentare alcuni suoi vecchi compagni di scuola. I loro nomi, quasi si fosse in una commedia settecentesca, sono descrittivi. Ecco, per esempio, Zverkòv, un militare il cui nome deriva da “zverëk”, “bestiolina”; ecco Trudoljubov che vuol dire “diligente”, altro ufficiale. Di essi si sente inferiore, e loro non provano alcun interesse a incontrarlo, comunque riesce a organizzare una cena. Beve, viene umiliato, anzi è oltraggiato dinanzi a tutti, finisce seguendo alcuni in un postribolo. Qui conosce Liza, una donna che esercita il più antico dei mestieri. A questo punto scatta quasi un desiderio di vendetta nei suoi confronti, forse per riscattare le umiliazioni della serata. Riesce per questo a farsi credere un animo nobile, una sorta di benefattore, di provare nei confronti di questa ragazza dei veri sentimenti. Dopo qualche giorno la signorina, con il desiderio di una vita diversa, lo raggiunge a casa. Ma egli la maltratta, anzi le usa violenza, infine la caccia avvilendola con del denaro. La prostituta ha più dignità di lui: fugge, lascia la banconota sul tavolo. La creatura Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet 17 INTRODUZIONE del sottosuolo aveva necessità di colpirla per trovare requie alle proprie frustrazioni ma, alla fine, si sente umiliato da lei. Che dire di questo sottosuolo? Non è difficile vedere un collegamento tra gli abitanti del primo e del secondo romanzo, tra coloro che sono condannati a scontare la loro pena nella “casa dei morti” e quelli che fanno giungere le emozioni e il loro imbarazzo antropologico da una realtà sottostante. Dostoevskij, in fondo, scrive una storia sola, quasi dovesse farne delle puntate. Si permette soltanto di anticipare i tempi. Di lì a qualche decennio, nel Novecento, gli uomini con tali caratteristiche assumeranno diversi volti, altri nomi, ma saranno pressoché uguali a quelli imparentati con i topi che non riescono a riconoscersi, a capirsi, ad allontanare da sé la sindrome del nulla. Freud, Kafka, Lovercraft o anche pittori come Francis Bacon insieme a tanti altri porteranno alle estreme conseguenze il disagio dell’uomo contemporaneo, le sue turbe, i “perché” che si pone e non hanno risposta. Dostoevskij aveva già capito che era inutile cercare soluzioni su questa terra, tra le leggi, nelle idee o nei grandi movimenti che stavano cambiando il volto al mondo. La Leggenda del Grande Inquisitore, è il caso di ripeterlo, sarà la risposta definitiva a quelle incessanti e angosciose domande che nacquero in lui e nei grandi scrittori o pensatori che verranno. Questo russo con il vizio del gioco credeva che soltanto Cristo rappresenti una soluzione, al di là di ogni logica e dei tentativi per risolvere i problemi. Già, Cristo. Peccato che le istituzioni dopo averlo incontrato attraverso un alto rappresentante lo volessero di nuovo condannare a morte. E peccato che Cristo abbia scelto di tacere, così come fece dinanzi a Pilato che gli chiedeva “Che cos’è la verità?”. E poi, con un estremo e straziante gesto d’amore, si sia limitato a baciare chi ne aveva tradito il messaggio. Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet Estratto della pubblicazione Estratto distribuito da Biblet MEMORIE DA UNA CASA DI MORTI Estratto della pubblicazione