Eugenio Orso Scritti politici e sociali 2010‐ 2012 Articoli, saggi e commenti In copertina: Emilio Vedova, Hostage city, Città ostaggio 1954 E‐book gratuito disponibile in rete Indice Breve premessa Pag. 1 Fenomeni storici di antagonismo nel mondo antico Pag. 2 Saggio del 20/08/2010 Commenti ad elaborati e missive di militanti Fiom sulle questioni dell’attacco al lavoro Pag. 36 Commento del 22/10/2010 Fra Piazzale Loreto e il Bunga‐Bunga Pag. 39 Articolo del 29/10/2010 Forza, Alluvione! Pag. 41 Articolo del 10/11/2010 Commento ad un editoriale di Comunismo e Comunità scritto da Lorenzo Dorato Pag. 45 Commento del 22/11/2010 I tre comunismi Pag. 48 Saggio del novembre del 2010 La distorsione geopolitica e i corsi ed i ricorsi capitalistici Pag. 85 Saggio del 10/01/2011 Brevi considerazioni sul significato della favola delle api di de Mandeville Pag. 104 Commento del 01/02/2011 L’insostenibile leggerezza del capitalismo Pag. 106 Saggio del 06/02/2011 I Per colpire Berlusconi bisogna colpire la Lega Pag. 136 Articolo del 13/02/2011 La Decrescita e la Decrescita Forzata ed Infelice Pag. 139 Saggio del 19/03/2011 Non esistono profughi economici Pag. 163 Articolo del 10/04/2011 La liberaldemocrazia e la democrazia degli Scilipoti Pag. 169 Articolo del 14/04/2011 Rendita, profitto e creazione del valore Pag. 171 Saggio del 25/04/2011 Gli idioti, la Lega e Berlusconi Pag. 197 Articolo del 27/04/2011 Una Confindustria di assassini e stragisti Pag. 200 Articolo del 09/05/2011 Total Market Pag. 203 Saggio del 16/08/2011 Cavalcare la tigre oggi Pag. 219 Saggio del 20/08/2011 La lettera globale Pag. 229 Articolo del 29/09/2011 I peggiori anni della nostra vita Pag. 232 Articolo del 14/10/2011 A cosa è servita la manifestazione di Roma di sabato scorso? Pag. 238 Articolo del 17/10/2011 II Necessaria la violenza rivoluzionaria, pericolosa la violenza insurrezionale Pag. 242 Articolo del 19/10/2011 Riots e Lotta di Classe (sempre sui fatti di Roma del 15 ottobre) Pag. 245 Articolo del 20/10/2011 Attacco globalista all’Italia Pag. 247 Articolo del 25/10/2011 Uscire dall’euro! (Ma come si può fare?) Pag. 250 Articolo del 27/10/2011 Berlusconi, l’euro e i paladini della moneta unica Pag. 255 Articolo del 30/10/2011 Discussione con Costanzo Preve: l’esperimento greco, l’uscita dall’euro e la crisi italiana Pag. 258 Articolo del 02/11/2011 La democrazia occidentale è il peggior sistema politico di tutta la storia umana Pag. 264 Articolo del 04/11/2011 In Serbia gli operai chiedono di andare in prigione Pag. 269 Commento del 08/11/2011 Il Quisling, Il nostro agente all’Avana e il Proconsole Pag. 271 Articolo del 11/11/2011 Habemus Quisling! Pag. 275 Articolo del 16/11/2011 Le pensioni dʹoro dei subdominanti politici, dei burocrati e dei banchieri come nuova decima Pag. 277 Articolo del 16/11/2011 III Imperialismo Finanziario Globale Pag. 279 Saggio del 28/11/2011 Fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo? Pag. 284 Articolo del 21/12/2011 L’Europa posticcia dell’Unione. Ovvero la perdita della coscienza sociale e della sovranità nazionale Pag. 288 Saggio del 16/01/2012 Popoli e classi dominate senza rappresentanza Pag. 295 Saggio del 23/01/2012 Stato Versus Mercato L’Italia stretta fra globalizzazione, Europa unionista e deficit di sovranità nazionale Pag. 303 Saggio del 12/02/2012 L’Italia del deficit di sovranità nazionale, dell’evasione fiscale e del debito pubblico Pag. 312 Articolo del 13/02/2012 Napolitano fantoccio delle banche e dei globalisti (e in Sardegna lo sanno) Pag. 317 Articolo del 21/02/2012 Le vittime predestinate, l’invidia e il massacro sociale Pag. 319 Articolo del 23/02/2012 Monti, le imposte e l’iniquità sociale Pag. 322 Articolo del 01/03/2012 Ritorno al passato: Modern Money Theory e l’ombra di Keynes Pag. 324 Saggio del 05/03/2012 L’”esperimento” greco ha avuto un certo successo Pag. 331 Articolo del 09/03/2012 IV La funzione degli scandali, delle inchieste giudiziarie e i sub‐dominanti politici nazionali Pag. 332 Saggio del 18/03/2012 L’obbiettivo di Monti e Napolitano è licenziare gli italiani Pag. 343 Articolo del 21/03/2012 La crisi economica continua e Monti ha salvato l’Italia: schizofrenia massmediatica? Pag. 346 Articolo del 21/03/2012 Strumenti di dominazione violenta e nonviolenta Pag. 350 Saggio del 26/03/2012 Stato di eccezione liberaldemocratico e sondaggi d’opinione Pag. 357 Saggio del 30/03/2012 La catena imperialista, l’anello debole e la catena di comando globalista Pag. 361 Saggio del 01/04/2012 Italia kaputt! Pag. 369 Articolo del 02/04/2012 Dopo Parentopoli, “Tesoropoli” Pag. 372 Articolo del 04/04/2012 La Lega, Bossi, il “Cerchio magico” e la circonvenzione di incapace (breve discussione telefonica con il filosofo Costanzo Preve) Pag. 374 Articolo del 06/04/2012 Manifestazioni e scioperi pacifici e testimoniali, occupazioni simboliche Pag. 377 Articolo del 15/04/2012 V Universalità alienata, spersonalizzazione sistemica, natura umana e possibilità di scelta Pag. 383 Saggio del 24/04/2012 Deserto Italia Pag. 387 Articolo del 25/04/2012 Per Stefano D’Andrea di Appello al Popolo Pag. 391 Commento del 27/04/2012 la Rivoluzione, I Rivoluzionari e le masse Pag. 393 Saggio di aprile 2012 NON VOTATE! NON ANDATE ALLE URNE! Pag. 416 Articolo‐comunicato del 03/05/2012 L’antipolitica, il grillismo e il controllo sistemico Pag. 418 Articolo del 08/05/2012 FAI, GAP, BR: qualcuno pesca nel torbido? Pag. 421 Articolo del 12/05/2012 Propaganda Armata Pag. 427 Articolo del 16/05/2012 Commento all’articolo di Marco Cedolin Il fantasma del terrorismo per coprire la realtà Pag. 430 Commento del 18/05/2012 Tecnocrazia, eurocrazia, burocrazia Pag. 433 Saggio del 19‐20/05/2012 Il nemico politico, in questa fase, è il Pd Pag. 441 Articolo del 23/05/2012 Il paradosso impoverimento di massa /passività di massa Pag. 445 Articolo del 25/05/2012 VI Schäuble, il fiscal compact e gli eurobond Pag. 449 Articolo del 05/06/2012 La Germania non è il centro imperiale dell’Europa Pag. 452 Articolo del 10/06/2012 Dopo il vertice UE tutto continuerà come prima Pag. 456 Articolo del 30/06/2012 «Spending review» e consenso Pag. 461 Articolo del 09/07/2012 Ancora sulla Dittatura indiretta della classe globale Pag. 469 Articolo del 15/07/2012 Tredicesime tagliate? E’ quasi certo Pag. 476 Articolo del 26/07/2012 Non si può uscire dall’euro Pag. 479 Articolo del 04/08/2012 Falliti e servi allo sbaraglio Pag. 484 Articolo del 27/08/2012 L’invincibilità del neocapitalismo Pag. 489 Saggio del 28/08/2012 VII Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Breve premessa La presente raccolta di scritti politici e sociali parte dalla fine del 2010 per arrivare fino ad oggi. L’arco temporale è di circa due anni, anche se ho inserito un saggio più datato, del 20 di agosto del 2010. Nella raccolta compaiono articoli, saggi e alcuni commenti da me giudicati significativi. E’ tutto ciò che di importante ho scritto in relazione agli effetti della crisi strutturale neocapitalistica in Italia e, in subordine, in Europa. Articoli e saggi sono stati pubblicati sul mio blog personale, Pauper class (link: http://pauperclass.myblog.it/) e in molti casi sono stati recepiti da altri, in rete (ComeDonChisciotte, Comunismo e Comunità, Arianna Editrice, eccetera), mentre i pochi commenti presentati, da me ritenuti particolarmente significativi, sono comparsi su altri blog. Alcuni di questi scritti sono stati pubblicati su carta, ma la maggioranza esiste soltanto in formato elettronico. Consiglio agli (eventuali) lettori di prestare attenzione soprattutto ai saggi e, per quanto riguarda la sottomissione piena dell’Italia ai poteri esterni, al periodo che va dall’autunno del 2011 agli inizi di agosto del 2012. L’accelerazione del processo di riplebeizzazione della popolazione italiana, di ridimensionamento e parziale distruzione della struttura produttiva nazionale e di azzeramento della sovranità dello stato, iniziata con l’avvento del direttorio Monti‐Napolitano, può essere considerato il tema centrale di questa raccolta, assieme alle analisi – contenute nei saggi ed anche in numerosi articoli – del modo di produzione neocapitalistico, dei suoi elementi strutturali e delle sue esigenze riproduttive. Come suggerisce lo splendido quadro di Vedova in copertina – Città ostaggio, del 1954 – siamo tutti ostaggi nelle mani delle Aristocrazie finanziarie globali, agenti strategici di un Nuovo Capitalismo che ha bandito l’Etica, la socialità e la stessa umanità. Questa raccolta, in breve, può essere letta dagli interessati come una cronistoria, corredata di analisi, della crisi economica, sociale e politica, la cui onda d’urto ha investito l’Italia in questi ultimi due anni, e che è ben lungi dall’essersi conclusa. Negli scritti presentati ci sono alcuni aspetti predittivi che lo sviluppo storico, ad oggi, sembra confermare in buona misura. In ultimo, l’ordine di presentazione degli articoli, dei saggi e dei commenti da me raccolti è cronologico, perché si parte dallo scritto più datato per chiudere con il più recente, che è del 28 di agosto del 2012. Buona lettura Eugenio Orso Trieste, 2 settembre 2012 1 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Fenomeni storici di antagonismo nel mondo antico Saggio del 20/08/2010 Avvertenza: questo saggio è purtroppo incompleto, perché manca la parte quarta, che era mia intenzione dedicare al lungo crepuscolo dell’impero romano in occidente, da Diocleziano e Costantino I fino alla deposizione di Romolo Augusto, da parte di Odoacre, e la consegna delle insegne imperiali all’imperatore d’oriente. Confesso che la quarta parte non la ho neppure iniziata, ma non è escluso che in futuro provvederò a completare il saggio, integrandolo ed estendendolo. Questo scritto è un “frammento di studi più vasti”, nelle mie intenzioni una sezione di un’opera, dal titolo Insurrezione e Rivoluzione, che non ho mai portato a compimento, nonostante il molto materiale a mia disposizione. Parte prima: Greci, Romani e schiavi in rivolta Un excursus storico esaustivo del fenomeno dell’antagonismo nelle società umane classiste precapitalistiche – con diretto riferimento al mondo dei Greci e dei Romani – richiederebbe, come dovrebbe essere a tutti ovvio, un libro a sé stante diviso in parecchi tomi, e quindi un’opera che non sarebbe esagerato definire monumentale, ma per i più modesti scopi perseguiti dallo scrivente nella presente elaborazione sarà sufficiente indagare alcuni di questi fenomeni, fra i più significativi e noti dei tempi antichi dall’epoca degli Elleni alla società romana, per dare un fondamento storico al discorso relativo a Insurrezione e Rivoluzione introdotto nel primo capitolo, e soprattutto per fissare le necessarie discriminanti, culturali, sociali e politiche, fra i più antichi sommovimenti e le attuali prospettive insurrezionali e/o rivoluzionarie. Sembra inevitabile iniziare citando la ben nota vicenda di Spartaco e del così detto bellum spartacium, altrimenti chiamato bellum servile, ossia dalla guerra del potere romano repubblicano del primo secolo avanti Cristo contro Spartaco e gli schiavi in rivolta che lo seguivano, un conflitto senza quartiere che ha generato un’ampia letterura a partire dal mondo culturale antico [Plutarco, Appiano, Livio, Sallustio, Fozio, eccetera], ponendo fin da quei tempi il problema dell’humanitas e del difficile, controverso rapporto fra i liberi e gli schiavi. Si trattò sostanzialmente di una guerra breve, molto sanguinosa, costellata di saccheggi e di esecuzioni, i cui eventi sostanzialmente coprono il periodo dal 73 al 71 a.C., ma fu una guerra decisamente “atipica” per come si era sviluppata e drammatizzata, rischiando di compromettere il controllo delle élite del tempo sull’intera società, e si concretizzò in un aspro confronto non facilmente inquadrabile nelle tipologie classiche di conflitto allora conosciute e codificate dai cronisti, che portava inevitabilmente all’attenzione generale la condizione “servile”, cioè la condizione di schiavitù in cui era costretta una parte significativa del genere umano, affinché l’altra potesse prosperare ed evolversi. 2 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La vera storia del trace Spartaco – gladiatore per diletto dei liberi e infine istruttore di gladiatori in una scuola di Capua, nato come umile figlio di pastori e in seguito ausiliario nell’esercito romano, disertore per le vessazioni subite e per questo ridotto in schiavitù sulla base delle leggi di quel tempo e della pratica della diffusa dello schiavismo – è stata in seguito trasfigurata nella leggenda, utilizzata simbolicamente e politicamente nella prima metà del Novecento dai moderni antagonisti, come nel caso della Lega di Spartaco del 1919, in Germania, fondata dalla grande intellettuale marxista Rosa Luxemburg, fino a diventare un redditizio soggetto cinematografico con Kirk Douglas e Stanley Kubrik. Ma dietro la storia di Spartaco e della più nota, estesa ed insidiosa rivolta di schiavi del mondo antico alla quale Crasso e Pompeo alla fine riuscirono a venire a capo, si celava pur sempre una condizione sociale ed umana intollerabile, di diminuzione e sfruttamento integrale, che in forme talora nuove ed inedite, adattate subdolamente ai nuovi contesti culturali e sociali, talaltra in forme che addirittura bene approssimano quelle “classiche”, all’inizio del terzo millennio è ben lungi dall’essere completamente scomparsa. Il primo secolo avanti Cristo fu per il sistema di potere romano e per la società antica tutta, a partire dall’italica penisola, una sorta di “banco di prova” storico, perché si susseguirono, nella prima metà di quel secolo, la guerra sociale che estese la cittadinanza ed il conseguente status alle popolazioni italiche, la guerra civile fra Mario e Silla, che portò alla dittatura di quel Lucio Cornelio Silla il quale era formalmente il rappresentante dell’aristocrazia ma che dopo la vittoria sul partito democratico si rivelò un autentico despota terrorizzando gli stessi patrizi, e infine la “grande guerra servile” [detto con il senno di poi], che riuscì a mettere in pericolo gli assetti del potere schiavistico, nel crepuscolo della repubblica, e che si concluse drammaticamente con la sconfitta degli schiavi e dei loro capi, fra i quali il più noto, certamente il più “simbolico” ma non l’unico [alcuni erano galli, come Crisso] fu inequivocabilmente Spartaco. Queste tre guerre, sviluppatesi e risoltesi nell’arco di pochi anni durante la prima metà dell’ultimo secolo dell’era pre‐cristiana, furono conflitti squisitamente interni al sistema di potere di Roma – e perciò ancora più problematici, disgreganti ed insidiosi rispetto alle guerre con un nemico esterno – ed avevano una natura e un’origine profondamente diversa l’uno dall’altro, pur potendoli inquadrare per linee generali nel processo storico di trapasso dalla Repubblica all’Impero: 1) La guerra sociale, iniziata nel 90 a.C., fu uno scontro fra liberi in cui una parte, quella riunita nella federazione italica, allora “ausiliaria” di Roma, voleva semplicemente la cittadinanza, con tutti i vantaggi conseguenti [compresa la paga del legionario, superiore a quella degli altri soldati non cives], e non metteva certo 3 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 in discussione dalle fondamenta il sistema di potere romano [che anzi aveva adottato anche nell’organizzazione militare, avendo nominato addirittura i propri consoli] riconoscendolo sostanzialmente come proprio. Persino inutile precisare che la guerra si concluse con una vittoria incerta dei “conservatori” romani, ma portò all’estensione della cittadinanza alla controparte italica. 2) La guerra civile, di poco posteriore alla guerra sociale e divisa in due fasi [dal 88 al 82 a.C.], fu nel contempo un confronto fra “partiti” dell’epoca, del tutto interni alla società romana [in quella occasione l’importante famiglia della Gens Giulia era schierata con i “democratici”, cioè con la parte perdente sul campo di battaglia, tanto che il giovane Giulio Cesare fu costretto a rendersi “irreperibile” per non subire conseguenze], e fra le personalità forti che guidavano questi due partiti – Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla –, una guerra dalla quale emerse sostanzialmente un dittatore, una figura autoritaria come quella di Lucio Cornelio Silla che rivelò, alla fine, di rappresentare principalmente sé stessa piuttosto che i ben più articolati interessi dell’aristocrazia. La vicenda si chiuse con la morte di Silla e la fine del suo potere personale. 3 La guerra servile contro Spartaco, infine, quale simbolo di un concreto riscatto degli schiavi partito da loro stessi e non da qualche autorità “benevola”, che ebbe una natura molto diversa e decisamente anomala rispetto agli altri due conflitti, di difficile definizione e di un certo imbarazzo per gli stessi romani, al punto che una fonte autorevole come Plutarco [ci avverte Luciano Canfora nel suo brillante saggio Spartaco, Marx e Mommsen] ha fatto ricorso all’escamotage di indicare la guerra con il nome del nemico affrontato [“guerra contro Spartaco”], per non essere costretto a definirla e quindi a metterne in luce i veri moventi, con la spiazzante verità che gli schiavi si sono comportati, in quella tragica occasione di conflitto, esattamente come i liberi e non come “bipedi umanoidi” quali si voleva far credere che erano, costituendo le proprie armate ed affrontando le coorti e le legioni sul campo di battaglia. Ma quello che dobbiamo chiederci, in ragione degli scopi di questo modesto studio, è quali furono le motivazioni più profonde degli schiavi ribellatisi e dei capi che li guidavano, e quale spirito animò questa e numerose altre rivolte di non liberi, costretti talora in uno stato di animalesca e intollerabile cattività. L’indispensabile premessa è che le rivolte di non liberi hanno precedenti molto più antichi della guerra servile spartachista, fin dall’affermazione della civiltà degli Elleni e delle Città‐Stato greche, con la famigerata diffusione della “schiavitù per 4 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 debiti” ed anche della pratica di riduzione alla condizione di schiavo dei prigionieri di guerra, affermatasi in epoche più arcaiche e mai abbandonata. Lo scopo molto concreto della riduzione in schiavitù era quello di procurarsi braccia per il lavoro e per poter operare il conseguente sfruttamento di ampie, se non assolutamente maggioritarie fasce di popolazione, come avvenne nel caso storico degli Iloti a Sparta, né propriamente debitori insolventi né prigionieri di guerra, ma comunque popolazioni sottomesse [quelle della Messenia conquistata dagli spartani‐dorici, ad esempio] private dei diritti e costrette al lavoro servile, o più propriamente e concretamente ridotte a masse di schiavi. Come evidenzia con estrema chiarezza Romolo Gobbi nel suo interessante saggio Schiavitù dell’agricoltura, gli iloti in rivolta – nei fatti assimilabili per la loro condizione agli schiavi, ma nella fattispecie di proprietà dello stato che li assegnava ai membri del gruppo dominante come se si trattasse di una semplice “concessione” – hanno costituito un serio problema per l’entità spartana caratterizzata da una forma di comunismo aristocratico/ castale di derivazione dorica, particolarmente in occasione di una grande rivolta degli stessi nel quinto secolo, scoppiata nell’anno 464 a.C., per sedare la quale Atene inviò intorno al 462 a.C. un corpo di spedizione costituito da opliti. Atene non aiutò di certo Sparta per sopraggiunta amicizia nei confronti della rivale, ma per una sorta di “solidarietà classista” fra proprietari di schiavi, e con tutta probabilità per impedire che la rivolta si estendesse minacciosa ben oltre i confini della Città‐Stato avversaria. Questo episodio storico ben noto, rivela che già nel V secolo a.C. la schiavitù era eretta a sistema, e costituiva il pilastro fondamentale dell’economia delle Città‐ Stato. Il ricorso al lavoro schiavo – o servile sul modello degli iloti, il che nelle date condizioni storiche significava praticamente la stessa cosa – si è affermato all’interno del mondo antico [dai Greci ai Romani], a sommesso avviso dello scrivente per tre ordini di motivi principali, intimamente legati alla natura e al funzionamento della società di allora, motivi elencati di seguito in tre punti, con l’avvertenza che il terzo ed ultimo punto non è certo il meno importante, ma costituisce il dato materiale che ha influenzato, a sua volta, l’evoluzione degli aspetti culturali e lo sviluppo sul piano sociale. Elementi costitutivi del sistema schiavista: 1) Il ruolo del tutto secondario, quasi “spregevole”, che rivestiva il lavoro umano e l’estrema svalorizzazione delle indispensabili mansioni lavorative quotidiane, in agricoltura, all’interno della casa come nelle miniere. 5 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La banusia, nell’antica Grecia, qualificava in termini spregiativi il lavoro manuale, ponendo in una situazione di inferiorità chi se ne occupava. L’attività lavorativa era considerata necessaria per la produzione delle basi materiali della vita associata, ma non certo degna dei liberi, i quali solitamente si dedicavano ad altro, ad attività più nobili ed “alte” per potersi compiutamente realizzare, quali erano, in effetti, per gli uomini di allora la Filosofia, la Politica, l’Arte, la Guerra. Ad un certo punto della storia antica ci fu una svolta, un cambiamento culturale profondo i cui elementi erano probabilmente già presenti in forma embrionale nelle comunità più arcaiche, se è vero che ancora nel VIII secolo a.C. Esiodo scrisse un celebre poema in esametri, dal titolo Le opere e i giorni, nel quale proclamava per l’uomo [in quella circostanza rappresentato dallo scapestrato fratello Perse] la necessità del lavoro, anzi, faceva apertamente l’elogio del lavoro e della giustizia sociale, in quanto sola via per vivere dignitosamente ed acquisire il favore degli dei. Il lavoro era dunque inteso come etica imposta all’uomo dagli dei per una buona vita. Ma purtroppo, a dispetto di Esiodo e della sua apprezzabile apologia del lavoro onesto e libero, per alimentare i sempre maggiori flussi di prodotti agricoli e di materie che consentivano l’esistenza e l’espansione delle Città‐Stato elleniche, migliorando progressivamente la “qualità” della vita urbana a vantaggio dei cittadini nella pienezza dei diritti, si resero necessarie masse sempre più grandi di schiavi, possedute sia dai “piccoli produttori indipendenti” dediti ancora, in buona sostanza, all’autoconsumo delle produzioni [una o due unità servili, in media, per ciascun libero] sia e soprattutto dai grandi proprietari che accrescevano il loro potere sul resto della società e nel contempo estendevano la loro influenza politica. Grandi masse di schiavi possedute significavano maggiori volumi di produzione ed anche, come conseguenza non trascurabile, maggior potere e prestigio all’interno dell’organizzazione sociale. Secondo Costanzo Preve, “L’alienazione precapitalistica è dunque in genere unità di sfruttamento economico e di svalorizzazione sociale. Il lavoro sociale precapitalistico produce un plusprodotto sociale prioritariamente distribuito nelle classi dominanti (antico‐ orientali, asiatiche, schiavistiche, feudali, signorili, eccetera) e viene, per di più, colpevolizzato, disprezzato e svalorizzato dalle strutture ideologiche del potere.” [in Storia critica del marxismo]. Per quanto riguarda specificamente la svalorizzazione del lavoro umano nel mondo antico, quale attività non degna degli uomini, ma affidata ad “invisibili” senza diritti, ravvisiamo qualche inquietante analogia con quanto sta avvenendo oggi, in un quadro culturale, sociale, politico di affermazione del capitalismo del terzo millennio e nel pieno di un vero e proprio “cambiamento di Evo”, che porta ad un complessivo declassamento del lavoro sia da un punto di vista culturale sia per 6 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 quando riguarda le sue condizioni materiali, nei concreti rapporti sociali di produzione. Non a caso il lavoro schiavo dai lineamenti classici [addirittura precapitalistici] non è per niente scomparso, in questo esordio del ventunesimo secolo, mostrando anzi una preoccupante ripresa, e nuove e più “sottili” forme di schiavitù alienante si stanno affermando nelle società cosiddette sviluppate o avanzate, come ad esempio il neoschiavismo precario suscitato dalla diffusione del lavoro flessibile e sottopagato. Tornando per un attimo e in conclusione del discorso al mondo antico, la situazione di declassamento integrale del lavoro, da riservarsi a “non umani” o “disumanizzati” nelle piccole proprietà dei produttori indipendenti come nel grande latifundium, ha connotato, in seguito, il sistema ellenistico‐romano della villa connesso al latifondo, caratterizzato dalla commercializzazione delle produzioni e dal ricorso massiccio al lavoro schiavo, e quello successivo del colonato medioevale, rivelandoci da questo punto di vista una sostanziale e ferale continuità storica. 2 Una visione della comunità e della partecipazione politica – per gli ateniesi specificamente della democrazia diretta quale manifestazione della sovranità comunitaria – che escludeva larghe fasce di popolazione, interne al sistema e necessarie per la sua riproduzione, e che riservava la pienezza dei diritti sostanzialmente a minoranze privilegiate. Non tutti coloro che non avevano pienezza di diritti, a partire da quelli afferenti la partecipazione alle decisioni politiche della comunità, erano nella condizioni degli schiavi, perché non lo erano i cosiddetti meteci [metoikoi, cioè i “vicini”] in Atene e nell’Attica, stranieri o figli di stranieri e non di autentici cittadini non soggetti agli stringenti vincoli servili, ma esclusi dalla proprietà immobiliare pur potendo intraprendere liberamente attività commerciali e artigianali, e formalmente schiave non erano le donne, le quali risultavano però “invisibili” negli ampi spazi politici e di elaborazione culturale che caratterizzavano quella società classista e maschilista. Ma la vera e propria condizione schiavile/ servile è fuor di dubbio che in certe circostanze storiche ha riguardato la maggioranza assoluta della popolazione, come nel caso di quella Sparta caratterizzata da un modello “comunistico” della classe dominante alternativo a quello ateniese, in cui gli spartiati, i veri liberi che animavano la comunità e ne decidevano le sorti, erano appena poche migliaia a fronte di circa duecentomila iloti. 3 Il basso livello tecnologico che coesisteva con un alto livello culturale, in un mondo già caratterizzato dal progressivo superamento dell’economia di autoconsumo e da un certo grado di complessità nella divisione del lavoro, in cui incrementi di produzione agricola e mineraria a sostegno dell’espansione della città e del miglioramento delle condizioni di vita nella Polis, dovevano essere supportati 7 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 essenzialmente dall’impiego e dallo sfruttamento, con metodi spicci e brutali, dell’energia animale e di quella umana. Sono evidenti gli effetti della contraddizione fra un basso livello tecnologico [ed un basso livello di sviluppo delle forze produttive] combinato con un elevato livello di elaborazione culturale e del pensiero, che imponeva un ampliamento degli orizzonti anche in termini di qualità ed agiatezza della stessa vita materiale, almeno per le sparute classi dominanti e i liberi, alla presenza di una crescita della Polis e di un concreto sviluppo urbano in buona sostanza dipendenti dall’esterno, quanto alle crescenti risorse materiali che lo sostentavano e che la città avidamente fagocitava. Era perciò inevitabile, all’interno di quel particolare contesto culturale, economico e tecnologico, ridurre ipocritamente e cinicamente una larga fetta di umanità a ominidi, ad animali o ad autentici oggetti, per poter estrarne energia e lavoro in quantità sempre maggiori a basso costo senza dover affrontare fastidiosi ed insidiosi “problemi di coscienza”, che altrimenti avrebbero potuto avere implicazioni politiche, filosofiche e sociali destabilizzanti. Se un basso o inesistente livello tecnologico coesiste con un modesto livello di sviluppo culturale, come fu il caso di certe culture in cui si praticava un’elementare attività di raccolta di prodotti della natura, integrata da un po’ di caccia, essenzialmente per l’autoconsumo di gruppi su base familiare o tribale, i soggetti inseriti in quegli specifici rapporti sociali difficilmente poterono sognare templi sontuosi rivestiti di marmo, fori imperiali, archi di trionfo, anfiteatri per lo svago e le recite, ed opere monumentali in grado di resistere ai millenni, oppure immaginare conquiste territoriali ed estese colonizzazioni per procacciarsi preziose risorse a scapito di altre comunità umane, e quindi i livelli di produzione e le modeste esigenze di vita di tali soggetti rimasero stabili per lunghi, lunghissimi periodi, non essendo neppure concepibile, in quei contesti, unʹillimitatezza della crescita economica e della quantità di risorse impiegate a tali scopi. Se così è, non può concretizzarsi la necessità di aumentare progressivamente la quantità di lavoro per soddisfare i desideri nati in un immaginario tutto sommato semplice, i quali, per le popolazioni più “arcaiche”, poterono al più consistere nel riuscire a cacciare in modo efficiente, limitando rischi e fatica nell’esercizio di quella attività necessaria, nel riuscire a congiungersi con una donna piacente, o nello sfuggire alle insidie che l’ambiente naturale celava ad ogni passo. Ma nel mondo antico di cui ci si sta occupando, giunti all’età del ferro ed anche fin da prima della stessa, tutto questo era già un ricordo sfocato e l’evoluzione del pensiero speculativo, il desiderio di conoscenza, di comprensione profonda della realtà circostante, del mondo naturale e dell’uomo erano già in atto ed agivano con prepotenza, accanto al desiderio, sviluppatosi in parallelo, di una vita materiale più comoda, più appagante, la quale richiedeva accumulo di beni, dispendio di risorse e realizzazione di opere tali da renderla effettiva. 8 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Si trattò, in buona sostanza, di una rincorsa fra il desiderio, la cui soglia era destinata ad elevarsi progressivamente, e la realizzazione concreta dello stesso, che nel contempo comportava un percorso di “emancipazione” umana dal dominio incontrastato delle forze della natura. Nel tempo presente, questa stessa rincorsa fra nuovi bisogni e loro appagamento, fra desiderio e possibilità concreta di realizzazione, è portata ad un livello estremo fino al limite dell’insostenibilità dalle élite capitalistico‐globaliste, in ben altri contesti culturali e sociali rispetto a quelli che caratterizzarono il mondo antico. Questa rincorsa per molti versi ferale ed autoditruttiva, date le grandi possibilità scientifico‐tecnologiche che amplificano l’impronta antropica sul pianeta, prima ancora che aumentare ed approfondire le possibilità di dominio elitistico sugli altri umani, rischia di pregiudicare la sopravvivenza stessa dell’uomo e quella del suo ambiente naturale. Tornando all’oggetto del presente studio, la crescita materiale ed economica del mondo antico non poté che fondarsi, in estrema sintesi, sullo sfruttamento dell’energia e del lavoro umano, in assenza di macchine che sostituissero gli addetti ai lavori manuali e di altre fonti alle quali attingere l’energia, necessaria per poter produrre in misura crescente. La figura dello schiavo, umanizzatasi soltanto nelle epoche successive a quella dell’impiego sistematico del suo lavoro, risulta perciò centrale, a detta dello scrivente, nel formulare un giudizio sul quel mondo e nell’individuare i veri pilastri sui quali questo si reggeva. Uno dei numerosi termini greci anticamente usati per indicare lo schiavo era soma, che propriamente aveva il significato di corpo, come se si volesse escludere, o meglio, se si volesse esorcizzare la possibilità che gli “oggetti” impiegati nei lavori materiali coatti potessero avere un’anima e un’intelligenza. Se il non libero per l’ipocrisia dei liberi era niente di più che un corpo senz’anima, l’uomo, al contrario, era psyché, cioè anima, ed è probabile che da lì originino i contenziosi sulla presenza o l’assenza dell’anima, in soggetti deboli e totalmente subalterni, che hanno attraversato le epoche successive, se è vero che lo schiavo delle piantagioni di cotone americane era considerato un animale, o poco di più di un’animale, ma non certamente un uomo, e se è vero che a lungo si è protratta la discussione sulla presenza di un’anima nelle donne. Lo stesso Aristotele, per altri versi fonte di un pensiero “avanzato” e critico nei confronti della variante speculativa, puramente monetaria dell’economia [la crematistica per gli antichi], ha descritto lo schiavo come un oggetto animato posseduto dai liberi, destinato ad usare altri oggetti, inanimati, da questi posseduti. Ecco quale fu la terribile sostanza e la principale contraddizione del mondo degli antichi greci, che caratterizzò anche la società romana nei secoli successivi. 9 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Un mondo per molti versi apprezzabile, come lo fu sicuramente nel campo del pensiero speculativo “prescientifico” e della Filosofia, in quello della Creazione Artistica e del Teatro, ma per altri versi, determinati come in tale caso sul piano sociale e dell’etica, simile ad un inferno in terra al quale moltissimi erano condannati senza colpa alcuna. E’ certamente vero quello che sostiene il filosofo ed amico Costanzo Preve, e cioè che la stessa Filosofia è nata come reazione comunitaria razionalizzata [1] all’avanzare della crematistica [far danaro con il danaro, in generale arricchirsi attraverso speculazioni e intermediazioni senza l’applicazione del lavoro umano trasformativo della materia] che scardinava il metron e liberava il campo per un’accumulazione illimitata delle ricchezze a vantaggio di pochi, ed [2] al conseguente affermarsi della schiavitù per debiti, ma tale reazione, che tanto peso ha avuto nella genesi del mondo culturale europeo e nel suo successivo sviluppo, non ha impedito la formazione dei sistemi schiavisti. Se in epoche precedenti a quella degli Elleni gli uomini non potevano dirsi propriamente e concettualmente “liberi” [si veda, in proposito, la condizione umana di sostanziale e generalizzata illibertà negli antichi imperi d’oriente], nell’organizzazione della Polis e nei suoi spazi la libertà di espressione politica e di partecipazione al processo decisionale era sì garantita, ma soltanto a minoranze più o meno sparute, investite del “privilegio”, che l’evoluzione storica, culturale ed economica aveva favorito. I “moti” servili o schiavili, che potevano esplodere improvvisamente come le moderne insurrezioni, o addirittura in casi ben determinati sembravano assumere, almeno in embrione, alcune delle caratteristiche più profonde e destabilizzanti, per il potere vigente, che tipicamente connotano il processo rivoluzionario, rispetto all’Insurrezione e alla Rivoluzione come oggi noi possiamo intenderle hanno avuto un’origine, una natura ed una giustificazione storica profondamente diverse, a fronte di una ben diversa percezione della persona umana e delle condizioni di libertà e schiavitù, per cui è consigliabile una certa cautela nell’istituire paragoni troppo stringenti, come talora è accaduto, accostando ad esempio la Guerra di Spartaco alla Rivoluzione Bolscevica e Proletaria. Nel mondo romano posteriore a quello delle Città‐Stato degli Elleni, destinato a sviluppare storicamente il sistema schiavista, le rivolte di schiavi continuarono ed ebbero una certa risonanza, giunta fino ai giorni nostri, rivelando una relativa pericolosità a partire dal secondo secolo avanti Cristo, con le rivolte di schiavi in Sicilia ed in particolare con il grande sommovimento scoppiato fra il 138 e il 136 a.C., in quella Trinacria che già nelle epoche precedenti era nota come terra di schiavi abbondantemente impiegati nelle produzioni agricole, specificamente in quella del grano che rappresentava la maggiore e la più nota produzione dell’isola. 10 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 A quel tempo, in Sicilia abbondavano e si moltiplicavano i mercati di andrapodon legati alla remunerativa produzione di grano ed al sistema del latifundium, e il trattamento riservato agli schiavi non era neanche lontanamente paragonabile al trattamento, giustamente delicato ed affettuoso, pieno di premure, che noi oggi assicuriamo ai nostri animali domestici, non solo perché questi uomini che avevano perso la libertà a causa delle guerre o dei debiti non ricevevano vestiti e non erano nutriti a sufficienza, ma anche perché si praticava abitualmente la marchiatura come segno indelebile della proprietà, non di rado si tenevano in ceppi, si uccidevano barbaramente se si rivoltavano o per puro capriccio, e si stabilivano per loro carichi di lavoro insostenibili. Fu Diodoro Siculo di Agira che tramandò, in buona sostanza, le notizie relative a questa vicenda giunte sino a noi, e lo storico romano pur non potendo approvare il comportamento ribelle degli schiavi perché i referenti politici e sociali dell’epoca non avrebbero di certo apprezzato, cercò almeno di comprendere i motivi profondi della rivolta, cosa che probabilmente non fu molto difficile per un uomo colto e attento come Diodoro, date le condizioni bestiali in cui erano costretti a vivere, alla fine del secondo secolo a.C., gli schiavi impiegati nelle attività agricole in Sicilia. La rivolta, all’inizio riguardò soltanto poche centinaia di schiavi soggetti alle vessazioni di Damofilo, un grande proprietario non certo noto per la sua umanità, e fu capeggiata da Euno, un siro che praticava la magia e al quale una dea apparve in sogno rivelandogli che sarebbe diventato re. Euno si mise alla testa di una rivolta in cui in prima fila c’erano prigionieri di guerra, come lui ridotti in schiavitù, e riuscì a conquistare la città di Enna divenendone re, esattamente come nel sogno, con l’altisonante nome di Antioco. In seguito, aderirono al nuovo regno anche gli schiavi dell’agrigentino guidati da Cleone, pastore cilicio e pirata, e il numero dei rivoltosi salì velocemente ad un paio di centinaia di migliaia, sopraffacendo le guarnigioni romane dell’isola, tanto che Roma dovette inviare il console Rupilio con le sue legioni per sedare definitivamente la ribellione, cosa che Rupilio fece con successo subito dopo la riconquista della strategica Taormina. Nel caso della prima guerra servile – che fu effettivamente una guerra, data l’ampiezza dei sommovimenti e dato che gli schiavi proclamarono addirittura un regno in Sicilia, sconfiggendo inizialmente le coorti romane presenti nell’isola – sono assenti veri e propri elementi di coscienza sociale [abolizione della schiavitù, uguaglianza fra gli uomini, pienezza di diritti per tutti gli esseri umani, eccetera], non vi è traccia di un programma politico alternativo [di un’”alternativa sistemica radicale”, con un linguaggio contemporaneo non proprio bellissimo] e dominano inevitabilmente elementi di natura mitologico‐religiosa, nel mantenimento sostanziale delle vecchie strutture di potere. 11 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Infatti, Euno, che ha avuto una significativa “visione” in cui gli è comparsa una dea predicendogli una sorte regale, ha fondato un effimero regno con capitale Enna – finito in pochi anni, nel 132 a.C., con l’intervento di Rupilio –, il quale è stato retto da un monarca riconosciuto [lo stesso Euno] ed è diventato per gli schiavi liberati in maggioranza siriani, che avevano diligentemente provveduto a trucidare i padroni‐ aguzzini nell’area, una sorta di “nuova Siria”. Il ricordo della prima guerra servile è stato rinverdito, un trentennio dopo, da un’altra rivolta di schiavi nella stessa Sicilia che imperversò dal 104 al 101 a.C., di dimensioni inferiori alla precedente ma ugualmente insidiosa, in cui il capo degli schiavi sollevatisi contro gli spietati padroni, tale Atenione, era un astrologo e un amministratore delle proprietà dei suoi ricchissimi “possessori” [quindi non un umile lavorante costretto alla fame e ai ceppi] che seguì con tutta evidenza l’esempio del siro Euno, rivelando, grazie alle sue conoscenze astrologiche, che per volontà degli dei sarebbe diventato re. Ma gli schiavi in quella effimera occasione di riscatto ebbero ben due re come guida, a testimonianza della confusione, dell’assenza di pianificazione e delle divisioni che segnavano queste pur legittime rivolte, perché accanto ad Atenione vi fu un certo Salvo che si proclamò a sua volta monarca con il nome di Trifone, combattendo i romani fino alla sua definitiva sconfitta e a quella di Atenione, il quale cadde combattendo proprio con il capo‐spedizione, il console romano Aquillio, inviato sul posto per reprimere la rivolta. Anche in tal caso, come nel precedente, mito, tradizione religiosa, una generica volontà di vivere liberi in condizioni materiali meno disumane, ed il ricordo delle terre natali in cui gli schiavi ribelli liberi lo furono veramente, hanno pesato in modo determinante sull’intera vicenda, dagli inizi fino all’epilogo cruento, ponendo in evidenza le incommensurabili differenze con i moti rivoluzionari moderni, in cui la coscienza sociale e una visione politica di alternativa sistemica animano quanto meno le élite rivoluzionarie, se non la “massa di manovra” da queste diretta. Ultimo venne Spartaco, con la cosiddetta terza guerra servile [tertium bellum servile], o guerra di Spartaco [bellum Spartacus], od ancora guerra contro Spartaco [bellum Spartacium], che scosse almeno un poco le solide fondamenta del potere romano mettendone in pericolo l’ordine sociale. L’epopea degli schiavi di Spartaco, in parte significativa di origine celto‐gallica e germanica, fu comunque diversa da quelle degli schiavi in Sicilia e sicuramente più problematica per il poter, essenzialmente per i motivi di seguito elencati. Peculiarità della terza guerra servile rispetto alle precedenti: 12 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 A) La maggiore ampiezza e rilevanza dei moti, che nel momento più critico giunsero a preoccupare seriamente i detentori del potere a Roma. B) L’ampio raggio degli spostamenti delle masse armate servili che percorsero letteralmente la penisola dalla Campania verso la Gallia [dalla quale Spartaco avrebbe potuto raggiungere la Tracia], invertendo d’improvviso la marcia e arrivando fin nelle vicinanze di Roma, per poi ridiscendere a sud, risparmiando inspiegabilmente l’Urbe nel tentativo, fallito, di raggiungere la Sicilia della prima e seconda guerra schiavile. C) Una maggiore determinazione e “consapevolezza” degli schiavi e dei loro capi, una migliore preparazione alle armi [che i rivoltosi erano arrivati al punto di fabbricare autonomamente per equipaggiare l’esercito], trattandosi in non pochi casi di gladiatori esperti e non di semplici lavoranti agricoli. D) Un peso minore nella vicenda, come allo scrivente è parso di cogliere, dei tradizionali aspetti mitologici e religiosi che animavano tutte le soggettività del mondo antico, schiavi compresi. Anche qui la fiammata che ha appiccato l’incendio si è sviluppata improvvisamente, senza pianificazione e senza una precisa regia, in seguito alle condizioni di vita che il possessore di schiavi e “lanista” Lentulo Batiato riservava ai gladiatori, con una fuga di Spartaco verso il Vesuvio assieme ad una settantina di compagni di sventura, non prima di essersi sommariamente armati con qualche attrezzo sottratto nella caserma di addestramento. Dopo aver sconfitto alcuni soldati della locale guarnigione, inviati per fermarli, ed avergli sottratto le preziose armi, i ribelli si installarono alle pendici del vulcano, accogliendo schiavi fuggitivi, pastori raminghi, altri poveracci ed addestrandoli all’uso delle armi. Il seguito fu un crescendo di scontri con le deboli e poco addestrate coorti romane, arruolate per l’occasione dai pretori inviati da Roma, e quindi i ribelli ottennero una serie di vittorie sul campo, nonché di numerose adesioni di schiavi fuggitivi ed altri soggetti vessati. Spartaco non fu l’unico capo dei ribelli, ma fu certo quello che ebbe maggior notorietà, nonché, sembrerebbe, quello maggiormente dotato di capacità organizzative e genio militare, come mise in rilievo lo stesso Plutarco, il quale lo definì più simile ad un Elleno colto che ad uno della sua stirpe, e lo storico ottocentesco Theodor Mommsen giunse a scrivere che il capo degli schiavi discendeva dalla stirpe reale degli Spartocidi. 13 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Nonostante il lusinghiero giudizio su Spartaco di Plutarco e Mommsen, questo ultimo restava pur sempre, nella società romana del tempo, un gladiatore e uno schiavo ribelle. Il potere dell’epoca tendeva a sottostimare sia le portata delle rivolte di schiavi sia il potenziale sovversivo che queste sottendevano, nonostante fosse ancora vivo il ricordo delle pregresse esperienze siciliane, e per quanto cruenta ed estesa fosse, la guerra contro quegli infelici, che in grande maggioranza cercavano soltanto la libertà e condizioni di vita più decenti, non era considerata dai liberi e soprattutto dagli aristocratici una cosa onorevole. Infatti, mandargli contro in prima battuta il pretore Clodio con tremila uomini raccogliticci, arruolati lungo il cammino – i quali furono inesorabilmente sconfitti – fu una prova di questa sottovalutazione, e lo stesso dicasi per le truppe dell’altro pretore, Varinio, messe in fuga dai gladiatori. Il dato che emerge in questa vicenda è la particolare determinazione dei ribelli, che non si sciolsero come neve al sole, al primo scontro impegnativo con le legioni bene armate e bene addestrate tanto è vero che nella marcia verso nord i soldati di Spartaco sconfissero le truppe del console Gaio Cassio Longino nei pressi di Mutina [l’odierna Modena], esattamente come accadde in precedenza con le forze militari dei consoli Gellio Publicola e Lentulo Clodiano [nell’anno 72 a.C.]. La pretesa degli schiavi, a partire dal loro capo più noto, di essere accettati come uomini liberi, dovette influenzare all’epoca anche il comportamento di coloro che erano ancora in cattività, come riportano le cronache dell’epoca, ed è ben testimoniata dall’accordo che Spartaco propose, da pari a pari, ad un certo punto del conflitto a Marco Licinio Crasso, e che questo sdegnosamente respinse, nonché dalle insegne sottratte ai pretori sconfitti e consegnate al trace, perché si ponesse nella posizione del capo di un esercito regolare. Si tratta di elementi molti concreti sulla strada di una piena liberazione dalla condizione servile aventi altresì un certo valore simbolico, pur nell’accettazione apparente dei simboli [le insegne dei pretori] e delle strutture di potere [a partire dalla costituzione di un esercito regolare] di quel tempo. Inspiegabilmente, dopo che decise di non tentare di arrivare in Gallia, Spartaco, che aveva riunito ormai cento e venti mila uomini, non attaccò Roma e si diresse verso sud, determinato a raggiungere l’isola di Sicilia in cui era in corso l’ennesima sollevazione servile. Non ci riuscì, sembrerebbe a causa del tradimento dei malfidati pirati cilici, nonché per l’irrealizzabilità dell’idea della costruzione di un ponte di barche che collegasse la Calabria con la Sicilia, e fu costretto infine ad affrontare le truppe di Marco Licinio Crasso, inviato dal senato romano per piegare la rivolta. Crasso aveva al seguito ben otto legioni e prese misure drastiche, dopo una prima sconfitta inflittagli da Spartaco, facendo giustiziare [sembrerebbe] a bastonate 14 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 alcune migliaia di suoi soldati per costringere gli altri a combattere con il terrore, in modo tale che temessero più lui del già leggendario Capo degli schiavi. Da quel momento Crasso non colse che vittorie e pungolato dall’imminente arrivo dei rinforzi guidati da Gneo Pompeo Magno, provenienti dalla Spagna, e da Marco Terenzio Varrone Lucullo dalla Macedonia, accelerò l’azione militare per non farsi strappare la vittoria. L’epilogo si ebbe nel 71 a.C. con quella che tradizionalmente si ricorda come la battaglia finale del fiume Sele, con Spartaco che a detta di Plutarco uccise il suo cavallo prima della fatidica battaglia, per non dare adito a sospetti di fuga, e che finì probabilmente ucciso in combattimento. Gli schiavi uccisi furono sessantamila, e il numero impressionante di caduti nelle loro file rivela che l’unica alternativa alla libertà e al suo pieno riconoscimento, per i ribelli, non poteva essere che la morte. Dopo la vittoria sul campo, Marco Licinio Crasso fece crocefiggere più di seimila superstiti come monito imperituro lungo la Via Appia, fra Capua e Roma. Così si concluse, in estrema sintesi, l’ultima grande guerra schiavile in epoca romana, e il feroce Crasso che sconfisse Spartaco con la durezza e il terrore, ironia della sorte, si vide strappare dal nobile avversario Pompeo Magno, intervenuto anche lui militarmente ma non il vero artefice della vittoria, l’ambito Trionfo a Roma e si dovette perciò contentare delle semplici “ovazioni”. 15 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Parte seconda: Patres e Plebs, una lotta fra liberi Se la contraddizione principale del mondo antico originò, a parere dello scrivente, da un basso livello tecnologico a fronte dell’elevato livello di elaborazione culturale raggiunto, e portò alla diffusione e all’affermazione dello schiavismo come modo di produzione prevalente, allora la contraddizione prima sul piano sociale non poté che essere rappresentata dalla contrapposizione fra i padroni e gli schiavi, ed in particolare fra le élite dominanti del tempo [la gerontocrazia espressa dagli spartiati nella polis oligarchica, le élite della polis democratica, l’aristocrazia senatoria grande‐proprietaria romana] e le masse di schiavi sottomessi [ivi comprese le condizioni servili ilotiche assimilabili alla schiavitù], conferendo un particolare significato alle cosiddette guerre schiavili quali principali conflitti verticali nell’ordine sociale del tempo. La numerosa classe degli “invisibili” senza diritti, che si voleva muta e del tutto incosciente nella società antica, ma che talora e d’improvviso si rivelava antagonista come si può osservare in occasione delle tre guerre schiavili ed in modo particolare nell’ultima, nell’epoca del dominio di Roma giunse ad avere un peso numerico rilevante, stimato da certe fonti fino ad oltre un terzo della popolazione complessiva soggetta al potere dell’Urbe. Ci fu persino la proposta di assegnare agli schiavi una divisa, che li distinguesse dai liberi, ma tale proposta fu cassata per il pericolo che gli schiavi potessero facilmente riconoscersi e contarsi, nonché comprendere la forza che potevano esprimere all’interno della società, a fronte di una desolante condizione di minus habentes.”disumanizzati” alla quale moltissimi fra loro, impiegati nei più umili lavori materiali, erano stati ridotti. Certo, vi furono schiavi colti che ebbero la funzione di istitutori di patrizi, oppure di amministratori delle grandi proprietà riservate agli aristocratici, e vi furono schiavi che possedettero, a loro volta, altri schiavi, e se vi fu la lettera di libertà, nella logica e nella pratica della manomissio che sancì una certa mobilità sociale dal basso verso l’alto, per altro mai interrottasi nonostante la progressiva affermazione del sistema schiavista, questa non arrivò al punto da rappresentare la regola, cioè una via giuridica che poteva portare nel concreto all’estinzione completa della schiavitù, ma pur sempre un’eccezione che riguardava minoranze “privilegiate”, interne ad un sistema che fondamentalmente restava schiavistico. La schiavitù, nell’epoca romana del diritto posto, fu formalizzata e divenne un istituto del ius gentium che ebbe una grande importanza storica e una grande effettività nel determinare le condizioni di vita di milioni di individui, di autentici esclusi condannati al lavoro forzato per la riproduzione della totalità sociale, riverberandosi anche sulle epoche successive, e precisamente su quel lungo periodo di passaggio alla nuova condizione servile che ha visto la progressiva affermazione, in Italia e in Europa, del modo di produzione feudale. 16 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ma il conflitto verticale non fu simboleggiato esclusivamente dalle rivolte di schiavi, che rappresentarono la sua più alta e sanguinosa espressione, perché le rivolte delle plebi romane fecero sentire la loro [relativa] minaccia destabilizzante fin dalla repubblica arcaica [in particolare agli inizi del V secolo a.C.], e i conflitti fra i gruppi sociali si acuirono, ai tempi dell’impero, durante la cosiddetta crisi del III secolo d.C. Di tali rivolte dei liberi, dei motivi che le fecero scoppiare e degli effetti che ebbero all’interno della società romana bisognerà discutere, pur succintamente, nella seconda e nella terza parte del presente capitolo. **** **** Per quanto riguarda la storia della Roma arcaica, e tanto più della Roma prima di Roma, con specifico riferimento all’organizzazione politica e sociale adottata e alla sua genesi, le fonti letterarie alle quali attingere, come si sa, sono piuttosto scarse, segnate dall’incertezza e dal mito, e perciò hanno imposto agli storici moderni un’attenta verifica ed un confronto con la documentazione archeologica disponibile. E’ d’uopo citare in tale caso l’opera di Quinto Fabio Pittore, del terzo secolo avanti Cristo, alle origini della storiografia e della letteratura romane, che attingeva alle fonti rappresentate dalla precedente tradizione orale con sfumature leggendarie, non di rado – essendo questa ultima non troppo ricca e non troppo adeguata agli scopi propagandistici nel periodo delle guerre con Cartagine – integrata ricorrendo alla creatività ed alla fantasia. Attraverso la successiva elaborazione dell’opera di Pittore, particolarmente nel periodo augusteo, le informazioni sono giunte fino a noi, e la leggenda che riguarda gli esordi di Roma ha assunto forma definitiva nell’epoca di Ottaviano Augusto, per opera dello storico Tito Livio e del poeta Virgilio. Non è qui il caso di arrivare indietro nel tempo fino al momento della fondazione di Roma, od al periodo immediatamente precedente, mettendo in discussione la data simbolica del 753 a.C. come inizio della sua storia, che probabilmente è ben più antica e risale al decimo secolo – anche se la vera urbanizzazione fu avviata probabilmente nel cinquecento avanti Cristo –, ma basta ricordare che alle origini dell’Urbe vi fu una sorta di convergenza di gruppi latini [i Ramni, che si stanziarono in corrispondenza del Palatino], gruppi sabini osco‐umbri [nei pressi del Quirinale] assimilati progressivamente dai parlanti latino, e vi fu la decisiva influenza etrusca a completare il quadro. E’ però necessario sottolineare che nella strutturazione sociale, nella forma di governo adottata e nell’organizzazione delle istituzioni cittadine della Roma arcaica ha avuto una grande rilevanza la dominazione etrusca, con influssi precedenti alla 17 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 dinastia regale dei Tarquini, anche se sopravvissero nella religione e nelle istituzioni romane reminescenze della più antica organizzazione latino‐ indoeuropea e vi fu, indubbiamente, l’immancabile influenza culturale greca. Lo sviluppo delle città e della potenza etrusche è avvenuto fra l’ottavo e il settimo secolo avanti Cristo, per raggiungere il culmine nel sesto secolo, con l’espansione oltre i confini dell’Etruria, fino in Campania a sud [il centro di Capua] e nelle valli del Po a nord, con lo sviluppo progressivo delle attività minerarie [il ferro], quello dei commerci e quello dell’agricoltura che si valeva di tecniche importate dall’oriente, nonché grazie ad una flotta in grado di sconfiggere i greci nel Mediteranno, congiuntamente agli alleati cartaginesi. Se tale era la potenza etrusca, appare evidente che le sue influenze si facessero sentire anche nel Lazio e nella stessa Roma, allora inferiore in termini di sviluppo materiale e culturale, nonché circondata da regioni “etruschizzate”. Roma, il cui stesso nome è in verità di origine etrusca, Ruma, subì l’influenza del sistema delle città‐stato confederate dell’Etruria, governate dai lucumoni, al punto che ne adottò in linea di massima la relativa organizzazione sociale ed alcuni lineamenti istituzionali. Nella sostanza, tale sistema prevedeva una spiccata dicotomia fra l’aristocrazia onnipotente, la quale esprimeva i re, ed un ampio strato inferiore da questa dipendente, che non viveva certo in condizioni di libertà ed era costituito da tutti coloro che svolgevano mansioni servili, dai contadini legati alla terra e agli obblighi militari, dai lavoratori delle miniere, dagli artigiani e da altri subordinati ancora [si consulti, in proposito, la pregevole e relativamente recente Storia sociale dell’antica Roma di Géza Alföldy]. Fu la predetta organizzazione verticale della società, per la verità abbastanza semplice, che informò la Roma arcaica dei patres, i quali dominavano servi, schiavi e clienti, anche se va precisato che centrale e fondante fu il ruolo giocato della famiglia in quello specifico modello, il quale diede origine e forma all’organizzazione romana, articolata in tribù, gentes e curie. Lo scontro sociale poteva manifestarsi, nella società classista e patriarcale della prima Roma, quando alcuni gruppi di subordinati al potere aristocratico diventavano sufficientemente forti per liberarsi dal giogo impostogli, o quanto meno per allentarlo, potendo così aspirare al miglioramento della loro situazione economica e politica, nonché ad un maggior prestigio nella società. Nonostante l’evidente influenza etrusca, l’ordine sociale che i romani adottarono si differenziò progressivamente da quello degli antichi dominatori perché una parte numericamente importante del populus, inteso come universi cives o con altra espressione l’intero corpo civico, era sostanzialmente composta da liberi ai quali era riconosciuto lo status di cittadini romani, ma senza i privilegi di natura politica ed economica riservati ai patres [i patrizi], che dominavano pur sempre la vita politica, 18 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 occupavano le alte cariche religiose e monopolizzavano la grande proprietà terriera. Questa componente essenziale della società romana era la plebe – dal latino plebs, ovvero secondo un’interpretazione diffusa che lega la parola alle sue radici greche, la massa informe, la folla –, che dall’inizio del quinto secolo avanti Cristo iniziò a farsi sentire con decisione come comunità di subordinati, dotandosi di proprie istituzioni e mettendo in crisi il sistema di potere repubblicano, nella lotta organizzata contro l’aristocrazia e i suoi privilegi. Posto che sia i patrizi sia i plebei costituivano fin dall’età più arcaica di Roma un ordo, la ragioni della loro contesa – essenzialmente per il potere politico e la spartizione dell’agro pubblico – si possono rintracciare nel sesto secolo avanti Cristo, riguardando in buona sostanza il crescente predominio politico ed economico dei patres, e di conseguenza una loro più netta differenziazione in termini di potere e disponibilità di risorse, dall’altra grande componente del popolo romano, la plebs, che acquisiva una sua ben chiara identità di classe, pur restando rigorosamente interna a quel sistema. E posto che lo schiavo era un servus deprivato dei diritti personali, od anche mancipum, che aveva il freddo significato di “proprietà”, con il predominio dell’aristocrazia non pochi plebei, bisognosi di prestiti per le loro attività agricole e per far sopravvivere i piccoli poderi, rischiavano di essere ridotti in schiavitù, fornendo gradite braccia per il lavoro ai patres creditori, dato che il debitore rispondeva con la propria persona, e con quella dei suoi familiari, del rimborso del debito contratto e dato che per legge, in caso di sopraggiunta morosità, il capofamiglia poteva esser tratto schiavo assieme al suo nucleo familiare. Le difficoltà economiche crescenti che riguardavano la parte più povera della plebe, nel concreto privata dell’accesso all’ager publicus e minacciata dalla schiavitù per debiti, unitamente all’aspirazione all’uguaglianza politica con i patrizi e all’ammissione alla cariche pubbliche che animava lo strato minoritario di plebei ricchi, hanno determinato quella che è stata definita non come una vera rivoluzione di forze sociali extrasistemiche, ma come una semplice secessione, nella fattispecie la “secessione della plebe” del 494 a.C., ritiratasi sull’Aventino e sul Monte Sacro per protesta [secondo quanto ci narra Cicerone] e convinta a “tornare”, dopo la temporanea separazione dai patrizi, dal celebre apologo di Menenio Agrippa, se si deve credere alla vulgata storica che fa base sull’annalistica romana di epoca successiva. Se i patrizi erano lo stomaco e i plebei le braccia, nell’apologo capzioso di Mennenio, le braccia non volevano separarsi definitivamente dal corpo, facendo naufragare la civiltà romana agli esordi sugli scogli della storia, ma soltanto acquisire qualche vantaggio e riempire un po’ meno lo stomaco, con il loro lavoro. 19 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La secessione plebea, o separazione temporanea dai patrizi, od anche “sciopero” dei subordinati – i quali generalmente all’epoca lavoravano, è bene ribadirlo, mentre gli aristocratici impiegavano altrimenti il loro tempo –, si metteva abitualmente in atto in periodo di guerra o di minaccia di conflitto, con una chiara funzione di ricatto, paragonabile oggi all’interruzione nell’erogazione di servizi pubblici, per le agitazioni dei lavoratori in settori chiave. Non si deve dimenticare, a tale proposito, che le plebi costituivano l’ossatura della principale arma dell’esercito romano di allora, cioè la fanteria, essendo la cavalleria una tradizionale prerogativa aristocratica che da sola, però, non poteva vincere le guerre, e che per combattere efficacemente contro Sabini, Equi, Volsci ed altri ostili, i quali mettevano in pericolo la sopravvivenza di una Roma repubblicana da poco emancipatasi dagli etruschi, era vitale l’apporto in armi delle masse plebee. Il sistema non poteva che reggersi sulla “concordia” fra patrizi e plebei, concordia che nella realtà ha significato forti contrasti ed ha comportato un lungo percorso di emancipazione dei subalterni liberi [non escluse parecchie “fregature” per gli stessi e promesse subito rimangiate dal senato aristocratico] del quale costituiscono altrettante prove gli atti legislativi ricordati dagli storici, fra i quali è bene citare pur di sfuggita, per la loro importanza nell’ordinamento romano, almeno alcuni fra questi: la Lex Canuleia del V secolo a.C., che stabiliva il diritto di matrimonio fra aristocratici e plebei ponendo fine alla “purezza castale” aristocratica, le Leges Liciniae‐Sextiae del IV secolo a.C., che garantivano un console su due alla plebe e La Lex Poetelia‐Papira, sempre del IV secolo, che poneva qualche limite alla piaga della schiavitù per debiti. Appare chiaro che le rivendicazioni plebee non misero in discussione la sostanza di quella che era e rimase fino alla fine una società classista, né tanto meno minarono le basi del modo di produzione dell’epoca, che assunse nel corso dei secoli chiari connotati schiavistici con l’estensione della grande proprietà terriera a scapito dei “piccoli produttori indipendenti”. Per quanto riguarda la più celebre secessione della plebe – quella del 494 a.C. – questa fruttò alla classe subalterna, in cambio di un ritorno alle armi per la difesa di Roma, l’istituzione tribunizia, con i novelli tribuni della plebe [coadiuvati da specifici magistrati e funzionari plebei] che avevano diritto di veto e intercedevano in favore dei loro rappresentati sottoposti a giudizio, l’ufficializzazione dei plebisciti, che erano decisioni collettive riguardanti esclusivamente la “comunità separata” plebea e l’importante riforma centuriata, che ha inciso in profondità nell’ordine sociale vigente. Nel gran corpo della plebe, sulla base della divisione del popolo in classi di proprietà che comportò la nascita dell’istituzione degli onnipotenti censori, vi erano da un lato i “possidenti”, coloro che disponevano di patrimoni ed erano certo plebei di origine, ma pur sempre ricchi, e dall’altro i nullatenenti, dotati soltanto di 20 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 numerosa prole, da cui la celebre espressione proletarii che acquisterà un ben preciso significato sociale e politico, un paio di millenni dopo, nel mondo capitalistico. L’unione del sangue aristocratico con quello plebeo, realizzatasi principalmente attraverso i matrimoni fra nobili e plebei ricchi, un certo accesso al “demanio” pubblico garantito anche ai cives più poveri, la possibilità data ai subalterni di assumere cariche sacerdotali [un aspetto del potere non proprio trascurabile, quest’ultimo, data la sostanza culturale del mondo antico], la possibilità di accedere al bottino di guerra, non più prerogativa esclusiva dei dominanti, unitamente alla grande espansione territoriale sull’italico suolo realizzata grazie alle sconfitte delle città nemiche, ebbero l’effetto di “cambiare i connotati” sociali e politici all’Urbe, rispetto a ciò che fu nel periodo monarchico e durante la dominazione etrusca. Il processo “emancipativo” della plebs romana – posto in essere per realizzare la concordia fra le due grandi classi sociali di cittadini liberi presenti in quel ordine, difendere Roma dai nemici esterni e rendere possibili le conquiste territoriali, fino all’eliminazione degli avversari più potenti e alla costruzione di uno dei maggiori imperi della storia umana – è iniziato nel V secolo a.C., ha attraversato tutto il secolo successivo ed è continuato nel III secolo. Tale processo di relativa emancipazione rivela qualche curiosa similitudine – pur con le dovute cautele che solitamente queste comparazioni sulla lunga distanza richiedono –, con il processo emancipativo dei subalterni che ha connotato il sistema capitalista nel nord e nell’occidente del pianeta dopo il secondo conflitto mondiale, e più precisamente nel trentennio che va dal 1945 al 1975, in cui l’esigenza di difendersi dagli attacchi dei Volsci, dei Sabini, degli Equi e la guerra contro Vejo, erano sostituiti dal confronto a tutto campo con il competitor sovietico, sotto la perenne minaccia di un conflitto nucleare o dell’adesione in massa, in certi paesi del campo americano‐occidentale, della classe operaia, salariata e proletaria e di altri dominati all’ideologia comunista, eventualità che avrebbe potuto esser ancor più grave, in queste recenti contingenze storiche, delle secessioni di una plebe romana che scendeva temporaneamente “in sciopero”, agli esordi del periodo repubblicano. Questo confronto fra modelli profondamente diversi di capitalismo – essendo il sistema della defunta URSS definibile capitalistico, pur presentando forti e lodevoli connotati collettivistici – ha richiesto ai dominanti di scendere a compromessi con i subordinati limitando il profitto privato e il loro strapotere, concedendogli, “per tenerli buoni” e renderli del tutto interni al sistema, una più favorevole distribuzione delle risorse, unitamente ad una certa promozione sociale e ad una maggior partecipazione, almeno in apparenza, alle decisioni politiche. Ciò è stato possibile anche perché hanno prevalso, fra i subalterni più vessati dal capitalismo e dalla logica del profitto, ‘”cauto riformismo sistemico” e 21 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 socialdemocrazia puramente rivendicativa sul piano economico‐sociale, a fronte di un’attrattiva sempre minore dell’ideologia comunista rispetto ad americanismo e liberismo dilaganti, dovuta al suo progressivo esaurimento storico e alle vistose carenze del sistema di potere sovietico, che nei fatti avrebbe dovuto realizzarla pienamente. Ironicamente, ma sempre con la dovuta prudenza, si può affermare che al limitato accesso alle terre dell’agro pubblico che le riforme garantirono ad una parte dei plebei poveri, si può far corrispondere, due millenni dopo, una meno iniqua distribuzione del reddito, una certa promozione sociale e l’affermazione temporanea del Welfare State. **** **** Pur non essendo questa la sede per trattare approfonditamente la questione sociale e quella, intimamente connessa alla prima, dell’espansione territoriale della Roma del secondo e del primo secolo a.C., sospesa fra la tarda repubblica e l’impero, è opportuno accennare brevemente ai cambiamenti che caratterizzarono quegli anni. Il secondo secolo, in particolare, fu foriero di grandi cambiamenti nell’ordine sociale, economico e politico romano, e fu anche il secolo della distruzione di Cartagine [avvenuta nella primavera del 146 a.C. per opera di Scipione Emiliano], della conquista della Grecia [battaglia di Corinto e sua distruzione, sempre del 146 a.C.], della vittoria nella quarta guerra macedone [battaglia di Pydna del 148 a.C.], della supremazia sui mari della potente flotta di Roma, attivata in seguito alle necessità imposte dalle guerre puniche, nonché dell’affermazione definitiva della potenza militare romana nell’area mediterranea. I processi di espansione territoriale continuarono anche nel primo secolo, con la sconfitta di Mitridate e la conquista del Ponto [battaglia di Cabiria del 72 a.C.] e l’impresa di Cesare nella Gallia transalpina [battaglia di Alesia del 52 a.C. e sconfitta di Vercingetorige], e proseguì di pari passo la trasformazione dell’ordine sociale in unʹentità che si stava affermando come grande potenza a tutto campo, non più soltanto confinata nella dimensione regionale ed entro i limiti geografici della penisola. Dal punto di vista prettamente economico e sociale, si possono rilevare in sintesi le importanti trasformazioni di seguito esplicitate. Cambiamenti sociali in atto nella Roma del secondo secolo avanti Cristo: 1) Inizia il processo di sostituzione della vera e propria plebs, che ha caratterizzato l’ordine sociale della repubblica arcaica, si è dotata di propri rappresentati e proprie istituzioni, in qualche modo alternative a quelle dei patres, ma è rimasta 22 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 totalmente interna al sistema ed ha costituto l’ossatura fondamentale delle prime legioni, e nasce il “popolume” urbano inoccupato, privo di qualsiasi dignità, da tenere sotto controllo e imbonire con le periodiche distribuzioni di pane e i ricorrenti giochi [panem et circenses]. 2) L’aristocrazia ha assorbito gli strati plebei più alti e più ricchi, che aspiravano fin dal periodo arcaico ad una piena integrazione politica nei centri di potere di allora. Questo fenomeno è stato reso possibile grazie alle ricordate modificazioni legislative e dell’ordine sociale intervenute nel quinto secolo e nei secoli successivi, modificazioni che hanno portato a privilegiare il censo, la ricchezza, gli aspetti patrimoniali, ponendo progressivamente in ombra le origini dei soggetti, ed hanno alterato irrimediabilmente la composizione della classe dominante, attraverso l’alleanza politica e i matrimoni misti legalizzati fra gli aristocratici e il popolo ricco. La classe dominante non è più quella della Roma dei re e del periodo arcaico della repubblica, pur conservando un grande potere. 3) Aumenta il ricorso al lavoro schiavo, nonché il peso numerico degli schiavi nella società del tempo, e le loro condizioni di vita in certe importanti regioni sotto il controllo di Roma, quale fu ad esempio la Sicilia per la produzione di grano ed altri prodotti agricoli, si rivelano decisamente inumane. 4) Cresce la ricchezza monetaria dei dominanti e crescono di pari passo le ineguaglianze sociali. L’ager publicus, ossia l’agro pubblico alimentato con la confisca delle terre ai nemici sconfitti, risulta ormai in gran parte “privatizzato” e nel concreto scompare anche la tassa per la concessione annuale delle terre ai cives, l’agri vectigal. Il grande latifondo acquista una sempre maggiore importanza ed estensione, nell’impiego diffuso del lavoro schiavo. Questi cambiamenti, non certo irrilevanti o di secondo piano, da un lato contribuirono a porre le premesse per la nascita dell’impero e la grande espansione territoriale, urbana ed economica dei secoli successivi, ma dall’altro lato contenevano in sé i primi germi della crisi del terzo secolo dopo Cristo, superata almeno temporaneamente con difficoltà e gravi danni attraverso riforme radicali dello stato, una diminuzione del potere del senato e un accresciuto potere politico ed economico dell’esercito – tanto che si può affermare che da tale sconvolgimento Roma non si è mai più ripresa completamente –, e della successiva, inarrestabile decadenza della parte occidentale dell’impero. Si notano alcune inquietanti analogie di larga massima, in un sia pur cauto esercizio di storia comparata, fra le ricordate trasformazioni economiche, politiche e sociali, 23 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 già evidenti nella Roma del II e tanto più del I secolo a.C., e quelle che il capitalismo contemporaneo, caratterizzato dalla globalizzazione neoliberista, dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla diffusione della cosiddetta società di mercato, ha imposto quanto meno a partire dall’ultimo decennio del Novecento. Cambiamenti sociali indotti dal capitalismo del terzo millennio: 1) Scompaiono progressivamente i “ceti medi figli del welfare” postbellico e con loro la vecchia classe antagonista, operaia, salariata e proletaria, in una trasformazione velocizzata dalla prima crisi sistemica globale, e nasce la Pauper class, adatta a vivere in posizione del tutto subalterna nei nuovi contesti culturali e sociali. 2) La nuova classe globale dominante [Global class] assorbe nei suoi ranghi e negli strati più elevati elementi della vecchia alta borghesia, che tende fatalmente ad estinguersi in primo luogo come mondo culturale, e negli strati inferiori fagocita un numero limitato di elementi provenienti dalle alte stratificazioni della cosiddetta middle class. 3) Si insinuano nell’ordine sociale e nei concreti rapporti di produzione dell’epoca nuove e sottili forme di schiavismo alienante [non proprio embrionali perché già osservabili con sufficiente chiarezza], quale è il Neoschiavismo Precario, legato alla diffusione del lavoro flessibile e precario privo di garanzie e a basso costo. Lo schiavismo classico precapitalistico, dal canto suo, non è affatto scomparso, ma è in ripresa nella stessa Europa mediterranea, alimentato dai flussi migratori di disperati provenienti dall’Africa e dall’Oriente, come ben testimoniano i fatti di Rosarno, nella piana calabrese di Gioia Tauro, legati alla tradizionale attività agricola e alla raccolta dei pomodori, o i meno recenti casi di schiavi cinesi utilizzati in camicerie e laboratori abusivi del tessile, scoperti nella penisola e gestiti da “imprenditori” anche loro cinesi. Ricompare prepotente lo spettro dell’alienazione umana nei rapporti di lavoro, e ben oltre gli stessi, presentando lati decisamente nuovi rispetto a quelli messi in luce, nella prima metà dell’Ottocento, dal giovane Marx dei Manoscritti [si veda, a tale riguardo, il saggio dello scrivente Alienazioni e uomo precario]. 4) Crescono le ineguaglianze fra le classi e cresce la minaccia alla stessa sopravvivenza degli ecosistemi. Si estendono oltre ogni limite storico, raggiunto nei secoli precedenti dal capitalismo del secondo millennio, la dimensione finanziaria – oggi autonomizzata ed incaricata di dare piena attuazione al paradigma della creazione del valore 24 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 finanziario, azionario e borsistico, oltre la classica estorsione marxiana del plusvalore –, nonché i processi di privatizzazione e di appropriazione del patrimonio pubblico [il nuovo ager publicus conteso], degli stessi “beni pubblici puri” estranei ai meccanismi di mercato, fino a riguardare elementi essenziali per la vita umana e non umana sulla terra quale è indubbiamente l’acqua. Nel lungo e tormentato passaggio dalla repubblica all’impero, oltre al cambiamento degli assetti politici e sociali, si è realizzato un compromesso fra dominanti e dominati che ha compattato il corpo sociale, rigenerato la classe dirigente ed ha indubbiamente contribuito al rafforzamento della potenza romana, in piena “emersione” dalle Gallie all’Oriente. Tale compromesso fra patres e plebs – la tanto auspicata e cercata concordia fin dai tempi della repubblica arcaica – ha consentito ai plebei ricchi di avere maggior rilevanza politica e prestigio, accrescendone in certi casi i patrimoni ed elevandoli alle alte cariche dello stato, ed ha riservato qualche “contentino” anche ai cives più poveri, pur nella crescita delle disuguaglianze e nella forte espansione della schiavitù, alimentata dalla guerra e dai debiti, che le riforme concesse per “riassorbire” la plebe, neutralizzandola come forza potenzialmente antagonista, e per motivarla a difendere l’Urbe combattendo non hanno certo interrotto. 25 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Parte terza: La crisi romana del terzo secolo dopo Cristo I successivi due secoli, dall’avvento del primo imperatore Ottaviano Augusto, nel 23 a.C. [anche se per alcuni la data fatidica è il 30 a.C., l’anno che seguì quello della battaglia di Actium e della sconfitta di Antonio e Cleopatra], fino alla fine del secondo secolo dopo Cristo, hanno conosciuto il periodo migliore dell’impero, l’espansione economica ed urbana massima, un certo miglioramento delle condizioni di vita delle masse contadine e metropolitane, nonché la massima estensione territoriale. Accanto allo sviluppo dei commerci e all’espansione urbana che assorbì un’enormità di risorse finanziarie, oltre a quelle agricole prodotte nelle campagne, in seguito alla costruzione di edifici pubblici, templi, fori, anfiteatri e costruzioni monumentali che non garantivano alcun “ritorno” concreto, importanti furono il ruolo e l’organizzazione dell’esercito, razionalizzati fin dai tempi di Augusto, nonché il trattamento economico riservato ai soldati, in continuo miglioramento nei due secoli di consolidamento ed espansione dell’entità imperiale. Basso restò il livello dello sviluppo tecnologico, che altrimenti avrebbe consentito, se applicato in primo luogo all’agricoltura nel latifondo, di ridurre l’impiego del lavoro servile/ schiavile, ma ciò non avvenne perché non vi fu alcuno stimolo in tal senso, data l’ampia disponibilità di braccia che le conquiste territoriali e l’indebitamento non solvibile avevano garantito al sistema produttivo, fra la tarda repubblica e l’impero. La stratificazione sociale acquistò maggior complessità, con una certa differenziazione anche all’interno degli strati inferiori [i cosiddetti humiliores], oltre che in quelli superiori [gli honestiores] in cui acquisivano maggior importanza, accanto alla immarcescibile aristocrazia senatoria, i cavalieri appartenenti all’ordine equestre, e ad un livello ancora inferiore i decurioni. Accanto all’agricoltura e alla proprietà terriera acquistarono una maggior rilevanza i commerci e le attività artigianali, offrendo anche ai cives più umili nuove opportunità di arricchimento e di ascesa sociale, senza dimenticare le crescenti necessità di “quadri” espresse dalle mansioni amministrative imperiali e dal servizio militare, che potevano rappresentare altrettante occasioni di promozione sociale. Se a qualcuno il periodo d’oro dell’impero romano è potuto sembrare addirittura idilliaco, sul piano sociale come su quello della stabilità del sistema di potere, la fase propriamente espansiva potrebbe essere limitata al periodo di tempo che va dall’ascesa al soglio di Ottaviano Augusto fino a Traiano, generale e figlio di generali, che agì sia sul piano economico, favorendo le classi medie, sia su quello a lui più congegnale delle conquiste manu militari [98 – 117 d.C.; massima espansione territoriale, fino all’occupazione temporanea della capitale persiana Ctesifonte, in Mesopotamia] o al più tardi fino ad Antonino il Pio, adottato dall’imperatore 26 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Adriano successore dello stesso Traiano, che riuscì a garantire una certa pace all’interno e ai confini, combatté il malgoverno provinciale e adottò una linea di tolleranza religiosa nei confronti dei culti “non ufficiali” [138 ‐ 161 d.C.], perché già durante il regno del successore Marco Aurelio, il quale regnò con il fratello adottivo Lucio Vero associato al potere nella logica dei due augusti [161 – 180 d.C.], si verificarono alcuni “problemini” di un certo rilievo, per non dire di portata epocale. Posto che tentativi di sfondamento del limes, da parte di popolazioni esterne, si erano già verificati in precedenza, la prima grande invasione barbarica si spinse fin nella Venetia e ad Aquileia, ed impegnò sia l’imperatore filosofo sia l’erario di Roma dal 165 al 175 d.C. nella difficile opera di reperire le risorse per la campagna militare contro gli invasori germani, fra i quali spiccavano Marcomanni e Quadi. Questa situazione di emergenza prolungata comportò l’arruolando nell’esercito di ogni sorta di leve per rimpinguarne le file, dagli schiavi ai gladiatori, fino agli stessi barbari germanici, inaugurando la prassi, che si rivelò perniciosa qualche secolo dopo per le sorti dell’occidente, di far combattere i barbari contro altri barbari. Inutile precisare che lo sforzo, coronato da temporaneo successo, costò molto alle casse dello stato romano e comportò un inasprimento della pressione fiscale, un aumento della massa monetaria in circolazione ed una conseguente perdita di potere d’acquisto della moneta, che colpì soprattutto gli strati sociali inferiori nelle loro quotidiane esigenze di vita. Il figlio di Marco Aurelio, Commodo, stipulò in seguito una pace con i germanici, ma in quegli anni finì il mito dell’inviolabilità del Limes romano, generando problemi di difficile soluzione ai governanti e insicurezza nelle popolazioni, un po’ come è accaduto nel nostro tempo con lo choc dell’11 settembre 2001, e l’improvviso crollo delle torri‐simbolo, che ha colpito gli americani. Quanto precede impose il rafforzamento dell’esercito ed il potenziamento dell’apparato statale, che incontrarono fin dall’inizio l’ostilità del senato e di molti aristocratici, contrari al dirigismo e al dispotismo che si stavano insinuando a corte, nonché poco propensi a contribuire con i patrimoni privati alle crescenti spese d’apparato. Se quella degli Antonini è ricordata dalla storiografia come la vera e propria”età aurea” dell’impero, per un certo equilibrio fra i gruppi sociali, l’adesione degli aristocratici all’universalismo imperiale, il compromesso di potere con il senato, una relativa pace e un benessere crescente, dopo la morte di Comodo avvenuta nel 192 d.C., alle soglie del fatidico terzo secolo, l’accresciuto potere dell’esercito scatenò la competizione per il trono, in cui si inserirono pretendenti militari acclamati dalle loro truppe dalla Gallia alla regione del Danubio, e fra questi, alla fine, emerse quale personalità più forte Settimio Severo [193 – 211 d.C.], comandante delle legioni sul limes danubiano e aspirante imperatore, che con il suo pontificato inaugurò l’”età del ferro”. 27 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’”età del ferro” inaugurata dai Severi segnò l’inizio dell’inarrestabile declino della civiltà romana, quanto meno in occidente, e fu caratterizzata dallo strapotere militare, dal passaggio da un principato che si reggeva sui compromessi fra i gruppi sociali e sulle vecchie istituzioni repubblicane ad una nuova forma di dispotismo, il cosiddetto dominato, dall’aumento di una burocrazia pubblica tendenzialmente oppressiva e dalla pressione fiscale crescente, dalle difficoltà economiche ormai “strutturali” e dall’impoverimento generalizzato della popolazione, eccezion fatta per i molto ricchi, cioè i latifondisti. Non si deve poi dimenticare che agli esordi del terzo secolo, nel 212 d.C., vi fu la concessione della cittadinanza e del conseguente status a tutti i liberi residenti nell’impero, fino alle più remote province, per opera di Marco Aurelio Antonino detto Caracalla, che promulgò la Constitutio antoniniana de civitate. L’evento, da taluni interpretato come positivo ed emancipante, va visto nei termini di una mera estensione formale dei diritti e delle prerogative sul piano giuridico a tutti i liberi [gli schiavi erano naturalmente esclusi a priori da questi “bonus”], che però, non eliminando le crescenti disuguaglianze sostanziali all’interno della società, fece perdere valore e significato allo status di cives romano, in particolare agli occhi di coloro che godevano già della cittadinanza e avrebbero dovuto rappresentare i principali difensori dell’impero, la sua irrinunciabile ossatura. Come rilevano gli storici più accorti, la crisi romana del III secolo è stata una crisi dalla genesi complessa, in cui non un solo fattore scatenante, ma un concorso di cause di diversa natura, interne ed esterne, economiche e politiche, hanno agito congiuntamente e si sono variamente intersecate determinando fatalmente la débâcle sistemica. L’incubazione della crisi è stata di lungo periodo nella compagine imperiale, fin dai tempi del cosiddetto periodo d’oro antoniniano, anche se in quel periodo dominarono una certa stabilità politica ed una relativa pace. Si cercherà di seguito di elencare sinteticamente le cause della crisi del terzo secolo, dividendole in fattori endogeni – quelli più rilevanti, a parere dello scrivente, che hanno reso possibili gli stessi sfondamenti barbarici ai confini – e fattori esterni. Fattori interni di crisi: 1) L’esaurimento progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in generale delle risorse, come effetto del raggiungimento della massima espansione territoriale e demografica dell’impero. L’espansione in Mesopotamia, con la temporanea occupazione della sua parte settentrionale, rivelò ad oriente il limite della penetrazione romana, che non poteva spingersi troppo lontano dall’area mediterranea per problemi logistici all’epoca irrisolvibili. 28 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Occupata l’Africa settentrionale, dalla Mauretania all’Egitto, si constatò che a sud si estendevano deserti insidiosi, avari di risorse e scarsamente popolati. Ad occidente il limite invalicabile fu rappresentato dall’estensione dell’oceano Atlantico, mentre in Europa centro‐orientale il confine fortificato fra il Reno e il Danubio avrebbe dovuto tenere a freno le ondate barbariche. Nel nord dell’Europa, infine, una serie di valli avrebbe dovuto contenere gli scoti. La crescente scarsità di lavoranti a basso costo e privi di diritti, in assenza di una rapida evoluzione delle tecniche agrarie, e più in generale, della tecnologia che avrebbe consentito le prime macchine in sostituzione del lavoro umano, colpì soprattutto i piccoli e medi poderi, quelli della “middle class” dell’epoca – sulla quale l’intero impianto di potere fin dai tempi del principato, in realtà, si reggeva – e molto meno il latifundium dei grandi proprietari acquisitori di piccole proprietà, che per ovviare alla scarsità di braccia introdussero forme primigenie di affitto della terra posseduta fin dal II secolo a.C., le quali, dopo la fine dell’impero in occidente, informarono il sistema del colonato medioevale. Si trattò, in buona sostanza, del graduale passaggio, imposto dall’entrata in crisi del sistema economico schiavistico dell’epoca, dalla schiavitù della villa a forme di servitù inizialmente temporanee, ma sempre più spesso a tempo indeterminato, che di fatto resero schiavi anche i liberi in difficoltà economica, legando i loro destini a quelli delle grandi proprietà. Si può affermare che aumentando il “gap” fra le esigenze di una società evoluta – dotata di grandi eserciti, di capillare burocrazia, di città di dimensioni considerevoli, di un tenore di vita elevato, quanto meno per i liberi di alto profilo sociale – e le possibilità di crescita produttiva limitate dal quasi esclusivo ricorso all’energia e al lavoro umano, la principale contraddizione del sistema schiavistico si è mostrata in piena luce, dispiegando i suoi effetti mortiferi, non appena si è significativamente e stabilmente ridotto il flusso di braccia a basso costo. Ciò è accaduto non certo in seguito ad una generale sollevazione della classe non riconosciuta degli schiavi, che non aveva né la forza né la volontà necessarie per rivoltarsi in massa contro l’ordine costituito, destabilizzandolo opportunamente [i tempi di Spartaco erano ormai lontani], ma in seguito ad una spaventosa crisi economica che ha assunto i caratteri, per il contemporaneo agire dei fattori esterni, di una crisi generale mai più veramente superata. 2) Le grandi difficoltà nei settori commerciali e artigianali, forse peggiori di quelle che hanno investito l’importante settore primario. In seguito alla crisi totale della società romana, all’aumentata pressione fiscale, alla diminuzione della disponibilità di schiavi, nonché per il diffondersi di epidemie fra la popolazione, emerse tutta la debolezza strutturale dell’economia urbana, in 29 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 ultima analisi anch’essa dipendente, nel periodo dell’espansione e dello “splendore”, dal lavoro coatto e dalle conquiste territoriali. In precedenza si è accennato alle ingenti spese effettuate per opere pubbliche improduttive e alla necessità di distribuzioni di risorse ad un “popolume” reso inoperoso, al fine di tenerlo buono, che alla lunga influirono negativamente sulla produzione nel territorio cittadino, ed in effetti nel declino del commercio e delle attività artigianali ebbero rilievo anche queste ragioni. I traffici commerciali, essenziali per lo sviluppo delle attività mercantili e delle produzioni artigianali, subirono una drastica riduzione per effetto delle invasioni e dell’instabilità interna. Per quanto riguarda gli effetti sociali, il declino delle predette attività colpì particolarmente ampie fasce delle “classi medie” del tempo, sia dal punto di vista materiale sia dal punto di vista delle aspettative future. Persino inutile precisare che le conseguenze furono rilevanti, se non drammatiche, anche sugli strati inferiori della popolazione urbana. 3) La svalutazione del potere d’acquisto della moneta, i fenomeni inflazionistici virulenti e la crisi dell’economia monetaria. La zecca romana fu costretta a lavorare a spron battuto, per far fronte alla necessità di moneta che le ingenti spese in tempo di crisi economica, politica e militare comportavano. Fatto salvo l’esercito, ormai vera ossatura dell’impero, che godeva di un ottimo trattamento economico con incrementi continui di paga, e naturalmente escludendo i grandi possidenti che disponevano di ingenti mezzi, l’impatto del fenomeno inflattivo sul “tenore di vita” del resto della popolazione fu devastante. Si arrivò al punto, prima delle riforme di Diocleziano attuate alla fine del terzo secolo, che l’apparato statuale fu costretto a richiedere i tributi in natura. Questo aspetto socialmente devastante della crisi deve esser visto congiuntamente con i punti 1 e 2, in quanto non è che un ulteriore effetto destabilizzante, all’interno di un sistema economico relativamente complesso e articolato, dell’esplodere della principale contraddizione del modo di produzione schiavistico, messo in ginocchio dalla progressiva riduzione del numero di schiavi disponibili per la produzione. 4) La diffusione di grandi epidemie e i riflessi demografici negativi della crisi. Come conseguenza del regresso dopo il raggiungimento della dimensione massima dell’impero, peggiorarono le condizioni di sicurezza e sanitarie delle popolazioni e si manifestò una svolta demografica di lungo periodo. Ne risentirono sia le città sia le campagne, investite dalla crisi, dalla minaccia di invasioni e sconvolte da una grande epidemia di peste, che infuriò nel ventennio 30 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 compreso fra il 250 ed il 270 d.C., riducendo drasticamente la popolazione dell’impero di circa un terzo. Apparvero le città fortificate, cinte da mura, di più piccole dimensioni rispetto ai grandi centri dell’epoca del principato augusteo, che offrivano una miglior protezione dalla minaccia esterna e che ebbero una certa diffusione nei secoli dell’Evo Medio. Lo spopolamento delle città, in particolare, rappresentò l’ulteriore segnale di un’intima fragilità e delle debolezze strutturali dell’economia urbana nel mondo antico schiavista. 5) Le trasformazioni profonde e irreversibili nella strutturazione della società romana del tempo e la conseguente conflittualità fra i gruppi sociali, da porre in stretta relazione con i punti precedenti e con gli importanti fattori esogeni di crisi, di seguito elencati. La burocratizzazione, la centralizzazione e la militarizzazione che difficoltà economiche e invasioni barbariche comportarono scontentarono sia la vecchia “classe dirigente” – a partire dall’aristocrazia senatoria che rimase ricca e facoltosa, grazie all’estensione del latifondo, ma che perse buona parte del suo potere politico – sia una larga parte degli strati sociali inferiori, dai cavalieri di profilo più basso e dai decurioni non ben inseriti nell’organizzazione statuale, ma costretti a contribuire alla spesa pubblica in espansione, fino ai semplici lavoratori liberi e ai nullatenenti. In particolare, si ruppe quel solido legame fra la ricchezza posseduta e il potere politico che aveva informato la società romana dell’epoca precedente, perché si affacciarono alla ribalta della storia generali e imperatori militari di umili origini, come Massimino il Trace nel breve regno fra il 235 e il 236 d.C, mentre divennero più rari non solo i generali ma anche gli imperatori designati da un senato progressivamente ridotto nelle competenze e nelle funzioni di governo fin dal regno di Caracalla [ed in particolare sotto i Severi], e sempre più spesso sostituito dal consilium imperiale. A livelli più bassi della gerarchia, crebbe la rilevanza dei militari a scapito dei civili e fecero carriera nella burocrazia dell’”età del ferro” elementi che non avevano frequentavano la “high street” senatoria, o i “salotti buoni” del tempo. Non si trattò di una promozione sociale offerta a soggetti di bassa estrazione ma capaci, e di una sorta di punizione per le vecchie élite rammollite dal lusso e dal privilegio, non più adatte a difendere efficacemente i sacri confini e a guidare il popolo, ma di un’esigenza imprescindibile di ristrutturazione dello stato, nel passaggio dal principato al nuovo dispotismo imperiale, nata proprio dall’azione congiunta dei fattori interni di crisi di cui ai punti precedenti – dallo scrivente 31 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 considerati i più importanti – e dei fattori esterni ai quali si farà in seguito un breve cenno. Infatti, fu la sopravvenuta “incapacità di sviluppare le forze produttive” che rivelò il modo di produzione schiavistico non appena diminuirono considerevolmente gli apporti assicurati dal lavoro coatto, ad imporre questa ristrutturazione centralizzante, militarizzante e burocratizzante, sconvolgendo gli assetti sociali precedenti. Anche il periodo detto dell’”anarchia militare”, ossia il cinquantennio che va dal 235, anno della morte violenta di Alessandro Severo, al 284 d.C., è frutto della mala pianta rappresentata dalla diffusione del lavoro schiavo per la produzione delle basi materiali della vita associata. In questo periodo, che inizia con Massimo il Trace e si conclude con l’avvento del riformatore Diocleziano, appaiono chiare sia la parabola discendente del senato – e assieme a lui della vecchia concezione augustea di un impero certamente oligarchico, che però che favoriva la collaborazione fra le classi e si reggeva sulle vecchie istituzioni repubblicane – sia l’inarrestabile ascesa dei militari. I comandanti militari, i loro “quadri” e le loro truppe ebbero voce in capitolo nella nomina degli imperatori, acclamati dalle legioni ma non certo dal senato, occuparono le cariche pubbliche a scapito dei nobili e dei tradizionali membri dell’ordine equestre, decisero le guerre in funzione dei loro interessi economici e di potere, ma d’altro canto non dimostrarono coesione, poiché si combatterono vicendevolmente dando un contributo rilevante alle spinte separatiste delle grandi regioni, con la conseguente frantumazione su base regionalistica, e più in generale alla destabilizzazione dell’impero e della società romana. Durante questa lunga crisi “globale”, che iniziò prima della cosiddetta anarchia militare ma che in quel cinquantennio raggiunse il suo apice, si manifestarono fratture e conflittualità fra i vecchi dominanti in discesa [aristocratici, senato, grandi proprietari, eccetera] e i nuovi dominanti in ascesa ben inseriti nel dominato [nuovi cavalieri, generali, militari di rango inferiore, membri della burocrazia imperiale], nonché fra gli strati sociali inferiori e quelli superiori. Si verificarono torbidi, sollevazioni popolari, uccisioni, conflitti incrociati fra i gruppi sociali, alleanze temporanee fra l’aristocrazia senatoria perdente e i subalterni vessati contro le strutture di potere e di oppressione statuali, a testimonianza del fatto che la società romana rischiava di implodere in tempi ancor più rapidi di quelli che poi la storia avrebbe effettivamente richiesto, quanto meno per la parte occidentale dell’impero [476 d.C., fine formale e deposizione di Romolo Augusto da parte del capo barbarico Odoacre]. Fattori esogeni di crisi: 32 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 A) Le invasioni barbariche e la sopraggiunta permeabilità del limes romano, che qualcuno ha persino paragonato ad unʹantica “linea Maginot” mobile, in quanto si “spostava” secondo le esigenze di difesa del momento, lunga più di cinquecento chilometri nel vitale settore compreso fra il Danubio e il Reno. Vivo rimase il ricordo delle incursioni dei Marcomanni e dei Quadi nel nord della penisola durante il regno di Marco Aurelio, e come si è già scritto in precedenza, oltre all’azione negativa dei fattori psicologici di insicurezza diffusa, elevate furono le spese per la difesa dei confini, proprio in un periodo di progressiva diminuzione delle risorse disponibili. Le campagne militari contro i germanici continuarono nel terzo secolo dopo Cristo, tanto che Alessandro Severo, la cui morte secondo gli storici segnò l’avvio del lungo periodo dell’”anarchia militare” e l’avvento del generale Massimino, fu ucciso dai soldati durante una campagna contro gli Alemanni, mentre nel 250 e nel 251 d.C. i Goti riuscirono a sconfiggere l’esercito romano in due battaglie, e nell’ultima persino ad uccidere l’imperatore Traiano Decio. Una svolta significativa a favore di Roma si ebbe dopo un paio di tormentati decenni, nel 268 d.C., con la sconfitta dei Goti da parte di Claudio il Gotico. Qualche anno dopo, Aureliano riuscirà ad avere ragione dei bellicosi Alemanni e a ristabilire temporaneamente la situazione. Per complicare il quadro, va rilevato che nella crescente pressione delle popolazioni esterne ai confini dell’impero, ebbero un indubbio peso fattori di cambiamento propriamente esogeni, di natura politica, economica e demografica, intervenuti nella società germanica di allora ed indipendenti dalla crisi interna romana. B) La minaccia rappresentata dall’impero persiano in oriente. Posto che la pressione militare della Persia dei Sassanidi si fece sentire per gran parte del secolo, le alterne sorti del confronto fra i due imperi non consentirono ai romani di abbassare la guardia, dedicandosi interamente all’altra minaccia esterna. Questo lungo confronto fra entità imperiali conobbe di certo momenti di pace, ma i momenti di guerra furono particolarmente dispendiosi e insidiosi, per i romani che combattevano nel pieno della crisi. Se nel 243 d.C. Giordano III ebbe la meglio sui Persiani, nel 260 Shapur I riuscì a sconfiggere le legioni e catturare l’imperatore Valeriano, che morì durante la prigionia per l’impossibilità economica di reclutare nuove truppe e liberarlo. La cosiddetta crisi del terzo secolo ha messo in luce i limiti intrinseci del modo di produzione schiavista, ed ha avuto origine dal suo inevitabile default, non appena si ridussero in modo significativo i “rifornimenti” di schiavi e di altre vitali risorse, dovuti essenzialmente alle conquiste territoriali e all’indebitamento moroso. 33 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’economia delle campagne, quella urbana e quella monetaria, i traffici commerciali, le attività minerarie e quelle artigianali, erano in buona misura dipendenti, direttamente o indirettamente, dagli afflussi di braccia per il lavoro schiavo e dall’acquisizione del “bottino” dovuto all’espansione territoriale. Tratta degli schiavi e spoliazione dei vinti erano il frutto di una logica predatoria di espropriazione precapitalistica che informava le entità statuali del mondo antico, nelle quali non esistevano il moderno concetto di Mercato e le possibilità di espropriazione sistematica che avrebbero caratterizzato il capitalismo. Fintanto che tali afflussi sono stati garantiti – cioè fino al momento del raggiungimento della massima estensione territoriale e demografica, nonché dell’apice della potenza militare – l’intera società romana è cresciuta di pari passo con la diffusione dello schiavismo, quale modo di produzione principale dell’epoca, e a questo proposito non possiamo che richiamare alla memoria la teoria marxiana strutturalista dei modi di produzione e l’analisi storica di Karl Marx, che volgendo lo sguardo al passato conservano tuttora una sostanziale validità. La società romana, nei secoli che dividono la tarda repubblica dall’avvento dell’impero e durante il periodo bisecolare di consolidamento e affermazione dello stesso, dalla vitale area mediterranea al nord Europa, dai Balcani all’Asia, ha registrato significativi e continui progressi da un punto di vista culturale, con lo sviluppo dell’elaborazione giuridica e istituzionale, della storia e dell’annalistica, della poesia e della letteratura, delle arti figurative e del teatro. Ciò ha comportato la crescita delle aspirazioni, dei desideri e delle aspettative di dominanti e liberi, nonché una conseguente crescita da un punto di vista materiale – basata sostanzialmente sul lavoro umano coatto – che ha investito in buona misura le città, i commerci, le produzioni artigianali ed ha richiesto l’estensione delle produzioni agricole. Le soggettività e le classi dominate del mondo antico, pur considerando il relativo impatto destabilizzante delle tre guerre schiavili del primo secolo avanti Cristo e gli effetti delle “secessioni” plebee nel periodo repubblicano, si sono dimostrate incapaci di sovvertire l’ordine costituito e non hanno rappresentato, se non ad un livello puramente embrionale ai tempi di Spartaco, dei veri soggetti rivoluzionari. Accanto alla classe subalterna e riconosciuta della plebe, in parte trasformatasi nel “popolume” urbano inoccupato a partire dal II secolo a.C., che il potere imboniva attraverso distribuzioni di cibo e i giochi imperiali, ed in parte emancipatasi in qualità di decurioni e cavalieri costituenti la “middle class” del tempo, fu sempre presente la numerosa classe degli “invisibili”, cioè quella degli schiavi, che avrebbe potuto rappresentare il motore del cambiamento storico mettendo in discussione quello che fu il vero fondamento del sistema, ossia il modo di produzione schiavistico, ma che dimostrò di non avere né la forza né la volontà necessarie per giocare un simile ruolo. 34 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Perciò le rivolte servili e le secessioni plebee non poterono rappresentare veri e propri momenti rivoluzionari, nei conflitti verticali interni all’ordine sociale vigente, ma costituirono l’equivalente degli eventi insurrezionali contemporanei, per quanto riguardò nello specifico le sollevazioni di schiavi, e mostrarono lineamenti “socialdemocratico‐riformisti” [si passi l’espressione], per quel che attenne agli “scioperi aventiniani” dei cives plebei, che miravano ad acquisire risultati più modesti del sovvertimento sistemico, quali un maggior potere politico all’interno delle istituzioni esistenti ed una più equa distribuzione delle risorse. Nella quarta ed ultima parte del presente capitolo si discuterà in estrema sintesi del tardo impero e della sua fine in occidente, nonché dell’inizio della transizione dal modo di produzione schiavistico in declino a quello feudale in ascesa [vedi l’Avvertenza all’inizio del saggio]. 35 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Commenti ad elaborati e missive di militanti Fiom sulle questioni dell’attacco al lavoro Commento del 22/10/2010 Rispondo volentieri alla P.V. (elaborato di VUK, n.d.s.) 1) Durante è personaggio ben noto, ma allʹinterno della Fiom è soltanto voce di minoranza. La mozione 2 “opposizionale” nell’ultimo congresso CGIL, alla quale si fa riferimento, è maggioritaria nella Fiom, mentre la mozione 1 della segreteria Epifani (ed anche della futura segreteria Camusso, che dio ci scampi e liberi!) fra i metalmeccanici ha ottenuto il 27% dei consensi. Procedendo le cose così come quotidianamente possiamo osservare, lʹArea Programmatica espressione della mozione 2 dovrebbe estendere ulteriormente la sua influenza, e questo anche nelle altre federazioni, a partire dalla Funzione Pubblica, ma non so se sarà tutta “aria fritta” o la cosa potrà sortire qualcosa di buono e veramente alternativo. 2) Non mi stupisco che la stessa maggioranza della CGIL respinga pubblicamente il cosiddetto ʺddl lavoroʺ. Restando su un piano puramente sindacale e giuslavoristico, possiamo notare che i principali fronti di attacco al Lavoro, in Italia, sono i seguenti: a] La disintegrazione del CCNL e lʹabolizione delle garanzie che tale contratto implica, attraverso lʹescamotage del ʺcontratto leggeroʺ e le deroghe a tutto campo agli istituti del contratto nazionale. Non è soltanto una questione economica, di tagli ulteriori al costo del lavoro e di spostamento di quote di prodotto dal Lavoro al Capitale [processo che è in corso da venti/ trenta anni]. b] Lʹarbitrato che pone il lavoratore, fin dallʹinizio del rapporto di lavoro, in condizioni di assoluta minorità [un vero minus habens, come nellʹottocento] rispetto al datore di lavoro. Questa è lʹapoteosi del diritto di proprietà capitalistico e della cosiddetta ʺlibera iniziativa economicaʺ, i due diritti cardine dellʹordine liberal‐liberista, spacciati come ʺnaturaliʺ e preesistenti a tutte le istituzioni civili. c] Il futuro, massiccio attacco allo Statuto dei Lavoratori del 20 maggio 1970 [legge 300], non per riformarlo sulla base di una concezione più ʺmodernaʺ dei rapporti sociali di produzione [che è una giustificazione vaga ed ipocrita], ma per distruggere tutte le garanzie in lui contenute. Del resto, questo attacco è già stato annunciato dal tristo Sacconi, il quale vuole ʺrealizzare il sogno di Marco Biagiʺ [e non servono altre parole]. Lʹattacco al Lavoro in Italia può considerarsi generale, perché riguarda la legislazione [legge 300, in prospettiva futura], la contrattazione fra le parti al più 36 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 alto livello [contratto nazionale di categoria] e la possibilità del ricorso da parte dei lavoratori che subiscono abusi alla magistratura del lavoro, alla quale si vuole letteralmente ʺtarpare le aliʺ [arbitrato]. La CGIL, pur essendo ancora maggioritaria al suo interno la linea Epifani/ Camusso e pur aleggiando al vertice l’inquietante spettro del Pd, non dovrebbe permettersi di restare inerte davanti ad una simile situazione. ALEX Ho avuto l'occasione di parlare con gli universitari (psicologia) credetemi siamo lontanissimi dalla rivoluzione.... Inoltre, ieri mi sono incazzato con P…. sulle strategia che attuerà Rifondazione. La loro soluzione: comitati comunisti nelle fabbriche per filosofeggiare su taglio delle tasse, speculazioni finanziarie e globalità. Poveretti sono morti e non sanno di esserlo... Alt! Quello che ci racconti è gravissimo! 1) Gli studenti sono soggettività nate allʹinterno del capitalismo del terzo millennio e quindi sono in buona parte prigionieri dei suoi meccanismi, nonché predisposti a cadere nelle sue trappole culturali. Non si può pretendere che reagiscono allʹattuale situazione e alle prospettive future come degli spartachisti ... Ma il peggio è il punto 2, che riguarda quei furbetti di rifondazione comunista e i loro squallidi escamotage per ʺtornare in parlamentoʺ ed accomodarsi sugli scranni. 2) Il ʺtaglio delle tasseʺ è un cavallo di battaglia, chiaramente fuorviante, di Raffaele Bonanni, e tutti ben sappiamo chi è e cosa rappresenta questo individuo. Basterebbero un paio di semplici considerazioni per chiudere la discussione in materia: cosa potrà importare di una piccola ʺsforbiciataʺ alle tasse ad una massa sempre più grande di disoccupati, di senza reddito che sopravvivono grazie alle reti familiari, di cassa intregrati che hanno un reddito minimo e già vistosamente insufficiente? E ancora: se le imposte sui redditi scenderanno, per bassi livelli di reddito, poniamo del 1 o del 2%, mentre la perdita di potere dʹacquisto dei redditi da lavoro si accentuerà, e sarà, poniamo, del 3/ 4% nello stesso periodo, non ci sarà un aumento del reddito reale, ma ci sarà comunque una sua diminuzione. Posto che io non credo alla possibilità che questo governo e il prossimo post‐ Berlusconi procedano ad un alleggerimento del carico fiscale, in particolare del carico fiscale che grava sul lavoro dipendente, mettendomi con qualche disgusto nei panni degli ʺaspiranti ai seggiʺ, mi rendo conto che sbandierare una simile possibilità, nei fatti inesistente, serve soltanto a mettere in ombra i veri problemi, a 37 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 non mettere in atto vere e proprie battaglie politiche e sindacali, anche durissime e cruente, per affrontarli. Per quanto riguarda la speculazione finanziaria e la globalità, cose che sono strettamente interrelate, ebbene, sono perfettamente consapevole che la via propagandistica più comoda per tentare di riacquisire qualche seggio in parlamento [e qualche decina di migliaia di euro al mese, presi direttamente con le tasse ʺda diminuireʺ dalle tasche dei lavoratori] è proprio questa, comoda comoda e priva di rischi. In tal modo, non si rischia di infastidire ʺil manovratoreʺ, poiché si sa già a priori che queste furberie non serviranno a bloccare quella grande espropriazione capitalistica che oggi procede attraverso la finanza. 38 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Fra Piazzale Loreto e il Bunga‐Bunga Articolo del 29/10/2010 Avrei cose più costruttive ed interessanti da fare, nell’immediato, se solo non sentissi un forte stimolo a scrivere qualche riga sulla vicenda Berlusconi – Bunga‐ Bunga, con il grottesco contorno degli Emilio Fede, dei Lele Mora, e la meno anti‐ estetica presenza delle solite Lolitas Calientes. Come sappiamo, Berlusconi è già finito da tempo e forse se ne è accorto anche lui. La sua ostinata resistenza è dovuta al fatto che questo venditore di fumo sa bene che quando metterà il piede fuori del Palazzo rischierà di essere “impallinato” ad ogni passo. Per tale motivo resiste nelle cosiddette stanze del potere, a volte nascondendosi, a volte apparendo, ed intorno a lui, mentre impazzano le ultime feste, le orge finali, aleggiano ricordi inconfessabili, invisibili scheletri usciti dagli armadi danzano tutti insieme in un’atmosfera crepuscolare. Non so dire esattamente perché, ma tutto ciò mi ricorda un vecchio film di Liliana Cavani, Il portiere di notte, con le sue atmosfere cupe, decadenti ed ambigue, Solo che qui non siamo nella Vienna degli anni cinquanta e non ci sono il grande Dirk Bogarde e l’affascinante Charlotte Rampling, ma soltanto degli attori mediocri nel tardo meriggio di un basso impero, ed alcune adolescenti, rovinate dalla brama di successo, sullo sfondo. Forse il re delle feste, il capataz della scalcagnata banda che è al governo del paese, il grande venditore di fumo fattosi trait d’union fra la spazzatura mediatica che ingombra le menti e quella reale che a Napoli ingombra le strade, sta trattando con i “Poteri Forti d’Oltre Atlantico” le garanzie per una sua uscita di scena. Sa bene i rischi che sta correndo, ma in accordo con la sua natura ha deciso di vivere gli ultimi giorni da signorotto gaudente, e non da Führer costretto a suicidarsi dentro il bunker. Del resto, Berlusconi non è in alcun modo grande, né nel male né nel bene, e di certo il quasi ottantenne Emilio Fede, che in queste ore cerca di “sganciarsi” in tutti modi dalla triste vicenda dell’adolescente marocchina Ruby, non è certo Joseph Goebbels … Con il caso della disadattata Ruby o senza questo ulteriore scandalo a sfondo sessuale, Berlusconi possiamo già considerarlo idealmente e simbolicamente morto, ed essendo tutto sommato un istrione abituato a mentire – anche a se stesso – prima di dover “vendere cara la pelle” cercherà un compromesso, con chi veramente conta, per una sua uscita “morbida” dalla scena. Fra i due estremi, Piazzale Loreto e il Bunga‐Bunga, c’è sempre la comoda scappatoia di qualche isolotto da sogno, rigorosamente offshore, nel Pacifico o ai Carabi. 39 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Lasciamo quindi che si diverta, tanto ha le ore contate. 40 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Forza, Alluvione! Articolo del 10/11/2010 Questa mattina, a Trieste e dintorni, piove a dirotto. L’acqua continua a cadere ed è straripato qualche torrente in provincia di Udine, con qualche problema in più nel Friuli orientale, ma è soprattutto il Veneto, quello della Lega, della mitizzata PMI e del passato miracolo del Nord Est, a finire malamente sott’acqua. E’ come se all’originaria prosperità si fosse sostituito, materialmente e simbolicamente, il diluvio: quello molto concreto della pioggia scrosciante di questi giorni, e l’invisibile diluvio, produttivo, economico, sociale, suscitato dalla concorrenza cinese, dall’arretratezza della piccola industria italiana, dalla crisi conseguente del Made in Italy, e dalla riduzione dei consumi interni. Non è certo un diluvio universale, ma è soltanto un fenomeno locale, un evento naturale, non privo però di implicazioni politiche, che si somma alla crisi in atto. Tuona il “governatore” veneto Zaia, ex cameriere di trattoria e attuale cameriere politico di provincia, che è necessario, per far fronte agli ingenti materiali danni dell’alluvione, tenere l’acconto irpef in Veneto, senza versare alcunché allo stato centrale. Ha già protestato, lo stesso soggetto, contro le attenzioni e i fondi da dedicare allo storico sito di Pompei, parte della nostra storia più remota ed oggi in pericolo per sopraggiunta incuria. Chissenefrega della storia e del comune patrimonio culturale! Quello che conta è che l’elettorato leghista tipico, zoccolo duro irrinunciabile del bossianesimo, è stato colpito dal piccolo Armageddon di questi giorni, e rischia di annegare, economicamente e … fisicamente. La pioggia e la paura non cessano, aumentano i danni e con loro si moltiplicano le reazioni scomposte, i lai, le richieste di intervento di chi ha sostenuto con il consenso l’asse Bossi‐ Berlusconi‐Tremonti. Berlusconi in persona, per un attimo distolto dal bunga‐bunga e dagli affari processuali privati, assieme ad Umberto Bossi con tanto di figlio scemo, Renzo Trota, ha visitato il Veneto, beccandosi bordate di fischi e accese contestazioni in particolare a Padova. Ormai le contestazioni si estendono dalla martoriata e irricostruita L’Aquila allo stesso Veneto, regione‐roccaforte xenofobo‐egoistico‐leghista dell’attuale maggioranza, e non sono inscenate soltanto dai terremotati che affrontano la polizia, ma dagli stessi “bottegai leghisti padani”, ossatura elettorale, nel mitico Nord Est produttivo, di un sistema di potere sempre più barcollante. E’ curioso osservare come lo “zoccolo duro” elettorale leghista e, in subordine, piediellino‐forzaitaliota, a lungo spacciato come quintessenza delle forze veramente 41 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 produttive in Italia, sotto la pressione diretta di problemi molto concreti – migliaia di piccole aziende in malora e danni che forse raggiungono il miliardo di euro – inizia a ribellarsi e a contestare quello stesso, inefficiente governo che fino ad ora ha contribuito a tenere in piedi. Causa del disastro italiano, che è complessivo, dispiegandosi sul piano etico‐ politico oltre che sul piano sociale ed economico, sono loro stessi, i “cocchi” del governo berlusconian‐leghista ai quali l’evasione fiscale e contributiva è consentita, o meglio, anche loro ne sono la causa e fanno parte interamente del problema. Vogliono i soldi dal governo, ma fino ad ora non li hanno forse ricevuti, attraverso il voto fondato sullo scambio “piccola evasione contributiva e fiscale tutelata e garantita in cambio del consenso”, tipico e rilevante aspetto del voto leghista e di quello forzaitaliota? Impresari di piccolo cabotaggio, commercianti ed altre simili figure che popolano il ricco Veneto, hanno persino ottenuto, dal Berlusconi che la Lega tiene letteralmente “per le palle”, il federalismo fiscale realizzato entro la fine dell’anno (anche se trattati di una mezza bufala generatrice di costi). Gran parte delle amministrazioni locali venete sono leghiste o pidiellino‐leghiste, a partire dall’ente regione. Stampelle di uno dei peggiori governi della storia d’Italia, questi individui, colpiti da una calamità naturale i cui effetti devastanti potevano forse essere attenuati da interventi pubblici mirati, sul territorio, ora sbraitano, piangono e si strappano le vesti per avere denaro da quello stato centrale che tanto hanno vituperato, magari togliendolo alla preservazione e alla tutela del patrimonio artistico, storico e culturale comune, in altre aree della penisola. Accanto agli ultimi crolli materiali e simbolici, dalla Domus Aurea neroniana alle vestigia di Pompei, quali simboli di malgoverno e incuria ai quali farà forse seguito il crollo finale del Colosseo, vaticinato da Nostradamus, l’alluvione sembra produrre lo smottamento del consenso al governo di Berlusconi e della Lega, l’ulteriore e decisiva perdita di credibilità, proprio nei luoghi in cui l’attuale cartello di maggioranza ha i suoi sostenitori più accaniti e convinti. Se l’Italia è veramente “costruita sulla sabbia”, come ha scritto nel suo best seller Gomorra il tanto celebrato e discusso Saviano, il problema non è certo limitato al solo meridione, e ciò è avvenuto anche a causa di questi individui, che tanto sbraitano o si lamentano nel momento in cui tocca a loro, poiché gli stessi hanno offerto un contributo sostanziale al sostegno e all’inazione dei governi cialtroni e incapaci, prevalentemente del cosiddetto centro‐destra, succedutisi in questi ultimi anni. Che poi questi individui rappresentino la parte produttiva del paese, e tutto il resto viva bellamente alle loro spalle, sappiamo che è una palese menzogna. 42 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Hanno costruito le loro piccole e meno piccole fortune personali, non soltanto sulla pratica ammessa e tutelata dell’evasione, ma anche sul lavoro degli altri, e cioè degli operai autoctoni, dei migranti meridionali, e recentemente su quello degli immigrati, regolari e irregolari, provenienti da altri paesi. Non di rado, si è trattato di lavoro nero, non tutelato, supersfruttato, e totalmente “informale”, a tutto vantaggio dell’imprenditore, o del possidente di terre. Me li ricordo, i “commendatori” veneti, quando passavano il week‐end a giocarsi al casinò i frutti del lavoro loro e di quello di molti altri nella Slovenia da poco diventata indipendente. Me li ricordo mentre si trastullavano con le escort dell’est che fu sovietico, affamate di soldi e all’epoca, in certi casi, affamate tout court, nei locali notturni, davanti ad una bottiglia di millesimé posticcio. Sull’arretratezza tecnologica che caratterizza buona parte PMI italiana, proprio non serve sprecare parole, trattandosi di un fenomeno ben noto da tempo, ed oggi, momento in cui tutti i nodi economici e produttivi stanno arrivando al pettine, ben visibile ed inquietante. Le imprese piccole e medie che si definiscono “di nicchia”, parte di terziari avanzati o avanzatissimi, sono molto poche numericamente, generano ben poca occupazione, e soprattutto, sono ben altra cosa rispetto alla generalità della PMI, perché del tutto inserite, come i grandi gruppi, nelle attuali dinamiche capitalistiche globalizzatrici. La PMI colpita dall’alluvione ha fatto le sue temporanee fortune, in passato, in seguito allo smantellamento della grande industria, pubblica e privata, in vari settori produttivi [dall’alimentare all’informatica], ed ha costituito la debole ossatura del sistema produttivo nazionale, in assenza di alternative migliori e di effettivo avanzamento tecnologico. I centri di potere finanziario globalisti, con sede in Nord America e giurisdizione sull’occidente, hanno decretato per l’Italia un futuro di produzioni tradizionali, a basso contenuto tecnologico, e la frammentazione [forse irrimediabile] del suo apparato produttivo, perché le produzioni “più avanzate” dovevano e devono confluire al centro. La PMI alluvionata che chiede contributi pubblici sembra già condannata, nel medio termine, dallo stesso punto di vista capitalistico contemporaneo, evasione o non evasione, incentivi di stato o disincentivazioni, Irpef trattenuta o versata, piogge torrenziali o sole splendente, perché la tanto invocata “competitività internazionale” non c’è più, se anche c’è stata in un passato ormai lontano, in altri contesti economico‐finanziari … Ma quello che più conta, è che coloro che un tempo gridavano cinicamente “Forza Etna!” o “Forza Vesuvio!” in occasione di eruzioni vulcaniche nel sud del paese, 43 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 oggi sono travolti dall’acqua, dal fango, e dal malgoverno di un esecutivo cialtrone che loro stessi hanno strenuamente sostenuto. E allora noi oggi diciamo provocatoriamente “Forza, Alluvione!”, dando la nostra solidarietà esclusivamente ai lavoratori dipendenti di quelle terre, ai subordinati che non hanno nulla, al lavoro migrante, e ammirando sempre e comunque la splendida Venezia. Sic Transit Gloria Padaniae. P.S.: chi scrive ha nonni, bisnonni e trisnonni paterni veneti, provenienti dalla zona di Bassano del Grappa. 44 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Commento ad un editoriale di Comunismo e Comunità, scritto da Lorenzo Dorato Commento del 22/11/2010 Nell’editoriale, Lorenzo chiede e si chiede: «E’ legale svendere sotto i prezzi di mercato fiori di aziende pubbliche, senza alcuna trasparenza, arricchendo la finanza straniera in un’operazione di proporzioni vastissime? E’ legale e trasparente riempire di denaro della collettività aziende come la Fiat per produrre all’estero? E’ legale sovvenzionare a costi altissimi centri sanitari privati, fondi pensione privati che potrebbero essere gestiti a costi nettamente inferiori dallo Stato? E’ legale la missione in Afghanistan e il sostegno all’occupazione israeliana? A tutti coloro che si occupano con alacrità di legalità, ivi compresi personaggi come Travaglio e Saviano, bisognerebbe chiedere a quale parte del concetti di legalità fanno riferimento.» Mi concentro su questo passaggio, e sulla questione sollevata da Lorenzo Dorato, perché è di fondamentale importanza. Tralasciando la non essenziale questione delle denunce alla Travaglio o alla Saviano, la “legalità” può essere qui correttamente intesa come un premio per chi ha il potere e domina, ed una punizione per chi il potere non lo ha, ma lo deve interamente subire. Non voglio arrivare a dire, hitlerianamente, che il diritto risiede nella propria forza, ma tutto dipende, come sempre, dai rapporti sociali di produzione in essere e dagli interessi dominanti che si armonizzano con tali rapporti. Secondo le logiche del capitalismo finanziarizzato transgenico tutto fila alla perfezione. La Creazione del Valore, azionaria, finanziaria e borsistica presuppone, fra le altre cose, le privatizzazioni e le svendite di ciò che è ancora in mani pubbliche, e d’altro canto nella concezione liberista estrema – per non andare troppo indietro, possiamo dire da Milton Friedman in poi – lo stato deve essere ridotto ai minimi termini e deve favorire in primo luogo l’espansione del mercato, le logiche liberoscambiste ed oggi la vera “produttività immateriale”, quella di valore realizzata attraverso il dominio della finanza, affinché le ali del capitalismo si dispieghino senza ostacoli sul mondo. Possiamo spingerci fino a parlare di un “semi‐stato”, questa volta non socialistico‐ comunista ma ultraliberale … Dare contributi attingendo dai fondi pubblici, direttamente o indirettamente [come nel caso delle rottamazioni], a gruppi produttivi che delocalizzano è altrettanto coerente con lo spirito di questo capitalismo. Infatti, perché produrre in casa ciò che si può acquistare all’estero a prezzi inferiori, ciò che si può produrre altrove a costi nettamente inferiori? Da un altro punto di vista, seguendo il principio dei costi comparati sempre presente, fin dalle origini, nel DNA capitalistico, perché non andare a produrre 45 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 dove i costi si possono abbattere del 50% o addirittura comprimerli fino ad un terzo, oppure addirittura ad un quarto rispetto a quelli sostenuti sul suolo nazionale? Ecco la vera e sola libertà consentita dal capitalismo, quella che discende dalla proprietà privata e dall’iniziativa privata. La speculazione finanziaria si confonde con la produzione, nel presente, e l’estorsione del plusvalore classica con la Creazione del Valore, in nome della quale tutto è consentito, nell’ordine vigente, in ragione della costituzione materiale e non di quella formale, e quindi tutto diventa, nei fatti, legale. Anche il denaro pubblico che sovvenziona enti sanitari privati, scuole private “parificate” [non soltanto religiose, come affermano gli anticlericali preconcetti, ma comunque private] o fondi pensione privati oggetto di lucroso business da parte dei dominanti, rientra in questo preciso ordine d’idee. Cos’è allora lo stato oggi? Qual è il limite al suo potere decisionale strategico‐ politico? Mi rifaccio all’avvio di Capitalism and freedom di Milton Friedman, pubblicato nel 1962, ma pensato negli anni cinquanta in pieno corso dei “trenta gloriosi anni” di Eric Hobsbawm, in cui l’autore parte dalla celebre frase detta dal presidente John F. Kennedy all’atto del suo insediamento, non chiederti quello che il tuo paese può fare per te, chiediti quello che tu puoi fare per il tuo paese, la sviscera a modo suo e la ripropone sostanzialmente in accordo con il presunto “spirito di libertà” di matrice liberale che [purtroppo] ben conosciamo. Attenzione perché in quanto segue c’è una certa concezione dello stato, del governo, del pubblico in generale, che oggi è dominate determinando ciò che giustamente scandalizza Lorenzo [ed anche il sottoscritto]. Dire cosa fa il tuo paese per te, significa pensare allo stato “socialista” o blandamente social‐democratico, che ti accompagna dalla culla alla tomba con forme di assistenza, significa quindi far riferimento allo stato “mamma” … Dire cosa puoi fare tu per il tuo paese [intendendo ovviamente stato, governo, ] significa porsi in posizione servile, e ciò identifica uno stato organicistico, autoritario. Quello che i “veri liberali” amanti della libertà devono chiedersi, secondo Milton Friedman, suona all’incirca così: come possiamo noi individui liberi, mossi dall’interesse privato, usare al meglio lo stato [il governo, il pubblico] per il raggiungimento dei nostri scopi? Ma di quali scopi si tratta, nel concreto, e chi sono questi individui veramente liberi che utilizzano e controllano le strutture statuali, i governi nazionali, i patrimoni pubblici, per via talora indiretta, onde realizzare i propri interessi privati? Sono forse i membri di una nuova classe dominante postborghese? 46 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La risposta la conosciamo bene, ed è, in fondo, la risposta alla domanda formulata da Lorenzo Dorato. Ci siamo intesi? Saluti antisistemici Eugenio Orso 47 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 I tre comunismi Saggio del novembre del 2010 Nel deserto di alternative concrete al liberalcapitalismo, così come ci appare la nostra società dopo la vittoria delle forze liberal‐liberiste e l’imposizione dei loro modelli economici, del loro ordine politico e dei loro stili di vita, la parola comunismo – di cui si fa ancora un grande uso ed abuso – assume una molteplicità di significati, in parte significativa negativi o spregiativi, che pur nella deformazione ideologica e culturale del presente riecheggiano il dibattito politico, le costruzioni teorico‐ideologiche pregresse, nonché le diverse visioni filosofiche degli ultimi due secoli dello scorso millennio. La parola comunismo non di rado diventa un atto d’accusa o assume la funzione di uno spauracchio, agitato da chi insinua l’inevitabilità del ritorno al Novecento, quale secolo e sede storica dei grandi totalitarismi, nel caso si osi deviare dalla strada tracciata e imposta da questo capitalismo, ammantato di democrazia neoliberale e di rispetto formale dei diritti individuali, ma nella sostanza liberticida. Nel contempo, il comunismo sopravvive come una speranza dura a morire – nonostante il collasso sovietico e la progressiva dissoluzione dei paradigmi marxisti – per una parte sempre più minoritaria dei subalterni e dei resistenti. Quando si usa questa espressione, a tutti i livelli, nei discorsi da bar come nei talk‐ show televisivi, negli articoli giornalistici come nei dibattiti politici, ci si riferisce quasi per default a quello che il filosofo Costanzo Preve ha definito il comunismo novecentesco realmente esistito, che inevitabilmente presenta sullo sfondo la controversa esperienza dell’Unione Sovietica. Ci si riferisce ad uno soltanto dei possibili comunismi, quello effettivamente realizzato e quello che “ha fallito”, collassando alla fine del Novecento in seguito a problemi interni irrisolti e a pressioni esterne capitalistiche. Non di rado in tali circostanze, prigionieri dello “spirito del tempo” e di una visione deformata del corso storico, si ricorre ad una volgarizzazione semplificatrice ad uso divulgativo e propagandistico del canone marxista tradizionale, così come si è costituito alla fine dell’Ottocento [Engels e Kautsky], dei più noti non‐conformismi che lo hanno successivamente emendato [Lenin, Luxemburg, Trotzky], non risparmiando e talora travisando lo stesso pensiero originale di Marx. Quasi mai si parla di altri comunismi, della possibilità che il comunismo assuma altre ed originali forme, diverse da quelle più note che ha assunto nei due secoli precedenti e che difficilmente la storia futura consentirà di replicare. Del resto, le soggettività completamente immerse nei rapporti sociali contemporanei, non sono certo portate a pensare che il comunismo, in una forma teorica e pratica difforme da quella che ha assunto nel Novecento, potrà 48 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 riaffermarsi come nuovo paradigma ed alternativa concreta al modo di produzione dominante, alla società individualistica, frammentata ma per certi aspetti uniforme e “normalizzata” che questo modo di produzione ha generato, rappresentando un ostacolo ed un’alternativa futura al suo ferale tentativo di egemonizzazione del mondo attraverso il mercatismo e la finanziarizzazione. O tutto è rinviato ad un futuro remotissimo, in cui come nei romanzi d’anticipazione scientifica, un evento eclatante, una scoperta scientifica sensazionale, o una decisiva mutazione della natura umana renderanno possibile il superamento del capitalismo e del concetto di proprietà, oppure questo non avrà mai fine, e l’umanità continuerà indefinitamente ad arrancare in un delirio economicista in cui si monetizzeranno integralmente, oltre agli elementi fondamentali per la vita come l’acqua, anche i sogni, i ricordi e la speranza. I racconti grandi‐narrativi, a partire dall’avvento dello stadio finale comunistico e della definitiva liberazione dell’uomo realizzata dall’uomo, sembrano non funzionare più, e se oggi, in occidente, sono già materia per gli storici, fra un po’ lo saranno per gli antichisti. Tutte le Grandi Narrazioni pregresse appaiono ormai superate, tutte eccetto una: quella relativa all’emancipazione umana, all’avanzamento e al progresso garantiti dall’affermazione piena del rapporto sociale capitalistico, e del suo miglior compendio sul piano politico, la liberaldemocrazia. Se la storia la scrivono i vincitori, in una sintesi funzionale al consolidamento e all’estensione del loro potere, ciò vale anche nel caso del comunismo storico realmente esistito e degli eventi che ne hanno determinato l’ascesa e la caduta, a partire dalla parabola sovietica, o meglio, ciò è vero per l’intera storia del comunismo, prima e dopo delle grandi lezioni di Marx, Engels e Lenin, e di tutto pensiero filosofico, teorico e politico che ne sta alla base. C’è stato un conflitto finale nel Novecento, iniziato subito dopo la seconda guerra mondiale, e il neoliberismo – o il capitalismo ultraliberale globalista, o il neoliberalismo, che per lo scrivente non sono che facce della stessa medaglia – ha consentito la vittoria finale al capitalismo liberista in via di rapida trasformazione sull’insidiosa alternativa collettivistica sovietica, alcuni decenni dopo la sconfitta militare dei modelli antagonisti, di sostanza keynesiano‐dirigista‐militare, rappresentati dal fascismo e dal nazismo. Non senza un’amara ironia, si può affermare che l’Unione Sovietica, con il suo apparato militar‐industriale, la sua proiezione di potenza a livello mondiale e le sue testate nucleari puntate sull’occidente capitalistico, ha pienamente e concretamente realizzato, in termini geopolitici e con un respiro planetario, ciò che hanno scritto Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista del 1848: Il comunismo è ormai riconosciuto da tutte le potenze europee come una potenza. 49 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Se si concepisce in Novecento non quale “secolo delle ideologie assassine e degli orrori” e quale monito imperituro per le generazioni future – come vorrebbe l’invasiva propaganda liberal‐liberista per blandire lo spettro dell’Antagonismo –, ma come il secolo dello scontro per la supremazia fra modelli capitalistici e collettivistici, forse si riesce a fare un po’ di chiarezza sul perché questo modello di capitalismo sembra avere già consolidato, agli esordi del terzo millennio, la sua supremazia, non lasciando spazio neppure all’idea, alla mera possibilità teorica di un’alternativa. Il conflitto finale fra capitalismo liberista mutante e modello sovietico con connotati collettivistici si è risolto soltanto in apparenza in modo incruento, se pensiamo alle guerre ipocritamente definite “a bassa intensità”, scoppiate in seguito alla rapida dissoluzione dell’area di influenza sovietica, alla conseguente separazione delle province interne del gigante collettivista, come è accaduto, ad esempio, in Moldavia, in cui c’è stata la guerra della Transnistria, ben poco pubblicizzata dai principali media, oppure nel tormentato Caucaso, funestato dal conflitto armeno‐ azero per il Nagorno‐Karabakh, e dalla tragica vicenda della Cecenia, sfociata in un genocidio. La caduta dell’URSS è paragonabile ad una sorta di Big One, perché ha comportato scosse telluriche in tutto il mondo, ha prodotto crepe profonde in ogni angolo della terra, ben lungi dal pacificare il pianeta, ed ha aperto velocemente la strada alla cosiddetta globalizzazione neoliberista. Questa forma di globalizzazione, che non è certo l’unica possibile e forse non sarà l’ultima, rappresenta la massima espressione delle pulsioni di potere planetario della classe globale suscitate dall’illimitatezza capitalistica, e nel contempo la sintesi di nuove politiche economiche, di prassi liberoscambiste, di normative internazionali per abbattere tutte le possibili barriere allo scorrimento dei capitali. L’affermarsi di provvisori assetti geopolitici post bipolari, successiva al collasso sovietico, non è che un effetto fra i più rilevanti dell’egemonia di un capitalismo globale. Il primo “testimonial” della globalizzazione è certo la potenza americana, che ha sconfitto il modello antagonista sovietico e avviato un simile processo economico, politico e sociale di cambiamento, ma nuovi attori sono emersi di prepotenza nei contesti post bipolari, nel contempo quali concorrenti della potenza americana oggi in vistoso declino e futuri pilastri della globalizzazione, ed il più importante e insidioso fra queste potenze neomercatiste, ironia della sorte e della storia, formalmente mantiene una struttura di potere politico ed economico guidata da un partito che ancora si chiama comunista. La sconfitta finale del modello collettivistico novecentesco identificato con il comunismo e segnato dal momento dell’autodissoluzione sovietica, ha trascinato nella caduta la stessa idea del comunismo, generando discredito e demonizzazione, 50 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 in seguito ad un’abile operazione propagandistica orchestrata dei vincitori attraverso i loro apparati mediatico‐culturali, nei confronti di sparuti gruppi o di singoli che non soltanto osano definirsi comunisti, ma lo sono veramente. Ciò è avvenuto e avviene essenzialmente per impedire che il paradigma avverso abbia la possibilità di evolversi assumendo nuovi volti. In Cina la nuova classe globale, integralmente postmaoista e capitalistica, per mantenersi alla guida della massima potenzia industriale, commerciale e demografica dell’Asia, tiene artificialmente in vita il Partito Comunista Cinese, che ideologicamente ci appare come un guscio vuoto, un contenitore privo di qualsiasi contenuto alternativo al Capitalismo Mercatista Globalizzato. Il Nuovo Capitalismo, suscitato dalla mutazione genetica del liberal‐liberismo, non richiede lo smantellamento del Partito Comunista Cinese, se questo rappresenta essenzialmente un “club” sotto il pieno controllo dei globalisti locali, e nel contempo un efficace strumento di controllo sulla società e sulla struttura produttiva del paese. Il Partito Comunista Cinese, per certi versi, è un vecchio strumento ereditato dal maoismo, che consente un controllo diretto delle strutture statuali, delle risorse naturali, della moneta, dell’apparato industriale e dell’intera società. L’adozione paradigmatica dell’”economia socialista di mercato”, avvenuta in Cina all’inizio degli anni novanta [nel 1992, per la precisione], nello stesso anno della fine formale dell’Unione Sovietica [primo gennaio 1992] sancisce il momento formale – ma non sostanziale, perché questo è precedente – del passaggio dal comunismo maoista‐confuciano‐orientale della Lunga Marcia e della Rivoluzione Culturale al capitalismo mercatista in procinto di diventare egemone. Dietro la stella rossa cinese a cinque punte, sopravvissuta come simulacro, vi è un sistema di comando che funziona, diverso nell’organizzazione, ma non negli scopi strategici di domino, dalla catena di comando attivata dai globalisti occidentali ed articolata su tre livelli: centri decisionali effettivi, spesso informali e costituiti in veste di club o di forum [Bilderberg, Davos, eccetera], organi della mondializzazione incaricati di gestire politiche congruenti con gli interessi della Strategic Global class [F.M.I., B.M., U.E.M., e altri], stati nazionali e federazioni che trasmettono verso il basso tali politiche, recependole a livello governativo e legislativo quale vera e propria “catena di trasmissione finale” dei diktat globalisti. Quanto precede non dovrebbe stupire, e non ha senso a riguardo degli attuali vertici “comunisti” cinesi parlare di tradimento del comunismo, pur nella specifica variante maoista, perché sono le politiche e la prassi del Capitalismo Mercatista Globalizzato, nate in America e in occidente, che hanno reso possibile, ed anzi hanno generato artificialmente il cosiddetto miracolo cinese, producendo quel Frankenstein produttivo e commerciale che costituirà, in futuro, il maggior pilastro e il principale alfiere della globalizzazione. 51 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’avvio della globalizzazione neoliberista e l’espansione del commercio mondiale hanno fatto la fortuna delle élite locali, che si sono inserite nel Grande Gioco come topi nel formaggio e la celebre frase di Deng Xiaoping apprezzata per il pragmatismo che rivela – non ha importanza di che colore è il gatto, purché prenda i topi – lo testimonia efficacemente. Non esistendo più, se non come simbolo e come mero nome di un’organizzazione di potere e di controllo capital‐globalista, il comunismo cinese non rappresenta più un problema né un’alternativa integrale. Il comunismo, in Cina, è entrato in coma irreversibile alla metà esatta degli anni settanta del Novecento, quando lo storico compagno di Mao, Zhou Enlai, l’anno precedente a quello della sua morte [e a quella dello stesso Mao Zedong] diede inizio alla cosiddetta modernizzazione del paese, proseguita con le riforme economiche proposte e attuate da Deng Xiaoping, in una lunga marcia attraverso gli ultimi decenni del Novecento, fino all’ammissione formale nell’O.M.C. del 2001. Questa volta la lunga marcia iniziata da Zhou Enlai, continuata da Deng Xiaoping e dai suoi successori, non era diretta verso il comunismo, perché è andata nella direzione opposta, e cioè nella direzione del nascente capitalismo globale. Coloro che seguono ancora il Paradigma Marxista Tradizionale, non di rado si aggrappano all’idea di una Cina che è ancora “socialista”, poiché vi è pur sempre la proprietà pubblica del suolo, perché esiste ancora un Partito Comunista che centralizza decisioni e controllo, perché i capitali occidentali e multinazionali sono entrati solo con il placet del governo e del partito, e via dicendo, ignorando, fra i molti aspetti negativi, che lo sviluppo cinese si è fondato su una mercificazione del lavoro in fabbrica degna del peggior liberismo, oppure che per inondare di prodotti a basso costo il mercato americano e quello europeo si toglievano le terre ai contadini irreggimentandoli nelle unità produttive. Altrove, in occidente, in Europa e nel mondo, accanto alle sopravvivenze sempre più catacombali del marxismo novecentesco da seconda o terza internazionale, accanto alla Fortezza Cuba da tempo assediata e sempre meno importante, anche su di un piano meramente simbolico, e nonostante le aspre battaglie contadine in America Indio‐Latina e in India, con le quali simpatizziamo ma che ci ricordano fin troppo i moti per l’emancipazione consumatisi nel vecchio continente, in momenti storici ormai lontani, possiamo scorgere distintamente tre nuove forme comunistiche [si passi l’espressione], che escono dai territori della tradizione marxista e vanno in direzioni diverse, in verità, in direzioni molto diverse se non opposte. Si può quindi parlare dei “tre comunismi”, differenti l’uno dall’altro nei presupposti, negli obbiettivi e nella sostanza, perché ciascuno di questi prefigura un mondo completamente diverso, se non opposto, a quello prefigurato dagli altri. 52 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il Paradigma Marxista Tradizionale, abbandonato da un ceto intellettuale opportunista e infedele, sconfitto assieme a quel modello collettivistico sovietico che fu la sua principale risultante storica, dovrà perciò confrontarsi con nuove visioni del comunismo, della classe, del processo rivoluzionario e dei suoi attori. Il superamento del corpus teorico marxista otto‐novecentesco, eresie e non‐ conformismi compresi [da Lenin, il primo riformatore, all’Althusser del materialismo aleatorio], ci pare inevitabile, perché la storia non si ferma e l’elaborazione teorica, ancor prima di anticipare il nuovo, segue la corrente dei cambianti culturali, sociali e politici. Di seguito l’elencazione dei tre comunismi, in un ordine che non è di importanza decrescente o di “potenzialità rivoluzionarie” effettive – poiché se così sarebbe, a sommesso avviso di chi scrive, il terzo dovrebbe diventare il primo – ma in un ordine meramente cronologico: 1) Comunismo individualistico. 2) Comunismo moltitudinario. 3) Comunismo comunitario. A ciascuno dei tre comunismi che caratterizzano il nostro presente, è opportuno dedicare uno specifico capitolo nell’economia del presente saggio. 53 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Comunismo individualistico Le passeggiate londinesi di Engels non furono infruttuose, poiché gli consentirono di comprendere le trasformazioni imposte all’uomo dal capitalismo, nel paese che nel 1845 ne costituiva la punta più avanzata. Isolati nel loro interesse personale, dediti al suo perseguimento egoistico – isolamento ed egoismo, come sappiamo, ben si sposano con l’individuo liberale e ne definiscono i lineamenti – i londinesi non si avvedevano di quella che Engels stesso definì la decomposizione dell’umanità in monadi. L’atomizzazione della società, la frantumazione progressiva dell’ordine sociale precapitalistico e la sua ricomposizione in un reticolo di scambi commerciali, in cui non può che dominare il valore di scambio della Merce, sono altrettante conseguenze inevitabili dell’affermazione del rapporto sociale capitalistico. Le sensazioni e le osservazioni di Engels furono condivise da Marx, che legò indissolubilmente l’individualismo egoistico del tempo al dominio del capitale ed alla costrizione dei rapporti classisti, mentre riconobbe che soltanto nella comunità reale è possibile la libertà personale e che solo in quello ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni [L’ideologia tedesca]. In effetti, comunismo e individualismo non stanno bene insieme, fin dai tempi di Marx ed Engels, ed allora perché usare l’espressione comunismo individualistico, che ha un vago sapore aporetico? La verità è che il rapporto sociale capitalistico ha avuto fin dalle origini una base individualistica, e dopo la sua vittoria su quello che potremo definire il rapporto sociale collettivistico sovietico, la visione del mondo liberalcapitalista, ormai egemone, e il conseguente rapporto sociale sono dilagati ovunque, vincendo molta parte delle resistenze sociali, culturali, religiose ed economiche, fino a permeare le stesse società ex‐sovietiche dell’Europa orientale e buona parte del mondo che fu comunista. L’insidia della contaminazione capitalistico‐individualista parte da lontano, ben da prima del crollo del muro di Berlino, e per la precisione parte dallo stesso pensiero originale di Marx, come ha rilevato con estrema chiarezza Costanzo Preve: E’ possibile volere il moderno senza capitalismo, o si tratta di un programma contraddittorio? A lungo il pensiero “progressista”, a partire da Marx, rispose di sì, e chiamò sbrigativamente “dialettica” questa pretesa, per cui il socialismo‐comunismo avrebbe “ereditato” gli aspetti positivi della modernità (progresso scientifico, razionalismo filosofico, eguaglianza politica, libertà di espressione, rafforzamento dell’autonomia dell’individuo, indebolimento della sovranità religiosa, eccetera) e ne avrebbe “superato” gli aspetti negativi (individualismo anomico, disuguaglianze sociali sulla base della proprietà privata, indebolimento delle solidarietà comunitarie, eccetera) [Costanzo Preve, Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale]. 54 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Come si dovrebbe ben comprendere, la tanto celebrata Modernità che impone rapporti di produzione, stili di vita e ineguaglianze sociali funzionali agli interessi dominanti, altro non è che un diverso nome assunto dal capitalismo, un escamotage per far digerire meglio la sua affermazione storica e la sua crescente onninvasività, ed è quindi l’altro nome, più accattivante e “vischioso”, che si assegna con intenti mistificatori al rapporto sociale capitalistico. Se gli intellettuali di formazione marxista sono stati, in parte significativa, fagocitati negli apparati culturali ed ideologici del Capitalismo Mercatista Globale del terzo millennio, dopo la débâcle sovietica, ed hanno aderito ad una visione relativista, individualistica, persino nichilista che pregna il “nuovo mondo culturale globalizzato”, è chiaro che tale subalternità non può non essersi concretamente riflessa sul piano politico, in cui i resti del comunismo novecentesco, abbandonato l’antagonismo anti‐capitalistico, il riferimento alla classe e alla lotta di classe, approssimano la peggior “sinistra” interna al rapporto di capitale, e scivolano progressivamente in quella zona di grigia di subalternità sistemica che è definibile, appunto, con l’espressione apparentemente contraddittoria “comunismo individualistico”. Da un punto di vista filosofico, Nietzsche pesa più di Marx nella stessa sinistra semicolta e intellettuale, da un punto di vista sociale, la lotta di classe la fanno soltanto i dominanti, per schietta ammissione di Warren Buffet, e la stanno vincendo, precarizzando e sottopagando il lavoro a piacimento, da un punto di vista politico, s’impone l’accettazione formale e sostanziale della liberaldemocrazia e dei suoi riti, in una generale “libertà obbligatoria”, ma soltanto di voto, che non è libertà. Come si chiarito in precedenza, è sempre il vincitore a imporre le sue regole ai vinti, ad operare riletture interessate della storia, a decidere per il futuro di tutti, e nel nostro caso il vincitore è il Capitalismo Mercatista Globalizzato. Ancora una volta è bene riportare le parole del filosofo Costanzo Preve, per un’ulteriore conferma di quanto precede: La cultura dell’attuale forma degenerata di sinistra è a tutti gli effetti una forma di individualismo relativistico che finge di criticare il capitalismo e nello stesso tempo ne adotta in forma esagerata e caricaturale il fondamento filosofico (negazione della verità, negazione del carattere conoscitivo e non semplicemente metodologico dell’attività filosofica, esaltazione di ogni tipo di marginalità, frammentazione del genere umano in “omo” ed “etero”, adozione del cosiddetto “marxismo” in versione puramente sindacalistica, futuristica ed antitradizionalistica, eccetera) [Ibidem]. Se la stella rossa cinese, e dal punto di vista delle alternative sistemiche al capitalismo del terzo millennio lo stesso partito comunista locale, sopravvivono oggi come simulacri – la prima quale simbolo immemore, ormai indecifrabile, che 55 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 ha perso ogni reale connotato rivoluzionario, e il secondo come efficace strumento di controllo elitistico – i simboli della trazione comunista, nel comunismo “individualistico” occidentale, ci appaiono egualmente svuotati di contenuti concreti, e Marx, pur sempre scomodato, ci sembra come una tigre dalle unghie spuntate, se il suo pensiero è stato epurato della lotta di classe e spurgato di ogni contenuto rivoluzionario, intermodale e trasformativo. Marx è diventato, per tale via, un innocuo moralista condannato a bacchettare senza alcun costrutto il capitalismo, a stigmatizzare vanamente le spaventose e crescenti ineguaglianze sociali che l’applicazione delle sue logiche produce. Sotto queste etichette politiche, anche quando vi è nel nome e nel simbolo il diretto richiamo alla tradizione comunista, si nascondono istanze debolmente [non di rado ipocritamente] riformiste, pulsioni di natura liberalsocialista, o blandamente socialdemocratica, che rivelano l’appartenenza di queste formazioni, dei cartelli elettorali che organizzano, dei partiti e dei partitini che costituiscono, all’ala sinistra dell’unico Partito della Riproduzione Capitalistica, il quale, nella realtà, al suo interno è coeso e ferreamente centralizzato, in quanto agli scopi che si prefigge [mantenimento della proprietà privata, libertà di circolazione dei capitali e delle merci, compressione del lavoro] ed agli obbiettivi politici e sociali perseguiti [mantenimento ed espansione della cosiddetta società di mercato, difesa della liberaldemocrazia, negazione dell’antagonismo classista, eccetera]. Nel solco del politicamente corretto e all’interno dei parlamenti liberaldemocratici si muovono queste formazioni, frutto di una mutazione epocale del comunismo novecentesco sconfitto, che nella realtà del presente è il sintomo di una vistosa involuzione culturale e politica, imposta dalle necessità di sopravvivenza politica dei partiti e dalle necessità di sopravvivenza personale di funzionari, intellettuali e capi, pur pagando a tale fine un prezzo altissimo, che implica la sconfessione del proprio passato e la rinuncia alla propria stessa natura. Da un’altra angolazione, nel DNA di questi movimenti sono stati abbondantemente inoculati i germi del liberismo e dell’individualismo di matrice capitalistica, per impedire che risorga un’agguerrita opposizione comunista sul piano politico e su quello sociale. Il cosiddetto vetero‐comunismo tende ad eclissarsi e al suo posto compare una nuova declinazione dell’individualismo, quella comunistica. In Italia, il comunismo individualistico è stato ben rappresentato dal “bertinottismo” che dominò a suo tempo il partito della Rifondazione Comunista, ed oggi si ricostituisce in forma diversa – dopo la sconfitta elettorale del 2008 che ha letteralmente spazzato dal parlamento via i partiti autodefinitisi comunisti ed ecologisti – con Sinistra Ecologia e Libertà del poeta Nicola Vendola, detto Nichi, che ha furbescamente deciso di non conservare, né nel nome né nel simbolo, un diretto riferimento alla tradizione comunista dello scorso millennio. 56 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La sconfitta elettorale del 2008, nelle elezioni politiche che hanno riportato al governo la destra sistemica con un’ampia maggioranza, hanno conosciuto lo strano fenomeno degli operai del nord, e di altri lavoratori dipendenti, che hanno riversato il loro voto sulla Lega di Bossi – quindi su un partito xenofobo, in origine separatista, costruito intorno agli interessi del commercio e della piccola industria settentrionale – proprio perché orfani di rappresentanza politica, negatagli dai “bertinottiani” e del resto della cosiddetta sinistra massimalista. La lotta di classe, l’antagonismo sociale e politico senza compromessi, l’esternità al sistema liberaldemocratico, sono stati integralmente sostituiti dalle battaglie in favore dei “diritti umani” [quegli stessi “diritti umani” in nome dei quali sono stati bombardati e invasi Iraq ed Afghanistan, e i quali hanno la funzione di far passare in secondo piano il fondamentale diritto al lavoro, qui e adesso], della diversità da tutelare sempre e comunque e dei diritti delle sole minoranze [occupandosi dei matrimoni gay, delle piacevolezze folkloristiche dei gay pride, dell’omofobia diffusa, ponendo volutamente in ombra la condizione di de‐emacipazione in cui versa la maggioranza], dalle battaglie di retroguardia di un ecologismo salottiero e di maniera [espresse in passato dalla componente “verde” sistemica, che non ha certo rallentato la distruzione dell’ambiente, ma forse ha dato qualche impulso al business ecologico], e perché no, contro la cacca dei cani sui marciapiedi … A titolo d’esempio, facendo riferimento all’Italia ed al comunismo individualistico, che si è sostituito a quello novecentesco occupando all’interno del sistema spazi politici sempre più angusti, è bene riportare di seguito la chiosa finale della mozione congressuale vendoliana, sconfitta nel VII congresso di Rifondazione Comunista del 2008: Consideriamo la critica alla cultura maschile e monosessuata del partito un impegno prioritario, nella prossima fase, della nostra azione politica interna all’organizzazione. La critica alla cultura maschile e monosessuata, in tali contesti, è giudicata di gran lunga più importante e pagante, in termini elettorali, di accesso ai media, della stessa affermazione personale dei quadri dirigenti, del concreto appoggio politico offerto alle lotte dei lavoratori e a quelle per il lavoro nella penisola. Portando un altro piccolo ma significativo esempio di involuzione negli scopi e nei programmi politici del comunismo individualistico, rispetto a quello novecentesco e soprattutto rispetto a quello rivoluzionario, durante il congresso fondativo fiorentino del SEL [ottobre 2010], il leader‐poeta e buon oratore [detto senza alcuna ironia] ha pronunciato davanti alle centinaia di delegati presenti le seguenti parole: Compagni, dobbiamo smettere di perdere bene tutte le battaglie. Dobbiamo vincere, e vincere e bene. E la parola per farlo, per tenere insieme tutto, sarà bellezza. Bellezza nelle relazioni, la bellezza dell’incontrarsi tra il mondo vivente umano e non umano, bellezza nello scoprirsi gay e nel riuscire a dirlo rompendo il silenzio che ti fa paura. 57 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Si abbandona il vecchio ed impervio cammino scegliendo un’altra strada, più comoda e remunerativa, ancorché mascherata dalla disinteressata “bellezza delle relazioni”e dagli incontri fra tutti i viventi, umani e non, tesserati e non tesserati. La nuova strada maestra è quella della sudditanza alle logiche sistemiche, che consente di patrocinare “battaglie libertarie” politicamente corrette, sullo stile dei radicali di Bonino e Pannella, di inserirsi nei dibattiti pubblico‐mediatici relativi al costume, di dire tutte le corbellerie che si vogliono, purché non disturbino il manovratore, ma non prevede la rappresentanza effettiva dei subalterni, per aggregare ed organizzare la protesta e dare un preciso obbiettivo politico all’antagonismo sociale. Per molti, anzi, per moltissimi, non vi è bellezza nelle relazioni mondane che contano, e cioè negli attuali rapporti di produzione, come non vi è leggiadria nei contratti di lavoro a chiamata, o fascinazione in una paga globale che non si sa se sarà riscossa il mese successivo. L’alternativa che il comunismo individualistico configura è certamente debole, se non fittizia, quale espressione di un riformismo del tutto insufficiente dallo stesso punto di vista socialdemocratico e ri‐distributivo, o delle tradizionali politiche economiche keynesiane, che non hanno mai avuto una sostanza anticapitalistica. Questa alternativa posticcia al capitalismo del terzo millennio, anche se si autodefinisce pubblicamente comunista, riporta ad una visione dell’uomo e del mondo di matrice squisitamente libertario‐liberal‐liberista, che traspare con chiarezza disarmante dai programmi, dagli slogan, dalle dichiarazioni del leader del momento, dalla linea politica di subalternità agli interessi dominanti, ed è una visione non certo sgradita, o tanto meno d’ostacolo, al neoliberismo imperante ed ai cosiddetti poteri forti d’oltre Atlantico. Si discute di vacue libertà civili artificiosamente separate dai diritti dei lavoratori e dal riconoscimento della dignità del Lavoro, si lotta contro l’omofobia e per l’affermazione dell’eccezione familiare, si dibatte di questioni che riguardano aspetti del costume e la morale individuale – tutte cose ammesse nell’ordine capitalistico contemporaneo, che anzi le incoraggia – facendo bene attenzione a non disturbare la riproduzione capitalistica, a non interferire con il processo di sussunzione integrale della società al Capitale. Non un accenno alla necessità di ri‐nazionalizzazione del sistema bancario, all’indispensabile ripristino della sovranità nazionale sulla moneta, all’urgenza delle nazionalizzazioni in campo industriale [vedi il caso Fiat] per garantire un lavoro dignitoso e un reddito decoroso alla grande maggioranza della popolazione. Si ignorano così i reali rapporti di produzione dell’epoca e si evita lo scontro frontale con gli insidiosi potentati globalisti, in un’accettazione passiva – da autentico succube politico – delle dinamiche del capitalismo finanziarizzato, della 58 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 tirannia degli organi della mondializzazione, a partire dal F.M.I. e dall’Unione Europea, e delle “alleanze internazionali” che vincolano il paese. Il modello di società proposto, peraltro confusamente da queste formazioni politiche, ricalca i lineamenti essenziali della società aperta capitalistico‐globale, ed il libertarismo ostentato, con le sue molte sfaccettature che vanno dal sostegno all’eccezione familiare alla tolleranza nei confronti del dilagante consumo di droghe, pone in ombra le vere questioni sociali, e quindi etiche, poste dal capitalismo contemporaneo. Se in alcune circostanze queste formazioni politiche appoggiano formalmente lotte sindacali, rivolte contro il processo di de‐emancipazione capitalistica e gli incessanti attacchi condotti contro il lavoro, se mostrano qualche superficiale simpatia per le proteste di precari e disoccupati, si impegnano controvoglia su questo terreno, come se fossero state colte in contropiede, e lo fanno in un modo del tutto strumentale, senza una vera partecipazione alla lotta e senza concedere un’effettiva rappresentanza ai resistenti. Partecipano ai cortei sindacali, come quello della Fiom di sabato 16 ottobre 2010 a Roma, inalberando bandiere e ostentando vessilli, con il puro ma non dichiarato scopo di mantenere ed estendere il consenso elettorale per i loro cartelli. In ultimo, è certamente vero che in Italia scontiamo la particolarità negativa del “berlusconismo”, che ha generato il suo contraltare, quel ”antiberlusconismo” al quale aderisce pubblicamente l’area del comunismo individualistico, ma anche se il “berlusconismo” sparisse miracolosamente da un momento all’altro – contestualmente a Berlusconi, cosa che però non sarà possibile, dato il suo pernicioso e ultradecennale radicamento – i termini della questione sostanzialmente non cambierebbero, o quantomeno non cambierebbero di molto, mantenendosi nella sostanza. Fuori dell’Italia, per quel poco che lo scrivente conosce della situazione politica francese, si può notare come il locale partito socialista [PS] abbia da tempo aderito alla variante sistemica liberalsocialista, ed il partito comunista che fu di Marchais [PCF, nato nel 1920 e tuttora in vita], dopo l’estinzione politica dell’eurocomunismo e il compimento della parabola sovietica, esprime delle istanze squisitamente e blandamente socialdemocratiche, in una situazione meno degradata e compromessa di quella italiana, ma pur sempre tendente all’affermazione piena di un comunismo individualistico. Nella Germania unificata e federale, che si fa passare per la “locomotiva produttiva” di un’Europa sostanzialmente monetaria e commerciale, esiste la Linke [Die Linke, La Sinistra], prodotto dell’unione di ex‐comunisti orientali [Gysi], eredi del partito comunista dell’est [SED], e di dissidenti socialdemocratici occidentali [Lafontaine], la quale è nata all’interno dell’attuale sistema politico, ne accetta in toto le regole, siede comodamente nel Bundestag e sostanzialmente si limita a 59 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 mendicare qualche miglioramento per i lavoratori, non riuscendo a bloccare le politiche governative che aprono progressivamente alla globalizzazione neoliberista, centrando il sistema produttivo su esportazioni e competitività internazionale, e di conseguenza chiudendo progressivamente le porte al lavoro ed alla socialità. Anche quando i leader politici di queste formazioni tuonano, in modo generico, contro il sistema bancario “da nazionalizzare”, oppure contro le imprese private che licenziano, lo fanno propagandisticamente, ben sapendo che non è dato derogare alle politiche liberiste in atto. In verità questi leader sanno benissimo, come ha preconizzato l’ultraliberista Milton Friedman nel suo Capitalism and freedom del 1962 [la nuova “bibbia capitalistica” del ventunesimo secolo, a parere di chi scrive], che il ruolo che il governo deve svolgere in una società consacrata alla libertà, e che si fonda essenzialmente sul mercato come strumento di organizzazione dell’attività economica, è sostanzialmente quello di sponsor del mercato stesso, salvaguardando in primo luogo la sua competitività, e ciò è vero ed è imposto particolarmente oggi, cioè nell’era in cui il paradigma liberista estremo della Creazione del Valore si afferma in tutta la sua invasività predatoria. Questo è il comunismo individualistico, detto semplicemente e in poche parole, dato il suo ruolo preminente di “specchietto per le allodole”, funzionale al sistema di potere capital‐elitistico che ci domina e al mantenimento delle sue strutture di domino. Il compito prioritario assegnato dall’unico Partito della Riproduzione Capitalistica al falso comunismo di matrice individualistica, sembra essere quello di intercettare la protesta sociale e di neutralizzarla prima che dilaghi e si radicalizzi, facendola deragliare sui soliti binari morti. Una ben misera fine, all’ombra dei vincitori e dei simboli del loro dominio, per gli epigoni sbiaditi di una gloriosa tradizione … 60 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Comunismo moltitudinario Il comunismo delle moltitudini ha un padre, il professor Antonio Negri, e un antenato di rango nell’operaismo novecentesco, diffusosi in Italia per opera di Panzieri, Tronti e [appunto] dello stesso Negri. Si potrebbe insinuare, con qualche malizia, che le moltitudini negriane sulle quali si fonda l’intero discorso del comunismo qui definito, appunto, comunismo moltitudinario, altro non rappresentano se non un abile mascheramento dell’operaismo novecentesco, nella variante specifica e ultima dell’operaismo diffuso. Ma sappiamo bene che da Quaderni Rossi, storica rivista degli anni sessanta che aprì la strada ad una “nuova sinistra” e alle istanze operaiste, ad Impero, il primo libro di Toni Negri e Michael Hardt in cui le moltitudini fanno irruzione, in particolare e come nuovo soggetto antagonista sostitutivo della classe nell’ultimo capitolo dell’ultima sezione [Le moltitudini contro l’impero], sono trascorsi alcuni decenni decisivi, quanto a cambiamenti nell’ordine economico e nella struttura sociale, sul piano culturale come su quello dei rapporti di forza internazionali, e nella stessa percezione che hanno di sé e della propria condizione i subordinati. Non sarebbe, quindi, del tutto corretto chiudere la questione stabilendo un’equazione troppo semplicistica, del tipo operaismo uguale moltitudini, e sulla base di questa unica equazione formulare una sentenza inappellabile. Si rende perciò necessario affrontare la questione in maggior dettaglio e con tutte le articolazioni del caso in questo capitolo, in cui si approfitterà per presentare una breve recensione dell’ultima fatica letteraria di Negri e Hardt, che nell’edizione italiana ha un titolo vagamente evocativo: Comune. Ed allora, cominciamo pure a descrivere, nei limiti dei nostri mezzi e dal nostro punto di vista, i tratti essenziali del comunismo moltitudinario negriano. Esiste da qualche tempo un impero planetario, privo di un vero e proprio centro, acefalo o ancor più probabilmente dotato di molte teste come l’Idra, la cui costituzione materiale si forma ai confini, che si spostano continuamente generando conflitti ed opposizioni, fino ad abbracciare l’intero globo terracqueo. Un impero anomalo, non ancora ben definito per quanto concerne le strutture di potere effettive, della cui esistenza concreta, prima di leggere l’affascinante trilogia letteraria di Negri e Hardt – Impero, Moltitudini e Comune – per nostra pochezza o per distrazione non ci eravamo accorti. Ma, come è scritto con chiarezza nella prefazione all’edizione italiana di Impero, L’impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi, frutto di un nuovo ordine globale, di una nuova logica e di una nuova struttura di potere, che tutti insieme generano una nuova forma di sovranità. 61 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Avverte, però, il professor Antonio Negri, che non si tratta banalmente del cosiddetto impero americano, la cui autorità è stata affermata con forza attraverso il dominio della finanza, il liberoscambismo mondiale e qualche sanguinosa guerra “di confine”, subito dopo il collasso sovietico e la vittoria del capitalismo liberista mutante, ma di un impero nuovo di zecca, in via di costituzione, che non ha niente che vedere con i vecchi imperialismi ai quali la storia ci ha purtroppo abituato. Che sia una sorta di Sacro Romano Impero Planetario, senza un imperatore fisicamente riconoscibile, quale centro del mondo conosciuto e mediatore fra province, principi, popoli e regni, nel remoto ricordo del principato augusteo che caratterizzò il primo Impero Romano e del successivo tentativo di restaurazione imperiale romano‐barbarico, d’ispirazione cristiana, iniziato nel IX secolo dopo Cristo con l’augusto Carlo Magno e concretizzatosi nel secolo successivo? Oppure si tratta di una sintesi ultracapitalistica e futuribile, oggi in embrione, che si struttura in forma reticolare e sulla base di unʹinterpretazione globale della moderna governance aziendalistica, piuttosto che su vecchi impianti di potere ormai superati e inapplicabili, riecheggiando vagamente il trust mondiale ultracapitalista del “rinnegato Kautsky”, secondo la cortese espressione usata a suo tempo da Lenin? Pur restando lo scrivente nell’incertezza, alcuni elementi di giudizio Negri e Hardt ce li forniscono, nella loro godibile trilogia, e quindi è bene esporli criticamente di seguito, con l’avvertenza che nell’economia del pregevole saggio letterario, articolato in tre tomi, il terzo punto è decisivo: 1) Come si è già rilevato, l’impero non corrisponde all’impero americano, perché questa è una vecchia forma di imperialismo otto‐novecentesco, orami storicamente superata e dominata da aristocrazie neoconservatrici, che hanno tentato un colpo di stato contro il nuovo ordine imperiale in via di costituzione. Il golpe è miseramente fallito, sia un punto di vista militare [in Iraq e in Afghanistan anzitutto] sia da un punto di vista economico [il neoliberismo si è dimostrato incapace di sviluppare la produzione, agendo con successo unicamente sul fronte ri‐distributivo, ad esclusivo vantaggio dei ricchi]. Il colpo di stato americanocentrico contro l’impero negriano non è dunque riuscito – tiriamo tutti un sospiro di sollievo? – come testimonia chiaramente la prima crisi globale, manifestatasi a partire dal 2007, e il nuovo secolo, lungi dall’essere americano si apre non certo al multilateralismo, anche lui superato quanto l’unilateralismo e l’equilibrio bipolare, ma a nuove ed inedite possibilità rivoluzionarie, intimamente connesse alla natura costitutiva dell’impero ed alle caratteristiche della produzione contemporanea. Il fallimento del colpo di mano statunitense, guidato dalle aristocrazie locali, ricorda un poco, a chi scrive, i tentativi dell’aristocrazia continentale europea, in primo luogo francese, di mettersi alla testa delle rivolte del popolo contro l’insorgente capitalismo, criticando il nuovo modo di produzione e il mondo culturale borghese in via di 62 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 affermazione storica. Aristocrazie che ormai stavano perdendo il controllo, a tutto vantaggio della borghesia in ascesa, del “capitale economico” e di quello “culturale”, e quindi cercavano di mantenerlo, almeno in parte, sul “capitale sociale” e su quello “simbolico”, sui quali la presa era ancora un po’ più forte. 2) Dopo il fallimento del golpe a stelle e strisce, vi è logicamente il ritorno dell’Impero, il quale è caratterizzato dalla non‐polarità, come scrivono Negri e Hardt nell’ultimo libro della trilogia imperial‐moltitudinaria, Comune, e la compagine imperiale del terzo millennio appare, nel loro racconto, ancora in via di edificazione. L’impero è una sorta di “work in progress” planetario, un cantiere aperto in cui continua incessante la costruzione del nuovo, poiché è caratterizzato da una pluralità di poli e una corrente continua di attività svolte da attori statuali e non statuali finalizzate alla costruzione di nuovi assemblaggi, a sperimentare nuove forme di potere, a determinare norme, pratiche di regolazione, procedure di gestione [Comune. Oltre il privato e il pubblico]. Nell’attuale interregno, gli stati nazionali perdono la loro preminenza e il Forum elitista di Davos sta diventando più importante di Washington. E’ proprio per questa non‐polarità caratterizzante le nuove strutture di potere, che nonostante la fine del controllo unilaterale e multilaterale la globalizzazione continua. Pur nella loro incompletezza, parzialità, e fragilità [le aristocrazie neoconservatrici nordamericane avrebbero potuto anche riuscire nei loro intenti golpisti e restauratori…] le peculiari forme amministrative, di regolazione e di controllo imperiale sembrerebbero affermarsi. Si procede con la cosiddetta governance globale, irriducibile ad un unico centro di potere ed intesa dai due autori come un processo dell’autoregolazione dei rapporti e degli scambi tra interessi fatti valere da soggetti che consentono di confrontarsi entro un contesto giurisdizionale poliarchico e pluralistico [Ibidem]. Questo dovrebbe essere, in sé, un processo costituente aperto, straordinariamente flessibile e pluralistico. Tuttavia, forse accorgendosi che la globalizzazione neoliberista mai interrotta da alcuno [e tanto meno dai “golpisti” USA] sembra a chi la subisce un processo imposto dall’alto, piuttosto che qualcosa di pluralistico e largamente condiviso, nato dal basso, Negri e Hardt correggono prontamente il tiro, affermando che la governance non va confusa con la democrazia [ibidem]. La pluralità di attori che la caratterizzano, nel nuovo ordine imperiale in via di costruzione, è parte di uno strato oligarchico di poteri gerarchicamente concatenati tra loro [ibidem]. Oltre ai vecchi stati‐nazione, grandi multinazionali, club elitistici, organizzazioni non governative, entità sopranazionali e simili dominano incontrastati, ammettono i due, e le disuguaglianze, gli squilibri geografici e sociali nella distribuzione della ricchezza funzionano ancora, quali divisioni costitutive nella formazione dell’impero, anzi, possiamo aggiungere, sono destinati nell’interregno a crescere e a diventare intollerabili. 63 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 3) L’impero negriano è sopravvissuto al tentato colpo di mano statunitense per un New American Century, neoliberista e neoconservatore, progetto ormai clamorosamente fallito, come dimostrano l’esito delle guerre americane e la crisi globale, ma ha comunque un nemico insidioso che l’affosserà, e questo forse accadrà già nei primi decenni del ventunesimo secolo. Se l’impero, come abbiamo detto, è flessibile, “reticolare” ed elitisticamente pluralista, ma è anche fragile ed incompiuto, attraverso l’esaltazione delle grandi disuguaglianze e l’appropriazione di quote crescenti del prodotto sociale da parte delle sue aristocrazie [i “ricchi”], lo stesso genera un potenziale rivoluzionario più grande di tutti quelli fino ad ora conosciuti. Questo potenziale si incarna, genericamente, nella massa dei poveri, degli sfruttati e dei sottomessi, che altro non è se non la moltitudine nemica dell’impero. I poveri del mondo fanno parte della moltitudine. Ma è possibile, obbietterà sicuramente qualcuno, che dei veri poveri sotto la soglia della sussistenza e subalterni non ancora alla fame, ma comunque soggetti agli efficienti dispositivi di dominio di questo capitalismo, potranno, in sé, costituire una reale minaccia per “l’ordine imperiale “ in via di formazione? E ancora: quale è dunque la sorgente della loro forza? Nella “trama” della trilogia negriana un rilievo fondamentale è dato al concetto di “produzione biopolitica” ed al tramonto della produzione industriale classica. Delle moltitudini e della produzione biopolitica, fino alla produzione dell’uomo da parte dell’uomo, nonché della povertà e dei suoi potenziali inespressi [per così dire], è necessario discutere in modo più approfondito, perché costituiscono il vero cuore dell’opera di Antonio Negri e Michael Hardt. Come accade in certi romanzi, dopo il cattivo entra in scena il buono per contrastarlo e porre fine alle sue nefandezze. Il declino e la caduta dell’impero [dal titolo della sezione finale dell’omonimo libro] e la conseguente vittoria della moltitudine, destinata a farci entrare nell’era della democrazia globale, sono già impliciti nelle premesse e nei cambiamenti che hanno portato alla genesi della nuova compagine imperiale. Partendo da questo semplice assunto, dobbiamo chiederci in primo luogo cosa sono le moltitudini, se veramente esistono e se effettivamente rappresentano ciò che Negri e Hardt ci fanno credere, e per quali ragioni sono destinate a vincere, alla lunga, l’epocale confronto con l’impero negriano. Ma c’è un altro punto fondamentale da considerare: quello della produzione biopolitica che ha ormai sostituito il vecchio sistema capitalistico della fabbrica, incentrato sulla produzione industriale di beni. La moltitudine è intimamente legata al concetto di produzione biopolitica, e nell’economia della trilogia saggistico‐letterario di Negri e Hardt senza di questa non avrebbe alcuna vera forza da opporre al potere imperiale che si sta affermando. Per dare una definizione di biopolitica comprensibile a tutti si può ricorrere alle parole di Paolo Virno, il quale, in un breve documento presente in rete e 64 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 gratuitamente fruibile, dal titolo Moltitudine e natura umana [del 14/05/2005], la definisce come la politica applicata direttamente alla vita, non alla vita in generale ma a quella umana in particolare, e cioè ai processi vitali della specie alla quale apparteniamo, sostenendo che il ritorno del concetto di natura umana è legato alla nozione di moltitudine. Da una diversa angolazione, considerando quella che è l’etimologia della parola “biopolitica”, rileviamo la sua origine greca, derivante dall’unione di bios, cioè vita, e polis, ovverosia città, il che ci riporta, semplicemente, alla vita della città, quella città che per gli Elleni rappresentava non soltanto un luogo fisico, in cui si concentravano determinate attività economiche e in cui si consumavano i prodotti del contado, ma lo spazio politico e di libertà per eccellenza. Non a caso si legge in Comune, con riferimento alla città, quale sede privilegiata delle singolarità moltitudinarie e terreno d’incontro e di confronto politico, la metropoli è per la moltitudine ciò che la fabbrica era per la classe operaia. Negri, con Hardt, interpreta la biopolitica come la potenza produttiva della vita, giustificando così la preminenza delle produzioni immateriali su quelle tradizionali di beni, e sulla scorta di Foucault come una forza di resistenza al suo contraltare, cioè quel biopotere che rappresenta il potere esercitato sulla vita stessa. La produzione di natura biopolitica avrebbe dunque generato le moltitudini, sostituendosi alla tradizione produzione della fabbrica, ed avrebbe comportato la rottura degli equilibri sociali e politici precedenti, cambiando di riflesso gli assetti del potere che ci domina, modificando le sue istituzioni e agendo sui loro rapporti reciproci, imponendo ai dominanti l’adozione di nuovi strumenti di controllo, in una, generando lo stesso impero negriano. Quello che conta è che tale produzione, non più concentrata nelle fabbriche come accadeva nel “vecchio mondo” capitalistico, ma diffusa in tutta la metropoli [la quale riecheggia la polis greca nel senso prima ricordato] è sostanzialmente di natura immateriale, riguardando idee, codici, aspetti immateriali dei beni materiali, relazioni sociali, affetti, linguaggi, e le stesse forme di vita, fino alla produzione dell’uomo da parte dell’uomo annunciata nel Novecento da Foucalt. Ma quello che ancor più conta è la svolta in termini biopolitici dell’economia, che secondo la particolare visione di Negri e Hardt: 1) Mette al lavoro tutte le facoltà umane, le competenze ed i saperi, quelli acquisiti nei processi lavorativi ma soprattutto quelli acquisiti fuori del lavoro, ed è direttamente produttiva di valore [Comune] che il Capitale, per mantenersi accumulando, deve intercettare. 2) Non si limita a riprodurre il capitale come rapporto sociale, ma si presenta come un processo potenzialmente autonomo che potrebbe anche distruggere il capitale e creare qualcosa di completamente diverso [Ibidem]. 65 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Questa produzione non incontrerebbe il limite invalicabile della scarsità e può mettere il “bios” al lavoro senza consumarlo, mentre invece sappiamo che per produrre anche un solo chip microscopico, indispensabile per la produzione immateriale di programmi informatici, servono tanta energia e quantità significative di materie prime la cui disponibilità non è illimitata. L’accumulazione capitalistica è esterna ai processi produttivi biopolitici, che vanno avanti da soli grazie alla moltitudine – la quale produce indipendentemente al comando capitalistico, cosa che la vecchia classe operaia non poteva permettersi di fare, visto che gli schemi di cooperazione nella fabbrica erano imposti dal capitale – e questo capitalismo miserello e terminale, ma pur sempre predone, benché letteralmente espulso dai veri cicli produttivi finiti nelle mani della moltitudine dei poveri, si limita ad intercettare il prodotto in uscita, accumulando attraverso forme di espropriazione del Comune. Certo, per appropriarsi le produzioni moltitudinarie questo capitalismo dispone ancora di strumenti efficaci, come la guerra, ma soprattutto come la finanza contemporanea, che per sua natura è esterna ai processi produttivi rappresentando una dimensione ulteriore e autonomizzata che sovrasta la produzione, ma si è ridotto a governare con l’eccezione, poiché ogni sua intromissione nel processo di produzione biopolitica ha effetti negativi, lo blocca, bloccando di conseguenza la produttività moltitudinaria e corrompendo il Comune. Lo spazio del Comune, in cui si muovono a loro agio le moltitudini dedite all’incessante produzione biopolitica, che abbraccia l’intero il tempo di vita e avviene in ogni angolo della metropoli [e voi credevate di lavorare soltanto in ufficio, nei soliti orari ufficio, per otto ore giornaliere? Poveri illusi …], rappresenta l’alternativa di Negri e Hardt alla Repubblica della Proprietà, privata o pubblica che sia, nata con le grandi rivoluzioni borghesi [inglese, americana e francese] ed affermatasi con il capitalismo. La Repubblica della Proprietà esclude chi è senza proprietà, è istituita per la difesa del diritto di proprietà quale supremo diritto capitalistico riconosciuto all’uomo, ed è perciò contro i poveri, i diseredati e le moltitudini. L’ideale regolativo del moderno stato di diritto, come è scritto in Comune, è quindi la proprietà. La proprietà può essere pubblica o privata ma certe dinamiche di fondo non cambiano e dunque, se la proprietà privata si sposa con il liberismo/ liberalismo, com’è facilmente intuibile, e quella pubblica, ugualmente limitante, si armonizza storicamente con il socialismo, il Comune che a queste si oppone con chi può contrarre matrimonio? Ma con il Comunismo, naturalmente, secondo quanto ci raccontano i due squisiti e affascinanti autori, ed è una forma di comunismo certo molto dissimile da quella realizzata nel Novecento, poiché non nasce negli spazi angusti di una fabbrica, 66 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 dove materialmente si consuma lo sfruttamento del lavoro, non si fonda su cose superate come la coscienza di classe e le conseguenti lotte su base classista e identitaria per l’emancipazione e per la liberazione dei subalterni, ma origina dalla straordinaria capacità di produrre autonomamente, in ogni dove, eccedendo puntualmente il comando capitalistico, di quelle moltitudini di poveri ed oppressi succedute al proletariato per effetto dei cambiamenti epocali descritti nella trilogia negriana. Per tale motivo lo scrivente ha deciso di usare l’espressione di “comunismo moltitudinario”, nel dare un nome a ciò che nel contempo si presenta come un’utopia politica, una distopia letteraria, ed una prova che è molto difficile, appartenendo ad un presente in cui le grandi trasformazioni non sono ancora compiute, comprendere e analizzare i cambiamenti politico‐sociali imposti dal Capitalismo Transgenico Finanziarizzato del terzo millennio, acclarando la sua stessa natura. Come l’operaismo a suo tempo ha rappresentato una deviazione dal solco della cosiddetta tradizione marxista, ed un non‐conformismo che soprattutto nelle sue manifestazioni più tarde ed estreme ha portato a concepire il capitalismo quale un “residuo storico” aleggiante su una società completamente mutata, prossima ad una grande svolta, così le moltitudini, frutto di un’”eresia” di chi dichiara di far ancora riferimento alla tradizione marxista, si sono impossessate della produzione – quella immateriale prevalente, autogestendo gli schemi della cooperazione, generando “nuova vita” biopolitica e nuove identità –, ed è logico che cerchino di autonomizzarsi rispetto ad un comando e ad un controllo capitalistici parassitari, sempre più esterni e in crisi. Il problema è capire cosa in realtà rappresentano le moltitudini e se esistono veramente, oppure sono soltanto il frutto di un’abile creazione letteraria, come l’impero al quale si oppongono, senza un centro definito, caratterizzato da un’aristocrazia inquieta ed ancora in via di costituzione, così come ci appare nella trilogia di Negri e Hardt. Ebbene, in un certo senso le moltitudini esistono, ma non sono la forza rivoluzionaria che padroneggia una nuova produzione smaterializzata, in grado di liberare il mondo dalla stretta mortale di questo capitalismo, come cercano di farci credere gli autori di Impero, Moltitudini e Comune. Il meticciato e le migrazioni imposte dalle dinamiche del capitalismo globale, il saccheggio indiscriminato delle risorse naturali, comprese quelle non rinnovabili, la precarizzazione e lo svilimento del lavoro diffusi nei paesi cosiddetti sviluppati, la distruzione dell’ordine precedente e delle vecchie classi sociali, in sé non possono produrre nulla di buono, e nello stesso tempo la globalizzazione non è un fenomeno “tutto sommato” positivo, sia pur a lungo termine, ma soltanto 67 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 un’imposizione capitalistica sciagurata, che potrà innescare reazioni generalizzate di segno contrario, o in assenza di queste portare il mondo al disastro. Le moltitudini, lungi dall’essere forza potenzialmente rivoluzionaria, crogiolo di identità cangianti e vero gestore di una nuova produzione che produce forme di vita inedite, rappresentano soltanto una “patologia sociale” indotta da questo capitalismo, e come tale, soltanto come tale esistono. L’affermazione precedente deve essere chiarita, perché apparentemente può sembrare che in una società definita “senza classi” sul modello nordamericano – in cui la lotta di classe appartiene al passato o è come se non fosse mai esistita – tutti i subalterni, o con altra espressione i dominati, siano finiti nel gran calderone moltitudinario, e che vi può essere soltanto una massa disordinata di individualità “meticciate” difficilmente riconducibile ad una vera unità politica, se non attraverso il fantasioso processo rivoluzionario di emancipazione auspicato da Negri e Hardt, per l’instaurazione di una democrazia globale. Ciò che nell’opera negriana si definisce moltitudine, quale successore del proletariato industriale e probabile epigono, nel terzo millennio, del cosiddetto operaismo diffuso, è niente altro che il triste prodotto sociale dell’azione “normalizzatrice” del capitalismo contemporaneo globalizzante ed ultraliberista, che ha dissolto i precedenti legami solidaristici e culturali delle classi inserite nel passato ordine, borghesia compresa, ed ha prodotto una sorta di ribollente “brodo primordiale”, dal quale non potrà che emergere compiutamente un nuovo ordine, totalmente interno alle dinamiche capitalistiche e ad esse aderente. Delle moltitudini farebbero parte, quindi, sia gli operai orfani della storica classe operaia, salariata e proletaria, oggi privi di rappresentanza politica ed abbandonati all’azione ri‐plebeizzante del Mercato, sia i cosiddetti ceti medi declassati, i quali esprimono quel lavoro intellettuale che talora, superficialmente, può assomigliare ad una miracolosa e rivoluzionaria produzione di idee, di codici, di programmi cui si attribuisce tanta importanza nell’opera negriana. Il capitalismo ultraliberista ha provveduto a disintegrare i dominati attraverso consumi di massa, precarietà lavorativa, esclusioni imposte dal Mercato e nel contempo con l’imposizione di modelli relativistico‐nichilisti, diffondendo quella che sempre di più si configura come una “patologia sociale” e perciò una serie infinita di drammi umani. Delle moltitudini fanno parte anche i poveri, i veri poveri, i poveri del sud mondo, quelli che non hanno neppure una stilla di coscienza della loro situazione, stretti come sono dal bisogno, dall’Africa subsahariana all’Asia, dalle peggiori bidonville delle moderne metropoli all’America Indio‐Latina. Come questi ultimi possano produrre biopoliticamente eccedendo regolarmente i limiti imposti dal comando capitalistico, in condizioni di estrema indigenza se non di autentica fame, che quotidianamente mette in pericolo la loro stessa 68 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sopravvivenza fisica, dove possono trovare le forze per farlo, solo il cielo e Tony Negri lo sanno. Eppure la povertà, anche nelle sue forme estreme, in Comune di Negri e Hardt si trasforma miracolosamente in produzione, opportunità, potere, ben lungi dall’esser vista per quello che in realtà è e rimane: un triste stato di deprivazione che toglie le forze, limita la volontà e pone il soggetto in completa balia degli eventi. Il divenire Principe della moltitudine, come è scritto nell’avvio di Comune, è un progetto che si fonda interamente nell’immanenza dei processi decisionali che si svolgono all’interno della moltitudine, la quale è un insieme di singolarità [dunque qualcosa che non costituisce un vero soggetto politico, che non può essere animato dalla coscienza di classe] costituite dalla povertà e dall’amore nella riproduzione del comune. La ricchezza comune [Common Wealth], contrapposta alla funzione espropriatrice della proprietà privata [od anche di quella pubblica, secondo la concezione negriana], non può che corrispondere, almeno in generale e in linea di principio, alla necessaria socializzazione dei mezzi di produzione, che dovrebbe garantire l’uscita definitiva dalla bisecolare costrizione capitalistico‐classista. Ci pare evidente che socializzare significa rendere comune la ricchezza, naturale e artificiale, e garantire a tutti l’accesso al godimento del prodotto sociale [alimentazione, medicinali, cultura], rompendo una volta e per tutte i rigidi schemi classisti e ristabilendo l’Etica. Su Povertà e Amore, che animerebbero le incontenibili moltitudini, sulla loro unione quali parole d’ordine del comunismo moltitudinario negriano, di matrice più letteraria che marxista, possiamo soltanto affermare che mentre la povertà materiale, alla lunga, è destinata ad incidere negativamente anche sugli aspetti culturali, oltre che sulla combattività dei soggetti, l’amore appartiene interamente alla sfera privata delle relazioni più intime. Ci piace, comunque, in linea di principio, il riferimento all’”amore per il lontano”, per ciò che è diverso da noi e distante dalle nostre dimensioni culturali, evocato da Negri e Hardt quale buon sentimento nell’era della globalizzazione, ma non ci piace la sua contrapposizione vagamente strumentale all’”amore per il vicino”, per il più prossimo, come se questo ultimo costituisse un corrompimento. In tale caso, l’espressione “amore” è utilizzata impropriamente, a sommesso avviso di chi scrive, in sostituzione di “tolleranza” e di “rispetto”, ben più pertinenti in tale contesto. Nell’opera della quale si è tentato di porgere, in questa sede, una breve e forse incompleta recensione – Comune. Oltre il privato e il pubblico – i due autori, con una frasetta inserita senza troppa evidenza ed enfasi nel testo, avvertono che loro non fanno analisi di tipo sociologico, come se si trattasse di un particolare di secondaria importanza. 69 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Al contrario, questo è un punto di fondamentale importanza, per accertare l’esistenza in vita delle moltitudini, che dovrebbero aver sostituito, come forza propulsiva e rivoluzionaria nell’ordine vigente, quelle classi sociali subalterne alle quali la storia [e la sociologia] ci hanno abituati. E’ bene spiegarsi con una metafora, per far comprendere l’utilità e l’importanza dell’analisi sociologica, che è anzitutto descrittiva e in secondo luogo può pur essere moderatamente predittiva. Nella ricerca di giacimenti petroliferi economicamente sfruttabili, sono certo necessarie buone conoscenze scientifiche, di ordine geologico, e quindi è utile la conoscenza della storia geologica dell’area in cui si spera di trovare il petrolio. Non basta però che arrivi qualcuno, sostenendo di possedere tali conoscenze ad alto livello, di conoscere la vicenda in termini geologici del terreno in cui potrà avvenire l’estrazione, e che dica semplicemente “Signori, qui c’è il petrolio in abbondanza, ve lo assicuro io!” Le compagnie petrolifere interessate non si fideranno e vorranno procedere con i necessari “carotaggi”, per accertare, prima di impegnarsi finanziariamente e concretamente nell’estrazione, l’effettiva esistenza del giacimento ad una profondità che renderà economicamente possibile estrarre il petrolio. Ma l’esperto dotato di buone conoscenze geologiche, arrivati al dunque, ossia al dispiegamento di uomini e mezzi per effettuare i “carotaggi” nel terreno, improvvisamente dice: “No, lasciate perdere, queste prove non servono. Ve lo garantisco io, perché lo so bene, qui c’è sicuramente il petrolio!” Un po’ come la frasetta inserita nel testo di Comune da Negri e Hardt, con la quale si comunica che i due non trattano la questione delle moltitudini da un punto di vista sociologico, evitando così di fornire la prova concreta – corrispondente ai “carotaggi” in campo petrolifero – della loro esistenza in vita nei termini descritti. E’ chiaro che da una siffatta analisi potrebbero scaturire informazioni inquietanti per i due autori, e cioè che le moltitudini non esistono – se non come “patologia” indotta da questo capitalismo – ma che, al contrario, si sta delineando un nuovo ordine sociale, nonostante l’imperare della mistificazione a‐classista. Un ordine non ancora compiuto, molto rigido, e cristallizzato in una dimensione provvisoriamente definibile neo‐feudale, con una classe dominate ricchissima e potentissima, la Global class, in sostituzione della vecchia borghesia proprietaria ormai languente, ed una classe povera numerosissima, molto composita e stratificata, che è la Pauper class in via di formazione, la quale accoglie gli operai, i ceti medi declassati, la sotto‐classe urbana, e i veri poveri [lo strato propriamente pauper, in fondo alla piramide] in ogni angolo della terra, da occidente a oriente, dal nord al sud del pianeta. Enormi differenziali di ricchezza e potere separeranno le due classi nell’ordine prefigurato, e la cosiddetta mobilità sociale, oggi, nell’interregno, quasi 70 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 esclusivamente in discesa in accordo con la riplebeizzazione di massa, tenderà in futuro a rallentare significativamente. Non è in atto una sorta di superamento dell’ordine classista in quanto tale – grazie all’affermarsi di una presunta produzione biopolitca e all’avanzare di quella globalizzazione che precede sempre la costituzione delle nuove istituzioni imperiali –, ma è in atto una sua rilevante trasformazione rispetto agli assetti precedenti, e se la moltitudine non può sostituire la classe, perché la sua esistenza non è provata se non come nuova e drammatica “patologia sociale”, non potrà in alcun modo esprimere un programma politico di natura rivoluzionaria, che porti al superamento del capitalismo. Tutto questo, con buona pace per Negri e Hardt e per le loro moltitudini rivoluzionario‐biopolitiche nemiche dell’impero. 71 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Comunismo comunitario Si consenta a chi scrive di non aprire il complesso e appassionante discorso relativo al comunismo e alla comunità con una citazione di Marx, di Engels o di Preve, ma, più modestamente, con un’autocitazione: L’attacco ai legami di tipo comunitario e la contemporanea e capillare diffusione dell’individualismo utilitaristico non rappresentano “vezzi” puramente ideologici degli intellettuali al servizio dei dominanti, ma corrispondono ad un’esigenza molto concreta del nuovo potere, perché la stessa lotta di classe novecentesca, che ha assunto rilevanti aspetti culturali oltre che economico‐ridistributivi, è stata resa possibile dalla presenza di vincoli comunitari e solidaristici fra i subalterni, vincoli che alla fine del novecento, in occidente, hanno iniziato rapidamente a dissolversi. Ogni lotta di classe ha avuto come presupposto, e l’avrà anche in futuro, l’esistenza di tali vincoli e non può prescindere dall’affermarsi di aspetti comunitari. Banalmente, la nascita di mutue e cooperative va vista in questa ottica e nella prospettiva del confronto sociale fra le classi, ed è significativo che in questi tempi, in cui la lotta di classe decisamente langue, le cooperative si sono trasformate in centri di business più o meno grandi, più o meno influenti nel panorama politico‐economico, con qualche significativo vantaggio fiscale. Senza tali vincoli e il loro rinsaldarsi, non sarebbero state possibili le lotte emancipative che hanno riguardato il lavoro, negli spazi economico‐sociali e culturali dominati dal capitalismo. La questione non va vista esclusivamente come un confronto fra la “società aperta”, in via di affermazione, e le resistenze comunitarie tradizionali a questo progetto di riorganizzazione sociale, e non va ridotta alla pura dimensione territoriale, con la difesa pur legittima delle comunità locali, delle loro tradizioni, dei loro usi e dei loro costumi dagli attacchi annichilenti e dallo strapotere del monstre globalista, perché alla base della stessa solidarietà fra subordinati agiscono vincoli comunitari che la rinsaldano e che possono creare una vasta comunità deterritorializzata. [Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, in nota nel testo]. Le solidarietà di natura comunitaria hanno caratterizzato la storia della classe operaia, salariata e proletaria fin dai suoi inizi, e ne hanno reso possibili sia le lotte emancipative dentro il capitalismo sia le azioni rivoluzionarie anticapitalistiche. In una situazione culturale e sociale completamente dominata dall’individualismo anomico e relativistico – che per fortuna nelle sua forma estrema è puramente teorico, e ciò ci rende almeno un barlume di speranza futura – non avrebbe senso parlare né di solidarietà né di coscienza di classe, non si potrebbero sviluppare, e non avrebbero potuto svilupparsi in passato, momenti di lotta collettiva emancipativi o rivoluzionari. 72 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il giovane Marx, ne La sacra famiglia del 1845, ha compreso e posto bene in evidenza che l’uomo non può essere considerato in alcun modo un atomo, il quale possiede in sé tutta la pienezza necessaria a garantirne l’autonomia. L’atomo [a‐tomon] è concepito come un’entità priva di bisogni e autosufficiente, totalmente indifferente a ciò che la circonda, mentre le persone reali, in carne ed ossa, non vivono sospese in un vuoto assoluto, non possono permettersi indifferenza nei confronti del mondo esterno, esprimendo nell’esistenza quotidiana esigenze di ordine materiale e bisogni, ci permettiamo di aggiungere, relazionali e identitari. Con le parole di Marx, Sono dunque la necessità naturale, le proprietà umane essenziali, per quanto alienate possono sembrare, e l’interesse che uniscono i membri della società civile [Karl Marx, La sacra famiglia]. Se la classe è nel contempo una posizione assegnata nell’ordine sociale vigente e una matrice identitaria per coloro che ne fanno parte, l’esistenza della stessa si relaziona, come appare nell’autocitazione, con lineamenti di tipo comunitario, costituendo una vasta comunità che può superare i confini degli stati, le divisioni dovute alla diversità linguistica e religiosa, nonché le barriere razziali. La tendenza dei soggetti alla socializzazione attraverso una produzione comunitaria, che renda disponibile il prodotto equamente diviso, non certo è estranea alle lotte della classe contro i dominanti che appropriano quote rilevanti del prodotto sociale a scapito degli altri gruppi sociali e dell’intera comunità, e ne rappresenta uno dei moventi principali, se non la prima ragione di lotta. Se la ragione prima del conflitto è l’equa distribuzione di ricchezza e potere, questione di ordine etico prima ancora che economico‐politica, è la solidarietà di natura comunitaria che ne rende possibile l’avvio e il successivo sviluppo. Dominando nella società frammentazione sociale e frantumazione individualistica, oltre a dileguarsi l’Etica, vengono meno le basi stesse della lotta. Coscienza di classe e comunità, lotta di classe e comunità, comunismo e comunità non sono quindi espressioni che fanno a pugni l’una con l’altra, termini inconciliabili di un problema irresolubile, ma concetti che si armonizzano in una sintesi alternativa, in una futura possibilità di riscatto e di definitiva fuoriuscita dalla costrizione capitalistica. Assumendo un approccio rozzo e superficiale, degno della peggior vulgata dicotomica Destra/ Sinistra, si potrebbe obbiettare che mentre il comunismo è per definizione “di sinistra”, la comunità appartiene interamente al bagaglio culturale della destra [generalizzando le forme comunitarie gerarchizzate e fortemente organicistiche], e che quindi il matrimonio, con una celebre espressione manzoniana, “non s’ha da fare”, è impossibile, o quantomeno sconveniente. A parte il fatto che la divisione del mondo in termini politici fra destra e sinistra è una convenzione relativamente recente, derivante dallo schierarsi dei deputati 73 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 nell’Assemblea rivoluzionaria francese che ha sostituito nel 1789 gli Stati Generali, ed è rimasta inattiva per buona parte dell’Ottocento, rileviamo che questa dicotomia – tenuta in vita artificiosamente dalla propaganda sistemica – oggi non è più operante, esistendo nei fatti l’unico Partito della Riproduzione Capitalistica. L’unico “partito capitalistico” realmente esistente, come ci ha insegnato Costanzo Preve, è composto dalla “destra del Denaro”, che è anticomunitaria e globalista in accordo con la sua natura ed i suoi scopi di dominio, e dalla “sinistra del Costume”, che è un parente stretto del già citato comunismo individualistico, o falso comunismo. Nel partito sistemico, oltre le apparenze e le differenze superficiali fra i cartelli elettorali ammessi, la “destra del Denaro” stabilisce oggi le regole economico‐ finanziarie, sempre più stringenti in una “globalizzazione senza veli”, tutelando i soli interessi che contano, quelli della Global class e dei suoi collegati, e la “sinistra del Costume” [che prima del Sessantotto, secondo Luc Boltanski ed Eve Chiapello, esprimeva la critica cosiddetta “artistica” e piccolo borghese al capitalismo] stabilisce appunto i costumi, i modelli e gli stili di vita, per così dire, la moda e la voga che non disturbano il manovratore e la stessa riproduzione complessiva del sistema. Al fine di imporre il nuovo ordine è fondamentale distruggere il vecchio, e perciò si indeboliscono la famiglia, attraverso lo “sdoganamento” e la diffusione dell’eccezione familiare e la limitazione delle politiche economiche a favore degli stessi nuclei familiari tradizionali [che procede di pari passo con lo smantellamento complessivo del welfare], si riduce il ruolo, nella società e nella vita dei singoli, della religione, declassandola ad un ruolo assistenziale di poveri e derelitti, e si sciolgono le precedenti solidarietà classiste interpretate come resistenze. Un certo marxismo, durante il Novecento, ha creduto nel superamento o nella distruzione delle vecchie istituzioni, quali la famiglia e la comunità tradizionale, per l’instaurazione di una società socialista e la provvisoria comparsa del semi‐stato preconizzato da Lenin, nellʹattesa dell’”avvento” finale e definitivo del comunismo. In un certo senso, i kolchoz e i sovchoz sovietici per le produzioni agricole, nonché i kibbutz ebraici con marcati lineamenti socialisti in Palestina, rappresentavano tentativi, che si sono rivelati relativamente effimeri, di sostituire con una nuova associazione umana – largamente imposta dal potere vigente – le vecchie comunità rurali e di villaggio, nonché le originarie famiglie patriarcali, in situazioni di tipo semi‐feudale come quelle con le quali i comunisti sovietici hanno dovuto misurarsi, e nelle situazioni di arretratezza e mancanza di strutture affrontate dai coloni ebraici. Proprietà collettiva e socializzazione dei mezzi di produzione non richiedono però la dissoluzione di tutte le istituzioni, quali la famiglia, la comunità di origine, l’istituzione religiosa, e non hanno certo come presupposto una sorta di 74 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 “robinsonismo” non capitalistico e non russoviano da imporre all’uomo, né richiedono per diventare operanti la distruzione integrale delle identità dei soggetti. Certo, ci sono aspetti negativi in una certa concezione, gerarchica e addirittura dispotica, della famiglia, ci sono aspetti, nelle grandi religioni monoteistiche od anche negli altri culti, che limitano ingiustificatamente la liberta dell’uomo e della donna mortificandone la dignità, ma questo non significa che si deve procedere ad una loro distruzione completa, per liberare l’uomo e ridargli dignità, al contrario, significa che è necessario “emendare” queste istituzioni senza annichilirle, per superarne gli aspetti negativi, dispotici e radicalmente organicistici. Si può collettivizzare ogni cosa, persino le case di civile abitazione e gli abiti che ciascuno indossa – come forse sarebbe auspicabile per uscire dalla terribile empasse storica e culturale generata dal capitalismo, attraverso l’affermazione del diritto di proprietà privata, l’economicizzazione integrale e la riduzione in quantità di ogni aspetto dell’esistenza – ma non per questo si deve cercare di ridurre i soggetti, con una folle operazione demiurgica, ad atomi dispersi che vagano nel nulla. Come si può facilmente comprendere, in questa sede si parla di comunità, nel suo possibile ed auspicabile rapporto con il comunismo, non esattamente nei termini più noti e tradizionali, ad esempio facendo riferimento al comunitarismo di Ferdinand Tönnies, descritto nella celebre opera Comunità e società del 1887, in cui la comunità, intesa essenzialmente come associazione identitaria organicistica, si contrappone alla più recente società, che è l’espressione di un modello meccanicistico di associazione umana. Su alcuni lineamenti essenziali del pensiero di Tönnies possiamo ragionevolmente, genericamente e in linea di massima non dissentire, ad esempio sulla necessità di consensus, sull’intimità e sulla stabilità dei rapporti che per il sociologo tedesco connotano la vita comunitaria, in contrapposto a quella nella società moderna, che è una costruzione recente, artificiale, fondata essenzialmente su scambio e valore, ed in cui si va come in una terra straniera. E’ chiaro che fra una possibilità di convivenza sentita, consensuale e genuina, ed una convivenza formale, imposta ed apparente, si è portati a preferire la prima, come è altrettanto chiaro, estremizzando il discorso, che fra l’essere persone con una storia e un’identità, nonché con una molteplicità di relazioni vissute positivamente e qualche intimità reciproca, e l’essere per contro atomi autosufficienti in un vuoto cosmico, preferiamo di gran lunga la prima condizione, in accordo con il comune buon senso. Ma non sono questi i nostri riferimenti, non è propriamente il Tönnies della comunità organicistica contrapposta alla società meccanicistica il nostro ispiratore, quando discutiamo di comunitarismo posto in relazione con il comunismo. 75 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 In ciò, non siamo affatto prigionieri di una sorta di “bucolicismo comunitario”, non volgiamo costantemente lo sguardo al passato, esaltando le virtù delle piccole comunità di villaggio legate al territorio in contrapposto alla cosiddetta società di mercato, non auspichiamo l’impossibile ritorno ad un salvifico piccolo mondo antico, precapitalistico, premoderno e quindi buono ... A questo punto, valgano come primo chiarimento le parole di Costanzo Preve, tratte da unʹintervista del 2006, a cura della giornalista Antonella Ricciardi, presente in rete e gratuitamente fruibile: Esistono molti comunitarismi, in realtà non esiste un solo comunitarismo. Il comunitarismo è per così dire una tendenza come l’illuminismo o il romanticismo o il positivismo. Per cui, dire comunitarismo è come dire illuminismo, romanticismo, positivismo, cioè vuol dire sette – otto cose diverse, non una sola. Fatta questa premessa, che è molto importante, il comunitarismo dalla direzione di destra presenta due fondamentali caratteristiche: la gerarchia e l’organicismo. La gerarchia, in quanto è un comunitarismo gerarchico, che per così dire fa riferimento a comunità precedenti tradizionali concepite come gerarchiche, pensiamo a Julius Evola e così via, e poi in secondo luogo l’organicismo, per cui l’individuo viene visto come un prodotto decadente dell’illuminismo, e invece viene evocata una specie di integrazione tra individuo e comunità. Io mi oppongo ad entrambe queste cose, mi oppongo al gerarchismo perché personalmente sono per l’illuminismo e credo nella possibilità di una comunità egualitaria, e mi oppongo anche all’organicismo perché ritengo, a differenza di moltissimi comunitaristi, compresi anche quelli di destra, che lʹemergere dell’individuo libero a partire dal ʹ600 e ʹ700 sia irreversibile, e perciò ogni forma di comunitarismo che vuole combattere contro l’individuo libero è destinata a fallire. Io sono contro la condizione del comunitarismo che fa sì che le famiglie obblighino le figlie al matrimonio combinato… Se una certa “vue de droite” ha avuto ed ha tuttora come riferimento il comunitarismo gerarchizzato ed organicistico, da opporre alla modernità quale alternativa che ben si accorda con le pulsioni tradizionaliste, una certa “vue de gauche” ha avuto come riferimento il collettivismo sovietico, anch’esso gerarchizzato e soggetto al controllo stringente del partito, e quindi ha idealmente aderito ad una forma di dispotismo, pur di natura comunitaria, come in effetti appariva il sistema dell’Unione Sovietica. Il rapporto organico, diretto e senza mediazioni ha connotato l’esperienza collettivistica sovietica, segnandola nei decenni, assieme all’indiscussa centralità del partito e delle sue strutture politico‐burocratiche di potere, sia pur in presenza di positivi elementi socializzanti, che andavano “realmente” nella direzione del comunismo auspicata da Marx. Il comunitarismo anticapitalistico, in un’auspicabile variante non organicistica‐ tradizionale e non più dispotistico‐collettivistica sulla base del modello sovietico novecentesco, a detta di Costanzo Preve si trova nella fase in cui deve ancora risolvere 76 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 alcuni problemi pratici e teorici determinanti per la sua identità presente e futura [Alla ricerca della speranza perduta, scritto in forma dialogica con Luigi Tedeschi]. Ci sono concezioni del comunismo che escludono la comunità, ed altre che con questa possono armonizzarsi. La strada da seguire, in termini ancora generali ma sufficientemente chiari, ce la indica il filosofo Costanzo Preve, in quanto il comunitarismo autenticamente anticapitalistico e comunistico, per “svincolarsi” dal passato e creare il nuovo, deve prendere congedo dal “comunitarismo organico”, in cui non c’è spazio per il dissenso e la non‐condivisione di individui che fanno parte della comunità, e che invece devono avere il diritto giuridicamente garantito delle loro scelte anti‐conformistiche. Deve congedarsi dal “comunitarismo tradizionale” (del tipo della Lega di Bossi, per capirsi), per cui la comunità è concepita e vissuta come chiusura sociale identitaria verso lo “straniero”, fino a comportare episodi sgradevoli ed inaccettabili di discriminazione “razzista” [Ibidem]. Sul versante del comunismo, è necessario abbandonare le fiducie “avventiste”, le attese di un messianesimo ateo, o quanto meno del tutto laico, della liberazione comunistica dell’uomo da parte dell’uomo, nate dalla cosiddetta teoria dei cinque stadi ed arrivate fino ai giorni nostri: comunismo primitivo, schiavismo antico, feudalesimo, capitalismo, avvento finale del comunismo. L’avvento del comunismo, come quello di qualsiasi altra forma di società umana, non è necessitato e non può essere se non il frutto, o meglio la risultante storica, di un’azione umana collettiva, diretta dalla teoria e dalla pratica rivoluzionarie verso la costruzione del nuovo. Un pilastro sul quale deve poggiare il nuovo paradigma comunistico‐comunitario – come è facile intuire, poiché tale altrimenti non sarebbe – è quello dell’eguaglianza, da intendersi non in termini di omologazione, di livellamento forzato dei singoli e di appiattimento generale, ma sostanzialmente nei termini in cui la intendeva Marx. Il lavoro collettivo, cooperativo e associato che caratterizza il General Intellect marxiano, idealmente e concretamente rappresenta la realizzazione del principio di eguaglianza dei membri all’interno di una comunità, e non richiede per diventare operante la distruzione delle identità particolari e l’appiattimento delle differenze, né l’organicismo tradizionale o il dispotismo collettivistico. Questa necessità di cambiare radicalmente la direzione dei processi storici in atto, riflessa dalla ricerca di un’alternativa al lavoro capitalistico e all’imposizione anti‐ sociale e anti‐umana della sua organizzazione – apparentemente senza scampo per i subalterni e senza una via d’uscita storicamente prevedibile – è una necessità che nasce dalle persone reali, costrette dalla precarizzazione del lavoro a cedere l’intero tempo di vita, ricevendone in cambio quella che sempre di più diventa la mera sussistenza, o ancor meno, la quasi‐sussitenza. “Schiavi autosussistenti”, nati con la diffusione del lavoro precario, dovranno sostituire progressivamente le stabili figure professionali del passato, in Italia e in 77 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Europa, ed alle rivendicazioni di lavoratori coscienti, organizzati e disposti a difendere i loro diritti, si sostituiranno le tribolazioni di questi neoschiavi, costretti ad un automantenimento sempre più difficile. Trascorsa l’epoca moderatamente emancipatrice del welfare e del fordismo, che fu per i lavoratori una sorta di Belle époque e una “boccata d’aria” dopo decenni di sfruttamento intensivo, Il lavoro ridiventa sempre di più una potenza estranea, o meglio “estraniante”, non dominata da chi la subisce ed universalmente oppressiva, proprio come la intendeva ai suoi tempi Karl Marx. La globalizzazione dell’estraniazione sembra procedere di pari passo con l’espansione del commercio internazionale. Nel contempo, cresce il livello di pressione esercitato dalle dinamiche capitalistiche sui subalterni, accelerate dal dominio incontrastato della finanza – strumento che risponde perfettamente alle aspettative dei nuovi dominanti globali – e dall’affermazione del paradigma della Creazione del Valore, finanziaria, azionaria e borsistica. Superare l’estraniazione, riappropriarsi del tempo di vita e ricomporre la scissione fra l’interesse particolare e quello comune, significa uscire dal ferale circuito del lavoro capitalistico, sempre più precario e materialmente compresso, ed attivare le dinamiche del lavoro collettivo, cooperativo, associato, che idealmente e concretamente è il lavoro comunitario e comunistico. Se dovessimo pensare a delle parole d’ordine efficaci, che possano caratterizzare le auspicabili lotte anticapitalistiche future, non potremmo che proporre – oltre a Comunismo e Comunità – “Eguaglianza e Solidarietà”. La parola libertà non compare esplicitamente, ma nel suo significato più proprio ed autentico la possiamo intendere come il principale esito, storico e culturale, dell’unione fra l’eguaglianza comunistica ed il solidarismo comunitario. Idealmente, la parola Libertà non pronunciata risuona insieme a Eguaglianza e Solidarietà e con queste si armonizza. Eguaglianza e Solidarietà, che riflettono l’unione di Comunismo e Comunità, oltre a garantire la Libertà dei singoli nel senso più proprio e profondo che si attribuisce a questa espressione, potranno innescare un nuovo processo rivoluzionario con esiti trasformativi ed intermodali. L’attuale impianto di potere capitalistico, quale risultante di un modo di produzione sociale nuovo, diverso da quello del secondo millennio affermatosi nell’era del capitalismo industriale a guida borghese, si fonda strutturalmente su quattro elementi principali: i rapporti di produzione sottomessi alla creazione del valore azionario e borsistico, lo sviluppo delle forze produttive accelerato dalla finanza, l’ideologia neoliberale che assimila i semicolti, ed infine, last but not least [come direbbero gli anglofili], la manipolazione culturale ed antropologica di 78 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 massa, con la conseguente diffusione dell’estraniazione per la costruzione sociale dell’uomo precario. Creazione del Valore azionaria e borsistica, dominio della Finanza, Ideologia neoliberale [o neoliberista, che è praticamente lo stesso] e la coppia Estraniazione‐ Precarietà, non possono che massimizzare l’iniquità sociale e declassare il lavoro umano, svalorizzandolo materialmente e culturalmente. Stretto fra il dominio della finanza ed una precarietà lavorativa ed esistenziale indotta, il lavoratore regredisce a semplice fattore della produzione, tende a scomparire quel doppio mercato del lavoro che divideva l’occidente capitalistico dal terzo mondo, si moltiplicano i mercati del lavoro in transito peculiari dell’instabilità lavorativa, e la “questione operaia” si confonde con quella, nuova di zecca, che riguarda i lavori impiegatizi, specialistici, intellettuali del ceto medio, diventata altrettanto urgente. Le nuove generazioni rivelano la contaminazione della precarietà nel modo in cui percepiscono sé stesse e il loro destino negli anni a venire. Su di loro agiscono i potenti dispositivi simbolici, intesi come li intendeva il sociologo francese Pierre Bordieu, sui quali poggia il processo di flessibilizzazione di massa, in pieno corso, e la “simbolizzazione del conflitto di classe” che il Capitale Transgenico Finanziarizzato per ora sta vincendo. Il tasso di violenza simbolica espresso dal potere globalista nei confronti dei subalterni raggiunge ormai livelli impressionanti, e non si tratta certo di una violenza “dolce”, per quanto non lasci sul corpo visibili segni, come quelli delle frustate inferte agli schiavi nel mondo antico, trattandosi di una forma di violenza destinata a sostituire, efficacemente, la costrizione fisica praticata fin dalla notte dei tempi ed a reprimere senza ricorrere a fustigazioni, mutilazioni o uccisioni. Dove l’imposizione della norma giuridica può rivelarsi scarsamente efficace e l’uso della violenza fisica può lasciare soltanto tracce superficiali, penetra la violenza simbolica di questo capitalismo. E’ bene ricordare, tuttavia, che se la violenza simbolica è esercitata sul soggetto “con la sua complicità”, come accade oggi nella “simbolizzazione del conflitto di classe”, ciò non può avvenire quando i soggetti sono animati da una forte coscienza classista, e quindi da solidarietà e vincoli reciproci di natura comunitaria che attivano l’antagonismo. Sostanzialmente per tale motivo, cioè per debellare ogni forma di resistenza al suo progetto antropologico‐culturale con finalità di domino sul “capitale umano” e su tutti i subalterni, il capitalismo contemporaneo ha da tempo avviato, in Italia, in Europa e in occidente, un decisivo processo di frantumazione del tessuto sociale per la distruzione dell’ordine precedente. 79 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il nesso fra violenza simbolica e precarietà integrale, indotta artificialmente nella vita umana, risulta perciò evidente, e si stabilisce per “produrre” docili soggettività che rispondono in primo luogo alle attuali esigenze riproduttive sistemiche. Se le risorse culturali possono essere impiegate, fin dal momento educativo della scuola, con lo scopo di perpetuare il potere delle élite riproducendolo, la classe dominante contemporanea [Global class] le usa in modo più efficiente e spregiudicato rispetto a tutte le altre classi egemoni che storicamente l’hanno preceduta, a partire dalla vecchia borghesia proprietaria, riuscendo ad imporre, a mantenere e ad estendere “con una certa qual facilità” il proprio potere. A partire dalla cruciale precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, i dispositivi simbolici del potere [assumendo come tali l’evoluzione ultima di quelli definiti nel novecento da Pierre Bordieu] sembrano agire senza incontrare, per ora, resistenze ed ostacoli significativi, ed è per tale motivo che lo scrivente usa l’espressione “simbolizzazione del conflitto di classe”, perché, appunto, le ostilità si spostano dall’originario terreno, meramente e banalmente economico‐rivendicativo [metabolizzata l’”economicizzazione del conflitto” del Bauman di Memorie di classe], per investire l’intero piano culturale e la fondamentale relazione fra mondo oggettivo e mondo soggettivo. Sarebbe possibile, se le cose non stessero così come si è sommariamente descritto, l’accettazione da parte di milioni di individui di lavori intermittenti, a chiamata, in coppia, con paghe di volta in volta più basse, in termini reali e nominali, e a condizioni di lavoro sempre più stringenti? Sarebbe possibile quanto sta accadendo oggi, nella nostra società, agli orfani della vecchia classe operaia e ai ceti medi penalizzati dalla tirannide finanziaria, in presenza di unʹestesa e persistente solidarietà classistico‐comunitaria, che può estrinsecarsi in forme di resistenza diffusa, dando luogo ad autentici prodromi rivoluzionari? Ma i dominati, pur nella relativa passività del momento e nella temporanea assenza di un diffuso antagonismo classista, non partecipano mai interamente alla loro dominazione, come invece credeva Bordieu, in quanto esistono pur sempre un uomo solidale e non mercantile nelle microcomunità o in determinati circuiti sociali e un uomo competitivo e partecipe attivo o passivo della circolazione capitalistica nella propria dimensione sociale più generale [Lorenzo Dorato, Oppressione e dissoluzione, Comunismo e Comunità, n. 2, settembre 2008]. Ci sono nell’uomo bisogni profondi, come quelli relazionali e identitari testimoniati dalla persistenza della solidarietà comunitaria, espressi in microcircuiti e fuori delle logiche liberoscambiste, che nessun dispositivo simbolico, per quanto invasivo ed efficiente come quello applicato dalle attuali élite, può dominare completamente, inducendo il soggetto ad un pieno “misconoscimento”. 80 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 I sofisticati dispositivi di dominazione innescati dalla Global Class non sono certo perfetti ed inattaccabili, non hanno ancora debellato tutte le resistenze, ed è per questo che il processo di flessibilizzazione di massa, realizzato in primo luogo attraverso la svalorizzazione e la precarizzazione del lavoro, è destinato a continuare ancora a lungo. L’autorità non è stata completamente sostituita dalla pubblicità, intesa quale veicolo ampiamente utilizzato per la “simbolizzazione del conflitto di classe”, poiché si estrinseca ancora, in certe circostanze, attraverso le forme più tradizionali, mettendo in campo i vecchi apparati repressivi [forze di polizia, carabinieri, altri corpi di uomini in armi] soprattutto in occasione delle proteste operaie, studentesche o dei cosiddetti marginali. Nel cupo novembre italiano del 2010, caratterizzato da espulsioni dal processo produttivo e cassa integrazione, il corteo dei lavoratori della Eaton di Massa, in Toscana, che difendevano il loro posto di lavoro davanti alla minaccia di un licenziamento collettivo, è stato brutalmente e senza motivo caricato dalle cosiddette forze dell’ordine con una delle sempre più frequenti “cariche di alleggerimento”, cinquanta metri prima di raggiungere il casello autostradale e bloccarlo con un sit in. E’ niente altro che l’ennesimo episodio di violenza fisica repressiva, il quale dimostra che quando riemergono, seppur parzialmente ed occasionalmente, coesione e solidarietà fra i subordinati – e quindi i “dispositivi simbolici” di dominazione non servono più, anzi, mostrano di aver fallito – si ricorre alla più tradizionale e brutale repressione, facendo passare quello che è un problema etico‐ sociale per una mera questione di ordine pubblico. Nelle circostanze come quelle ricordate, che sempre più spesso si verificano con il procedere di una crisi “globale” ormai endemica, l’invasiva pubblicità quale strumento per l’esercizio del potere non può che cedere il passo alle botte e alle manganellate, somministrate senza risparmio, rivelando così il vero volto e la vera funzione del “migliore dei sistemi possibili”, cioè la liberaldemocrazia occidentale. Le violenze della forza pubblica nei confronti di manifestanti generalmente pacifici, come nel caso degli operai della Eaton, dimostrano che quando si arriva alla resa dei conti alla seduzione si sostituisce repentinamente la repressione, frangendo gli specchi e mettendo a nudo senza più mediazioni la sostanza di questo potere. Osservando la realtà di una protesta sociale che sembra rianimarsi, si può affermare che al meccanismo pubblicità‐consumo di massa sempre operante si affiancano, almeno temporaneamente, le “frustate” inferte agli schiavi per contenerne le rivendicazioni e sedare le ribellioni, esattamente come accadeva nel mondo antico E’ fuor di dubbio che lo strumento pubblicitario è utilizzato per disintegrare gli originari mondi culturali e la stessa cultura di classe dei subalterni, disintegrando e rendendo individualmente inoffensivi per il potere, alla fine, loro stessi, e Zygmunt 81 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Bauman qualche ragione c’è l’ha, nel connotare la vita attuale, segnata in profondità dai meccanismi dal consumo di massa, quale una“Vita Liquida” contrapposta alle solide identità del passato, ma non può essere certo tutto qui. La stessa precarizzazione del lavoro, che funesta da almeno un ventennio i paesi ricchi del nord e dell’occidente del mondo, è uno strumento di dominazione irrinunciabile, come lo è, su scala molto ampia, la finanza creativa e speculativa. Dietro lo specchio di questa realtà, che riflette delle immagini superficialmente piacevoli ed allettanti – ipermercati stracolmi di beni, pubblicità capziose, prodotti strabilianti ad alta tecnologia nel campo delle telecomunicazioni, automobili superaccessoriate, e molto d’altro – la lotta di classe, per opera dei dominanti globali e in nome e per conto del capitalismo contemporaneo, continua in forme molteplici e in un modo sempre più radicale. La “specie” Homo Consumens, analizzata in profondità da Bauman e da tanti altri quale sciame di consumatori voraci o di tipi umani prevalenti nelle società occidentali, tende a riconoscersi sempre più spesso e ad individualizzarsi radicalmente nell’Homo Precarius, e alla coppia Produzione‐Consumo tende a sostituirsi per moltissimi la coppia – apparentemente contraddittoria, se posta in rapporto con la prima – Precarietà‐Esclusione. Ciò non rappresenta un “baco” nel sistema, una sorta di incapacità di sviluppare le forze produttive da attribuire al nuovo capitalismo, preconizzando su questa base e in modo automatico la sua fine, ma semplicemente il riflesso sociale di un dominio incontrastato del paradigma della Creazione del Valore, che “razionalizza” a suo modo il fattore lavoro – non più variabile indipendente dal punto di vista economico e da trattare quindi come tutti gli altri fattori produttivi – sostituendo quando serve e dove serve l’Esclusione all’Integrazione, senza dover più porsi fastidiosi problemi etico‐sociali e di stabilità sistemica. Lo stesso orizzonte futuro, d’altra parte, ci appare interamente sussunto alla nuova riproduzione capitalistica, che non incontra ostacoli di rilievo e non deve più misurarsi con modelli alternativi. Presi in un circolo vizioso, che è funzionale alla riproduzione strategica della totalità sociale nell’Evo del Capitale Transgenico Finanziarizzato, prigionieri di quella che ci appare sempre di più come una empasse storica e politica, altro non ci rimane se non contrapporre con forza al lavoro capitalistico – che oggi significa estraniazione, svalorizzazione e precarietà, con la minaccia incombente dell’esclusione – il lavoro collettivo comunistico‐comunitario, fondato su eguaglianza e solidarietà, dalla cui diffusione potrà concretamente e spontaneamente germogliare un General Intellect postcapitalistico e postmarxiano. D’altro canto, se nessuna produzione biopolitica delle moltitudini è in atto e di conseguenza non ci può essere un oscuro biopotere che ha sostituito le vecchie forme di dominio – come invece ci hanno raccontato Foucault, Guattari e Negri – la 82 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 nuova Pauper Class capitalistica in via di formazione deve fare i conti, qui e adesso, con la svalorizzazione progressiva del lavoro e la precarizzazione dell’intera vicenda esistenziale, imposte da una riconoscibile Classe dominante Globale. Il lavoro mantiene la sua centralità, nella realtà quotidiana come nelle lotte per l’emancipazione o nelle resistenze alle dinamiche capitalistiche, e come tale può diventare un “cavallo di troia” per superare le difese del Nemico. Metaforicamente, oltre le mura che cingono la sua munita cittadella, apparentemente imprendibile, ci siamo tutti noi, ed ogni giorno entriamo per servirlo con il nostro lavoro. In assenza di questo lavoro, se non ci fosse la cooperazione fra i subalterni, sia pur ricondotta entro gli schemi capitalistici e assoggettata ad un comando esterno, senza l’apprendimento delle tecniche e lo sviluppo delle abilità umane, non avrebbe neppure senso parlare di “finanza creativa”, di produzioni immateriali e intellettuali, di multimedialità, di biotecnologie, di terziari avanzati o avanzatissimi, semplicemente perché non potrebbero esistere. Non esiste una fabbrica completamente automatizzata, senza operai e senza tecnici, se non in qualche racconto di fantascienza, in cui improbabili chip di ultima generazione sostituiscono integralmente l’opera dell’uomo e il suo sforzo collettivo. Le sole macchine non possono “creare valore per l’azionista”, alimentando il nuovo sfruttamento, e se mancasse la cooperazione umana nel lavoro non ci sarebbe neppure la Borsa. Ed allora, come ha scritto il filosofo Costanzo Preve, da tutti riconosciuto quale padre del Comunismo Comunitario in Italia: Rimettere il comunismo sui piedi significa sempre e comunque rimetterlo sui suoi piedi comunitari. Se in futuro la distruzione delle oligarchie mercantili che oggi dominano il pianeta, la classe dominante più abbietta dell’intera storia dell’umanità (e sono perfettamente consapevole della apparente “enormità” estremistica che sto dicendo), darà luogo ad un modo di produzione alternativo migliore, non si tratterà certo di un generico “comunismo” (che c’è già stato, ed ha fallito), ma di un nuovo modo di produzione comunitario edificato consapevolmente su basi nuove, che si tratta di esplicitare con chiarezza. [Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi]. Il comunismo è qui inteso come un ideale eterno, che non si è spento con il collasso sovietico, non si è dissolto con la fine dei partiti comunisti europei, non è scomparso con la conversione delle élite cinesi al capitalismo mercatista globale, e non è esaurito dal pensiero e dall’opera, pur ponderosa e importante, di Karl Marx. E’ vero che le alternative sconfitte non possono essere riproposte se prima non si provvede a ripensarle e ad emendarle, ed è altrettanto vero che in questa società frammentata, relativista e nichilistica, il deserto può crescere facilmente in ciascuno di noi, ma è nei sogni rivoluzionari e antagonisti, sopravvissuti alla “normalizzazione” simbolica di questo capitalismo, che si ricompongono con fatica 83 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 i frammenti della lotta di classe, ed è in loro che nascono le visioni di un altro futuro possibile e di una società diversa. 84 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La distorsione geopolitica e i corsi ed i ricorsi capitalistici Saggio del 10/01/2011 Sembra che si stia arrivando alla frutta, ed anche oltre, al caffè e al conto, in certi ambienti teorici in cui si dichiara di analizzare le dinamiche capitalistiche in modo rigorosamente scientifico, senza nulla concedere a quisquilie quali la socialità, la complessità antropologica, l’etica e la giustizia distributiva, la difesa dell’ambiente naturale, e chi più ne ha più ne metta, fino ad arrivare all’umanesimo o ancora oltre, alla stessa ricerca di un senso da dare vita, che consentisse di uscire dalle “gabbie d’acciaio “ in cui il modo di produzione dominante tende a rinchiuderci. L’uomo, in queste analisi, non conta assolutamente niente, è come se in queste vicende avesse una parte esclusivamente nella veste di “agente strategico capitalistico” o di “funzionario del capitale”, diventando un puro ruolo. Ciò comporta, quindi, l’esclusione di gran parte dell’umanità dalle analisi stesse, analisi che pur dovrebbero riguardare le società umane e la storia universale, non trattandosi certo di osservazioni naturalistiche, come quelle dell’ornitologo che studia le abitudini dei volatili, o di studi scientifici relativi alle particelle di Planck in fisica subatomica. Se negli studi scientifici propriamente detti si indaga la natura in sé, indipendentemente dall’essere umano e dalla sua complessità, altrettanto non si dovrebbe fare, quando l’oggetto dell’indagine è il capitalismo, il modo di produzione dell’epoca che influenza l’intero sviluppo dei rapporti sociali, poiché è pur sempre la risultante dello sviluppo storico determinato dall’agire umano. Come si sa, la principale realizzazione dell’uomo è l’organizzazione sociale, di gran lunga più importante e decisiva dei reattori nucleari o dei motori a ioni, e l’organizzazione sociale non può essere indagata come si indagano la crosta, il mantello e il nucleo della terra, oppure la composizione chimica della miscela di gas che ne costituisce l’atmosfera. Ciò che veramente sembra contare, in questa folle e fuorviante impostazione spacciata per scientifica – in cui si trascura l’uomo, è bene ripetere, pur trattandosi di un’analisi che riguarda le formazioni sociali e la produzione delle basi materiali della vita associata – sono i puri meccanismi riproduttivi capitalistici, da considerare intangibili, assieme allo scontro orizzontale fra i gruppi di potere dominanti. L’attenzione massima, se non esclusiva, si riserva alle “sfere” in cui avviene il conflitto fra tali gruppi di comando, che sono nell’essenziale tre: la sfera politico‐ strategica‐militare, quella economico‐produttiva‐finanziaria [l’aspetto finanziario è oggi in piena esaltazione] e quella culturale e ideologica. La sfera politico‐strategica, connessa storicamente all’uso dello strumento militare, è quella maggiormente monitorata da questi “analisti scientifici”, autonominatisi 85 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 biologi del capitalismo, nella tragica illusione di poterne osservare la composizione al microscopio come si farebbe con un corpo o un suo tessuto, senza alcuna concessione al “romanticismo sociale”, alla riflessione filosofica ed alle questioni etiche. Lo studio incessante di ciò che avviene nella “triade” delle sfere capitalistiche – strategie e politica, economia e finanza, ideologia e cultura – in cui si muovono ad alto livello coloro che veramente decidono alimentando il motore sistemico, assorbe tutte le energie dei “laboratori d’analisi” in questione. Per sfuggire alle accuse di economicismo che molti ex‐marxisti, marxisti pentiti o apostati del marxismo conoscono fin troppo bene [e questi signori sono in buona parte degli ex‐marxisti, pentiti o apostati], si privilegia la dimensione politico‐ strategica‐militare dello scontro, sottomettendo la cosiddetta razionalità economico‐strumentale, che dovrebbe caratterizzare la sfera economico‐produttiva, ad elementi che sono in buona misura irrazionali perché direttamente connessi alla natura umana, alle aspirazioni dell’uomo e ai suoi desideri – riassunti nella pomposa espressione di “razionalità strategica” – e che quindi non possono che rivelarci tutto il dirompente portato della complessità antropologica. Quale “razionalità” di natura strategica vi può essere nella decisione di consumare rapidamente le risorse non rinnovabili del pianeta, mettendo a rischio la stessa sopravvivenza delle generazioni future [i propri figli e nipoti compresi], al solo scopo di “creare valore per l’azionista”, e cioè per sé stessi? In una simile decisione ciò che pesa è il desiderio smodato di ricchezza, quale mezzo indispensabile per accrescere il proprio potere, che anima alcuni individui in posizione di assoluto privilegio, e la rincorsa fra il desiderio e la sua realizzazione, che caratterizza l’uomo anche negli eccessi ed è la vera sorgente di certe decisioni elitistiche, non si presta certo a studi newtoniani o copernicani. Per quanto concerne le sfere di confronto elitistico, dalla finanza alle elaborazioni ideologiche, è necessario chiarire che queste ultime non fanno parte di altre dimensioni o di universi paralleli al nostro, perché non possono esitere separatamente dalla realtà sociale e da quella organizzazione sociale che le ha generate, oggi caratterizzata da grandi ineguaglianze e squilibri crescenti che non potranno non pregiudicarne la stabilità. E’ evidente che queste sfere, surriscaldate non da reazioni nucleari al loro interno ma dal conflitto fra i dominanti per la supremazia, non sono sospese nel vuoto come degli astri lontanissimi, ma poggiano su un piano ben preciso, il piano sociale, in cui il problema umano emerge con tutta la sua forza dirompente, in tutta la sua inevitabile complessità, e se questo piano si incrina, in seguito a disuguaglianze inaccettabili, ad abusi dei dominanti nella ripartizione delle risorse, ad ingiustizie crescenti, le magnifiche sfere capitalistiche non possono che cadere, rischiando di frantumarsi e di finire in mille pezzi, con grande sorpresa e 86 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 disappunto per questi folli “analisti” pseudoscientifici, che rischieranno di perdere il loro prezioso giocattolo e di veder smentite le loro teorie. Gli studiosi della biologia e della microbiologia capitalistica ipotizzano scontri fra gruppi di dominanti, fino all’interno delle formazioni sociali particolari in cui è diviso il mondo, e persino fra sfera e sfera, fra l’industria e il mondo della cultura, e all’interno delle sfere stesse, fra i manager delle imprese produttive e quelli impegnati nella finanza. L’interminabile serie di confronti e di lotte che ne consegue – come nei videogiochi spara‐spara, fin tanto che non si giunge all’ultima schermata – ricorda il tutti contro tutti hobessiano nello “stato di natura”, a riprova che il mercato liberalcapitalistico è una jungla in cui tutti sono in perenne competizione, sottoposti sempre e comunque alla legge del più forte, e ci rivela, oltre al ricordato disprezzo per l’uomo, una particolare concezione dello stesso, frutto di unʹantropologia decisamente pessimistica. Un presupposto dal quale si parte, anche se non si ha l’onestà intellettuale di dichiararlo in modo esplicito, è la quasi eternità del capitalismo, contro la cui onnipotenza è del tutto inutile ribellarsi, o perdersi in “critiche moralistiche”, stigmatizzandone le profonde ingiustizie, la pericolosità per l’ambiente, i danni che produce nell’essere umano, manipolato a piacimento per adattarlo alle sue dinamiche e per renderlo inoffensivo. Le quattro espressioni che definiscono l’alienazione umana nei rapporti sociali – e cioè la stessa espressione di alienazione, l’estraniazione, la reificazione e l’oggettivazione – non hanno cittadinanza in questi contesti teorici, pur essendo chiaramente alla base dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo. Ma quanto precede è persino scontato, poiché non essendoci l’uomo, che si provvede ad occultare servendosi di meri ruoli sociali – quelli che contano nel processo decisionale, e soltanto quelli – non possono in alcun modo emergere le grandi e decisive questioni dell’alienazione e dello sfruttamento nei rapporti sociali. Secondo i guru dell’analisi scientifica nello studio del capitalismo, nulla di buono può partire dal basso, dalle classi subalterne, dai dominati irrimediabilmente esclusi dalla decisione strategica, i quali farebbero meglio a non agitarsi, a subire in silenzio e ad accettare rassegnati il loro ingrato destino, poiché in queste teorie non hanno ruolo e scompaiono completamente, non essendogli riconosciuto alcuno status ed alcuna possibilità di influire sul corso storico [Warren Buffet, Bill Gates, Rupert Murdoch, la famiglia Rockefeller, i de Rothschild, gli Agnelli con il ramo cadetto degli Elkann ed i Marchionne di turno ringraziano, tirando un sospiro di sollievo]. I dominati, che si immaginano sempre totalmente sottomessi, non potranno mai diventare l’intelletto attivo della trasformazione storica, e non ci potrà mai essere 87 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 una classe subalterna veramente rivoluzionaria ed intermodale, in grado di lottare per riaffermare la dignità umana consentendo il superamento del capitalismo. La posizione di alcuni fra loro può essere, al più, interstiziale e meno esposta a de‐ emancipazione e sfruttamento, con la speranza di un possibile, futuro miglioramento, ma in stretta dipendenza degli andamenti del mercato e del possesso di qualche competenza specialistica in settori in ascesa. Il messaggio che capziosamente si lancia, seguendo questa strada, è che il modo di produzione dominante non si può superare, ma si può soltanto studiare “scientificamente”, in modo asettico, senza alcuna intromissione umanistica o idealistica, prendendo atto definitivamente della sua onnipotenza, rinunciando a qualsivoglia critica articolata, e soprattutto rinunciando ad immaginare qualsiasi altro possibile legame sociale, meno iniquo e meno distruttivo, che potrebbe stabilirsi fra gli uomini. Nell’empireo teorico dei santoni della scienza più rigorosa che osservano al microscopio il capitalismo, con apparente freddezza e distacco, fino a pretendere di svelarci la sua stessa composizione chimica, i dominati sono trattati esattamente come una qualsiasi altra merce, destinata a scorrere nello spazio liscio della globalizzazione, o un qualsivoglia materiale da manipolare ed impiegare nei processi produttivi. Ma dove finisce quel prodotto sociale che nella realtà è pur sempre il frutto del lavoro delle classi dominate, senza il quale non esisterebbero né la finanza né gli eserciti e non avrebbe alcun senso indagare le tanto celebrate strategie capitalistiche? A questo punto dovrebbe essere chiaro in quali “tasche” finisce la gran parte del prodotto: non può che costituire una risorsa della quale le élite si appropriano, in via del tutto naturale – e non potrebbe essere diversamente, in una simile visione – non tanto allo scopo di assicurarsi un’esistenza comoda e “consumi di prestigio” per migliorare la loro qualità della vita, ma quanto per alimentare lo scontro reciproco, onde ottenere la supremazia sugli altri gruppi di comando. L’immagine proposta è quella di un mondo totalmente dominato dal Capitalismo senza alcuna possibilità di redenzione, da qui ad un futuro lontanissimo, e funestato dalla Guerra Infinita fra i suoi “signorotti”, i quali impiegano come arma ogni mezzo possibile, dalla finanza alla Nato, dalla cultura alla televisione, dall’energia alle nanotecnologie. La soluzione del problema non esiste, poiché non si può far altro che sperare nella vittoria del meno carogna fra i “belligeranti” che ci tengono in pugno. E’ meglio il fondo sovrano cinese dei vecchi petroldollari degli al‐Saud o degli investimenti dei grandi fondi pensione americani? JP Morgan è meglio di Goldman Sachs, oppure Syngenta è preferibile a Monsanto? 88 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 ENI e Fincantieri, qui in Italia, sono veramente molto migliori della Fiat che vorrebbe andarsene dalla penisola, e nel frattempo massacra i suoi dipendenti? Difficile dirlo, poiché queste sono pur sempre creature squisitamente capitalistiche, nate dalla stessa matrice e sottoposte alle medesime logiche, ma chi osa affermare il contrario, sostenendo che le cose non stanno esattamente in questi termini e le classi subalterne potranno riconquistare un ruolo decisivo, alzando il livello dello scontro sociale fino a portarlo alle estreme conseguenze, spesso è insultato, tacciato di “moralismo”, di “antiscientificità”, addirittura di “invidia” [accusa sommamente idiota e tipicamente berlusconiana, questa ultima], oppure di essere un imbonitore che illude i dominati, od ancora un predicatore visionario alla Girolamo Savonarola, rivelando questi rigorosi analisti che si nutrono di “scienza” una malcelata preferenza, pur se inconfessata, per il rapporto sociale capitalistico. La sola lente a centinaia di ingrandimenti che si utilizza, per indagare il capitalismo e spiegarlo con piglio scientifico, è quella puntata sull’incessante guerra elitistica che investe la finanza, le monete [dollaro o non dollaro quale valuta di riserva?], le forniture energetiche e di gas naturale [Nabucco americano contro South e Nord Stream della russa Gazprom], i contrastati accordi dell’industria automobilistica in un mercato ipermaturo [il caso Opel in Germania, il caso Chrysler‐Fiat, eccetera], e su tantissimi altri settori in ogni parte del mondo. Purtroppo per loro, mentre procedono ad un ossessivo monitoraggio del conflitto orizzontale inter‐dominanti, fra le sole élite capitalistiche vendute come casta di sopraffini strateghi, questi mirabili “studiosi” non riescono a distaccarsi completamente dalle emozioni umane [dannate imperfezioni dell’uomo!], e quindi finiscono per prendere le parti dell’uno o dell’altro gruppo – come farebbero i tifosi di una squadra di calcio davanti al teleschermo, o sulla tribuna di uno stadio –, rivelando, in ciò, di essere imperfetti ed irrazionali come tutti gli altri. Se lo scontro fra i ricchi e potenti “agenti strategici” è il vero motore di questo capitalismo, che si immagina senza classi per blandire la minaccia del conflitto verticale, nel momento in cui i subalterni osano rialzare la testa, sia pur con semplici rivendicazioni per una meno iniqua distribuzione del prodotto, immediatamente, in tutte le formazioni sociali e in tutte le sfere capitalistiche, da oriente ad occidente, gli “agenti strategici” sospendono le ostilità, ricompattandosi per far fronte alla minaccia, e si comportano come membri di un’unica classe sociale – quella globale – mostrando solidarietà reciproca e compattezza contro i subalterni. Ma un effetto rilevante, da porre in evidenza per la sua assurdità, è che in questa visione tutto il resto scompare e miliardi di uomini, che soffrono lo sfruttamento o che non accettano i fondamenti di questo sistema, che scontano sulla propria pelle le ineguaglianze capitalistiche, che vivono la condizione dei minus habentes, che 89 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 lottano e resistono o che sono ridotti all’impotenza dal ricatto e dalla repressione, è come se non esistessero. Anzi, in questo modello i dominati non devono esistere fin da principio – in una dissennata semplificazione della “complessità del reale” volta a sfoltire le variabili, in tal caso eliminando proprio l’uomo – perché la loro presenza porterebbe una fastidiosa ed indesiderata “contaminazione umanistica”, e soprattutto imporrebbe la considerazione del problema etico‐sociale, dell’alienazione e dello sfruttamento, persino quella della necessità della difesa dell’ambiente dalla dismisura e dall’illimitatezza capitalistiche, cose che ovviamente non sono osservabili attraverso le lenti di un microscopio in laboratorio. Studiare “scientificamente” il rapporto sociale capitalistico senza considerare l’uomo, in quanto tale, è una mera assurdità, come studiare il mare dimenticandosi dei pesci, o l’universo senza tener conto della presenza delle galassie. La verità è che occultando l’uomo, come avviene in tale caso, più che procedere con piglio scientifico allo scopo di produrre analisi oggettive, si cerca di nascondere l’iniquità profonda del capitalismo, che all’inizio del terzo millennio sembra destinata a raggiungere il suo culmine. Si accetta l’iniquità sociale come se fosse soltanto un “effetto collaterale” del confronto fra membri della nuova classe dominante, e si ignora la distruzione progressiva delle risorse naturali [quella che altrove si tenta di celare abilmente dietro la cosiddetta green economy] in quanto necessaria per la creazione del valore, ed in quanto concepita come un “riflesso secondario” dello scontro fra potentati. Riplebeizzazone di operai e ceti medi in occidente ed impronta antropica crescente in tutto il pianeta, suscitate dalle stesse dinamiche capitalistiche, non sono contemplate nelle “osservazioni scientifiche” di questi piccoli Limneo che si addentrano nelle paraterie, nelle selve e nei deserti del Capitale. Eppure, ironia della sorte, qualcuno fra loro sostiene nei rari momenti di lucidità che il Capitale non è una cosa, ma bensì un rapporto sociale stabilitosi fra gli uomini! Liberando il capitalismo dal fastidioso problema etico‐sociale, cancellando in tal modo l’uomo e dando per scontato che i subalterni sono essi stessi delle merci qualsivoglia apparse sugli scaffali, o dei semplici fattori della produzione disponibili nel conflitto strategico fra dominanti – nella finzione di un’impossibile scientificità nello studio delle questioni umane –, diventa più facile accettare e far accettare le logiche e le dinamiche del capitalismo, avallandole nei fatti. Con altre parole, chi fa queste operazioni spaccia un punto di vista squisitamente soggettivo, in tal caso procapitalistico, e quindi un’opinione pur sempre caratterizzata da instabilità e mutevolezza, per la conoscenza certa, per una teoria di matrice scientifica, un po’ come se un antico greco avesse cercato di far passare la 90 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 doxa, ossia la mutevole ed instabile opinione, appartenente ad un grado più basso di conoscenza, per l’epistheme, cioè la conoscenza al suo grado più alto, che per evidenti motivi a quel tempo non poteva che essere di matrice filosofica. Un’altra caratteristica sconcertante, che emerge in questi studi venduti come scientifici e rigorosi, è l’uso che talora si fa del pensiero di Marx – il quale dovrebbe essere opportunamente “ripensato” e non bassamente strumentalizzato – al solo scopo di giustificare, in ultima analisi, assieme alle proprie teorie le dinamiche intangibili del capitalismo, dalla classica estorsione del plusvalore, che oggi permane subendo però un’accelerazione per effetto dalla creazione del valore finanziario, alla completa distruzione dei legami comunitari fra gli uomini, d’ostacolo alla piena affermazione capitalistica. Rigettando tutto ciò che vi è di idealistico, filosofico, umanistico e salutarmene utopico in tale pensiero [quello del grande Karl Marx, naturalmente], e selezionando in modo capzioso soltanto ciò che si ritiene che sia “scientifico”, per poi superarlo o demolirlo ad ogni costo, o peggio per distorcerlo ai propri inconfessati fini, non ci si comporta come dei veri scienziati, nelle loro asettiche indagini riguardanti il mondo naturale, dai microscopici virus senza l’elica del DNA alle colorate Vanesse che svolazzano sui prati, ma al più come dei qualsivoglia pubblicisti del capitalismo, in alcuni casi non richiesti, o come degli intellettuali subalterni che operano ai margini degli apparati ideologici del sistema, in alcuni casi neppure “stipendiati”. Fare “due passi in Marx”, ad esempio, per uscirne infine, vuol dire in questi casi travisare il suo pensiero, non coglierne la totalità espressiva, ed asportare qualche parte del tutto per utilizzarla ai propri scopi, quelli più veri ed inconfessati, che con l’approccio rigorosamente scientifico c’entrano molto poco. I “patologi‐autopsisti” di Marx – gli stessi che oggi fanno due passi, irrispettosamente, sul suo cadavere, e ne analizzano le teorie, ufficialmente per scoprirne le cause della morte, ma nella realtà per utilizzarne inopportunamente le spoglie – altro non fanno che appropriare il pensiero del filosofo idealista tedesco, trasfigurandolo, per poter affermare, ad esempio, che la lotta di classe non ci potrà più essere, avanzando fino alle estreme conseguenze la frantumazione [e l’instabilità] sociale con l’inarrestabile automa del progresso tecnico‐scientifico, sfuggito al controllo umano. Ciò che è osservabile al presente, e per questi “medici forensi” lo sarà anche nel futuro remoto, è soltanto la lotta di alcune parti minoritarie della società, sempre e rigorosamente connotata in senso capitalistico [ci mancherebbe!], e quindi totalmente interna al sistema, che porta esclusivamente ed acquisire posizioni migliori a scapito degli altri competitori. Si tratterà sempre di più, nella realtà sociale del prossimo futuro, della lotta di gruppi assolutamente minoritari e di singoli, sfuggiti alla ri‐plebeizzazone del ceto 91 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 medio e all’annientamento della vecchia borghesia, che tenteranno di mantenere i propri privilegi e il proprio status o addirittura di ascendere ai livelli inferiori della nuova classe dominante globale. Da un altro punto di vista, è un po’ come affermare, in un’ottica di strutturazione sociale individualistica totalmente interna alla riproduzione sistemica, che la posizione occupata da ciascuno nella società è determinata dai meccanismi sovrani del Mercato. Nell’esempio fatto, si può rilevare unʹinquietante convergenza con ciò che pensa il multimiliardario appartenente alla classe globale Warren Buffet, il quale ha sostenuto che oggi non esiste il conflitto verticale, fra dominanti e dominati, ma che la lotta di classe la conducono vittoriosamente i pochi ricchi e potenti, quale loro esclusiva, contro le masse di poveri ed impoveriti. Quello che Warren Buffet non ha detto esplicitamente, ad integrazione delle sue chiare parole lo suggeriscono questi mirabili studiosi, per i quali i pochi ricchi e potenti, una volta acquisito il definitivo monopolio della lotta di classe e neutralizzata la restante parte della specie umana, si mangeranno fra loro allegramente, come squali nell’oceano capitalistico, fino al totale prosciugamento dello stesso, che però richiederà [state pur tranquilli!] tempi a dir poco geologici. Appare fin troppo evidente che seguendo questa via – oggettivamente filo‐ capitalista e totalmente subalterna dei Grandi Interessi Privati ai quali tutto si può sacrificare – che forse non porta diritti alle fiamme dell’inferno, ma che sicuramente può portare ad esiti grotteschi, in alcuni casi persino deliranti [i poveri non esistono, come se non avessero vita, le questioni sociali sono il frutto illusorio del “romanticismo”, l’ambiente non conta], ciò che rimane è quello che lo scrivente ironicamente definisce un [quasi] “eterno ritorno delle stesse cose”, ossia l’alternarsi di fasi capitalistiche monocentriche e policentriche, rispettivamente con un centro dominante che la fa da padrone e con più centri in competizione fra loro nel mondo, in una sorta di sublime ricapitolazione da “Il nome della rosa”, da qui fino ad un imprecisato e lontanissimo futuro che tende ad approssimare l’eternità. Ed allora, se questo è quello che passa il convento, anzi, se questo è quello che ci passa il cosiddetto approccio scientifico allo studio del capitalismo, non si può che concentrare l’attenzione sul conflitto politico‐strategico nelle alte sfere, con particolare attenzione per le fasi policentriche, in cui effettivamente il confronto fra le èlite – che non cessa di divampare, si badi bene, anche in situazioni di monocentrismo – diventa più appassionante ed incerto, poiché il “campionato” è più ricco di squadre partecipanti, che si affrontano senza risparmio per la coppa, e l’esito può non essere scontato. In questi modelli di [mancata o scorretta] interpretazione della realtà, l’unica possibilità che rimane ai dominati, e cioè alla stragrande maggioranza degli uomini che popolano la terra, è quella di appoggiare la parte elitistica meno criminale, 92 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sperando che sia un po’ meno esosa delle altre nell’estorsione del plusvalore, che imponga meno sacrifici, che non distrugga troppi posti di lavoro e che di tanto in tanto getti un osso da spolpare sotto il tavolo, per il sostentamento delle masse innumerevoli ed inerti. Se il conflitto in passato si concentrò soprattutto negli ambienti politico‐militari ed in quelli ideologico‐culturali, oggi invade pienamente la sfera economico produttiva, ed i contendenti possono disporre a piacimento di un’arma di rara potenza, quale è, in effetti, la finanza creativa e speculativa, che pesa ancor di più delle vecchie corazzate imperialiste armate con grossi calibri, o delle portaerei nucleari da centomila tonnellate, che issano sul pennone la bandiera a stelle e strisce. In tali contesti, al di sopra di uno strato di lavoratori in parte rilevante spogliati di veri saperi e, al più, dotati di conoscenze ultraspecialitiche, vi sarebbero i manager che dirigono le attività produttive ed ancora più in alto, alla sommità della piramide capitalistica, quelli che lo scrivente chiama i “globalisti”, intendendo con tale espressione gli appartenenti allo strato più alto della nuova classe globale [coloro che effettivamente decidono], ma che altrove si preferisce chiamare imprenditori di alto livello o addirittura imprenditori‐strateghi, in possesso di “saperi politici” e quindi adatti a guidare la società, un po’ come gli Alfa nel distopico e manipolatorio Mondo Nuovo di Aldous Huxley. E’ qui evidente il riflesso della concezione schumpeteriana di imprenditore, che l’economista austriaco Joseph Alois Schumpeter concepiva non come semplice organizzatore dei fattori della produzione per l’ottenimento del massimo profitto [che è ancor oggi la definizione forse più nota e più diffusa], ma come individuo particolarmente “immaginativo” destinato a promuove l’innovazione. Cavalcare le onde dell’innovazione, immaginare nuovi scenari produttivi, che diventano inevitabilmente nuovi scenari di confronto con i competitor, è niente altro che la visione schumpeteriana dell’imprenditore – la quale trova un’origine nel pensiero dell’economista classico Jean‐Baptiste Say – portata alle estreme conseguenze dai teorici di cui ci si occupa, fino ad invadere pienamente la sfera della politica e delle strategie. Gli imprenditori diventano la sola ed unica forza motrice del mutamento e del progresso concepito, in buona sostanza, come tecno‐economico, trasformandosi nell’immaginario degli “scienziati capitalistici ricorsivi”, teorici del conflitto ai massimi livelli, in Imprenditori‐Strateghi. Sarebbero questi ultimi i veri, i soli e gli unici depositari delle strategie, dei “saperi politici” iniziatici e quindi costituirebbero – più che semplici imprenditori capitalistici i quali appropriano la ricchezza, sfruttano il lavoro altrui e l’ambiente naturale per scopi privati – una sorta di casta guerriera, degli autentici Signori della 93 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Guerra dotati di un’infinità di “sistemi d’arma” che combattono per prevalere gli uni sugli altri, influendo sugli equilibri geopolitici del pianeta. Se l’immaginazione può essere più importante dello stesso sapere, poiché l’immaginazione supera i limiti della conoscenza abbracciando il mondo, come affermava Albert Einstein [finalmente qualcuno con una vera formazione scientifica!], gli strateghi del capitale contemporanei ne sono gli unici depositari, ed il capitalismo che li ha generati, trasformandoli nei suoi agenti, gli assegna il ruolo di dominatori che anticamente era assegnato alla nobiltà di spada alleata del dotto clero, nell’occidente feudale, ed ai baroni‐samurai, in estremo oriente. Ma Einstein affermava anche – in unʹevidente concessione all’umanesimo ed al “romanticismo” che lo scrivente apprezza – che non vi può essere reale progresso finché sulla terra c’è un bambino infelice, smentendo, con queste semplici parole, la favoletta del Progresso assicurato dalle dinamiche capitalistiche e dall’azione dei suoi agenti. Ben altra cosa era il riconoscimento alla vecchia borghesia proprietaria, ormai quasi estinta e sostituita dalla Global class capitalistica, del titolo di classe più rivoluzionaria della storia umana, come fece il grande Karl Marx. Quello che è il Nemico Principale nella dimensione sociale e il Grande Parassita dello spazio globalizzato diventa, nell’immaginario degli scienziati maniacalmente attenti ai corsi e ricorsi ed alle lotte capitalistiche, la nobile figura di un condottiero contemporaneo, dotato di grande immaginazione, a differenza del resto della specie umana, e nel contempo depositario della conoscenza e delle strategie più raffinate. Ciò giustificherebbe, fra l’altro, il sacrificio di decine di migliaia di operai che partecipano come anonimi eserciti, su fronti opposti, allo scontro fra i gruppi automobilistici per le quote di mercato, e che vivono quotidianamente sulla loro pelle, senza alcuna mediazione, le “ambizioni” dei Grandi Manager ed Imprenditori, in termini economici e soprattutto in termini di distruzione dei loro diritti. La fucilazione alla schiena che in altra epoca si riservava ai disertori è sostituita, in tal caso, dal licenziamento individuale e di massa, dalla chiusura dello stabilimento‐caserma [Termini‐Imerese e forse Mirafiori, in Italia] o dal suo ridimensionamento in termini occupazionali, ed in buona sostanza dall’esclusione per moltissimi. Quindi, nel globo terracqueo e nelle “formazioni sociali particolari” in cui la terra è divisa, non si muove foglia che il locale Imprenditore‐Stratega o Signore del Conflitto Strategico Capitalistico non voglia, e così sarà [quasi] per sempre. Se così va il mondo, secondo gli “analisti scientifici” più intransigenti, gli studiosi della strategia e del conflitto ai massimi livelli, i microbiologi in camice bianco di questo capitalismo che ci allietano con le loro facezie, quale influenza possono 94 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 esercitare le masse innumerevoli di subordinati, le neoplebi di un mondo sottoposto alle pratiche della globalizzazione, i perennemente sfruttati ed espropriati, sugli assetti geopolitici planetari e sullo stesso destino futuro dell’umanità? Ovviamente nessuna. Sembra che si vogliano addirittura giustificare, alla luce delle intangibili dinamiche capitalistiche e delle inviolabili logiche del capitale, le azioni peggiori e socialmente più crudeli della suprema casta guerriera di Imprenditori‐Strateghi, anzi, nasce il forte sospetto che legittimando per tale via il capitalismo e dandolo per scontato come “esito destinale” al quale la storia ci ha inevitabilmente condotto, si vuole a sua volta legittimare il potere di questa casta politico‐strategico‐guerriera nei secoli a venire, con il pretesto di un approccio scientifico “veritativo” che non lascerebbe scampo. E a questo punto entra in gioco la geopolitica, disciplina ibrida e tributaria della politica e della geografia che ha circa un secolo di vita, o meglio, entra in scena una sua distorsione ideologizzante, se non addirittura misticheggiante. Se tutto si riduce allo scontro planetario fra una ristretta cerchia di Signori del Conflitto Strategico Capitalistico, depositari della decisione politica e strateghi del capitale, i quali controllano gli stessi apparati statuali e gli organi sopranazionali, allora è chiara la dimensione geopolitica assunta dallo scontro, perché gli stessi stati, i governi e i popoli, gli eserciti e i corpi diplomatici, i bacini di risorse, i saperi scientifici e le tecnologie, non rappresenterebbero che altrettante armi in questo conflitto fra pochi “iniziati”. Ma è inevitabile che il solerte studioso investito da un’evidente deriva teorica con farneticazioni “scientifiche” [o per meglio dire, di chiara natura scientista], il quale ha ridotto l’intera storia del mondo a questo conflitto e pensa a una semi‐eternità del capitalismo, essendo pur sempre un uomo, non riesce ad astrarsi completamente, a mantenere un distacco olimpico ed una freddezza ultraterrena nelle sue indagini, in quanto non sta osservando gli astri o i microbi, ma i suoi stessi simili, e perciò finisce per partecipare, per schierarsi sulla base delle sue preferenze soggettive, delle appartenenze e della sua storia personale, sostenendo una delle parti in competizione, esattamente come un tifoso della domenica sostiene la squadra del cuore. Se poi si sceglie di parteggiare per gli “emergenti” contro lo strapotere americano e l’euroatlantismo, esiste pur sempre una geopolitica ideologizzata, a sfondo mistico, che mostra di credere in una [improbabile e mai esistita] unità eurasiatica politica, strategica, culturale, economica, in contrapposto ai tentativi egemonici statunitensi, un’unità che abbraccerebbe più di mezzo mondo, da Lisbona a Port Arthur, dalla Danimarca alla Manciuria. 95 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Questa geopolitica, detta euroasiatista, ha il suo perno nella Russia, estesa su tutti e due i continenti e quindi un vero e proprio ponte, per molti versi, non ultimo quello economico e commerciale, fra l’Asia e l’Europa. La Federazione Russa potrebbe rappresentare una sorta di cerniera fra occidente ed oriente, favorendo scambi non soltanto mercantili ma anche culturali fra questi due mondi, in una situazione di reciproco rispetto, e addirittura di crescente collaborazione? Posta in tal modo la questione, ed in astratto, potrebbe anche sembrare positiva [e nei termini descritti lo è senz’altro], ma è necessario andare un po’ più in profondità, per capire di cosa effettivamente si tratta. Il pensiero ideologico‐geopolitico con venature mistiche degli euroasiatisti, in Italia provenienti soprattutto da quella che un tempo si definiva “estrema destra”, si contrappone alla visione geopolitica atlantica frutto dell’egemonia americana in occidente, che in buona sostanza vede l’Europa eternamente sottomessa agli USA, ed anche alla più antica visione eurocentrica, da tempo declinante, che però conserva di buono almeno una cosa: l’indipendenza politica e culturale dell’Europa stessa. Lo sfondo ideologico sul quale si staglia questa “visione geopolitica” del mondo è quello dell’antiamericanismo [in sé condivisibile] e dell’antisionismo [in sé giustificabile], ma nella realtà nasconde un forte preconcetto antiamericano, che investe lo stesso popolo nordamericano, per quanto riguarda l’antiamericanismo, e l’antisemitismo rivolto contro tutti gli ebrei [ma non certo contro gli arabi, che sono pur sempre semiti], per quanto riguarda l’antisionismo. Constatato che l’Europa non ha da tempo una vera autonomia, essendo sottoposta ad un controllo esterno che le impedisce di risorgere e riaffermarsi come grande mondo culturale e di civiltà, l’antiamericanismo [che spesso nasconde un preconcetto antiamericano] e l’antisionismo [che spesso maschera un vero e proprio antisemitismo] impongono di cercare altrove, in altri mondi culturali ed in ben altri lidi, le “forze geopolitiche” che consentano di battere i disegni di dominio degli USA e dei sionisti. La Federazione Russa nelle mani di Vladimir Putin, riaffermatasi come potenza regionale, affrancatasi almeno un po’ dagli USA ed oggi in ascesa, dopo l’oscuro periodo eltsiniano di decadenza e di acquiescenza nei confronti delle politiche di potenza americane, fa proprio al caso di questi euroasiatisti italiani e occidentali, orfani della Tradizione, del neofascismo, di una certa idea dell’Europa, ed anche, in alcuni casi, del bolscevismo e dell’antiamericanismo comunista. Nei casi più estremi [chi scrive ha avuto modo di constatarlo personalmente] fede euroasiatista, spirito antiamericano e pregiudizio antisemita vanno a braccetto con il “puntinismo”, cioè con una sorta di culto della personalità che pone al centro proprio la controversa figura dello statista russo Vladimir Putin, al quale, in tutta 96 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 onestà, oltre ai demeriti va riconosciuto anche qualche merito, come, ad esempio, l’oggettivo miglioramento delle condizioni di vita nella Federazione da lui guidata, rispetto agli oscuri e disastrosi anni novanta. L’orfanello abbandonato a sé stesso, volendo essere un po’ ironici e nel contempo dickensiani, cercherà il conforto ed il riparo di una nuova famiglia, nuove figure di riferimento e l’affetto di nuovi genitori [sempre ammesso che questi vorranno adottarlo], ma non potrà mai dimenticare i suoi veri genitori, ormai defunti, il cui ricordo, e la conseguente nostalgia, lo accompagneranno nella nuova situazione. Così, antisemitismo, neofascismo ed anche un certo bolscevismo riaffiorano nelle posizioni degli attuali euroasitisti [quelli italiani, ad esempio], che hanno simbolicamente abbandonato l’Europa, in certi casi un’idea millenaria dell’Europa, per approdare in ben altri lidi. Premesso che lo scrivente è per l’autonomia culturale e politica del vecchio continente, per una sua possibile rinascita dopo secoli di pratiche colonialiste nei confronti del resto dell’umanità, di sfruttamento del lavoro a scopi di potenza elitistici, di lotte sociali, di guerre intestine, ed infine, come effetto della seconda guerra mondiale, di subordinazione alla superpotenza nordamericana che continua nel momento presente, è lo stesso buon senso a suggerire che vi è ben poco in comune, se non un ampio [e immaginario] spazio geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, fra un nomade della steppa dei Calmucchi o un mongolo di Buriati, da una parte, e un danese di Copenaghen, dall’altra parte. La difesa dell’autonomia dell’Europa è un tentativo di difesa, o meglio di riaffermazione, della nostra stessa libertà, sia contro quella egemonia nordamericana che sembra non avere fine sia contro la minaccia di future ed estese colonizzazioni, che potrebbe arrivare da oriente. Se pensiamo alla storia del vecchio continente, ed in particolare a quella della sua antica culla di civiltà nell’area mediterranea, notiamo come fin dal tempo degli Elleni l’Europa ha cercato di resistere alle invasioni asiatiche, riuscendo anche a vincere e a mantenere la sua specificità culturale, come è effettivamente accaduto dalla battaglia di Maratona [490 a.C.] in poi. La filosofia greca e il diritto romano, le forme specifiche di organizzazione della cosa pubblica e della vita sociale, i peculiari stili artistici ed architettonici che hanno segnato la storia d’Europa hanno potuto affermarsi proprio perché, fin dal tempo remoto degli Elleni, la resistenza contro le invasioni asiatiche ha avuto un certo successo, salvaguardando la specificità europea. Se i persiani avessero vinto contro gli ateniesi, gli spartani e gli altri greci coalizzati nel 480 a.C., in quella che è nota come la seconda guerra persiana, avrebbero forse realizzato, con largo anticipo, quello che sembra essere il grande sogno euroasiatista, sottomettendo a sé l’Europa e spingendosi sempre più ad occidente, ed anche se ciò non è accaduto – o potrebbe accadere soltanto in unʹinteressante e 97 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 godibile opera di storia alternativa – ci dimostra che i tentativi di “unificazione” eurasiatica, fin dal mondo antico, in realtà hanno rappresentato meri tentativi di conquista, di espansione, di sottomissione di altri paesi da parte di imperi e di potenze militari. E’ persino divertente immaginare che Serse I l’achemenide, figlio di Dario, possa tenere il posto che oggi è riservato, nel bacato immaginario degli euroasitisti da operetta, ai grandi “eroi” eurasiatici Vladimir Putin, ed un po’ meno, il cinese capital‐“comunista” Hú Jǐntāo. Ma gli eurasiatisti fidano ciecamente nella Russia, o meglio, confidano nella forza di quella potenza “energetica”, moderatamente contrastiva dei disegni di dominio americani, che è la Federazione Russa nelle mani del gruppo di potere di Vladimir Putin, memori in questo della grande lezione del “padre della geopolitica”, l’inglese Halford John Mackinder, che all’inizio del Novecento individuò proprio nella Russia una sorta di perno geopolitico della storia, il cuore stesso della terra [Hearthland], il cui controllo avrebbe consentito il cruciale controllo dell’intera eurasia, con annessi e connessi. Appare chiaro che “tifando scientificamente” per l’affermazione della Federazione Russa, per quella della Cina, oppure per qualsivoglia potenza regionale emergente in vista di un possibile, futuro mondo multipolare stabilitosi in barba ai tentativi unipolaristi americani si può aderire con entusiasmo all’ideologia geopolitica euroasiatista, che, ironia della sorte, è quanto di più antiscientifico e di mistico si possa immaginare. Del resto, vi sono evidenti punti di contatto fra l’”immaginario teorico” dei cultori della ricorsività e la visione espressa dai “testimonial” euroasiatisti, poiché la multipolarità è l’equivalente geopolitico e l’anticamera del policentrismo vero e proprio, mentre l’unilateralismo geopolitico corrisponde grossomodo al monocentrismo. La condivisione di questi nuovi esegeti riguarda anche la prospettiva che il mondo, interamente sussunto al Capitale fino alla morte del sole [o quasi], ha davanti a sé. Così, il primo scorcio del terzo millennio mostra l’inizio di un cambiamento storico di qualche rilievo, non certo per la tenuta del capitalismo in quanto modo di produzione dominante e rapporto sociale stabilitosi fra gli uomini, che si dà per scontata, ma per il possibile passaggio del testimone da un unico centro che irradia politiche e strategie nel resto del mondo ad una pluralità di centri decisionali emergenti, saldamente in mano agli “agenti strategici” ed ai “samurai” del Capitale, che si affronteranno senza esclusione di colpi in futuro, con nostro sgomento e nocumento. Ecco che lo scontro incessante fra il cozzare di corazze e le molte sofferenze cagionate ai popoli, ingaggiato fra imprenditori‐strateghi, élite globaliste del capitale, o più precisamente, membri del livello di comando della nuova classe 98 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 globale, nell’alternanza meccanicistica di fasi capitalistiche monocentriche e policentriche, troverebbe una conferma e una giustificazione sul versante di una certa geopolitica, con l’avvento conclamato del multilateralismo, la prospettiva della formazione di un’”isola eurasiatica” [a guida russa o cinese?] e la fine definitiva del sogno unipolare americano. L’agognata fase policentrica in cui dovrebbero emergere i “buoni” russi e cinesi, dando vita nei sogni più arditi all’eurasia, quale potenza alternativa a quella americana e con essa competitiva, sarebbe inequivocabilmente annunciata dall’inizio di un salutare multilateralismo nelle relazioni internazionali [per la verità ancora molto incerto ed ambiguo], in contrapposto all’unilateralismo monocentrista americano. Vi è una comune costumanza, che contraddistingue i teorici ricorsivi filocapitalistici ed i sostenitori dell’eurasia, per quanto di gran lunga più evidente in questi ultimi, e cioè l’abitudine opportunistica di sostenere [e di parteggiare per] qualsivoglia potenza regionale, qualsiasi gruppo religioso o gruppo politico che contrasta, per via diplomatica, economica ed anche con l’uso delle armi i disegni della superpotenza americana, e naturalmente quelli dell’”entità sionista” israeliana, cioè il moderno Israele, al quale gli euroasiatisti tendono a non riconoscere neppure la dignità di stato. Perciò, si sostiene senza riserve il regime dei generali birmani unicamente perché osteggia la supremazia americana in quella regione, come se fosse ciò che non è, cioè un’eroica forza di liberazione o di resistenza sostenuta da un intero popolo, senza considerare le vera natura di questo regime e le sofferenze che da decenni infligge alle popolazioni della Birmania, indipendentemente dalla minaccia egemonica rappresentata dagli USA [che tuttavia è reale]. Oppure si parteggia per Hezbollah in Libano perché è riuscito a fermare militarmente l’ennesima invasione israeliana nel sud di quel paese, ma si assume questa posizione del tutto strumentalmente, ignorando il piccolo particolare che le prime vittime dello scontro fra l’aggressiva “entità sionista” e il movimento armato libanese sciita che la fronteggia sono proprio gli abitanti del sud del Libano, bombardati da Tseva Haganah le‐Israel ed anche quelli, arabi o ebrei, del nord della Galilea, colpiti dalle periodiche risposte missilistiche del movimento libanese, e fra questi in particolare i più poveri ed esposti. Premesso che la difesa del Libano del sud, da parte delle milizie sciite e dei loro alleati cristiani, è considerata del tutto legittima dallo scrivente, l’atteggiamento euroasiatista è invece censurabile, perché rappresenta soltanto una cinica ed opportunistica strumentalizzazione di una tragedia vissuta da altri, quale è, in effetti, la guerra. I “ricorsivi scientifici”, a differenza degli euroasitici ideologizzati, sembrano preferire alle guerre, alle guerriglie ed ai tradizionali scontri armati, con annessi 99 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 bombardamenti e Blitzkrieg, le contese fra i grandi gruppi industriali e finanziari, che coinvolgono le organizzazioni statuali ed interi paesi, relative ad esempio all’energia o al settore automobilistico, con annessi ridimensionamenti occupazionali e peggioramento delle condizioni dei lavoratori, alle quali i suddetti dedicano un monitoraggio quasi ossessivo, cercando di cogliere in questi scontri elitistici i segnali dell’avvento della fase policentrica. La funzione svolta dai [pessimi] generali birmani, dagli Hezbollah libanesi, o dal movimento politico‐militare di Hamas nella tormentata striscia di Gaza, dal punto di vista geopolitico euroasiatista, rappresenta, su ben altri piani di conflitto geostrategico, una funzione simile a quella svolta dall’italiana ENI, stabilendo accordi e joint venture energetiche con la Gazprom russa, in barba ai concreti interessi della finanza americano‐sionista e dei grandi gruppi statunitensi, che informano le politiche delle amministrazioni federali USA. Se gli euroasitisti non hanno alcuna considerazione per le sofferenze delle popolazioni coinvolte nei conflitti, o sottoposte alla repressione di regimi brutali – il popolo birmano deve subire l’utilissima casta dei generali in quanto si oppone gli americani e soltanto per questo – così i “ricorsivi” se ne fregano bellamente della sorte dei lavoratori che subiscono sulla loro pelle la tirannide finanziaria e le contese fra i potentati economici. I popoli, i lavoratori, i dominati, in queste pregevoli visioni, non compaiono neppure come semplici pedine, e il risultato è che sulla grande scacchiera del conflitto ci sono soltanto i membri della classe dominante dell’epoca, quella che lo scrivente chiama Global class, impegnati in uno scontro geopolitico inter‐dominanti ed animati esclusivamente dai loro interessi particolari. La sola cosa rilevante è che le potenze regionali, o i gruppi armati, e certi interessi economico‐produttivi contrastino efficacemente gli Stati Uniti, quale potenza indubbiamente negativa con tendenze egemoniche, e ridimensionino nel contempo gli appetiti planetari della finanza anglo‐americana, in vista dell’avvento di un mondo multipolare [eurasiatici geopolitici] ed infine policentrico [ricorsivi capitalistici]. Inutile precisare che se anche questo scenario sembrerà nei prossimi anni concretarsi, ciò non accadrà nei termini sperati dagli euroasiatisti e dai “ricorsivi”, ma l’Europa sarà costretta a passare da una dominazione ad unʹaltra, ben lungi dal riacquisire autonomia ed indipendenza, e il più serio pericolo, nel lungo periodo, potrà essere rappresentato dalla colonizzazione cinese, rivelando a tutti il vero significato della suggestiva espressione “eurasia”. La prima cosa che si nota, in queste pompose teorizzazioni a sfondo messianico‐ ideologico [euroasiatismo geopolitico nipotino dell’inglese Mackinder e figlio legittimo del mistico‐teorico russo Aleksandr Dugin] ed a base scientista filo‐ capitalistica [ricorsività delle fasi capitalistiche monocentriche e policentriche, quasi 100 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 eternità del capitalismo, conflitto strategico fra dominanti a volontà], è che il capitalismo permane sullo sfondo come un dato ormai acquisito e quindi accettato pienamente, destinato nostro malgrado a funestare la vita umana “in secula seculorum”, mentre la questione sociale, che diventa sempre più rilevante con il crescere degli squilibri nella ripartizione della ricchezza, in questa folle ibridazione fra teoria scientista della ricorsività capitalistica e messianesimo geopolitico euroasiatista è totalmente derubricata. L’altra osservazione è che i progetti geopolitici di fine Novecento, incentrati su una qualche idea di eurasia con una funzione contrastiva nei confronti del tentativo unilateralista americano, sono in buona sostanza falliti. Nel 1998 Evgenij Primakov, ministro degli esteri di Boris Eltsin, sostenitore del multilateralismo contro lʹegemonia USA, tentò di consolidare i rapporti fra Russia, Cina e India, nel quadro di quella che è stata chiamata la Dottrina Primakov. Questo progetto ʺeuroasiaticoʺ si può dire che in parte significativa non ha avuto un gran seguito, ma la Russia post‐sovietica, pur essendo la seconda potenza militare‐nucleare del mondo, pur avendo grandi bacini di materie prime e soprattutto l’”arma energetica” rappresentata dal gas naturale, avrebbe rischiato di finire letteralmente schiacciata, nel lungo periodo, fra i colossi economico‐ demografici cinese ed indiano in rapida ascesa. Nel 2003 la Francia del gollista Jaques Chirac e del suo ministro degli esteri Dominique de Villepin ha tentato di fermare la seconda guerra americana in Iraq, guidando una coalizione di paesi [una vera e propria ʺfrondaʺ anti‐americana nata in Europa] che comprendeva la Russia e la Germania, con il Belgio ed altri pesi minori i quali appoggiavano l’iniziativa francese. La Francia, in quel ormai lontano 2003, si proponeva quale difensore degli arabi, ma il suo vero scopo era di sfidare gli USA e di competere con loro per il ʺprimato geopoliticoʺ almeno in Europa. La Russia seguiva la Francia e Dominique de Villepin, allora ministro degli esteri molto attivo e combattivo, ma anche questo tentativo ʺgeopoliticoʺ in qualche modo ʺeuroasiaticoʺ [data la presenza della Federazione Russa] di opporsi allʹegemonia USA è sostanzialmente fallito, spegnendosi in breve tempo. L’invasione americana dell’Iraq, con l’invio di truppe britanniche, polacche e di altri paesi – a dimostrazione dell’inesistente unità europea – non è stata fermata e l’effetto concreto più rilevante dell’iniziativa Chirac‐de Villepin è stato il precipitare dei rapporti fra le cancellerie francese e americana, nonché il boicottaggio dei prodotti francesi negli Stati Uniti. Quello che oggi è chiamato il BRIC, ossia l’ipotetica unione di Brasile, Russia, India e Cina, non rappresenta certo una stretta e vincolante alleanza strategica fra questi stati, ma soltanto una sigla, un mero acronimo – BRIC, appunto – che identifica 101 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 quattro paesi molto diversi lʹuno dallʹaltro, che non sempre hanno gli stessi interessi e dei quali uno non fa parte dello spazio bicontinentale euroasiatico. Il secondo summit dei paesi del BRIC si è tenuto a Brasilia all’inizio del 2010 ed è emersa la loro richiesta, che certo non tende a rivoluzionale il cosiddetto ordine internazionale, di una maggiore rappresentatività negli organismi internazionali, dato il crescente peso economico e demografico che questi paesi vantano. Il summit di Brasilia è stato utile per la conclusione di accordi bilaterali fra questi paesi, i quali rappresentano – e si presentano – all’interno delle logiche capitalistiche grandi e lucrosi mercati e degli “attrattori” di investimenti. L’interesse prevalente a concludere qualche entente cordiale fra le predette potenze capitalistiche emergenti è di tipo economico e commerciale, ma, in subordine, gli accordi reciproci potrebbero avere qualche limitata funzione contrastiva nei confronti degli USA, senza però esagerare troppo, trattandosi pur sempre di paesi che appartengono alla “grande famiglia capitalistica globale”, ancor oggi a guida americana. Al di là della Dottrina Primakov, che comunque aveva una propria dignità nonostante gli esiti modesti conseguiti, e della successiva iniziativa della cancelleria francese per contrastare gli USA, non coronata da successo, il cosiddetto continente eurasia ci appare per quello che è sempre stato: una mera espressione geografica, fisica e non politica. In conclusione di questo capitolo, rileviamo che: 1) accettazione del capitalismo come destino inevitabile per il genere umano, nei corsi e ricorsi storici con l’alternanza di fasi monocentriche e policentriche per i secoli a venire, 2) pretesa di scientificità nelle analisi che nasconde una dissennata visione scientista, 3) attenzione monomaniacale per i conflitti e le strategie dei dominanti, 4) mistica geopolitica euroasiatista, 5) esclusione delle classi subalterne e disprezzo per le questioni sociali, 6) indifferenza nei confronti dell’ambiente e della sua preservazione, sono altrettanti ingredienti di una deriva teorica evidente e il frutto di una sostanziale incapacità di spiegare questo capitalismo, di analizzarlo compiutamente, e tanto più di indicare una via d’uscita da questo grande ed oscuro labirinto in cui tutti siamo confinati. Facciamo riferimento al tradizionale gioco degli scacchi e immaginiamo una grande scacchiera in cui si giocano partite decisive per il futuro dell’umanità, il cui esito determinerà la direzione che potrà prendere la storia. Su questa scacchiera, gran parte dell’umanità non trova posto neppure come semplice pedone – sia fra i bianchi sia fra i neri – perché certe posizioni teoriche, scientiste e di rinforzo a questo Capitalismo, ed altre misticheggianti incentrate sulla geopolitica, hanno reso invisibili tutti i subalterni, e quindi la partita non può che giocarsi da occidente ad oriente fra sparute minoranze di privilegiati, fra 102 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 aristocrazie del denaro, grandi condottieri capitalistici e gruppi di potere emergenti, i quali sono gli unici a poter decidere del futuro di tutti, come è sempre stato e come sempre sarà, anzi, come si vuol far credere che deve essere! Se la geopolitica si trasforma in misticismo, assume un ruolo che non le compete, diventa una nuova ideologia in sostituzione del nazionalismo, del fascismo ed anche del comunismo novecenteschi, fungendo da supporto a quella “sublime ricapitolazione capitalistica” espressa dalla teoria della ricorsività, cessa immediatamente di essere una normale e rispettabile disciplina che studia le vicende umane su scala planetaria, e diventa un generatore di errori di valutazione e di distorsioni della realtà. Ma il modello abnorme che in queste pagine si è cercato di descrivere, pur con qualche semplificazione necessaria e con alcune concessioni al tanto deprecato “romanticismo sociale” [chiedendo perdono per questo allo stesso Marx], rappresenta nella realtà un supporto alle dinamiche del capitalismo contemporaneo, mai veramente messe in discussione. Se in futuro matureranno le condizioni per una vera Rivoluzione anticapitalistica, apparirà fin troppo chiaro che coloro che hanno elaborato simili visioni, capziose e depistanti, lo hanno fatto più o meno consapevolmente per occultare la vera sostanza del Capitalismo, nel suo Stadio Finale Speculativo di massima autocoscienza, di massima onnipotenza e di massima distruttività, e quindi saranno considerati per quel che, in effetti, sono: semplici ausiliari e tributari del Nemico Principale. Perciò, la sindrome della ricorsività capitalistica, accoppiata alla sindrome geopolitico‐euroasiatica quale patologia gemella, non può che generare “mostri” teorici ed ideologici, esattamente come il sonno della ragione. 103 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Brevi considerazioni sul significato della favola delle api di de Mandeville Commento del 01/02/2011 La favola delle api di Bernard de Mandeville è una metafora protocapitalistica, nata nei contesti culturali di quella che io chiamo la “prima società della crescita”, che non riguarda soltanto il celeberrimo modo di dire riassunto in “vizi privati e pubbliche virtù” e adottato fino ai giorni nostri, ipotizzando una funzione positiva dell’immoralità al servizio di un ipotetico bene comune, ma nasconde soprattutto lo scardinamento del metron degli antichi greci, traducibile con il “giusto mezzo”, a favore di quella che sarebbe diventata l’illimitatezza capitalistica nei contesti della seconda società della crescita, quella capitalistica propriamente detta. Nella discussione, che si preannuncia stimolante data l’intelligente critica e l’articolata disamina di Claudio Martini, dovrebbe intervenire Costanzo Preve che a questa cruciale questione ha dedicato moltissime pagine, in veste di filosofo sociale, di libero allievo di Marx, di comunitarista e di irriducibile anticapitalista. Invece intervengo io [bisogna accontentarsi …] per stabilire un parallelo, non so quanto proprio o improprio, fra la favoletta raccontata da de Mandeville e la più celebre e posteriore The Wealth of nations del protoeconomista Adam Smith, bibbia capitalistica riconosciuta, in cui vi è il seguente passaggio, universalmente noto e utilizzato dalle generazioni successive per la legittimazione del rapporto sociale capitalistico: Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità. [Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Libro I, Capitolo II] La vera “benevolenza” alla quale fa riferimento il pensatore scozzese, non è certo una semplice attitudine erroneamente attribuita all’uomo, ma lo schermo dietro il quale si nascondono, con tutta evidenza, la socialità, i vincoli comunitari, il solidarismo, una concezione dell’esistenza non imbrigliata nei rapporti economici, e l’Etica stessa, ed è proprio questa “benevolenza”, nella realtà, che Smith ha cercato con tutte le sue forze e la sua abilità letteraria di negare, come se fosse una qualità inesistente, il prodotto di pura fantasia, non potendo in alcun modo informare le azioni umane nei confronti del prossimo. Chi può riuscire ad avere maggior successo se i rapporti sociali si basano unicamente sull’interesse personale e sull’egoismo individuale nello scambio, regolati dalla fantasmatica ed onninvasiva Mano Invisibile del Mercato? E’ ovvio che il successo arriderà soltanto a chi riuscirà a far prevalere la considerazione del suo interesse personale su quello di tutti gli altri individui con i quali si trova in relazione, e perciò inevitabilmente in competizione. 104 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La misura del successo individuale, la stessa posizione del singolo nella scala sociale, in quest’ottica, non potrà che essere data dall’acquisizione di maggiore ricchezza e potere, a scapito degli altri. La “considerazione dell’interesse personale” in una società da ridurre completamente ad una semplice rete di scambi commerciali, nella formalizzazione e nella sacralizzazione della primitiva “legge del più forte”, mascherata nel riconoscimento dei diritti individuali alla proprietà ed all’iniziativa economica privata, acquista un contenuto ideologico e addirittura messianico, operando così una frattura insanabile con il mondo culturale precedente e preconizzandone il superamento. In un certo senso, la Favola delle api d’inizio Settecento funge da complemento alla “considerazione dell’interesse personale” quale vero motore che muove i singoli nelle reti dei rapporti sociali soggetti ad una progressiva economicizzazione, poiché può essere letta come una metafora dell’autonomizzazione dell’economia dalla morale, e quindi un contributo all’autofondazione dell’economia su stessa, dopo aver spazzato via l’Etica, la Filosofia, la Politica, e Dio. 105 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’insostenibile leggerezza del capitalismo Saggio del 06/02/2011 Adam Smith e il Vecchio Testamento Fra le bibbie e i testi sacri che hanno in qualche modo caratterizzato ed orientato la storia dell’umanità, quello che è forse il più confuso, il più variegato e il più dispersivo è il “testo sacro” capitalistico, ancor oggi riconosciuto da moltissimi come tale, citato a proposito e a sproposito per giustificare le dinamiche capitalistiche, o utilizzato ideologicamente a difesa delle iniquità sociali crescenti e del dominio assolutistico del mercato. La bibbia in questione non è altro che La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, un’opera apparsa nel lontanissimo 1776, ma conclusa già nel 1773 dall’autore, che rappresenta nello stesso tempo il diario di un viaggio attraverso l’Europa, una serie disordinata di osservazioni economiche non sistematizzate da Smith [la cosiddetta teoria economica liberista ai suoi tempi non esisteva ancora], un gustoso alternarsi di scorci e di vedute di una società che conservava spiccati lineamenti protocapitalistici ed una continuazione, nell’intenzione esplicita dell’erudito precettore di giovani lord, della sua teoria dei “sentimenti morali” pubblicata nel 1759. La bibbia capitalistica smithiana che ha ispirato l’elaborazione dei successivi economisti classici, da David Ricardo a Jean‐Baptiste Say a John Stuart Mill, ed ha fornito celebri slogans a supporto del dominio liberal‐capitalistico, contiene un po’ di tutto, ma non proprio il contrario di tutto, poiché l’ispirazione di Smith va cercata nel pensiero utilitarista e nello scetticismo filosofico, in un liberismo economico e degli scambi contrapposto alle pratiche e delle politiche mercantilisto‐ protezionistiche ancora dominanti, e nell’esaltazione di un individualismo tutto centrato sull’egoismo del singolo, che trova il suo fondamento in quella rete dei rapporti economici e commerciali costitutiva di una nuova società umana e di un nuovo rapporto sociale: il rapporto sociale capitalistico. In veste di dotto precettore del giovane duca di Buccleugh, Smith ebbe occasione di viaggiare e di conoscere tanti VIP dell’epoca, oltre al suo celebre corrispondente, conterraneo ed “esecutore letterario” David Hume. Smith ebbe così l’opportunità di conoscere personaggi del calibro di Voltaire, padre dell’illuminismo, o meglio, di un certo illuminismo borghese che si sarebbe rivelato compatibile con il capitalismo, intellettuali come il Quesnay che fu l’esponente più celebre della fisiocrazia francese, od ancora personalità come quella dell’influente Turgot, ministro delle finanze del monarca assoluto Luigi XVI. Dallo zibaldone smithiano, variegato e dispersivo, che è noto come Wealth of nations, i pubblicisti del nascente capitalismo e dell’affermazione della classe 106 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 borghese proprietaria hanno ricavato utili elementi per la costruzione di quella ideologia di legittimazione che si cela abilmente dietro l’espressione di teoria economica liberista, ed estrapolato dal testo cruciali citazioni non prive di valore ideologico‐politico, destinate ad informare e a modificare gli immaginari delle generazioni future, fra le quali una è universalmente nota, e conviene perciò citarla in questa sede: Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità. [Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Libro I, Capitolo II] Questa citazione di Smith, la più celebre in assoluto assieme al riferimento a quella Mano Invisibile del Libero Mercato che dovrebbe regolare integralmente i rapporti economico‐sociali fra gli uomini, è inserita in un capitolo della Ricchezza in cui si tratta specificamente della divisione del lavoro [in epoca storica non ancora propriamente e compiutamente capitalistica] quale conseguenza necessaria della “naturale” propensione umana a trafficare, barattare e scambiare una cosa con l’altra. [Ibidem] Perciò, fondamenti importanti della successiva ideologia di legittimazione capitalistica, che prenderà le mosse dal pensiero e dalla concezione smithiane quale origine “esterna”, non possono che essere rappresentati dall’individualismo, dall’utilitarismo e dall’egoismo, nonché dalla propensione naturale dell’uomo, da considerarsi innata, allo scambio mercantile e all’arricchimento personale. Etica, Politica e Comunità, Pensiero Filosofico Veritativo e la stessa divinità che anticamente svolgeva una funzione normativa, influendo dall’alto su tutti i rapporti fra gli uomini, come appare fin troppo chiaro dalle semplici parole di Adam Smith e delle elaborazioni successive, si possono così cancellare con un solo colpo di spugna. Proprietà privata ed iniziativa economica individuale, suscitate da un egoismo innato e dalla “naturale” competizione fra i singoli, diventano le dominanti nel ridefinire il quadro dei rapporti sociali e di tutti i rapporti umani e interpersonali. La solidarietà umana, di matrice comunitaria e comunistica, non informata dall’egoismo individualistico atomizzante e dalla priorità assegnata allo scambio mercantile, è messa totalmente in discussione nel pensiero di Smith, se si pensa all’esempio dei due levrieri che inseguono la lepre e che danno l’impressione di agire di mutuo accordo nella caccia, ma che, al contrario, secondo il fertilissimo pensatore precapitalistico, esprimono con il loro comportamento un’accidentale convergenza sulla stessa preda, che nessuno dei due vuole dividere con l’altro. E’ vero, sostiene Adam Smith porgendo questo esempio ed altri simili riferiti all’”egoismo” degli animali, che l’uomo si comporta diversamente da loro, poiché ha sempre la necessità dell’aiuto dei suoi simili – dovendo riconoscergli, sia pur a 107 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 denti stretti, la qualità di animale sociale e politico che vive in una società e che non può essere del tutto autonomo dagli altri, perseguendo i suoi scopi egoistici – ma, per poter ottenere questo aiuto, deve mostrarsi così abile da indirizzare costantemente l’altrui interesse in suo favore, non dovendosi aspettare nulla dalla disinteressata benevolenza del prossimo. La vera “benevolenza” alla quale fa riferimento il pensatore scozzese, non è certo una semplice attitudine erroneamente attribuita all’essere umano, ma lo schermo dietro il quale si nascondono, con tutta evidenza, la socialità, i vincoli comunitari, il solidarismo, una concezione dell’esistenza non imbrigliata nei rapporti economici, e l’Etica stessa, ed è proprio questa “benevolenza”, nella realtà, che Smith ha cercato con tutte le sue forze e la sua abilità letteraria di negare, come se fosse una qualità inesistente, il prodotto di pura fantasia, non potendo in alcun modo informare le azioni umane nei confronti del prossimo. Chi può riuscire ad avere maggior successo se i rapporti sociali si basano unicamente sull’interesse personale e sull’egoismo individuale nello scambio, regolati dalla fantasmatica ed onninvasiva Mano Invisibile del Mercato? E’ ovvio che il successo arriderà soltanto a chi riuscirà a far prevalere la considerazione del suo interesse personale su quello di tutti gli altri individui con i quali si trova in relazione, e perciò inevitabilmente in competizione. La misura del successo individuale, la stessa posizione del singolo nella scala sociale, in quest’ottica, non potrà che essere data dall’acquisizione di maggiore ricchezza e potere, a scapito di tutti gli altri. La “considerazione dell’interesse personale” in una società da ridurre completamente ad una semplice rete di scambi commerciali, nella formalizzazione e nella sacralizzazione della primitiva “legge del più forte”, abilmente mascherata nel riconoscimento dei diritti individuali alla proprietà ed all’iniziativa economica privata, acquista un contenuto ideologico e addirittura messianico, operando così una frattura insanabile con il mondo culturale precedente e preconizzandone il superamento. Nel trapasso fra la prima società della crescita caratterizzata dalle politiche cameralistico‐mercantiliste e dalla presenza di una classe dominante non ancora compiutamente borghese [in termini ottocenteschi] e non più aristocratica [in termini medioevali] – che s’incamminava rapidamente verso il crepuscolo proprio nell’epoca in cui Smith scriveva Wealth of nations – e la seconda società della crescita capitalistico‐borghese che avrebbe visto la luce di lì a pochi anni, una nuova forma di crematistica, ben simboleggiata dalla Forma‐Capitale, attendeva la sua affermazione definitiva, la sua successiva universalizzazione e la costruzione di un rapporto sociale “su misura”. Se un nuovo modo di concepire la ricchezza, non più strettamente legata agli attivi delle bilance commerciali degli stati, si sarebbe imposto nell’ultimo quarto del 108 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 diciottesimo secolo, come ci testimonia l’Invisible Hand evocata da Smith quale metafora dell’accumulazione‐realizzazione‐riproduzione capitalistica e dell’allargamento materiale ed ideale dei mercati, tutto ciò non sarebbe potuto accadere se non vi fosse stato, alla base di questo processo storico, un diverso modo di concepire l’uomo, e quindi, di intendere la realtà. Concezione della ricchezza e del potere e concezione dell’uomo e del suo ruolo nel mondo, sono perciò intimamente interrelati, e ciò risulta sia nell’opera di Smith, simbolicamente alle origini del capitalismo, sia nell’opera degli economisti classici che in seguito hanno elaborato il “canone” capitalistico. E’ fuori discussione che nella visione smithiana, non soltanto degli scambi commerciali in sé, della ricchezza di stati e nazioni, del lavoro e del valore, ma dell’uomo stesso, ci sono alcuni elementi decisivi che caratterizzeranno nei due secoli successivi il rapporto sociale capitalistico, e delineeranno compiutamente una nuova antropologia, funzionale alle ragioni del Capitale e della sua accumulazione. Un’antropologia in cui lʹuomo sarà sempre più solo ed isolato, in balia delle correnti dello scambio commerciale, trasformandosi in un semplice [ed auspicabilmente non problematico] fattore della produzione illimitata di merci, a fronte di una pretesa ed astratta libertà di scelta nel lavoro, un “uomo nuovo” capitalistico‐liberale al quale si negheranno gli stessi strumenti culturali essenziali, per poter valutare correttamente la realtà sociale in cui è immerso, i sistemi disciplinari che deve subire e la forma di dominio al quale è assoggettato. E’ bene sviluppare, partendo dall’opera fondamentale di Smith, alcune brevi considerazioni sul lavoro e sull’accumulazione capitalistica, e quindi sul Lavoro e sul Capitale come li concepiva il filosofo scozzese. Adam Smith accetta la distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ma a differenza della fisiocrazia di Quesnay, che legava il lavoro produttivo esclusivamente alle attività agricole considerando lavoro improduttivo tutto il resto [lavoro in manifattura compreso], il protoeconomista Smith lo lega all’”industria”, così come contrappone l’industria all’ozio e la parsimonia alla prodigalità. La linea “parsimonia‐industria‐lavoro produttivo‐ricchezza” contiene in sé gli embrioni dell’affermazione e dello sviluppo del capitalismo del secondo millennio, e soprattutto del primo capitalismo a guida borghese che fece seguito alle elaborazioni smithiane contenute nei cinque libri de La ricchezza delle nazioni. Questa linea si sarebbe trasformata, in seguito, con il progressivo prevalere del rapporto sociale capitalistico, in “accumulazione‐fabbrica‐lavoro astratto ‐ realizzazione e profitto”. E’ utile perciò riportare alcuni passaggi dal Libro II di Wealth of nations, dedicato alla Natura, accumulazione e impiego del capitale, in cui si discute, fra le altre cose, del lavoro produttivo in contrapposto a quello improduttivo. 109 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Nel primo passaggio riportato, Smith contrappone in modo chiaro, ma certo strumentale ai suoi scopi, l’industria all’ozio [prefigurando la cosiddetta funzione imprenditoriale ed il futuro lavoro astratto capitalistico] e la parsimonia alla prodigalità [parsimonia da intendersi come metafora di quella che diventerà in seguito l’accumulazione capitalistica vera e propria]: Sembra dunque che la proporzione fra il capitale e il reddito regoli ovunque la proporzione tra l’industria e l’ozio. Ovunque predomina il capitale, prevale l’industria; ovunque prevale il reddito prevale l’ozio. Ogni aumento o diminuzione del capitale tende quindi naturalmente ad aumentare o a ridurre la quantità reale d’industria, il numero di lavoratori produttivi e conseguentemente il valore di scambio del prodotto annuale della terra e del lavoro del paese, la ricchezza reale e il reddito di tutti i suoi abitanti. I capitali aumentano con la parsimonia e diminuiscono con la prodigalità e la cattiva condotta. [Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Libro II, Capitolo III] Ed ancora, sullo stesso tema: Con ciò che risparmia annualmente, un uomo frugale non solo può permettersi di mantenere un numero maggiore di lavoratori produttivi per lo stesso anno o per il seguente ma, come il fondatore di un’opera pia, egli istituisce in un certo modo un fondo perpetuo per il mantenimento di un ugual numero di persone per tutti gli anni a venire. [Ibidem] Leggendo queste righe, si potrebbe ironizzare che il protocapitalismo smithiamo, o meglio, il capitalismo come avrebbe dovuto essere nella visione di Smith, è fondato sulla parsimonia, su comportamenti “morali” ed austeri a livello individuale, ed assomiglia in astratto ad un’iniziativa caritatevole che si riproduce, ad un’opera pia che elargisce a piene mani lavoro dignitoso, produttivo e ricchezza alla generalità degli uomini. Il “prodigo” animato da scopi profani che distrae una parte del fondo dell’opera pia dalla sua destinazione, ad esempio per mantenere il lavoro improduttivo che non garantisce alcun ritorno – servitori, camerieri, attori teatrali, valletti, e più modernamente le escort o i sondaggisti –, riduce il prezioso capitale e fa il male di tutti, danneggiando la società nel suo complesso. Dopo aver esaltato la “considerazione dell’interesse personale” [mascheramento della proprietà privata e dell’accumulazione del capitale], e quindi l’egoismo individuale che muove l’uomo escludendone a priori la benevolenza, Smith corregge un po’ il tiro – allo scopo di legittimare il capitalismo così come lui riusciva ad immaginarlo e per farlo digerire nei contesti culturali che caratterizzavano la sua epoca – e quindi non può che condannare l’ozio [il lavoro improduttivo, la mancata intrapresa] e la prodigalità [che limita l’accumulazione‐ realizzazione], esaltando in contrapposizione ad ozio e prodigalità i comportamenti frugali e virtuosi assunti dal singolo [mascheramenti dell’accumulazione e della 110 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 conseguente realizzazione capitalistiche] e l’impresa [la proprietà privata dei mezzi di produzione, l’iniziativa economica individuale a scopi produttivi]. Il “prodigo”, con le parole di Adam Smith, Non limitando le sue spese al suo reddito, […] intacca il suo capitale. Come colui che distrae i redditi di qualche opera pia destinandoli a scopi profani, egli paga il salario dell’ozio coi fondi che la frugalità dei suoi avi avevano in certo modo destinati al mantenimento dell’industria. […] Se la prodigalità di alcuni non fosse compensata dalla frugalità di altri, la condotta di un prodigo, nutrendo gli indolenti col pane degli industriosi, tenderebbe non solo a impoverire lui stesso, ma anche il suo paese. [Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Libro II, Capitolo III] Evidente in queste parole l’impronta di un certo protestantesimo, l’imposizione della morigeratezza dei costumi e dell’”operosità”, che hanno avuto certamente una parte di rilievo nell’affermazione del primo capitalismo borghese e proprietario a partire dalle isole britanniche e dal nord dell’Europa, ma è curioso notare che vi è già in embrione, nel passaggio riportato, la condanna preventiva delle vittime capitalistiche predestinate, di cui si fa largo uso nel tempo presente, come ad esempio la condanna dei “nullafacenti” della pubblica amministrazione italiana, che percepirebbero per definizione “il salario dell’ozio”, o dei sottopagati operai dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco, definiti assenteisti, improduttivi, e perciò meritevoli di essere punti con l’applicazione di un regime disciplinare e contrattuale particolare. Gli economisti classici, i teorici del pensiero liberista e i loro successori, prendendo le mosse talora concretamente, talaltra simbolicamente, dalla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, hanno contribuito a delineare, nei suoi contorni essenziali e più qualificanti, l’ideologia di legittimazione capitalistica che va sotto il nome di “teoria economica liberista” e che si fonde inestricabilmente con il pensiero politico liberale. La pretesa di “scientificità” delle analisi economiche, l’ineluttabilità del dominio del capitale e il culto del progresso di matrice borghese, dopo Smith, non hanno rappresentato che altrettante, grandi mistificazioni necessarie per assicurare la riproduzione sistemica. 111 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 John Maynard Keynes e la Riforma Capitalistica Nel corso dei due secoli successivi, all’estrazione brutale del plusvalore dalle masse lavoratrici che ha caratterizzato tutta la fase del primo capitalismo a guida borghese, è subentrata una parziale emancipazione di parte dei subordinati e dei proletari, e ciò è avvenuto, non a caso, quando la sussunzione reale del Lavoro al Capitale era ormai cosa fatta e metabolizzata, ed il capitalismo era da tempo il modo di produzione dominante in tutto l’occidente. Questa temporanea affermazione di un capitalismo che è sembrato assumere un volto più umano è durata circa un trentennio, ed ha avuto come capisaldi l’estensione del welfare state, l’interventismo degli stati in economia e le politiche economiche keynesiane, una ridistribuzione del prodotto meno sbilanciata a favore del Capitale, ed infine, un processo volto a rendere le masse di subordinati del tutto interne al rapporto sociale capitalistico, per sottrarle alla tentazione della lotta di classe e dell’appoggio generalizzato al modello capital‐collettivista sovietico, a loro più favorevole, perché in grado di imbrigliare la rapacità insita nel privato e di escludere la grande proprietà privata dei mezzi di produzione. Si fa una certa confusione, oggi, fra il keynesismo ed il marxismo, fra l’economia dal lato della domanda di John Maynard Keynes e dei suoi successori, da un lato, e il collettivismo di matrice sovietica ispirato dal marxismo, dall’altro. Questa confusione non è il frutto di fraintendimenti, ma è in buona misura voluta dai pubblicisti del capitalismo ultraliberista, che cercano di mettere sullo stesso piano i “nemici teorici” di questo capitalismo, ed è perciò comodo confondere a tale scopo l’economia pianificata sovietica con le politiche keynesiane, coinvolgendo nel fallimento della prima sia l’incolpevole Karl Marx e il suo pensiero filosofico, la cui influenza non è mai stata diretta, ma bensì mediata dalle successive elaborazioni di Engels e Kautsky, sia Keynes e le sue teorie non certo antagoniste, poiché nate e sviluppatesi nell’alveo del pensiero economico liberale, del quale il baronetto inglese è diventato uno dei principali critici. La cruciale funzione riequilibratice e di stimolo dell’economia assegnata da Keynes alla spesa pubblica, è certo il frutto della considerazione che il sistema economico lasciato a sé stesso non sempre può funzionare bene, come ha provato la crisi del ’29, e ciò non può che contrastare con la visione liberalcapitalista che vuole sottrarre il mercato a qualsiasi influenza esterna, statuale, religiosa od etica che sia. Le politiche keynesiane e neokeynesiane non hanno mai avuto lo scopo della sostituzione integrale della proprietà privata con quella pubblica, e la loro applicazione ha semmai realizzato un patto, rivelatosi fragile e temporaneo, fra Stato e Mercato [fra lo Stato e il Capitale], che però ha consentito una relativa emancipazione dei subordinati ed il miglioramento delle loro condizioni di vita 112 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 [Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, nel capitolo Le tre società della crescita]. Il passaggio storico successivo, che ha aperto la strada al Libero Mercato Planetario e ad un predominio assolutistico del Capitale a partire dagli anni ottanta, è stato favorito sia dalla rottura del patto fra Stato e Mercato sia dal posteriore collasso dell’Unione Sovietica e del suo sistema economico [Ibidem]. Il modello keynesiano, pur appartenendo per intero alla famiglia capitalistica, è un modello originalmente connotato ed alternativo al capitalismo di matrice liberale, ed è ben riassunto nell’opera più nota del baronetto inglese, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata a Londra nel 1936. Questo modello ha rappresentato un tentativo di “riforma” capitalistica che ha avuto per alcuni decenni successi significativi, ma che oggi è ostracizzato quasi quanto lo è il collettivismo sovietico novecentesco di ispirazione marxista. Si può affermare che la Teoria generale di Keynes ha rappresentato il “testo sacro” più rilevante e più noto della riforma capitalistica novecentesca – un po’ come le 95 tesi di Lutero nei confronti di Santa Romana Chiesa, affisse sulla porta della chiesa di Wittemberg nel 1517 – mentre Il Capitale di Karl Marx ha rappresentato la bibbia anticapitalista per eccellenza nell’Ottocento e durante il secolo successivo [soprattutto il primo libro, dedicato al processo di produzione del capitale e pubblicato dallo stesso Marx nel 1867]. In apertura del primo capitolo della sua opera, intitolato La teoria generale, Keynes con ammirevole chiarezza scopre subito le sue carte e annuncia la riforma: Ho intitolato questo libro Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, insistendo sull’aggettivo generale. Lo scopo di tale titolo è di contrapporre il carattere dei miei ragionamenti e delle mie conclusioni a quelli formulati nella stessa materia dalla teoria classica, la quale ha costituito la base della mia formazione scientifica e domina il pensiero economico, sia pratico che teorico, delle sfere dirigenti e degli ambienti accademici della generazione presente e delle precedenti, da cento anni a questa parte [J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Libro I, Capitolo 1] Lo spostamento dell’angolo visuale operato da Sir John Mynard Keynes – il Lutero del Capitale – è stato rilevante per molti motivi, fra i quali si possono porre in evidenza i seguenti: la centralità assegnata all’occupazione da garantire alle masse lavoratrici e la tensione verso il pieno impiego capitalistico, l’enfatizzazione del ruolo della spesa pubblica nel sostegno a consumi ed investimenti [e quindi alla produzione], l’ammissione che il Libero Mercato è un insieme di meccanismi delicati, contradditori e imperfetti, che non può essere lasciato libero di agire in ogni circostanza ma che deve essere costantemente controllato e regolamentato, come sembrava richiedere, per la sua gravità, la crisi del ‘29. Se si accettano gli squilibri prodotti dal mercato, fidando ipocritamente nella sua capacità di autoregolamentazione, si fa questo essenzialmente per tutelare interessi 113 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 particolari e privatissimi che su questi squilibri crescenti – in primo luogo nella distribuzione della ricchezza, con il conseguente razionamento dei beni e l’esclusione di moltissimi dal godimento del prodotto sociale – costruiscono le loro fortune ed estendono il loro potere. Chi scrive concepisce il Mercato, all’atto pratico, come un potente Sistema di Razionamento ed Esclusione che favorisce l’accumulazione, la realizzazione e la riproduzione capitalistiche, ma che non può garantire un reale progresso delle società umane, se lasciato libero di esplicare i suoi effetti sottraendolo alla decisione e al controllo politico del Demos. L’applicazione di questo sistema, quale supremo arbitro dei rapporti economici e sociali fra gli uomini sottratto ad una vera regolamentazione, è il frutto di precise scelte strategiche dei dominanti – come lo furono nel seicento le politiche mercantilistite, cameraliste e il cosiddetto colbertismo, costitutivi della prima società della crescita – e non di un ineluttabile destino al quale l’umanità va incontro, senza alcuna possibilità di cambiare strada, in assenza di alternative al dominio incontrastato degli scambi commerciali.. Così, la globalizzazione neoliberista che impazza da un paio di decenni a questa parte rappresenta, in buona sostanza, il tentativo di estendere questo sistema di regolamentazione – espressione di un nuovo Capitalismo Anarchico senza ridistribuzione della ricchezza, che non è quello di Keynes e non è quello immaginato da Smith – all’intero pianeta e a tutte le formazioni sociali. Nell’ultimo capitolo della sua opera, Keynes presenta delle considerazioni sulla filosofia sociale alla quale la sua Teoria generale riformatrice del capitalismo [riformatrice quanto lo furono le tavole di Lutero per il cristianesimo in Europa] poteva condurre se applicata: I difetti più evidenti della Società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Quanto alla prima, la portata della teoria sopra esposta è ovvia. Ma vi sono anche due aspetti importanti sotto i quali essa ha rilievo anche nei riguardi della seconda. [J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Libro VI, Capitolo 24] Per combattere la distribuzione arbitraria ed iniqua delle ricchezze e dei redditi, Keynes propone le sue tesi, secondo le quali una bassa propensione al consumo è d’ostacolo alla crescita del capitale, e quindi le misure redistributive del reddito, per una sua meno iniqua ripartizione, elevando la propensione al consumo possono garantire la crescita, agendo positivamente sulla domanda aggregata. Ma la parte migliore, a parere di chi scrive, è l’eutanasia del redditiero capitalistico che sfrutta a suo vantaggio il valore della scarsità del capitale proposta dell’economista inglese, secondo il quale, quando non si è nella situazione della piena occupazione, un tasso d’interesse pur moderatamente alto è d’ostacolo alla 114 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 crescita e all’occupazione, poiché l’effettivo livello del risparmio è determinato dalla scala dell’investimento, e questo è favorito da un tasso d’interesse basso. Sul piano della filosofia sociale, la teoria keynesiana, se applicata attraverso una serie di politiche economiche adeguate, avrebbe dovuto garantire lavoro ai subordinati e mitigare le disuguaglianze sociali, ammesse ed anzi subdolamente promosse dalla cosiddetta teoria degli economisti classici. Le politiche economiche di ispirazione keynesiana, applicate per qualche decennio da molti governi in occidente, hanno garantito risultati economici e sociali rilevanti, ma temporanei, e la stessa crisi del ’29 è stata superata non tanto e non soltanto in seguito all’applicazione delle misure suggerite da Keynes, ma soprattutto “grazie” al secondo conflitto mondiale. E’ importante rilevare, a questo punto, che l’economia politica ha certo un contenuto ideologico, ma non ha contenuti scientifici propriamente detti e funziona in modo molto diverso dalle scienze “esatte”, come la matematica o la fisica. Oggetto della disciplina economica, come è preferibile chiamarla a detta di chi scrive, sono i rapporti economici fra gli uomini e la produzione delle basi materiali della vita associata, indissolubilmente legati alla complessità antropologica e ad unʹimprescindibile dimensione storica. La disciplina economica non sarà mai in grado di fissare leggi universali, valide in ogni tempo e in ogni luogo, e a differenza di ciò che accade in matematica, in economia invertendo l’ordine dei fattori il risultato della somma è destinato a cambiare. Infatti, se pensiamo al significato economico, sociale e politico della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, non è casuale che l’autore, a partire dallo stesso titolo dell’opera, abbia messo al primo posto l’occupazione, seguita dall’interesse di natura finanziaria e dall’aspetto monetario, poiché se si inverte l’ordine dei fattori, mettendo ai primi posti interesse e moneta e all’ultimo posto l’occupazione, il risultato della somma cambia completamente e si realizza lo spostamento dal capitalismo moderatamente emancipativo della seconda metà del Novecento – caratterizzato dal patto fra Stato e Mercato, dalla spesa pubblica in espansione, dal welfare, dalla tensione verso il pieno impiego e da una minor ingiustizia distributiva – al capitalismo anarco‐liberista che subordina lo Stato al Mercato, appropriando risorse pubbliche, amplificando le differenze sociali e calpestando i diritti dei lavoratori. L’aver spostato l’ago della bilancia, con molta moderazione e pur sempre all’interno del capitalismo, a favore dell’eguaglianza, sottraendo qualcosa ad un’indiscriminata libertà di iniziativa economica, potrà essere in futuro ricordato, a parere di chi scrive, come il più grande merito di John Maynard Keynes. Così, l’economia dal lato della domanda, il relativo equilibrio fra Stato e Mercato e la “riforma capitalistica” ispirate dall’economista inglese autore della Teoria 115 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Generale, negli anni ottanta del Novecento hanno ceduto il passo alla Supply‐side economics, cioè all’economia dal lato dell’offerta, da intendersi quale controriforma liberalcapitalistica propedeutica alla nascita di un nuovo modo di produzione sociale, con un cambiamento epocale che va ben al di là di un semplice cambio di fase e che ci pone problemi culturali ed etici non secondari. Nel prossimo capitolo si tratterà del difficile passaggio dalla Riforma Keynesiana moderatamente emancipativa alla Controriforma Liberalcapitalistica integralmente de‐emancipante, nonché del grande cambiamento politico, economico e sociale che questo passaggio ha comportato. 116 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Dalla Riforma Keynesiana alla Controriforma Liberalcapitalistica Nei nuovi contesti politici, sociali e culturali che si delineavano alla fine degli anni settanta e agli inizi degli ottanta, la grande proprietà tornava al comando dell’impresa, dopo l’affermazione del cosiddetto capitalismo manageriale e l’avvento della figura professionale del manger non proprietario, incaricato della gestione d’impresa, e la caduta del saggio di profitto verificatasi fra gli anni sessanta e gli anni ottanta del Novecento, Si è proceduto, con Reagan in America e Thatcher in Gran Bretagna, alla riduzione dei carichi fiscali per i ricchi, comprimendo salari e spesa pubblica, e si è affermata la cosiddetta teoria quantitativa della moneta dell’ultraliberale Milton Friedman, con gli interessi, i profitti e la moneta [l’offerta di moneta al sistema, in particolare] che riacquistavano centralità ponendo in ombra la questione dell’occupazione che tanto aveva assillato i keynesiani. Il misconoscimento della centralità dell’occupazione e la nozione di tasso naturale di disoccupazione all’uopo costruita, la volontà di procedere agli sgravi fiscali, guarda caso a favore della parte più abbiente della società, e la lotta senza quartiere all’inflazione costituiscono elementi che hanno caratterizzato, da un punto di vista delle politiche economiche e monetarie, la “controriforma” capitalistica in occidente. Contro l’interventismo statale e la redistribuzione della ricchezza, Milton Friedman, consigliere prima di Goldwater, poi di Nixon e di Reagan, ultraliberale e sostenitore dell’intangibilità della libertà economica privata e di un capitalismo selvaggio, da lui definito concorrenziale, ha riportato in vita gli spettri della famigerata teoria quantitativa della moneta caduta in disgrazia dopo gli eventi del ’29, battendosi contro le politiche, socialmente più misericordiose, che incentivavano la domanda ma suscitavano il fenomeno inflazionistico, in ciò aiutato non poco dall’incapacità dei keynesiani di venire a capo, utilizzando il loro impianto teorico, del fenomeno della stagflazione [aumento dei prezzi e contestuale stagnazione economica] che minacciava di divorare i redditi e le possibilità di sviluppo. La cosiddetta rincorsa prezzi/ salari, che rallenta il movimento dello “squalo capitalistico” alimentando stagnazione e inflazione, fu scongiurata accantonando le politiche espansive suggerite da John Maynard Keynes, bloccando la crescita dei salari e quindi, nel concreto, trasferendo quote crescenti di prodotto dal Lavoro al Capitale, con l’adozione del punto di vista dell’economia dal lato dell’offerta e delle tesi espresse dai pubblicisti del monetarismo, fra i quali spiccava Milton Friedman. Il più illustre monetarista di seconda generazione della celebre Scuola di Chicago – il “solito” Milton Friedman, subentrato al fondatore della ditta Henry Simons – ha sostituito la centralità della moneta alla centralità dell’occupazione, concependo l’offerta di moneta come un dato esogeno, posto sotto il controllo delle autorità 117 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 monetarie, il cui aumento non produce effetti reali [positivi] nel lungo periodo, ma soltanto aumenti nel livello dei prezzi del sistema economico, e quindi conviene spendere un paio parole in proposito, concentrando l’attenzione sui meccanismi di trasmissione della politica monetaria, poiché un po’ di “scienza” economica filocapitalitica [ma senza l’uso dell’algebra e dei grafici] a questo punto non guasta e non è del tutto inutile: Si supponga che le autorità monetarie aumentino l’offerta di moneta. I soggetti economici si trovano nei loro portafogli quote di moneta maggiori di quanto desiderato e quindi aumentano la domanda di tutte le altre attività, reali e finanziarie (beni, servizi, titoli). La riduzione del tasso di interesse induce un aumento degli investimenti. I prezzi dei beni sono cresciuti più dei salari (constatazione empirica). Poiché il salario reale è diminuito, le imprese aumentano la domanda di lavoro. I lavoratori, non accorgendosi che anche il livello dei prezzi è aumentato, ma erroneamente aspettandosi il medesimo precedente livello (aspettative adattive), aumentano l’offerta di lavoro. Dunque crescono l’occupazione e la produzione. Ma solo nel breve periodo. Appena i lavoratori correggono l’errore di percezione sui prezzi, chiederanno aumenti dei salari nominali, in modo da riportare il salario reale al livello precedente. Questo riduce la domanda di lavoro, l’occupazione e la produzione, riportandole al loro livello “naturale”. Al termine di tale sequenza, dunque, l’unico effetto finale è un aumento dei prezzi, mentre nessuna variazione si è verificata nelle quantità. Dunque, un aumento della quantità di moneta volto a espandere discrezionalmente l’economia non ha effetti reali nel lungo periodo; esso produce solo un aumento proporzionale del livello dei prezzi. [Piero Vernaglione, Austriaci e monetaristi] Se si proclama la neutralità della moneta, è chiaro che la piena occupazione deve essere intesa esclusivamente in senso economico e nel lungo periodo, in cui saremo tutti morti a detta di Keynes, e questa non potrà che essere influenzata dai movimenti dell’economia reale – non dalla quantità di moneta messa in circolazione – i quali movimenti, sulla base dello schema di equilibrio walrasiano [Léon Walras, francese, economista “scientifico‐matematico” dell’Ottocento] non possono che dipendere da fattori reali di natura squisitamente economica e dall’avanzare del progresso tecnico. Perciò, la piena occupazione posta al centro delle attenzioni keynesiane, in un ottica liberalcapitalistica profondamente diversa da quella del “riformatore” Keynes, non sarà mai concretamente tale, poiché contempla un tasso di disoccupazione naturale non eliminabile, e soprattutto non si raggiungerà aumentando l’offerta di moneta. Essendo il capitalismo paragonabile agli esemplari di alcune specie di squali che non possono che “andare avanti”, perennemente in movimento anche durante il riposo, poiché fermarsi equivarrebbe per loro all’asfissia e alla morte, la caduta del tasso di profitto, la persistenza della stagflazione [prevista da Friedman e non risolta dai keynesiani] e la ridistribuzione del reddito a vantaggio dei subordinati 118 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 hanno fatto scattare gli “anticorpi”, simboleggiati dall’avvento dell’economia dal lato dell’offerta e degli spettri monetaristi, ed hanno rimesso in movimento nelle correnti della storia lo squalo capitalistico, che sarebbe così riuscito ad avvistare le coste del terzo millennio. Spostare l’attenzione – come ha fatto Milton Friedman, autentica “anima nera” della controriforma e vero padre del Nuovo Capitalismo del ventunesimo secolo – dalla lotta alla disoccupazione a quella all’inflazione non è socialmente neutrale, ma può provocare cambiamenti epocali, come purtroppo si è compreso con il senno di poi, e l’affermazione del monetarismo, secondo la quale la politica monetaria non ha lo scopo della piena occupazione, ha fatto il resto, contribuendo a bloccare quel processo emancipativo di massa iniziato, all’interno delle logiche capitalistiche e non contro il Capitale, dalla riforma keynesiana novecentesca. Ecco come si è agito sul panorama economico, sociale e politico dell’occidente per modificarlo nella sostanza, e ciò è avvenuto mettendo in primo piano l’interesse e la moneta e all’ultimo l’occupazione, esattamente come nell’esempio di prima. Non si è tenuto in alcun conto, nella controriforma capitalistica per il superamento delle politiche keynesiane, del welfare e della socialità, dello stesso sistema fordista‐ taylorista che regolava la fabbrica, di quel “investimento sul futuro”, che corrisponde ad un investimento sociale fecondo, derivante dall’impiegare risorse per emancipare ed istruire le masse di subordinati, un investimento che se fosse proseguito fino ai giorni nostri avrebbe potuto favorire, in unʹottica di lungo periodo ed entro gli stessi schemi capitalistici, gli avanzamenti scientifici e tecnologici, la crescita del prodotto e l’attenuazione [ma non la rimozione] delle conseguenze negative sull’ambiente che tale crescita inevitabilmente comporta. Se una nazione non può considerarsi ricca, quando gran parte della popolazione è povera ed infelice – come scrisse il “padre” del primo capitalismo, Adam Smith – lo stesso vale per l’intero pianeta globalizzato economicamente, percorso da crescenti flussi commerciali, ma non certo emancipato da un punto di vista sociale. La grande proprietà che tornava al comando dell’impresa agli inizi dell’ultima, grande trasformazione capitalistica – stanca di staccar cedole standosene comodamente seduta in poltrona e nel contempo di vedere i profitti decrescere – in molti casi non era più la vecchia borghesia proprietaria, ma un nuovo soggetto sociale “mutante” che era in procinto di divorare la storica borghesia e ne stava distruggendo il mondo culturale ed i costumi. Già nell’epoca della controriforma reaganiana e thatcheriana, a partire dall’America del nord, si stava formando una nuova classe dominante, più spietata nei confronti dei subalterni e più determinata nell’imporre i propri modelli culturali di quanto non lo è stata la borghesia, orientata verso l’estremizzazione del “laissez faire” che l’estensione globalizzante del Mercato rendeva possibile, e questa classe non è altri che la Global class capitalistica, la quale domina il nostro presente e vorrebbe che il 119 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 secolo appena iniziato fosse il suo secolo, come l’Ottocento fu il secolo della piena affermazione borghese. Questa nuova razza padrona generata dalle trasformazioni, e dalle contraddizioni, del rapporto sociale capitalistico, concepisce il mondo come uno spazio aperto, uniforme, da assoggettare al nuovo comando capitalistico per soddisfare i suoi desideri, non può più riconoscersi in una dimensione nazionale, regionale o locale e non è più animata dalla stessa curiosità culturale e “pionieristica” che caratterizzava il filosofo settecentesco Adam Smith, nel suo viaggio verso il primo capitalismo borghese. Si potrebbe insistere sugli aspetti intellettuali e razionali presenti nella cultura dei nuovi dominanti, per i quali il possesso dei saperi e l’istruzione sono, o potrebbero sembrare che siano, più importanti della stessa proprietà, ma secondo il sociologo Christopher Lasch, che ha osservato la nascita di questa classe nel Nord America, le cose starebbero nel modo seguente: Un elemento più rilevante è il fatto che il mercato in cui operano le nuove élite ha oggi una dimensione internazionale. Le loro fortune sono legate a imprese che operano senza badare ai confini nazionali e le loro preoccupazioni riguardano il buon funzionamento globale del sistema, non quello delle sue singole parti. La loro lealtà – se il termine non è anacronistico in questo contesto – è di tipo internazionale, più che regionale, nazionale o locale. I loro esponenti hanno molte più cose in comune con le loro controparti di Bruxelles o di Hong Kong che con le masse di americani non ancora allacciati alla rete della comunicazione globale. [Christopher Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, 1995] Le élite in rivolta di Lasch, connesse alla rete della comunicazione globale che annulla le distanze e virtualizza il mondo, sono figlie del fallimento della “riforma capitalistica” keynesiana, della rottura del Patto fra Stato e Mercato – con la successiva prevalenza del secondo sul primo – e della storica vittoria del liberalcapitalismo su tutte le alternative esistenti, a partire da quella collettivistica sovietica. Le nuove élite parlano solo a se stesse [come ha compreso Christopher Lasch] e soltanto di se stesse, disinteressandosi della sorte del resto della società e di tutti coloro che sono destinati a “restare indietro”, dopo aver annullato le possibili opposizioni sociali e culturali ed aver neutralizzato l’antagonismo delle classi subalterne. I globalisti sono liberali all’interno dei loro circoli ed enigmatici verso l’esterno, alternando la lusinga dei modelli e degli stili di vita dei quali sono portatori alla spietatezza del loro agire nella dimensione economica e sociale. Diffondono il loro stile di vita, che vorrebbero universalizzare, ma concentrano nelle loro mani le risorse come nessuna classe dominante ha mai fatto prima, senza 120 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 preoccuparsi se riducono i subordinati sotto la soglia della sussistenza o se causano la rovina della stessa parte del mondo in cui sono nati. I meccanismi impersonali del Mercato ai quali i membri della Global class sono sincronizzati, liberi di agire e di riprodursi all’infinito regolano la loro esistenza e ne determinano il successo o il default individuale, attuando una selezione più spietata di quella darwiniana, o almeno così dovrebbe essere per tutti loro e per le entità che controllano, anche se a fronte di una Leheman Brothers, estintasi a causa degli sconquassi della crisi globale nel settembre del 2008 generando la più grande bancarotta di tutti i tempi nel Nord America, altre entità hanno beneficiato del denaro pubblico, riuscendo a “mitigare” non poco le asprezze che la selezione operata dal Mercato comporta ed a socializzare in buona misura le perdite. La famigerata Legge di Mercato, in altri termini, non è uguale per tutti e non sempre è applicata fino alle sue estreme conseguenze, in particolare se si controllano indirettamente le entità statuali e quindi si può disporre delle risorse pubbliche alla bisogna. Lo stato funge da “prestatore di ultima istanza”, nel caso in cui gli ingranaggi del Mercato si inceppano temporaneamente, e le “vacche da mungere”, che alimentano attraverso l’imposizione fiscale gli aiuti a fondo perduto concessi, sono proprio i subalterni – classi medie in arretramento, operai e resti del vecchio proletariato – nei confronti dei quali lo stesso Mercato, inteso questa volta come Sistema di Razionamento ed Esclusione, non cessa mai di funzionare, riducendo la quota di prodotto a loro destinata, comprimendo la socialità pubblica nel trasferimento di risorse al privato, imponendo le “liberalizzazioni” e la riduzione progressiva dell’area di intervento statuale, facendo evaporare i posti di lavoro nel pubblico [privatizzazioni dei servizi, riduzioni progressive della spesa] e nel privato [ristrutturazioni aziendali, “spin‐off”, chiusure per delocalizzazione, eccetera]. Il Libero Mercato Globale sembra funzionare, perciò, “a senso unico”, colpendo senza misericordia i subordinati, nel nome dei feticci della “competitività” e della “produttività”, ma consentendo ai globalisti, opportunamente mascherati in occidente da Mercati e Investitori [poiché loro stessi sono il Libero Mercato e ne incarnano gli scopi], di farla franca utilizzando le risorse degli stati che controllano indirettamente, attraverso i trattati internazionali, gli organi della mondializzazione e la subordinazione di una politica liberaldemocratica minore e mercenaria. In ciò, la subordinazione degli stati nazionali e della politica nel mondo occidentale “sviluppato” – dagli Stati Uniti all’Unione Europea – alla Global class, e l’accettazione incondizionata delle ragioni e delle dinamiche di un Nuovo Capitalismo, che sotto l’apparenza di una certa continuità di fondo con quello che fu il capitalismo della fine del secondo millennio [ordine sociale, strutture di potere, assetti produttivi], rivela la progressiva e storica affermazione, proprio in questi 121 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 anni, di un nuovo modo di produzione sociale, profondamente diverso da quello che abbiamo conosciuto nel Novecento. Il punto cruciale non è soltanto l’allargamento dei mercati e la concorrenza degli emergenti alle economie cosiddette sviluppate, che è sempre più serrata anche nei settori ad alta intensità di capitale e tecnologicamente “evoluti”, come non è rappresentato esclusivamente dai nuovi trattati e dalle nuove strutture per favorire il commercio internazionale, quale, ad esempio, il WTO o OMC [World Trade Organisation, Organizzazione Mondiale del Commercio], poiché la trasformazione è complessiva, e come tale deve essere analizzata, comprendendo nelle osservazioni anche le trasformazioni in corso nella struttura sociale [Costanzo Preve e Eugenio Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo], gli aspetti antropologici e culturali, nonché gli “esperimenti” manipolatori di massa centrati sull’essere umano in quanto tale [Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario], e persino le possibili alternative future a questo modello realizzato di società, alternative con un chiaro contenuto rivoluzionario che oggi sono in una fase embrionale [Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo]. Questo è quanto è accaduto, dagli Stati Uniti all’Europa, dopo l’”ufficializzazione” della prima crisi globale, mostrandoci in piena luce la funzione di scardinamento dell’ordine economico e sociale precedente che caratterizza la crisi stessa, da considerarsi perciò quale elemento strutturale del Capitalismo del Terzo Millennio. Le conseguenze della controriforma capitalistica a partire dal suo avvio, in termini di politiche economiche e sociali, nella seconda metà degli anni settanta del Novecento, sono state perciò epocali, devastanti sul piano sociale ed anche su quello culturale, con un riflesso oggi evidente su tutti gli aspetti della socialità, della vita economica e della politica, e questo si è capito, o si sarebbe dovuto comprenderlo con maggiore chiarezza, fin dai primi anni novanta. Si può simbolicamente affermare che a John Maynard Keynes è subentrato Milton Friedman, così come all’emancipazione, pur in un’ottica sostanzialmente interna al capitalismo e quindi “riformista”, è subentrata la de‐emancipazione di massa, con tutti i suoi rigori, le iniquità sociali che amplifica ed i problemi etici che pone. In estrema sintesi, dallo scadere dei trenta gloriosi anni, descritti dallo storico Eric Hobsbawm come se fossero un’età dell’oro alla quale ha fatto seguito una frana, fino all’inizio degli anni novanta, tre elementi, dei quali il primo è di natura economica, il secondo sociologico e culturale ed il terzo geopolitico, hanno favorito l’ultima mutazione capitalistica, che non si è ancora conclusa e che si sta rivelando più profonda e sostanziale delle precedenti, dando origine ad un nuovo modo storico di produzione. Questi elementi sono: 1) la caduta del saggio di profitto fra il 1960 e il 1980 nei paesi “sviluppati” che ha riavvicinato, per forza di cose, la grande proprietà alla gestione 122 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 dell’intrapresa, 2) la nascita della classe globale e l’inizio della trasformazione dell’ordine sociale in occidente, con un mutamento culturale e sociale ancora in atto, 3) il collasso dell’Unione Sovietica, il suo smembramento, il saccheggio delle sue ricchezze da parte dei “nuovi ricchi” locali e degli stessi globalisti occidentali, la conseguente archiviazione [definitiva o temporanea non è dato sapere] del modello collettivistico d’ispirazione marxista. 123 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Milton Friedman e il Nuovo Testamento Esiste un libro non troppo noto in Italia – edito nel 1967 da Vallecchi editore di Firenze e pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti da The University of Chicago nel 1962, in anni in cui il keynesismo riscuoteva indubbi successi e la riforma capitalistica era in pieno corso – che non è un testo “tecnico” di economia politica, che non si vale dell’algebra e non contiene rappresentazioni grafiche o articolati modelli matematici, che non discute della curva di Phillips e delle sue implicazioni, del pieno impiego capitalistico, dell’impresa negli aspetti puramente economici o dell’aggregato della moneta e delle sue componenti. E’ un’opera squisitamente politica, pur con dirette implicazioni economiche e sociali, poiché ci parla del liberalismo, nel senso europeo assegnato a questo termine, in un periodo in cui la visione liberalcapitalista non era ancora dominante come lo è stata in questi ultimi due o tre decenni, ma in cui, a detta dello stesso autore, i suoi propugnatori non erano più “uno sparuto manipolo prossimo all’estinzione”, rappresentando nell’occidente del mondo una forza intellettuale in progressiva crescita [come purtroppo abbiamo avuto modo di constatare, soprattutto in questi anni]. Questo libro è Capitalism and Freedom [Efficienza economica e libertà, nella versione italiana edita da Vallecchi] e l’autore non può essere che il “solito” Milton Friedman, da chi scrive già definito ironicamente – ma non troppo – l’”anima nera” del Nuovo Capitalismo. Il preteso nesso fra l’efficienza economica, nel solco dell’ideologia capitalistica del progresso che esalta in tutti i suoi aspetti la cosiddetta tecnoeconomia, e la libertà dell’uomo, da intendersi in senso “liberale classico”, è il filo conduttore che pervade tutti i capitoli dell’opera friedmaniana, offrendoci una visione del mondo ed una concezione dell’uomo destinata a connotare il Capitalismo del Terzo Millennio e ad informare la sua classe dominante, quella globale. Se tutto si diparte dalla concezione della libertà umana di matrice liberale, è su questo punto che la critica al Friedman di Capitalismo e Libertà deve iniziare, prima ancora di investire la questione dell’Efficienza Economia garantita dal “capitalismo concorrenziale”, che costituirebbe una conseguenza desiderabile dell’adozione del punto di vista liberale, o meglio, il suo principale effetto storico positivo. Si può partire, per operare questa critica, dalla fine, ed in particolare dal capitolo dodicesimo, dedicato all’alleviamento della povertà, in cui, discutendo di liberalismo ed egualitarismo come due visioni diverse e sostanzialmente contrapposte, Friedman scrive le seguenti ed apparentemente belle parole: Il fondamento della filosofia liberale è la fede nella dignità dell’individuo, nella libertà di trarre il massimo vantaggio dalle sue capacità e opportunità conformemente alle sue 124 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 possibilità, alla sola condizione limitativa che non interferisca nella libertà di altri individui di fare lo stesso. [Milton Friedman, Efficienza economica e libertà, Capitolo dodicesimo] Dopo questa “sviolinata” che esalta genericamente la libertà individuale, da tutti teoricamente fruibile in un contesto politico liberale, arriva subito la doccia fredda, che ci riporta alle effettive durezze della realtà sociale liberalcapitalistica ed alla scissione, sommamente ipocrita, fra la libertà formale – che non significa nulla, poiché non è da tutti fruibile, ma è garantita soltanto ad una minoranza di dominanti – e quella effettiva, che è negata, per i risvolti rivoluzionari che potrebbe comportare, dallo stesso Friedman: Ciò implica, per un verso, la fede nell’eguaglianza degli uomini; ma, per un altro verso, la fede nella loro disuguaglianza. Ogni uomo ha un eguale diritto alla liberà [formale e non effettiva come si comprenderà meglio in seguito, n.d.s.]. Questo è un diritto importante e fondamentale [esattamente come i fantomatici e generici “diritti umani” che oggi giustificano le azioni militari della potenza americana, n.d.s.], proprio perché gli uomini sono differenti [giustificazione pelosa delle ineguaglianze sociali basata sul riconoscimento dell’unicità dei singoli, n.d.s.], perché l’uno desidera fare, con la sua libertà, cose diverse da quelle che desidera fare l’altro, e in codesto processo può contribuire più che un altro alla cultura generale della società nella quale molti uomini vivono. [Ibidem] Ed infine, il “colpo da maestro” che ci rivela dove vuole andare a parare Friedman: Il liberale, quindi, distingue nettamente tra eguaglianza di diritti ed eguaglianza di opportunità, da una parte, ed eguaglianza materiale o eguaglianza di risultato dall’altra. [Ibidem] L’eguaglianza, nella concezione liberale friedmaniana, può costituire semmai un prodotto secondario della “società libera” da lui auspicata, in cui dominano capitalismo concorrenziale, iniziativa economica privata e meccanismi di mercato, e pur approvando la privatissima carità dei singoli, quale primo e più accettabile veicolo per alleviare le sofferenze dei poveri e dei subalterni nella “società libera capitalistica”, o persino un limitato interventismo statale atto allo scopo, il vero liberale non può tuttavia che rammaricarsi del fatto che in questo modo si sostituisce l’azione forzata all’azione volontaria. [Ibidem] Infatti, destinando risorse all’assistenza dei subalterni più poveri si viola la libertà formale, considerata dal liberale intangibile perché rappresenta niente altro che il riconoscimento della libertà delle élite dominanti di spadroneggiare su tutto e su tutti, senza vincoli etici, politici, religiosi ed imposizioni governative per la ridistribuzione della ricchezza. In ciò vi è una condanna senza appello dello stato sociale e del riformismo socialdemocratico, oltre che, naturalmente, di tutte le forme di collettivismo a 125 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 partire da quella sovietica, che negli anni cinquanta e sessanta rappresentava un’alternativa insidiosissima al capitalismo occidentale. E’ chiaro che se si adotta questo punto di vista, teso a nascondere la realtà sociale capitalistica e le sue pesanti implicazioni in relazione all’effettiva praticabilità della libertà e dei diritti per moltissimi, “egualitarismo” diventa un’espressione sommamente negativa, poiché l’egualitario è colui che intende togliere ad alcuni [la classe dominante capitalistica] per dare agli altri [il resto del genere umano, largamente maggioritario]. Così, secondo l’ultraliberista Friedman, l’eguaglianza entra nettamente in conflitto con la libertà, e bisogna scegliere [Ibidem], perché non si può essere nello stesso tempo egualitario e liberale. Su questa ultima, chiara affermazione del professor Friedman lo scrivente, che è un irriducibile egualitario, antiliberaldemocratico, anticapitalista ed antiglobalista, concorda in pieno e senza riserve, riconoscendo l’esistenza di due fronti contrapposti ed inconciliabili, perché informati da un’opposta concezione dell’uomo e del suo ruolo nel mondo. Volendo fare un po’ d’ironia attraverso una metafora apparentemente ingenua, l’egualitario stigmatizzato da Friedman quale portatore di idee e di istanze da respingere, è come il Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri – costretto a nascondersi nella foresta di Sherwood, come sono costretti alla “clandestinità politica”, oggi, i veri egualitari ed anticapitalisti –, mentre quel tristo Sceriffo di Nottingham che voleva neutralizzarlo in nome di una pretesa legalità, ma nella realtà in nome dei privilegi e dell’arbitrio dei potenti, è simile ad un “agente” del liberalismo friedmaniano. Per correggere questa spietata visione, che in concreto imporrebbe di abbandonare al suo destino la parte povera della società, lasciandola completamente in balia del Libero Mercato autoregolantesi [che Friedman nella sua opera chiama “capitalismo concorrenziale”], l’autore propone il palliativo di un’imposta negativa sul reddito, a vantaggio degli “incapienti”, che corrisponderebbe ad un piccolo sussidio concessogli, ma lo fa di controvoglia, perché la sua prima cura, in quanto liberale estremista ed ultracapitalista [esattamente il contrario dello scrivente: Zenit e Nadir], è che tutti i programmi dovrebbero passare sotto le Forche Caudine del Mercato, per evitare le distorsioni che potrebbero comprometterne il funzionamento. Saltando dal penultimo capitolo di Capitalismo e Libertà all’introduzione, notiamo che vi è un’intima [e per certi versi ammirevole] coerenza fra i concetti che l’autore esprime alla fine e all’inizio dell’opera, in quanto la “libertà” di matrice liberale, difesa a spada tratta dalla prima all’ultima pagina, nell’avvio del libro si confronta con l’ingombrante presenza dello stato. 126 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Per discutere della funzione riservata all’entità stato dai veri liberali, del ruolo del pubblico nell’economia e, in definitiva, del cruciale rapporto fra Stato e Mercato, Friedman prende le mosse da un celebre passo del messaggio inaugurale del presidente J. F. Kennedy alla nazione, che conviene riportare di seguito: Non bisogna chiedersi che cosa il nostro paese può fare per noi, ma chiedersi che cosa noi possiamo fare per il nostro paese. [Milton Friedman, Efficienza economica e libertà, Introduzione] Questo passaggio del discorso kennedyiano è giudicato da Milton Friedman negativamente, poiché nessuna delle due proposizioni dell’alternativa rispecchia gli ideali dell’uomo libero [o meglio, del vero liberale, per il quale conta esclusivamente la libertà economica], essendo la prima – cosa il nostro paese può fare per noi – una formula paternalistica e deresponsabilizzante nei confronti dell’individuo, che a taluni oggi può ricordare lo “stato‐mamma” dei tempi della loro giovinezza e del welfare [lo scrivente, nato nel 1958, è fra questi], mentre la seconda proposizione, preferita da Kennedy – cosa noi possiamo fare per il nostro paese – sarebbe una formula organicistica, da respingere quanto la prima, poiché in tal caso il governo diventerebbe il signore e il cittadino il servo. Ma quale è allora la formula “magica” proposta dal liberale friedmaniano per scongiurare sia il pericolo dello stato paternalistico sia quello dello stato organicistico? La formuletta proposta è la seguente, e sembra proprio quella adottata, nei nostri contesti culturali, economici e politici, dalla nuova classe dominante globale: Il vero liberale non ammette l’esistenza di un obiettivo nazionale che non sia la convergenza degli obiettivi che i cittadini individualmente perseguono [Ibidem], e quindi la riformulazione corretta in senso liberale della celebre frase di J. F. Kennedy sarebbe: che cosa io e i miei concittadini possiamo fare per mezzo del governo? [Ibidem] Questa formulazione, che superficialmente potrebbe essere giudicata suggestiva, democratica e addirittura condivisibile, nasconde l’obiettivo politico concreto e prioritario della limitazione dell’ambito di attività del “governo” [l’espressione governo è utilizzata nel libro come sinonimo di stato, ed in particolare di stato e di amministrazione federale, essendo Friedman un americano], di una conseguente riduzione delle competenze e dell’autonomia statale ai minimi termini, ponendo l’organizzazione statuale al completo servizio del Libero Mercato, che è l’altro nome del capitalismo concorrenziale friedmaniano. La frase “che cosa io e i miei concittadini possiamo fare per mezzo del governo?” dovrebbe perciò essere interpretata alla luce dei veri scopi che animano i liberali e andrebbe letta nel modo seguente: Come possiamo usare lo stato, noi, che siamo proprietari dei mezzi di produzione, che muoviamo i capitali finanziari, che non gradiamo la redistribuzione delle 127 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 risorse e il controllo pubblico dei mercati, per perseguire i nostri interessi economici privati e i nostri scopi di potere? Secondo il Friedman di Capitalismo e libertà, fondando lo stato sull’intrapresa privata – sorgente del potere della classe dominante che l’economista‐ideologo di Chicago maschera da cooperazione volontaria fra gli individui – il settore privato può tenere a freno l’autorità del vituperato settore governativo, ma per smantellare progressivamente questa autorità esterna alle logiche del capitalismo concorrenziale, ed evitare che interferisca con il Libero Mercato, è auspicabile che oltre alla riduzione delle competenze vi sia la deconcentrazione, con un trasferimento delle decisioni verso il basso, al livello locale. La limitazione della sovranità politica e monetaria degli stati è diventata una realtà in Europa, grazie all’Unione Europea che sorveglia per conto delle élite i governi, grazie alla moneta unica gestita da un organismo sopranazionale privato come la BCE, e grazie alle regole imposte dall’alto ai paesi membri, ed in questo modo gli stati europei hanno perso progressivamente autonomia nel definire le politiche economiche, finanziarie e sociali da adottare, trasformandosi in sponsor o puri testimoni dell’espansione del Mercato. Se la decisione politica su materie essenziali è trasmigrata verso l’alto, sottratta al controllo politico nazionale, si è manifestata in questi ultimi anni nella stessa Europa una certa tendenza al decentramento fiscale e amministrativo, che implicata il trasferimento verso il basso, in una dimensione regionale, locale o municipale, delle decisioni che riguardano questioni importanti ma non strategiche. In ciò il senso più proprio delle pulsioni di natura “federalista” che hanno attraversato l’Europa, da nord a sud, da occidente ad oriente, in questi ultimi anni [il leghismo padano in Italia, ad esempio], e in ciò la stessa giustificazione delle istanze indipendentiste [come quelle che potrebbero spaccare il Belgio]. Il vero scopo – anche se autonomisti e indipendentisti non se ne rendono conto – è quello di indebolire il famigerato “stato centrale”, agendo con la sottrazione di poteri che trasmigrano verso l’alto e, nel contempo, con una frantumazione regionalistica che punta verso il basso, per agevolare lo scorrimento del capitale finanziario in ogni dove. Alla luce di quanto sta accadendo nel nostro presente, in relazione al prevalere del Mercato sullo Stato ed alla riduzione dell’autonomia e delle competenze dei “governi”, possiamo affermare che mezzo secolo fa l’estremista liberale Milton Friedman è stato addirittura profetico, e il suo consiglio – caldamente espresso in Capitalism and Freedom – di indebolire lo stato, limitandone attività e funzioni con il fine del rafforzamento del Libero Mercato, è stato pienamente accolto dalle nuove élite globaliste. Per motivare adeguatamente la necessità dell’indebolimento di stati e governi e del contestuale rafforzamento dei mercati, il professor Friedman tira in ballo 128 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 democrazia e libertà politica, sostenendo che se la libertà economica è desiderabile in quanto rappresenta un fine in sé, e costituisce una parte rilevante [la più rilevante, nell’ottica liberalcapitalistica] della libertà totale degli individui, la stessa è anche un indispensabile mezzo per la realizzazione della libertà politica. [Milton Friedman, Efficienza economica e libertà, Capitolo primo] Soltanto il capitalismo concorrenziale – non certo l’economia pianificata o quella mista – può favorire la libertà economica e quindi la libertà politica, nonché la necessaria deconcentrazione del potere politico‐amministrativo per contenere le spinte dirigiste del governo, rendendoci tutti più liberi e più felici, come infatti abbiamo modo di constatare nel nostro presente, in cui crisi economica, disoccupazione, precarietà e sotto‐occupazione, riduzione dei redditi e dei diritti dei subalterni la fanno da padroni … Se è vero che Il Mercato Rende Liberi, Friedman sostiene che il capitalismo costituisce senz’altro una condizione necessaria, ma purtroppo non sempre sufficiente per favorire la libertà politica, e che non tutte le combinazioni fra assetti politici e assetti economici sono possibili, auspicabili e desiderabili. Con la chiarezza che lo contraddistingue, quello che possiamo simbolicamente definire il padre del Nuovo Capitalismo del ventunesimo secolo, pone in rilevo l’intimo nesso esistente fra economia e politica, contrariamente alla credenza diffusa che si tratta di campi distinti e non correlati, stigmatizzando in chiave negativa [guarda caso] i socialdemocratici della sua epoca, che promuovevano le libertà politiche ed individuali ma accettavano con troppa leggerezza alcuni tratti essenziali dell’assetto economico sovietico, non certo favorevole all’iniziativa economica privata. Pur apprezzando il riconoscimento, da parte di Friedman, dell’intima connessione fra politica ed economia e il conseguente disvelamento dell’inganno accademico [da lui definito “credenza diffusa”] che le separa artificiosamente in teoria politica liberale e teoria economica liberista, essenzialmente per non farci comprendere la sostanza del capitalismo, seguendo questa via il nostro ha semplicemente voluto affermare senza lasciare spazio ad equivoci quello che lo scrivente va dicendo da tempo, e cioè che il miglior compendio del capitalismo concorrenziale, sul piano politico, è la democrazia di matrice liberale, la quale non potrebbe esistere senza il capitalismo. In questi anni di passaggio dal capitalismo del secondo millennio a quello del terzo, vissuti interamente sotto il segno di Capitalismo e Libertà, per “esportare” il rapporto sociale capitalistico e la cosiddetta economia di mercato in aree del mondo estranee alla sua genesi e alla sua affermazione, si è fatto largamente ricorso allo strumento bellico, giustificando la guerra con la necessità di abbattere regimi dittatoriali, liberare popoli, far trionfare i diritti umani e, per l’appunto, diffondere ovunque la democrazia liberale così come la intendeva Milton Friedman. 129 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La libertà individuale, formalmente riconosciuta a tutti, senza distinzioni di censo, di sesso, di opinioni politiche o di religione, ma nel concreto identificata con la libertà d’iniziativa economica e quindi intimamente legata ai diritti intangibili riconosciuti alla proprietà privata, è assunta quale supremo criterio di valutazione degli assetti economici, e quindi non può che legarsi indissolubilmente al liberalcapitalismo e al dominio dei mercati. Il matrimonio ineguale fra l’assetto politico liberaldemocratico e l’assetto economico neoliberista globalizzato, in cui dominano le ragioni dei Mercati e degli Investitori, è una caratteristica dell’ultimo ventennio, ed è assolutamente coerente con il discorso friedmaniano, sviluppato nella fondamentale opera Efficienza economica e libertà fra la seconda metà degli anni cinquanta [risultato di una serie di conferenze nel giugno del 1956 allo Wabash College] e l’inizio degli anni sessanta, quando i “veri liberali” non erano forti e dominanti quanto lo sono oggi, sotto il segno della Global class capitalistica. L’economista americano individua nel Mercato Libero la via da seguire per ridurre il numero delle questioni decise per via politica, per garantire il rispetto di un’ampia diversità di opinioni e quindi lo definisce come un efficiente sistema di rappresentanza proporzionale, che sostituisce le decisioni politiche sottomesse al voto ed al consenso delle maggioranze. Come al solito chiarissimo, il “solito” Milton Friedman della Scuola di Chicago sostiene che Sottraendo l’organizzazione dell’attività economica al controllo dell’autorità politica, il mercato elimina questa fonte di potere coercitivo. Esso consente alla forza economica di limitare il potere politico piuttosto che rafforzarlo.[Ibidem] Estendendo l’azione dei meccanismi impersonali del mercato, esattamente come sta accadendo oggi, non solo si riduce la decisione per via politica e si sottrae la stessa alle maggioranze elettorali, rimettendola, nella realtà, in mani elitistiche – sottraendola del tutto, è bene ribadire, all’approvazione dei subalterni che la subiscono – ma si favorisce il deconcentramento verso il basso, con la frantumazione del quadro politico‐amministrativo in una miriade piccoli [e quindi deboli] “governi indipendenti”. Come già si è accennato in precedenza, questa tendenza alla frantumazione del quadro politico‐amministrativo, caldeggiata a suo tempo da un preveggente Friedman, emerge oggi nel pessimo federalismo fiscale leghista in Italia, nel separatismo che minaccia il Belgio ed in altre situazioni in cui la minaccia dissolutiva regionalista “preme alle porte”, portando acqua al mulino della nuova classe dominante globale, che per consolidare la propria presa sulle società ha la necessità di indebolire e ridurre al lumicino le grandi organizzazioni statuali. Un altro aspetto inquietante, che emerge in Capitalismo e Libertà ed in particolare nell’avvio del secondo capitolo, tutto dedicato al ruolo [minore] che dovrebbe essere riservato al governo in una società libera, è il nesso fra un capitalismo 130 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 liberista portato alle estreme conseguenze e il cosiddetto anarchismo di mercato o anarcoliberismo, che costituisce un filone minoritario ma significativo del pensiero anarchico. Chi scrive è profondamente convinto che esiste qualche importante elemento comune, fra la concezione dell’individuo espressa dal pensiero liberale e quella espressa dal pensiero anarchico [soprattutto nella variante anarco‐individualistica], ma in tale caso la vicinanza è fra un “guru” liberalcapitalistico, un premio Nobel per l’economia molto ascoltato, in passato, negli ambienti della politica e dell’amministrazione americana, e quella parte minoritaria dell’anarchismo, presente nel Nord America ed anche in Europa, che individua nell’organizzazione statale, nelle sue istituzioni e nella burocrazia politico–amministrativa il principale nemico da abbattere, individuando nell’iniziativa economica privata più selvaggia ed incontrollata, lasciata totalmente libera di agire sul mercato, un veicolo per la liberazione dell’uomo. Per quanto ciò può sembrare frutto di un delirio, o l’effetto di un’autentica pazzia, visti i riflessi negativi dell’ultraliberismo realizzato sulla nostra stessa vita quotidiana – con gli anarco‐mercatisti, rothbardiani o agoristi che siano da consegnare in blocco alle cure psichiatriche – il discorso è serio e deve essere brevemente affrontato da un punto di vista diverso da quello clinico, poiché l’anarchismo di mercato non è che l’estremizzazione in forma caricaturale [e quindi grottesca] di quel pensiero ultraliberista ed antistatalista di cui Milton Friedman è stato uno dei più illustri esponenti e pubblicisti, se non il maggiore in assoluto, durante il Novecento. In Capitalismo e Libertà, lo stesso Friedman ci rivela di avere un debole per la suggestione anarchica, in quanto “uomo libero capitalistico” che si rimette interamente alla Legge del Mercato autoregolantesi, ma si ferma a tempo debito, ammettendo, non senza rammarico, che per quanto è desiderabile la “libertà assoluta” – ovviamente di natura economica, riservata esclusivamente a chi ha i mezzi per potersela godere – questa non rientra nell’ordine del possibile in un mondo di uomini imperfetti, e che quindi è necessario tollerare la presenza delle classiche istituzioni statuali. Descrivendo i ruoli essenziali ai quali si deve ridurre il governo in una società capitalistica “libera”, il professor Friedman afferma quanto segue: Questi sono, dunque, i ruoli essenziali del governo in una società libera: fornire i mezzi per ogni possibile modifica delle regole, mediare le divergenze di opinioni sul significato delle regole stesse e imporne il rispetto da parte di quei pochi che, senza tale imposizione, non starebbero al gioco. L’esistenza di un governo, da questo punto di vista, è resa necessaria dal fatto che la libertà assoluta è impossibile. Per quanto seducente possa essere sotto il profilo dottrinale, l’anarchia, essa, tuttavia, non è attuabile in un mondo di uomini imperfetti. 131 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 [Milton Friedman, Efficienza economica e libertà, Capitolo secondo] Lo stato, in quanto legislatore ed arbitro, deve fissare le “regole del gioco” e soprattutto favorire lo sviluppo del capitalismo concorrenziale, ma se lo stato è controllato direttamente o indirettamente dalle élite – come accade nel tempo presente, in cui i globalisti occidentali controllano indirettamente l’entità stato, e gli “emergenti” orientali della classe globale la controllano in alcuni casi direttamente – a vantaggio di chi lo stato svolge la sua funzione di arbitro? La risposta è scontata, ed è opposta a quella ci darebbe il chiarissimo professore di Chicago, se fosse ancora fra noi. Nei capitoli di Capitalismo e Libertà che seguono il secondo, Milton Friedman affronta vari temi particolari a sostegno delle sue tesi, dal controllo della moneta [che non poteva mancare, trattandosi di un suo “cavallo di battaglia” storico] alla proposta di misure per il conseguimento del benessere sociale, dagli assetti finanziari e commerciali internazionali alla distribuzione del reddito, tutte interessanti ed importanti questioni che purtroppo non è possibile affrontare analiticamente per ragioni di spazio in questa sede, ma è necessario concentrarsi esclusivamente su due specifiche questioni, sollevate da Friedman nell’economia dell’opera, la seconda delle quali è ancor più decisiva della prima. Per quanto riguarda la distribuzione del reddito, l’uomo che ha “riformato” il Cile anche contro la volontà di Pinochet, cerca di giustificare la sua naturale avversione, in quanto liberista estremo, per quello che definisce il livellamento dei redditi nella società, imputandone la diffusione delle propensioni nei paesi occidentali al “cattivo esempio” rappresentato dal collettivismo. La propensione egualitaria che informa il cosiddetto livellamento dei redditi, lungi dall’essere concepita per quello che effettivamente è, e cioè un’affermazione dell’etica e della socialità sulle impersonali, ingiuste e spietate dinamiche mercatiste, per Friedman è una negazione inaccettabile del “principio etico” capitalistico concorrenziale, come, del resto, il benessere non deve essere preferito alla libertà individuale capitalistica se la nega. Scrive a tale proposito l’economista americano: Il principio etico che giustifica la distribuzione del reddito in una società di libero mercato è questo: “a ciascuno secondo quanto egli stesso e gli strumenti che possiede producono”. [Milton Friedman, Efficienza economica e libertà, Capitolo decimo] La disuguaglianza fra gli uomini, in altre parole, è un dato ineliminabile, qualcosa che non può essere corretto, a meno di violare, con l’uso della coercizione – intendendo per coercizione l’intervento ridistibutivo dei redditi da parte dello stato, o le limitazioni imposte esternamente al Libero Mercato – le intangibili libertà economiche dell’individuo liberale, nonché il principio fondamentale dell’economia di mercato, che è la cooperazione realizzata mediante lo scambio volontario fra privati. 132 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Non si può rimuovere o attenuare significativamente la disuguaglianza fra gli uomini, secondo Friedman, in quanto la maggior parte delle differenze sociali, di posizione o di ricchezza, possono essere considerate, se le si considera con sufficiente distacco, come il prodotto della sorte. [Ibidem] In tale caso, il grande economista e monetarista non trova giustificazioni migliori alle sue affermazioni contro l’egualitarismo – che nascondono, con tutta evidenza, la difesa degli interessi proprietari e imprenditoriali dei dominanti capitalistici – della dea fortuna che è cieca quanto la dea giustizia e distribuisce i suoi doni a caso, ed è costretto così a ripiegare sull’esempio della lotteria che è un tipo gioco di sorte, rivelando una certa difficoltà nel sostenere le sue tesi con solide argomentazioni. Un po’ come affermare, per togliersi dagli impicci e non affrontare la questione da un punto di vista etico e sociale: se siete poveri prendetevela con la sorte, con la “lotteria della vita” che vi ha sfavoriti, e non con chi costruisce le sue fortune personali sulla vostra povertà! La seconda questione posta da Friedman, che chiude la presente analisi, è ancora più importante di quella che riguarda la distribuzione dei redditi, ed è contenuta nel capitolo ottavo di Capitalismo e libertà, in cui si tratta del monopolio [particolarmente inviso all’autore, se in mani pubbliche] e soprattutto della responsabilità sociale degli imprenditori e dei lavoratori. Quante volte abbiamo sentito, in questi ultimi anni, gli “utili idioti” del Nuovo Capitalismo o individui in aperta malafede invocare, come palliativo alle crescenti disuguaglianze sociali, alla distruzione di posti di lavoro, alla compressione dei redditi e dei diritti dei lavoratori, la mitica “responsabilità sociale dell’impresa”? Qualcuno ne vorrebbe fare addirittura un paradigma di questo capitalismo, convinto che l’assunzione – volontaria! – di responsabilità nei confronti delle comunità e degli stati da parte delle imprese capitalistiche, dei grandi gruppi industriali e finanziari, possa scongiurare, o almeno rallentare, il depauperamento di gran parte della popolazione e la perdita di autorevolezza e di “credibilità” delle istituzioni statuali stesse. A chi non è in malafede e pensa che ciò sia effettivamente possibile – rivelando così di poter credere oltre al capitalismo misericordioso anche ad un prossimo sbarco degli alieni sulla terra – si può tentare di far leggere le parole scritte, mezzo secolo fa, da Milton Friedman, profetiche al punto che tolgono ogni speranza a riguardo di un capitalismo più misericordioso ed escludono anche la mera possibilità della cosiddetta responsabilità sociale d’impresa: Poche tendenze possono scardinare in maniera così totale i fondamenti della nostra società libera, come l’accettazione, da parte dei dirigenti delle imprese, di una responsabilità sociale diversa dalla pura e semplice responsabilità di guadagnare la maggior quantità possibile di denaro per i loro azionisti. Si tratta, infatti, di una dottrina fondamentalmente sovversiva. [Milton Friedman, Efficienza economica e libertà, Capitolo ottavo] 133 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’unica e la sola responsabilità che deve assumersi colui che gestisce l’impresa è quella nei confronti della proprietà azionaria, realizzando il massimo profitto possibile per gli azionisti, creando un maggior valore a tassi crescenti per chi dispone dei capitali finanziari, ed è sovversivo anche soltanto permettersi di pensare che vi possa essere una responsabilità sociale diversa. In termini un po’ più tecnici, esiste una responsabilità degli amministratori nei confronti di tutti gli stakeholders non azionisti, trattandosi di gruppi o individui che incidono sulle sorti dell’impresa – dai dipendenti ai fornitori, dai clienti alle agenzie governative – e che sono interessati ai suoi risultati economici, ed anche nei confronti di entità ed individui non essenziali per la sopravvivenza dell’impresa stessa, ma che possono influenzarla od esserne influenzati, come ad esempio le comunità locali, i gruppi d’interesse pubblico e le associazioni dei consumatori. Ebbene, se si adotta l’ottica liberale estrema di Friedman, tutti coloro che non sono azionisti, che non costituiscono la proprietà, tendono ad eclissarsi e l’impresa può permettersi nei loro confronti comportamenti “irresponsabili”, la qual cosa diventa particolarmente rilevante nei confronti dei dipendenti, che sono il gruppo più esposto di stakeolders e il più interessato alle politiche aziendali dopo la proprietà. Ciò significa che soltanto l’interesse di chi è shareholder, ossia azionista, può avere un peso nelle decisioni di gestione e nei piani all’uopo approntati. Il principio friedmaniano della responsabilità degli amministratori dell’impresa nei confronti della sola proprietà [gli Investitori], per il conseguimento del massimo profitto [il Valore Creato], sposandosi con l’autonomizzazione della dimensione finanziaria, la sua intangibilità e la moltiplicazione dei prodotti finanziari e delle loro dimensioni in termini di valore [i Mercati], senza precedenti storici così come si è verificata in questo ultimo ventennio, è alla base dell’affermazione del paradigma ultraliberista della Creazione del Valore. Questo è il principio al quale si ispirano i grandi manager che gestiscono organismi produttivi per conto della proprietà globalista, ed infatti, questo è anche il principio osservato da Sergio Marchionne quando ha imposto, in Italia, gli accordi separati per gli stabilimenti Fiat di Pomigliano d’Arco e di Mirafiori, o quando ha decretato la chiusura di quello di Termini Imerese, minacciando di andarsene dal paese in caso di rifiuto delle sue condizioni da parte di sindacati e lavoratori. A chi ha risposto fino ad ora Marchionne e che razza di “responsabilità” emerge dalle sue azioni, devastanti sul piano sociale, su quello dell’occupazione, dei redditi e dei diritti dei lavoratori? Nella più perfetta aderenza alle parole di Friedman prima riportate, Marchionne ha risposto esclusivamente ai Mercati ed agli Investitori, cioè alla proprietà azionaria che conta, rendendo “più dinamico” il titolo Fiat in borsa – il suo vero e principale scopo –, creando così valore finanziario, azionario e borsistico per la proprietà e per 134 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sé stesso in quanto percettore di stock options, ma fungendo contemporaneamente da “sponda” per gli interessi americani. Nell’allucinante dopo Cristo di Sergio Marchionne, come lui stesso ha definito questo presente, Cristo è morto [ed è questo motivo per il quale il capo mercenario globalista ha parlato di “dopo Cristo” davanti ad una folta assemblea di cattolici!], il capitalismo si è trasformato rispetto a ciò che è stato nel secondo millennio, aprendo le porte ad un Nuovo Evo della storia umana, e ciò che rimane dopo un paio di decenni di sconvolgimento è soltanto la Creazione del Valore, Finanziaria, Azionaria e Borsistica, che è il paradigma fondamentale del Nuovo Capitalismo del Terzo Millennio. Esempi negativi come quello del canadese Marchionne [se lo prenda il Canada un simile individuo, pur se di origine italiana!] se ne potrebbero porgere molti altri, di uguale o di minore importanza e di pari o superiore dimensione economico‐ finanziaria, ma quello che più conta è che su tutti questi casi aleggia lo spirito ultraliberale e ultraliberista di Milton Friedman, “anima nera” indiscussa ed ideologo, ancor prima che economista, di questo capitalismo. Perciò, il “testo sacro” del capitalismo contemporaneo, che annuncia la nascita di un nuovo modo di produzione sociale caratterizzato da cinque elementi strutturali – rapporti produttivi e sviluppo delle forze produttive, ideologia di legittimazione, manipolazione antropologico‐culturale dei subalterni, creazione del valore ben oltre la classica estorsione del plusvalore, crisi come assetto strutturale – non può essere che il testo politico, ideologico ed economico intitolato Capitalism and Freedom e comparso la prima volta nell’ormai lontano 1962, del quale si è cercato di proporre una breve e forse insufficiente analisi in questa sede. Nel libro di Friedman, che costituisce sia una sorta di Nuovo Testamento capitalistico sia un Manifesto Ideologico per la nuova Global class, più ancora che nel Vecchio Testamento smithiano della Ricchezza delle Nazioni in cui è comparsa per la prima volta la “mano invisibile” del Mercato, ci appare in tutta la sua spietata evidenza l’insostenibile leggerezza di questo capitalismo. 135 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Per colpire Berlusconi bisogna colpire la Lega Articolo del 13/02/2011 Che il pericolo maggiore, in prospettiva, sia la Lega e non Berlusconi dovrebbe essere per tutti un’evidenza. La forza eversiva e dissolutiva leghista dorme costantemente sotto le ceneri pronta ad attivarsi in ogni momento, ed è arrivata fino ai ministeri romani, occupati da esponenti della burocrazia politica leghista. Mentre il vecchio porco si “rilassava” ad Arcore o nella villa in Sardegna, circondato da belle mercenarie in un improbabile riposo del guerriero, la Lega lavorava senza risparmio per estendere il suo potere, nelle istituzioni centrali e locali e in tutta la società del nord. La Lega sa bene che più il vecchio porco è in difficoltà, assediato dai gruppi editoriali avversi e dalla stampa straniera, attaccato dai magistrati ʺrossiʺ, colpito dalle defezioni nel suo stesso cartello elettorale e costretto a ricorrere alla compra dei parlamentari, più il potere politico bossiano all’interno della maggioranza cresce, ma soprattutto cresce il suo potere di ricatto, nei confronti della presidenza del consiglio ed indirettamente dell’intero paese. Lo scandalo della “prostituzione minorile”, nonostante tutto ciò che di negativo e dissolutivo ha comportato e sta comportando per l’intero paese, ha rappresentato la ciliegina sulla torta per la Lega – i cui interessi, non dimentichiamolo, sono opposti a quelli della maggioranza degli italiani – perché gli ha consentito di estendere ulteriormente la sua malsana influenza sull’esecutivo, imponendo il ben noto aut‐ aut “approvazione del decreto relativo al federalismo o scioglimento delle camere ed elezioni politiche anticipate”. Qualcuno ha definito la battaglia leghista per il federalismo come una battaglia per la vita, quella della Lega bossiana naturalmente, e giunti a questo punto l’approvazione del decreto riveste un indubbio valore simbolico, che non sarà privo di riflessi elettorali. Se il decreto passerà, ci saranno ulteriori problemi per il paese, e soprattutto per coloro che non essendo evasori fiscali impuniti si vedranno aumentare le imposte e le tasse a livello locale, ma la Lega, fregandosene bellamente di questi dettagli, otterrà una vittoria simbolica da sbandierare davanti alle sue orde di sostenitori. La cosa sembra talmente importante, per la stessa sopravvivenza politica del cartello elettorale bossiano, che La Padania, il suo quotidiano, è stato uno dei pochissimi ad ignorare, in prima pagina, lo scandalo con risvolti penali delle puttane e dei ruffiani del presidente Berlusconi, come per esorcizzarlo, sperando che il vizioso di Arcore resti al suo posto, almeno quel tanto che basta per far passare il fatidico decreto. 136 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La settimana di ritardo per recepire le obiezioni dell’Anci si è già riflessa negativamente – almeno dal punto di vista delle burocrazie politiche leghiste – sulla tabella di marcia e Bossi ha risposto con una pernacchia, come sempre elegante ad uso e consumo dei bruti padani, ai centristi che proponevano un rinvio di sei mesi. Se alcuni esponenti di quel partito dei “morti viventi” che è il Pd, fra i quali il pessimo Chiamparino, sostenitore della distruzione dei diritti dei lavoratori e di Marchionne, hanno cercato di lusingare la Lega, proponendo l’approvazione del federalismo e la sua attivazione in cambio della fine dell’appoggio padano al governo, i più astuti, primo fra tutti Casini con il suo neocostituito terzo polo, hanno compreso come ha compreso lo scrivente che sparando sempre e soltanto sul ʺbersaglio grossoʺ, cioè su Berlusconi, si possono ottenere in questa situazione effetti limitati. Il consenso al Puttaniere‐Tycoon di Arcore non sembra decrescere con la dovuta rapidità, e questo perché chi lo vota per idiotismo resta un socialmente idiotizzato nonostante le orge a base di escort ormai di pubblico dominio, malgrado le 389 pagine prodotte dalla Procura di Milano, e soprattutto in difetto di un’azione governativa anticrisi, e chi beneficia dell’evasione fiscale grazie a Berlusca e alla Lega continuerà ad appoggiarlo, anche se ammazzerà qualche prostituta nel suo palazzo, facendone sciogliere il cadavere nell’acido per occultare le tracce. Eʹ necessario, quindi, individuare il vero ʺtallone dʹAchilleʺ della maggioranza di governo, colpendo il quale si può far fuori Berlusconi, e non soltanto lui. Se è proprio la Lega che tiene in piedi Berlusconi, ben di più dei vari parlamentari comprati a partire da Scilipoti, e se per la Lega è essenziale – politicamente – lʹapprovazione del federalismo, a qualsiasi costo e in tempi brevi, ecco individuato il “tallone d’Achille”, centrando il quale si può innescare un salutare ʺeffetto dominoʺ. In estrema sintesi, due sono le possibilità. Ritardando lʹapprovazione del federalismo leghista, rinviandola sine die – soluzione ancor migliore della più drastica bocciatura del decreto – si potrà inchiodare la lega al governo e allʹappoggio ad oltranza concesso ad un Berlusconi sempre più debole e in emorragia di consensi, che non è ancora evidente, ma che dovrà verificarsi se lʹattuale situazione continuerà a degenerare e alla fine si arriverà alla cancrena. Così, la lega nei fatti non ottempererà alla sua promessa/ aut‐aut federalismo o elezioni subito, e potrà essere trascinata con sé da Berlusconi, nella sua possibile caduta. Due piccioni con una fava. Se il decreto federal‐leghista sarà infine respinto, si andrà ad elezioni politiche perché Bossi difficilmente potrà rimangiarsi le sue promesse, e qui Berlusconi, 137 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 presentandosi con la Lega, potrebbe effettivamente avere qualche chance in più, ma a quel punto sarà più probabile una sconfitta, nonostante il persistere del voto a suo favore degli idiotizzati e degli evasori fiscali. Anche in tal caso, obbiettivo raggiunto. Ma le cose, nel medio‐lungo periodo, potrebbero non andare come sperano i terzopolisti, a partire dall’astuto Casini che pregusta il momento in cui entrerà nel nuovo governo come “ago della bilancia” o addirittura presidente del consiglio, senza Berlusconi e senza la Lega. Un futuro movimento antagonista e anticapitalista rinvigorito dalle durezze sociali della crisi e della ristrutturazione liberalcapitalistica, si troverebbe di fronte governi ancor più deboli dell’attuale, terzopolisti e pidiini, ancorché maggiormente asserviti di quanto lo è Berlusconi alla grande finanza globalista, ed avrebbe a disposizione, di conseguenza, un maggior spazio nella società per svilupparsi, per acquisire il consenso di fasce sempre più ampie della popolazione e per preparare una vera alternativa politica. Gli idiotizzati e quei gruppi sociali spregevoli, venduti come “produttivi”, che esprimono l’evasione fiscale, continueranno ad esistere, naturalmente, ma non saranno così determinanti come lo sono oggi con il satrapo Berlusconi, e ci sarà più spazio per un auspicabile e generale ritorno al “principio di realtà”, per la diffusione di una nuova consapevolezza politica e per la nascita di una nuova coscienza di classe. 138 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La Decrescita e la Decrescita Forzata ed Infelice Saggio del 19/03/2011 Decrescita Forzata ed Infelice Ovvero Berlusconi, Tremonti e la decrescita Avvertenza: questo scritto è stato pubblicato in rete nel corso del 2010, e rappresenta un tentativo fatto dallo scrivente di inserirsi con proprie e [si spera] originali argomentazioni in una polemica fra Maurizio Pallante, da un lato, e Marino Badiale e Massimo Bontempelli dall’altro, la quale ha rappresentato un’occasione irrinunciabile per la riflessione sul tema della Decrescita [rispettabilissimo paradigma in via di edificazione] quale possibile, futura alternativa al capitalismo. Il sottotitolo “Berlusconi, Tremonti e la decrescita”, che in origine costituiva il titolo di questo breve saggio, non rappresenta soltanto un’amara ironia, come qualcuno potrebbe essere portato a credere, ma un modo per evidenziar, facendo diretto riferimento alle vicende italiane, che esiste una decrescita “forzata” – definita con ben altre espressioni all’interno del pensiero economico liberalcapitalista, quali ad esempio crisi o depressione – interna alle dinamiche capitalistiche ed in particolare prodotta delle logiche predatrici del Capitalismo Finanziarizzato Globale. Questa “falsa” decrescita, lontana dai paradigmi latoucheani e pallantiani, oggi è immediatamente tangibile in parte significativa del mondo occidentale, e non solo. Si tratta di una decrescita suscitata e suscitabile ad arte in uno stato di crisi che tende a diventare permanente [e quindi strutturale], ma comunque funzionale alla nuova riproduzione capitalistica, oppure di un segnale di sopraggiunta incapacità di sviluppare oltre i limiti raggiunti le forze produttive, che può ridare fiato e speranze al “crollismo”, o di un drammatico effetto, di lungo periodo, dell’insostenibilità della pressione esercitata dalla dimensione finanziaria sull’economia reale e sull’ambiente? La domanda, per ora, è destinata a restare senza una sicura risposta, ma è certo che l’incidente nucleare giapponese, data la sua gravità e le forze incontrollabili che ha scatenato, pone inquietanti interrogativi che investono il modello di sviluppo capitalistico nella sua interezza, e pur facendo astrazione dai “precetti” decriscisti, che postulano un antisviluppismo radicale, sembrano dar ragione a Serge Latouche e a coloro che lo seguono. Il secondo capitolo della presente sezione, riguardante il programma decriscista latoucheano, costituisce una recente ma doverosa integrazione. Posto che il titolo di questo breve saggio sia volutamente provocatorio, l’accostamento presente nel sottotitolo potrà sembrare ai più una stranezza, una mera ironia, una bizzarria decisamente fuori luogo. Insorgerebbero, davanti a questo accostamento, sia Badiale e Bontempelli – sostenitori di una via originale alla Decrescita, costellata di dure lotte con le oligarchie/ suboligarchie/ caste dominanti che impongono una crescita distruttiva, per gli umani e per l’ambiente, nell’alveo della religione liberalcapitalistica del 139 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Progresso – sia un intellettuale come Pallante che rispetto ai primi ha una diversa visione del fenomeno decriscista, certo più “felice” e bucolica, credendo possibile una ricostruzione delle reti sociali di rapporti e di scambi, nella progressiva sostituzione delle merci con i beni, sostanzialmente per via pacifica e al di fuori delle logiche capitalistiche dominanti. Se in Italia i decriscisti prospettano almeno due strade per la fuoriuscita dal capitalismo, bisognerebbe però ricordare che c’è anche una “terza via”, per quanto impropria e decisamente fuori del solco del pensiero latoucheano, la quale porta tutti noi volenti o nolenti a decrescere, ed è quella della cosiddetta Decrescita Forzata, la quale non può nascere che da drammatiche e penalizzanti interruzioni della crescita del PIL, con abbondanti perdite di posti di lavoro e di quote sui mercati esteri, con contrazioni dei consumi sul mercato interno e drastiche riduzioni delle risorse assegnate al welfare. Deindustrializzazione, delocalizzazioni, chiusure di stabilimenti, disoccupazione, demolizione dell’impianto storico del welfare e dei servizi sociali sono le condizioni che realizzano la “decrescita forzata”, la quale, a differenza del paradigma della Decrescita di Maurizio Pallante, o di quello alternativo di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, è destinata a restare del tutto interna – almeno nella sua prima e drammatica fase, caratterizzata da elevati costi e crescenti sofferenze sociali – a quelle che sono le logiche capitalistiche. Un contributo non secondario, per spingerci con decisione sulla strada della Decrescita Forzata, oltre alla rapacità della finanza internazionale che risponde a ben precise strategie dominanti in occidente, alla serrata concorrenza “emergente” che ci penalizza e pauperizza rapidamente [in ciò il “multipolarismo” nel suo concreto riflesso economico e commerciale], alla prosecuzione imperterrita dei processi di globalizzazione neoliberisti, può certamente esser dato dall’azione/ inazione dei governucoli espressione di una “classe politica” cialtrona, ladra ed incapace, nonché sempre più numerosa, che si struttura al suo interno in comitati d’affari familistico‐clientelari e centri di privilegio ingiustificato, insediandosi nel cuore della cosa pubblica come un topo nel formaggio impegnato a rosicchiare il nostro futuro, ma sempre disponibile a servire i potentati d’oltreoceano, a battere i tacchi davanti ai diktat globalisti, per mantenersi nel cacio il più a lungo possibile. Se l’obbiettivo principe di questa suboligarchia degenere, che in Italia trova una sponda importante nell’industria infedele e decotta [Fiat, Confindustria] e nel sindacalismo giallo [CISL, UIL, UGL], è sostanzialmente quello di arraffare per garantirsi una vita quanto più possibile comoda a spese di tutti gli altri, la sua azione/ inazione devastante su vari piani – economico‐sociale, etico, culturale, ambientale – nel medio‐lungo periodo è in qualche modo funzionale al pieno e temuto avvento della Decrescita Forzata, che potrà aprire le porte non necessariamente “ad un nuovo medioevo finale e perenne” di guerre, di caos 140 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 imperante, di frantumazione della società e di impoverimento generalizzato, ma, bensì, ad una stagione rivoluzionaria del tutto nuova. La “reinvenzione” della convivenza civile, dei sistemi di potere, della strutturazione sociale su altre basi, se ciò si concretizzerà, non potrà che passare attraverso anni difficili, di buio e di incertezza, finanche di estesi torbidi e di lutti. Di recente è passata al senato e alla camera, con un’ampia maggioranza, la finanziaria “forzatamente decriscista” del colbertian‐ragionieristico Tremonti, nonostante i mugugni dell’Ologramma Mediatico di Arcore – il quale avrebbe volentieri procrastinato “la risoluzione dei problemi strutturali” dell’economia italiana, in funzione del suo gradimento nei sondaggi – e la dura legge contabile tremontiana ha scatenato proteste e lamentazioni delle camarille politiche installate negli enti locali, a partire dalle regioni, ben sapendo che queste camarille politiche liberaldemocratiche italiote, nella realtà, se ne fregano dei futuri tagli di servizi alla popolazione e pensano esclusivamente alle loro comode posizioni di potere. La finanziaria del “Colbert dei poveri” [vista l’attuale situazione economica nazionale] colpirà al cuore i servizi sociali, il sistema educativo nel suo complesso, i beni pubblici puri e diminuirà ulteriormente il tenore di vita della maggioranza della popolazione italiana. Quello che non riuscirà a fare sarà “stimolare la crescita economica”, come invece spergiurano i berluscones “occupati in politica”, rianimando il PIL italiano che fra non molto rischierà di finire in permanenza sotto la tenda ad ossigeno. Per quanto riguarda il PIL, nonostante il suo aspetto totemico e con tutta evidenza giustificatorio della nuova, grande espropriazione capitalistica che ha caratterizzato questi ultimi due decenni, va però ammesso, a differenza di quanto pensano i decriscisti, che lo stesso supremo indicatore dello stato di salute delle economie contemporanee contiene pur sempre elementi, per quanto manipolati, distorti, ridotti nello steccato delle logiche capitalistiche, che riportano al prodotto sociale concretamente ottenuto attraverso il lavoro dei subalterni, e quindi all’indispensabile produzione delle basi materiali della convivenza sociale. Mentre si vende la finanziaria come un ibrido fra una manovra rivitalizzante di politica economica e una dura necessità imposta “dall’Europa” per il “risanamento” e la strenua difesa dell’Euro dagli attacchi speculativi, si garantiscono l’evasione fiscale ed i patrimoni degli “immobiliaristi”, quelli degli speculatori e della stessa criminalità organizzata trasformatisi in centro di business. Infatti, la politica minore soggiace all’alleanza concretamente e localmente stabilita fra gli espropri del grande capitale liquido‐finanziario o immobiliar‐speculativo [privatizzazioni, creazione del valore con nuove ed avanzate forme di crematistica, speculazione su immobili di pregio, eccetera], l’imprenditoria affaristico‐degenere che punta direttamente agli appalti e al danaro pubblico [lavori per il G8, ricostruzione de L’Aquila post‐terremoto, eccetera] e gli interessi delle principali 141 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 organizzazioni criminali [controllo del territorio, riemersione del “denaro sporco” attraverso attività legali ed espansione parallela dei traffici illegali, dalla droga agli schiavi migranti, eccetera]. Alla predetta alleanza i subdominanti politici locali, liberaldemocratici “destri” e “sinistri”, social‐liberali e “sinistri radicaloidi” interni al sistema, assieme a parti significative dell’apparato statale sono di fatto sottomessi, con tutto il codazzo di specifiche clientele e l’azione delle contaminazioni profonde, ormai incancrenite, dovute al diffondersi del cosiddetto familismo amorale [già descritto nel Novecento da un sociologo americano con riferimento alla società italiana, ed in particolare a quella del meridione], che segnano sempre più profondamente la politica sistemica lungo tutta la penisola, da nord a sud. La vecchia capitale economica d’Italia, quella Milano da bere e da “sniffare” la cui sostanza è ben simboleggiata dalla parabola dell’Hollywood e del The Club, teatro delle follie notturne dei VIP a base di coca e sesso, non è meno infiltrata delle mafie con o senza doppiopetto di quanto lo è stata, o lo è tuttora, la Palermo frequentata dai tradizionali mammasantissima. Si fa credere, per mantenere in piedi un sistema pericolante ed apparentemente senza alternative, che è ancora possibile “moralizzare” la politica liberaldemocratica, che la soluzione è il “rinnovo della classe dirigente”, che quanto sta accadendo è semplicemente un effetto dell’eclissi delle idealità. Sostituendo gli Scajola, i Verdini, i Cosentino, i Marrazzo, o addirittura lo stesso Berlusconi in cima alla piramide, come per incanto tornerebbe il sereno … La causa di tutti i mali andrebbe cercata nella decadenza dei costumi dei subdominanti politici italiani, ridottosi a mendicare la “dose”, l’attico comodo ed elegante [pardon, il “mezzanino”], i piccoli favori, le puttane [pardon, le escort], nella latitanza di una “politica alta” e nel cinismo nichilista imperante denunciato dall’impotente papa‐teologo Joshep Ratzinger. Ma è veramente questa visibile decadenza dei costumi, con il conseguente scadimento “dei valori” al di sotto di ogni soglia di tolleranza, che ha avuto il potere di ridurre il paese nello stato in cui si trova oggi? Le indovinate espressioni giornalistico‐mediatiche di cricca, casta, furbetti, e via elencando, la cui origine è intimamente legata al funzionamento stesso del sistema e alle sue dinamiche, non fanno altro che attirare l’attenzione sulla superficie di questo specifico problema etico, politico, sociale, nonché su aspetti degenerativi che possono essere certo rilevanti, che possono risultare drammatici se spinti verso le estreme conseguenze, come sta accadendo in Italia, ma che in verità non costituiscono né il principale problema che l’intero paese sconta né la vera sorgente di tutti i mali. A monte di tutto questo processo venduto come sorgente prima della degenerazione, quale somma di casi individuali di corruzione o quale costume 142 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 aberrante localmente stabilito che si potrebbe correggere con un semplice “rinnovo della classe dirigente politica”, il principale problema è costituito dalla perdita di ruolo, di sovranità politica e monetaria, di possibilità di pieno intervento sulle materie economiche e sociali che ha subito lo stato di matrice liberldemocratica, in questi ultimi decenni in tutta Europa [quindi non esclusivamente in Italia], un fenomeno che è apparso particolarmente chiaro in corrispondenza dell’avvio della globalizzazione neoliberista [si legga, a tale proposito, il breve saggio dello scrivente, Stato e Dissoluzione, in Alienazioni e uomo precario]. Il principale problema del tempo riporta alle “gabbie” elitistico‐globaliste rappresentate dalla WTO, dal FMI, dalla UE/ UEM, da Maastricht e dall’Euro [ma non soltanto] in cui a milioni siamo costretti a vivere, senza che sia possibile una vera partecipazione alla decisione politica e l’attuazione concreta della sovranità popolare. La “casta” che imperversa, che alimenta intere stagioni di scandali con il conseguente gossip giornalistico‐mediatico, e che sembra oggi inamovibile è nata, in questa realtà sociale e politica, non certo da un’improvvisa e inspiegabile adesione al relativismo più abbietto e al peggior nichilismo nicciano, ma origina proprio dalla predetta diminuzione del ruolo e dell’autonomia del vecchio stato nazionale, ed è perciò figlia illegittima del libero commercio, della libera della circolazione planetaria dei capitali, della moneta unica europea, delle privatizzazioni e via elencando. Si può affermare con buona approssimazione che la “casta politica” italiana – assieme ad altre minori, formatesi all’interno dell’apparato statuale, accademico e dell’informazione, così come oggi si può agevolmente osservare – è niente altro che il prodotto spregevole, a livello nazionale, del nuovo impianto di potere elitistico‐ globalista che si sostanzia in club privati come centri decisionali strategici, negli organi sopranazionali della mondializzazione come attuatori ad alto livello delle politiche imposte, e in ultimo, si vale dei vecchi stati nazionali liberaldemocratici come “catena di trasmissione finale” di tali decisioni, veicolate a livello locale attraverso politiche governative apertamente anti‐sociali [flessibilizzazione del lavoro] e addirittura contrarie agli stessi interessi della nazione [svendite del patrimonio pubblico, privatizzazioni]. Certo che il furbastro Gian Antonio Stella, giornalista bene introdotto nonché scrittore incensato ed affermato, in coppia con il suo socio sistemico Sergio Rizzo ha fatto a suo tempo un bel colpo editoriale pubblicando il libro La Casta, ampiamente pubblicizzato dai media, ipervenduto e discusso in ogni dove, e ciò a palese testimonianza che “la degenerazione dei costumi della classe politica”, trasformatasi in casta, non è la vera e l’unica sorgente dei gravi [e ormai storici] problemi recessivi e sociali che stiamo vivendo, perché se lo fosse stata veramente il 143 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 libro di quel gran opportunista di Stella, con tanto di coautore al seguito, sarebbe stato silenziato, boicottato e debitamente “ucciso nella culla”. Non ci si deve perciò stupire se non vi sarà vera lotta alla grande evasione fiscale, sia che cambi il “quadro politico” sia che resti inalterato, se non vi sarà alcun contrasto alla costrizione al lavoro informale, sommerso e molto spesso ipersfruttato, agli interessi delle grandi cosche criminali [che non di rado si saldano con quelli globalisti, come nel caso del traffico di droga], perché tutto ciò fa parte dell’ultima, grande e decisiva espropriazione capitalistica, che deve continuare negli assetti di crisi, e ciò anche per l’evidente motivo che lo stato liberaldemocratico opportunamente imbrigliato, a partire dall’azione degli esecutivi, ha possibilità di intervento [e volontà di intervento, data la corruzione] sempre più limitate. A questa ferrea regola non può sfuggire qualsivoglia governo liberaldemocratico, ivi compreso l’osceno e miserabile governucolo Berlusconi, Tremonti, Lega. Per tale motivo continuerà l’attacco al Lavoro, in termini di perdita di diritti e di flessibilizzazione/ precarizzazione, di estensione dell’area della precarietà come sola e concreta alternativa alla dilagante disoccupazione/ esclusione di massa, di compressione dei redditi e di progressivo “superamento” delle pensioni decorose. Nel contempo, si tolgono risorse agli enti locali e incombe la minaccia della realizzazione del federalismo fiscale ad altri costi collettivi, con il conseguente aggravio delle burocrazie politiche, agitata per soddisfare gli appetiti di una marmaglia bottegaio‐bossiana decerebrata. Tutto ciò provocherà inevitabilmente un’impennata della pressione fiscale locale, e quindi di quella complessiva, che già oggi è insostenibile, in primo luogo per i redditi da lavoro dipendente esclusi dall’area della piccola evasione fiscale e contributiva [costituita essenzialmente da impresari e faccendieri di piccolo cabotaggio, bottegai, padroncini berlusconian‐leghisti], quello stesso lavoro dipendente – ossatura del PIL, essenziale per il risparmio e i consumi – che rappresenta un facile bersaglio per i governi dell’epoca, diminuiti nelle loro funzioni da accordi sopranazionali vincolanti, attraversati dalla Nuova Corruzione Sistemica e quindi ostaggio dei predetti grandi interessi di matrice criminal‐ globalista, come nel caso dell’attuale gabinetto italiano. In ciò e soltanto in ciò l’amara ironia del nesso fra Berlusconi, Tremonti e la decrescita, contenuto nel sottotitolo, da intendersi come un’impropria Decrescita interna a questo capitalismo, necessariamente Forzata e Infelice in quanto a presupposti ed esiti, sicuramente ben lontana dalla visione e dalle nobili intenzioni decrescite umanistico‐latoucheane. Più che di Megamachine, nel senso assegnato a questa espressione in un celebre libro del professor Serge Latouche, si potrebbe convenientemente parlare, in accordo con la realtà in cui viviamo, di Megaespropriazione finale di risorse da 144 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 parte del Capitalismo Transgenico Finanziario del terzo millennio, che si vale dell’uso congiunto di Mercato e Media [simbionti del nuovo mondo culturale], della conoscenza scientifica e della tecnica, della manipolazione antropologico‐ culturale per la produzione di una neoplebe flessibile e precaria, ed avoca a sé, in quanto potere assoluto, la decisione politica e strategica imponendola ai governi ed ai governucoli liberldemocratici. Agli esecutivi non resta che trovare giustificazioni pubbliche convincenti alle finanziarie inique e de‐emancipatrici, che realizzano il disegno dei nuovi dominanti, ad esempio facendo credere che se la percentuale di crescita del PIL diminuisce progressivamente, o assume valori negativi, a fronte di questa “decrescita” la spesa sociale deve necessariamente diminuire, come se si trattasse di un automatismo che non può che riportare alla sacralizzata “Legge del Mercato” [Lex de imperio Smithiana], e quindi il welfare deve a sua volta “decrescere”, se necessario fino all’azzeramento, perché tanto si potenzieranno in sua sostituzione le famigerate “reti amicali e familiari” a supporto dei più deboli. Il fatto è che queste soluzioni d’accatto – sostituire il welfare con reti di soccorso familiari e pseudocomunitarie, in piena crisi delle famiglie e in assenza di vere comunità – hanno lo scopo concreto di scaricare sui subalterni quote crescenti di spesa sociale, per “liberare” risorse pubbliche da destinarsi agli inesauribili appetiti globalisti, in quota‐parte alla grande criminalità organizzata e naturalmente, come accade regolarmente in Italia, in parte minore anche se non sempre e soltanto le briciole [l’osso gettato sotto il tavolo, per intenderci], ai clientes politici subdominanti locali, ad alcuni dirigenti ed alti funzionari pubblici, a magistrati più che infedeli, a generali dei carabinieri impegnati nei traffici di droga e forse anche ai capoccia del sindacalismo giallo. Tutto questo confermerebbe, inoltre, il legame direttamente proporzionale che Maurizio Pallante, maggior interprete italiano di Serge Latouche, postula con chiarezza nel suo interessante saggio Decrescita e Welfare State [pubblicato nel sito del Movimento per la Decrescita Felice], quale connessione fra le variazioni annuali del PIL e quelle delle risorse impiegate per alimentare la spesa sociale, accettando con tutta evidenza e in modo un po’ acritico il predetto “automatismo” di natura mercatista. Tale legame di diretta proporzionalità è stato però messo opportunamente in discussione da Badiale e Bontempelli nell’altrettanto interessante saggio Due vie per la decrescita [pubblicato in rete, fra l’altro, da Megachip e Come Don Chisciotte], e da loro considerato un autentico errore logico, poiché basterebbe fare quello che i subdominanti politici italiani non faranno mai [siamo essi berluscones o pidiini], cioè colpire con un auspicabile “terrore fiscale” attività inutili e dannose come la pubblicità e la finanza, nonché i grandi patrimoni frutto della speculazione e delle pratiche crematistico‐immobiliariste, oppure “tagliarsi drasticamente gli 145 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 stipendi” e ridurre il loro numero in quanto casta [ben oltre quattrocentomila unità, portaborse compresi], per poter mantenere ad un certo livello la spesa sociale e rallentare la conseguente de‐emanicipazione di vasti strati di popolazione, pur a fronte di diminuzioni percentuali del prodotto da un anno all’altro. Il punto è che quanto precede fa sostanzialmente parte della “terza via”, quella della Decrescita Forzata interna al capitalismo e suscitata dalle sue rinnovate dinamiche, alla quale stiamo andando incontro ad ampie falcate. Le economie soccombenti seguiranno questa strada, ed in particolare, fra quelle dette sviluppate, l’Italia delle cricche miserabili [appalti, affari e politica minore], delle caste vigliacche [PdL, Pd e altre correnti minoritarie del Partito Unico Sistemico], dei furbetti razziatori [immobiliaristi, banche, politica delle corruttele], poiché questo paese è costretto nella triplice morsa della finanza anglo‐americana affamata di privatizzazioni e infiltrata nell’amministrazione Obama, della concorrenza “emergente” che rappresenta un vero e proprio killeraggio per le attività produttive in loco, ed infine di una suboligarchia politica che ormai è senza alcun pudore, gioca allo scoperto e razzia a man salva forse presentendo la fine, possibile già nel medio periodo. Le scuole senza carta igienica nei bagni e con programmi educativi che tendono drasticamente a ridursi, le manovre per innalzare l’età pensionabile e tagliare le future pensioni, per colpire altresì il pubblico impiego fino a ieri minimamente garantito a differenza dei dipendenti privati, il mancato sostegno ai redditi dei ceti medi che sprofondano, le continue riduzioni percentuali nei consumi interni [anche in quelli alimentari o sanitari] e l’impennata del tasso di disoccupazione [a sud sembrerebbe che uno su quattro non ha lavoro né fondata speranza di trovarlo] sono niente altro che segnali dell’avvento della Decrescita Forzata. Questa ultima non è un rispettabile paradigma alternativo al capitalismo – che si può civilmente criticare o condividere – come la Decrescita di Pallante, o ancor di più quella di Badiale e Bontempelli, ma un concreto processo trasformativo capitalistico in atto, che devasta i rapporti sociali di produzione, comprime i consumi, allontana con spietatezza dall’agognata Merce i subalterni e che forse sortirà lo storico effetto, attraverso la brutalità dell’impoverimento di massa, di tracciare una strada obbligata per l’uscita dal capitalismo così come noi oggi lo conosciamo. Eppure, in tale contesto in cui si riduce la qualità umana necessaria per poter impostare azioni collettive di resistenza al capitalismo, c’è chi pensa che sia possibile procedere ad una sorta di “ricostruzione” comunitaria improvvisata, a partire dalle piccole aggregazioni come il condominio, sostituendo la merce nella forma di circolazione marxiana MDM e di formazione del capitale DMD’ con beni e servizi sociali autoprodotti, togliendo così progressivamente l’acqua al pesce capitalistico. 146 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Scrivono Badiale e Bontempelli in Due vie per la decrescita, prendendo le mosse dal citato saggio di Pallante, che le famiglie potrebbero sostanzialmente “coalizzarsi”, creare una sorta di benefica comunità di condominio o di quartiere che porterebbe gli adulti a lavorare un po’ di meno per occuparsi a turno dei bambini, perché il minor reddito [e il minor PIL conseguente] sarebbe compensato dal minor costo sostenuto, in tal caso quello sopportato per l’asilo nido, e dall’autoproduzione di un servizio specifico di cui tutti possono fruire. Pur trattandosi in linea di principio di buone e condivisibili proposte, si può realisticamente chiedere, in questa realtà, a chi ha già un reddito insufficiente dovendo lavorare per l’intero arco della giornata, di ridurlo ulteriormente, lavorando di meno? La proposta, in questi rapporti di produzione che costringono molti a giostrarsi fra due od anche tre lavori [spesso precari e/o informali] semplicemente per poter sopravvivere, per fare la spesa alimentare, per riuscire a pagare le utenze o per far crescere i figli senza troppe deprivazioni, sembra del tutto irrealizzabile. E i disoccupati, rimasti senza reddito, schiacciati dall’angoscia e da problemi concreti connessi alla perdita del lavoro, costretti non di rado ad indebitarsi con i moderni cravattari e ad accettare lavori saltuari, in nero, senza garanzie, semplicemente per “tirare avanti”, come potrebbero inserirsi in questo discorso? La minoranza che dispone di risorse, e quindi, almeno teoricamente di un po’ più di tempo, essendo in buona parte del tutto interna al sistema e non di rado condividendone le logiche, non ha simili problemi né se li pone e in tale caso si vale di nurse, baby‐sitter e domestici sottopagati. Altrove si legge dei cosiddetti gruppi d’acquisto, che acquistano dal produttore quintali di pomodori per fare la “salsa di condominio” e bypassare grande distribuzione e commercianti esosi, oppure e più in generale del commercio etico e solidale, che sembra aver avuto una qualche minima diffusione e che respinge prodotti ottenuti con lo sfruttamento schiavista‐capitalistico‐globale del lavoro, non di rado femminile e minorile, ma lo stesso senso delle proporzioni fra i fenomeni ci suggerisce che si tratta soltanto di palliativi che non possono risolvere il problema del lavoro schiavo, nel caso specifico del commercio etico, o di mere necessità di risparmio imposte dalla crisi, dalla cattiva qualità dei prodotti “low cost” e dalla sempre più iniqua distribuzione del reddito, come accade nel caso della salsa condominiale autoprodotta. Pur essendo in teoria possibile sostituire progressivamente la merce capitalistica con beni e servizi autoprodotti e utili alle persone, la cosa diventa un miraggio considerati i meccanismi in atto, che imprigionano la maggioranza dei subalterni fino a stritolarla. Le ferree logiche de‐emancipatrici del capitalismo del terzo millennio dominano incontrastate nella società, e impongono ad un numero crescente di persone – 147 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 attraverso la flessibilizzazione di massa, la distruzione/ privatizzazione del sociale, e lo spostamento di risorse dal Lavoro al Capitale – un superlavoro precario e sottopagato. Le stesse logiche, che prevedono la manipolazione antropologica di massa, flessibilizzano culturalmente, precarizzano esistenzialmente ed idiotizzano la popolazione al punto che chi le subisce non riesce più ad immaginare una vera, possibile alternativa alla diffusione della merce capitalistica. Ad altri soggetti, minoritari, ascari del Nemico Principale [la Global class] e comunque favoriti dai meccanismi sistemici in atto, da un lato le risorse non mancano certamente, potendo praticare il “consumo personalizzato e di qualità”, e dall’altro lato esprimono l’adesione incondizionata – per quanto superficiale, egoistica, vile e interessata – al sistema ed ai suoi peculiari stili di vita, fin tanto che questo gli consentirà privilegi, evasione fiscale, alti redditi reali e benefit vari. Tanto per portare un esempio, squisitamente italiano, quella squallida figuretta che è la “ministra” berluscones Mariastella Gelmini, in occasione della sua maternità non ha perso l’occasione per esaltare la continuità di un suo personale “impegno lavorativo”, anche e nonostante tale circostanza, dando la stura alle voci che prospettano per le neomadri lavoratrici una possibilità futura di “sospensione”, in periodo di maternità, con conseguente perdita del reddito. Infatti, per la berluscones di turno sembra che stare a casa dopo il parto costituisce un “privilegio”, non certo un diritto della neomadre, e che anche in tale caso «bisogna accettare di fare sacrifici». Moltissime neomadri non godono dei privilegi, dei redditi alti, dei bonus ingiustificati dei quali gode, assieme a quelli della sua specie, la citata “ministra” berluscones, e non hanno valletti e nurse che si occupano dei figli perché non possono permetterselo, ma questo episodio, pur marginale e vagamente idiota [come spesso lo sono le dichiarazioni della stessa Gelmini, incaricata dell’istruzione] rivela tutta la crudeltà sociale dei parassiti subdominanti politici sistemici, mostrandoci qual è oggi il vero volto della liberaldemocrazia. In passato, un politico minore e cialtrone dell’attuale maggioranza liberaldemocratico‐italiota, tale Gianfranco Rotondi, comodamente insediato al vertice del ministero per l’Attuazione del programma di governo [esiste veramente, non è una battuta …], aveva paventato la soppressione della pausa pranzo per i lavoratori, giudicandola dall’alto dei suoi privilegi «un danno per il lavoro, ma anche per l’armonia della giornata»! La logica che si staglia sullo sfondo – anche se la Gelmini e Rotondi, con tutta probabilità, non ne sono pienamente consapevoli – è sempre quella della compressione dei costi di produzione e sociali, combinata con il “just in time” industriale, la qual cosa significa che in futuro si pagherà, poco e male, esclusivamente il tempo di lavoro. 148 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ancor peggio: la “visione” del ruolo della politica e del suo rapporto con la società espressa da simili soggetti esternanti, ben si combina con il “mezzanino” romano di Scajola, i trans e la droga di Marrazzo [in tal caso non berluscones ma targato centro‐sinistra] o gli esiti del processo al “ministro del nulla” Brancher. Non è certo da questi miserandi subdominanti politici, siano legati al carro berlusconiano oppure all’amebico cartello elettorale pidiino, che ci si può aspettare un’adesione improvvisa e sincera alle logiche descriscite, nonché l’introduzione di conseguenti politiche volte a garantire concretamente i servizi sociali e le opere pubbliche fuori del circuito capitalistico. La cosa peggiore è che una parte significativa della cosiddetta opinione pubblica – una geniale invenzione liberale per far credere ai subalterni di avere qualche peso nelle decisioni politico‐strategiche che li riguardano – effettivamente pensa che se il PIL diminuisce, o si riduce la sua crescita, la spesa sociale deve essere di conseguenza ridotta, accettando supinamente che si mettano in discussione le risorse dedicate all’istruzione pubblica, cruciali per il futuro della società, e finanche l’assistenza alle puerpere o ai veri invalidi. Con tutta evidenza e con comprensibile sconforto, si tratta di qualcosa di molto simile al “mistero della fede” medioevale, al dogma religioso che si deve accettare acriticamente introitandolo, e rappresenta niente altro che un effetto rilevante di quel processo che lo scrivente chiama “flessibilizzazione delle masse” [in Nuovi signori e nuovi sudditi, Preve‐Orso] e che il filosofo Costanzo Preve definisce brillantemente “idiotismo socialmente organizzato”. Il pur apprezzabile elogio di Pallante delle famiglie in cui coesistono e vicendevolmente collaborano tre generazioni, con i nonni che si fanno carico dei bambini, partecipano alla loro educazione e garantiscono ai più piccoli un rapporto interpersonale esclusivo, più che rappresentare in tali contesti una possibile resistenza alla mercificazione di tutto [realizzata attraverso l’autoproduzione di un servizio non capitalistico] e un piccolo “grimaldello” per scardinare progressivamente, in modo rivoluzionario, l’ordine imposto dal Capitale Ultimo, ricorda fin troppo quelle “reti amicali e familiari”, chiamate pelosamente in causa dal macellaio sociale e ministro berluscones incaricato del Welfare, Maurizio Sacconi, nel libro verde/ bianco del suo ministero al solo scopo di falcidiare il welfare stesso e trasferirne le spese sulle spalle dei soliti privati. Che la distribuzione di risorse scarse – se tali non fossero, si vivrebbe del tutto immersi in una sorta di Eden biblico o in una gigantesca Disneyland planetaria – è prima di ogni altra cosa una decisione di natura politica dovrebbe essere ben noto a chiunque, ma la scarsità di risorse, misurata canonicamente dai decrementi o dai minori incrementi del PIL, viene oggi propagandisticamente utilizzata per giustificare ingenti trasferimenti di ricchezza dal Lavoro al Capitale, dall’economia “reale” alla finanza, dalla società alle élite. 149 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Inoltre e per soprammercato, l’atomizzazione sociale, spinta verso le estreme conseguenze senza incontrare ostacoli, favorisce soltanto la competizione più esasperata fra le persone e non la coesione, ha l’effetto di isolare sempre di più i soggetti e rende difficoltosa una simile collaborazione di natura comunitaria. L’alternativa sistemica prospettata da Serge Latouche ed in Italia da Maurizio Pallante, è pensata con tutta evidenza nel solco dell’alternativa maussiana del “Dono” [Essai sur le don, del lontano 1925, del grande antropologo e sociologo francese Marcel Mauss] in piena contrapposizione alla mercificazione capitalistica dei rapporti sociali, e costituisce una rispettabile alternativa all’individualismo utilitaristico di matrice liberale, concepita con lo sguardo rivolto ad un passato precapitalistico e premoderno. Questa alternativa richiederebbe, per essere pienamente operante, una forte coscienza sociale [per intendersi, almeno simile alla coscienza di classe che animava i proletari nel precedente ordine], l’affermazione di una diversa cultura e di solidarietà diffuse fra i subalterni, e cioè la presenza nella compagine sociale di elementi che oggi drammaticamente mancano, come tutti possono facilmente constatare fin nel loro quotidiano. In Latouche e in Pallante vi sono indubbiamente gli echi delle economie precapitalistiche – indagate da Marcel Mauss – quelle civiltà anteriori definite nel nostro mondo culturale, con un’ingiustificata ombra di disprezzo, arcaiche o addirittura primitive, e vi è, quindi, la velata intenzione di riferirsi a certi loro meccanismi di funzionamento – del tutto estranei alle attuali logiche mercificanti dei rapporti sociali – che sicuramente hanno un’origine premoderna [dal Potlach degli indiani nordamericani alle civiltà della Polinesia e della Melanesia], consentendo di rimodellare le reti di relazioni sociali al di fuori di quella che è la sostanza del rapporto di produzione capitalistico. Del resto, se la cosiddetta Modernità così come ci viene venduta, altro non è che un sapiente mascheramento dell’autofondazione dell’economia capitalistica su se stessa [Costanzo Preve] – e quindi una sorta di involucro all’interno del quale si celano, nell’essenziale, lo scambio mercantile, l’estrazione del plusvalore e la creazione del valore finanziario – una via per superarla, almeno su un piano teorico, potrebbe essere rappresentata da un “ritorno al passato” al fine di ricostruire il futuro su ben altre basi, come emerge dall’interpretazione di un certo paradigma decriscista. Si leggano i seguenti giudizi di Marcel Mauss, relativi alla società capitalistica [nella fattispecie, d’inizio novecento] in rapporto alla supposta persistenza dello spirito del dono: «Une partie considérable de notre morale et de notre vie elle‐même stationne toujours dans cette même atmosphère du don, de lʹobligation et de la liberté mêlés. Heureusement, tout nʹest pas encore classé exclusivement en termes dʹachat et de vente. Les 150 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 choses ont encore une valeur de sentiment en plus de leur valeur vénale, si tant est quʹil y ait des valeurs qui soient seulement de ce genre.» Tutto non è ancora perduto, sembrava affermare negli anni venti del Novecento il grande studioso francese, perché non tutto è ancora mercificato, meramente riducibile nei termini di acquisti e vendite delle merci capitalistiche, permanendo nella vita umana il dono [il dare o il ricevere], l’obbligazione a restituire e la libertà nel farlo [il rendere]. Anche l’autorevole Serge Latouche ha affermato che una parte importante della nostra morale e della nostra vita risiede nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e della libertà, evocata a suo tempo da Mauss, pur andando oltre il nostalgismo dell’autore di Essai sur le don, e giungendo a definire il dono come un principio attivo sempre vivente nella realtà occidentale. Ebbene, nonostante le fiducie di Pallante e dei decriscisti “felici” che distinguono diligentemente fra il bene, oggetto del dono, e la merce scambiata contro denaro, fra l’occupazione capitalistica e il più nobilitante lavoro – fiducie alle quali non sono certo estranee le parole di Mauss qui riportate e tanto più la visione latoucheana –, si osserva come il capitalismo del terzo millennio ha quasi completamente azzerato questi spazi residui, più consistenti nell’altro secolo ed in quello precedente, e il rapporto sociale capitalistico è penetrato in ogni dove, tanto che possiamo tristemente affermare, con i versi già datati del cantautore Gianfranco Manfredi, «Ma è la merce che ci è entrata nei polmoni/ e ci dà il suo ritmo di respirazione/ il lavoro non ci rende mica buoni/ ci fa cose che poi chiamano “persone”» [Dagli Appennini alle bande, in Zombie di tutto il mondo unitevi del 1977]. La mercificazione dei rapporti sociali, che si accompagna alla sussunzione al Capitale dell’intero tempo di vita dell’uomo e di ogni spazio non economico, sembra che stia per raggiungere il punto di non ritorno, in un ordine che può essere efficacemente scosso soltanto da un violento choc, congiuntamente provocato dalla lunga crisi globale, che tende a diventare un assetto capitalistico, e dai processi di de‐emancipazione/ distruzione del welfare in atto. Diversamente da Pallante, Badiale e Bontempelli pensano ad una più “moderna” e originale attuazione del dono, almeno in apparenza molto più legata alle contingenze ed alle situazioni sociali in cui tutti viviamo, e credono possibile, in questa realtà, individuare spazi che diremo “neocomunitari”, vere e proprie zone franche esterne alla mercificazione capitalistica, per avviare autoproduzioni alternative di beni e di servizi, compresi quelli sociali. Una domanda di cruciale importanza a questo punto, però, dovrebbe essere posta: si può nel concreto sviluppare, in forme classiche “maussiane” od anche e soprattutto in forme nuove, la reciprocità del dono, nell’autoproduzione invocata sia da Pallante sia da Badiale e Bontempelli con il proposito di sostituire la merce 151 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 capitalistica, se gli individui sono isolati, flessibilizzati e deprivati persino dei necessari e più elementari legami solidaristici? Al buon senso di chi legge la risposta. Inoltre, rimane insoluta la questione se nella natura del sapiens‐sapiens vi fossero fin dalla notte dei tempi i germi del commercio “sulle lunghe distanze”, che sulla base di una certa interpretazione, dopo unʹevoluzione plurimillenaria hanno contribuito all’inevitabile affermazione del capitalismo – la quale sarebbe dunque avvenuta in pieno accordo con la natura umana –, o se all’opposto dominavano quelli del dono ritualizzato che hanno caratterizzato molte società arcaiche, e in tale caso il capitalismo costituirebbe una sorta di devianza resa possibile, ad un certo momento della storia, dal famigerato “sviluppo delle forze produttive”. Tornando alla “terza via” per la decrescita e volendo essere un po’ ironici – con lo scopo di allentare la tensione, non mancando di avvertire che da qualche tempo si vive forzatamente in decrescita – notiamo che i segnali ci sono già praticamente tutti: è recente la notizia che la crisi “morde” alle terga anche il business delle vacanze e che il quarantasei per cento degli italiani, presumibilmente in ambasce e forzatamente in decrescita, resterà a casa per la stagione estiva, se possiamo fidarci dei dati diffusi dalla Federalberghi. Fuor di battuta, la riduzione dei consumi di massa che è già da tempo palpabile, in Italia come in molta parte dell’Europa, per ora non sembra portare ad una “presa di coscienza” generale della vera natura di questo sistema e degli effetti devastanti che potrà comportare la prosecuzione imperterrita delle sue dinamiche. Altra osservazione importante è che lo slogan decrescista di Maurizio Pallante, “meno Stato e meno Mercato”, si combina con la considerazione che il Welfare State nasce all’interno del capitalismo, è un suo prodotto e come tale andrebbe superato assieme al PIL e al paradigma della crescita capitalistica illimitata. E’ vero che la stessa visione socialdemocratica è nata all’interno capitalismo, come sostiene Pallante, e perciò non può che legare lo slogan che la caratterizza – “più Stato e meno Mercato” – alla crescita ininterrotta del PIL onde disporre di maggiori risorse da dedicare al sociale, per una falsa emancipazione di massa inserita nelle logiche del capitale, ma interrompere o diminuire nel concreto questa erogazione di risorse, a fronte di una riduzione delle entrate fiscali e/o attraverso controriforme de‐emancipatrici esattamente come sta accadendo oggi, non può che sconvolgere il tessuto sociale, provocare sofferenze crescenti fra i subalterni – che per lo scrivente hanno un “diritto naturale” al reddito e all’assistenza, anche se non occupati! – e innescare conflittualità esasperate, finanche sanguinose. Applicare lo slogan decriscista‐pallantiano “meno Stato e meno Mercato” in assenza di un pieno superamento sistemico e dell’affermarsi di una nuova prospettiva storica, equivale a buttare a mare immediatamente i nuovi e vecchi poveri, gli “incapienti”, i malati, i disoccupati cronici, i vecchi con pensioni che 152 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 approssimano i seicento euro mensili, le famiglie numerose a basso reddito, e molti altri ancora, tanto che si può ironicamente affermare che almeno i liberisti “più moderati” ipotizzano, in sostituzione del welfare, il più limitato, meno costoso e temporaneo workfare di matrice anglosassone, mentre Pallante propone soluzioni ben più spicce e radicali … Come si è constatato in precedenza, anche la soluzione proposta da Badiale e Bontempelli, nell’esempio dell’autoproduzione collettiva dei servizi sostitutivi dell’asilo a pagamento quale forma di welfare alternativo extrasistemico, non regge davanti a questa realtà sociale, caratterizzata da atomizzazione, competizione reciproca e distruzione dei vincoli solidaristici, sostanzialmente perché prima vi dovrebbe essere, in termini generali, una complessiva e lunga opera di ricostruzione dei legami comunitari fuori dei contesti della “società di mercato” dominante. L’unica cosa che sembra concretamente in atto e drammaticamente possibile – come si può facilmente constatare ogni giorno, semplicemente guardandosi intorno, a meno che non si faccia parte dell’area del privilegio “politico” subdominante, o ancor peggio, del mondo elitistico‐globalista – è proprio la Decrescita Forzata pauperizzante e de‐emancipatrice, che si accompagna ad una crescente Infelicità, intesa come distruzione progressiva delle future aspettative di miglioramento per larga parte della popolazione. Si può interamente concordare su un punto, con Badiale e Bontempelli, e cioè che la cosiddetta religione della crescita, la quale fa il paio con l’ideologia del progresso e giustifica la “tirannia del PIL”, è del tutto interna al rapporto sociale capitalistico e non può essere superata se non si supera questo ultimo. Non si può sperare, allo stato attuale delle cose, in una diffusione capillare di paradigmi alternativi – quale è o dovrebbe essere quello decriscista – all’interno della società di mercato capitalistica se non si verifica una precipitazione verticale della situazione, un peggioramento continuo, rapido ed evidente delle condizioni di vita della maggioranza, il che riporta all’azione devastante, sul piano sociale e su quello della tenuta istituzionale, della Decrescita Forzata, che questa volta potrà non risolversi in una “distruzione creatice” di tipo schumpeteriano, con ulteriori metamorfosi atte a far emergere gli individui “più immaginativi” e a rinnovare i rapporti sociali in senso capitalistico, ma potrà forse aprire la strada al nuovo, mostrando finalmente la via d’uscita, e questo proprio dall’interno del sistema capitalistico, nella sostanza dei suoi specifici rapporti sociali di produzione. Fatte queste debite considerazioni, preciso [se mai fosse ancora necessario] che la Decrescita Forzata e Infelice rappresenta un percorso irto di ostacoli, gravido di sofferenze nel corpo sociale e di rovine visibili ed invisibili nella società, il cui approdo resta comunque incerto, potendo condurci fino all’estremo limite del 153 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 disastro finale, di un arretramento generale delle condizioni di vita, della dissoluzione completa delle istituzioni reificate e dell’ordinamento vigente. Esiste tuttavia la possibilità che una simile situazione favorisca il moltiplicarsi dei “risvegli”, nella parte ancora sana e non completamente obnubilata/ idiotizzata della cosiddetta opinione pubblica, e la generale presa di coscienza che il progresso capitalistico, così come concretamente oggi si configura, altro non è se non un vicolo cieco, al termine del quale si può già osservare una grande fossa comune, che inghiottirà democraticamente ex borghesi ed ex proletari, ex ceti medi ed operai, disoccupati e sotto‐occupati, precari e parasubordinati, formalmente e concretamente sacrificati per un improbabile “recupero del PIL”, in osservanza del rispetto dei parametri di Maastricht o delle direttive del FMI quale frutto avvelenato di un’unica logica, quella finanziario‐globalista. Questa sorta di grande viaggio collettivo “al termine della notte” sarà tormentato e denso di incognite, e i momenti di speranza si alterneranno alla rabbia e alla disperazione. Nessuno può escludere che l’approdo di lungo o lunghissimo periodo, dopo l’azione devastante della Decrescita Forzata e l’insorgere di drammi individuali e collettivi, sia la Decrescita di cui parlano con convinzione e buona fede i nostri teorici alternativi – Pallante, Badiale, Bontempelli – ma non si può neppure escludere che prima di giungere ad un simile, ipotetico cambiamento culturale e di immaginario, ad una piena ricostruzione della rete di rapporti sociali non più fondata sull’inganno del valore di scambio e della creazione finanziario/ crematistica del valore – che potrebbe ben richiedere tempi più che storici –, si renderà necessario instaurare una dura, ma inevitabile, centralizzazione rivoluzionaria del potere di stampo quasi “polpotiano”, nell’urgenza di impedire l’avvento di un “medio evo senza fine” e di laceranti conflittualità tribalistico‐ endemiche, prodotto dell’impoverimento generalizzato, dell’imperante caos politico e sociale, della disgregazione delle istituzioni statuali e della stessa società. Quello che né Maurizio Pallante e i decriscisti convivial‐felici né Badiale e Bontempelli, decriscisti più problematici e dubbiosi, hanno finora debitamente evidenziato è che nessuna rivoluzione, pacifica o combattuta, può avere luogo se non si individua esattamente il Nemico da combattere, nella sua veste sociale, politica e culturale, se non si penetra il “nucleo sistemico” spaccandolo, se non si sviluppa, accanto alla necessaria ideologia di legittimazione rivoluzionaria, una vera e propria coscienza di classe diffusa fra i subalterni che subiscono il potere, e se non si forma un’avanguardia determinata e coesa che si pone alla loro guida. Nessuna Rivoluzione degna di questo nome è possibile se non maturano le condizioni storiche, culturali e sociali che la rendono una via praticabile di cambiamento epocale, e un grande moto collettivo vittorioso. 154 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Perciò una Vera Decrescita esterna alle dinamiche ed alle trasformazioni capitalistiche – qualunque veste teorica gli si vuole dare ed anche come la intendono i citati intellettuali – può forse rappresentare una prospettiva storica che richiederà tempi lunghi, o meglio, lunghissimi e ultrasecolari per concretarsi stabilmente in nuove reti di rapporti sociali ed economici, riuscendo a rinnovare le società umane dalle fondamenta, mentre la Decrescita Forzata e Infelice, prodotto “naturale” ed esito sociale del Capitalismo Transgenetico Finanziarizzato del terzo millennio, è già pienamente operante in questo primo scorcio di secolo e fa sentire i suoi morsi ai subalterni, ai vecchi e nuovi poveri, alle soggettività della nascente ed estesa Pauper class capitalistica. 155 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il programma decriscista latoucheano delle otto erre La nona erre: Rienergizzare L’attuale programma decriscista si può sintetizzare nel cosiddetto programma delle otto erre di Serge Latouche, che a detta dello stesso economista, filosofo ed antropologo francese non è un vero programma politico immediatamente operativo – lo scrivente ha avuto modo di ascoltare in un paio di conferenze il padre del decriscismo, che spiegava il significato delle otto erre premettendo di non essere un politico, e se ne è reso perfettamente conto – ma rappresenta principalmente una serie di pratiche necessarie, le quali per avere successo e produrre effetti positivi dovranno essere largamente condivise, onde tracciare la via per una decrescita conviviale e pacifica. La scommessa della decrescita che si accompagna alle otto erre, è frutto dell’articolata riflessione di Latouche ispirata dalla lezione di maestri come Illich e Gorz, ed ha, per stessa ammissione dell’intellettuale francese, la forza positiva e concreta dell’utopia per una decolonizzazione gli immaginari invasi dal mito del progresso, che si sostanzia nella crescita illimitata capitalistica, nonché per la costruzione di un’altra società possibile. Ma la società della vera decrescita è di là a venire ed oggi i suoi lineamenti sono ancora incerti, vaghi, indefiniti. Con le parole dello squisito professore francese: Il progetto di costruire una società della decrescita dunque è unʹutopia, unʹutopia nel senso concreto e positivo della parola che è un altro mondo possibile. Ho proposto di realizzare questo progetto attraverso uno schema delle otto ʺRʺ: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Ogni volta che faccio una conferenza cʹé qualcuno nella sala che mi dice: ʺLei ha dimenticato una R molto importante, si deve anche reinventare la democraziaʺ. Un altro mi dice: ʺSi deve ri‐ cittadinareʺ. Il concorso è aperto, si possono aggiungere molte altre R. [Intervento di Serge Latouche nel seminario sulla decrescita organizzato giovedì 4 ottobre 2007 dalla commissione cultura della Camera dei deputati] Ci si deve porre una domanda, innanzitutto: è questo un programma che potrà esse realizzato, ed è un’utopia destinata ad avere effetti concreti, ed in caso di risposta positiva, con quali tempi? Lo voglia il cielo, naturalmente, poiché la realizzazione di questo programma risparmierebbe una lunga serie di [prevedibili] lutti ed orrori all’umanità, ma, purtroppo, c’è da temere fondatamente che se così sarà, la cosa richiederà tempi molto lunghi, tempi storici che molti fra coloro che vivono oggi non vedranno. La realizzazione di un simile e straordinariamente ambizioso programma, pur nella sua apparente semplicità, implica un cambiamento culturale e di prospettiva che sembra essere ancora in una fase pre‐embrionale, nel mentre la situazione può 156 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 precipitare da un momento all’altro, dal punto di vista ambientale come da quello sociale e politico. Sul fatto, poi, che si deve reinventare la democrazia superando l’inganno liberaldemocratico, non si può che essere completamente d’accordo, poiché la liberaldemocrazia fondata sull’istituto della rappresentanza altro non è se non il miglior compendio politico del capitalismo finanziarizzato globale contemporaneo, e quindi un supporto al suo distruttivo sviluppismo, ma andrebbe chiarito molto bene che questa reinvenzione non può avvenire se non nel quadro di un radicale cambiamento, prima di tutto culturale e negli immaginari delle persone, che Serge Latouche ha cercato di sintetizzare con semplicità nelle otto erre, porgendoci alcune, ancora insufficienti indicazioni di larga massima, che però potrebbero già avere qualche riflesso concreto. Su ciascuna delle singole erre si può ovviamente discutere. Ci si può chiedere, ad esempio, fino a che punto sarà possibile rilocalizzare e quali saranno i costi umani, sociali ed ambientali della rilocalizzazione, e soprattutto se, una volta “rotte le uova” lasciando che il capitale dilaghi liberamente in ogni parte del mondo [come il tuorlo, fuori del guscio, che si espande con l’albume sul fondo del pentolino], si potrà tornare a loro, riattivando tutte le produzioni locali necessarie alle comunità, poiché la delocalizzazione capitalistica ha sottratto non soltanto posti di lavoro e impianti, ma anche know‐how e saperi, ed ha riversato nei paesi “beneficiari” dell’ex terzo mondo sfruttamento intensivo del lavoro, inquinamento delle acque e del suolo, provocando la distruzione, che pare in molti casi irreversibile, delle tradizionali forme di sussistenza. Lo stesso professore francese ha precisato che il suo programma è aperto ad ulteriori implementazioni, con le erre che potrebbero diventare dieci od anche di più, ed ha confessato che non essendo lui un politico, quello delle otto erre non è un vero programma politico, immediatamente applicabile sul terreno dell’economia e nella complessità dei rapporti sociali dell’epoca. Leggendo queste pagine, si dirà che chi scrive è certo un po’ critico, ma anche particolarmente “tenero” nei confronti dei decriscisti, animati dall’idealismo e da slogan non ancora tradotti in concreti programmi, ma è certo che si tratta di sinceri anticapitalisti – a partire dal principale teorico, Serge Latouche, e dal suo “interprete” italiano, Maurizio Pallante – i quali cercano di fondare la loro rivoluzione sulla conservazione dell’ambiente e su dimensioni non economico‐ crematistiche dell’esistenza e del progresso. Inoltre, chi scrive condivide in linea di principio l’antisviluppismo decriscista, poiché si tratta di una giusta reazione all’illimitatezza capitalistica che tutto fagocita in sé, creando un valore fittizio a beneficio temporaneo di pochi con danni permanenti cagionati all’uomo, alla stessa specie umana in quanto tale, e all’ambiente naturale dal quale non si può prescindere. 157 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 I decriscisti devono però comprendere, bene e in fretta, che i nuovi agenti storici del capitalismo riuniti nella Global class non si faranno da parte volontariamente, per pura liberalità ed una ritrovata coscienza ecologica e sociale, rinunciando al comando e ai loro smisurati privilegi senza colpo ferire, ma dovranno essere estromessi, se necessario, “con le cattive”, e ciò potrebbe implicare l’inizio di una lotta asimmetrica lunga e dura, senza che si possa escludere a priori l’uso delle armi. La Decrescita – quella vera, naturalmente, non quella forzata tratteggiata nel capitolo precedente ed interna alla dinamiche capitalistiche – se avrà qualche possibilità di affermarsi, potrà diventare una tappa rivoluzionaria e trasformativa nel lungo percorso emancipativo di liberazione umana, ed in effetti così pare che sia, implicando l’uscita dal capitalismo attraverso la demolizione del mito del progresso, tradotto nello sviluppo illimitato e concretamente in distruzione ambientale e diffusione dell’iniquità sociale. Ma un vero programma politico che si armonizza con lo spirito decriscista non potrà che avere origine dalla prassi e dallo sviluppo di ipotetiche lotte future anticapitalistiche [cruente o non cruente] per la decrescita e per la produzione di beni, utili alle comunità umane e destinati a sostituire progressivamente le merci capitalistiche. La positività del superamento del concetto di “merce capitalistica” è evidente per chiunque, poiché il dominio della merce è stabilito in primo luogo per garantire la riproduzione sistemica e la stessa sopravvivenza del capitalismo nei secoli a venire, in secondo luogo per favorire l’estensione del potere e del benessere materiale di una parte sempre più minoritaria dell’umanità, cioè degli agenti capitalistici oggi riuniti nella classe globale. Di seguito si presenta il programma latoucheano delle otto erre, in una espressiva ma sintetica proposta di Osvaldo Pieroni al Forum delle ONG di Rio, tratto dal sito La Decrescita [http://www.decrescita.it/joomla/]. Rivalutare. Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. Questa rivalutazione deve poter superare l’immaginario in cui viviamo, i cui valori sono sistemici, sono cioè suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Ricontestualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne completamente il senso. Questo 158 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 cambiamento si impone, ad esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza, la “diabolica coppia” fondatrice dell’immaginario economico. L’economia attuale, infatti, trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione. Ristrutturare. Adattare in funzione del cambiamento dei valori le strutture economico‐ produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato. Rilocalizzare. Consumare essenzialmente prodotti locali, prodotti da aziende sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale, per bisogni locali. Inoltre, se le idee devono ignorare le frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo, evitando i costi legati ai trasporti (infrastrutture, ma anche inquinamento, effetto serra e cambiamento climatico). Ridistribuire. Garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti. Predare meno piuttosto che “dare di più”. Ridurre. Sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta. La potenza energetica necessaria ad un tenore di vita decoroso (riscaldamento, igiene personale, illuminazione, trasporti, produzione dei beni materiali fondamentali) equivale circa a quella richiesta da un piccolo radiatore acceso di continuo (1 kw). Oggi il Nord America consuma dodici volte tanto, l’Europa occidentale cinque, mentre un terzo dell’umanità resta ben sotto questa soglia. Questo consumo eccessivo va ridotto per assicurare a tutti condizioni di vita eque e dignitose. Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”. Riciclare. Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività. Sembra evidente che la riconcettualizzazione e la rivalorizzazione si riveleranno cruciali e renderanno possibile lo sviluppo del resto del programma, poiché il cambiamento culturale e generazionale è la condizione sine qua non per una ristrutturazione complessiva della società, per la ridistribuzione della ricchezza in 159 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 uno spirito di equità, per la rilocalizzazione delle produzioni, per la riduzione dell’impronta antropica sul pianeta, per la stessa riutilizzazione diffusa dei materiali ed il riciclo degli scarti. Una erre che si potrebbe aggiungere, dopo il grave incidente nucleare giapponese, è “Rivendere il modello energetico” o “Rienergizzare” il sistema con l’uso di nuove fonti non pericolose, che implicherebbe, se fosse veramente possibile farlo [ma non lo è di certo nelle logiche di questo capitalismo], un epocale spostamento di risorse a tale scopo, una riduzione benefica dei consumi planetari ed una riduzione dei tassi di sviluppo capitalistico, dal PIL mondiale al tasso di profitto. L’avvento del nucleare ha rappresentato un momento di rottura storico nella storia dell’umanità, ed anche se alimenta le produzioni civili di beni di consumo rappresenta pur sempre un’arma capitalistico‐elitista, anzi, l’arma capitalistica più inquietante e decisiva. Impiegata una sola volta nei conflitti strategico‐elitistici – le atomiche su Hiroshima e Nagasaky –, utilizzata come minaccia immanente durante l’equilibrio del terrore russo‐americano, è tuttora impiegata nel conflitto verticale con i subalterni, cioè nella lotta di classe, sia pur in modo indiretto per garantire la sopravvivenza del sistema e l’estensione illimitata della produzione di merci. Ma questa, a differenza della flessibilizzazione di massa, della precarizzazione del lavoro, della diffusione della stupidità sociale e della creazione finanziaria del valore, è un’arma assoluta e a doppio taglio, che in ogni momento può sfuggire al controllo, rivelandoci sostanzialmente due cose: 1) La fallacia dell’idea del progresso tecnoeconomico illimitato e le menzogne diffuse a riguardo delle cosiddette tecnologie “sicure”, con il pieno concorso di una scienza compiacente, soprattutto nel caso specifico delle tecnologie nucleari. L’insicurezza permane ed investe anche le tecnologie di quarta o di quinta generazione, che si vendono come sicure non essendo più quelle delle vecchi centrali nucleari giapponesi in agonia. La Pauper class, in quanto classe subalterna che subisce questo stato di cose, sembra non possedere ancora la forza per ribellarsi al dominio capitalistico, neutralizzandolo insieme alla minaccia rappresentata dal nucleare. L’atomo invece può “rivoltarsi” in qualsiasi istante, azzerando i contatori della crescita e spegnendo ad una ad una le luci di un mondo artificiale. 2) Una drammatica e concreta “democraticità” dell’arma nucleare elitistica – che resta unʹarma anche quando serve, in apparenza, le produzioni a scopi civili dell’energia – poiché non fa distinzione fra le classi sociali umane e fra le stesse, differenti forme di vita che popolano la terra, colpendo allo stesso modo chi la subisce e chi la utilizza per scopi di dominio. 160 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il semplice ridurre i volumi di produzione complessivi, il riciclaggio degli scarti, lo stesso contenimento dei consumi ed i parziali risanamenti dell’ambiente, non potranno eliminare il pericolo incombente, se non si agirà sul modello energetico, dandogli una priorità assoluta e rivedendolo in modo radicale. Nel nuovo modo di produzione sociale vigente, in questo caotico e tormentato inizio del terzo millennio, la nona erre di “Rienergizzare”, con riferimento all’intero modello di sviluppo capitalistico che ci è stato imposto, tende, perciò, a diventare prioritaria su ogni altra cosa, su ogni altra possibile riforma pensata all’interno del sistema stesso, ed anche al di fuori di questo, su tutte le altre erre del programma di Serge Latouche che seguono la riconcettualizzazione e la rivalorizzazione. Fukushima è destinata a diventare un simbolo, e uno spartiacque, come è accaduto con Hiroshima? Gli interessi della lobby delle tecnologie nucleari prevarranno su ogni altra considerazione, oppure saranno sconfitti? O ancora, ci sarà un ritorno al carbone che non è certo un toccasana per l’ambiente? Comunque sia, quello che è certo fin d’ora è che “Rienergizzare” il sistema, od anche rivedere da cima a fondo il modello energetico, quale nuova, possibile erre del programma latoucheano da porre in assoluta evidenza, non rappresenta soltanto un buon consiglio dato agli amici ed ai compagni decriscisti, ma soprattutto un’urgenza assoluta e una necessità per tutti, non escluso il nostro vero Nemico, cioè i membri della classe globale dominante. Giunti a questo punto, ma senza alcuna pretesa di aver esaurito, con quanto è stato fin qui scritto ed analizzato, il complesso discorso relativo alla Decrescita e al doposviluppo, si possono già trarre alcune conclusioni di ordine generale. E’ bene precisare, innanzitutto, che il contenuto rivoluzionario anticapitalistico delle idee di Latouche non può risiedere in alcun modo nella pacifità e nella convivialità fra gli uomini, che non sono possibili in questa situazione di affermazione totalitaria del capitalismo e di forti squilibri sociali, ma lo sono esclusivamente nel superamento concettuale e pratico della Merce e del Libero Mercato, per ottenere i quali sarà legittimo ricorrere alla centralizzazione rivoluzionaria ed anche a forme di lotta non incruente, riabilitando il concetto di “Dittatura come stato d’eccezione”, nato con la Roma repubblicana e ripreso dai giacobini, per poter gestire il passaggio dalla cosiddetta società di mercato ad un nuovo mondo implicitamente “decriscista”, ma soprattutto solidaristico e comunistico‐comunitario. E’ altrettanto evidente che per arrivare ad un completo superamento della Merce e del Mercato capitalistici seguendo una via più morbida, non rivoluzionaria e non 161 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 cruenta, se mai si arriverà, ci vorrà tempo, molto tempo, un tempo che probabilmente – ahinoi, è proprio il caso di dirlo – non abbiamo più. La conseguenza è che il pieno dispiegarsi della visione decriscista‐latucheana e dei programmi che la animano non potrà che avvenire nel lungo periodo – se mai avverrà, come tutti noi dobbiamo comunque augurarci – sia che si affermi la via trasformativa rivoluzionaria, attraverso la lotta cosciente dei subordinati e dei popoli, sia che il mondo imbocchi la via, sicuramente più pacifica, di una lenta trasformazione culturale ed economica, per il completo superamento delle logiche capitalistiche distruttrici, merce capitalistica e imposizione del nucleare ivi comprese. 162 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Non esistono profughi economici Articolo del 10/04/2011 L’evento che fa notizia in Italia, da un paio di giorni, è quello delle dimissioni di Cesare Geronzi, da un anno ai vertici di Generali dopo la militanza in Mediobanca, e da tempo un VIP del potere finanziario locale. Rimane però al suo posto, in qualità di vicepresidente delle Generali, il finanziare‐ imprenditore bretone con origini “televisive” Vincent Bolloré, uno dei simboli della penetrazione transalpina nella penisola e della colonizzazione francese dell’Italia. Il brillante Bolloré, il suo ammiratore‐consulente e nipote di Buorguiba Tarak Ben Ammar, Lactalis [alimentare], BNP Paribas [banche], Lvmh [moda e non solo moda], e via di seguito, sono altrettanti attori di questa colonizzazione, che non pare destinata a fermarsi nonostante la recente levata di scudi italiana [Tremonti] a difesa di Parmalat, minacciata da Lactalis. Con l’uscita di scena di Geronzi, dimissionario in seguito ad una mozione di sfiducia, lo stesso scompare anche dai patti di sindacato, perché le partecipazioni della primaria compagnia assicurativa sono regolate da tali patti, e la lista è significativa, strategica, per gli assetti del potere economico‐finanziario nella penisola, comprendendo RCS, Mediobanca, Pirelli, Gemina, Telecom. L’esclusione di Geronzi innescherà qualche “effetto domino”? Peggiorerà o migliorerà la situazione finanziaria ed economica nazionale? Domande che resteranno senza una sicura risposta, almeno per un po’, ma ci sono altri fatti, oltre a questa vicenda molto “gettonata” dai media, che dovrebbero suscitare interesse ed indurre ad una seria riflessione, che supera i confini italiani e le “miserie” economico‐finanziarie nazionali. Pur essendo rilevanti e di una certa portata nella crisi italiana le dimissioni di Geronzi, non è questa la notizia che ha attirato la mia attenzione, perché l’evento che più mi ha colpito, per il suo contenuto drammatico e per il suo valore simbolico, non riguarda le strategie, le tattiche e le trame ordite nel mondo finanziario, i patti di sindacato, le cariche, l’avvicendarsi di VIP ai vertici e la loro ascesa e caduta, in quel basso impero da colonizzare che è oggi l’Italia, ma riguarda degli sconosciuti, che non sono neppure italiani, dei poveri migranti che troppo spesso si abbandonano alla completa balia delle onde del mare e delle correnti della storia. Il numero di vittime del rovesciamento di un barcone di “clandestini”, durante le operazioni di soccorso al largo delle isole Pelagie, può essere superiore alle trecento, visto che il barcone era stracarico [fino a 350 o 370 a bordo, secondo alcune fonti] e i superstiti dovrebbero essere poco più di una cinquantina, ma questo non è che un caso fra i tanti casi simili, già verificatisi e che sicuramente si verificheranno in futuro. 163 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 In questa tragica circostanza, sono state le profondità marine ad accogliere gli anonimi corpi di coloro che fuggono dalla guerra, ma in altri casi potrebbe essere il deserto africano a nasconderli, oppure, se giunti a destinazione e morti improvvisamente sul lavoro, in nero e senza alcuna garanzia, qualche terreno agricolo o le fondazioni di un edificio in costruzione. L’ipocrisia leghista a sfondo elettoralistico, frutto della miopia e dell’ostilità nei confronti dei più deboli, in primo luogo nei confronti di tutti i migranti ed in particolare dei non‐bianchi, se si affermasse completamente imporrebbe la ferrea e strumentale distinzione fra profughi provenienti da teatri di guerra, che dovrebbero essere accolti temporaneamente “per ragioni umanitarie”, seppur a malincuore, ed i cosiddetti profughi economici, che non rischierebbero la vita e che dovrebbero essere perciò respinti, ma soprattutto la contestuale dicotomia fra regolari e “clandestini”, intendendo che i profughi economici dei barconi sono tutti dei clandestini da respingere, con le buone o con le cattive. La clandestinità, se diventa un reato, è esattamente la negazione di quei diritti umani – o ancor meglio, visto che l’espressione “diritti umani” è screditata, dei diritti naturali che devono essere riconosciuti a ciascuno – che l’occidente capitalistico dichiara di riconoscere e millanta di voler difendere. Alla fine i leghisti che fanno il bello e il brutto tempo nell’indebolito esecutivo berlusconiano, vista l’eccezionalità della situazione mediterranea aggravata dalla guerra civile libica, hanno dovuto ammettere la concessione ai “profughi economici‐presunti clandestini” di un permesso temporaneo di soggiorno, sperando, o meglio illudendosi, che se ne andranno Fora di Ball [credo che si scriva così, ma non conosco bene l’agglutinata lingua bossiana] al più tardi dopo sei mesi o un anno e il più lontano possibile dalla sacra “padania”. Il gioco di identificare i cosiddetti profughi economici con i clandestini, in presenza del reato formale che deriva dall’essere semplicemente privo di documenti, non può funzionare nel lungo periodo e non può arrestare i flussi migratori verso il nord [del mondo intendo. Chissenefrega dell’immaginaria “padania”, patria delle sole e delle sparate bossiane]. Dall’altra parte ci sono gruppi di imprenditori italiani, destinanti a diventare sempre più sparuti con l’avanzare della crisi e l’estendersi della moria d’industrie, i quali accolgono favorevolmente gli arrivi stabili – più che i transiti verso la Francia e la Germania – per poter disporre di schiavi ancor più schiavi, ad un costo più basso rispetto ai precari locali. Non parliamo poi dell’economia formalmente criminale, espressione di un certo potere finanziario che per convenzione ancora chiamiamo Mafia, Camorra, ‘ndrangheta – ma che è semplicemente élite, Global class mascherata – la quale necessita di manovalanza per il crimine, di braccia per il lavoro in nero ed anche di 164 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 lavoratori, docili, di poche pretese e facilmente gestibili, nelle attività legali ed emerse che controlla. Il ricatto della fame e della guerra, i continui shock utilizzati per imporre gli espropri capitalistici e le controriforme, liberano “fattori della produzione umani” a bassissimo costo, in apparenza più facilmente gestibili dei lavoratori autoctoni minimamente tutelati, che sono a completa disposizione della creazione del valore e completamente soggetti al peggior sfruttamento schiavista. Certo, i flussi migratori verso il nord che attraversano il Mediterraneo si sono improvvisamente ingrossati a causa dell’instabilità tunisina e come conseguenza della guerra civile libica, ma è da tempo che quelle “Cassandre” che sono i demografi avvertono che ci si deve attendere, per il futuro, masse crescenti di migranti provenienti, in particolare, dall’Africa subsahariana, in cui l’ancora elevato numero di figli per donna, in certi casi superiore a quattro, nonostante l’elevata mortalità infantile alimenta le “eccedenze umane”, costringendo una popolazione giovane e senza alcuna prospettiva a cercare possibilità di sopravvivenza altrove. Nel lungo periodo, avvertono i demografi con uno sguardo dall’alto che abbraccia tutto il pianeta, il fenomeno migratorio non pesa quanto la vulgata è portata a credere, ma semplicemente può “ripopolare” aree del mondo [nel nostro caso la parte nord‐occidentale] in cui già si manifesta e si manifesterà nei prossimi decenni un significativo calo demografico, riequilibrando così le sorti – demografiche, in primo luogo, ma anche economiche – di queste aree ed arrestandone lo spopolamento. Ma nel breve e nel medio periodo si scatenano inevitabilmente forti tensioni all’interno delle società di destinazione dei flussi migratori, ed in subordine in quelle di transito, da un lato, e si inizia a percepire un ulteriore e più grave impoverimento nelle società di partenza, dall’altro lato, perché private della parte più giovane e vigorosa della forza lavoro. E’ nel breve e nel medio periodo, quindi, che appare in piena luce il duplice svantaggio dei flussi migratori imposti da questo capitalismo, ben oltre la relativa “asetticità” di studi demografici che possono avere un orizzonte temporale di trenta o di cinquanta anni. Se il nuovo modo storico di produzione, che drammatizza ed accelera impoverimento di massa e fenomeni migratori per poter estendere la sua presa sul mondo, potrà riprodursi fino alla metà di questo secolo senza incontrare ostacoli rilevanti, l’esito non potrà essere che un aggravarsi dell’impoverimento di massa, nel sud ed anche nel nord del mondo, e una continuità, al ritmo di circa due o tre milioni l’anno, dei flussi migratori verso i paesi “sviluppati”, come previsto dai demografi. 165 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 In tal caso, il Nuovo Capitalismo e i suoi agenti globali avranno vinto per tutto il secolo, e si verificherà una progressiva ed inevitabile sostituzione delle originarie popolazioni nord‐occidentali con quelle provenienti dalle aree più malconce del pianeta [Africa subsahariana, certi paesi dell’America Indio‐Latina, vaste regioni dell’Asia], pur in presenza di un graduale e già oggi prevedibile calo demografico, fino ad avvicinarsi alla fatidica soglia “di sostituzione” dei due [o meglio, 2,1] figli per donna, persino nella ventina di paesi più poveri del mondo, in gran parte africani. Quindi è perfettamente inutile che Bossi & C. si agitino sputando veleno contro i migranti, cercando di criminalizzarli e di imbonire le loro “tribù padane” minacciate dall’intrusione aliena, ed è illusorio, per quanto riguarda gli imprenditori italiani piccoli e medi non ancora “delocalizzati”, o espulsi tout court dal mercato, sperare di poter approssimare almeno un po’ i fasti del passato – se sono stati veramente tali – o addirittura di poter tornare ad una condizione di status quo ante, sfruttando nuove ondate di lavoro schiavo. Il Nuovo Capitalismo, dilagando anche da noi grazie alla globalizzazione neoliberista, ha fatto sì che in Italia coesistano tre mercati del lavoro, fin tanto che non si completeranno la distruzione del lavoro stabile e garantito e la mattanza dei ceti medi: 1) Un mercato tradizionale, riguardante i “vecchi contratti” ancora in essere e portatori di ampie garanzie per il lavoratore, che tende progressivamente a restringersi riguardando, ormai in maggioranza, lavoratori di mezza età o anziani. Le garanzie, giudicate troppo ampie, sono in fase di superamento attraverso la pratica degli accordi separati con i sindacati compiacenti, delle conseguenti deroghe sulle materie del contratto nazionale e grazie ai blitz come quelli di Marchionne, che implicano la rinuncia ai diritti contro il mantenimento, a condizioni peggiori di prima, del posto di lavoro. 2) Un mercato del lavoro precario, dominato dai nuovi contratti stabiliti in violazione dei principi costituzionali ed aggirando lo stesso Statuto dei Lavoratori, ancora in vigore, che oggi si vuole “riformare” in fretta e furia e ridurre ad uno statuto dei lavori. La spersonalizzazione – dovuta all’uso dell’espressione lavori, anziché quella di Lavoratori – non è casuale, ma sancisce la separazione della persona, come centro di diritti inalienabili non soggetti al mercato, dal servizio lavorativo del quale è portatrice, che si intende assoggettare interamente alle leggi di mercato. Si diffonde la forma di alienazione contemporanea che ho definito in altre sedi “Neoschiavismo precario”. 166 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 3) Un vasto mercato nero del lavoro, in cui non vale alcuna garanzia ed in cui si realizza un ulteriore e maggiore risparmio in termini di “costo della produzione” identificato con quello del lavoro. Questo mercato è alimentato, in parte significativa, dal lavoro migrante, clandestino e non clandestino, e rappresenta un terreno fertile per l’economia capitalistica mafiosa, formalmente criminale, nonché per gli imprenditori senza scrupoli, posto che esistono veramente, in numero non insignificante, imprenditori “etici”, non privi di coscienza. Qui sono osservabili forme di alienazione antiche, o forme contemporanee a loro molto simili, che riportano allo “Schiavismo classico precapitalistico”. Infine, la massima ipocrisia si raggiunge separando i profughi di guerra, per i quali l’accoglienza è un atto dovuto [seppure a malincuore, come ho scritto in precedenza] da quelli che scappano per ragioni economiche, ampiamente e strumentalmente identificati con i clandestini, i quali commettono reato per il semplice motivo che non hanno, o non hanno più, i documenti. Per quanto mi riguarda, i profughi sono tutti, indistintamente profughi di guerra, persone che fuggono da un conflitto nella speranza di approdare in terre pacifiche o pacificate, fidando che queste possano garantirgli i mezzi di sostentamento in cambio dell’unica cosa che hanno da offrire: il loro lavoro. La lotta di classe non è mai stata feroce come in questi anni, scavando crateri – seppure invisibili – più profondi di quelli che producono le bombe, anche se i media, i giornalisti, gli intellettuali e molti accademici la negano, come se ormai fosse storicamente, socialmente e culturalmente superata. La lotta di classe, per piegare le resistenze dei subordinati e dei popoli ribelli, la conducono oggi i membri della classe globale [ e li chiamino pure oligarchi, élite, dominanti: la sostanza non cambia] con ogni mezzo, dalla guerra finanziaria a quella commerciale, dalla guerra energetica a quella tradizionale, che si fa ancora con bombardamenti e che provoca distruzioni di strutture, morti e feriti. Che differenza c’è fra un bombardamento “umanitario”, mirato alle sole strutture militari, politiche e produttive, condotto con precisione chirurgica e l’uso di bombe intelligenti, come ad esempio quello dei “volenterosi” prima e della NATO dopo in Libia, ed un bombardamento finanziario, dell’intensità di quello che ha colpito molti paesi, fra i quali l’Italia, provocando la prima crisi economica globale del 2007/ 2008? Certo, nel primo caso e nell’immediato vi possono essere morti e feriti, ma in ambedue i casi l’azione ostile e classista dei dominanti provoca inevitabilmente ondate di profughi, che cercano riparo ed accoglienza in aree del mondo credute sicure e pacifiche, confidando in un’altrui umanità non sempre provata. 167 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Se gli africani arrivano in Italia, speranzosi di restarvi o più spesso di raggiungere la Francia, la Germania, il nord dell’Europa, gli italiani colpiti da impoverimento e de‐emancipazione, in maggioranza giovani e acculturati, tentano sempre più spesso la fortuna all’estero, e sperano, in molti casi inconsciamente, che la guerra elitista non li raggiunga, un giorno, anche là … Non esistono profughi economici, quindi, ma tutti i profughi, tutti i migranti per forza maggiore devono essere considerati profughi di guerra, perché il conflitto scatenato dagli elitisti è generale, multiforme, senza esclusione di colpi e senza tregue, così capillare che arriva ovunque, tanto che nel mondo vi saranno sempre meno luoghi sicuri, in cui fuggire. 168 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La liberaldemocrazia e la democrazia degli Scilipoti Articolo del 14/04/2011 Tanto per fare dellʹironia guardando al caso italiano, che rivela particolari bassezze degenerative non più rimediabili, si può dire che la liberaldemocrazia – accoppiata con il mercato unico destino per tutta lʹumanità futura, secondo Fukuyama –nel belpaese alla fine della fiera ha partorito Scilipoti, come dire che la montagna ha partorito il topolino ... o il ratto di fogna, se si preferisce. Lʹintangibilità della liberaldemocrazia in occidente non sarà eterna, poiché ci sono già diversi segnali che dovrebbero far capire che gli ordinamenti democratici potranno essere superati dalle stesse élite che li hanno voluti, in quanto i nuovi dominanti hanno sempre meno bisogno del ʺconsenso popolareʺ e dellʹinvolucro democratico per gestire le masse secondo i loro scopi. Tornando alla liberaldemocrazia italiana – che possiamo definire con un certo sarcasmo ʺla democrazia degli Scilipotiʺ – alcuni suoi aspetti degenerativi autoctoni trovano unʹorigine nel familismo amorale, nato nel meridione e diffuso ormai in buona parte penisola, ma soprattutto nel ʺtrasformismoʺ parlamentare della vecchia Italia liberale di fine ottocento. Pensiamo alla recentissima approvazione alla camera – dopo un lungo tour de force per i ʺrappresentanti del popoloʺ – della prescrizione breve (o processo breve). In questa squallida vicenda agiscono sia il familismo amorale italiota (fenomeno sociale rilevante espunto non a caso da tutti i dizionari sociologici nazionali), che trova il suo apice nelle leggi ad personam, pensate per uno solo, votate da tutto il suo clan e imposte alla popolazione, sia una nuova versione aggiornata e peggiorativa del ʺtrasformismoʺ parlamentare dei tempi di Depretis, in cui i liberali di sinistra e moderati di destra si unirono per mutua convenienza. Osserviamo il caso, quindi, di un ʺtrasformismoʺ in Versione 2.0 (o 3.0 o successive) come si direbbe in informatica. Ma i parlamentari di Agostino Depretis (e prima quelli cavouriani del “Connubio”) erano dei galantuomini in confronto agli attuali “responsabili” – il cui simbolo è diventato a pieno titolo quella merda di Domenico Scilipoti – che per cento o duecentomila euro di contributi alle spese elettorali (e naturalmente la rielezione assicurata, che vale ancor più denaro) sono disposti a vendere … anche quella puttana della loro madre. Trasformismo politico senza limiti (Version 2,0 o successive) e familismo amorale diffuso, agendo congiuntamente, informano i rimpasti di governo, l’attribuzione di cariche ministeriali (e sottosegretariati), per l’evidente motivo che la cosiddetta linea politica ufficiale, dalla quale non si dovrebbe deviare più di tanto, non conta più nulla, e che il governo, alla quale la sovranità politica, economica e monetaria 169 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sono state sottratte dagli organismi sopranazionali, europei e non, dal FMI e dalla BCE, decide ben poco. Ma anche se il governo è sottomesso agli organi della mondializzazione finanziaria ed economica, e al sistema internazionale delle banche centrali, Scilipoti e quelli come lui restano delle merde, e da loro ci si può aspettare soltanto la forma più degenerata e crepuscolare della liberaldemocrazia, cioè “la democrazia degli Scilipoti”. Naturalmente chiedo perdono per le finezze di cui sopra, ma non ho trovato parole migliori per descrivere con chiarezza la situazione. Infine, non serve precisare che lo scrivente è un irriducibile anti‐liberldemocratico... e con buoni motivi per esserlo. 170 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Rendita, profitto e creazione del valore Saggio del 25/04/2011 Rendita e conflitto Guerra di Libia con tutti i rischi annessi e connessi, credit crunch bancario, indici capitalistici che languono, a partire dal PIL, aumenti continui dei prezzi e delle tariffe, impoverimento generale del paese e vistosa incapacità della politica di intervenire positivamente non sono questioni separate che affliggono l’Italia, e non soltanto l’Italia, l’una indipendente dall’altra. Non si tratta di eventi negativi che si sono concentrati tutti in questi ultimi anni per avversa sorte, per un puro caso che non ci ha di certo favoriti potendo la storia prendere una direzione completamente diversa, e meno distruttiva dell’attuale, ma si tratta, viste le premesse e l’affermazione del neoliberismo globalista “mutante”, di effetti inevitabili e trasformativi dovuti alla prevalenza ed alla diffusione di un nuovo modo di produzione sociale: il Nuovo Capitalismo del terzo millennio. Lo stesso attacco occidentale alla Libia, che mette in pericolo l’Italia non soltanto dal punto di vista della continuazione della partnership con Tripoli e degli indispensabili rifornimenti energetici, e la nube tossica giapponese arrivata fin sulle nostre teste, sono i frutti avvelenati del dispiegarsi delle logiche del capitalismo contemporaneo. La creazione del valore per le classi dominanti e la sua accelerazione, in questo tempo storico che corrisponde all’affermazione di nuovi rapporti sociali penalizzanti per gran parte dell’umanità, provoca la diffusione dell’inquinamento da isotopi radioattivi e non esclude l’uso delle bombe definite intelligenti, assieme a quello delle “bolle” capitalistiche [new economy, immobiliare, debito pubblico, eccetera], per estrarre valore con numeri sempre più grandi dall’ambiente, dai singoli e dalle società, dalle stesse organizzazioni statuali e dal patrimonio pubblico. E’ in queste logiche che si inserisce, a pieno titolo, il discorso della Rendita elitistica, di cui beneficia la nuova classe dominante globale, parallelamente al discorso del conflitto fra l’ampia base della piramide sociale che subisce il potere ed un vertice numericamente inconsistente, che lo esprime. Sappiamo che è un discorso antico, potendo dispiegarsi storicamente dalla rendita feudale alla rendita capitalistica di Marx ed oltre, ma è oggi che la questione ridiventa cruciale, e si complica, perché il modo di produzione che si sta affermando comporta, per certi versi, il ritorno in grande stile della rendita, od anche il ritorno della rendita al potere. Con parole semplici, se la produzione di beni e servizi concreti – e la stessa possibilità sistemica di generare occupazione e reddito per i subordinati – è sempre 171 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 più sottomessa alle logiche finanziarie, ed alle esigenze della rendita elitistica in tutte le sue “forme”, extraproduttive, fondiarie, monetarie, ciò non nasce da una “congiuntura” sfavorevole ma superabile, in una semplice fase di trasformazione capitalistica, ma è un aspetto qualificante e irrinunciabile del Nuovo Capitalismo contemporaneo, investendo il suo basamento strutturale. In generale ed in sintesi, si possono individuare tre forme, o tre “figure” specifiche, che la rendita capitalistico‐elitista assume nel nostro presente: 1) Rendita Fondiaria. Il suolo e gli ecosistemi, le risorse non rinnovabili, fra le quali quelle energetiche, e la stessa acqua sono oggetto della rendita fondiaria, espressione della “grande proprietà privata” che si sta spartendo il pianeta in reciproca rivalità, dal sottosuolo ai cinque strati dell’atmosfera terrestre. Lo stesso Marx ha dedicato molte pagine alla rendita nel Libro Terzo de Il Capitale, trattando della rendita fondiaria, capitalistica e non feudale, della quale ha riconosciuto l’importanza nella tripartizione del reddito fra il profitto, il salario e, appunto, la rendita. Ma la vecchia rendita fondiario‐capitalistica dei tempi di Marx, derivata dall’esproprio delle terre comuni, delle piccole proprietà ed in parte minore delle proprietà feudali nell’epoca dell’accumulazione originaria, è qualitativamente diversa dalla rendita di cui si tratta in questa sede, almeno quanto il capitalismo dell’epoca è profondamente diverso da questo. Monopolio e scarsità della terra non sono oggi i soli effetti dell’imposizione della rendita capitalistico‐fondiaria, poiché l’intero pianeta e pressoché tutti gli ecosistemi, gli elementi fondamentali per lo sviluppo della vita tendono ad essere coinvolti nella sua produzione. Volendo esemplificare senza troppo approfondire, per ragioni di spazio e per necessità di sintesi, rendita fondiaria è quella degli Al–Saud che controllano il suolo nella penisola arabica, per controllare i preziosi giacimenti di greggio, e rendita fondiaria è quella che si assicurano i cinesi attraverso la ʺcompraʺ in Africa – Madagascar, e probabile distruzione del suo originale ecosistema, Sudan, eccetera – interessati ad espropriare il suolo poiché interessati a materie prime ed acqua. Dal canto loro le elite globaliste cinesi, pur avendo mandato al macero il maoismo ed obliato in fretta ogni velleità socialistico‐comunista, hanno mantenuto la proprietà pubblica del suolo per mettersi al riparo, nei loro stessi feudi di origine, da sgradite sorprese. La rendita fondiaria del capitalismo contemporaneo sfrutta in modo diretto Gaia, in ogni suo aspetto, ed assume il significato di esproprio capitalistico integrale dellʹambiente e degli stessi elementi fondamentali per la vita, umana e 172 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 non umana, sulla terra, ben oltre i limiti della “vecchia” rendita di Marx, di Ricardo, di Smith. Oltre al petrolio e al gas naturale, che alimentano le produzioni di tutto il sistema, acquistano centralità il cibo e l’acqua, appropriati con il duplice scopo di alimentare la rendita e di controllare le popolazioni. La particolare gravità di questi aspetti non può sfuggire, poiché sono cruciali per le nostre stesse possibilità di sopravvivenza in quanto specie, ed infatti la cosa non è sfuggita a Serge Latouche, il quale nella recente opera Sortir de la société de consommation scrive della “catastrofe produttivista”, sostenendo che se si assume il criterio geometrico si nota come il modo di vita dell’uomo – indotto dal capitalismo, è bene aggiungere – comporta il degrado del suo stesso ecosistema secondo curve esponenziali, una cosa ovvia e provata dall’estendersi dell’effetto serra, dalla progressiva scomparsa delle fonti di energia fossili, dagli avvelenamenti ambientali e dalla scomparsa quotidiana di decine di specie viventi. Se le battaglie per l’acqua pubblica, o comunque non controllata e mercificata dai “privati”, sono già in corso nel mondo, anche la stessa aria, dove ancora è pulita e respirabile, potrà rientrare negli appetiti elitistici ed essere fonte di rendita. La rendita fondiaria così intesa non è certo estranea all’intervento militare occidentale nella crisi libica – al di là delle conclamate ragioni umanitarie e di tutte le giustificazioni ufficiali – in una regione dell’Africa, quella mediterranea e settentrionale, non ancora investita dagli interessi e dal colonialismo cinese, ma contesa fra gli occidentali, con la Francia interventista e protettrice degli insorti che sogna di espellere le aziende italiane dalla Libia, sostituendo gli italiani nella stipula di contratti, mettendo le mani sulle risorse energetiche del paese e guidando il business della ricostruzione/ modernizzazione, dalle ferrovie alle raffinerie. Nell’attuale “clima” di dismisura capitalistica [secondo un’espressione dal vago sapore latoucheano], in cui la globalizzazione neoliberista ha fatto saltare tutti i freni inibitori che in passato ancora agivano, l’ambiente naturale diventa una semplice risorsa a disposizione senza limitazioni di sorta, esattamente come lo è il “capitale umano”, salvo poi scoprire la sostanziale ingestibilità dell’atomo, com’è accaduto in Giappone con la centrale di Fukushima, od accorgersi quando è troppo tardi degli effetti concreti della progressiva scomparsa delle foreste e del degrado del suolo. L’espressione rendita, al di là del significato economico e molto di più che in passato, significa riduzione della biodiversità terrestre, impoverimento del suolo, supersfruttamento delle risorse non rinnovabili, diffusione degli 173 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 organismi ogm a scapito delle specie naturali, inquinamento delle falde acquifere … e guerra. La nuova rendita fondiaria drammatizza innanzitutto la questione ecologico‐ ambientale. 2) Rendita Finanziaria. Finanziarizzazione, autonomizzazione e prevalenza della sfera finanziaria su quella produttiva, trasformazioni rilevanti nel modo di creare, estrarre e concepire il valore sono caratteristiche distintive del Nuovo Capitalismo del terzo millennio. La finanza, nata come astrazione esterna alla produzione, è unʹautentica ʺarmaʺ nelle mani dei nuovi dominanti per intercettare ed appropriare il prodotto sociale. In tal senso, pur non condividendo la visione biopolitico‐moltitudinaria negriana, si deve ammettere che Toni Negri focalizzi abbastanza correttamente [anche se non del tutto] questo specifico punto in Comune, l’ultimo libro della trilogia dedicata all’impero ed alle moltitudini. Se la rendita finanziaria, a differenza del profitto, non nasce all’interno dei processi produttivi ma rappresenta un modo esterno di estrarre ricchezza ed è frutto di un’astrazione, non si può però affermare che le strategie finanziarie non hanno alcun riflesso diretto sulle reti produttive, sovrastandole e intercettando la ricchezza prodotta esclusivamente in uscita, come afferma Negri, perché le ragioni sovrane della rendita finanziaria e della sua moltiplicazione incidono in profondità sugli stessi processi di produzione, frammentano, ristrutturano e delocalizzano le unità produttive, informano le decisioni manageriali imponendo alti tassi dei profitti nel breve, e quindi orientano la produzione e le strategie produttive di beni e servizi. Si ristruttura, si frammenta, si delocalizza o si rilocalizza per rendere fin dall’inizio “appetibile”, da un punto di vista della creazione del valore finanziario, gli stabilimenti in cui concretamente si produce, potendoli vendere nel breve, dopo la ristrutturazione, in seguito ad incrementi delle quotazioni di borsa, ottenendo dividendi nel breve ma soprattutto capital gains a compimento dell’operazione, e giocando con le molte possibilità offerte da una finanza derivata che è fin troppo “creativa”. La stessa rilocazzione delle attività produttive che “rientrano” da pesi stranieri, è informata non da una sopraggiunta volontà elitistica, o sub‐elitistica e manageriale, di favorire la culla di origine rispetto ad altri luoghi nel mondo, ma dalle logiche della rendita finanziaria. Marchionne non è un manager industriale al vertice di un grande gruppo automobilistico, che si occupa unicamente della produzione concreta di 174 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 automobili, della commercializzazione del prodotto, dei rapporti conflittuali con le maestranze italiane o di altri paesi, ma è un emissario della classe globale al servizio dei percettori della rendita finanziaria, ed è proprio in base alle sue capacità di contribuire alla produzione [non di automobili ma] di questa rendita che rimane dove si trova ed è principescamente remunerato. I “top manager” come Marchionne, nella realtà, hanno poco a che vedere con i vecchi capitani d’industria e i vecchi manager, con gli Henry Ford, i Beneduce ed i Valletta, essendo partner a tutti gli effetti dei percettori della rendita finanziaria – sulla cui produzione si basa il loro compenso – ed impostando, in relazione all’industria, fin dall’inizio strategie e tattiche che hanno diretti riflessi nel mondo della finanza e della borsa, in quanto il loro vero target è finanziario e non produttivo. Cosa ancor più grave, questo discorso non riguarda soltanto la produzione di automobili, di elettrodomestici, o di apparecchiature elettroniche, ma direttamente la produzione di cibo e quella di energia. Che in tale caso può valere il motto “intercettare in uscita per espropriare” la ricchezza è fuor di dubbio, ma l’invasività della rendita finanziaria, così come si può osservare oggi, è tale da incidere direttamente su processi, prodotti, stabilimenti, ubicazione degli impianti, tecnologie applicate, decisioni manageriali, spremendo come limoni in uno spremiagrumi, per creare valore finanziario, azionario e borsistico, le fabbriche e tutti coloro che ci lavorano. Chi beneficia della rendita finanziaria non si comporta come il signore medioevale, o l’ecclesiastico, che generalmente non entravano nel merito delle produzioni agricole, affidandole interamente alle comunità di villaggio, ai servi, ai semiliberi ed ai subordinati, ma purtroppo entra nel merito della produzione, della sua organizzazione, delle stesse dimensioni dell’occupazione, perché è da lì che parte che parte la creazione finanziaria del valore. Intascare rilevanti capital gains, vendendo pacchetti azionari, non è come estrarre le decime dalle produzioni agricole gestite in autonomia dalle antiche comunità di villaggio, ma richiede la preventiva sottomissione e l’ingerenza nella gestione delle attività produttive. In tal caso, il “sottostante” – per usare un’espressione cara alla finanza derivata – è la produzione stessa delle basi materiali della vita associata, riorientandone gli scopi. Warren Buffet, globalista spietato, ma abbastanza loquace e qualche volta senza peli sulla lingua, ha definito i prodotti finanziari derivati, per la centralità che hanno acquisito nell’alimentare la nuova rendita finanziaria capitalistica ed estendere il potere dei dominanti, armi di distruzione di massa. Non è un caso se è proprio l’uso “spregiudicato” di questi prodotti che ha dato una grossa mano nell’innesco della recente crisi globale, nelle previsioni più 175 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sensate destinata a durare, con fasi alterne, almeno una decina d’anni, ma in realtà permanente e strutturale secondo il parere di chi scrive. Queste armi finanziare di distruzione di massa, utilizzate in un’opera di “annientamento di area”, come sta accadendo in vaste aree del mondo non esclusa parte dell’Europa, hanno raggiunto una dimensione quantitativa pre‐ crisi pari a circa dieci o dodici volte la produzione, misurata dal PIL mondiale, ed alla prova dei fatti sono state giudicate più efficaci e “paganti”, dal punto di vista elitistico‐globalista, del tradizionale strumento bellico, che non per questo è stato, però, archiviato, come dimostrano i casi dell’Afghanistan e dell’Iraq. L’espressione “paganti” è virgolettata nel testo, non semplicemente per fare un po’ d’ironia, ma perché le masse di derivati – giustamente definite tossiche, da alcuni analisti e giornalisti – hanno consentito di incamerare nel breve e nel brevissimo laute commissioni, di moltiplicare i guadagni esponenzialmente scaricando il rischio su altri, ma anche di vincere le resistenze all’esproprio capitalistico, che oggi avviene attraverso l’arma finanziaria, e che si spinge ben oltre la pura e semplice accumulazione di ricchezza. Fra le numerosi “armi” finanziarie a disposizione dei dominanti – a parte gli ormai noti CDO e CDS, all’origine della prima crisi globale – vi sono quelle avanzate che nascono negli ambienti della finanza “dark”, la dark pool finance, e si tratta di prodotti con caratteristiche extracontabili, extraborsisitiche, soggetti alla contrattazione privata. In Italia, paese che si giudica “arretrato” rispetto all’insieme capitalistico‐ finanziarizzato occidentale, non ci sono banche autorizzate a trattare questi pagherò bancari [medium term notes], come ci avverte l’avvocato‐psicologo Marco Della Luna in molti suoi saggi ed articoli, dedicati al monitoraggio di questi mercati elitistici. Secondo Marco [Della Luna] i pagherò bancari sono emessi principalmente dalle banche di intermediazione e sconto con tagli enormi [standard di 500 milioni di dollari, ad esempio], potendo questi prodotti essere scontati o utilizzati in garanzia di operazioni destinate a creare liquidità. La liquidità creata, oltre a garantire grandi guadagni extracontabili per le banche di intermediazione e per i privati che investono, può alimentare la speculazione finanziaria e immobiliare [cioè la creazione/ moltiplicazione del valore in mani elitistiche] ed anche consentire investimenti infrastrutturali [come scrive Della Luna in La finanza monca dell’Italia in vendita]. Perciò, avverte Marco [Della Luna], potrebbe essere questa una concreta possibilità per paesi molto indebitati e con una rilevante pressione fiscale – come l’Italia, guarda caso – per trovare la liquidità necessaria a rilanciare le grandi opere pubbliche e i programmi di sviluppo, evitando una diretta colonizzazione operata per altre vie dai capitali stranieri. 176 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ma è evidente che questa è anche una strada, battuta dalla classe dominante che utilizza lo strumento finanziario come arma per moltiplicare il valore creato, profittando della “fame” di liquidità in un contesto di crisi strutturale e permanente. L’aspetto della rendita finanziaria è sembrato a molti determinante, se non l’unico, in seguito alla prima crisi globale del [2007/]2008, ma nella realtà e al di là delle contingenze si tratta di una via importante, cruciale per la riproducibilità capitalistica, non però l’unica strada praticata per consentire ai dominanti di mettere le mani sul prodotto del lavoro sociale. La creazione del valore finanziaria, azionaria e borsistica subordina la stessa estorsione marxiana del plusvalore, inglobandola nelle sue logiche, e costituisce un pilastro strutturale del Nuovo Capitalismo. Si drammatizza , per questa via, la questione sociale e del lavoro. 3) Rendita monetaria. Ultima in ordine di elencazione, ma non ultima per importanza è la rendita monetaria, che si collega ai controversi temi del signoraggio monetario, praticato dalle élite attraverso le banche centrali d’emissione private, e del signoraggio bancario, o secondario, che prevede la creazione di moneta contabile da parte del sistema bancario. Volgendo lo sguardo al passato, nel Libro Terzo de Il Capitale riguardante il processo produttivo capitalistico, Marx ha indagato l’epoca precapitalistica ed ha concluso che accanto al capitale commerciale esistesse in tutte le formazioni sociali pregresse il capitale usurario, cioè produttivo di interessi, la cui presenza non richiede se non che la trasformazione dei beni in merci sia avvenuta almeno parzialmente e che si siano sviluppate le funzioni del denaro. Sia il capitale usurario di Marx sia il fenomeno del signoraggio, nel suo duplice aspetto monetario e bancario, implicano l’esistenza e la diffusione del denaro, nonché quella del credito, e di conseguenza dell’indebitamento diffuso, oltre l’originaria dimensione degli scambi rappresentata dal baratto. Per quanto riguarda il fenomeno del signoraggio in tutte le sue sfaccettature, l’opera italiana più completa è Euroschiavi di Marco Della Luna e Antonio Miclavez, in cui gli autori sostengono che attraverso la vendita di moneta avente corso legale agli stati, e attraverso la moneta creata “dal nulla” dal sistema bancario, i Nuovi Signori ottengono un doppio risultato: sostengono costi bassissimi e nel contempo intascano lucrosi interessi, alimentando il debito pubblico, moltiplicando il credito concesso rispetto ai depositi incamerati e creando nuovo valore per se stessi. Emettendo cartamoneta, la banca centrale d’emissione, riceve in cambio titoli di stato che producono interesse e costituiscono, per l’istituto di emissione, una 177 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 posta dell’attivo patrimoniale, mentre, nella realtà, la moneta emessa non rappresenta una vera posta del passivo di bilancio, anche se in questo formalmente appare, poiché non vi è più l’obbligo di convertire in oro, a richiesta del portatore, le banconote. L’escamotage della vendita di denaro allo stato, da parte di una banca centrale privata, la conseguente sottrazione di sovranità monetaria, gli accorgimenti contabili adottati, nascondono un grande esproprio di risorse, a danno dei popoli e delle nazioni, destinato a finire in mani elitiste, grazie alla sapiente ed ormai consolidata triangolazione fra i bilanci falsi per legge [secondo Della Luna e Miclavez], la compensazione finanziaria ed interbancaria consentita dal sistema di clearing e l’intangibilità dei “paradisi fiscali” esistenti nel mondo. L’unico costo che sostiene la banca emittente, per altro limitato, è quello relativo alla stampa di cartamoneta, mentre incamera gli interessi e beneficia dei titoli di stato, che potrà cedere a terzi o dei quali potrà attendere il rimborso del valore capitale. Essendo gli istituti d’emissione occidentali delle entità private legate ad un sistema bancario anche lui privato, a partire dal gruppo della Federal Riserve americana fino ad arrivare alla Banca Centrale Europea, partecipata dalle banche centrali private dei paesi membri, è chiaro che sono le élite finanziarie a beneficiare dell’operazione di emissione della moneta. Per quanto riguarda il signoraggio secondario, non legato all’emissione della moneta avente corso legale, ma espresso dall’intero sistema bancario, è bene precisare che si fonda non sulla moneta ma sul credito, poiché le banche sono in grado di concedere crediti, e di incassare i relativi interessi, nella misura di circa cinquanta contro uno rispetto ai depositi incamerati [50 unità monetarie di crediti contro ciascuna unità di deposito], tenendo conto che la riserva frazionaria è una percentuale molto piccola, addirittura risibile, dei depositi. Questa forma di signoraggio, che passa attraverso gli sportelli e le scritture contabili di tutte le banche del sistema, genera i nove decimi dei mezzi di pagamento in circolazione. Lo scenario, già di per sé preoccupante, diventa ancora più cupo con la diffusione del denaro in forma elettronica, in sostituzione del denaro “vero”, rappresentato da banconote e monete. La diffusione del denaro elettronico, voluta dai decisori, rimpiazzando progressivamente i contanti nelle transazioni quotidiane e prevalendo, quindi, sul denaro “vero”, ha la funzione di consentire un più capillare controllo del credito ed un controllo politico‐sociale sulla popolazione, fino ad arrivare al monitoraggio delle abitudini di spesa e di consumo, degli spostamenti fisici e delle stesse preferenze politiche del singolo. 178 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il principale merito di Della Luna e Miclavez sta nell’aver analizzato, spiegato e cercato di denunciare questa grande truffa, che oggi sta avendo effetti drammatici fin nel quotidiano di ciascuno di noi. L’effetto moltiplicatore insito nell’imposizione e nell’estensione della rendita monetaria e del signoraggio, monetario e bancario, che provoca l’estensione del debito degli stati e dei privati, rendendoli ricattabili e ponendoli in posizione di subordinazione, dovrebbe essere ormai evidente per chiunque, ed in Europa lo è sicuramente dopo l’esperienza del caso greco, alla cui base ci sono proprio il debito pubblico e l’euro. La moneta – quale che sia la forma che può assumere: metallica, cartacea o elettronica – deve perciò essere vista, per coglierne la vera funzione e l’importanza, quale strumento irrinunciabile di dominazione capitalistica e di esproprio dei subordinati. Volendo essere estremi, ma non troppo, si tratta di una riproposizione su vasta scala, in forme sofisticate e “non visibili” supportate da tecnologie e dall’invenzione di prodotti e strumenti ad hoc [del tutto appropriati nel contesto finanziario contemporaneo per gli scopi che le élite si prefiggono], della schiavitù per debiti che ha caratterizzato il mondo antico e la sua economia a base schiavista. Nel nostro caso, schiavi diventano gli stati, i popoli e le nazioni, senza neppure accorgersene, od accorgendosene quando orami è troppo tardi. E’ certo che la questione del signoraggio nasce molto prima dello stesso capitalismo – il che richiederebbe di initiare ab ovo, come dicevano i nostri antenati – ma è nella nostra epoca che assume un peso rilevante e diventa insopportabile per le comunità umane. Si pone con forza la questione della sovranità popolare, politica e monetaria, e del ruolo dello stato. Spesso si critica chi cerca di analizzare e di “dividere”, perché si afferma che ciò farebbe il gioco del potere, e favorirebbe il nascondimento dei dominanti, non consentendo di cogliere l’insieme, ossia la totalità sistemica. Non è questo il caso, perché chi scrive è perfettamente cosciente del fatto che le tre forme assunte dalla rendita corrispondono ad altrettanti espropri paralleli, i quali assicurano maggiori risorse e maggior potere ai dominanti attraverso diversi canali, ma che costituiscono il risultato molto concreto di un’unica logica. Questi espropri riguardano l’ambiente, il suolo, l’atmosfera e gli elementi fondamentali della vita [aspetto “fondiario”], la ricchezza socialmente prodotta [aspetto “finanziario”], l’autonomia e la sovranità degli stati [aspetto “monetario”], e devono essere visti in modo unitario, poiché sono il frutto dell’azione in qualche 179 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 misura coordinata del Nemico Principale, che può permettersi di “osservare dall’alto”, senza essere visto, sia l’ambiente, sia gli uomini, sia gli stati. E’ bene iniziare a classificare ed analizzare gli espropri capitalistici in atto, in quanto gli ambienti accademici ufficiali tacciono, in proposito, mentre quelli mediatico‐giornalistici utilizzano espressioni come Autorità Monetarie, Mercati, Investitori – nella diffusione capillare e istupidente di un’efficace neolingua sistemica – come se rappresentassero un nuovo “mistero della fede” postmedioevale e postmetafisico, e quindi qualcosa di intangibile e incontrollabile, evitando accuratamente di spiegare che cosa nella realtà si nasconde dietro a queste parole. Per tale via, al timore di Dio si sostituisce il timore nei confronti delle suddette entità, alle quali possiamo aggiungere tutti gli organi sopranazionali della mondializzazione economica, che sono altrettanti strumenti nelle mani dei veri decisori. Il potere di vita e di morte – perché di questo, in fondo, si tratta – attribuito ai Mercati, agli Investitori ed alle Autorità Monetarie, è un potere calato dall’alto che non necessita di alcuna legittimazione popolare, un potere che per affermarsi non ha neppure bisogno del rito delle elezioni e dello schermo ipocrita della liberaldemocrazia, ma è indubbiamente un potere vero, anzi, il vero potere, che in ogni momento può sconvolgere l’esistenza di ciascuno. Con altre parole, siamo di fronte ad un potere che si è costituito ed affermato al di fuori degli usuali meccanismi di legittimazione ideologica e di ricambio delle élite, un potere effettivo che utilizza gli “schermi” di un potere apparente [o sub‐potere], legittimato da ideologie liberiste, mercatiste, neoliberali e soggetto inevitabilmente al giudizio popolare, per quanto manipolato, come protezione a difesa della sua “privacy” e come espediente per mantenersi evitando futuri ricambi elitistici, in quanto può sempre sacrificare, in caso di necessità, di eccessive tensioni sociali, di evidenti “scricchiolii” istituzionali negli stati, le sub‐élite mercenarie al suo servizio sostituendole con altre [si legga, in proposito, l’inquietante Oligarchia per popoli superflui di Marco Della Luna]. A chi scrive appare fin troppo chiaro il ruolo giocato dagli organi della mondializzazione, cioè gli organi attraverso i quali emana le sue direttive il vero potere, che è quello di favorire la creazione del valore e la sua continua accelerazione, rimuovendo a tali scopi tutti gli ostacoli, come hanno fatto il FMI e la Banca Mondiale nei confronti dei paesi poveri con i famigerati “piani di aggiustamento strutturale”, per aprirli al mercato e quindi alla Rendita elitistica, o mettendo sotto la loro tutela i paesi “indebitati”, come nel caso greco, mentre i paesi ed i governi ribelli possono subire bombardamenti “umanitari”. 180 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ma naturalmente è necessario che le vere finalità perseguite non risultino chiare, ed è per questo che esistono e prosperano la disinformazione mediatica, la distrazione, le specializzazioni e le mistificazioni accademiche. Evitare accuratamente le analisi utili alla comprensione della realtà politica, sociale ed ambientale, diffondere la neolingua e consentire il nascondimento del nemico principale non sono che altrettanti compiti prioritari, assegnati dalla classe globale del nostro tempo, agli accademici ed ai giornalisti, perché è vitale per il potere effettivo nascondersi, e nascondere i flussi di ricchezza che lo alimentano. Le tre rendite elitistiche fondamentali che interessano il nostro presente, nella forma fondiaria, in quella finanziaria e in quella monetaria, rappresentano non soltanto le fonti principali della ricchezza e del potere, ma altrettante ʺarmiʺ utilizzate con spregiudicatezza dalla classe dominante globale, nel conflitto reciproco e nello stesso conflitto verticale con i subordinati, per espropriare il resto delle società umane riducendole in una condizione di assoluta impotenza e subalternità. Controllare la moneta per controllare lo stato, neutralizzando un possibile controllo di popolo e le forme autentiche di democrazia, controllare il capitale finanziario per intercettare il prodotto, influendo direttamente sulla sua stessa qualità e sulle sue dimensioni quantitative, controllare l’ambiente per controllare la stessa vita, in tutta la varietà delle sue forme, equivale a marciare separati per colpire uniti. E quelli da colpire siamo tutti noi. 181 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Profitto e creazione del valore Posto che la Nuova Rendita capitalistica è qualitativamente diversa dalle forme storiche che ha assunto la rendita nelle epoche passate [feudale, capitalistica “marxiana”, eccetera], si rende necessario tentare di ridefinire il ruolo del profitto nei nuovi contesti culturali, economici e sociali, in rapporto alla Creazione del Valore di cui beneficiano i membri della classe globale. Politiche monetarie decise a livello sopranazionale, strumenti finanziari ad alto rischio, fabbricati e negoziati fuori dei mercati ufficiali, dipendenza delle politiche ambientali, sociali e produttive dai rating stabiliti da agenzie elitistiche definite indipendenti, che esprimono giudizi inappellabili sulla “qualità” dei titoli del debito pubblico, sulla solvibilità degli stati emittenti, e concretamente sul loro grado di adesione ai precetti neolibersiti e dell’economia di mercato, impongono di rivedere il ruolo giocato dal profitto in questo primo scorcio del terzo millennio. Se Marx nella sua epoca ha previsto un graduale assorbimento della rendita capitalistica nel profitto, e lo ha fatto correttamente date le caratteristiche del modo storico di produzione da lui osservato, oggi, al contrario, il tradizionale profitto capitalistico, che nasce con l’estorsione del plusvalore dal lavoro collettivo nei recinti della fabbrica, ci appare come interamente subordinato alle esigenze della creazione del valore elitistica, ed in particolare a quella finanziaria, fino ad esserne completamente sussunto. E’ per questo che operando una Nuova Critica dell’Economia Politica globalista non si può prescindere dal rapporto fra rendita, profitto e creazione del valore né da una loro ridefinizione integrale, così come la Critica dell’Economia Politica borghese di Marx ha indagato efficacemente l’origine del profitto e della rendita capitalistici, nei concreti rapporti di produzione dell’epoca, ponendo in evidenza per la prima volta l’intimo nesso fra alienazione e sfruttamento dei subalterni, necessari per ottenerli, tanto che possiamo affermare – sia in relazione al capitalismo dello scorso millennio sia in relazione a questo capitalismo, qualitativamente diverso dal primo – che rendita, profitto e creazione del valore hanno una comune origine nello sfruttamento del lavoro dei subalterni unito indissolubilmente alla loro alienazione. Ma è alla merce ed alle sue trasformazioni nello scambio che un Karl Marx più maturo ha riservato “un posto d’onore”, nel Libro I de Il Capitale, a distanza di molti anni dai Manoscritti economico‐filosofici del 1844, in cui l’ancor giovane filosofo tedesco ha indagato [e denunciato] l’alienazione umana nei concreti rapporti di produzione ottocenteschi. Il fondamento della commensurabilità delle merci capitalistiche, che sappiamo essere cosa diversa dai semplici beni e servizi utili all’uomo in ogni epoca storica, Marx lo individua come segue: 182 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 «Non è il denaro che rende commensurabili le merci. Al contrario, le merci possono rappresentare collegialmente i loro valori nella stessa merce specifica, elevandola così a comune misura del valore, cioè denaro, in quanto come valori sono tutte lavoro umano oggettivato e quindi sono in sé e per sé commensurabili. Il denaro come misura del valore è la necessaria forma fenomenica della misura immanente del valore delle merci: il tempo di lavoro.» [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Prima: Merce e Denaro, Capitolo III: Il denaro o la circolazione delle merci] La precedente citazione non è oziosa, non è soltanto doverosa [è necessario e “legittimante”, per un antagonista come lo scrivente, citare ad un certo punto il grande Marx …], ma chiarisce molto bene, per l’ennesima volta, che il fondamento di tutto non può essere che il lavoro umano, il quale rende possibile la commensurabilità delle merci, consente di attribuirgli un prezzo – in quanto semplice «nome monetario del lavoro oggettivato nella merce» [Ibidem] – ed è all’origine del profitto capitalistico. Se questo cruciale aspetto è stato ben compreso da Marx, altrettanto cruciale diventa la sottomissione dei lavoratori per attivare i meccanismi di produzione/ esproprio della ricchezza e di dominazione, tipici del modo di produzione indagato dal filosofo idealista tedesco, in un’unità indissolubile di sfruttamento e alienazione che solo il capitalismo ha potuto raggiungere nell’intero corso della storia umana, come ha sostenuto il filosofo comunista e comunitarista Costanzo Preve. I quattro elementi che hanno contribuito a ridurre il mondo ad una rete di scambi commerciali – preparando il terreno per le rilevanti trasformazioni culturali, economiche e sociali dell’ultimo trentennio, quale presupposto per una “società di mercato” globale – sono costituiti, perciò, dal lavoro capitalistico e dalla divisione sociale dello stesso, dallo sfruttamento dei lavoratori e dall’alienazione dei subordinati, dalla forma‐merce in tutte le sue metamorfosi nello scambio, e dal profitto quale frutto del capitale. E’ della merce nello scambio e del plusvalore capitalistico che Marx si è occupato, con particolare attenzione, nella sua opera più celebre – il Libro I de Il Capitale, dedicato alla produzione dello stesso – quali elementi qualificanti di quel monstre originario rappresentato dal capitalismo proprietario e borghese, affermatosi in seguito alla prima “rivoluzione industriale” inglese. Se le merci entrano nel processo di scambio così come sono – «né indorate, né inzuccherate», ha scritto Marx [Ibidem] – è questo stesso processo ad operare una duplicazione della merce in denaro, poiché in esso si realizza la loro metamorfosi, rivelandoci la peculiarità del modo di produzione capitalistico fin dalle sue origini: «Il processo di scambio, nella misura in cui trasferisce delle merci dalla mano nella quale sono non‐valori d’uso a quella in cui sono valori d’uso, è ricambio organico sociale. […] Giunta là dove serve come valore d’uso, la merce cade dalla sfera dello 183 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 scambio di merci in quella del consumo. Poiché qui ci interessa soltanto la prima, dobbiamo considerare l’intero processo dal lato formale, dunque soltanto il cambiamento di forma, la metamorfosi delle merci, che media il ricambio organico sociale.» [Ibidem] Il processo di scambio, avverte Marx, non risolve le contraddizioni, in quanto le merci esprimono valori d’uso che si oppongono al valore di scambio rappresentato dal denaro, ma lo sviluppo delle merci crea una forma in cui le contraddizioni reali possono muoversi, ed in qualche modo risolversi. La prima metamorfosi della merce nello scambio, individuata dal filosofo tedesco [il celebre “salto mortale”], avviene con la vendita – espressa come M – D – in quanto la divisione del lavoro sociale ha operato la trasformazione del lavoro in merce rendendo necessaria la sua trasformazione in denaro. Trattandosi di un unico processo, ancorché bipolare, la trasformazione successiva non può esser che D – M, quale metamorfosi conclusiva rappresentata dall’acquisto. «Le due fasi inverse di movimento della metamorfosi delle merci descrivono un cerchio: forma merce, abbandono della forma merce, ritorno alla forma merce.», ha scritto Marx [Ibidem]. Per questo l’unico processo della circolazione delle merci è descrivibile come M – D – M, e l’esempio portato del tessitore di lino che vende la tela per comprarsi la bibbia, sulla “scena del crimine”, cioè sulla scena del processo di scambio intermediato dal denaro, è significativo delle due metamorfosi complementari M – D [vendita] e D – M [acquisto]. Se lo sviluppo della circolazione delle merci in senso capitalistico è alle origini del capitale, e secondo Marx ne costituisce il presupposto storico, è chiaro che tale sviluppo serve in primo luogo al capitale, alla sua formazione e riproduzione ed alla sua remunerazione, e i suoi “agenti storici” sono quelli che inevitabilmente ne hanno tratto maggiore, se non esclusivo beneficio, a scapito del resto dell’umanità. Ma il sistema osservato da Marx era il primo capitalismo proprietario‐borghese, fondato sull’estorsione del plusvalore dal lavoro irreggimentato nella fabbrica, un sistema che coincideva largamente e comprensibilmente con lo specifico modello inglese, il primo ad imporsi ed il più “qualificante” in tal senso, un modello peculiare di capitalismo che l’esule tedesco a Londra ha potuto indagare, con i risultati e le implicazioni storico‐politiche che ben conosciamo, da un osservatorio privilegiato. Il capitalismo di Marx era, in buona sostanza, il capitalismo borghese anglosassone ottocentesco – uno dei “capitalismi possibili”, ma non il solo concretamente affermatosi – il quale nel secolo successivo ha subito trasformazioni “di fase” rilevanti, fino ad arrivare all’autentico punto di rottura storica dell’ultimo 184 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 trentennio, che ha visto il sorgere del Nuovo Capitalismo, da intendersi come un nuovo modo di produzione sociale. Fin dai Grundrisse, i noti Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [una serie di quaderni scritti fra il 1857e il 1858], Marx gettò le basi del libro I de Il Capitale, trattando della merce e del denaro, del valore d’uso e del valore di scambio, nonché della circolazione delle merci e della trasformazione del denaro in capitale. Se in un sistema di scambio non sviluppato dominano i rapporti personali, come quelli fra il feudatario e il vassallo o fra il membro di una casta dominante e il subordinato, in un sistema di scambio sviluppato, nei rapporti di denaro esattamente come quelli imposti all’uomo dal capitale, i vincoli di dipendenza [ed interdipendenza] personale si spezzano, perdono la loro consistenza, ed il contatto fra gli individui – in apparenza non più persone propriamente dette e storicamente determinate, nei loro reciproci rapporti di dominazione/ dipendenza/ interdipendenza – sembra diventare libero ed indipendente, dove l’indipendenza secondo il filosofo tedesco è sinonimo di indifferenza. Ma la libertà dai precedenti vincoli personali che tali rapporti paiono suggerire, secondo il Marx dei Grundrisse, è tale soltanto astraendo dalle condizioni concrete di esistenza nel cui quadro si stabiliscono i rapporti, prescindendo cioè dalle condizioni effettive, indipendenti dagli individui e da loro incontrollabili, al punto da poter essere credute naturali. Posto che il capitale è in primo luogo un rapporto sociale e di dominazione, i rapporti esterni capitalistici, nella realtà, non rappresentano la rimozione progressiva, ed alla fine completa, dei precedenti vincoli di dipendenza, ma la loro risoluzione in una forma generale [più efficiente ed efficace che quelle passate, per usare espressioni economiche], onde consentire il dominio delle astrazioni su individui apparentemente indipendenti. Concependo ed esprimendo i rapporti in forma di idee, la cui “universalità” è finalizzata a farle credere eterne, si diffonde la fede nell’eternità di tali idee fra i dominati, a beneficio dei dominanti e della riproducibilità sistemica, favorendo così l’accettazione acritica dei rapporti di produzione in essere. Da qui – dall’imposizione del rapporto di capitale, “evolutosi” ed approfonditosi attraverso significativi passaggi storici che portano fino a noi – l’origine degli inganni della democrazia liberale, dell’emancipazione umana attraverso il mercato, della libera individualità, del progresso che dovrebbe migliorare, all’infinito, le condizioni d’esistenza dell’uomo sulla terra. In questo quadro ben delineato da Marx ai tempi del primo capitalismo, cioè nell’epoca dell’imposizione di un nuovo rapporto sociale e della sua “ideologizzazione sovrastrutturale”, al fine di legittimarlo, si inseriscono 185 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 pienamente i discorsi relativi alla circolazione delle merci, con l’intervento del denaro, ed alla trasformazione del denaro in capitale. Come scrive con estrema chiarezza il filosofo tedesco «La circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale.» [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Seconda: La trasformazione del denaro in capitale, Capitolo IV: Trasformazione del denaro in capitale], ed è proprio il denaro, capace di trasformarsi in qualunque merce, che costituisce l’indispensabile trait d’union fra il mondo delle merci e il capitale, rendendo possibile il passaggio logico ed effettivo da M – D – M a D – M – D’, dal quale scaturisce quel plusvalore che solo può dare un senso compiuto a tutti gli scambi, a tutte le transazioni, ed in termini generali all’intero sistema del primo capitalismo borghese, osservato nell’ottocento da Marx. Ma prima di arrivare all’analisi della formula generale del capitale marxiana, espressa sinteticamente da D – M – D’, con lo scopo di “adattarla” alle logiche ed alle dinamiche del Nuovo Capitalismo del terzo millennio, è necessario accennare brevemente al denaro – in un modo non tecnico, al di fuori della cosiddetta economia monetaria – ed al ruolo che ha giocato in tutta questa vicenda. La moneta è apparsa nella storia umana in forme originarie e rudimentali come quelle della moneta cosiddetta naturale, rappresentata dai capi di bestiame [dai quali deriva l’espressione capitale], e successivamente della moneta strumentale [oggetti di uso comune, come gli spiedi o le piastre di metallo], ma è soltanto da due millenni e mezzo che ha assunto forme da noi più riconoscibili, e più vicine al denaro che ha generato il capitale di Marx, in un’epoca in cui gli scambi commerciali erano ancora poco sviluppati, e l’autoconsumo, con un grande numero di piccoli produttori indipendenti quale “ossatura” dell’economia antica, prevalente sulle grandi produzioni a scopo di lucro. Da allora, dall’Atene che coniava monete metalliche con il simbolo cittadino della civetta, o dalla splendida moneta corinzia con il Pegaso, il cavallo alato, gli scambi commerciali si sono sviluppati di pari passo con lo sviluppo della moneta, in un mondo – quello mediterraneo, dominato prima dai greci e poi dai romani – in cui appariva e si diffondeva la prassi di far denaro con il denaro, di arricchirsi attraverso l’intermediazione, o con la diffusione sistematica [e conseguente] dello schiavismo. Lo sviluppo degli scambi commerciali è proceduto di pari passo con quello del denaro, fin dalle prime forme di capitale, segnate dall’intermediazione commerciale e dall’usura per arrivare, alla fine di un lungo percorso di trasformazione storica, al capitalismo vero e proprio. Posto che l’economia è stata creata, anzi, inventata, a partire dalla moneta e al suo sviluppo che ha condotto al capitale, Serge Latouche ci avverte che l’argomento “scienza economica” può essere affrontato da tre diversi punti di vista, 186 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 indipendenti e complementari, e cioè l’invenzione teorica [dell’economia], quella storica e quella semantica. Latouche si è occupato in modo particolare dell’invenzione semantica dell’economia – adottando un angolo visuale ben poco praticato ma rivelatore – ed ha trattato la questione della moneta in rapporto ai concetti definitori ed auto‐ referenziali dell’economia, giungendo alla seguente conclusione: «La moneta sfugge pressoché totalmente al circuito auto‐referenziale dei concetti definitori, e costituisce una specie di vicolo cieco nel dispositivo economico. La moneta è l’economia par excellence, e tuttavia essa è fuori dell’economia come mostra bene la visione classica e neo‐classica della moneta come “velo”. Istituzione essenziale all’economia concreta, la moneta è fondamentalmente esterna all’economia teorica, e piuttosto rappresenta una sorta di cordone ombelicale tra il mondo reale e il mondo incantato dell’homo oeconomicus. A dispetto di ogni tentativo di confinarla a un mero livello funzionale, la moneta tocca l’essenza stessa del sociale: il desiderio mimetico, il prezzo del sangue, il debito di vita e di morte. Interfaccia tra l’economia e la società, la moneta consente all’economia di funzionare, mentre all’economia essa appare come funzionale. In realtà la moneta non nasce dall’economia, ma fa nascere l’economia.» [Serge Latouche, L’Invenzione dell’Economia, La costruzione dell’immaginario economico, Parte II – L’invenzione semantica dell’economia] Se si opera una vera Critica dell’Economia Politica, mettendo a nudo le caratteristiche salienti del sistema osservato e scoprendone i fasci di nervi, le questioni della moneta e del denaro non possono essere trascurate, per la loro centralità, e così è accaduto con Marx, in pieno Ottocento, che uscendo dalla circolazione interna ed arrivando fino a quella mondiale ha individuato alcune importanti funzioni del denaro: «Il denaro mondiale funziona come mezzo di pagamento generale, come mezzo generale di acquisto, e come materializzazione assolutamente sociale della ricchezza in genere (universal wealth).» [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Prima: Merce e Denaro, Capitolo III: Il denaro o la circolazione delle merci] Anche se il filosofo tedesco ha riservato un “posto d’onore” alla Merce ed alle sue metamorfosi nello scambio, nei quaderni dei Grundrisse e nel Libro I de Il Capitale l’ombra del denaro è sempre presente, ed è proprio il denaro, quale astrazione molto concreta, alle origini del capitale e del plusvalore. Moneta come “cordone ombelicale” fra la realtà e il mondo fiabesco dell’uomo economico, secondo Latouche, e denaro quale materializzazione sociale della ricchezza in ogni suo aspetto, secondo Marx, rivelano la centralità, ed anche la concretezza, di quella ”astrazione” che chiamiamo comunemente denaro, o moneta, e che siamo adusi ad utilizzare nella vita quotidiana. 187 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il denaro ha una “prodigiosa” capacità autogenerativa, che moltiplica il valore ed alimenta il capitale, come ci ha insegnato Marx, e questo aspetto è evidente nella genesi del plusvalore capitalistico, che ha avuto il potere di trasformare il mondo dei rapporti sociali, di divederlo in nuove classi e di modificare i lineamenti della civiltà umana. Se il capitalista, proprietario dei mezzi di produzione, non è altro che una maschera, un ruolo sociale che tende all’impersonalità, dietro il quale può nascondersi agevolmente il denaro che diventa capitale, il capitale industriale di Marx nasce dall’estorsione del plusvalore, ed è la risultante, si potrebbe affermare con il senno di poi – ad oltre cento e venti anni dalla morte del padre dell’idea del comunismo moderno e “scientifico” – dell’imposizione del lavoro coatto e alienato, ma formalmente ed ipocritamente libero, e delle potenzialità espresse dal denaro. La circolazione semplice delle merci, da sola, non permette la creazione del plusvalore indagata dal filosofo tedesco, ed anche se il denaro si inserisce fra le merci scambiate come mezzo di circolazione, se l’atto dell’acquisto è nettamente distinto da quello della compra, si verifica una semplice sostituzione dei valori d’uso, che si accompagna al cambiamento di forma della merce [la sua metamorfosi nello scambio]. La vera fonte del cambiamento del valore del denaro che alimenta il capitale è un’altra, ed è per i possessori dei mezzi di produzione e del denaro la disponibilità, in quanto merce, della forza lavoro venduta da chi non ha altro da scambiare per procurarsi i mezzi di sussistenza, una forza che esiste, come rileva Marx, soltanto nella corporeità vivente dell’uomo. Infatti, ogni prezzo di quel grande emporio di merci [non di rado inutili o addirittura nocive] che è diventato il mondo, altro non è che il nome, espresso in moneta, del lavoro umano oggettivato nelle merci stesse. Il fatto che ci siano coloro che possiedono denaro e [quindi i] mezzi di produzione – i veri ed i soli “operatori economici” dell’economia liberale, membri della classe dominante, liberi di scegliere – contrapposti a tutti quelli che posso fidare soltanto sulla loro “corporeità vivente”, mettendo forzatamente in vendita il lavoro per poter sopravvivere, «non appartiene alla storia naturale, né, tanto meno, è un rapporto sociale comune a tutti i periodi storici: è chiaramente esso stesso il risultato di uno sviluppo storico antecedente, il prodotto di tutta una serie di rivolgimenti economici, del tramonto di una lunga catena di più antiche formazioni della produzione sociale.» [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Seconda: La trasformazione del denaro in capitale, Capitolo IV: Trasformazione del denaro in capitale] Il risultato della trasformazione storica nei rapporti economici e sociali, così come la osservava Marx in relazione al primo capitalismo, è racchiuso nella semplice espressione D – M – D’ che sintetizza la genesi del plusvalore, che ci parla del 188 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 profitto capitalistico e del “capitale industriale” nascente, con tutto il conseguente portato di problematizzazioni riguardanti l’uomo, il suo stesso habitat naturale e la sua organizzazione sociale. L’apice sulla seconda D, quella “decisiva”, simboleggia il plusvalore estorto ai lavoratori, e simboleggia, perciò, la sottomissione del lavoro al capitale industriale indagato da Marx, lo stabilirsi, sul piano della strutturazione sociale, della dicotomia Borghesia/ Proletariato, quale ordine imposto dal capitale alla società e quale principale contraddizione capitalistica. Dopo la critica dell’economia politica “borghese” operata da Karl Marx, è universalmente chiara la differenza quantitativa fra i due estremi dell’espressione, identificati con la lettera D, in quanto: «La forma completa di questo processo è perciò D – M – D’, dove D’ = D + ΔD, cioè la somma inizialmente anticipata più un incremento. Questo incremento, cioè questa eccedenza sul valore originario, io la chiamo – plusvalore (surplus value). Dunque, il valore inizialmente anticipato non solo si conserva nella circolazione, ma modifica in essa la propria grandezza di valore, le aggiunge un plusvalore, cioè si valorizza. E questo la trasforma in capitale.» [Ibidem] Se la circolazione semplice delle merci, la vendita per la compra, non ha un simile potere e rivela un fine esterno alla circolazione stessa, che è la soddisfazione di bisogni appropriandosi i valori d’uso, «La circolazione del denaro come capitale è invece fine a se stessa, perché la valorizzazione del valore esiste solo all’interno di questo movimento che non conosce tregua. Il movimento del capitale, perciò, non ha confini.» [Ibidem] E’ qui che Marx richiama in nota l’Aristotele della Repubblica, nella contrapposizione antica fra economia e crematistica [da cremata, che è appunto la ricchezza, il denaro], poiché la prima è fondata sui valori d’uso e sulla soddisfazione dei bisogni, e non esprime alcuna illimitatezza, mentre la seconda abbatte i predetti limiti e trova la sua sorgente nella circolazione, o più esattamente nell’estensione del commercio dovuta all’invenzione del denaro, che è diventato il perno dell’illimitatezza nella conservazione e nell’accrescimento delle ricchezze. Oltre a riaffermare la centralità del denaro nel passaggio [già completamente consumatosi] da un’idea più umana, a misura d’uomo nel soddisfacimento dei bisogni materiali della vita sociale, e per altri versi più “burocratica” dell’economia, quale buona amministrazione della casa e dello stato, alla crematistica che “scardina” il limite e trova il suo principio nel denaro stesso, ciò spiega il movimento del capitale descritto da Marx nella sua opera principale, e spiega, di conseguenza, i fondamenti del capitale industriale alimentato dell’estrazione del surplus value dal lavoro. 189 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Due millenni separano Aristotele da Marx, e la vittoria della crematistica – che postula l’illimitatezza della conservazione e dell’accrescimento della ricchezza monetaria come fine, rendendo possibili le infinite sequenze del valore che genera valore – è ormai chiara «Giacché il movimento in cui il valore genera plusvalore è il suo proprio movimento; quindi, la sua valorizzazione è autovalorizzazione. Esso ha ricevuto l’occulta proprietà di creare valore, perché è valore; partorisce figli, o almeno depone uva d’oro.» [Ibidem] La dinamica innescata da questo progressivo cambiamento culturale e materiale può essere descritta, efficacemente, disegnando una curva che tende all’infinito senza mai raggiungerlo. L’autovalorizzazione di natura crematistica, fondata sull’invenzione del denaro [entità astratta con pesanti riflessi concreti trasformativi sull’uomo e la socialità], sulla prevalenza del valore di scambio rispetto ai valori d’uso ed ai concreti bisogni umani [proliferazione di merci e bisogni indotti], sull’illimitatezza dell’arricchimento [sviluppo economico identificato con il progresso], ha comportato la subordinazione totale del lavoro umano alle ragioni della conservazione e della moltiplicazione [all’infinito] della ricchezza. Plusvalore, saggio di plusvalore, massa del plusvalore sono concetti, formalizzatati da Marx con l’uso di formule ed equazioni, che riportano alla divisione del lavoro capitalistica, alla separazione del produttore dal prodotto della sua opera lavorativa e all’imposizione dei tempi di lavoro. La nascita del plusvalore – tenuto conto che il pluslavoro, inteso come estorsione precapitalistica di quote del prodotto non monetizzate da parte dei dominanti, ha riguardato epoche storiche lontane – e l’accumulazione del capitale descritte da Marx, non sono frutto di “magia”, e non sono certo l’invenzione di un irriducibile critico del capitalismo, ma trovano il loro fondamento nell’”evoluzione” della crematistica attraverso i secoli, nell’irreggimentazione in fabbrica del “fattore lavoro”, nell’imposizione degli schemi lavorativi e nel lavoro eccedente del produttore subordinato [o coatto, il cui insieme costituisce la forza lavoro], cioè nel tempo di lavoro non remunerato ed eccedente la produzione dei mezzi di sostentamento del singolo. La parte del capitale anticipato, definita costante e costituita dagli strumenti di lavoro, dagli impianti e dalle macchine [che a sua volta è prodotto del lavoro, lavoro cristallizzato], cede soltanto una parte del suo valore, in quanto i mezzi di produzione trasferiscono valore al prodotto nella misura in cui perdono valore nel processo, ma «La parte del capitale convertita in forza lavoro, invece, modifica il suo valore nel processo di produzione: riproduce il suo proprio equivalente e, in aggiunta, produce un’eccedenza, il plusvalore, che a sua volta può variare, essere maggiore o minore. Da grandezza costante, questa parte del capitale si trasforma continuamente in grandezza variabile. Perciò la chiamo parte variabile del capitale 190 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 o, più brevemente: capitale variabile.» [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Terza: La produzione del plusvalore assoluto, Capitolo VI: Capitale costante e capitale variabile] E’ da lì che origina l’apice della seconda D dell’espressione D – M – D’, accrescendo il capitale anticipato per la produzione nel processo di valorizzazione crematistica [da C a C’], che ha informato, fin dal primo capitalismo, la sussunzione reale e successivamente formale del lavoro al capitale, l’alienazione marxiana dell’operaio di fabbrica, l’imposizione del tempo di lavoro eccedente che valorizza il capitale generando il surplus value, e dato che ciò che comunemente si definisce “il capitale” è, in primo luogo, un rapporto sociale stabilitosi fra gli uomini, «il capitale si è sviluppato in un rapporto di coercizione che obbliga la classe lavoratrice a compiere più lavoro di quanto lo prescriva la cerchia angusta dei suoi bisogni elementari di vita. E, come produttore di operosità altrui, pompatore di pluslavoro e sfruttatore di forza lavoro, supera per energia, sfrenatezza ed efficienza tutti i sistemi di produzione che l’hanno preceduto e che poggiavano direttamente sul lavoro forzato.» [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Terza: La produzione del plusvalore assoluto, Capitolo XI: Saggio e massa del plusvalore] La forma del capitale industriale marxiano è una forma storicamente determinata, non certo l’unica possibile e soprattutto non quella definitiva, da qui alla scomparsa della specie umana [la vera fine della storia], e come vi è stato il “superamento” delle forme precapitalistiche di capitale commerciale e usurario, per una più efficiente ed accelerata autovalorizzazione del capitale, così oggi, in un panorama culturale ed economico inedito, in vista dell’affermazione definitiva di un nuovo rapporto sociale, è nata una nuova forma di capitale, qualitativamente diversa da quella descritta a suo tempo da Karl Marx: Il capitale finanziario derivato, frutto di una metamorfosi “evolutiva” della crematistica, che lo scrivente riassume nell’espressione “Creazione del Valore azionario, finanziario e borsistico”, per renderne riconoscibile il senso. La premessa indispensabile è che oggi siamo davanti ad un nuovo modo storico di produzione sociale, il quale, adottando l’[insuperata] ottica strutturale marxiana nell’analisi dei modi di produzione, presenta i seguenti elementi strutturali, elencanti di seguito in un ordine “cronologico”: I] I rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive, quale elemento originario qualificante [secondo l’analisi marxiana] di ogni modo di produzione storicamente esistito, con lo sviluppo delle forze produttive che dipende dai rapporti di produzione in essere. II] L’ideologia di legittimazione sistemica, che per la sua crucialità è elemento strutturale e non sovrastrutturale, tenendo conto di ciò che concretamente significano espressioni come Progresso, Libero Mercato, Investitori, e della 191 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 funzione ideologica [non di rado a sfondo messianico] che concretamente svolgono nella vita sociale. III] Manipolazione antropologico‐culturale dei subalterni su vasta scala, attraverso l’uso di strumenti mediatici, attraverso il lavoro precarizzato e flessibilizzato, l’alimentazione, la farmacologia e la chimica, l’elettronica e l’informatica, la diffusione della droga oltre i confini di classe, l’imposizione di stili e modelli di vita in funzione del riproducibilità del dominio elitistico, con le nuove forme di alienazione umana nei rapporti sociali – oltre lo schiavismo classico di matrice precapitalistica e l’alienazione marxiana dell’operaio di fabbrica – che lo scrivente ha definito in altra sede neoschiavismo precario e meta‐alienazione [Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, 2011]. IV] Creazione del Valore azionario, finanziario e borsistico, sua imposizione e sua progressiva accelerazione, quale ultima metamorfosi dell’arte di far denaro con il denaro superando, rimuovendo o travolgendo qualsiasi limite, un’arte indagata una prima volta da Aristotele nel mondo antico, nelle forme ancora “arcaiche” come il piccolo commercio, reso possibile dall’invenzione della moneta, e poi da Marx in età capitalistica, attraverso l’analisi della genesi e delle dinamiche riguardanti il capitale industriale. V] Crisi come assetto strutturale assunto dal Nuovo Capitalismo del terzo millennio, che rappresenta un efficace strumento, con respiro planetario [la prima crisi globale del 2007/ 2008 né è l’esempio], di dominazione dei subordinati e di estrazione/ creazione del valore. Il capitale finanziario derivato, che si afferma come forma prevalente ed originale del nuovo modo di produzione sociale agli inizi del terzo millennio, e tende a “dilagare” nel mondo come ultimo tentativo di colonizzazione integrale dell’occidente, nasce dalla sussunzione del capitale industriale di marxiana memoria – e concretamente degli organismi produttivi, delle fabbriche, dei bacini di materie prime, degli impianti industriali [il capitale costante], della Merce e della stessa forza lavoro impiegata [il capitale variabile, all’origine del plusvalore] – alla rendita di natura finanziaria, in un processo di subordinazione della cosiddetta razionalità economica, o strumentale, e dello stesso profitto indagato da Marx, alle accelerazioni imposte dalla Creazione del Valore azionario, finanziario e borsistico, che costituisce la punta più “avanzata” della crematistica espressa dal nuovo capitalismo. Il commercio alimentato dalla comparsa della moneta, ai tempi di Aristotele, e il capitale industriale nella produzione del capitale indagata da Marx, costituiscono espressioni storicamente determinate della travolgente avanzata della crematistica, ed anche il capitale finanziario derivato è un frutto dell’arte di creare ricchezza – potenzialmente illimitata, ma riservata a pochi – che deve essere riferito ad una 192 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 precisa dimensione storica e sociale, quella attuale, in cui si superano i limiti di tolleranza dell’ambiente e della stessa economia “reale”, contrapponendo in modo esasperato, parossistico, l’assenza del limite che caratterizza la nuova Creazione del Valore alla finitezza delle risorse naturali ed alla tolleranza dell’uomo, che deve essere perciò manipolato con ogni mezzo per adattarlo ad un nuovo e più intenso sfruttamento. In particolare, l’accelerazione dell’autovalorizzazione del capitale, concentrata nel periodo breve grazie all’uso di strumenti finanziari e di supporti informatici – dopo la caduta del saggio di profitto dal 1960 al 1980, che ha segnato uno storico punto di svolta e la “crisi” del capitale industriale – entra in aperto conflitto, come mai è accaduto nelle società della crescita che si sono succedute dal 1500 ad oggi, con i tempi geologici richiesti per la ricostituzione di risorse naturali ed energetiche, indispensabili a questo livello di sviluppo, che non a caso si definiscono “risorse non rinnovabili”. La dimensione finanziaria, capace di generare rendite illimitate e di sopravanzare di decine di volte i volumi del P.I.L. mondiale, ha offerto una miriade di strumenti per quella “moltiplicazione dei pani e dei pesci” che è la risultante della Creazione del Valore azionario, finanziario e borsistico nel breve termine, ma per assicurare questo risultato non si è limitata ad intercettare il valore prodotto in uscita, ma ha sussunto completamente la produzione, e quindi il capitale industriale. L’espressione che può sintetizzare questo nuovo processo di produzione della ricchezza, partendo dal Marx de Il Capitale, è la seguente: D – [d – m –d’] – D’’. La produzione del capitale finanziario derivato, come si nota nell’espressione generale proposta, contiene la formula del capitale [industriale] marxiana, e l’ultima D, quella cruciale con doppio apice, mostra come l’autovalorizzazione del “capitale anticipato” in tale caso dipende sia dall’effetto finanziario [aumento delle quotazioni di borsa, reenginering e vendita di organismi produttivi attraverso la cessione di pacchetti azionari, incasso di dividendi, operazioni speculative sui titoli attraverso compravendite nel breve o l’uso di prodotti derivati] sia dall’estorsione classica del plusvalore, che però è sussunta, anzi, addirittura immersa nel nuovo processo di Creazione del Valore. Un valore creato che alimenta la rendita finanziaria e si rende disponibile, dopo la realizzazione, per nuove accumulazioni nel breve, con ulteriori incrementi della rendita finanziaria. Quello che conta non è neppure la ricerca del più basso costo di produzione, se la produzione in sé non è più un fine, ma è il diktat finanziario dei Mercati e degli Investitori, che sono i primi beneficiari di questa autovalorizzazione. Se il plusvalore, per il Marx del capitale industriale, inteso quale «valorizzazione del valore capitale anticipato C, si rappresenta in primo luogo come eccedenza del valore del prodotto sulla somma dei valori degli elementi della sua produzione.» 193 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Terza: La produzione del plusvalore assoluto, Capitolo VII: Il saggio di plusvalore], ed è rappresentabile come C’ = (c + v) + p, con C’ il capitale originario trasformato, c il capitale costante, v il capitale variabile e p il plusvalore, in relazione alla trasformazione del capitale finanziario derivato vale la seguente espressione: C’’fd = Cfd + [(c + v) + p] + f, dove Cfd è il capitale finanziario originario disponibile per le speculazioni, la parte centrale è quella relativa al capitale industriale anticipato marxiano accresciuto dal plusvalore [c’, questa volta in minuscolo], mentre f è il guadagno finanziario che alimenta [assieme a p, il tradizionale plusvalore] l’accresciuto C’’fd. Si può supporre, per pura ipotesi, che qualche “grande prenditore” della classe globale acquisti il pacchetto di controllo di Fiat auto, influendo sulla gestione dell’azienda [e quindi sulla produzione di auto, che dovrebbe essere ancora la “competenza distintiva” Fiat], ricapitalizzandola, quando serve e soltanto se serve, in vista di futura vendita e conseguenti guadagni, riservando però una parte rilevante del suo capitale originario alle speculazioni finanziarie sul titolo attraverso i derivati. In questo caso, beneficerebbe sia dell’estrazione classica del plusvalore [massacrando più o meno come Marchionne la forza lavoro italiana e degli altri paesi] sia dei guadagni finanziari dovuti ai movimenti del titolo in borsa [e soprattutto di questi], relativamente indipendenti dall’andamento delle vendite di auto Fiat in Italia, per considerare un paese a caso, o altrove in Europa. Anzi, se dotato di grandi capitali “da anticipare” in senso finanziario, potrebbe determinare nel senso voluto i movimenti del titolo e dei prodotti derivati che lo hanno come sottostante. Si è definita l’ultima forma assunta dal capitale “capitale finanziario derivato” – che ha come formula generale D – [d – m – d’] – D’’ – in quanto è chiara la sua origine finanziaria, esterna alla razionalità strumentale che dovrebbe governare il “vecchio” capitale industriale, ed in quanto nella finanza derivata [future, opzioni su titoli, swap, prodotti “over the counter” personalizzati fuori dei listini di borsa, eccetera] esiste sempre un sottostante, con espressione esotica underlying asset [attività sottostante, dalla quale discende il diritto di acquistare o vendere], che ci riporta a beni concreti, ad attività produttive e complessi aziendali, a situazioni di debito‐credito e a stock di materie prime. Ma nell’accelerazione dell’autovalorizzazione del capitale caratteristica di questi anni, il sottostante è sempre subordinato all’esigenza di creare valore, sia che si tratti di azioni G.M. o Fiat sia che si tratti di mutui‐casa concessi ad “incapienti” e cartolarizzati, così come non ha importanza se si tratta di titoli farmaceutici o del settore elettronico, oppure di sacchi di patate. Infine, se la formula generale marxiana della forma capitale industriale compare nella parte centrale dell’espressione con lettere minuscole, mantenendo la seconda 194 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 lettera d un apice simboleggiante il plusvalore, non è per uno sfregio gratuito al grande Marx [i cui “strumenti”sono in parte ancora utilizzabili per la comprensione della realtà], ma essenzialmente perché l’estrazione del plusvalore è qui subordinata alle logiche di natura finanziaria, che governano la produzione e sottomettono, oltre al lavoro, lo stesso capitale industriale, con una doppia sussunzione del lavoro al capitale. Ciò comporta, come scritto in precedenza, la sussunzione dell’estorsione marxiana del plusvalore alla Creazione del Valore azionario, finanziario e borsistico, anzi, la sua completa “immersione” nel processo, quasi che sia una corrente che scorre in un vasto oceano, come ad esempio la corrente del golfo nell’Atlantico. Bisogna però ricordare che se un interruzione della corrente del golfo, accelerata dall’azione antropica, potrà comportare mutamenti climatici rilevanti, tali da cambiare la vita in una parte del mondo – in tal caso l’Europa, che subirebbe in pieno ed in profondità i rigori dell’inverno – così il progressivo degrado, e la riduzione sotto una certa soglia in occidente, della produzione industriale, permanendo l’accelerazione finanziaria della Creazione del Valore, potrà forse inceppare il meccanismo, poiché l’origine della ricchezza, per quanto mediata e derivata come accade nei nostri tempi, è pur sempre riconducibile al lavoro sociale e collettivo, alle produzioni concrete. Si torna sempre, volenti o nolenti, alla centralità del lavoro, vittima di una doppia sussunzione che oggi fa scomparire persino i drammatici problemi sociali scatenati dalla nuova crematistica, e conviene ricordare, giunti a questo punto, la definizione che diede Karl Marx del lavoro umano: «Il lavoro è in primo luogo un processo fra uomo e natura; un processo nel quale l’uomo media, regola e controlla con la sua attività il ricambio organico con la natura. Egli agisce nei confronti della stessa materia naturale come una forza della natura.» [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Terza: La produzione del plusvalore assoluto, Capitolo V: Processo di lavoro e processo di valorizzazione] Anche il lavoro è dunque una forza della natura [non un’astrazione pura], ma se questa forza è mal diretta, o è prigioniera in una camicia di forza creata da un sistema feroce ed assurdo per contenerla e sfruttarla, può generare disastri, cambiamenti drammatici e improvvisi, autentici cataclismi, come quelli che talvolta ci riserva l’ambiente naturale. Il lavoro coatto, precarizzato e impoverito, migrante e doppiamente sussunto, potrà diventare la principale contraddizione nell’era del capitale finanziario derivato, così come lo fu il lavoro proletario e operaio per il capitale industriale analizzato da Karl Marx. 195 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Si può andare oltre Marx, tentare di superarlo definitivamente per comprendere una nuova realtà, ma alla fine, per qualche motivo, si è sempre costretti a tornare a Marx. 196 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Gli idioti, la Lega e Berlusconi Articolo del 27/04/2011 Se non ci fosse di mezzo una guerra civile, un intervento aereo internazionale ed una situazione di rischio nell’intero Mediterraneo, ci sarebbe da ridere. Noi non ridiamo di certo, nell’incertezza che ancora grava sul numero di morti in Libia, e su quanti dovranno ancora morire prima che la guerra finisca, ma constatiamo che tutti gli idioti e gli individui in malafede che hanno “creduto” in Berlusconi difensore della sovranità nazionale, nel suo governo appoggiato dal puntello xenofobo‐leghista ed alimentato dal consenso degli evasori fiscali, dei socialmente stupidi e degli ignoranti manipolati, oggi incassano una smentita integrale e si prendono, purtroppo soltanto in senso figurato, una bella legnata sui denti. Fino a ieri o all’altro ieri, c’erano coloro che esaltavano Berlusconi ed il suo miserabile blocco di potere quale baluardo dell’autonomia dello stato italiano nei rapporti internazionali, dei sovrani interessi del paese e di quelli dell’industria nazionale. Il trattato di amicizia con la Libia di Gheddafi, l’intesa con il rais per bloccare sulle coste d’Africa i migranti, gli interessi in termini di approvvigionamento energetico e gli affari in Libia, dal gas alle ferrovie, avrebbero costituito una prova della volontà berlusconiana e del suo esecutivo di tenere alta la bandiera dell’Italia, muovendosi nello scacchiere mediterraneo [ed internazionale] con una qualche autonomia. Gli industrialotti locali hanno pregustato, e in qualche caso concretamente ottenuto, alcune commesse dalla Libia, fino a poco fa un paese abbastanza tranquillo e abbastanza ricco. Autonomia nazionale rispetto a chi e a cosa, si chiederà qualcuno? Ma rispetto agli USA, naturalmente, alla grande finanza ed alla famosa “manina di oltre oceano”. Finalmente! Hanno pensato qualche idiota, apostata marxista e neocapitalista, qualche intellettuale da operetta e qualche teorico fallito [facilmente riconoscibile in rete] … Finalmente qualcuno che non partecipa ai Britannia Party e si muove con un po’ di indipendenza, in modo goffo ma spregiudicato, facendo marameo alle amministrazioni americane [ e cucù alla Merkel], disattendendo ogni volta che gli è possibile i diktat d’oltre oceano ed i sovrani, onninvasivi interessi della finanza anglo‐americana. Tanto più che i contatti con i “cattivi” della terra, come il terribile Putin del celebre lettone, sembravano fruttuosi, tali da portare, ad esempio, alla partnership Eni‐ Gazprom ed alla partecipazione alla costruzione degli ambiti gasdotti [non importa se con o senza tangenti]. 197 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ma poi si è visto che di intenzioni che si suppongono buone sono lastricate le vie dell’inferno, ed il baciamano fatto a Gheddafi da Berlusconi si è rovesciato nella partecipazione dell’Italia ai bombardamenti sul compound‐caserma del rais a Tripoli. Una partecipazione limitata, per la verità, che prevede l’impiego di qualche aereo – del resto, l’Italia mette già a disposizione le basi ed è parte dell’alleanza NATO – non più di una ventina, anche se in un alcune dichiarazioni si parla di otto velivoli [27 aprile, 8 aerei pronti al decollo con il loro carico di morte, secondo La Russa], in altre di dodici aviogetti. Ma non importa il numero, quello che conta è “il pensiero” … Ed il pensiero è che Berlusconi e l’Italia da lui soggiogata sono asserviti alle grandi potenze d’occidente, tanto che il recente incontro del cavaliere con Sarközy ci ha rivelato, secondo un Bossi furente, che l’Italia è ormai diventata una colonia della Francia … anche grazie a Berlusconi. Quella che è sembrata ad alcuni la resa di Berlusconi ai francesi, arriva contestualmente ad una serie significativa di eventi, dall’affaire Lactalis‐Parmalat ai bombardamenti per compiacere gli “alleati”, fra i quali Sarközy. L’Italia colonia della Francia nel Mediterraneo? Forse … e speriamo almeno di diventare con il tempo “territorio metropolitano francese”, come sono la Guadalupa e la Martinica. Non si può sempre dire di sì – come fa Berlusconi, quando si trova davanti a qualcuno più potente e determinato di lui [quasi tutti] – ha tuonato Bossi, con i suoi parlamentari, esponenti di partito e ministri nell’inedita veste dei pacifisti che si preoccupano di fermare la guerra e di proteggere i popoli nordafricani, in ciò confortati da una base allineata ed improvvisamente apprensiva per le sorti dei libici! Se fino a ieri la lega padano‐bossiana, dai vertici alla base, dal parlamento italiano al più profondo nord, voleva mitragliare i barconi degli scafisti, condannando i poveri migranti ad una fine atroce ed illudendosi, in questo modo feroce, di risolvere alla radice il problema dei flussi migratori, oggi la stessa, dai vertici alla base, da Borghezio al bottegaio delle valli bergamasche, si scopre improvvisamente pacifista, contraria ai “bombardamenti umanitari”, attenta alla tutela dei diritti dei popoli più sfortunati ed animata da un Humanitas che fino a ieri non avremmo neppure sospettato … Un’altra conversione di massa leghista, dopo di quella al crocefisso ed al cattolicesimo romano? C’è da dubitarne, purtroppo, e qualche sospetto in proposito dovrebbe nascere persino nei bimbi che hanno da poco raggiunto l’età scolare. C’è dunque una frattura in quel blocco politico che mantiene in carica, ad ogni prezzo [anche a costo della svendita dell’Italia] Berlusconi, e questa frattura si 198 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 ripropone nella base elettorale, formata da evasori fiscali, socialmente idioti, ignoranti manipolati, beoti, farabutti, ingenui, distratti, eccetera? Calderoli contro La Russa? L’impresario veneto o lumbard contro il bauscia milanese o brianzolo, berlusconiano con tanto di SUV? La spaccatura sembra seria, questa volta, al punto che c’è stato il prudente rinvio del consiglio dei ministri, per non far affiorare le divisioni interne allo stesso esecutivo. La Lega farà veramente cadere il governo, a breve termine, come sperano i fantasmi dell’opposizione, privi di sostanza e di programma politico, a partire dal patetico Bersani? Azzardo una previsione, in proposito: io dico di no. La Lega si comporterà – alla fine della fiera, dopo aver abbaiato ed essersi agitata, dopo aver soddisfatto il suo popolino con proclami roboanti – come fecero anni addietro, in una situazione vagamente simile, i comunisti italiani di Diliberto e Cossutta, che spaccarono Rifondazione, ma poi rimasero con il culo saldamente posato sulle poltrone … di governo. Ma nel frattempo qualche aereo italiano parteciperà ai bombardamenti su Tripoli, Parmalat diventerà in gran parte francese, e grazie ad una grande OPA politico‐ economica, alla quale Berlusconi non ha né la forza né la volontà di opporsi [probabilmente non gliene importa nemmeno …] la Francia fagociterà l’Italia, mangiandosi le parti buone e sputando i resti. Finirà così? Forse, del resto per sapere quello come andrà a finire, in questa Italia ormai priva di sovranità, con un governo incapace, un’opposizione inesistente ed una guerra alle porte, potrebbero non bastare – non dico le mie superficiali note – ma i vaticini della Sibilla Cumana. 199 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Una Confindustria di assassini e stragisti Articolo del 09/05/2011 E’ inutile girare intorno alle questioni, con espressioni ipocrite, eleganti perifrasi o distinguo pelosi, quando sono chiare ed inequivocabili. Ci sono situazioni in cui è inutilizzabile, come schermo, anche il “politicamente corretto”, e questo è esattamente il caso degli applausi tributati da una platea di confindustria [che da questo momento in poi scriverò, per disprezzo, con l’iniziale minuscola] all’amministratore delegato di Thyssenkrupp, Espenhahn, un assassino condannato a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario, in seguito alla morte di sette operai nello stabilimento di Torino il 7 dicembre del 2007. Qualsiasi giustificazione si può addurre, davanti alle ovazioni tributate dal consesso di industriali ad un assassino e stragista, nato dalla putrefazione del peggior capitalismo mutante, non è sufficiente, non basta per non farci dire: ecco cos’è veramente confindustria, un covo di sfruttatori e parassiti disposti alla strage, abituati da troppo tempo al caviale dei contributi erogati con i soldi pubblici ed allo champagne del profitto estorto ai lavoratori. Dietro l’aspetto austero, moderatamente piacente ed elegante di Emma Marcegaglia, si malcela un nido di serpenti, assassini e sfruttatori che si fanno apertamente beffe della sicurezza sul lavoro, degli stessi operai caduti sulle linee di produzione, perché tanto il lavoro è interamente a carico degli altri, e la cosa non li riguarda, se non nel momento di intascare gli utili e di consolidare la loro posizione di privilegio. La vecchia immagine dell’imprenditore‐puttaniere privato usata dai soliti “comunisti” otto‐novecenteschi, il quale sfruttava cinicamente i lavoratori, costringendoli ad oltre dieci ore di lavoro giornaliere per la mera sopravvivenza, mentre lui se ne andava tranquillamente a puttane [ieri cocotte ed oggi escort] e si baloccava nel vizio con i frutti del lavoro coatto altrui, oggi ci sembra tornata prepotentemente di moda, quanto mai veritiera ed attuale. Gli applausi di una platea di assassini e sfruttatori ad un loro complice, condannato ma naturalmente a piede libero – perché i veri assassini in questo sistema non pagano mai, confermano una volta di più che non esiste “il lavoro libero” capitalistico, ma agiscono forme di costrizione che in questa epoca tendono a diventare più stringenti, tanto è vero che un ministro della repubblica, nella persona di Giulio Tremonti, ha dichiarato tempo fa in merito alla sicurezza sul posto di lavoro, dalla legge 626 del 1994 al Testo Unico Sicurezza Lavoro [Decreto legislativo n. 81 del 2008] che avrebbero dovuto garantirla per tutti: “robe come la 626 sono un lusso che non possiamo più permetterci”, perché troppo costosa, una mera zavorra nella competizione globale. 200 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ma forse è meglio dire, con chiarezza, non ci si può più permettere la sicurezza sul posto di lavoro – accettando come se nulla fosse le morti bianche, quali incidenti collaterali dello “sviluppo economico” – esclusivamente perché limita il profitto intascato dalla stessa platea di assassini e schiavisti che ha applaudito Espenhahn. Altri ministri in carica [Romani, Calderoli] hanno debolmente condannato, ma senza esagerare nel biasimo, l’atteggiamento benevolo, anzi, apertamente favorevole, di confindustria nei confronti dell’AD pluriomicida di Thyssenkrupp, parlando di “applauso improprio” [Romani] o “fuoriluogo” [Calderoli]. Pur apprezzando la moderata e cauta umanità di questi ministri [Romani e Calderoli] davanti alla sfacciatezza degli assassini che si riconoscono e si applaudono pubblicamente, devo rilevare che l’applauso non è improprio né fuoriluogo, ma rappresenta il più palese riconoscimento che Harald Espenhahn è in tutto e per tutto uno di loro, figlio della stessa logica sistemica e membro della stessa classe, e fa quello che anche loro cercano di fare, per perseguire obbiettivi di puro arricchimento personale, di carriera e di potere vendendo la pelle degli altri, se necessario. Il rischio d’incendio c’era, alla Thyssenkrupp di Torino, e la cosa era nota alla dirigenza che aveva deciso di continuare la produzione, senza però provvedere alla manutenzione degli impianti, in uno stabilimento in dismissione, tanto che in quel tragico 7 di dicembre del 2007 si poteva dire che le morti erano annunciate, e che potevano essere evitate manutenendo gli impianti ancora in attività. Anche le condizioni di pulizia dell’ambiente di lavoro, tali da incidere sulla sicurezza, erano in quel caso discutibili, tanto che il giorno dopo l’incidente [8 dicembre 2007] la ditta incaricata delle pulizie che da tempo interveniva “a chiamata”, dovette pulire tutte le linee di produzione, meno l’ultima, quella in cui si era verificata la tragedia, perché posta sotto sequestro giudiziale. Il risparmio sulla sicurezza e quello sulle stesse pulizie dell’ambiente di lavoro, la rinuncia alla manutenzione degli impianti, che possono costituire un pericolo per l’incolumità fisica dei lavoratori, hanno un solo scopo: alimentare il profitto, la creazione del valore ad esclusivo beneficio dell’”azionista” [l’Investitore], davanti al quale in questo liberalcapitalismo sovrano non c’è etica né legislazione che tenga. In altre parole, c’è chi si sente al di sopra della legge civile e penale degli stati, riconoscendo soltanto “la legge del mercato” che per lui significa ricchezza e potere e per moltissimi altri sfruttamento, povertà e morte. Anzi, ai gradi ed ai livelli più alti della scala sociale, i grandi Investitori sono “esenti” anche dalla spietata legge del mercato, che colpisce sempre e soltanto i subordinati, quale strumento di dominazione e sistema di razionamento ed esclusione imposto. Altro che il vecchio ordigno islamico Bin Laden che si sognava nuovo califfo, ma ormai quasi arrugginito, morto da poco oppure, secondo altre fonti, dieci anni fa … 201 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sappiamo bene, qui, in occidente chi e cosa rappresentano il vero pericolo per il nostro futuro! E’ ora di finirla di parlare di “imprenditori buoni” in contrapposto a quelli “cattivi”, di bere menzogne come quelle della “coesione sociale”, di cercare “concertazioni” che penalizzano sempre e comunque lavoratori e subordinati. Il nemico sociale va riconosciuto e combattuto senza esclusione di colpi, altrimenti si moltiplicheranno le platee che applaudiranno con esultanza gli stragisti e gli assassini di questo capitalismo, mentre noi saremo condannati in massa ad una nuova, più pesante e più invasiva servitù, a quel punto senza scampo. 202 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Total Market (Mercato Totale) Saggio del 16/08/2011 «Venite, venite tutti nel mondo nuovo di zecca, e non crediate che sia un banale racconto di fantapolitica, o di fantasociologia, o di pura fantasia, non crediate, signori, che si tratti di una distopia come un’altra, nata dal genio di qualche scrittore che pazientemente ha elaborato il soggetto, e poi ha fatto i soldi vendendo i libri. Tutto ciò che vedete è reale. E’ il Mercato Totale.» Potrebbe essere questo l’incipit di un racconto, o di un saggio decisamente atipico, su quello che oggi sta capitando nel mondo, fra i cinesi del dragone mercatista, che si infuriano con i politici americani di ogni colore, accusandoli di gestione allegra delle pubbliche finanze che potrebbe farli scivolare nella merda anche loro, in quanto grandi creditori degli USA con il maggiore debito del mondo, e l’America sulla difensiva, vecchia aquila solitaria, che sconta impotente il declassamento dei T‐bond da parte di un supremo ufficio globalista – l’Agenzia di Rating – il quale si permette di decidere allegramente delle sorti della potenza americana e di tutti gli altri paesi. Che poi si tratta di Standard & Poor’s o di qualche altra Suprema Agenzia Globale di valutazione più di tanto non ci importa, perché sappiamo che ce ne sono pochissime e tutte rigorosamente private, tre se ben ricordo, incaricate di diffondere ad esclusivo beneficio degli Investitori, su quei Mercati che sono il vero centro del mondo, assieme alle crisi periodiche la Voce del Padrone. Per la verità, anche i globalisti “emergenti” di Pechino hanno un’Agenzia di Rating, che per ora non conta quasi niente, e la vecchia Europa dell’Unione, sotto attacco speculativo per il debito – ultima frontiera dell’esproprio capitalistico e della tirannia integrale di Mercati e Investitori, vorrebbe costituirne una, alternativa alle tre sorelle, bastarde e privatissime, che fanno il bello e brutto tempo, ma non è così semplice, per un’unione senza autonomia. Il colpo di mannaia inferto dal boia, nelle esecuzioni medievali circondate da una sacralità rituale mista a bestialità, oggi si chiama con espressione esotica Downgrade, che vuol dire semplicemente declassamento per favorire gli appetiti della speculazione, perché i tempi da allora sono cambiati, molto cambiati, e il colpo di mannaia globale, destinato a separare la testa dal corpo, o ancor meglio i soldi dagli imbecilli, come disse Keynes buonanima, non riguarda più la singola vittima sacrificale, sia essa un villano o un barone, un servo o un signore caduto in disgrazia, ma un intero popolo, un’intera nazione, con donne, vecchi e bambini inconsapevoli e innocenti, quelli che prima se la cavavano e quelli che erano già nelle ambasce per conto proprio. 203 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il Rating, volendo continuare nei paragoni storici assolutamente liberi, è come la sentenza inappellabile del Tribunale della Santa Inquisizione, che alla fine condannava ad un rogo purificatore la vittima, non prima però di essere passati per la tortura. E tortura significa, in questo caso, l’oppressione e il ricatto globalista esercitati sui popoli, attraverso le controriforme de‐emancipatrici impostate, a livello nazionale, da gruppi politici di collaborazionisti, sempre e comunque interni al perimetro maledetto della democrazia liberale. E’ soltanto la guerra di classe che si ripresenta in altre forme, per la verità, e loro la stanno vincendo, avendone acquisito il monopolio agli inizi dell’Era del Nuovo Capitalismo Finanziario e del Mercato Totale, che surroga la Politica, la Filosofia, la Religione, sottraendosi al loro controllo, e trasforma la vita in qualcosa di alieno, finalizzandola in tutte le sue forme a creare valore per i dominanti. Mai come oggi potere effettivo, grande ricchezza e prestigio sociale sono stati così concentrati nelle mani di pochi. E poi c’è un’ennesima paura, quella della “double‐dip recession”, cioè di una spaventosa recessione‐depressione, e si riaffaccia lo spettro della deflazione, la quale sarebbe dovuta, secondo i filocapitalisti che dominano e manipolano lʹinformazione, alla bassa crescita economica. Ce n’è per tutti, anche per quelli che fino a poco tempo fa erano saldamente paesi “sviluppati”, con un PIL fra i più grandi del mondo. E’ il caso della Francia, che da parte sua è molto preoccupata, perché sa che potrà essere il prossimo obiettivo degli appetiti speculativi della Classe Globale, una volta liquidata e spolpata fino all’osso la debole e inconsistente Italia, e conciati per le feste i potenti Stati Uniti. Non c’è alcuna fretta, perché pur avendo confermato la tripla A al galletto bizzoso (vedi quello che ha combinato in Libia) la Suprema Agenzia di Rating potrà declassarlo con comodo nel prossimo futuro, quando i tempi saranno maturi e arriverà l’input dalla misteriosa speculazione. Ed ecco che l’esecutivo francese per compiacere Mercati e Investitori annuncia manovre sui conti, entro il 24 di agosto, esattamente come fa il governo italiano (oltre 45 miliardi di euro), che però anticipa i francesi, sacrificando ai suddetti idoli del liberismo sanguinario, la stessa vita della popolazione e il futuro delle generazioni più giovani. In Europa, quella dell’unione monetaria imposta furbescamente con il miraggio della creazione di una grande area del benessere, la vecchia Ghigliottina francese, o la Garrota spagnola che strangolava la vittima, hanno cambiato nome e sono diventate magicamente Lo Spread con il Bund, cioè i punti di differenza con quel titolo, con quella astrazione del debito pubblico tedesco che finanzia la relativa potenza economica dei crucchi, da decenni i primi della classe in continente. 204 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Man mano che si allarga la forbice con il titolo tedesco, maggiori sono gli interessi da pagare sul debito, più stringente è il ricatto nei confronti degli stati e più difficile diventa piazzare i titoli. Così è per il BTp decennale italiano e per il bonos spagnolo, ad esempio, ma tende a diventarlo anche per la Francia (fino a poco fa distante di soli 70 punti dal bund). I mercati sono andati a ribasso bruciando risorse, poi hanno rimbalzato, ma si sa che la speculazione onnivora guadagna sia in un senso sia nell’altro, e si diverte a provocare le tensioni sui mercati finanziari, azionari e borsistici – strumento sotto il suo pieno controllo – che se ne vanno periodicamente sulle montagne russe, arricchendo gli sciacalli e gli assassini della Classe Globale. «Voici le temps des assassins», scrisse in pieno ottocento Rimbaud nelle sue Illuminazioni, evocando la setta nizarita di sicari consumatori di hascisc del vecchio della montagna, e quel tempo oggi è arrivato, annunciato dal neoliberismo e dai monsoni della globalizzazione, solo che gli assassini non sono una setta esoterica, ma una nuova classe dominante che si è mangiata la vecchia borghesia proprietaria e si sta mangiando il mondo intero: quella globale. Il gioco che fanno i mercati è un gioco truccato (e di morte per milioni e milioni di uomini) in cui il banco vince sempre, e tutti gli altri sono destinati a perdere. Miracoli del Mercato Totale, o Total Market, per essere più aderenti con le espressioni esotiche che si usano diffusamente, nell’era del trionfo dell’economia liberale anglo‐americana, che non è una scienza rigorosa, come si è fatto credere per oltre un secolo, ma l’unica Religione ammessa e da imporre a chiunque. Infine, dopo i piccoli paesi, la Spagna, l’Italia e la stessa Francia nel prossimo futuro, toccherà anche a quei vigliacconi dei tedeschi pagarla cara, nonostante che ancora si sentano con il culo relativamente al sicuro, perché la speculazione non si fa scrupoli e non si fermerà nemmeno davanti al Bundestag, o ai resti ammutoliti della Porta di Brandeburgo. I fuochi distruttivi dell’ultima guerra dei cent’anni, quella del Novecento, in cui il modello di capitalismo liberista di mercato ha fatto piazza pulita dei concorrenti, sono stati progressivamente sostituiti da quelli finanziari, economici e virtuali, ma così reali, dell’ultima guerra di classe. Nel recente passato, i crucchi relativamente al sicuro hanno fatto la voce grossa con la povera Grecia, progressivamente ridotta alla fame e alla “schiavitù per debiti”, in difesa di quel marco mascherato che è l’Euro, ma anche lui saldamente nelle mani della Classe Globale come tutto il resto. Hanno fatto ciò che hanno ordinato i globalisti, riformando il “capitalismo renano” per adattarlo ai nuovi scenari, hanno convertito progressivamente l’economia per l’esportazione (ad imitazione, in un certo senso, dei ligi cinesi, nell’ottica dei costi comparati, in ricordo degli insegnamenti di quel figlio di puttana che era l’agente di cambio David Ricardo), hanno pagato un po’ di meno gli operai e puntato 205 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sull’Innovazione, osservando da bravi sottomessi tutti e cinque i pilastri della fede liberista. Ma anche questo non basterà, perché non basta mai, alle cavallette globali che spogliano in un istante i paesi come se fossero campagne ubertose, riunendosi in sciami e scomparendo poi all’orizzonte per altri obiettivi e saccheggi. Si comprano il mondo, non solo le isole in Nuova Zelanda per andarci a vivere nel caso tutto collassi, e così fanno i loro imitatori e pari grado “emergenti”, a partire dagli stramaledetti cinesi (non i poveracci, i contadini, gli operai, le sottoclassi, bene inteso, ma i nuovi globalisti di Pechino). Se l’America declinerà ancora, dopo l’abbassamento del Rating, potrà essere la Cina a subentrare, e a diventare il principale alfiere della Globalizzazione neoliberista e del Mercato Totale, il suo cane da guardia prediletto. In una lettera recente, che parrebbe un po’ riservata, anche se si è avuta notizia della missiva attraverso i media, due loschi figuri al soldo dei globalisti, Trichet al vertice della BCE e Mario Draghi che lo sostituirà in novembre (agente di Goldaman Sachs, uomo di ghiaccio della Spectre globalista), hanno “consigliato” al pagliaccesco e surreale governo italiano in carica di privatizzare tutto – Eni, Enel, Finmeccanica, le poste, le scassate ferrovie nazionali, ogni cosa – di vendere ciò che rimane ancora in mani pubbliche fin da subito, sottratto al Mercato Totale, senza attendere il 2013 o data da destinarsi, di continuare rapidamente e diligentemente a distruggere lo stato sociale e di massacrare il lavoro senza pietà con la libertà di licenziamento, dopo la precarietà diffusa e la consistente perdita di reddito e di diritti già subita dai lavoratori. Inutile dire che il “consiglio” vincolate è stato accolto senza fiatare. Il buontempone di Arcore, quel vecchio ritinto e sempre sorridente che ancora puttaneggia, dopo aver partecipato all’attacco alla Libia battendo i tacchi davanti ai veri decisori, e boccastorta Bossi, sempre più insopportabile per i gesti volgari ostentati in pubblico (ad uso e consumo della suburra bottegaia padana, o per deriva senile), nonché l’astuto Tremonti che se ne sta opportunamente in disparte truccando i conti, hanno accettato di buon grado e obbedito alla Voce del Padrone, e lo farà anche il gioviale e confuso Bersani se arriverà al governo nel 2012, come spera (grazie al collasso dell’esecutivo attuale), con il suo misero e raffazzonato cartello elettorale di provincia. E poco importa che la BCE abbia consentito l’acquisto di titoli del debito pubblico italiano e di bonos spagnoli, per alcuni miliardi di euro, riducendo di un po’ lo Spread con il Bund e il tasso d’interesse, perché la carota è molto più piccola del bastone, e non eviterà una serie infinita di manovre correttive, in Italia come in Spagna e altrove in Europa, tali da mettere con il culo per terra la maggioranza della popolazione, già provata dalla crisi precedente e da un buon ventennio di de‐ emancipazione feroce. 206 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’unica cosa che Bossi, Berlusconi e Tremonti sono ancora in grado di proteggere, è l’evasione fiscale, quella definita ipocritamente “piccola” (la grande, come sappiamo, si difende da sé e si impone), espressa dagli impresari, da certi professionisti, dai patrimonializzati e dai bottegai, che costituiscono una base elettorale essenziale, uno zoccolo duro originario, per la maggioranza “di governo”. Ben sapendo che domani potrebbe toccare anche a loro, impresari, sedicenti professionisti, patrimonializzati, bottegai e commercianti, hanno sostenuto con il consenso questo sistema delinquenziale, e continuano a farlo mostrando ciò che veramente sono quei gruppi sociali. Altro ché “ceti produttivi”, in grado di far ripartire l’economia del paese! L’aumento delle imposte sui redditi da lavoro dipendente, sui pensionati e sui poveri, costretti a pagarle portandosi addosso quasi per intero il peso della spesa pubblica, si chiama con vigliacca ipocrisia “contributo di solidarietà”, e da questo saranno esentati, di fatto, i bottegai evasori, gli impresari, i furbi e gli imbroglioni, la teppaglia parassita bossiana. Una “solidarietà” a senso unico, che fa il paio con la “coesione sociale”, imposte a chi non si può difendere con una pistola puntata alla tempia, e che significano semplicemente l’intensificazione della razzia e del saccheggio, la distruzione del futuro per moltissimi. E’ chiaro che dietro lo slogan “libertà delle imprese e delle professioni”, si nascondono il furto, il saccheggio, la grassazione, il degrado della cosa pubblica, e dietro uno schermo di falsa legalità si malcela l’economia criminale, parallela a quella “legale” del Mercato Totale, a questa indissolubilmente legata e ben tutelata in tutte le sue sfaccettare, dal traffico di schiavi alla droga, dal commercio di armi a quello di organi umani. La iena Marcegaglia, al vertice di quella Confindustria di stragisti e assassini che ha applaudito l’ad omicida di Thyssenkrupp, Harald Espenhahn, condannato a 16 anni e mezzo per omicidio volontario, chiede un’altra controriforma delle pensioni e l’ennesima cinghiata ai lavoratori, mentre si sviluppa un grottesco confronto fra Bossi boccastorta che ha piegato la testa davanti ai padroni globalisti, ma autoproclamatosi propagandisticamente difensore dei pensionati, e il giullare deforme Brunetta, contattato da Bankitalia per agire punitivamente, in sede di manovra governativa e di sua approvazione, contro lavoratori e pensioni. Perciò, chiunque difende questo sistema (e sappiamo quali sono quegli spregevoli gruppi sociali, che fanno il gioco della Classe Globale, appoggiando governi fantoccio) è da considerarsi a sua volta un ladro, un criminale e uno stragista di innocenti, o comunque un loro complice, e come tale dovrà essere trattato pagando per intero i propri crimini, senza alcuna attenuante, quando la storia finalmente svolterà. 207 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’iniquità sociale è conclamata, ed anzi ostentata, difesa e promossa da ministri abbietti del “calibro” di Sacconi, incaricato di massacrare il lavoro e i lavoratori, o di Tremonti supremo ragioniere‐mercenario al soldo dei Mercati, come se questa giustizia a rovescio fosse l’unica chiave possibile per il rilancio delle attività produttive, e per riacciuffare un benessere ormai perduto mentre se ne scappa altrove. E il presidente della repubblica firma il decreto‐capestro solerte, avallando così la manovra voluta dagli Organi della Mondializzazione standosene comodamente al Quirinale, anche lui tributario dei globalisti, anche lui piccolo Quisling liberaldemocratico, che svolge le sue “funzioni istituzionali” sempre più spesso contro gli interessi della grande maggioranza del popolo italiano. Ecco la politica liberaldemocratica italiota, piegata come un fuscello dalla maggioranza di governo alla così detta opposizione parlamentare (ma non potrebbe essere diversamente) davanti alla classe dominante planetaria e al Mercato Totale, costretta a adottare, nelle linee guida essenziali, un unico programma imposto di tagli e vessazioni al quale non si può sfuggire. Niente più spazi giuridici di difesa per i lavoratori, niente più intervento dello stato nell’economia, perché ci devono pensare i Mercati e gli Investitori a quella, massacrando i lavoratori e mangiandosi le attività produttive, e niente più incrementi della spesa pubblica per scopi sociali e redistributivi, vietati dalle logiche di rapina dominanti. Ma in compenso aumenti dell’età pensionabile, divieti di promozioni, per i lavoratori, prima di entrare in quiescenza, accordi in deroga per licenziare, tagli alle pensioni, blocco degli stipendi e del turn‐over nel settore pubblico, e tanta, tanta miseria e precarietà per tutti, qui come in Grecia, in Portogallo, in Spagna, e prossimamente anche altrove nella vecchia Europa che fu “del benessere”. Sostenere i consumi aumentando i redditi, a livello di massa, ed inglobando tutti nel sistema, non è più un imperativo categorico capitalistico, e al profilo consumatore‐produttore si sostituisce rapidamente quello del precario‐escluso. Questa è la sostanza del “consiglio” dato al governucolo italiano per ridurre debito e deficit dai compiti macellai sociali Jean‐Claude Trichet e Mario Draghi, certi che per ora e per il prossimo futuro i popoli se ne staranno buoni, e nessuno potrà metterli al muro, con impeto rivoluzionario, giustiziandoli come meriterebbero. Qualche scervellato in mala fede, in questo marasma foriero di drammi planetari – forse dimenticando che in passato sono scoppiate guerre ragioni simili, o anche per meno – s’illude che gli stramaledetti capitalglobalisti cinesi ci salveranno il culo, qui, in Europa, e cerca di farlo credere a tutti i poveri idioti che gli capitano a tiro. Attraverso i vertici della banca centrale cinese, i membri rampanti della Classe Globale di Pechino, già da tempo avevano proposto un paniere di valute, come riferimento sul Mercato Totale in sostituzione del dollaro americano, ma è chiaro 208 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 che questo non salverà l’Europa in declino, e che le élite cinesi vorranno comprarsi il vecchio continente, un giorno, a prezzi di saldo, come stanno facendo da qualche tempo con l’Africa. Altri paraculi che da tempo mi paiono un po’ scervellati (e sono ancora poca cosa i “complimenti” che gli faccio), presenti anche qui, nella penisola, dentro e fuori la rete, scrivendo le stupidate peggiori e più deliranti spacciate come analisi hanno cercato negli ultimi anni di far credere ai villani contemporanei, cioè agli idiotizzati dal sistema che brancolano come fantasmi in questa Italia da fine della storia, che è tutta una questione di Geopolitica – il Supremo Risiko giocato da strateghi sopraffini sulla pelle dei popoli – e di Corsi e Ricorsi Capitalistici, nell’eterno ritorno delle stesse cose, un po’ modificate dal maquillage della storia. Traducendo in linguaggio corrente, prima il monocentrismo, con una sola potenza che domina, dopo il policentrismo, con potenze in competizione e blocchi continentali, poi ancora il monocentrismo/ unipolarismo e il policentrismo/ multipolarismo a seguire, e fra mille anni sarà ancora così, perché non ci si deve illudere che il capitalismo possa morire, o collassare di schianto, ed altre minchiate di questo tenore per complicare inutilmente le loro teorie. Si tratterebbe, insomma, di un gioco a scacchi fra potenti e fra capitalismi diversi, dal quale tutto il resto è escluso ed anche noi lo siamo, irrilevanti nella storia e nei giochi strategici del potere. Si esclude in modo truffaldino la dimensione sociale, che è l’unica a contare, si blandisce il fantasma della Lotta di Classe (la vera Guerra decisiva per la Liberazione), condotta dagli sfruttati e dalle vittime di questo capitalismo, esattamente come fanno i globalisti, che ne hanno acquisito pro tempore il monopolio. Si fa credere ai beoti ed agli idiotizzati che una volta messo a posto il Golem americano, togliendoli il foglietto dalla fessura (preminenza del dollaro, possibilità di finanziamento di un debito sempre più colossale, riduzione conseguente della potenza militare), ridimensionati o rifluiti gli States nella loro fortezza continentale grazie alla rinata potenza russa dell’”eroe” dagli occhi di ghiaccio Vladimir Putin, o grazie all’attivismo degli “emergenti” ultracapitalisti del(l’ex)partito comunista cinese, tutto potrebbe andarsene a posto come le tessere di un mosaico facile da ricomporre. Con l’eclisse della potenza americana, tornerebbe a risplendere, su una Gaia sorridente, il Sol dell’Avvenir Multipolare, e potrebbe finalmente nascere l’immaginaria Eurasia, dalla Manciuria ad Oporto, dalla Cina mercatista al Portogallo in crisi. Niente di più falso, perchè sappiamo bene, lasciando perdere questi piccoli imbroglioni, che il capitalismo è penetrato ovunque come un virus, da occidente ad oriente, ed è mutato fino a diventare il Mercato Totale che incombe su di noi come 209 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 una piovra gigante, frutto dei sogni sbagliati dell’uomo trasformatisi in incubi molto concreti, e non è certo un incidente di percorso, una stortura prodotta dai processi di globalizzazione alla quale si potrà ovviare, o un mostro di origine extraterrestre come in certi film di seconda scelta. Cambiando forma e paradigmi il capitalismo ha mutato l’esser umano, riducendolo in occidente – e tanto più nella fragile e insignificante Italia berlusconiano‐leghista – ad una comparsa idiotizzata e precaria, ad unʹombra di se stesso che non riesce neppure a capire l’evidenza, e ad osservarsi allo specchio riconoscendosi, per come è ridotto. E’ il grande esperimento, in dimensioni mai tentate prima nella storia umana, impostato da un buon ventennio per la creazione e la diffusione dell’uomo precario, adatto a vivere servendo il Mercato Totale e la classe dominante che si nasconde dietro di lui, ed è un elemento strutturale, permanente, decisivo, del modo di produzione del terzo millennio: il Nuovo Capitalismo Finanziario. Un elemento strutturale decisivo, frutto della manipolazione antropologica e culturale, perché il Capitale è un Rapporto Sociale diffuso fra gli uomini, oltre le apparenze in cui si materializza, e necessita dunque di un ampio consenso, sia pur da creare artificialmente, sminuendo l’uomo e trasformandolo in una forma di vita altra da sé, altrimenti fin da subito, individuato facilmente il nemico, si sparerebbe ovunque per le strade, in occidente e persino nelle piazze finanziarie principali, e tutto sarebbe rimesso in discussione. E’ per questo che nel breve, purtroppo, non ci sarà un’altra presa della Bastiglia, o l’occupazione dell’ufficio del telegrafo in Pietroburgo (come quel giorno d’autunno, in Russia, nel 1917), ma soltanto fuochi insurrezionali, simili a quello più recente di Londra e dintorni, e a tanti altri che si sono già accesi e poi spenti, a partire dagli anni novanta. Si constaterà una frantumazione irrimediabile della protesta in mille rivoli locali, che quasi sicuramente non avranno la forza per provocare il collasso definitivo del sistema, o per agire in profondità inceppandone i meccanismi. Per ora le insurrezioni sono appannaggio delle bande o di gruppi di marginali, ma in futuro non è escluso che coinvolgano diffusamente i ceti medi impoveriti e il nuovo lavoro operaio flessibilizzato. Come mi ha rivelato un mio conoscente, che è un filosofo e un viaggiatore da poco partito per un lungo viaggio che lo porterà a perdersi in Indocina, nel Laos, dove vorrebbe andarsene a vivere fino alla sua dipartita, «Ormai qui non ci rimangono che due alternative: la fuga o la lotta armata». Tutto vero, ma se la Lotta Armata non sarà il riflesso necessario di una Lotta di Classe e di Liberazione cosciente – la “guerra santa” del futuro – che potrà trovare adesioni nella nuova Classe Povera capitalistica, e resterà confinata dentro il 210 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 perimetro della rabbia e dell’antagonismo di minoranze isolate, i suoi effetti non potranno essere decisivi. Da parte loro, i supporter liberisti dei giornali, delle televisioni, delle università – una banda numerosa più dei funghi velenosi, del tutto interna a questo capitalismo – spergiurano ai quattro venti che il Mercato ci salverà in un impeto di ripresa, con o senza la stramaledetta Cina e gli altri “emergenti”, ma quasi certamente con. Sostengono che la globalizzazione non si può fermare, che non si può più togliere il foglietto dalla fessura al Golem in corsa, in quella Praga surreale che è divento il mondo, ma che bisogna sottostarvi chinando il capo, e si fregano le mani perché la credono un processo irreversibile. Gli stessi farabutti, sono quelli che suggeriscono di azzerare completamente lo stato sociale, di tagliare la spesa pubblica all’inverosimile, di privatizzare il privatizzabile (anche i governi ridotti a fantoccio), di pareggiare i bilanci pubblici o di andare in attivo come se fossero aziendali, di abbandonare vecchi, orfani, malati ed indigenti per le strade, al più soccorsi dalla fantomatica “carità privata” o da una chiesa trasformata interamente in refettorio per moltitudini di affamati e di derelitti. Spiace contraddire il “compagno” Galapagos, che scrive sul Manifesto dell’undici di agosto «Paghiamo il disordine dell’economia reale», sostenendo che questa volta, a differenza del 2008, la crisi non affonda le sue radici negli imbrogli delle banche, bensì nel caos dell’economia reale, ma questo, che per l’articolista è disordine e caos, non è altro che il “corretto” funzionamento del capitalismo contemporaneo, che per sua stessa natura non può rinunciare alle crisi, agli espropri, e al massacro indiscriminato dei popoli. Si deve puntare con decisione sui cinque pilastri della fede liberista, che trovano la loro sintesi venefica in quel Baal contemporaneo che è il Libero Mercato Totalizzante, e che esige quotidianamente sacrifici sanguinosi: Produttività, Efficienza, Efficacia, Competitività globale, Innovazione. Instabilità generalizzata, crisi economica e insicurezza esistenziale dovranno perciò regnare sovrane, nei prossimi anni, non concedendoci un attimo di respiro. «Diventa imprenditore di te stesso» – come suggerisce uno slogan truffaldino diffuso ad arte – e lavora per tutto il tempo di vita cercando lavoro, autosostentati come lo schiavo abbandonato a sé stesso da un padrone invisibile, ma ben riconoscibile, che scarica sulla vittima i rischi e l’onere del mantenimento dopo avergli tolto la libertà e la dignità. E intanto il pianeta se ne va a puttane, verso una nuova estinzione di massa come quella del Permiano di oltre 250 milioni di anni fa, o quasi, con decine di specie viventi che scompaiono ogni giorno, senza che quasi nessuno se ne accorga, o comprenda la portata del dramma che si svolge sotto i nostri occhi, eccezion fatta, forse, per qualche “piccola” catastrofe naturale, o indotta dalla fame di energia e di 211 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 produzione, che non può passare inosservata (la New Orleans dell’uragano Katrina, le periodiche “onde del porto” in Asia, l’incidente nucleare di Fukushima). Dilagano la fame e la malnutrizione, l’acqua è destinata a diventare un lusso da pagare sempre più caro, ma niente può fermare il Mercato Totale, e la Globalizzazione irreversibile che ne propaga l’ombra. L’uomo sopravvive (ma per quanto ancora, come lo conosciamo?) nell’incubo matriaciale di un progresso che non gli porterà alcun benessere per il futuro, sia pur soltanto materiale con assoluta prevalenza dell’avere sull’essere, come si faceva credere nel tempo automobilistico di Ford o in quello moderatamente emancipativo di Keynes, dopo il secondo conflitto mondiale, ma soltanto schiavitù diffusa e declino inevitabile. Morte le “aspettative crescenti” non restano che aspettative terrificanti, e tutta l’angoscia conseguente. E’ dunque finita, nello schianto delle crisi capitalistiche, la grande illusione della modernità, che ci hanno narrato, pigliandoci per il culo per generazioni, fin dalla più tenera età? E’ l’ultimo colpo di coda di un capitalismo che per riciclarsi e sopravvivere a sé stesso è diventato Nuovo Capitalismo Finanziario derivato, alle soglie del terzo millennio, innescando un nuovo modo di produzione e una nuova società? E’ l’apogeo di una storia iniziata nel settecento, preparata fin dal cinquecento con il saccheggio del nuovo e del vecchio mondo (accumulazione originaria del capitale, secondo l’espressione di Marx) e destinata a finire male, molto male? O è semplicemente l’inizio di una distopia non letteraria che i prossimi decenni trasformeranno definitivamente in una triste realtà, e che non ci lascerà più scampo? «Chi vivrà, vedrà», suggerirebbe come risposta la saggezza popolare, ma il fatto è che vivere sarà sempre più difficile, e non lo sarà soltanto per quei miliardi di individui che arrancano in situazioni di schiavitù, di semischiavitù o di fame, per i figli dell’esodo che arrivano con le barche, a piedi, o nei cassoni dei camion in Europa, per gli operai cinesi implotonati dal regime capitalista fin dalle campagne, per i contadini indiani che perdono la terra e si tolgono la vita, per gli europei in declino (lavoro operaio, precari, ceti medi impoveriti e lavoro intellettuale declassato), ma per lo stesso popolo americano, che ha creduto in un grande sogno di libertà individuale, infarcito di frontiere e di padri pellegrini, di conquiste sanguinose ma stabili, pronto però a trasformarsi da un momento all’altro nel suo doppio, e cioè nel peggiore degli incubi che la storia umana abbia mai prodotto. Il capitalismo liberista di mercato, nella forma contemporanea del Nuovo Capitalismo Finanziario, che attraverso i processi di globalizzazione contamina ogni angolo del mondo, come se fosse una peste planetaria immune a qualsiasi antidoto, destinata a travolgere ogni resistenza sul suo percorso, e non certo una 212 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 panacea per il genere umano (paesi “emergenti” compresi) o il salvifico approdo della storia. Perciò, che ci sia un furbastro di avvocato di colore appena cinquantenne alla Casa Bianca, che ha iniziato a “studiare” per presidente degli States subito dopo la laurea, piuttosto che un ottuso militare reazionario attento agli umori dell’”America profonda”, o in alternativa l’indimenticabile Cita di Tarzan, indubbiamente più simpatica e in buona fede degli altri due, non ha la minima importanza, perché tutto continuerebbe allo stesso modo. Parimenti, se la scelta per l’Italia, che ormai non conta nulla e può esser tranquillamente vessata, si riduce a due “scartine di briscola” come Berlusconi e Bersani, con il contorno di Bossi boccastorta che fa il gesto dell’ombrello per sfotterci, Casini in Caltagirone che scalpita per la presidenza del consiglio, il poeta Vendola, declamante nei comizi, e il compassato ma inconsistente Fini, non ci si sposta di una virgola da questa situazione. La politica ufficiale, dagli Stati Uniti all’Italia, ormai non è che il water closed della Classe Globale, il sanitario destinato a raccogliere le sue deiezioni e a soddisfare, per così dire (ma senza troppa ironia), i suoi bisogni più impellenti. In questa ottica, che è quella corretta (ma non politicamente in senso liberaldemocratico, per fortuna), l’Unione Monetaria Europea e la BCE sarebbero il bidet dei globalisti, per non parlare, poi, della Banca Mondiale e del FMI che hanno un raggio d’azione più ampio. Le Agenzie di Rating sono il lavandino, in cui la nuova classe dominante si lava le mani pilatescamente, dopo aver massacrato attraverso i meccanismi del Rating e del Downgrade, i titoli del debito pubblico di un intero paese e con loro la sua popolazione, e la vasca da bagno ben simboleggia i club (il forum di Davos, il Bilderberg group), in cui l’élite globale si rilassa, discute dei destini del mondo, e volendo essere ironici, muove le flotte e le portaerei (quelle americane, inglesi, francesi), come se fossero paperelle o barchette di gomma che galleggiano allegramente nell’acqua della vasca(sic!). E’ possibile che il cesso (la politica liberaldemocratica) e il bidet (gli organi sopranazionali) della Classe Globale ci salvino dalle furibonde incursioni, sempre più ardite e devastanti, di “Mercati e Investitori”, i quali non altro non sono se non il diverso nome che hanno assunto, per terrorizzarci e ridurci all’impotenza, i nuovi dominanti globali? Dove sono finiti gli Stati, come li conoscevamo un tempo, e dove sono i Popoli? Che fine ha fatto la lotta di classe – ma quella sacrosanta dei dominati contro i dominanti – mi ripeto ancora una volta a distanza di anni? La sola risposta possibile è la seguente: fagocitati dal Mercato Totale e neutralizzati dai suoi riti astrusi, ma nel contempo così chiari e finalizzati all’esproprio, alla rapina, al saccheggio indiscriminato, annullati nella potenza simbolica delle 213 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 immagini che il nuovo potere produce, in sostituzione delle vecchie icone ormai svalutate, piegati al volere di dominanti estranei, per loro stessa genesi, ai paesi, alle nazioni, ai popoli. Checché ne dicano gli intellettuali in malafede e i falsi anticapitalisti farneticanti (questi ultimi ridotti a minoranze innocue, ma fastidiose), o le schiere innumerevoli di giornalisti e accademici che spingono le masse, per meschino interesse personale e per carriera, a adorare il Mercato Totale e la sua terribile libertà di massacrarci, come se fosse l’idolo definitivo alla fine della storia. Con altre chiavi di lettura, dal sapore mistico e religioso (che però io non adotto facilmente), Total Market potrebbe addirittura approssimare la bestia sdoppiata delle Apocalissi, il numero 666, la fine del mondo, l’esito della più infausta delle profezie. Se in altre civiltà c’erano i profeti e i sacerdoti, incaricati di legittimare il potere vigente e di giustificarne le nefandezze, nell’evo del Mercato Totale ci sono gli economisti che li sostituiscono indegnamente. E a che servono gli economisti se non a fare gli officianti della bestia contemporanea, cioè del Total Market da adorare a tutti i costi, senza alternative e vie di scampo, con la convinzione dell’idiota o con la paura del sottomesso? Prendiamo, ad esempio, l’officiante‐nobel Paul Krugman, che di recente sul New York Times ha spergiurato che i titoli del debito pubblico americani valgono la tripla A (e non solo le due A miserelle, di seconda schiera, seguite da un più), e che sono non gli USA del crepuscolo targati Clinton‐Obama ad essere inaffidabili, ma è Standard & Poor’s che li declassa impunemente, perché ha assegnato la tripla A ai subprime contribuendo ad innescare la crisi del 2008 (alla quale fra poco ne seguirà una ancora più grave e profonda), ha valutato al massimo Leheman fino a poco prima del crollo (quella delle quattro sorelle un po’ bastarde che è stata cannibalizzata dalle altre) ed ora attacca gli USA, sbagliando clamorosamente i calcoli di qualche biliardino di dollari, come ha avuto modo di constatare il tesoro federale americano. E ancora, che questa situazione è colpa non della pochezza e dell’incuria dell’amministrazione Clinton‐Obama, ormai palesi, ma della destra americana (un variegato branco di fanatici ignoranti, fondamentalisti compresi), la quale è disposta a mandare a fondo il paese pur di liberarsi dell’odiato presidente nero. Sarà vero, almeno in piccola parte, ma ciò che il nobel in mala fede Paul Krugman (officiante della bestia) non ci dice, pur sapendo tutto quanto alla perfezione come “addetto ai lavori” di alto livello, o come persona “informata dei fatti”, è che è il sistema deve funzionare così per continuare a reggersi, e che questa crisi, annunciata dal Downgrade USA e dall’instabilità europea, è un suo elemento strutturale imprescindibile, quanto lo fu la precedente del 2008. 214 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Questo è l’ultraliberismo della globalizzazione, e la crisi è il suo vento, che soffia con sempre maggiore insistenza sul mondo, intensificando le raffiche là dove calano gli sciami di locuste della speculazione. E che cos’è la speculazione, se non un altro elemento strutturale, e quindi imprescindibile, fondante, essenziale, del Nuovo Capitalismo Finanziario? Un elemento che è opportuno chiamare, con un’espressione articolata per renderlo maggiormente riconoscibile ai più, creazione del valore finanziaria, azionaria e borsistica, destinata a sussumere nel tempo la vecchia estrazione marxiana del plusvalore. Non si tratta della riproposizione su vasta scala del capitale usurario, sia pur in una forma più complessa, articolata e attualizzata, ma è qualcosa di nuovo e di originale, come lo è il modo di produzione sociale che si nasconde dietro al Mercato Totale, modificando l’uomo e i fondamenti della civiltà. Al capitale industriale e produttivo, descritto da Marx nel primo libro del Capitale, si sostituisce in cima alla piramide il capitale finanziario derivato, che ho deciso di definire in tal modo perché sotto la miriade di prodotti derivati, frutto di un’astrazione, di calcoli, formule ed algoritmi, e presenti in ogni angolo del Mercato, si nasconde pur sempre qualcosa di reale, una ricchezza non illusoria, ma concreta, i complessi produttivi ancora concentrati in grandi unità o riorganizzati in forma reticolare, i bacini di risorse e i prodotti della terra, le automobili e l’elettronica, persino la vita, umana e non umana, in tutte le sue forme, che sanguina e si rinnova. L’underlying asset (il cosiddetto sottostante), alla fine dei giochi e della fiera, è la vita stessa, in tutte le sue sfaccettature e i suoi aspetti, ben oltre il tempo di lavoro e la mera produzione di beni e di servizi, trasformati in merce capitalistica. Si passa dalla vecchia espressione marxiana D – M – D’ che sintetizza la genesi del plusvalore (Denaro – Merce – ancora Denaro, ma accresciuto dall’estrazione del plusvalore dal lavoro), alla nuova espressione che descrive il capitale finanziario derivato D – [d – m –d’] – D’’, in cui è contenuta l’espressione originaria marxiana (riprodotta con le minuscole, ma non certo per mancanza di rispetto nei confronti del grande Marx), e dalla quale appare chiaro che il doppio apice sulla seconda D è l’incremento finale e decisivo del capitale, di natura finanziaria e speculativa, di tale importanza da sancire, e imporre, la doppia sussunzione del lavoro e la totale sottomissione delle classi subalterne. Si velocizza così la spremitura degli organismi produttivi (flessibilizza il lavoro, ristruttura, usa e getta), e di conseguenza la creazione del valore a beneficio della classe dominante – in una “moltiplicazione dei pani e dei pesci” che non può avere una fine, o rallentare progressivamente fino a fermarsi – e con lei la distruzione delle risorse, comprese quelle non rinnovabili. 215 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Le logiche di natura finanziaria hanno preso il sopravvento su tutto, e dominano la produzione, sottomettendo a sé il vecchio capitale industriale di Marx. Il Mercato Totale e Unificato, indispensabile per la Creazione del Valore Finanziario, Azionario e Borsistico, ne è la risultante, e il “processo di flessibilizzazione delle masse”, tuttora in corso, ne costituisce una premessa indispensabile, quanto e più dell’ideologia capitalistica, che è un altro elemento strutturale, assieme a quello più tradizionale e più proprio, secondo l’impostazione marxiana, che unifica i rapporti di produzione dell’epoca e il conseguente sviluppo delle forze produttive. Checché ne dicano in proposito i marxisti più ortodossi, sopravvissuti all’estinzione, o la triade di economisti‐officianti di questo capitalismo Stiglitz, Krugman e Attali, che ha sostituito i grandi classici delle origini, Ricardo, Malthus e Say e che rappresenta soltanto un’economia politica timidamente (e falsamente) critica, ma sostanzialmente interna. Ciascuno dei modi storici di produzione – a partire da quello comunistico‐ comunitario delle origini, definito da Marx nelle sue analisi “comunismo primitivo”, fino ad arrivare a questo capitalismo postborghese, postproletario e postmarxiano – è retto da elementi strutturali imprescindibili, la cui funzione è simile a quella delle fondazioni di un edificio che devono resistere nel tempo, e impedirgli di crollare su se stesso poco dopo la costruzione. Sono questi elementi che “reggono il sistema” e lo caratterizzano, consentendogli di svilupparsi e di allontanare nel tempo i pericoli dissolutivi. Volendo riassumere gli elementi della struttura del nuovo modo di produzione sociale, in un ordine che definirò cronologico, ci si accorge che sono sostanzialmente i seguenti: 1) Rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive. 2) Ideologia di legittimazione capitalistica. 3) Processo di flessibilizzazione di massa e costruzione sociale dell’uomo precario. 4) Creazione del valore finanziario, azionario e borsistico. 5) Crisi come assetto strutturale del nuovo capitalismo. Infine, nell’era del Mercato Totale e nel tempo della Classe Globale dominante, dopo il Downgrade dei bond americani, avremo sicuramente altre prove che la potenza statunitense è per le nuove élite cosmopolite semplicemente un mezzo e non un fine, uno strumento come un altro da utilizzare per i propri scopi privatissimi, e poi da gettare assieme al popolo americano, sostituendolo con strumenti nuovi, e non è certo l’imperialismo classico e autonomo rispetto ad ogni 216 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 altra forza, caparbiamente sopravvissuto al novecento e alla guerra fredda, che cerca di mantenere la sua presa sul pianeta. Gli Stati Uniti non sono un bastione geopolitico sovrano in rapido declino, che ha fallito il sogno di un ordine planetario unipolare, caduto il quale il mondo si avvierà verso il meglio – ma senza mai abbandonare il capitalismo – grazie al sorgere e l’affermarsi di nuovi poli d’attrazione guidati da potenze “buone” (Russia, Cina, India), come hanno cercato e cercano di farci credere tuttora certi buontemponi in mala fede. La sostanza del problema è sociale e di classe, oggi come non mai, e non è di certo di natura geopolitica, nell’ottica puerile di un Risiko planetario, così come il Capitale è un rapporto sociale storicamente determinato, e non un riflesso dell’eternità, che ci abbaglia impedendoci di vedere, una volta giunti alla fine della storia. Sarà quella Cina mercatista, nata con la globalizzazione e il Mercato Totale, il prossimo strumento prediletto dalla Classe Globale planetaria, in un inedito compromesso, che sa di grande business e di partnership fra le èlite orientali in ascesa e quelle occidentali che vorrebbero conservare la loro preminenza? Potrebbe essere così, perché gli apostati del maoismo hanno aperto ai capitali globalisti occidentali i territori saldamente sotto il loro controllo, attraverso gli strumenti politici dello stato e del partito, da bravi compagni di merende hanno mantenuto partecipazioni del cinquanta per cento, collaborando con la Classe Globale (della quale sarebbero entrati a far parte a pieno titolo), ed hanno consentito lo sfruttamento della popolazione del vecchio impero di mezzo senza fare una piega. La Lunga Marcia dal comunismo maoista al capitalismo globale delle esportazioni di prodotti scadenti, ha avuto la sua origine alla metà degli anni settanta, con le prime riforme “modernizzanti” di Zhou Enlai, allora prossimo alla morte (1976, commorienza, o quasi, di Enlai e Mao Zedong). Le élite cinesi si sono trasformate, nel corso dei decenni successivi, da inflessibili guardiani della Rivoluzione Culturale maoista, e confuciano‐marxista, a cani da guardia della globalizzazione e del Mercato Totale, ed hanno contribuito ad abbassare la “qualità della vita” in occidente e nel mondo intero. Ci sarà in tempi brevi un paniere di valute in sostituzione del dollaro, ormai esausto, togliendo al pesce americano – che i globalisti alla fine si mangeranno in padella, la qualità di prestatore di ultima istanza, come se fosse l’acqua dello stagno? Si allargherà ancora la Nato, ampliandone gli obiettivi, per mantenere in efficienza uno strumento militare di pronto impiego, a disposizione di lor signori? Chissà. 217 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Non sarò di certo io a profetizzare a vuoto, come fanno gli economisti molto ascoltati, o alcuni professori con le idee confuse e la spocchia dell’onnisciente, ma nel frattempo: «Venite, entrate a milioni, a miliardi nel mondo nuovo di zecca. Inizia un evo della storia umana dagli esiti imprevedibili, destinato a durare più a lungo di tutti gli altri. Ciò che potete vedere è interamente reale, e non è finzione, è il Mercato Totale stracolmo di merci cinesi a basso costo e di nuove, rutilanti illusioni. Lasciatevi fagocitare come in un abisso, o in un sogno artificiale, e non abbiate timore!» 218 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Cavalcare la tigre oggi Saggio del 20/08/2011 Nel lontano 1961, quando l’Italia appena uscita dalla fase della ricostruzione postbellica era in pieno boom economico e teneva il posto, nel mondo capitalistico dell’epoca, che al presente occupa la Cina, uscì un libro strano, che si poteva definire a pieno titolo controcorrente, scritto da un filosofo che i più consideravano sbrigativamente un fascista e che aveva fatto della difesa di una tradizione remota, completamente perduta già agli inizi del novecento, lo scopo della sua esistenza. Questo filosofo era il barone Giulio Cesare Andrea Evola, più noto come Julius Evola e per il suo libro – che andava contro l’evidenza (e le illusioni) di uno sviluppo economico trasformativo dei costumi e degli assetti della società di allora, e contro la nuova integrazione di massa che già si prospettava, aveva scelto il titolo di Cavalcare la tigre. Lo scrivente, per quanto da molti anni abbia aderito ad una visione anticapitalistica di tipo comunistico e collettivistico, conosce un poco l’opera di Julius Evola, a partire dalla fondamentale Rivolta contro il mondo moderno, pubblicata in Italia per la prima volta nel 1934, a Gli uomini e le rovine comparso dopo il disastro della seconda guerra mondiale, fino agli ultimi suoi scritti, prima della morte del filosofo, avvenuta nel giugno del 1974 in quella Roma che lo vide nascere. Evola l’antipatico, l’”anarco‐fascista” dell’individuo assoluto, lo snob con il monocolo fuori moda, che da giovane portava per distinguersi da quelli del suo tempo, il sostenitore pentito, in epoca fascista, delle leggi razziali e del Manifesto della razza (ma non fu certo l’unico), merita comunque rispetto per quella coerenza che non lo abbandonò fino alla fine. Una coerenza che lo portò a diventare il cantore e il custode di una tradizione dai tratti largamente indeterminati, oscurata fra le macerie della civiltà, senza alcuna efficacia fra gli uomini suoi contemporanei, e che lo rese estraneo sia allo storicismo italiano della prima metà del novecento sia alle suggestioni del mondo postbellico. La sua era la “torre d’avorio” dalla quale il pensatore e filosofo, ex pittore dadaista ed esoterico, osservava la realtà restando al di sopra di lei, senza impegnarsi direttamente e attivamente – o ancor meglio, senza “sporcarsi le mani” nella lotta politica, evitando con cura di scendere su un piano d’immanenza, in quella “sabbia calda” della storia dove gli scontri avvengono e i cambiamenti concreti si manifestano, fra le masse in movimento e le forze in lotta (a parte, forse, il suo coinvolgimento nel processo contro i FAR, in cui ebbe assoluzione piena, e un breve soggiorno di sei mesi nel carcere di Regina Coeli). Cavalcare la tigre è un’opera complessa, da ponderare attentamente – o almeno così mi ha detto a suo tempo un noto attore del Sessantotto, coinvolto negli scontri alla 219 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Sapienza di Roma e figlio della generazione precedente alla mia, che mi ha anche confessato, con mia grande sorpresa, di non averla capita. In questa opera Evola si muoveva come avrebbe potuto fare un superstite di un evo lontano, e ormai remoto, costretto a vivere “nel mondo dove Dio è morto”, e ne tratteggiava dal suo angolo visuale i connotati inquietanti, discutendo a modo suo del nichilismo, del relativismo, della dissoluzione dell’individuo e nel dominio sociale, mettendo in evidenza l’anomia e l’apolitia dell’epoca, concepita come epoca (appunto) di dissoluzione e di rovine, in cui apparivano soprattutto quelle invisibili e interiori, accanto a quelle visibili lasciate dal secondo conflitto mondiale, in un cambiamento radicale dell’uomo e la sua società. Evola, a suo modo, era un anticapitalista che rivolgeva lo sguardo irrimediabilmente indietro, verso il passato più lontano, quello irricostruibile ed anteriore alla “Rinascenza” e all’”Umanesimo”, un passato la cui origine è talmente remota, e vaga, da sembrarci indeterminata. Ed è proprio questo il grande problema di chi ha fatto riferimento alla tradizione, per contrastare l’onda dissolutiva e nichilistica del mondo moderno, cioè quello dell’indeterminatezza della tradizione e della sua origine, destinate a restare vaghe e smarrite in un passato lontanissimo, le cui dimensioni culturali sono ormai irriproducibili. Come ha scritto il filosofo marxiano Costanzo Preve, che ha messo bene in evidenza l’indeterminatezza dell’origine della tradizione, e perciò la relativa inefficacia della critica tradizionalista al capitalismo e alla modernità, la sorgente alla quale si fa riferimento non è mai ben individuabile, e l’origine della tradizione che dovrebbe informare i comportamenti umani e la resistenza contro le seduzioni del mondo moderno, può essere progressivamente spostata all’indietro, fino ad arrivare ai tempi pre‐storici, che tendono a sfumare nelle nebbie di un passato anteriore e irricostruibile, destinato fatalmente a sconfinare nel mito e nelle ombre che avvolgono la leggenda. Inoltre, secondo il Preve di Filosofia del presente, se è vero che il modello tradizionale con cui la società del vecchio continente ha potuto pensare sé stessa è quello che fa riferimento alla religione, e a Dio, questo modello non è unico, e non può esserlo, perché ad esempio, facendo riferimento al cristianesimo che ha segnato la storia dell’Europa per molti secoli, non si tratta un paradigma unico come superficialmente si è fatto credere, ma sono esistiti sei o sette modi diversi di viverlo, e quindi sei o sette paradigmi che hanno configurato altrettante religioni, e per conseguenza altrettante tradizioni tutte egualmente legittime, ma l’una diversa dall’altra. Il riferimento evoliano non era propriamente il cristianesimo, come ben sappiamo, ma l’esempio portato è comunque illuminante, in relazione a ciò che qui si sostiene. 220 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La tradizione soffre di questo “vizio” di fondo riguardante la sua indeterminatezza, e la sua sorgente non è mai chiara ed individuabile con precisione, ma può sempre essere rimessa in discussione spostandosi indietro nel tempo. Se così è, anche il tipo d’uomo molto particolare, e diverso dal tipo umano prevalente, al quale si rivolgeva Evola e che sarebbe dovuto appartenere al mondo della tradizione – metastorico, in qualche modo e pur paradossalmente contrapposto a quello storico, non poté che soffrire dello stesso “vizio” di indeterminatezza. E’ esistito, nel dopoguerra od anche prima del secondo conflitto mondiale, un uomo in carne ed ossa che approssimava l’”idealtipo” di uomo tradizionale al quale Evola si è rivolto, in Cavalcare la tigre e in tante altre opere e saggi che egli ha scritto, a partire dalla fondamentale Rivolta contro il mondo moderno? E’ possibile, con tutto il dovuto rispetto che si può nutrire per Julius Evola, in quanto pensatore e filosofo di buon livello, dai lineamenti originali e fortemente caratterizzanti, che questo tipo umano non sia mai esistito, e che quindi Evola ha parlato a vuoto per anni, mentre “cresceva il deserto” intorno a lui, nella grande maggioranza degli altri uomini – quelli reali, fatti di carne e di sangue, costretti a muoversi, inconsapevoli, fra le rovine ammutolite di un mondo anteriore, ben nascoste o comunque illeggibili per i più, che soltanto il filosofo tradizionalista e pochi altri vedevano e riuscivano ancora ad interpretare. Ma quello che importa, in questa sede, in cui non si intende fare l’ennesima recensione di un libro di Julius Evola (sarebbe persino inutile, e si potrebbe dire ben poco di nuovo), o discutere diffusamente della filosofia evoliana che oggi è quasi dimenticata, è fare diretto riferimento al primo capitolo del libro apparso nel 1961, Orientamenti, in cui il filosofo ha delineato un’idea, una “prospettiva speciale” per i pochi resistenti al mondo moderno, i quali sceglievano di starsene ritti fra le sue rovine o in esse si aggiravano senza aderire alla modernità. Un’idea che è anche una splendida ed utile metafora e un detto antico estremo‐ orientale: “Cavalcare la tigre”. Nelle intenzioni dell’autore, l’intera opera in questione è stata scritta non tanto per i pochissimi disposti a battersi su posizioni perdute, e di fatto indifendibili, determinati com’erano, fin dall’inizio, a sacrificare sé stessi, e neppure per i pochi “privilegiati” che potevano (e possono, se ve ne sono ancora) isolarsi completamente, date le loro “disposizioni interne” e le condizioni materiali di vita privilegiate di cui potevano godere, ma per coloro che erano (e sono) impossibilitati ad “estraniarsi” dal mondo moderno (che rappresentava il vero nemico, il Nemico Principale per Julius Evola) e che perciò dovevano fare i conti con la vita contemporanea, decidendo la linea di comportamento da assumere nell’esistenza, a partire dal quotidiano e dalle relazioni interpersonali. 221 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Evola mostrava di essere, nelle sue riflessioni, già di un passo oltre alla civiltà ed alla società propriamente definibili borghesi, oggetto a loro volta di crisi dissolutiva, e se le interpretava come una prima negazione del mondo della tradizione «a loro anteriore e superiore», adottando una terminologia hegeliana definiva la crisi (quella della società e del capitalismo del secondo millennio, traducendo con altre espressioni) una «negazione della negazione», cioè dello stesso mondo borghese. La crisi del mondo borghese, che oggi si è compiuta ed ha fatto scivolare le civiltà umane verso un nuovo capitalismo e verso il dominio incontrastato della Global class, per Julius Evola avrebbe potuto aprire a quel nulla che «prorompe da forme molteplici del caos, della dispersione, della ribellione», ma avrebbe potuto riservare sorprese positive, liberando spazi per gli uomini fedeli alla tradizione e costituendo «la premessa per una successiva azione formatrice». Il filosofo tradizionalista interpretava quegli anni come anni di sconvolgimenti inseriti in un’epoca di transizione, o meglio, data l’adesione alla dottrina tradizionale dei cicli, come la fase terminale di un ciclo, che per Evola corrispondeva al Kali‐yuga o “età oscura” degli indù, caratterizzata da una serie di fenomeni (dissolutivi, di trasformazione) del tutto peculiari, e nel seguito dell’opera trattava persino della «gioventù bruciata» postbellica e della «contestazione», in un quadro nichilistico, quali espressioni di vite allo sbando sottratte a precetti più alti. Conviene riportare un passaggio dal primo capitolo di Cavalcare la tigre, Orientamenti, per fare chiarezza ed esplicitare la concezione e gli intenti evoliani, prima di impossessarsi di questa idea e di adattarla ai nostri tempi, ben al di fuori e al di là del mito della tradizione: «Il passaggio da quanto si è detto fin qui a quest’ordine d’idee può esser dato dalla formula scelta come titolo del presente libro: «Cavalcare la tigre». E’, questo, un detto estremo‐orientale, esprimente l’idea che, se si riesce a cavalcare una tigre, non solo si impedisce che essa ci si avventi addosso, ma, non scendendo, mantenendo la presa, può darsi che alla fine di essa si abbia ragione. A chi interessi, si può ricordare che un tema analogo lo si trova in scuole della sapienza tradizionale, quali lo Zen giapponese (le varie situazioni dell’uomo col toro); mentre esso ha un parallelo nella stessa antichità classica ( le vicende di Mithra che si fa trascinare dal toro furioso e non lascia la presa, finché l’animale si arresta: allora Mithra lo uccide).» Questo simbolismo adottato da Evola, per sua stessa ammissione, non vale soltanto nella vicenda individuale e interiore del tradizionalista “resistente”, che la tigre del nichilismo e della dissoluzione potrebbe travolgere, e sbranare, ma ci mostra la sua validità ed “applicabilità” anche ad un livello collettivo. Ha scritto di seguito, e non a caso, il filosofo Julius Evola: 222 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 «Lo si può riferire anzitutto ad una linea di condotta per la vita interiore personale, ma anche all’atteggiamento da assumere proprio dinanzi a situazioni critiche, storiche e collettive.» Nelle dimensioni culturali, sociali e politiche del Nuovo Capitalismo Finanziarizzato del terzo millennio, in cui oggi viviamo, i Veri Resistenti sono quasi altrettanto pochi degli immaginari tradizionalisti (e mi perdoni Evola per l’espressione “immaginari”) ritti fra le rovine, ma a differenza di questi sono drammaticamente reali e in nessun caso possono permettersi di “isolarsi”, di astrarre dalla realtà che li circonda inseguendo i paradisi perduti di un mondo morto e anteriore. Costoro, infatti, non provengono dal mondo perduto di una tradizione millenaria, inabissatosi come la misteriosa Atlantide all’inizio della “modernità”, ma bensì dalla critica residua al capitalismo, dall’antagonismo sociale vecchio e nuovo, dalle situazioni, sempre più profonde e diffuse, di disagio emotivo e più nel concreto di risorgente bisogno economico. Sono coloro che non accettano, volendo dirla unʹultima volta con Evola, il nichilismo, il relativismo e la conseguente dissoluzione, anche se per nichilismo, in tal caso, si intende più propriamente la morte dell’etica e della coscienza di classe, per relativismo si intende la relativizzazione di tutto, di ogni aspetto della vita umana, alla Creazione del Valore del Nuovo capitalismo, e la dissoluzione alla quale assistono riguarda l’ordine sociale precedente, con la conseguente discesa negli inferi della de‐emancipazione e dell’impoverimento per moltissimi (ceti medi riplebeizzati, operai flessibilizzati, lavoratori precari, persino alcuni borghesi della vecchia classe dominante). Dopo l’orgia novecentesca della fallita “contestazione” sessantottina, che anzi, ha contribuito a premere sull’acceleratore della trasformazione ultraliberista del capitalismo, e dopo l’estremo, ma fallace tentativo di resistenza dal vago sapore moltitudinario del variegato movimento no‐global, del quale constatiamo il completo declino, sembra che l’unico dato moderatamente destabilizzante, in una società che tende sempre di più a diventare la società del Mercato Totale, sono le periodiche insurrezioni che di tanto in tanto investono qualche angolo dell’occidente, da Los Angeles nel 1992 (non volendo andare più indietro nel tempo) alla Gran Bretagna di queste ultime settimane. Queste insurrezioni spontanee, spesso riferite al disagio delle sotto classi urbane, o di immigrati semischiavizzati, di gruppi etnici più o meno radicati nel tessuto sociale e nel degrado delle metropoli, o di giovani esclusi dal lavoro e dai consumi, e di altri soggetti ancora colpiti dalle nuove dinamiche capitalistiche, rappresenteranno in occidente, nei prossimi anni, l’unica forma di rivolta concretamente praticabile dai sottomessi, ma di natura squisitamente insurrezionale e non certo rivoluzionaria. 223 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 E questo sarà fin tanto che non si formerà, palesandosi in una nuova e decisiva stagione di scontri sociali e politici, la coscienza della Pauper Class capitalistica, ridando consapevolezza (e combattività) a tutta quella molteplicità di soggetti sociali duramente penalizzati dal Nuovo Capitalismo Finanziarizzato – dagli operai e dai ceti medi impoveriti ai giovani precarizzati con elevato livello di scolarizzazione, che da almeno un paio di decenni stanno scivolando progressivamente, nella nuova classe povera del futuro. Ma le rivolte di matrice insurrezionale, unidimensionali perché mosse esclusivamente dalla rabbia degli esclusi, prive di uno scopo definito e politicamente traducibile, potrebbero estendersi pericolosamente, pur in quadro di frantumazione che esclude la possibilità della loro sintesi e unificazione oltre i confini nazionali e gli interessi egoistici dei singoli gruppi, danneggiando gli stessi, sparuti gruppi anticapitalisti e antagonisti che cercheranno di ricostruire un più ampio movimento extrasistemico. Altri pericoli si affacciano all’orizzonte, connessi alla frantumazione dell’ordine sociale precedente, al declino dell’organizzazione statuale e dello stesso “spirito nazionale”, che affonda in una pericolosa dimensione regionale, tendente a chiudersi in sé stessa ed a velocizzare i processi dissolutivi. La crisi di credibilità della Lega, in Italia, rappresenta un esempio dei futuri pericoli che potranno svilupparsi, in occidente e in Europa, e potrà aprire inquietanti scenari a livello nazionale. Se il cosiddetto “partito di lotta e di governo”, un cartello elettorale di fatto venduto ai globalisti di UEM e BCE, disposto a tutto pur di mantenere le poltrone che occupa nell’attuale esecutivo, non riuscirà più a rappresentare (o dare l’illusione di rappresentare) gli interessi molto concreti di alcune “corporazioni” privilegiate del nord – evasione fiscale tollerata, controllo dell’immigrazione nei limiti dei loro precisi interessi a fruire del lavoro schiavo, autonomia amministrativa e fiscale più ampia per evitare ridistribuzioni territoriali della ricchezza, questi gruppi potranno risolversi a rivoltarsi per motivi “di pancia”, in un conato insurrezionale alimentato da mire scopertamente secessioniste, non più frenato dalle menzogne e dai vuoti slogan dell’imbroglione politico Umberto Bossi. Come dire che ciò che potrà arrivare dopo Bossi e la Lega, ambedue ormai in aperto declino e in caduta di credibilità, potrà essere peggiore della stessa Lega e di Bossi. E fenomeni analoghi, in quanto legati alla frantumazione regionalista (verso il basso) degli stati, o allo scardinamento dell’ordine costituito senza intaccare la sostanza dei processi capitalistici in atto, potranno accadere altrove nel vecchio continente, se i partiti razzisti e xenofobi saranno in grado di far leva sulla crescente irrequietezza di alcuni gruppi sociali autoctononi, non necessariamente quelli più colpiti dalle nuove dinamiche del capitale. 224 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Lo faranno allo scopo immediato di ottenere maggiori quozienti elettorali, ma rivolgendo come risultato pratico la furia egoistico‐xenofoba, suscitata dalla paura del futuro e indotta da questo capitalismo, verso i milioni di “ospiti” che i flussi migratori di un mondo in caotico movimento hanno spinto fino in Europa, o verso minoranze etniche credute ostili che fungeranno da capro espiatorio. In tal caso, non si tratterà di manifestazioni spontanee, senza capi ed autoconvocate (con l’uso più o meno intenso degli strumenti informatici), ma di moti fra l’insurrezionale ed il golpista‐eversivo, guidati e diretti verso obbietti “paganti” da caporioni provenienti dalle varie leghe e partiti xenofobo‐razzisti, che cercheranno di mantenersi in sella e di emergere localmente come nuovi leader. La grande differenza con Los Angeles 1992, con la Banlieue parigina del 2005 e con la Londra di oggi, sarà che gli attori delle insurrezioni secessioniste, dei moti a sfondo eversivo e golpista saranno in buona misura gli appartenenti a quegli stessi gruppi sociali che fino ad ora, per ragioni “di pancia”, hanno retto con il consenso questo sistema, e mantenuto in vita il pallido, truffaldino fantasma della democrazia liberale. Quindi si tratterà dell’azione di gruppi spregevoli – scorie e cascami generati da questo capitalismo, nel processo di frantumazione/ trasformazione del vecchio ordine sociale. Si tratterà di “corporazioni” che portano già sulle spalle una drammatica responsabilità storica (il consenso garantito al sistema con il voto di scambio) e che agiranno, se si metteranno in movimento, per infliggere nuovo e maggior male, che i singoli ne siano e non ne siano pienamente coscienti. Potrà verificarsi l’assurdo, da un punto di vista sociale e politico (ma assurdo soltanto in apparenza), che coloro i quali avrebbero potuto costituire le squadre anti‐riots in collaborazione con la polizia e i poteri istituzionali, a Los Angeles, a Parigi, a Londra, si troveranno coinvolti nei riots dalla parte dell’insorto, di fatto, contro lo stesso sistema che fino al giorno prima hanno appoggiato, e retto con il consenso, per mere questioni di privilegio sociale ed egoismo individualistico. Mercato Totale e globalizzazione economico‐finanziaria non spingeranno verso l’unione, ma verso la divisione, e potranno provocare frantumazioni di stati e instabilità geopolitica, con pesanti riflessi anche nell’Europa dell’unione monetaria, in cui all’indebolimento di stati nazionali e governi potrà corrispondere un deleterio “rafforzamento” della dimensione regionale. Ma tutto questo potrà avere qualche risvolto positivo, nonostante le distruzioni e i morti che causerà, poiché se questo sistema (e il capitale che lo determina, dandogli vita) si regge in primo luogo sul consenso, per quanto manipolato, indotto, idiotizzato, estorto con il ricatto, o conseguito con il più sordido mercimonio, anche il pilastro del consenso inizierà a sgretolarsi, mettendo in discussione la sostanza del rapporto sociale capitalistico e rischiando di far crollare tutta la struttura. 225 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 I futuri rivoluzionari, oggi isolati e ai margini della società del Mercato Totale, se mai riusciranno a non estinguersi, a riorganizzarsi, a procedere alla fondazione di un nuovo movimento extrasistemico, dovranno tener conto di questo duplice pericolo, che però potrebbe aprire per loro nuovi spiragli: le insurrezioni spontanee dei gruppi marginali, senza un preciso disegno politico e trasformativo, alle quali potranno partecipare o dar vita anche elementi provenienti dalla vecchia classe operaia o dal ceto medio declassato, e le sollevazioni a sfondo eversivo di natura xenofoba, razzista e/ o secessionista. Questa sarà la tigre da affrontare, la belva sulla quale bisognerà salire in groppa mantenendo saldamente la presa, per sfiancarla e poi ucciderla, quando si fermerà stremata, nel caso dei moti postleghisti, separatisti, a sfondo razzista, oppure per dirigerla verso obbiettivi rilevanti, trasformandola in unʹarma contro il Nemico Principale (la Global Class) e i suoi proconsoli locali, nel caso di moti insurrezionali spontanei generati dal disagio sociale e dall’impoverimento. Una tigre molto diversa da quella evoliana, che comparirà non nella fase terminale del Kali‐yuga, alla fine di un grande ciclo, ma all’inizio dell’era del Nuovo Capitalismo Finanziarizzato e del Mercato Totale, suscitata dalle forze e dalle logiche che animano il nuovo modo di produzione sociale. “Cavalcare la tigre”, dunque, in una prospettiva storica di caos e insurrezioni, e non certo in un universo metastorico, tenendo conto che tale prospettiva storica potrebbe essere abbastanza vicina, e la tigre potrebbe già prepararsi a spiccare il suo balzo verso di noi. Si tratterà, in tal caso, di una forza sociale, e non di una forza della natura come le splendide tigri indiane o quelle siberiane, e non sarà la “belva” suscitata dal compimento della discesa dell’uomo dagli stati superiori a quelli inferiori dell’esistenza dopo il “ritiroʺ di Dio (Bernanos), secondo un’interpretazione evoliana, ma la belva suscitata dall’impoverimento generale, dall’esclusione di fasce sempre più ampie della popolazione e dalle rapine del Nuovo Capitalismo. I potenziali quadri rivoluzionari sono oggi confinati nelle catacombe, quelle virtuali della rete, (in qualche caso) quelle delle pagine più interne nei giornali, o quelle in cui si arriva perché “non si è fatta carriera” non avendone i requisiti, nel caso della politica addomesticata, nel sindacato autoreferenziale e subordinato al capitale, nelle università del politicamente corretto e dell’interdizione del nuovo. Il movimento non esiste ancora, ma esistono alcune strutture che potranno essere utilizzate per costituirlo e dargli diffusione sull’intero territorio nazionale, una volta “bonificate” dai burocrati, dagli opportunisti, dalle quinte colonne sistemiche che ormai sono presenti ovunque. Un tempo chi scrive ha creduto (un po’ ingenuamente ed entusiasticamente) che queste strutture potevano essere, in Italia, quelle della Fiom, e forse quelle dell’intera CGIL che avrebbe accolto le posizioni della Federazione dei metallurgici, 226 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 ma trascorsi dieci mesi dalla grande e partecipata manifestazione Fiom di Roma dello scorso anno, alla quale non ha fatto seguito nulla, e dopo l’azione della segreteria “gialla” della Camusso, che ha firmato l’accordo interconfederale contro i lavoratori del 28 giugno di quest’anno, approvato con grande maggioranza dal direttivo nazionale CGIL, i dubbi sono cresciuti esponenzialmente e quella relativa fiducia è sfumata, trasformandosi in aperta sfiducia. La Fiom, dato l’ampio consenso che si stava coalizzando spontaneamente intorno alle sue posizioni, che erano e sono di semplice ma tenace resistenza davanti agli attacchi capitalistico‐globalisti contro il lavoro e la socialità, avrebbe potuto unificare il movimento in Italia, dandogli coesione, “disciplina di campo” e una comune prospettiva futura di lotta, ma questa strada, che era l’unica possibile per non restare schiacciati dal Nemico Principale e dai suoi spregevoli “proconsoli” locali, non è stata seguita, tanto che a Roma, il 14 dicembre del 2010, i movimenti sono stati abbandonati a sé stessi, nell’unico vero accenno di rivolta che si è avuto in Italia in quei mesi. Forse si sarebbe anticipata d’un soffio la cosiddetta “rivolta araba” e i primi fuochi consistenti si sarebbero avuti in Europa, ben oltre la sequenza abbastanza recente degli scioperi generali francesi, con riflessi più seri sulla tenuta sistemica complessiva. Si sarebbe dato un segnale, e offerto un esempio da seguire, al resto dell’Europa che soffre sotto il tallone globalista e sconta il ricatto del debito. Ma così non è stato, e l’occasione storica che avrebbe potuto concretarsi fra il 2010 e il 2011 è completamente sfumata. D’altra parte, se si resta all’interno degli immaginari capitalisti e liberlademocratici, prigionieri di quelle regole che impongono ai subordinati manifestazioni testimoniali, inani, “non violente”, in nome di una democrazia inesistente per neutralizzarli e farne fallire a priori le lotte, l’esito che si otterrà sarà sempre e soltanto questo. Uscendo per un attimo dalla suggestiva metafora della tigre, delle tre grandi ondate che potrebbero lambire fra non molto l’Europa e l’Italia, la benefica onda rivoluzionaria e trasformativa ci pare al momento la più improbabile, mentre maggiori probabilità di manifestarsi hanno l’insidiosa onda insurrezionale e quella distruttiva della guerra civile. Ciò non toglie, però, che gli sconvolgimenti sociali del prossimo futuro, derivanti dall’azione di “Mercati e Investitori”, e l’impoverimento di massa che continuerà a travolgere l’Italia e buona parte dell’Europa, potranno rendere improvvisamente disponibili quelle strutture – liberate da burocrati, da opportunisti, dalle quinte colonne e dalla Camusso, per costituire il nuovo movimento e dargli concretezza operativa, con degli scopi del tutto esterni al sistema e quindi di natura potenzialmente rivoluzionaria. 227 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Esiste ancora una possibilità in tal senso, anche se è molto piccola, e il tempo che passa rischia di renderla insignificante. L’ombra della tigre che già si profila all’orizzonte, invece, potrà riuscire a materializzarsi con una certa facilità nei prossimi due o tre anni, e se ci troverà impreparati, dispersi e divisi come siamo ora, senza alcuna prospettiva degna di questo nome, travolgerà anche noi, neutralizzandoci per sempre. 228 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La lettera globale Articolo del 29/09/2011 In letteratura ci sono racconti e romanzi che riguardano le missive scritte da qualche personaggio di fantasia, lettere che contengono segreti più o meno imbarazzanti, e narrano di storie individuali o di veri e propri drammi esistenziali. Dalla lettera rubata di Edgar Allan Poe del 1845 alla più romantica lettera di una sconosciuta di Stefan Zweig del 1922, tanto per ricordarne un paio di molto celebri. Ma ci sono missive che non sono il frutto della fantasia di scrittori, romanzieri e autori di novelle, e che hanno un rilievo politico, economico e sociale importante – in certi casi devastante, per molti milioni di uomini. Questo è il caso della lettera “riservata” pubblicata oggi, giovedì 29 settembre 2011, dal Corriere della Sera in primo piano a pagina 3, scritta da Jean‐Claude Trichet, attuale presidente della BCE, e dal futuro presidente della stessa Mario Draghi. La lettera è di data 5 agosto del corrente anno, è rivolta al governo italiano, e non è di certo una lettera rubata e ritrovata in seguito in un luogo ovvio e visibile, o scritta da emeriti sconosciuti. Anzi, il fatto che il Corriere l’abbia pubblicata integralmente (a quanto sembra), rivela che qualcuno ha voluto che se ne divulgasse il contenuto, in un momento critico, con la tendenza a diventare drammatico, della storia d’Italia, e di grande difficoltà per buona parte dell’Europa. Siamo alla svolta storica che imporrà il completo dominio della Global class sull’Europa, attraverso gli organismi sopranazionali appositi – BCE, Unione Europea, Commissione, che hanno la stessa funzione ad un livello continentale, in linea di massima, dei più “antichi” FMI e Banca Mondiale. Trichet e Draghi non sono altro che mercenari‐agenti della nuova classe dominante, che attraverso l’euro e il debito degli stati plasma l’Europa sulla base dei suoi interessi privati, opposti rispetto a quelli della stragrande maggioranza della popolazione e contrari a qualsiasi forma di Etica. In questa lettera, da qualcuno definita senza mezzi termini un diktat, i due proconsoli europei degli alti livelli globalisti, che poi sono quelli che decidono le sorti dei popoli del continente, mettono al riparo i grandi capitali e l’evasione fiscale (soprattutto quella espressa dagli stessi grandi capitali), e impongono misure anti‐sociali, chiamate ironicamente “riforme”, che se attuate integralmente massacrerebbero i quattro quinti della popolazione italiana. Il primo gruppo di misure, al punto 1, riguarda il feticcio ultra‐liberista della “crescita” economica, che deve essere spinta ai massimi livelli, costi quel che costi. Ed ecco che l’aumento della concorrenza, soprattutto nei servizi, e il “ridisegno” dei sistemi fiscali e regolatori al solo fine della competitività delle imprese diventano assolutamente prioritari su qualsiasi altra esigenza. 229 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Per ottenere tale risultato, attraverso le spietate contro‐riforme proposte dai due pericolosi criminali sociali globalisti Trichet e Draghi – in confronto ai quali chi ha architettato l’11 settembre fa la figura di una mammoletta, è necessario liberalizzare tutti i servizi pubblici locali (dall’acqua ai trasporti urbani) svendendoli ai vampiri del capitale privato, Marcegaglia e soci compresi, liberalizzare le professioni, in modo che siano fuori controllo e libere di esplicare effetti negativi per la collettività, distruggere il contratto collettivo nazionale di lavoro (e con esso le garanzie residue per i lavoratori stabili) privilegiando i livelli di contrattazione in cui il lavoratore è più debole ed esposto ad ogni sorta di ricatto, e imporre la libertà di licenziamento indiscriminato per flessibilizzare definitivamente il fattore‐lavoro (con la diffusione dei lavoratori‐schiavi dopo le abbondanti iniezioni di precarietà lavorativa nel sistema). Il secondo gruppo di misure da imporre all’Italia, secondo la terribile visione globalista del mondo e il progetto demiurgico della classe globale, riguarda invece “la sostenibilità delle finanze pubbliche”, come è scritto chiaro nella missiva. In tal caso, non si fa alcuna menzione all’equità del sistema fiscale, alla necessità di combattere concretamente l’evasione fiscale, e all’imposizione di una patrimoniale sui grandi patrimoni, ma si punta direttamente sui tagli di spesa. Il pareggio di bilancio dovrà essere ottenuto nel 2013 attraverso due grandi contro‐ riforme, penalizzanti fino alla tortura per milioni di italiani, che però assicurerebbero tagli consistenti alla spesa pubblica. Si vuole colpire al cuore il sistema pensionistico, a partire dalle pensioni di anzianità, nonché l’elemento femminile, “ottenendo dei risparmi già nel 2012”. Si punta, nei tagli draconiani ed indiscriminati previsti per la spesa pubblica, ad una riduzione dei costi relativi all’impiego pubblico, agendo sul turnover e prospettando una soluzione “greca”, cioè riducendo gli stipendi (peraltro già congelati, nella penisola) ai dipendenti pubblici. Se nella sciagurata visione ultra‐liberista l’Italia può essere concepita come un’azienda (l’Azienda Italia, con una brutta espressione cara a pagliacci simil‐ liberisti come Berlusconi), anche qui, esattamente come accade nel privato preso a modello, gli effetti della crisi si devono scaricare sulla parte più debole, cioè sui lavoratori dipendenti, mantenendo a qualsiasi prezzo sociale ed umano i ritmi di crescita dei profitti e soprattutto quelli della creazione finanziaria, azionaria e borsistica del valore. Non sfugge la particolare vigliaccheria dei mercenari‐assassini Trichet e Draghi, considerando la sostanza anti‐Etica ed anti‐sociale di queste misure e i danni che produrranno nell’esistenza quotidiana di decine di milioni di italiani, ma si tratta di contro‐riforme comunque in linea con i grandi interessi privati della Global class, che intende “normalizzare” rapidamente l’Europa. 230 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Tutto ciò rientra perfettamente nelle logiche e nelle dinamiche del Nuovo Capitalismo Finanziarizzato del terzo millennio, e la lettera globale dei due proconsoli europei non potrebbe avere contenuti diversi. Se il mondo deve essere trasformato integralmente in grande campo di concentramento dei popoli, al servizio degli sfruttamenti neocapitalistici più selvaggi ed abbietti, tanto vale agire in fretta sui paesi (ex)ricchi, per “liberare risorse” a vantaggio della grande speculazione, per far capire chi comanda – oggi è sufficiente l’uso abbondante del bastone, in quanto la carota non serve più – e per piegare le residue resistenze politiche e sociali all’interno dei singoli stati nazionali, già abbondantemente indeboliti. I pagliacci di governo e quelli dell’opposizione ufficiale, in Italia, obbediranno sempre agli ordini dei Veri Padroni, fino a massacrare il loro popolo, dal quale vivono sempre più separati grazie ai privilegi concessigli, in quanto utili sub‐ dominanti che al livello più basso devono realizzare le contro‐riforme e gli espropri, mentre la popolazione, o almeno quella parte che è ancora sana e minimamente consapevole, sembra non reagire, o se accenna ad una reazione lo fa in modo blando e totalmente inefficace, attraverso organizzazioni (sindacali, politiche) comunque interne al sistema e compromesse con il potere dominate. Prepariamoci al peggio, quindi, conservando almeno la speranza che il peggio, la miseria, lo sfruttamento, le nuove forme di schiavitù e la spietata tirannia dei globalisti, inneschino una reazione generalizzata degna di questo nome, riattivando in pieno, nel corpo sociale attualmente “in sonno”, i sacrosanti e salvifici meccanismi dell’Odio e della Vendetta Sociale, disumanizzando nella lotta che non potrà non essere violenta un nemico spietato e inumano, che vuole ridurci in completa schiavitù oppure sterminarci tutti, se ne avrà la convenienza. 231 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 I peggiori anni della nostra vita Articolo del 14/10/2011 Stanno per arrivare almeno sette anni di “vacche magre”, come direbbe un Bettino Craxi – politico di un’altra epoca storica, quando il capitalismo era ancora quello più ruspante del secondo millennio, se soltanto fosse ancora in vita e potesse vedere ciò che sta accadendo oggi, nell’Italia dal quale a suo tempo è fuggito, in parte significativa dell’Europa ed anche in America. Ma questa volta le vacche saranno addirittura scheletriche, e sarà un repentino, annunciato impoverimento di massa, al di là di qualsiasi forma di “indignazione” e di protesta civile a pancia ancora relativamente piena, a provocare dure ed estese reazioni da parte della popolazione. Questo perché avere difficoltà a fare la spesa alimentare per il giorno dopo o per il giorno stesso, l’aver perso il lavoro e con lui l’unica fonte di sostentamento, non poter più pagare a tariffe crescenti il metano per scaldarsi, con l’inverno alle porte, il dover rinunciare all’auto privata perché i costi sono ormai insostenibili, e arrivare anche al punto di perdere l’alloggio, suonano la sveglia a chiunque, per quanto addormentato da decenni (almeno due, se non tre) di idotizzazione di massa, di manipolazione culturale e antropologica, di ludi neocapitalistici e nuovi circences. Formula uno e squadre di calcio, culi e tette non basteranno più ad arginare un malcontento fondato su ragioni drammaticamente concrete. Infatti, gli imperatori romani che erano un po’ meno dissennati (nonostante Nerone e Caligola) degli attuali sub‐dominanti politici locali, avevano cura, di tanto in tanto, di distribuire il pane alle plebi urbane largamente inoperose ma potenzialmente pericolose, poiché capivano che i giochi sanguinosi e gli spettacoli truculenti nei circhi da soli, in certe condizioni, non sarebbero bastati a “placare” i subordinati, evitando rivolte improvvise e violenze diffuse. Oggi il Nuovo Capitalismo non solo non provvede alle necessarie distribuzioni di pane (alimento base qui utilizzato simbolicamente, intendendo il mantenimento di un’adeguata spesa sociale, che ridistribuisce i redditi), ma continua con gli espropri nei confronti della massa di sottomessi grazie alle crisi che contribuiscono a tenerlo in vita, ad alimentarlo, a consentirgli di riprodursi per i tempi a venire. La crisi, anzi, le crisi neocapitalistiche che si sono susseguite in questi ultimi due decenni, dalle “bolle” finanziarie relative ai titoli informatici ai subprime, fino a quella che riguarda il debito degli stati, consentono agli agenti strategici di questo capitalismo di (1) espropriare risorse pubbliche (privatizzazioni, riduzione della spesa sociale, tagli spietati all’impiego pubblico) e private (aumenti dell’imposizione fiscale, riduzione dei redditi dei subalterni, precarietà del lavoro sottopagando i lavoratori), (2) di impossessarsi di grandi aziende “sane” ancora in mano pubblica estraendo, da queste ultime, valore per scopi privati, (3) di dare un 232 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 contributo per velocizzare e completare la distruzione del vecchio ordine sociale (rischiavizzazione a spron battuto degli operai, impoverimento rapido del ceto medio) e (4) di sottomettere integralmente con l’imposizione di politiche economiche e monetarie “ad hoc” gli stati nazionali e le tradizionali federazioni (prima o poi la mazzata finale toccherà a tutti, anche alla vile Germania che oggi si sente relativamente al sicuro). Quanto precede in ordine casuale di esposizione e non necessariamente in un ordine di importanza, ma il raggiungimento di tutti questi target globalisti è determinate per l’affermazione definitiva del nuovo modo di produzione sociale. La crisi che ci porterà ad (almeno) sette anni di vacche scheletriche, non soltanto magre – come disse con una memorabile battuta a sfondo biblico, negli anni ottanta, il quasi compianto(!) Bettino Craxi, è perciò un elemento strutturale, irrinunciabile del capitalismo contemporaneo. Anche se questa ultima crisi – la “bolla” del debito pubblico che investe direttamente l’Italia e pone interrogativi sulla sopravvivenza dell’euro, si risolverà miracolosamente e di botto e tutto finirà a tarallucci e vino (è solo una battuta, perché la cosa è del tutto improbabile), seguirebbero a stretto giro di posta un’altra crisi ed un altro saccheggio neocapitalistico, reso possibile da una nuova ondata di difficoltà e di crack. In questi giorni, data l’aria che si respira, destinata a diventare in breve ancor più pesante, alcuni fra i migliori esponenti dell’informazione alternativa in rete si sono cimentati sul tema, risolvendosi a fare qualche previsione, immancabilmente fosca, sul futuro che ci attende. In questo post ne citiamo soltanto due, fra i più noti, e soprattutto fra i più critici ed intelligenti presenti nella penisola: Franco Berardi “Bifo”, Marco Della Luna. Per la verità, ci sarebbe anche un autentico “pezzo da novanta” della controinformazione, e cioè Paolo Rossi Barnard con la versione rivista del suo Il più grande crimine, un saggio di quasi novanta cartelle che richiederebbe un commento articolato, ma in questa sede interessano in modo particolare gli ultimi scritti di Berardi e Della Luna. In un suo report dedicato ad una giornata di protesta studentesca di piazza contro il potere vigente, le banche e il capitale finanziario, Franco Berardi – oltre a stigmatizzare i comportamenti di una polizia che attacca con brutalità psicopatica, nelle cariche “di alleggerimento” preventive ormai consuete, giovani che manifestano pacificamente, definisce questo sistema, letteralmente, «un sistema che non ha più nessuna idea, nessuna energia, nessun futuro. » E ancora: «Negli anni settanta ci battevamo contro un sistema cattivo e criminale, che però aveva idee ed energie. Oggi ci battiamo contro un sistema che è ancor più cattivo e criminale, ma soprattutto non ha più alcuna idea alcuna energia ed alcuna speranza.» 233 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il giudizio che “Bifo” ci porge di questo sistema di potere, volendo presumere che si sia riferito non tanto e non soltanto all’asfittico sub‐potere locale, ma alle strutture che servono il capitalismo contemporaneo in generale, non è condivisibile quanto lo è, invece, il resto del suo intervento. Il “sistema” contro il quale si batteva il movimento del Settantasette era profondamente diverso quello attuale, perché il capitalismo nel frattempo è cambiato, ed oggi i nuovi dominanti hanno idee, energie, speranze, ed anche una notevole dose di cinismo, un’arroganza senza pari e una certa sicurezza di sé e dell’efficacia delle loro armi. Fra le altre cose, i nuovi dominanti globali hanno anche acquisito il monopolio della lotta di classe, inibendola ai subalterni. Il “sistema” dello scorso secolo, ancora dominato dalla vecchia borghesia, era meno peggiore dell’attuale ed essendo negli anni settanta alla fine dei suoi giorni (così come la stagione del welfare, della relativa emancipazione sociale, dell’inclusione capitalistica di massa nei suoi immaginari e delle aspettative crescenti) aveva sicuramente meno idee, energie e speranze di questo. Violenza indiscriminata, esercitata da polizie vili, mercenarie, in cui tendono a prevalere esaltati e psicopatici, contro manifestanti inermi costretti a manifestare pacificamente da un diffuso pacifismo strumentale, e le proteste ed il disagio alimentati da crisi economico‐finanziarie ricorrenti, vanno a braccetto e non rappresentano che altrettanti effetti (si potrebbe persino dire scontati) dell’affermazione del nuovo modo di produzione dominate e del potere della nuova classe alta, la Global class. Verrebbe da dire, per essere chiari fino in fondo, “caro Berardi, un sistema che è agli inizi della sua ascesa di idee da mettere in campo per schiavizzare i subordinati e neutralizzare le proteste ne ha fin troppe, ed ha energie a profusione, che utilizza non soltanto per reprimere le manifestazioni e per picchiare selvaggiamente studenti e lavoratori che scendono in piazza pacificamente, disarmati, ma soprattutto per idiotizzare e flessibilizzare parte significativa della popolazione, rendendola innocua e predisponendola ad accettare come destino inevitabile, senza neppure comprenderne la portata storica, le controriforme, la de‐emancipazione e una nuova stagione di sfruttamento di massa.” Magari sia come ha scritto Berardi detto “Bifo”, e cioè che il sistema è alla frutta, privo di idee, di energia e di (speranze per il) futuro, perché le prevedibili lotte che si svilupperanno fra non molto, quando la situazione precipiterà definitivamente, avrebbero così buone possibilità di vittoria. In un paio di post scritti in questo mese, Marco Della Luna, che è il principale esperto in Italia di cratesiologia ed il principale esponente sul suolo nazionale della cosiddetta “teoria delle élite”, prospetta l’imminente uscita dell’Italia dell’eurozona 234 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 e la possibilità che si vada incontro, in questo paese, ad un disastro senza precedenti storici (ipotesi non certo peregrina). Per la fuga dal cimit€uro (così il titolo di un suo post), in cui ci porterà l’azione congiunta delle autorità monetarie globaliste d’Europa e la casta politica locale, che avverrà in un contesto globale funestato dalla recessione, Della Luna presenta un suo piano alternativo (iniziativa per altro lodevole), da contrapporre a quelli ufficiali della casta politica, che nella realtà sono manovre finanziarie “suggerite” (si legga imposte) ai sub‐dominanti locali dai proconsoli europei dei globalisti (Draghi e Trichet, in modo particolare). In questo piano alternativo, che è di salvaguardia di condizioni di vita minime ed anche anti‐casta, cioè opposto a ciò che vorrebbero i sub‐dominanti per mantenere il più a lungo possibile la loro posizione di privilegio e per rastrellare le ultime risorse, da mettere al sicuro nei paradisi fiscali, Marco Della Luna prospetta di tornare ai vecchi sistemi, in uso all’epoca di Craxi e durante la cosiddetta prima repubblica, e fra questi alla svalutazione della moneta, dopo l’uscita dall’euro, per riacquistare competitività sui mercati e per poter “investire sul futuro”. Secondo Della Luna, la causa prima dello stato in cui versa oggi l’Italia, misurato in negativo da un debito pubblico enorme e preludio del disastro prossimo venturo, è la casta partitocratica tutta, «ladra e incompetente, e che, ciononostante, la popolazione la conferma al potere». Certo, la partitocrazia in forma di casta ha delle responsabilità storiche per ciò che accade e accadrà all’Italia, e continuerà, anche in situazioni estreme di collasso economico e disastro sociale a far man bassa di risorse, a svendere il patrimonio pubblico, a colludere con la malavita organizzata, a legiferare per sé stessa, a riempirsi le tasche togliendo a salari e stipendi, alle pensioni e ai servizi pubblici. Ma non è questa la vera ragione per cui oggi un intero paese si sta avvicinando pericolosamente all’orlo del burrone. L’accanimento contro un unico obiettivo ben visibile, considerato l’origine di tutti i mali, è funzionale soltanto al mantenimento del potere della classe globale ed alla continuazione dei suoi espropri, perché i globalisti si servono delle sub‐oligarchie politiche locali e possono “buttarle a mare” in qualsiasi momento – essendo sacrificabili per assicurare la riproduzione sistemica, sostituendole con altre e non mettendo in pericolo il potere e le fortune dei veri dominanti. Anzi, quello che si deve comprendere, per poter analizzare correttamente la situazione, è che lo sprofondo della politica in Italia, e la conseguente degenerazione dei suoi attori, è anch’essa conseguenza dell’affermazione del Nuovo Capitalismo, dell’entrata in scena, sul palco più alto del potere effettivo, della classe globale (che ha divorato la vecchia borghesia proprietaria) e della conseguente perdita di autonomia politica e monetaria degli stati nazionali, posti sotto ricatto e strangolati dal debito. 235 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Una politica che non decide delle grandi questioni, che ha un’autonomia sempre più limitata, che deve tenere la scena per perpetuare la dicotomia destra/ sinistra ormai priva di significato, perché il programma è unico e imposto, fotocopiato e poi trasmesso, ripiega su sé stessa, apre alla corruzione, materiale e spirituale, ed alle ruberie di chi raccatta le briciole sotto il tavolo della mensa dei suoi padroni. I valvassini si sono chiusi nei palazzi e nelle zone rosse, imitando i loro padroni globali, e vivono una vita separata disprezzando e truffando la nazione e il popolo, e così è anche nella più profonda provincia, nelle regioni, nelle province (diventate improvvisamente enti inutili, da sopprimere) e nei comuni. Sbaglia Della Luna se crede, sia pur in buona fede, che le amministrazioni locali sono diverse e meno corrotte dell’amministrazione centrale, saldamente nelle mani della casta, e potranno rappresentare, nel pieno della crisi che arriverà fra poco, isole felici che danno ricetto alla popolazione ed hanno cura dei suoi bisogni, perché il sistema è unico e il degrado si diffonde dal centro alla periferia, con gli appetiti degli “occupati in politica” che invadono tutti gli spazi utili. Non solo, ma nel programma di Marco Della Luna si riflettono purtroppo un paio di parole d’ordine di questo capitalismo, che sono “Competitività” e “Innovazione” (l’equivalente dell’investire sul futuro), usate regolarmente da politici, economisti del sistema, giornalisti per giustificare qualsivoglia porcata Per affrontare di petto la situazione, e preparare il terreno per un vero cambiamento, è necessario uscire completamente dagli immaginari e dalle logiche capitalistiche, dismettendo per prima cosa le parole d’ordine (truffaldine) – come appunto “Competitività”, “Innovazione”, o ancora “Crescita”, che puntualmente accompagnano le manovre finanziarie strangolanti, e i piani globalisti di sterminio della socialità. Quanto precede non vuole essere una critica personale a Della Luna, della cui buona fede non si può dubitare, ma soltanto un rammentargli che il sistema si potrà sconfiggere e il disastro si potrà (seppur solo parzialmente) evitare soltanto se (a) si riesce ad individuare correttamente il Nemico Principale da combattere, che non è la casta partitocratica (quella esiste, è pericolosa, però viene dopo), ma è la Global class capitalistica, (b) il sistema è unico ed è marcio anche a livello di amministrazioni locali, sulle quali non si dovrebbe riporre grande fiducia, contaminate come sono dalla “degenerazione della politica” e penalizzate dal taglio dei trasferimenti di risorse dal centro, e infine (c) non bisogna cadere nella trappola capitalistica della “Competitività”, della “Crescita” e della “Innovazione” (nella realtà, investimento di capitali su un futuro da incubo), perché così si arricchisce soltanto la classe dominante, si penalizzano ulteriormente i subordinati, costretti a lavorare di più con redditi inferiori, e si consente una più agevole riproduzione sistemica. 236 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Concludendo, stanno per arrivare i peggiori anni della nostra vita, che saranno sette (o più anni) di vacche scheletriche, parafrasando il Bettino Craxi dei vecchi tempi che aveva rubato la battuta alla Genesi biblica, ma l’unica via da imboccare per uscirne sarà quella della “critica delle armi” e della Rivoluzione, che purtroppo oggi non sembra essere neppure una prospettiva, qui e altrove in occidente. Lo diventerà soltanto dopo che si sarà verificato un ulteriore, drammatico e repentino impoverimento di massa, in accordo con la spietatezza del “tanto peggio, tanto meglio”, ultima ratio per la salvezza. Ad infima! 237 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 A cosa è servita la manifestazione di Roma di sabato scorso? Articolo del 17/10/2011 A cosa è servita la manifestazione di Roma di sabato scorso? Rispondiamo andreottianamente con un’altra domanda. A ʺmisurareʺ per lʹennesima volta la partecipazione o a scatenare la repressione profittando di incidenti marginali, provocati da qualche piccolo gruppo, che può esser stato infiltrato o manovrato indirettamente da ʺuffici di poliziaʺ? O più probabilmente, in relazione a coloro che hanno scelto di reagire e di non sfilare pecorescamente senza dar fastidio, si è lasciato fare, per poi sfruttare feriti, danni e disagi “pro domo” del potere. L’aver ridotto buona parte della protesta contro gli spietati meccanismi del capitalismo contemporaneo a “pacifici” cortei senza efficacia che al più disturbano un poco il traffico, evidentemente non basta più, e allora si cerca comunque di criminalizzare chi si oppone, seppur in molti casi blandamente, alle logiche sistemiche. L’altro ieri si leggeva sulla home del sito dell’Ansa un titolo che suonava così: ʺMaxi operazione contro anarco‐insurrezionalisti”, a riprova che è tornato lo spauracchio dei Black Bloc, diffuso ad arte dai media e drammatizzato dai politici di professione per giustificare la repressione sistemica e per deformare la realtà. Qualche bomba carta contro i cassonetti dellʹimmondizia, o contro elementi dellʹarredo urbano del Comune di Roma, a cosa e a chi può servire? Può interrompere i meccanismi riproduttivi sistemici? E poi, chi ha lanciato quelli che sono poco più di petardi, di botti abusivi dei festeggiamenti di capodanno, e perché? Colpiti, secondo il podestà berlusconiano Alemanno mezzi dei trasporti pubblici, lʹarredo urbano, con danni anche al selciato per oltre un milione di euro ... Tutto qua? E giù a dire, tutti, compresi quelli che hanno organizzato la manifestazione, che i violenti vanno isolati, che tutto deve svolgersi secondo le regole del pacifismo testimoniale e strumentale, da buoni pecoroni soggetti al dominio capitalistico ... In liberaldemocrazia sono ammessi (ed anzi, favoriti) gli innocui belati, ma ai subalterni si nega anche la possibilità di una vera lotta. Sappiamo che la partecipazione, anche se è oceanica, non conta nulla perché nel peggior sistema totalitario e repressivo di tutta la storia umana, che è la liberaldemocrazia capitalistica, conta soltanto ciò che può interrompere la riproduzione sistemica e falcidiare gli agenti strategici capitalistici. Anche l’occupazione di spazi significativi o simbolici, come Piazza Takrir o Wall Street, non serve a granché, se non forse ad acquisire qualche consenso in più e a 238 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 svegliare qualche addormentato, ma non ferma il nuovo sfruttamento capitalistico, e la crescita del capitale finanziario. Con Costanzo Preve abbiamo fatto, telefonicamente, delle considerazioni di una certa importanza, e cioè che il movimento transnazionale degli Indignados – in tutte le forme che ha assunto in occidente, dalla Madrid delle origini a Occupy Wall Street, è probabilmente destinato al fallimento, o comunque ad incidere poco sui meccanismi riproduttivi sistemici, anche se è un poʹ migliore dellʹormai finito altermondismo, in quanto i manifestanti hanno compreso che il Nemico Principale non è la ʺclasse politicaʺ locale, per quanto corrotta, vile e degenerata come quella italiana (che rappresenta pur sempre un nemico secondario con il quale fare i conti), ma il Capitale Finanziario. Eʹ bene precisare subito che questa consapevolezza da sola non basta, se non si riporta lo scontro con decisione sul terreno sociale, sul quale, forse, un giorno si combatterà la battaglia decisiva. Di seguito cercherò, in breve, di riassumere la mia personale posizione in merito alle proteste dei cosìddetti indignati. La manifestazione del 15 è prima di tutto un segnale che le questioni sociali, quelle veramente rilevanti, non trovano né voce né rappresentanza allʹinterno del sistema liberaldemocratico, e questo vale sia per l’Italia sia per gli Stati Uniti d’America e per molti altri paesi d’occidente. Non a caso proteste, cortei e simili iniziative hanno interessato la Spagna come il Giappone. Parimenti, la manifestazione e lʹʺindignazioneʺ di molti sono state usate dal sistema per (a) scatenare una piccola ondata repressiva in tutta Italia, con perquisizioni e denunce di militanti anticapitalisti (non importa se anarchici, autonomi o altro, e se non del tutto consapevoli del ruolo a loro attribuito), per (b) bloccare per un mese intero le manifestazioni e i cortei a Roma (inibendo la manifestazione Fiom prevista per il 21 c.m., se non sbaglio), per (c) agitare lo spettro di una nuova Legge Reale (Di Pietro in sintonia con il leghista Maroni) mostrando che il sistema politico ufficiale è compatto nel soffocare le proteste (per ora blande) della nuova Pauper Class capitalistica, e per (d) propagandare ancora una volta il ʺpacifismo strumentaleʺ, che è strumento di dominazione nell’esercizio del potere elitista. Indignarsi non è sufficiente, ed è forse soltanto un timido passo, molto incerto, nella direzione giusta, perché è necessario “uscire” completamente dal sistema e dai suoi immaginari, che non si possono cambiare da dentro e che sono nemici della socialità e dell’Etica. Affermo quanto precede senza accusare di alcunché chi ha partecipato alla manifestazione, perché mi rendo conto che nelle condizioni attuali le masse hanno ben poche alternative concrete, ma, per ora, gli aspetti negativi superano i risultati positivi acquisiti (se ci sono). Repressioni e divieti in vista in Italia e numerosi arresti negli Stati Uniti. 239 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Peggio ancora, gli stessi organizzatori e molti partecipanti alla manifestazione hanno esternato il fermo proposito di voler ʺisolare i violentiʺ, hanno ceduto alla delazione (aiutando ad individuare i cosiddetti ʺneriʺ), mostrando così di essere ancora interni agli immaginari sistemici e di fare il gioco dei dominanti. Lʹunica cosa che hanno compreso – e qui sta lʹaspetto positivo, che poi è quello che Costanzo Preve ed io abbiamo compreso da anni (chi ha letto Nuovi signori e nuovi sudditi, i libri e i saggi di Costanzo e i miei modesti lavori lo sa bene), e cioè che il vulnus della questione è la supremazia del capitale finanziario che sussume il capitale produttivo e con lui il lavoro, soggetto così ad una doppia sussunzione e alla conseguente rischiavizzazione integrale. Ma coloro che protestano non hanno capito, o almeno così sembra allo scrivente, che dietro lo schermo del capitale finanziario, il quale non è una mera astrazione, una serie di algoritmi sfuggiti al controllo umano che vivono di vita propria e dominano il pianeta attraverso le reti, si nasconde una ben precisa classe dominante non più culturalmente borghese, completamente deterritorializzata (come il capitale finanziario del quale è agente strategico) e irresponsabile nei confronti del resto delle comunità umane: la Global Class. Eʹ sul terreno sociale che dovrà essere riportato lo scontro, anzi, la Guerra, intendendo la Guerra Sociale, che sarà ancora più aspra ed estesa, in futuro, della Lotta di Classe otto‐novecentesca del Proletariato contro la Borghesia, innescata dalla principale contraddizione capitalistica di allora. Ma perché ciò si concreti, si rimetta in movimento la storia e si riattivino vere forze rivoluzionarie e trasformative, sarà necessario che (1) precipitino verticalmente le condizioni di vita della maggioranza, nei paesi occidentali, in seguito ad ulteriori espropri neocapitalistici indotti dal debito pubblico o da qualche altra crisi suscitata ad arte, e che (2) la nuova classe Pauper ʺmaturiʺ, ʺcrescaʺ, raggiunga la ʺmaggiore etàʺ, nel senso che acquisisca coscienza di sé e della propria forza. Sui giornali del media system leggiamo tanti editoriali ed articoli in cui, in accordo con gli interessi dominanti di stabilità del potere vigente e di estensione della presa neocapitalistica nella società, si condanna la violenza, si elogiano le manifestazioni pacifiche (a quali risultati tangibili, in ordine all’inibizione dello strumento della guerra, hanno portato le innumerevole marce di Assisi?), si cerca di ridurre la protesta ad una serie di innocui belati di pecore destinate alla tosatura, o peggio, al macello. L’ipocrisia non ha più fondo, e l’arroganza del potere è massima. Si nascondono così le ragioni più profonde di una protesta che sarà pure largamente inefficace, impostata in modo blando, ma che sono reali e immediatamente tangibili. Per quanto riguarda il riconoscimento che il capitale finanziario onnivoro sta divorando, con la sua inesauribile fame di Creazione del Valore azionario, finanziario e borsistico, il futuro di intere generazioni e i beni delle collettività, è opportuno precisare, a differenza di quanto affermano quasi tutti gli economisti “di 240 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 grido” e i giornalisti del sistema, che non è possibile assoggettarlo a riforme e controlli, nei contesti economici, sociali e culturali in cui viviamo, perché così funziona e si riproduce il capitalismo contemporaneo. Per quanto riguarda la piccola politica liberaldemocratica, imputridita completamente da anni di servaggio nei confronti della classe globale (ne sappiamo qualcosa, qui, in Italia), le dichiarazioni contro la piazza di sabato scorso si sprecano. Secondo l’ormai patetico Romano Prodi, ad esempio, nonostante le sofferenze inflitte a buona parte della popolazione la violenza non è ammissibile. Bisogna soffrire in silenzio, essere schiavizzati, torturati e tacere, o sfilare composti con palloncini, volantini e striscioni (come vorrebbero i nuovi padroni), consentendo così che i privilegi concessi ai sub‐dominanti politici locali continuino ancora per un po’ di tempo, fino al collasso. Questo il vero senso delle parole della scamorza politica liberaldemocratica Prodi. Per non parlare poi dei barbari e macellai sociali filo‐ governativi, del PdL e della Lega, che auspicano repressioni a tappeto e un rigido controllo sulla società, in questo confortati da un Di Pietro che vorrebbe resuscitare la Legge Reale del 1975. Infine, per quanto mi riguarda mi sogno neppure di condannare tutti quei giovani che sabato scorso, organizzatisi come hanno potuto e divisi in falangi, hanno partecipato agli scontri di Roma. Loro sono soltanto il segnale che i drammatici vuoti della politica, trasformatasi in messa in scena ad uso e consumo dei dominanti, attendono di essere occupati da qualcosa di nuovo. Un nuovo movimento? Una nuova forza popolare con potenzialità rivoluzionarie? Oppure nuove falangi organizzate di antagonisti, destinate a crescere e ad alzare progressivamente il livello dello scontro? Chissà … ma scordiamoci pure i cortei ordinati, addirittura mansueti, i palloncini, i volantini e gli slogan innocui come i cori nelle parrocchie, perché fra un po’ apparterranno interamente al passato. 241 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Necessaria la violenza rivoluzionaria, pericolosa la violenza insurrezionale Articolo del 19/10/2011 Che dire dell’uso della violenza nelle lotte e nelle manifestazioni di piazza? Certo non quello che impone il politicamente corretto, sempre più spesso agli stessi manifestanti e organizzatori di proteste, e cioè che la violenza non è ammissibile, in nessuna circostanza, anche se ti stanno facendo letteralmente a pezzi togliendoti il lavoro, il reddito e una prospettiva di vita minimamente decente per il futuro. Gli stupidi, gli idiotizzati e coloro che sono in mala fede ripetono ad ogni occasione “No alla violenza!”, e lo fanno coralmente soprattutto quando si verificano incidenti durante manifestazioni di protesta che si vorrebbero “democratiche”, “ordinate”, “pacifiche” (tradotto in altri termini: totalmente inefficaci), in modo da neutralizzarle facendole passare sotto silenzio. Un frainteso e diffuso “ghandismo”, del tutto privo ed immemore dell’intelligenza politica del Mahatma, universalizzato senza tener conto delle nuove condizioni storiche e sociali, inibisce qualsiasi risposta efficace alle azioni distruttive del nemico, ed esclude persino la legittima difesa. L’unica violenza ammessa dal sistema è quella della spietata classe globale e dei suoi proconsoli locali, ed è questa la violenza peggiore, che produce rilevanti effetti sociali ed antropologici, rischiavizzando i lavoratori, distruggendo il futuro di intere generazioni e spingendo alle soglie della disperazione i soggetti sociali più deboli. Ma questo è nel contempo il miglior disvelamento di ciò che nel concreto significano liberaldemocrazia, mercato, iniziativa economica privata, libera concorrenza, globalizzazione, eccetera, eccetera. Il sistema esercita la sua violenza in dosi crescenti e impedisce che a questa si risponda con la dovuta durezza, anzi, ha agito preventivamente e capillarmente, con grande intelligenza, flessibilizzando ed idiotizzando i sottoposti, fino ad assicurarsi il monopolio della Lotta di Classe. Gli agenti sistemici che propagandano da anni il “pacifismo strumentale” ed inquinano le menti dei sottoposti, lo fanno rispondendo al comando della nuova classe globale dominante, ed in certi casi agiscono in modo “scientifico”. Se ciò non basta, entrano in gioco immediatamente gli apparati repressivi tradizionali e si sfrutta, in seguito, ogni azione dei subalterni definita “violenta”, anche se dettata dall’esasperazione e dalle continue provocazioni ricevute – come, ad esempio, i lanci di sassi, di estintori e di altri oggetti, qualche cassonetto dell’immondizia incendiato, qualche vetrina sfondata, per innescare la spirale della repressione, e per rendere più difficile manifestare in futuro, anche per tutti quelli che “protestano liberamente e democraticamente”, sfilando senza colpo ferire. 242 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La stessa protesta “civile”, ordinata e pecoresca – priva di qualsiasi effetto significativo, ormai disturba e si vuole evitare anche quella, perché il Nuovo Capitalismo, che tira i fili delle camarille politiche locali, è sempre più forte e invasivo e sa che può osare di più, inibendo persino gli innocui belati delle pecore condotte alla tosatura. Chi scrive ammette l’uso della violenza nella sacrosanta Lotta di Classe, che fra un po’, se ci saranno gli auspicati ed improvvisi risvegli delle masse, dopo un lungo sonno artificiale funestato dagli incubi diffusi da questo capitalismo, potremo finalmente chiamare Guerra Sociale di Liberazione. La risposta ad un potere invasivo e criminale, che uccide l’uomo e distrugge l’ambiente, non può essere che violenta e militare, e la futura protesta, per sperare di sopravvivere in contesti difficili e per poter avere qualche efficacia, non potrà che militarizzarsi. E’ quello che hanno cercato di fare anticipando i tempi, a Roma il 15 ottobre, i tanto vituperati Black Bloc, e l’hanno fatto con gli scarsi mezzi a loro disposizione, sfruttando l’organizzazione che intelligentemente si sono dati, nonché le precedenti esperienze di lotta come quelle della Val di Susa, a supporto dei No‐Tav. In occasione dei recenti scontri di Roma, gli “street fighter”che hanno combattuto per le strade dell’Urbe erano praticamente tutti italiani e molto determinati, smentendo anche la menzogna, diffusa fino ad ora, che i violenti sarebbero venuti “da fuori”. Chi si schiera contro il Nuovo Capitalismo finanziarizzato e la piccola politica liberaldemocratica al suo servizio deve condannarli per questo? Deve cedere alla propaganda sistemica, chiamandoli criminali, “neri” (alludendo alle squadre fasciste dello scorso secolo), oppure addirittura “terroristi”, aiutando le polizie mercenarie ad arrestarli, se li ha visti in azione? Certo che no, e chi lo fa o è un idiota (colpito dalla stupidità sociale e politica), o un vigliacco che non ha il coraggio delle sue idee, oppure un individuo in mala fede, schierato con il sistema. Tuttavia, comprendiamo che se la protesta “non politicamente corretta” – quella vera, per intenderci, resterà confinata in ambienti assolutamente minoritari, non potrà avere né una sia pur minima speranza di successo né l’effetto di alzare progressivamente il livello dello scontro, facendo “salti di qualità” futuri. Inoltre, se la violenza esercitata dai dominati, per quanto sacrosanta e giustificabile, è di natura insurrezionale, priva di precisi obbiettivi politico‐strategici, suscitata interamente dalla rabbia e non dalla consapevolezza, frammentata sul territorio in episodi indipendenti e slegati l’uno dall’altro, è destinata a divampare all’improvviso e poi a spegnersi senza troppe conseguenze per il potere vigente, danneggiando, in molti casi, soprattutto i soggetti più deboli. 243 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La propaganda pacifista, il politicamente corretto, l’illusione che questo sistema può essere riformato per giungere ad una vera democrazia (ma cosa significa?), corbellerie come il “capitalismo democratico” o “compassionevole”, non sono altro che strumenti di dominazione delle élite globali e delle sub‐élite locali tributarie, per evitare, appunto, che la protesta diventi veramente incisiva ed estenda la base di consenso alle masse, fino ad ora quasi completamente inerti. Tanto peggio: il far credere che basta liquidare l’attuale “classe politica”, in paesi come l’Italia dove è particolarmente scandalosa e degradata, perché l’orizzonte torni a rasserenarsi e migliorino le prospettive future, sposta l’attenzione dei subordinati, e le energie che potrebbero essere riversate in una vera lotta per la Liberazione, verso un obbiettivo del tutto secondario, che per i globalisti è sicuramente sacrificabile. Ai potentati finanziari che detengono il potere effettivo (su interi popoli e nazioni) non gliene frega niente se qui si impiccano – in senso figurato od anche concretamente, nel nome della legalità e della giustizia, i vari Berlusconi (soprattutto lui, con i suoi nani e ballerine), l’invalido Bossi e Bersani (con i suoi lari e Penati, perché la cosa non metterebbe in pericolo, nella sostanza, la sorgente del potere. Anzi, se ci si limitasse a questo, gli si darebbe la possibilità di cogliere un’occasione d’oro per sostituire i piccoli Quisling locali, ormai “bruciati” e impresentabili, con altri più affidabili, ancor più servili ed apparentemente “illibati”. Unificazione delle lotte, chiari obbiettivi politico‐strategici, creazione di strutture politiche extrasistemiche, estensione della base militante e di consenso, rafforzamento progressivo su un piano militare, sono altrettanti elementi che possono riaccendere la speranza di vittoria sul sistema, ma sono elementi che appartengono interamente ad un processo rivoluzionario. La Rivoluzione è un fenomeno sociale e politico molto diverso dall’insurrezione, può richiedere tempi lunghi (se non storici) e non dipende dalla casualità. Ma piccoli gruppi di giovani (e meno giovani), per quanto volonterosi e determinati – come quelli che hanno affrontato le forze repressive a Roma lo scorso 15 di ottobre, non potranno mai farsi interamente carico del processo rivoluzionario, né avranno mai sufficiente “respiro strategico” per elevare il livello dello scontro, e se la vera protesta, che non rifugge dall’uso della violenza e che spesso non può evitarlo, resterà confinata in ambienti del tutto minoritari (e socialmente marginali, senza offesa per quei coraggiosi), non potrà avere alcuna speranza di successo, e sarà destinata inevitabilmente al fallimento. 244 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Riots e Lotta di Classe (sempre sui fatti di Roma del 15 ottobre) Articolo del 20/10/2011 Dissento totalmente e fermamente con quanti considerano i giovani che hanno partecipato ai disordini di Roma del 15 ottobre “compagni che sbagliano” o addirittura (secondo qualcuno, vedi il sito Bentornata Bandiera Rossa) nemici di classe. Le manifestazioni pacifiche, ordinate, quelle in cui ti arrestano se scendi dal marciapiede (ne sanno qualcosa gli indignati americani di Occupy Wall Street) sono soltanto imposizioni dei dominanti (della classe dominante, si intende) per neutralizzare la protesta. Le manifestazioni avvolte nel bozzolo del ʺpoliticamente correttoʺ e del ʺpacifismo strumentaleʺ, oltre ad essere totalmente inefficaci, come spesso intuiscono gli stessi organizzatori e qualche partecipante fin dall’inizio, fanno soltanto il gioco del sistema. I giovani che hanno lanciato bombe carta, estintori ed altri oggetti, in quel di Roma il 15 di ottobre, fanno parte a pieno titolo della nuova classe povera quanto i metalmeccanici della Fiom, che hanno sfilato in corteo e che sfileranno ancora nell’Urbe il 21 dello stesso mese (nonostante la minaccia di divieto del pagliaccio Alemanno). Quei giovani non possono perciò essere considerati nemici di classe. Anzi, quei giovani (in prevalenza venti‐trentenni, con qualche elemento più anziano fra loro) sono stati gli unici ad uscire dal solco del ʺpoliticamente correttoʺ e del ʺpacifismo strumentaleʺ – che rappresentano altrettanti strumenti di dominazione capitalistici, come dovrebbe essere chiaro a tutti, giunti a questo punto, e, per quanto pochi numericamente, hanno cercato di portare una manifestazione testimoniale, inane, rispettosa delle regole imposte dal sistema, sul terreno della lotta vera. Hanno fatto quello che hanno potuto, forse confusamente, ma con una determinazione che accende qualche timida speranza per il futuro. Sappiamo che un frainteso e diffuso “ghandismo”, a protezione dei meccanismi riproduttivi del Nuovo Capitalismo e degli assetti politici subordinati liberaldemocratici, inibisce qualsiasi risposta efficace alle azioni distruttive del Nemico Principale e di quello secondario (Bce, Fmi, classe globale dominante come principali nemici, sub‐dominanti politici locali tributari dei primi come nemico secondario), ed esclude persino la legittima difesa, disarmando milioni di esseri umani destinati a diventare gli schiavi del Nuovo Capitalismo. Se il nemico ha il monopolio della legalità, e lo usa contro i subordinati per tenerli a bada e “flessibilizzarli” a piacimento, e se ha acquisito anche il monopolio della 245 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Lotta di Classe dopo la fine del mondo bipolare e del blocco sovietico, è necessario uscire dagli schemi imposti (manifestazioni pecoresche, stanche e ripetitive, senza alcun risultato tangibile, troppo simili alle inutili marce per la pace di Assisi) e cercare altre strade per affrontare il nemico, che non escludono lʹuso della violenza, ma, anzi, in questa drammatica situazione sociale lo propagano nella società nel tentativo di destabilizzare il sistema. Certo è che la violenza rivoluzionaria ha contenuti ed obbiettivi diversi dalla mera violenza insurrezionale, che in molte circostanze è unidimensionale perché mossa esclusivamente dalla rabbia dei dominati e che colpisce nei riots “senza guardare in faccia nessuno”, in modo cieco ed indiscriminato. Uno fra i principali problemi che oggi scontiamo è la mancanza di una visione politico‐strategica alternativa, nonché di una buona consapevolezza dellʹidentità del nemico e della sua forza, che sono altrettante caratteristiche delle forze rivoluzionarie e non certo di quelle insurrezionali. In conclusione, chi scrive ritiene quanto segue: 1) I giovani che hanno partecipato agli scontri con le forze della repressione sistemica non sono nemici di classe né ʺcompagni che sbaglianoʺ, ma piccole e provvisorie avanguardie, per quanto confuse e piuttosto ʺgrezzeʺ, della nuova Pauper class capitalistica, ed hanno agito, isolati da una piazza debordante di pecorelle destinate alla tosatura, con una fuga in avanti non però inopportuna. 2) Il pacifismo imposto, come il cosiddetto politicamente corretto, sono strumenti di dominazione neocapitalistica, e i pacifisti che condannano i cosiddetti violenti, schierandosi, di fatto, con le forze della repressione neocapitalista, sono da considerarsi alla stregua di ʺutili idiotiʺ (cioè socialmente e politicamente idiotizzati), come si sarebbe detto un tempo. 3) Eʹ necessario passare dallʹazione ʺrivoluzionariaʺ individuale e collettiva, tipica della propaganda del fatto anarchica di matrice kropotkiniana, lasciata alla “buona volontà” di singoli soggetti (esempio storico in Italia: Gaetano Bresci, esecuzione di re Umberto I nel 1900) o di singoli gruppi, allʹazione rivoluzionaria vera e propria, inserita in un percorso di lotte, in crescendo, caratterizzate dalla ʺprofondità storicaʺ, da una visione politica veramente alternativa e antagonista e animate dalla coscienza dei rivoluzionari (che si lega indissolubilmente allʹaspetto soggettivo della classe, quello coscienziale). Ma affinché ciò accada devono maturare le condizioni storiche e la Pauper class, che sta rapidamente sostituendo il vecchio Proletariato di marxiana memoria ed anche i ceti (inter)medi, deve arrivare alla piena coscienza di sé e della propria forza. 246 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Attacco globalista all’Italia Articolo del 25/10/2011 Dopo la piccola Grecia e la ormai semidistrutta Libia è arrivato il turno dell’Italia. Una volta tanto, chi scrive, pur con molte perplessità e non pochi disgusti, è costretto a stare oggettivamente dalla parte di Berlusconi e Bossi, nemici insidiosi ma secondari, contro il Nemico Principale globalista. La replica di Berlusconi al ghignante duo Merkel e Sarkozy – “Nessuno nell’Unione può autonominarsi commissario e parlare a nome di governi eletti e di popoli europei. Nessuno è in grado di dare lezioni ai partner.”, è un gesto di risentimento e di stizza e nello stesso tempo uno scatto d’orgoglio inaspettato, ma di certo non chiarisce che anche la Merkel e Sarkozy non sono affatto “sovrani”, essendo ridotti al ruolo di comparse e marionette della classe globale che controlla l’Europa, quanto i vari burocrati come Herman Van Rompuy o i Barroso. Questo è il destino dei moderni valvassini, nobili di basso rango subordinati ai livelli superiori e loro espressione, e nel caso di Merkel e Sarkozy – a riprova che non esiste una vera Europa, in qualche modo unita, con sentimenti di fratellanza fra i popoli che la compongono, i due stanno soltanto cercando di mettere al sicuro i loro piccoli feudi (tali ormai si possono considerare nell’economia globale), buttando a mare e cannibalizzando l’Italia, nell’illusione che questo sacrificio offerto per placare la fame di Mercati e Investitori possa bastare. Merkel e Sarkozy, per quanto sprezzanti nei confronti di Berlusconi (ma soprattutto nei confronti dell’Italia), non sono in grado ribellarsi alla classe globale dominante, alla BCE e all’euro, né avrebbero il coraggio di farlo (trattandosi di piccole tacche) e allora cercano di trasformare in vittime sacrificali per il nuovo Moloch capitalistico i paesi più deboli dell’Europa dell’Unione (l’Europa monetaria e posticcia), sperando da bravi valvassini che i loro circoscritti territori, Germania e Francia, non subiscano la stessa sorte, inghiottiti con tutta la popolazione nella fornace della Creazione del Valore finanziaria, azionaria e borsistica. Molto meglio buttare a mare l’Italia, con la piccola Grecia. Tuttavia Berlusconi, nonostante il piccolo scatto d’orgoglio, assicura che il suo governo farà quanto richiesto (leggasi quanto ordinato dalla Voce del Padrone), e sta cercando disperatamente di convincere Bossi a mettere mano alle pensioni, ben sapendo che la riforma delle pensioni da sola non basterà (non basta mai agli stragisti globali ed europoidi) e che l’Europa, o meglio, il suo doppio maligno interamente nelle mani dei nuovi dominanti, chiede “un pacchetto completo” di controriforme impoverenti ed altra macelleria sociale (vendita del patrimonio pubblico, liberalizzazioni e privatizzazioni, tagli draconiani al welfare), in dosi sovrabbondanti. 247 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 A nulla serviranno questa volta altri condoni fiscali, da iscrivere a bilancio ottimisticamente, pur di evitare di toccare lʹetà pensionabile e di ʺmettere le mani nelle tasche degli italianiʺ, scontentando così milioni di lavoratori, di contribuenti, e soprattutto di potenziali votanti. Si “richiedono” all’Italia, con decisione e in fretta e furia, dando 48 ore di tempo come nei classici ultimatum militari, misure adeguate per la crescita (leggasi la folle corsa all’incremento del valore finanziario che tutto travolge), per l’occupazione (è soltanto fumo negl’occhi, perché esclusione e sotto‐occupazione caratterizzano questo capitalismo), e la tanto attesa riforma della giustizia (ma non come vorrebbe il Berlusconi pluri‐inquisito). Il Nuovo Capitalismo si sta affermando nel mondo come modo di produzione sociale prevalente, in sostituzione del capitalismo del secondo millennio, e la Global class, con il suo sistema di potere, è sempre più forte ed oggi sembra che possa permettersi di agire incontrastata a varie latitudini, nonché di imporre alla luce del sole, attraverso i suoi proconsoli e valvassini locali, misure economico‐ finanziarie e politiche da seguire ai governi e agli stati. Altrimenti si finisce come la Grecia, o peggio, come la Libia. Le nuove contraddizioni capitalistiche, che quando si manifesteranno saranno più laceranti e sanguinose di quelle del capitalismo del secondo millennio (lotta di classe fra borghesia e proletariato, falsa libertà, sfruttamento degli operai), sembra che siano ancora ben lontane dall’esplodere in tutta la loro virulenza. Perciò si difende con successo e si propaga il peggior liberismo distruttore, profittando dell’assenza di contrasto e dell’inerzia delle popolazioni, quando persino il Vaticano, attraverso l’autorevole Pontificio consiglio per la giustizia e la pace, è giunto alla conclusione (scontata) che l’attuale crisi è il prodotto della diffusione delle ideologie liberiste. Dopo aver ricattato e piegato la Grecia, messa sotto ferrea “tutela” e governata direttamente da collaborazionisti locali (Gorge Papandreou e il suo Pasok “socialista”), dopo aver contribuito a semidistruggere la Libia per poter controllare i suoi bacini di materie prime energetiche, usando lo strumento militare Nato e spingendo in prima linea la Francia e l’Inghilterra interventiste, i globalisti dominanti ora se la prendono con l’Italia, boccone grosso in Europa e paese debole, con un grande debito pubblico e una bassa crescita (principali pretesti per l’attacco) ed un presidente del consiglio screditato e un po’ “indisciplinato” (che è un altro pretesto). I sub‐dominati politici tedeschi e francesi, valvassini di un capitalismo che rivela sempre di più inquietanti tratti neofeudali, collaborano nel mettere alle strette l’Italia e continuano a sperare che i loro paesi (piccoli feudi) non finiscano nella fornace di un possibile collasso dell’euro e dei continui downgrade orchestrati dalle agenzie di rating. 248 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Qui non si afferma che si devono difendere a spada tratta Berlusconi e il suo esecutivo come “minore dei mali”, ben sapendo che ciò che verrà dopo sarà totalmente subordinato ai globalisti e ai loro proconsoli continentali europoidi, ma soltanto che Berlusconi non è più il primo problema per l’Italia, e la sua rimozione, consensuale o forzata che sia, non avrà certo il potere – come ci fa credere una parte significativa dell’apparato massmediatico, di rasserenare l’orizzonte. Del resto, Berlusconi non ha proprio tutto quel potere che fino a poco tempo fa gli si attribuiva (quasi che fosse il neoduce), poiché, come ha scritto in modo molto chiaro Costanzo Preve, “L’Italia è completamente commissionata dal duopolio Draghi‐Napolitano. Un banchiere ed un ex‐comunista riciclato in rappresentanza degli interessi militari dell’impero americano (glissiamo sull’impero americano, n.d.s.) e (soprattutto, n.d.s.) dei parametri oligarchici dei poteri finanziari.”, ma il Cavaliere continua a starsene incollato su quella poltrona di presidente del consiglio dalla quale i dominanti globali lo vogliono sloggiare. Il pacchetto completo di riforme ordinato al governo italiano dalla classe globale attraverso i proconsoli europoidi sicuramente, una volta varato e applicato (e probabilmente ciò si verificherà abbastanza presto), seminerà miseria e disperazione nella penisola. Ci sarà a quel punto una forte reazione della parte sana del paese, con connotati finalmente anti‐europei ed anti‐euro, rivolta contro il Nemico Principale (la Global class) e i suoi valvassini in Europa? Questa sarebbe la speranza, ma finora le manifestazioni e le proteste (tranne forse che in Grecia), per quanto nella maggioranza dei casi blande e pacifiche, si sono rivolte sempre contro i governi locali e non contro chi li comanda, li manovra e li tiene in pugno. A che servirà, se sopravvivrà politicamente ancora per un po’, prendersela sempre e soltanto con il valvassino mancato Berlusconi, in calo di consensi e sgradito ai globalisti dominanti, visto ciò che sta per arrivarci addosso? 249 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Uscire dall’euro! (Ma come si può fare?) Articolo del 27/10/2011 Da più parti, in qualche caso timidamente, in qualche caso con più decisione, nelle catacombe virtuali della controinformazione o altrove, si avanza la proposta dell’uscita dell’Italia dall’euro. Chi scrive ha sempre pensato, fin da prima dell’introduzione dell’euro nella concreta circolazione monetaria – avvenuta nel 2002 spazzando via per sempre le vecchie, ma solide monete nazionali, che la moneta unica si sarebbe comunque rivelata maligna, sia nel caso di rifiuto della sua adozione sia nel caso dell’introduzione della nuova valuta sopranazionale, ed in particolare in relazione all’Italia della buona, vecchia liretta. Se l’Italia se ne fosse rimasta fuori, nel breve la lira avrebbe subito pesanti attacchi speculativi, svalutazioni, perdita di potere d’acquisto internazionale, e tutto ciò avrebbe inciso negativamente sulla “bolletta energetica” (già allora salata) a carico del paese e più in generale sulla cosiddetta economia reale, in termini di prodotto e di occupazione. Entrando nell’euro – grazie a figuri del calibro di Romano Prodi, il quale si è vantato a lungo di averci portato in Europa, le cose sono andate come sappiamo, e i “benefici” sul reddito e sull’occupazione li possiamo osservare ogni giorno. Oggi, per sfuggire alla morsa globalista che attraverso gli organi della mondializzazione europei vuole espellere dal lavoro e lasciare senza reddito milioni di italiani, oppure costringerli a lavorare a condizioni sempre peggiori fino alle soglie dei settanta anni, la fuga dall’euro sembra una necessità impellente per evitare un processo di impoverimento nella penisola destinato a durare (almeno) per tutto il decennio. Niente più pensioni di anzianità, masse di disoccupati alla disperazione, liberalizzazioni selvagge, privatizzazioni orchestrate per impossessarsi del patrimonio pubblico, sembrano oggi il nostro destino futuro, restando nell’euro e nell’Europa dell’Unione. Anche se non sempre vi è piena consapevolezza in chi propone la fuga dall’euro, per questa via si vuole mettere al riparo il paese dalle strategie criminali della classe globale, che da New York a Londra, e da tutte le piazze finanziarie nelle sue mani, sta volgendo la sua rapace attenzione verso l’Italia, aspettando il momento giusto e il passo falso per “spolpare l’osso”, dopo averci ricattato con il debito ed averci lanciato una serie di ultimatum attraverso le sue disgustose marionette europee (alcune delle quali italiane, come i rinnegati Draghi e Monti). In Patria, personaggi ambigui ed inconsistenti della fatta di Giorgio Napolitano, apostata comunista “migliorista” e neoliberista arrampicatosi fino alla presidenza 250 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 della repubblica, od anche l’intera “sinistra” asservita ai globalisti ed inneggiante ai macellai sociali per conto terzi Draghi e Monti, sono pronti a mettere in atto in un istante, punto per punto, i diktat europoidi‐globalisti, se solo il riottoso e pluri‐ inquisito Berlusconi si fa finalmente da parte (come vorrebbe persino il New York Times). Dietro i Van Rompuy, i Draghi, i Trichet, i Monti, i Napolitano, dietro i sorrisetti anti‐italiani delle inezie politiche liberaldemocratiche Merkel e Sarkozy, dietro le spalle della “sinistra” nostrana, apostata del comunismo e serva della classe globale – però nel nome sputtanato dell’Europa (non più Dio lo vuole!, ma l’Europa lo vuole!), si mal cela la nuova, spietata classe dominante del terzo millennio, la Global class deterritorializzata, nomade quanto i capitali finanziari che peregrinano senza sosta nel mondo, e le masse di denaro in continuo spostamento, per lo più virtuali, che ne simboleggiano il grande potere. La sottomissione ai processi di globalizzazione economica ed alla supremazia del capitale finanziario passano, per l’Italia, sotto le Forche Caudine delle misure atte a favorire la Crescita neocapitalistica, che sotto la superficie nascondono controriforme epocali rivolte direttamente contro la popolazione e contro il lavoro. Eppure una “sinistra” menzognera, vile, priva di programmi politici (che tanto non servono perché si decidono altrove), e soprattutto serva dei globalisti, non perde occasione per santificare la Crescita, come se fosse non una via per rischiavizzarci (cresceranno soltanto il Valore finanziario, la sotto‐occupazione e la disoccupazione), ma la soluzione di tutti i nostri problemi e la strada per la salvezza. Ed ecco che un Berlusconi riottoso, ma alla fine anche lui prono, presenta la sua “lettera d’intenti” di sedici paginette, con tanto di premessa, a coloro che ci stanno tenendo sotto assedio – dalle cosiddette istituzioni europee alle principali piazze finanziarie, e come avvoltoi se ne stanno sul ramo, attendendo l’occasione giusta per calare sul paese e dilaniarlo. Una lettera che Silvio il discolo ha iniziato (chissà se proprio di suo pugno) con “Caro Herman, caro José Manuel”, che sono poi gli amatissimi Van Rompuy e Barroso, rispettivamente presidente del consiglio dell’unione e capo della commissione che nessuno di noi ha eletto. Se 60 miliardi di euro di manovre finanziarie in rapida sequenza non sono bastati, finora, a placare la fame globalista, forse non basterà neppure la letterina di Berlusconi. In questa lettera, simile da una missiva che contiene la resa, l’età pensionabile innalzata a 67 anni è stata parzialmente neutralizzata “diluendola” fino al 2026 (voluntas Lega, per mere ragioni elettoralistiche), ma in compenso ci sono altre misure, agghiaccianti sul piano sociale, che ci si poteva attendere da un 251 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 vigliacchetto come il Cavaliere, solo un po’ riottoso davanti ai poteri forti (anzi, davanti al Vero Potere, come scriverebbe un Paolo Barnard). Dal maggio del 2012 licenziamenti più facili per espellere dalle aziende che invocano lo stato di crisi i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (e tanti saluti all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ancora in vigore). Nei confronti degli statali regime duro con mobilità obbligatoria, cassa integrazione e annesse riduzione salariale e del personale, poi, il progetto dal suggestivo dal nome di “zone a burocrazia zero” che forse si rivelerà aria fritta,eccetera, eccetera. Berlusconi – ancora e sempre (fino alla fine, sempre più vicina) fianco a fianco con l’alleato Bossi in una ridotta, ha difeso soltanto impresari, bottegai e commercianti (libertà di orario per i negozi dal 2012), e gli ordini professionali privilegiati (i privilegiatissimi notai, ad esempio, che non sono stati ancora “liberalizzati”). Il tanto atteso piano per lo Sviluppo – che assicurerà la Crescita devastatrice neocapitalistica, il Cavaliere giura che spunterà fra poco, entro novembre. Il clima è quello del Trattato di Versailles del 1919, solo che le dure condizioni oggi le deve scontare l’Italia assediata da speculatori e sciacalli globali, non la Germania sconfitta. A questo punto, l’uscita dall’euro sembra la cosa più urgente, assieme alla contestuale denuncia di tutti i trattati‐capestro europei, a partire da quello fondativo di Roma (ironia della sorte) del 1957. Chi scrive è forse uno degli ultimi eurocentrici in circolazione, ma il disprezzo che nutre per la cosiddetta Europa dell’Unione, l’Europa sottomessa alla classe e al mercato globali, L’Europa senza più dignità ed indipendenza che ha sostituito l’Etica con l’euro e la sua grande cultura con la finanza, lo spinge a desiderare la catartica fine della moneta unica e delle istituzioni europee (BCE, commissione, parlamento e tutto il carrozzone burocratico annesso), per poter ricominciare a dare all’Europa ‐ all’intero continente, da ovest a est senza esclusioni, una vera speranza futura e la possibilità di ricostruirsi su ben altre basi, che dovranno poggiare su un consenso popolare non estorto e non simulato. Ci si deve chiedere, però, se in questo momento è realistico ipotizzare un’uscita dalla moneta unica e l’abbandono dell’Unione, almeno per paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna e il Portogallo, che sono i più colpiti dagli effetti della crisi strutturale neocapitalistica e dal ricatto globalista del debito. No, purtroppo non lo è. La strada sarà lunga, perchè nessun politico liberaldemocratico cresciuto all’interno di questo sistema, sia che si definisca “conservatore” sia che si definisca “socialista” (o in qualsiasi altro modo), oserà fare un simile passo, anche se i due terzi della popolazione del paese dovessero essere favorevoli. Inoltre, anche se più del 60% della popolazione di un paese dovesse esprimersi per l’abbandono dell’euro e l’uscita da questa Europa, non ci saranno estese proteste, 252 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 tali da essere efficaci, fino ad indurre i politici locali a mutare posizione e a non servire più i globalisti mettendo in atto le politiche da loro imposte. Il “pacifismo strumentale”, che è uno strumento di dominazione neocapitalistico cruciale in momenti di diffuso malessere sociale (momenti come quello attuale in cui può alzarsi il vento della rivolta), provvederà a neutralizzare le manifestazioni di massa, che saranno ‐ a parte qualche isolato episodio di guerriglia urbana dovuto a piccole minoranze, “democratiche”, “politicamente corrette” e non‐violente, quindi totalmente inefficaci e non pericolose. Restando interni al sistema, e giocando secondo le sue regole, non si otterrà nulla. Prima di rivolgersi direttamente contro l’euro e le istituzioni europee, abbandonandole e sconfessandole, sarà necessario far cadere i regimi liberaldemocratici in Europa e ripristinare la tanto vituperata dittatura (rivoluzionaria) come stato di eccezione. Il materializzarsi della possibilità di uscita dall’euro e l’inizio del collasso della falsa Europa globalista non potranno che avvenire per gradi, o meglio, per fasi successive. Le fasi saranno essenzialmente quattro, esposte di seguito sinteticamente: 1) Il prevalere progressivo, con il diffondersi del malessere sociale e degli espropri globalisti, delle proteste violente su quelle “pacifiche” sostanzialmente interne al sistema e a lui funzionali, nonché il prevalere di quelle che oggi si demonizzano come “frange violente” sulla massa di pecoroni inerti che ripetono stanchi slogan, srotolano striscioni e gonfiano palloncini, il che potrebbe ridurre “a più miti consigli” le stesse forze della repressione che fino ad ora hanno spadroneggiato nelle piazze, bastonando gli inerti, gli studenti giovanissimi o i lavoratori disarmati che manifestavano per il posto di lavoro. Altro punto importante sarà che dopo l’autoconvocazione della protesta di piazza allʹacqua di rose, sullo stile indignati, la protesta vera dovrà strutturarsi e gerarchizzarsi, diventare permanente ed organizzarsi meglio, con agguerriti servizi di sicurezza o addirittura in falangi, sullo stile del Blocco Nero, per evitare di essere sbaragliata. 2) Estese manifestazioni con l’uso della violenza in tutto il paese, che concretamente e simbolicamente romperanno le catene del “pacifismo strumentale” e del “politicamente corretto”, mettendo seriamente in discussione la stabilità del regime liberaldemocratico e la stessa sicurezza fisica delle sub‐oligarchie politiche locali. Blocchi delle attività produttive e dei trasporti, occupazioni permanenti di spazi e edifici pubblici importanti. Si sentiranno i primi scricchiolii dell’impianto di potere vigente, si noterà la paura sui volti dei politici di professione (in sostituzione degli insopportabili sorrisi di circostanza) e l’aria, per loro, diventerà pesante. 253 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 3) Con il crescere della forza di piazza e del numero dei gruppi sociali in rivolta (lavoro intellettuale sottopagato e costretto ad emigrare, lavoro impiegatizio, lavoro operaio, lavoro immigrato, giovani precari, eccetera) sarà possibile la costituzione di movimenti di vera opposizione politica e/o l’occupazione di preesistenti organizzazioni sindacali (Fiom, CGIL) e politiche (PRC), bonificate da burocrazie interne e incapaci sdraiate da troppo tempo sui loro piccoli privilegi. Soltanto alla fine di questa terza fase ci potrà essere il collasso del sistema liberaldemocratico e l’occupazione delle sue (screditate) istituzioni da parte quelli che ormai saranno diventati veri e propri rivoluzionari. Se ciò accadrà, per evitare il caos e la dissoluzione dello stato, si renderanno necessari l’autoritarismo e la centralizzazione rivoluzionari, riportando in vita la tanto demonizzata dittatura come stato d’eccezione, l’unica forma di governo in grado di gestire efficacemente la transizione e di consolidare le conquiste rivoluzionarie. Sarà una fase spietata in cui non si potrà andare per troppo per il sottile, ma ancora legata alla lotta contro il nemico secondario (politico e sociale) nella dimensione nazionale. 4) La quarta fase, con l’uscita dall’euro e la denuncia di tutti i trattati europei, costituirà un salto di qualità nella lotta, perché ci si rivolgerà direttamente contro il Nemico Principale globalista e i suoi interessi, ma soltanto dopo aver sconfitto, riducendolo all’impotenza, quello secondario e interno. Se ciò accadrà in più di un paese europeo, solo a quel punto si potranno interrompere i meccanismi riproduttivi neocapitalistici e i processi di globalizzazione, ottenendo una vittoria di rilievo, perché l’area europea è (e sarà ancora per un po’, in futuro) un’area fra le più importanti del mondo globalizzato. La classe globale che sorveglia gli stati e le nazioni dall’alto, già fin dalla fase 3 e prima che collassi il sistema liberaldemocratico nel paese europeo in rivolta, potrebbe impiegare lo strumento militare della Nato, a sua completa disposizione, oppure potrebbe farlo nella fase 4, subito dopo il ripudio dell’Europa monetaria, dell’euro e la minaccia portata alle sue istituzioni sopranazionali, e questo costituirà un grande problema per i rivoluzionari mettendo in forse l’esito della loro Lotta di Liberazione. Afghanistan, Iraq e Libia insegnano, e quanto finora è accaduto in paesi extraeuropei, o nell’area balcanica, potrebbe benissimo accadere in Europa occidentale e centro‐orientale perché il potere globalista non è legato a nessuna specifica area del mondo, a nessuna nazione e a nessun popolo in particolare (neppure a quello americano). La conclusione è che dall’euro si uscirà soltanto con la Rivoluzione. 254 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Berlusconi, l’euro e i paladini della moneta unica Articolo del 30/10/2011 Molta la carne al fuoco, negli ultimi giorni. Gli eventi sembrano precipitare rapidamente, e fra un po’ la carne al fuoco sarà proprio quella degli italiani. Berlusconi non rinuncia a fare il riottoso, davanti ai soliti poteri forti che ne osservano le mosse e lo tengono sotto tiro (per sostituirlo con una loro marionetta più disciplinata), e dinanzi ad una platea di imprenditori, in occasione degli stati generali del commercio estero all’Eur, ci è ricascato, facendoci sapere (come se non lo sapessimo già) che è in corso un attacco all’euro perché si tratta di una moneta che non ha convinto nessuno. Il Cavaliere rincara la dose – in un disperato tentativo di rimontare la china del consenso, sostenendo che l’euro è la strana moneta di un gruppo di paesi (l’Europa dell’Unione Monetaria) che però non dispone di un vero stato, di un governo comune e di una banca come si deve, di riferimento e di garanzia. Argomentazioni, quelle di Berlusconi, superficiali e meramente propagandistico‐ elettorali – come pare evidente conoscendolo, ma che suscitano scandalo perché violano quello che diventa il tabù dei tabù: la partecipazione a tutti i costi dell’Italia, anche davanti all’evidenza del massacro sociale, all’Europa maligna dell’euro e la completa soggezione alla dominazione globalista. Attaccato da più parti per ciò che ha dichiarato pubblicamente, il Cavaliere in bilico privo di coraggio ha fatto subito marcia indietro, sostenendo che le sue dichiarazioni sono state come il solito mal interpretate, e che l’euro è la nostra bandiera. In effetti, i difensori dell’euro santificato ‐ la cui introduzione nella circolazione effettiva lo stesso Berlusconi ha permesso e avallato, nella politica ufficiale sono numerosi come le mosche su un corpo putrefatto, e nessuna “voce fuori del coro” è a lungo tollerata. Perciò, le marce indietro sono inevitabili, se si ha poca dignità personale, se non si hanno solidi ideali, ma soltanto secondi fini, e si vuole semplicemente continuare a mantenere il proprio posto “al sole”. Lo spettacolo che offre il regime liberaldemocratico, in un momento topico per il paese, è scopertamente disgustoso, a partire dallo stesso Berlusconi della critica improvvisata all’euro, fino ad arrivare agli esponenti “dell’opposizione” parlamentare che sostiene l’euro, e persino ad ex presidenti della repubblica, presumibilmente rincoglioniti, ma comunque dediti alla propaganda per conto della classe globale trionfante. L’euro non si tocca, L’Europa monetaria è intangibile, e a loro non ci si può ribellare, anche se stanno falcidiando come mitragliatici di grosso calibro interi 255 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 popoli europei, perché questa è la voluntas dei, cioè la volontà degli dei globali che gli officianti della politica nazionale e ufficiale – tutti, senza eccezione alcuna, servono diligentemente. Infatti, la peggior burocrazia politica pidiina pronta a mettersi al servizio dei globalisti ha approfittato della ghiotta occasione ed è insorta contro Berlusconi, tacciandolo di irresponsabilità (la supponente ed inutile Anna Finocchiaro), accusandolo di far danni (che Berlusconi fa regolarmente, ma in tal caso soprattutto, secondo Stefano Fassina), od anche, come ci informa l’Ansa, intimandogli un “giù le mani” dal prezioso euro (lo strisciate Enrico Letta, nipotino di Gianni, diversamente schierato rispetto al potente zione). Persino Ciampi, vuotissimo e retorico presidente della repubblica prima di Napolitano, ex di Bankitalia al quale Mario Draghi telefona “affettuosamente”, lancia il suo monito per difendere la moneta unica, che poi è la solita minaccia di guai ben peggiori per l’Italia in assenza dell’euro. Segno che alla vecchia politica della carota e del bastone i globalisti hanno sostituito quella dell’alternativa fra un bastone ed un’altro ancor più grosso e nodoso, che può calare sulle nostre schiene in ogni momento. L’euro diventa almeno quanto il Libero Mercato “mistero della fede”, nella propaganda di questi sciagurati servi della Global class (pidiini o nonagenari ex presidenti che siano), e dopo di lui o senza di lui ci toccherà il diluvio ... Volendo restare scherzosamente su un piano mistico‐religioso ‐ ma non troppo celiando, data la serrata propaganda pro‐euro e pro‐mercato di questi giorni per plebi credulone e sanfediste, i due dogmi intangibili della fede ultraliberista in Europa si stanno trasformando, per tutti noi, nelle due bestie, uscite dal mare e dalla terra, delle Apocalissi di Giovanni. Tutto questo in molti cominciano ad intuirlo, dopo un lungo sonno idiotizzante a base di “Unione Europea e euro”, “sfide del Libero Mercato”, “rischi ma anche opportunità”, “attrezzarsi per affrontare la competizione globale”, priorità da dare alla “Crescita”, “flessibilità del mercato del lavoro”, eccetera, eccetera. Ma purtroppo, come ha detto Hegel, non tutto ciò che e noto (o dovrebbe ormai esserlo) è anche conosciuto, e l’inizio di un risveglio non significa il raggiungimento della piena consapevolezza. Idiotizzazione e flessibilizzazione dei popoli, finanza e moneta, sono la trimurti del Nuovo Capitalismo, e i suoi officianti lo sanno, o almeno lo intuiscono. Quindi il maligno euro va difeso ad ogni costo, i soldi devono essere erogati alle banche ed alle istituzioni finanziarie, e la popolazione deve essere narcotizzata, resa “flessibile” per un lavoro sempre più schiavo, e trasformata in un branco (gestibile) di idioti sociali. Tornando all’Italia ed al suo miserabile regime liberaldemocratico, mentre i pidiini attaccano Berlusconi, colpevole di aver messo in discussione, sia pur blandamente e 256 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 solo a parole, San Euro, l’amministrazione federale americana, per bocca di Barack Obama, pungola ipocritamente l’Europa (dopo che gli USA ci hanno scaricato una buona parte del peso della crisi addosso) ad intervenire il più velocemente possibile per risolvere i suoi guai, la Cina globalista non è d’accordo sugli interventi per sostenere l’eurozona (che affondi pure l’Europa!), lo spread dei BTP decennali con il Bund torna ad alzarsi, e con lui la spesa per interessi dello stato italiano. In una recente simulazione della Cgia di Mestre si dimostra che se i licenziamenti selvaggi per motivi di crisi economica (contemplati nella lettera d’intenti di Berlusconi ai potentati globalisti europidi) fossero stati possibili fin dall’inizio della crisi globale, il tasso di disoccupazione sarebbe aumentato esponenzialmente, mantenendosi stabilmente a due cifre, ma il nemico giurato dei lavoratori Maurizio Sacconi, ministro del lavoro e del welfare, difende i licenziamenti selvaggi ignorando lo Statuto dei Lavoratori, e diffonde la solita favoletta che così facendo si vogliono creare le condizioni per la crescita delle imprese ... e dell’occupazione! Perciò, il vero problema non è che l’euro non ha convinto nessuno (“caro” Berlusconi, che poi ti rimangi ciò che dici!), ma è che la moneta unica rivela oggi la sua vera funzione, e cioè quella di strumento di dominazione e di esproprio neocapitalistico, riducendo all’impotenza stati, popoli e nazioni. 257 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Discussione con Costanzo Preve: l’esperimento greco, l’uscita dall’euro e la crisi italiana Articolo del 02/11/2011 Telefono al filosofo Costanzo Preve verso le 17.00 di martedì 1° novembre, giorno festivo di ognissanti, così possiamo parlare con una certa tranquillità per qualche decina di minuti dei “massimi sistemi”, ma soprattutto della crisi del debito che ha funestato la Grecia ed ora sta investendo in pieno anche l’Italia. Io vivo nei pressi di Trieste e lui a Torino, perciò, a parte qualche mia rara puntata nel capoluogo piemontese, possiamo sentirci soltanto grazie alla cornetta (Costanzo non possiede il cellulare). I temi discussi sono quelli “caldi” della situazione greca, della situazione italiana e dell’uscita dall’euro. Il grande filosofo hegeliano e marxiano conosce bene la situazione greca ed è favorevole, almeno quanto lo sono io, all’uscita dell’Italia dalla prigione della moneta unica. **** **** In relazione alla “fuga dall’euro”, faccio presente a Costanzo che nessun politico interno ad uno dei regimi liberaldemocratici europei – caratterizzati, nel concreto, dalla coercizione della popolazione e dalla sottomissione alla classe globale, avrà mai il coraggio e la volontà di portar fuori dell’euro il suo paese e di denunciare i trattati europei, andandosene dall’Europa unionista e globalista sbattendo la porta alle spalle, e questo anche se la maggioranza assoluta della popolazione lo vuole. Del resto, la semplice uscita dall’euro e del cerchio più interno dell’Unione Europea, quello monetario (UEM), può non bastare, se si vuole arrestare l’attacco globalista alle frontiere, ed è necessario voltare le spalle per sempre alla caricatura dell’Europa che ci sta trascinando verso il baratro sociale, uscendo totalmente da lei e dalle sue istituzioni. Costanzo controbatte dicendo che il referendum greco sull’accordo per il debito, proposto proprio da George Papandreou, nel caso che la maggioranza dei votanti 258 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 respingesse l’accordo, potrebbe avere una grande importanza non soltanto per la piccola Grecia sotto ricatto, ma per tutta l’Europa. La Grecia, in conseguenza di ciò (il rifiuto da parte della maggioranza dell’accordo sul debito), potrebbe uscire dall’euro e così potrebbe innescarsi un processo di riorganizzazione politica e sociale complessiva della società di quel paese. Costanzo non lo dice in modo esplicito, ma io ho compreso che sta pensando ad un passo successivo, e cioè ad un possibile “effetto domino” oltre i confini dell’Ellade, in paesi come la Spagna, il Portogallo, o forse anche l’Italia, che avrebbero, a quel punto, un esempio da seguire e una possibile “via di fuga” già tracciata. Il referendum, istituto residuale della democrazia diretta, potrebbe avere effetti dirompenti sulla stabilità dell’euro e sulla stessa sopravvivenza dell’Unione europide, secondo Costanzo Preve, in caso di sconfessione dell’accordo sul debito da parte della maggioranza della popolazione greca. Però, come ammette il filosofo marxiano che è grande conoscitore della società ellenica, che legge e scrive in greco moderno ed è costantemente in contatto con gli ambienti intellettuali di quel paese, se un proconsole al servizio dei globalisti come Papandreou ha voluto il referendum, è perchè il suddetto è abbastanza sicuro di vincerlo (facendo digerire definitivamente l’accordo, a quel punto legittimato dalla “volontà popolare”, a tutto il popolo greco), e per vincerlo i greci saranno ricattati e terrorizzati, attraverso la minaccia di un ulteriore e drastico impoverimento, se non addirittura la fosca prospettiva della fame e della sete, la minaccia di un nuovo pericolo turco, che potrebbe investire una Grecia isolata e non più ben agganciata all’Europa unionista monetaria, eccetera, eccetera. Osservazione mia che non ho fatto a Costanzo durante la conversazione telefonica: curiosamente, si utilizza l’istituto referendario, che dovrebbe voler dire democrazia diretta e partecipazione popolare, per far passare – minacciando e terrorizzando la popolazione con prospettive apocalittiche, controriforme rivolte contro la grande maggioranza del popolo greco, ivi compresi i ceti medi impoveriti (medici, avvocati ed altri). La situazione greca è spaventosa, molto di più di quanto la fanno apparire i media da noi, mi dice Costanzo, perché ormai negli ospedali le famiglie portano da casa il cibo ai malati, cominciano a mancare le stesse medicine e i materiali sanitari, e si può rischiare anche di morire. E’ una situazione che un tempo si diceva da “terzo mondo”, e perciò nuova per un paese che in passato aveva conosciuto al più una dignitosa povertà, ma non la miseria nera. 259 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Da noi, invece, gli faccio presente (ma lui lo sa bene), è un po’ meno grave, anche se i genitori sono costretti a portare in edifici scolastici non di rado fatiscenti la carta per le fotocopiatrici e la carta per i cessi, che mancano a causa i tagli dei fondi destinati all’istruzione pubblica. Ma fra non molto anche in Italia (e in Spagna) la situazione potrebbe degenerare, approssimando quella di un paese del “terzo mondo”. Tornando al caso greco, lunghi mesi di manifestazioni partecipate, violente e non violente, di disordini di piazza, di occupazioni (come quella della simbolica Acropoli che sovrasta Atene), nonché di scioperi generali paralizzanti ‐ dei quali sembra che non sia importato quasi nulla alla classe globale detentrice del capitale finanziario, hanno però indotto il Papandreou di terza generazione a fare questo “azzardo”, per chiudere la questione sperando che l’accordo passi, sia legittimato una volta e per tutte e cessino le proteste, altrimenti destinate a cronicizzarsi e forse a diventare tutte violente, cioè più incisive. Se il referendum si farà, dunque, è perchè il proconsole locale Papandreou e i dominanti che lo manovrano sanno che avranno buone possibilità di vittoria, pur con una maggioranza risicata. C’è da credere che Costanzo, in proposito, ha ragione, e i risultati della consultazione referendaria, se mai si farà, potrebbero confermarcelo. Ciò non toglie che l’annuncio del referendum greco ha dato l’occasione alla speculazione finanziaria globalista per provocare un’altra ondata di ribassi borsistici, a partire da Wall Street fino ad arrivare a Milano, e per rastrellare altre risorse finanziarie (con i put, le scommesse a ribasso, attraverso la finanza strutturata, acquistando azioni a prezzo stracciato che potranno rivalutarsi in futuro, fin dai cosiddetti rimbalzi tecnici, eccetera), e lo spread con il Bund tedesco del BTP nostrano è volato fin oltre i 450 punti, provocando un ulteriore aumento del tasso di interesse sui titoli del debito pubblico italiano (che ha ormai superato il 6%). I governanti liberaldemocratici, in particolare quelli di Francia e Germania, nonché i notabili che gestiscono le istituzioni europidi per conto della classe globale si sono infastiditi per l’annuncio del referendum greco, che ha permesso a Mercati e Investitori di “punire”, oltre all’Italia, anche le banche e le borse del vecchio continente con l’orgia speculativa a ribasso. Nel meccanismo infernale neocapitalistico in atto, alimentato dal ricatto del debito, dalle ondate di crisi e dalla speculazione finanziaria (quale fonte di Creazione del 260 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Valore), la prima vittima europea, che è la Grecia pronta al referendum, danneggia indirettamente la seconda, l’Italia già condannata, e avvantaggia comunque la classe globale, unica a beneficiare dei risultati della speculazione, non importa se a rialzo o a ribasso. **** **** A parere di Costanzo la Grecia è stata oggetto di un esperimento neocapitalistico destinato, se coronato da successo (come sembra, visti i risultati che ha già ottenuto), a diventare prassi di dominazione e di esproprio in Europa. La Grecia è stata perciò usata dai globalisti come una vera e propria cavia da laboratorio, posta sotto costante osservazione per studiarne le reazioni, prima di risolversi ad aggredire con maggior decisione i bocconi più grossi, cioè l’Italia e la Spagna. Ora c’è il “fastidio” del referendum, inscenato per dare l’illusione che la democrazia funziona, che il popolo è consultato e si esprime, ma la sostanza del discorso non cambia, e sull’evanescenza di quella che molti si ostinano a chiamare democrazia, difendendola e illudendosi di poterla riformare, Costanzo è sostanzialmente d’accordo con me. Del resto è lui stesso che ha scritto, introducendo il concetto del Nemico Principale capitalistico, che sul piano politico il nostro primo nemico assume il volto della liberaldemocrazia. E’ lecito, a questo punto, a giochi scoperti, parlare di regime liberaldemocratico e di uso abbondante della coercizione e dell’inganno, sotto la patina del suffragio universale e della libertà di pensiero, esattamente come faccio io da un po’ di tempo. Ma per quale motivo, tornando al discorso dell’esperimento neocapitalistico in Europa che ha la Grecia come cavia e l’Italia come prossima vittima designata, la classe globale sta facendo tutto questo? Come risposta, il grande filosofo marxiano espone brevemente, con semplicità, ma con estrema chiarezza una sua teoria: ci sono al mondo tre modelli di capitalismo, quello liberista anglosassone e americano, quello cinese – in una Cina che da lunga pezza non è più socialista (sciocchezza alla quale ancora qualcuno crede), caratterizzato dal controllo diretto sullo stato, sulla moneta, sulla popolazione e sul suolo da parte dell’oligarchia (ex)comunista, ed infine il modello europeo occidentale che non è mai stato socialista, ma che è (o meglio era) caratterizzato dallo stato sociale, da una significativa presenza dello stato nell’economia, dalla ridistribuzione dei redditi a vantaggio delle classi più povere ed esposte. 261 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’obbiettivo globalista, secondo Costanzo, è di ridurre a due questi modelli, eliminando attraverso il ricatto, la paura ed uno shock sociale senza precedenti il modello europeo, nel tentativo – fino ad ora riuscito, di uniformare l’Europa agli Stati Uniti d’America, cioè imponendo a tutto il vecchio continente l’adozione del modello liberalcapitalistico, il che giustificherebbe, in particolare per quanto riguarda l’Italia, le future ondate di liberalizzazioni e privatizzazioni, nonché la probabile sostituzione dello storico ed “elefantiaco” welfare con la meno costosa e più ridotta flex security (di cui oggi non a caso si parla molto). Faccio presente a Costanzo che il cosiddetto modello capitalistico europeo non è unico, ma vi sono storicamente modelli differenti, come, ad esempio, le economie miste italiana e francese, il capitalismo renano tedesco, la socialdemocrazia nordica, però la cosa ha ben poca importanza, ed è soltanto una sottigliezza, nel momento in cui l’attacco è generale, distruttivo e l’imposizione del capitalismo ultraliberista avviene su vasta scala, dal nord al sud del vecchio continente, anche se gli attacchi per ora si concentrano a sud, ed in particolare nell’area mediterranea individuata da tempo dai globalisti come “l’anello debole della catena”. Ha ragione Costanzo, che pur schematizza al massimo al telefono, perchè lo shock sociale violentissimo e senza precedenti oggi lo stiamo vivendo anche noi, qui, in Italia, con diminuzioni continue di reddito e aumenti della disoccupazione (il trenta per cento o quasi di giovani “a spasso”), si sente in tutta la sua virulenza nella Spagna degli Indignados travolta dallo sboom immobiliare (venti per cento di disoccupati e oltre), e soprattutto in Grecia, la cavia dell’esperimento “normalizzatore” capitalistico. Aggiungo soltanto una considerazione a ciò che ha detto Costanzo Preve: se alla fine resteranno solo due “modelli” di capitalismo nel mondo – quello liberista anglo‐americano nel nord e nell’occidente del pianeta e quello cinese che si diffonderà fra i cosiddetti paesi in via di sviluppo, è pur vero che siamo davanti ad un nuovo modo storico di produzione, e che vi è la convergenza a velocità diverse di questi “modelli capitalistici” verso un solo idealtipo di capitalismo postborghese e postproletario, il Nuovo Capitalismo finanziarizzato che dominerà il ventunesimo secolo (se non si verificheranno, nel corso della prima metà del secolo, gradite “sorprese” rivoluzionarie). In Cina, infatti, i miliardari entrano nel comitato centrale del partito comunista, il sistema bancario tende alla privatizzazione, le cooperative sono scomparse, i capitali occidentali sono in joint venture (leggi in comunella, “culo e camicia”) con lo stato del dragone ultracapitalista, il fondo sovrano acquista intere aree del mondo, e la classe globale orientale emergente difende i processi di globalizzazione 262 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 in atto almeno quanto i globalisti occidentali. Anzi, fra qualche anno, vista la crisi in Europa e l’indebolimento degli USA, i cinesi potrebbero diventare i principali difensori della globalizzazione. Concorrenza sleale e protezionismo caratterizzano ancora il capitalismo cinese? Forse fra un decennio non sarà più così, nella tendenza generale ad una completa ed irreversibile “apertura al mercato”, volontaria o più spesso imposta, come accade oggi in Europa, che si accompagna alla nuova omologazione capitalistica (anche per quel che riguarda i modelli adottati). **** **** Saluto Costanzo dopo che siamo stati per oltre mezz’ora al telefono, con l’intenzione di risentirci alla prossima ... brutta sorpresa che la storia e i globalisti sicuramente ci riserveranno! 263 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La democrazia occidentale è il peggior sistema politico di tutta la storia umana Articolo del 04/11/2011 Viva il Centralismo, viva la Rivoluzione, viva la Dittatura per gestire lo stato di transizione. Lo slogan politicamente scorretto è mio, ma non è soltanto provocatorio perchè lo scrivo con intima convinzione, nonché con totale disprezzo nei confronti dei regimi liberaldemocratici e dei loro sostenitori – che sono dei nemici da combattere, a tutti i livelli della scala sociale. Un trentennio di inganni, di rischiavizzazione del lavoro e di impoverimento di massa, che si è ulteriormente velocizzato dal 2008, hanno ridotto l’Italia nelle condizioni che oggi possiamo osservare. Per non parlare della Grecia, in cui un politico incapace “che ha studiato in America” (anche lui come il funzionario BCE Napolitano), rampollo di terza generazione di una dinastia di politici di professione, prima indice un referendum che poteva essere d’importanza cruciale per il futuro della Grecia, e poi con un’improvvisa marcia indietro di fatto lo cancella. Saranno i partiti ellenici a supplire alla mancata consultazione popolare raggiungendo un’intesa fra loro, ed è praticamente certo che la piccola politica serva dei globalisti (non c’è solo in Italia, ma è diffusa per ragioni di omologazione sistemica in tutto l’occidente) farà passare l’accordo, piegando il capo. Che si tratta del Pasok e di Néa Dimokratìa in Grecia, oppure del Pd e del PdL in Italia, vale ciò che affermo. Sappiamo che l’accordo sul debito del 26 ottobre serve a salvare non tanto la Grecia, condannata alla schiavitù per debiti e alla caduta del prodotto almeno fino al 2020, ma le banche (francesi, tedesche, indirettamente quelle americane, eccetera) che sono un importante strumento di potere dei globalisti. L’aspirante Quisling greco della Global class ha ceduto di schianto poco dopo il suo annuncio della consultazione referendaria, indetta per approvare l’accordo sul debito e prevista per il 4 di dicembre, forse spaventato dai sondaggi che davano quasi per certo un respingimento dell’accordo a larga maggioranza (60%), o dalle “pressioni” esterne che ha ricevuto (vere e proprie minacce? Era a rischio la sua stessa incolumità personale? Poteva essere travolto improvvisamente da “scandali”?), o, ancora, dalla furia vindice di Mercati e Investitori, oppure da tutte queste cose messe insieme. Papandreou, conoscitore forse più dell’America in cui ha vissuto che della Grecia in cui ha governato per conto terzi, non ha la stoffa né le palle per rompere il ferale cerchio – con buona pace della Debora Billi di Papandreou tiene cojones, e il suddetto, con ogni probabilità, cerca soltanto di salvare il suo culo, come fa abitualmente Berlusconi in Italia. 264 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Infatti, Berlusconi pur non mollando per ora la carica di presidente del consiglio, ha accettato le “misure impopolari” imposte dai globalisti europidi e Papandreou, che non vuole dimettersi (esattamente come Berlusconi), dopo aver tirato il sasso del referendum ha nascosto la mano, dichiarando con sottomissione che la consultazione popolare non è mai stata un fine in sé (veramente strano, per un ardente democratico) e che “Dobbiamo applicare il pacchetto europeo per il futuro del paese e dei nostri figli.” Se la popolazione greca, lontana ormai dalla politica sistemica liberaldemocratica almeno quanto quella italiana, (se non di più, avendola sperimentata sulla propria pelle), non potrà in alcun modo esprimersi, vista la situazione drammatica che si prospetta sarà costretta a scegliere altre strade. Soltanto estese rivolte popolari con abbondante uso della violenza, incontenibili e coronate da successo (l’unica medicina possibile, giunti ad un tale punto), potranno salvare la Grecia dalla schiavitù dell’euro e perciò dal rischio di restare per decenni sotto il tallone globalista. Lo stesso potrà accadere fra breve in Italia, in Spagna, in Portogallo e in un futuro un po’ più lontano (perchè no?) anche in Francia. Tutti i popoli europei sono a rischio, persino i tedeschi “primi della classe”, e ormai anche i bimbi dell’asilo dovrebbero averlo capito. Persino negli Stati Uniti che difendono con ogni mezzo il loro ruolo di superpotenza “centro del mondo”, se non riuscirà l’operazione di scaricare interamente il barile della crisi sull’Europa, agli indignados locali potrebbero far seguito moti popolari ben più incisivi, totalmente esterni agli schemi politici consueti. Nello stesso giorno in cui Papandreou butta a mare il referendum – inibendo la consultazione popolare (da lui stesso prima annunciata) e dandoci un’ennesima prova di cos’è veramente la democrazia, il bieco Mario Draghi, da questo mese saldamente alla guida di quella organizzazione criminale globalista che è la BCE, abbassa i tassi (tutti, compreso quello sui depositi che scende al mezzo punto percentuale) per far “ripartire” le borse ed assicurare il toro, dopo l’orso, ai grandi speculatori, cioè per dare a coloro che lo pagano lautamente, lo incensano e gli fanno fare carriera, un’altra occasione di grandi guadagni. George, salva la Grecia! Mario, salva l’euro! Ma che strana coincidenza! Quel che conta, in questo breve post, è rilevare che la democrazia, così come ce la dipinge l’apparato propagandistico massmediatico e accademico, non soltanto non esiste, ma nella realtà è il suo esatto contrario: un feroce regime che agisce sempre e comunque contro la stragrande maggioranza della popolazione, da sottomettere completamente, da idiotizzare perché non capisca l’inganno, e da rendere schiava 265 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 perchè lavori a basso costo, e senza alcuna pretesa, per i dominanti della Global class (finita l’epoca del rivendicazionismo, ricomincia quella dello schiavismo). La democrazia occidentale – con il suo suffragio universale neutralizzato dallo spostamento in sedi sopranazionali delle decisioni strategiche in materie economiche, finanziarie, sociali, e la sua rappresentanza che non rappresenta il popolo, è niente altro che il volto politico del Nuovo Capitalismo e della sua classe dominante (la classe globale finanziaria). La democrazia occidentale non ammette, nonostante si perpetui la grottesca finzione del suffragio universale e si mantenga in essere l’istituto referendario, che la popolazione possa veramente partecipare alla decisione politico‐strategica, che possa decidere su questioni cruciali per il proprio futuro, quale è, ad esempio, quella dell’adesione greca al “piano di salvataggio” globalista‐europide. A proposito di quanto precede sarebbe istruttivo per tutti leggere, o rileggere, Il popolo al potere del filosofo Costanzo Preve, oppure Dopo la democrazia dello scomparso Ralf Dahrendorf (un vecchio liberale e un commissario europeo! Ma critico nei confronti del neoliberalismo e della liberaldemocrazia). L’unica e la sola forma di democrazia (anche ammesso che altre siano oggi possibili) che si conosce in Italia, in Europa, in occidente, è la democrazia liberale sorretta da due gambe: il suffragio universale e l’istituto della rappresentanza. E dato che questa è l’unica forma di democrazia esistente – tralasciando le belle utopie o le favolette consolatorie (ad esempio le virtù di una fantomatica democrazia diretta), è chiaro stiamo vivendo sotto il tallone di un regime sanguinario, pronto a distruggere il nostro futuro, che perciò deve essere combattuto senza quartiere e abbattuto. Il suffragio universale non serve a nulla, perchè ovunque prevalgono il voto ignorante, disinformato, d’inerzia, pilotato, manipolato, soggetto a ricatto economico, e non certo il consapevole “voto d’opinione”, raro quanto i diamanti, ma tanto caro all’ipocrisia liberale. Sappiamo bene che è cura del marketing politico, nato ad imitazione di quello commerciale e mercatista, presentare programmi falsamente alternativi, in cui si esaltato per avere consensi le piccole differenze “di prodotto”, ma nella realtà omologati e interamente subordinati alle direttive sopranazionali (se l’ordine implica l’allungamento dell’età pensionabile, o il buttare in strada nel breve trentamila impiegati statali, si fa e basta!). Un sistema in cui la sorgente dei programmi politici di forze che dovrebbero essere contrapposte è sempre la stessa, non è altro che truffa colossale, rappresentazione scenica, mascheramento di qualcos’altro. La rappresentanza è in genere sottomessa alla classe dominante globale, e fa da “cinghia di trasmissione” finale, verso il basso, cioè verso le popolazioni, delle 266 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 decisioni politico‐strategiche che calano dall’alto, cioè dagli organi della mondializzazione economica e finanziaria (UE, BCE, FMI, BM, eccetera). La rappresentanza locale può pur essere inadeguata, corrotta, persino criminale come accade in Italia, ma ciò ai globalisti non importa più di tanto, purché obbedisca e rappresenti loro, i loro interessi privati, i Mercati e gli Investitori, e non la popolazione. Qualcuno ha letto dichiarazioni pubbliche di politici (che contano), del Pd, del PdL o di altri cartelli elettorali parlamentari, totalmente opposte ai contenuti della missiva‐diktat del 5 agosto u.s., spedita da Trichet e Draghi al governo italiano? Semmai il contrario, a partire dal personaggio che ricopre la carica di presidente della repubblica, che si è speso fino in fondo nella difesa dell’euro e del trattato di Maastricht. Inoltre, tutti i sub‐dominanti politici locali (non soltanto italiani) esaltano la Crescita capitalistica facendone un dogma inviolabile. Per non far capire che il loro unico scopo (ancorché non esplicitamente dichiarato) è quello di assicurare un incondizionato supporto allo sviluppo dei Mercati ed alla Creazione del Valore azionario, finanziario e borsistico, i politici democratici occidentali possono arrivare al grottesco, come nel caso di David Cameron in Gran Bretagna, che ha promosso una vera e propria “inchiesta sulla felicità” di natura non economica, la quale dovrebbe accertare attraverso il sondaggio se i sottoposti, nella realtà di tutti i giorni vessati dai Mercati e dal liberoscambismo, sono felici o un po’ incazzati. Tornando alle cose serie dopo un attimo di divagazione, alla democrazia occidentale la nuova classe dominante globale ha assegnato il compito storico, sul versante politico, delle leggi, della gestione dei vecchi stati nazionali e dei patrimoni pubblici, di spianare la strada al Libero Mercato Globale, di rifinanziare i sistemi bancari e le “istituzioni finanziarie” a spese delle classi povere (unificate nella Pauper class), di trasferire quante più risorse possibili dal lavoro al capitale, e naturalmente di ridurre ai minimi termini la socialità. Per i motivi anzidetti, e visti i veri compiti assegnati ai regimi liberaldemocratici dai dominanti, in Italia, più che l’inaffidabile e stupido Berlusconi, con qualche tendenza a disobbedire facendosi “i cazzi suoi”, potrebbe andar bene il burocrate politico Bersani, che sbava per servire i globalisti, ancor meglio potrebbe andare la giovane scamorza ultraliberista Renzi (che prende i voti anche dagli elettori di centro‐destra, anzi, soprattutto da quelli), o forse l’inconsistente vanesio Cordero di Montezemolo, e via elencando. Meglio ancora sarebbe in questo momento, in cui si cerca di evitare anche il voto addomesticato, la figura di un “tecnico” – giunto al potere senza elezioni e quindi senza consultazione popolare, pur largamente truccata e condizionata, cioè 267 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 un’emanazione diretta dei globalisti, un loro “uomo a L’Avana”, quale è sicuramente il commissario europeo italiota Mario Monti. All’interno dei regimi liberaldemocratici, prodotto della democrazia occidentale subordinata al comando neocapitalistico, non può nascere e svilupparsi alcuna vera alternativa, contraria alla Crescita, al dominio della finanza, alla legge dettata dai Mercati e dagli Investitori. Al contrario, all’interno di questo sistema di governo caratterizzato dalla superiorità della finanza e dell’economia sulla politica, gli interessi di un grande fondo pensioni americano, o della Fiat marchionnista, contano e sempre conteranno di più della volontà effettiva di decine di milioni di elettori! Perciò, se qualcuno ingenuamente si aspettava che Papandreou – politico democratico occidentale “cresciuto” nella liberaldemocrazia, non si rimangiasse le sue parole, facendo fare il referendum, dando l’esempio ad altri e iniziando così a minare le istituzioni europidi che temono il verdetto popolare, adesso sarà deluso almeno quanto quelli che in Italia riponevano folli speranze nell’”indipendenza” di un Berlusconi, che un po’ di tempo addietro trattava fraternamente con il dittatore Gheddafi e il potente ex KGB Putin, e che ora s’impegna con patetiche letterine di risposta ad eseguire gli ordini dell’Unione Europoide. In conclusione, sul piano sociale il primo nemico è la Global class neocapitalistica che manovra le sue istituzioni europidi contro di noi, sul piano economico il primo nemico è il Nuovo Capitalismo finanziarizzato del terzo millennio che rappresenta un nuovo modo storico di produzione, e sul piano politico i primi nemici non possono essere per noi che i regimi liberaldemocratici occidentali, con tutti i loro cartelli elettorali falsamente divisi in destra e sinistra, in conservatori e socialisti, in democratici e repubblicani, quali emanazioni dei veri dominati. Mai come ora sentiamo sul collo il respiro dell’impoverimento di massa, della possibilità di guerre future (con l’uso di armi non convenzionali), della questione energetica, di quella ambientale, e comprendiamo che questo capitalismo, ammantato di democrazia, procede per giganteschi espropri, shock sociali ed economici, desertificazioni, distruzioni di conquiste sociali e di interi ecosistemi, crescendo come un tumore che finirà, prima o poi, in metastasi. Mai come ora, che siamo ancora in tempo per reagire, è necessario comprendere che la democrazia occidentale, radicatasi con i suoi insani regimi nei paesi cosiddetti sviluppati, è il peggiore dei sistemi di governo dell’intera storia umana, e contribuisce attivamente a spingere il mondo verso il baratro. Rivoluzione, Centralismo, Collettivismo e Dittatura in nome e per conto della Pauper class per gestire la transizione saranno la sola medicina che ci consentirà di uscire dall’incubo, e di evitare la metastasi finale capitalistica. 268 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 In Serbia gli operai chiedono di andare in prigione Commento del 08/11/2011 Mentre Berlusconi ʺevaporaʺ con la sua maggioranza e gli infami servi pidiini dei globalisti si preparano a subentrare e ad attuare gli ordini della BCE (leggi: della Global class), in altre parti dʹEuropa la fame vera è già arrivata e sta stabilendo il suo regno. Ma arriverà fra non molto anche in Italia, lambendo numerosi gruppi sociali, perchè le devastazioni neocapitalistiche ormai non conoscono più limiti. La classe dirigente politica serba del dopo Milosevic ha venduto i lavoratori serbi e l’intero paese ai globalisti occidentali, in Grecia Papademos, ex vicepresidente BCE, si appresta a governare come proconsole della classe dominante e in Italia si fa da più parti il nome del rinnegato Mario Monti, “commissario europeo” (leggi: sicario dei globalisti), che dovrà porsi alla guida di un “governo giallo” per realizzare senza discutere le imposizioni della classe globale. Tutti coloro che nei cartelli elettorali e nei sindacati hanno sostenuto i regimi (liberal)democratici, tutti coloro che hanno contribuito a spegnere o neutralizzare la protesta anziché guidarla, che non hanno lottato contro la tirannia globalista e contro quel doppio maligno dellʹEuropa che è lʹUnione Monetaria e Finanziaria – in Italia, in Grecia, in Spagna, in Serbia e persino in Francia, saranno condannati dalla storia e ne dovranno un giorno rispondere ... anche con la propria vita, se necessario. La fame è lʹestremo limite dell’esproprio di “Mercati e Investitori”, dopo di che la reazione non potrà che essere, ovunque, la Santa Violenza Anticapitalista! Del resto, il ristabilimento dell’Etica e la conseguente sottomissione dellʹeconomia e della finanza esigeranno per forza di cose un tributo di sangue. Credo e spero che a tutti voi questa palese verità sia chiara. Lotta senza quartiere alla democrazia liberale e al capitalismo! Serbia: operai chiedono andare prigione Oltre 120 lavoratori di una fabbrica da mesi sono senza salario 08 novembre, 20:32 (ANSA) - BELGRADO, 8 NOV - Oltre 120 operai di una fabbrica meccanica nel sud della Serbia, in sciopero da mesi per il mancato pagamento dei salari, hanno chiesto al ministro della giustizia di essere condannati e incarcerati insieme alle loro famiglie, unico modo questo - dicono - per sopravvivere. 269 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 ''Siamo in sciopero da 19 mesi, nel frattempo siamo stati tutti licenziati con una decisione illegale. Poiché non possiamo mantenere le nostre famiglie, chiediamo di andare in prigione con loro'', hanno spiegato. 270 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Il Quisling, Il nostro agente all’Avana e il Proconsole Articolo del 11/11/2011 Mentre l’attacco globalista all’Italia si intensificava fino allo sfondamento finale del fronte, e Berlusconi se ne stava nell’ultima ridotta prima di essere costretto a cedere, c’è stata qualche blanda manifestazione, degli Indignati italiani, della Fiom, addirittura dell’amebico Pd. Perché queste cose inutili? Si capirà qualcosa soltanto quando sarà troppo tardi per reagire? O forse mai? O forse è comodo fare queste cose tanto per mondarsi la coscienza e dire ʺqualcosa, seppure di blando e inefficace, abbiamo fatto anche noiʺ? Il potere globalista è confortato dal fatto che lʹunica, debole e confusa protesta testimoniale è quella degli Indignati di ogni ordine e grado ... e che soprattutto è pacifica, democratica. Queste manifestazioni, con volantini, striscioni srotolati, stanchi slogan, palloncini colorati e bambini sulle spalle sono quanto meno inutili – perché non ottengono alcun effetto concreto, se non dannose perché allontanano nel tempo la prospettiva di una vera lotta politica e sociale. Intanto il Nemico Principale continua a massacrarci, a portare a compimento i suoi piani per saccheggiare lʹItalia dopo averla posta sotto ferreo controllo. ʺIl nostro agente allʹAvanaʺ, Giorgio Napolitano, al servizio a tempo pieno della classe globale, nomina in fretta e furia Mario Monti, “dipendente” di alto profilo dei globalisti destinato a diventare Il futuro Quisling, senatore a vita della repubblica, mentre l’ultimo ma non ultimo del terzetto, peggiore degli altri due, a nome Mario Draghi, invia gli ordini dalla sua postazione esterna, cioè direttamente dal vertice di quella organizzazione criminale globalista che è la BCE. Lʹunico accenno di resistenza, per quanto insufficiente, confuso e largamente inconsapevole – prima del cedimento completo del fronte italiano, è stato quello del tanto vituperato e demonizzato Blocco Nero, a Roma il 15 ottobre u.s., che ha cercato di trasformare il corteo di pecorelle belanti degli Indignati, destinate alla tosatura o al macello, in una carica di tori Miura che è più problematico condurre al macello senza correre rischi. LʹItalia, paese commissariato fin dalle vicende dellʹintervento NATO in Libia, è oggi un paese sconfitto e completamente occupato dai collaborazionisti del Nemico 271 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Principale (la Global class finanziaria deterritorializzata), i quali governeranno la penisola autoritariamente dopo il golpe per suo conto. Le elezioni sono state rinviate sine die, a dimostrazione che dopo la sconfitta c’è stato il golpe, e che le consultazioni popolari – vitali per la democrazia, come si è fatto astutamente credere fino ad ora, si devono evitare a qualsiasi costo, quando in gioco ci sono gli interessi della classe dominante e scelte politico‐strategiche che incideranno sul futuro di intero paese. Qualche spiritoso ha detto, a tale riguardo, che non si invitano i tacchini al pranzo di Natale … quindi niente elezioni, perché se i dominanti vogliono la democrazia può funzionare ad intermittenza. La politica estera nazionale, fin dall’intervento NATO in Libia che ha obbligatoriamente coinvolto anche l’italietta berlusconiana, è stata affidata alla NATO e agli USA. L’attacco finale all’Italia – paese europeo “indisciplinato” con Berlusconi al governo, ma soprattutto non ancora del tutto uniformato al modello neocapitalistico ultraliberista, è stato condotto dall’esterno e dall’interno, profittando di ogni occasione, utilizzando a tale scopo (1) governanti di paesi europei asserviti ai nuovi dominanti capitalistici (Merkel, Sarkozy che sorridono ambiguamente davanti alle telecamere, Cameron che parla contro l’Italia alla camera dei comuni britannica), (2) gli organi della mondializzazione (BCE, FMI, Commissione europide, eccetera), ed ultima, ma non ultima, (3) la Speculazione finanziaria vero motore dei Mercati e vero volto degli Investitori, nonché i collaborazionisti locali, le quinte colonne interne che dai grandi speculatori dipendono. I paracadutisti, lanciati poco prima della conclusione delle operazioni militari contro di noi, erano ispettori del FMI e della BCE incaricati di spulciare i conti pubblici … L’intervento NATO, con o senza bombe intelligenti, non è stato necessario, quindi, perché sono state scelte altre strade, forse più subdole, ma alla lunga altrettanto sanguinose, per raggiungere l’obbiettivo … Si è trasformato un paese solvibile e la terza potenza manifatturiera d’Europa, pur con un rilevante volume di debito pubblico, in uno staterello prossimo al temuto default che mette a rischio la sopravvivenza di quello strumento di morte che è l’euro, a dimostrazione che nell’economia finanziaria dominante c’è ben poco di 272 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 razionale, di impersonale, di “automatico”, ma tutto è politico, irrazionale, soggetto agli appetiti e alle voglie della classe dominante neocapitalistica. Dopo l’ultimo, massiccio attacco che ha operato lo sfondamento definitivo del fronte, il locale Batista, cioè Berlusconi, sta lasciando il palazzo non senza mettere la golden share sul Quisling Monti (forse per limitare i danni personali e patrimoniali e “salvarsi la vita”) e fra un po’ – non è da escludere, se ne scapperà da qualche altra parte, nel mondo. Ma qui non cʹè un novello Fidel pronto a far trionfare la rivoluzione, dopo l’abbandono di Batista‐Berlusconi ... Il Quisling (Mario Monti), ʺIl nostro agente allʹAvanaʺ (Giorgio Napolitano) e il Proconsole (Draghi), con lʹappoggio dei mercenari politici (liberal)democratici locali disposti a vendersi al Potere Globalista (PdL, Pd, SEL, eccetera), ci massacreranno e devasteranno lʹintero paese, da nord a sud, lasciando soltanto le macerie alle generazioni future. Le piccole tacche della politica ufficiale degradata – Bersani, Alfano, Vendola, eccetera, squittiscono impotenti davanti allo spietato Potere della Global class e sicuramente faranno professione di fede, abbassando il capo davanti al direttorio voluto da Mercati & Investitori, accettando le peggiori controriforme del Quisling Monti, agevolate da “Il nostro uomo agente all’Avana” Napolitano e avallate dal Proconsole Draghi , che invierà non pochi “suggerimenti” ai suoi compari per massacrare le “classi subalterne” ed estrarre quante più risorse dalla penisola. Fine della contrattazione nazionale per rinnovare i contratti di lavoro, o svuotamento della stessa, innalzamento dell’età pensionabile prima fino a 67 anni e poi (perché no?) fino ai 70, intangibilità dei grandi capitali finanziari e maggior tolleranza per l’evasione fiscale, stretta sugli enti locali per costringerli a vendere ai privati tutte le loro partecipazioni in società che gestiscono servizi privatizzabili (quanti posti di lavoro in meno?), trattamento degli statali come è avvenuto in Grecia, patrimoniale sì, ma sulla prima casa, e/o sui conti correnti e i depositi bancari e postali dei poveretti, per ridurli ancor di più alla fame. Se Berlusconi è oggi accusato di aver fatto odiare agli italiani l’Europa (non quella vera, ma quella finanziario‐monetaria dei globalisti), è improbabile con un nuovo “amore” scoppierà dopo le sanguinose controriforme del Quisling, supportato da “Il nostro agente all’Avana” e dal Proconsole. E allora, a che servirà manifestare ʺpacificamenteʺ in queste condizioni? Si manifesterà anche per richiedere le elezioni politiche, che occupatori e 273 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 collaborazionisti non concedono? A che servirà se le manifestazioni saranno come quelle del passato? Il pacifismo strumentale (una sorta di ghandismo senza Ghandi destoricizzato e usato propagandisticamente), il culto insano della democrazia liberale e lʹidiotizzazione di massa sono strumenti dominazione neocapitalistici, e come tali i nuovi resistenti dovranno provvedere a distruggerli. Se non ci sarà una lotta dura e diffusa in questo paese occupato, una nuova resistenza clandestina, state pure certi che dello stato sociale non rimarrà neppure lʹombra e la crisi la pagheranno interamente i lavoratori resi schiavi ... altro che inutili presidi pacifisti e ʺpoliticamente correttiʺ! Ah, quasi dimenticavo! Nel bel romanzo di Greene del ’58, dal titolo “Il nostro agente all’Avana”, il protagonista scherzava col fuoco e inviava false notizie ai servizi segreti britannici, Vidkun Quisling, che reggeva la Norvegia occupata per conto di Hitler è stato giustiziato nell’ottobre del 1945, Proconsole della Gallia Cisalpina è stato quel Giulio Cesare assassinato a colpi di pugnale durante le idi di marzo del 44 a.C. Almeno questo sarà di buon auspicio? 274 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Habemus Quisling! Articolo del 16/11/2011 Recita un’agenzia dell’ANSA del primo pomeriggio di oggi: Ecco il governo Monti: 17 ministri, 5 senza portafoglio, 3 le donne, interim economia a Monti. Questi i ministri con portafoglio:Economia, Mario Monti(interim); Esteri, Giulio Terzi di SantʹAgata;Interno, Anna Maria Cancellieri;Giustizia, Paola Severino; Difesa, Giampaolo Di Paola;Sviluppo‐ Infrastrutture, Corrado Passera;Agricoltura, Mario Catania;Ambiente, Corrado Clini;Lavoro‐Pari Opportunità, Elsa Fornero;Salute, Renato Balduzzi;Istruzione, Francesco Profumo;Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi. Monti gliel’ha fatta, com’era da aspettarsi, nonostante il rifiuto dei politici indigeni ad entrare a far parte attivamente del nuovo governo. Il fatto che non vi siano ministri di chiara provenienza politica nel nuovo esecutivo, dirigenti dei cartelli elettorali liberaldemocratici, personalità di spicco della sciagurata politica nazionale, e il fatto che il Quisling Monti avoca a sé il cruciale dicastero dellʹeconomia non costituiscono certo segnali positivi, ma esattamente il contrario, e ci fanno intuire lʹentità e la spietatezza delle controriforme che attendono lʹItalia. I politici liberaldemocratici si tengono fuori in massa, perchè sanno che ci sarà un massacro e cercano di mantenere le distanze, di lavarsene vigliaccamente le mani stando a guardare. Così Bersani, così Vendola, così Berlusconi (con lʹappendice di Alfano), così gli striscianti centristi e lʹUDC di Casini in Caltagirone, che ha dato ʺcarta biancaʺ allʹeuropoide Monti. La gestione della cosa pubblica, al più alto livello interno, è stata lasciata interamente nelle mani di coloro che devono rendere conto solo ai cosiddetti Poteri Forti, espressione che nasconde la classe dominante globale. Eʹ un poʹ come nelle guerre dellʹex Yugoslavia, in cui i regolari serbi (ma lo stesso facevano anche i poliziotti e i regolari croati) si tenevano fuori in certe occasioni, lasciando alle bande, alle milizie private (come quella delle Tigri di Arkan) e a vari gruppi di tagliagole il ʺlavoro sporcoʺ, la cosiddetta pulizia etnica che ha insanguinato intere aree dei Balcani ... I tecnici di Monti sono un poʹ come i Četnici di Milošević e Karadžić, mentre i regolari dellʹarmata corrispondono ai nostri (tanto amati ...) parlamentari. Dopo la ʺpulizia etnicaʺ, e i conseguenti massacri o deportazioni di civili, i regolari dellʹarmata entravano in campo, e allo stesso modo i vili politici democratici del 275 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sistema attendono nuove elezioni, preferibilmente nel 2013, per rientrare in campo a giochi già fatti, a massacro sociale avvenuto, limitando i danni quanto a consenso elettorale perchè, come millanteranno ai quattro venti, non si sono ʺsporcati le maniʺ ... 276 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Le pensioni dʹoro dei subdominanti politici, dei burocrati e dei banchieri come nuova decima Articolo del 16/11/2011 Come ci insegna la storia, o almeno dovrebbe, ogni classe dominante ha da sempre estratto risorse – anticamente in natura, in seguito valorizzate dallʹuniversale monetario, dalle classi subalterne costrette a farsi carico della produzione, e del sostentamento dei dominanti oltre che di sé e della propria famiglia. Nel medioevo feudale, in cui lʹattività primaria – lʹagricoltura non industriale, ancora legata allʹalternarsi delle stagioni e al ciclo agrario, era preponderante e decisiva per il sostentamento umano, vigevano le famigerate decime, cioè il tributo di un decimo dei raccolti (almeno), oppure di lavoro vivo, o ancora di prodotti dell’allevamento, da versare alla classe dominante degli oratores, e cioè al clero. La decima medioevale non costituiva un prodotto originale del feudalesimo, di cui nelle epoche precedenti non c’era traccia, perchè esisteva una decima di antica derivazione ebraica, imposta alle comunità per il mantenimento del tempio. Allʹepoca di Roma la decima era concepita come un tributo da versare allo stato, che gravava sugli agricoltori. Oggi si sfrutta ogni possibile cosa per estrarre risorse dai subordinati, persino il sistema pensionistico che allʹinizio in Italia era a capitalizzazione pubblica, e poi è diventato a ʺripartizioneʺ, prima di subire le pesanti controriforme neocapitalistiche di Giuliano Amato (1992) e di Lamberto Dini (1995). Perciò, i dominanti, e soprattutto i sub‐dominanti politici che dei primi sono tributari, estraggono risorse attraverso le pensioni, piegando a loro favore il sistema pensionistico e rendendolo peggiore per tutti gli altri. In un sistema come quello italiano i contributi per erogare le cosiddette pensioni dʹoro nella realtà li pagano in buona parte i lavoratori che avranno, in futuro, pensioni sempre più ridotte, erogate sempre più tardi. Non solo, ma i lavoratori italiani, sempre più poveri da un trentennio a questa parte, pagano con i contributi versati al sistema il ricorso alla cassa integrazione – a relativo beneficio dei loro compagni più sfortunati, e gli stessi prepensionamenti di altri lavoratori. Le riduzioni delle pensioni, il rincrudimento del regime pensionistico non riguardano i sub‐dominanti politici e gli altri percettori di pensioni elevate e ingiustificate, al riparo degli effetti negativi delle controriforme da loro stessi introdotte e supportate. Le pensioni dʹoro di politici, alti burocrati e banchieri rappresentano perciò una nuova decima, ancor più ingiustificata e “gratuita” di quella medioevale, o di quella dell’antico mondo ebraico, non soggetta alle regole sempre più stringenti che investono il sistema pensionistico e mettono con il culo per terra tutti gli altri pensionati. 277 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 E pensare che la prima controriforma di rilievo delle pensioni, dopo le riforme seguite al sessantotto, lʹha fatta nel 1992 quel Giuliano Amato (socialista, traditore di Craxi, oggi in ballo per la poltrona di ministro nel governo fantoccio dʹoccupazione europide‐globalista di Mario Monti) che percepisce oltre ventiduemila euro mensili dallʹINPDAP (istituto previdenziale per i dipendenti dell’amministrazione pubblica)! Mentre portava lʹetà pensionabile fino a 65 anni per gli uomini e fino a 60 per le donne, Giuliano Amato pregustava già la sua ricca pensione, non soggetta a limiti o a tagli draconiani. Lamberto Dini ha dato il suo nome alla controriforma delle pensioni del 1995, con la quale reintroduceva il sistema contributivo (pensione posta in relazione non alla media retributiva del periodo di riferimento, ma ai contributi versati), escludendo la più favorevole ripartizione retributiva per tutti coloro che avevano meno di 18 anni di lavoro. Questa controriforma ha reso ancor più povera ed esposta al rischio di perdita di potere d’acquisto la maggioranza dei pensionati. Ebbene, Lamberto Dini “estrae” dall’INPS, a titolo di nuova decima, settemila euro mensili, senza contare le altre fonti di reddito di cui il suddetto gode, a titolo di privilegio come membro della classe subdominante. Ma c’è anche di peggio, se mai è possibile, perché ad un faccendiere finanziario come Giovanni Consorte, ex dirigente Unipol e coinvolto nello scandalo dei “furbetti del quartierino” nello scorso decennio, l’INPS versa allegramente oltre mille euro il giorno! Se il governo fantoccio del Quisling europoide‐globalista Mario Monti darà un altro duro colpo a pensionati e lavoratori, state pur certi che continuerà imperterrita l’estrazione delle nuove decime, sfruttando il sistema pensionistico, da parte dei politici, degli altri burocrati e dei banchieri indigeni, e solo la caduta del sistema potrà concretamente interromperla. 278 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Imperialismo Finanziario Globale Saggio del 28/11/2011 Il passaggio concettuale dal Capitalismo all’Imperialismo operato da Vladimir Lenin, ha implicato all’esordio dello scorso secolo un salto qualitativo nella lotta rivoluzionaria – oltre che un’evidente deviazione dal codice marxista ottocentesco, ed ha consentito alle forze della Rivoluzione di identificare meglio il nemico, nella sua sostanza, nelle sue potenzialità offensive e nei suoi punti deboli. L’Imperialismo europeo d’inizio novecento legato ai vecchi stati nazionali sovrani, con il quale Lenin aveva a che fare, ha condotto il mondo nella fornace del primo conflitto mondiale, ha prodotto come reazione rivoluzionaria l’Ottobre Rosso e la nascita dell’Unione Sovietica, ed ha portato alla nascita di un sistema collettivista, però con forti lineamenti capitalistici (persistenza di una strutturazione classista nella società, sopravvivenza della piccola proprietà privata, differenze di reddito fra i gruppi sociali, pur se non accentuate come in occidente, eccetera, eccetera). Anche oggi, in una realtà culturale, economica e sociale completamente diversa da quella novecentesca, ed alla presenza di assetti geopolitici non confrontabili con gli assetti d’inizio novecento, molti discutono di Imperialismo, in certi casi come se fossimo ancora ai tempi di Lenin buonanima, identificandolo tout court con le sanguinose proiezioni di potenza statunitensi e Nato che potrebbero investire, nel prossimo futuro, l’Iran e la Siria. Ma poi ci sono, per dirla con una suggestiva espressione komeynista (Ruhollah Khomeyni è stato un grande rivoluzionario e un moderno “emiro dell’Afghanistan”, al di là degli aspetti religiosi e folcloristici), i Piccoli Satana come la Francia e la Gran Bretagna, in prima fila nel promuovere il recente intervento militare occidentale in Libia e sempre disposti a massacrare e saccheggiare altri paesi europei, se pensiamo al caso dell’Italia e al suo completo assoggettamento alle regole dettate dalle sedicenti istituzioni europee e sopranazionali. Fra i Piccoli Satana imperialisti c’è anche la Germania, molto attiva contro i paesi dell’Europa mediterranea, e fra tutti è quello che in questa porzione del mondo domina, in quanto a parametri macroeconomici, dimensioni del PIL e tassi di crescita. Non a caso, l’escrescenza capitalistica maligna dell’euro è cresciuta sul marco, ritagliata sulla moneta tedesca con una spruzzata di franco francese. Quindi, secondo non pochi osservatori e commentatori, sarebbe l’Imperialismo, in tale caso riconducibile alla potenza economica tedesca, che nell’Europa posticcia dell’Unione ha stabilito il suo dominio attraverso le sedicenti istituzioni europee e l’euro, occupando la Grecia e l’Italia ed imponendo a questi paesi governi fantoccio. La Germania ha fatto questo in quanto stato e potenza del tutto sovrana, se si crede che esistono ancora i vecchi imperialismi, e lo ha fatto allo scopo di stabilire 279 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 saldamente per gli anni a venire, nel mondo globalizzato ed ipercompetitivo che non concede sconti ai più deboli, una propria “area vitale” di influenza e di dominio. I paesi europei del mediterraneo diverrebbero, così, il “cortile di casa” della potenza economica tedesca, e ne subirebbero in pieno, senza fiatare, le imposizioni. Qualcuno ha persino scritto che fra dieci anni, in Europa, saremo tutti o quasi “giardinieri dei tedeschi”. Secondo altri, invece, la cosiddetta crisi dell’euro che si accompagna a quella del debito di molti stati europei, in particolare nell’area mediterranea, costituirebbe il prodotto di abili manovre del Grande Satana planetario, cioè dell’imperialismo americano (o anglo‐americano, considerando l’appendice britannica che funge da testa di ponte in Europa), il quale ha agito attraverso la Federal Reserve, la finanza, le banche d’affari e i giochi valutari, per salvare la superiorità del dollaro a scapito dell’euro e scaricare gli effetti della crisi economico‐finanziaria strutturale sui paesi del vecchio continente, profittando dell’occasione per distruggere i loro sistemi economici peculiari ed imporre a tutto campo il modello capitalistico neoliberista. L’impero americano cercherebbe a tutti i costi di sopravvivere ai grandi cambiamenti geopolitici che già si prospettano, seminando intorno a sé morte e distruzione, con il tradizionale strumento della guerra, come è accaduto in Afghanistan ed in Iraq, o con la finanza, la valuta, i ricatti e le imposizioni del suo modello di società, fatto di liberaldemocrazia e ultraliberismo. Se scendiamo, invece, su un terreno più prettamente sociale ed economico, ciò che sta accadendo potrebbe essere interpretato, a parere di chi scrive più correttamente rispetto alle visioni precedenti, come il riflesso di una lotta trentennale fra il Nuovo Capitalismo – e quindi il Capitale, ed il Lavoro da troppo tempo soccombente, una lotta che implica pesanti effetti sociali e ridistributivi, nonché lo “sterminio” di interi gruppi sociali, inghiottiti nella fornace della de‐emancipazione. E dell’abbattimento dei redditi E’ fin troppo chiaro che il Capitale sta vincendo la storica contesa con il Lavoro, e per questo porta i suoi affondi finali, riuscendo ad imporre governi “tecnici” ai paesi più vulnerabili e non ancora del tutto “aperti al Mercato”, escludendo in quei paesi fastidiose ed inopportune consultazioni popolari (dai referendum alle elezioni), imponendo alla luce del sole propri governi, attivando politiche esplicitamente antisociali ed antinazionali. La pax sociale, la “coesione”, la fine della lotta di classe (di cui il Capitale detiene saldamente il monopolio), oggi si impongono con le armi – idiotizzazione della popolazione, precarietà di lavoro e di vita, continue decurtazioni di reddito, cibo‐ spazzatura, ricatto del debito collettivo ed individuale, eccetera, e non sono frutto di compromessi come accadeva, quando a dominare in occidente era il capitalismo 280 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 del secondo millennio, approdato al keynesismo e soggetto alla stringente “concorrenza” sovietica. Il Capitale agisce, per imporre il suo dominio totale, attraverso i trattati internazionali, il controllo delle politiche degli stati esercitato di entità sopranazionali – e il controllo sulla moneta, che diventa privata e “straniera” nel caso specifico europeo, nonché attraverso l’azione devastante e impoverente di esecutivi da lui stesso imposti, e in primo luogo dei suoi “impiegati di concetto” come Papademos e Monti, che guidano i “gabinetti del Capitale”. I Mercati, che solitamente si accompagnano ai grandi Investitori, per effetto dell’affermazione della nuova “lex de imperio” neocapitalistica stabiliscono le regole alle quali gli stati e i governi non devono permettersi di derogare, pena il commissariamento o la vera e propria occupazione. Il prossimo futuro confermerà quanto precede, a meno che l’euro non collassi nel giro di pochi giorni, come prevedono alcune fonti, provocando l’inevitabile frana delle istituzioni europee, perché allora le politiche imposte a livello nazionale, senza neppure la finzione del consenso popolare, non basteranno più, non saranno più giustificabili (“salviamo l’euro”, “restiamo in Europa”, “riduciamo il debito”, ed altre corbellerie del genere), e la situazione potrà diventare beneficamente esplosiva. In questa ultima ipotesi, il re sarebbe nudo, e ciò potrebbe consentire l’avvio, in vaste aree del vecchio continente, della tanto attesa Guerra Sociale di Liberazione, cioè l’avvio di una vera e propria Guerra – ben oltre la lotta di classe d’altri tempi fra Borghesia e Proletariato, fra la classe globale dominante neocapitalistica (Global class) supportata da alcuni gruppi sociali tributari, ma sempre più minoritari avanzando l’impoverimento generale, e la nuova classe povera che esprime il Lavoro (Pauper class), oggi penalizzata e quasi completamente assoggettata. Si tratterà di una Guerra culturale, politica e sociale spietata, che investirà la totalità delle dimensioni dell’esistenza, e che potrà concludersi soltanto con la schiavitù di massa e l’affermazione di un ordine sociale ultraclassista e neofeudale, oppure con l’annientamento completo della Global class e dei suoi mercenari, perché questo capitalismo non può e non potrà accettare compromessi. Secondo l’approccio che postula la tenace sopravvivenza dei vecchi imperialismi, da quelli europei otto‐novecenteschi a quello statunitense subentrato come potenza planetaria egemone ai primi, una volta sconfitti il Grande Satana americano e/o i Piccoli Satana del vecchio continente, quali la Germania e la Francia, ogni cosa tornerebbe al suo posto e i popoli sarebbero finalmente liberi di governarsi come meglio credono. A parte il fatto che ad un imperialismo declinante può sostituirsene un altro (ad esempio quello globalista‐postcomunista cinese), e rimettere le catene ai popoli, l’errore di fondo che commette chi accetta questa impostazione è quello di credere 281 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 (e soprattutto far credere) che da questo punto di vista tutto sia rimasto uguale a ciò che era nel novecento, e che la classe dominante è sempre la Borghesia, del tutto interna agli stati e alle potenze di riferimento. Oggi siamo davanti ad una nuova classe dominante, che ha ben altri strumenti a disposizione rispetto alla vecchia borghesia proprietaria, non ha un concorrente insidioso come quello sovietico, in grado di esprimere un’alternativa di sistema praticabile, può sacrificare i sub‐dominanti politici che governano per suo conto e si muove con disinvoltura nell’era del Nuovo Capitalismo finanziarizzato e dell’Imperialismo Finanziario Globale, che non ha le caratteristiche dell’imperialismo indagato a suo tempo da Lenin, quale fase suprema del capitalismo. Non si tratta certo dell’impero negriano senza centro e in continua espansione, o del trust ultraimperialista mondiale, che secondo Kautsky doveva inghiottire tutte le imprese e tutti gli stati, ma di un superamento del vecchio ordine che “imprigionava” ancora il capitale entro confini nazionali, consentiva alla politica di limitare gli eccessi dell’economia liberista e della finanza, e legava indissolubilmente gli appetiti imperiali alle bandiere di stati potenti e sovrani. Per realizzare la piena illimitatezza capitalistica, e il completo dominio di economia e finanza sulla politica, sugli stati, sui popoli, sui governi e su ogni altra cosa (religione, tradizioni, filosofia, eccetera), oltre alla genesi di una classe dominante deterritorializzata, esterna al mondo culturale borghese e ai suoi legami con gli stati e i paesi di appartenenza, questo capitalismo ha avuto necessità di spostare altrove i centri decisionali strategici e di ridurre i preesistenti stati e governi a semplici dépendances dei predetti centri e degli organi sopranazionali, a catene di trasmissione finali di decisioni cruciali sottratte completamente alla volontà popolare. Lo strumento dello stato, che ai tempi di Lenin era di sostanziale importanza per realizzare ed estendere la potenza dei dominanti, è stato quindi “declassato”, è sceso di rango e di importanza, proprio perché quello che è stato definito, in questa sede, l’Imperialismo finanziario globale (e privato) è strutturato in modo diverso, con respiro sopranazionale, rispetto ai vecchi imperialismi otto‐novecenteschi. Così, a differenza di quanto accadeva dopo la seconda metà del novecento nel mondo bipolare USA‐URSS, gli Stati Uniti d’America, potenza economica, militare e nucleare ancora senza uguali, sono uno strumento (di una certa importanza, ma pur sempre uno strumento), dell’Imperialismo finanziario globale che ha come agente strategico irrinunciabile non più la Borghesia ma la Global class. I sedicenti pilastri dell’Europa monetaria e finanziaria, Germania e Francia, sono altrettanti strumenti, e non espressioni imperialistiche di stati completamente sovrani, prova ne è che si inizia a parlare sibillinamente dell’evoluzione della situazione tedesca, in relazione al debito e alle prospettive di crescita, e la Francia 282 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 da qualche tempo è in odor di downgrade da parte delle famigerate agenzie di rating, il che costituirebbe l’inizio dell’attacco e dell’”invasione” finale globalista anche in quel paese. Possiamo già azzardare che “ristrutturazioni” del debito, concreti rischi di default, massicci attacchi speculativi non riguarderanno, in futuro, soltanto i vituperati PIIGS, ed in particolare i paesi dell’Europa mediterranea. La dimensione privata (e sopranazionale) di questo nuovo Imperialismo è testimoniata dalla supremazia di Mercati & Investitori, la cui lex (sed lex) è ormai legge suprema ed inviolabile, alla quale tutti devono sottostare, poiché la vera costituzione, quella materiale, nasce al di fuori dei singoli stati nazionali e prevale sempre sulla costituzione formale degli stessi. Non si tratta forse di palesi violazioni della sovranità nazionale, a riprova che i governi sono ridotti al rango di semplici burocrati destinati ad evadere (con sollecitudine e puntiglio, come dovrà fare il nuovo esecutivo italiano) le “pratiche” globaliste? Se Marchionne, con i suoi progetti di assoggettamento completo del lavoro in Italia, arriverà fino al punto di violare i diritti costituzionalmente concessi, ciò non avrà più alcuna importanza, ed anche l’”impiegato di concetto” della classe globale posto alla guida del nuovo esecutivo nazionale, Mario Monti, nel recente passato non ha perso occasione per elogiare le innovazioni contrattuali (e disciplinari) marchionniste. Già Lenin aveva rilevato con grande chiarezza nel suo saggio L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) la “Concentrazione della produzione; conseguenti monopoli; fusione e simbiosi delle banche con lʹindustria”, quali trasformazioni che condussero all’imperialismo e all’esaltazione del capitale finanziario, ma ciò avveniva in un mondo in cui gli stati nazionali avevano completa sovranità e la classe dominante, a loro legata nelle dimensioni del potere e del suo esercizio, era borghese, contrapposta alla classe subalterna del proletariato. Per concludere, l’affermazione di un nuovo modo storico di produzione, diverso da quello che connotava il capitalismo del secondo millennio, ha comportato il passaggio dal tradizionale imperialismo all’Imperialismo finanziario globale, un cambiamento non da poco e da pochi avvertito, perché per molti critici del capitalismo e del sistema l’Imperialismo è ancora quello del novecento, le proiezioni di potenza sono espresse da stati sovrani che decidono del loro destino, e la classe dominante è ancora la Borghesia, agente capitalistico in via d’estinzione e ancora legato alla dimensione nazionale. 283 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo? Articolo del 21/12/2011 Il passaggio da un vecchio modo storico di produzione dominante al nuovo ha richiesto per compiersi, nel corso della storia umana, tempi plurisecolari nonché trasformazioni culturali, economiche e sociali rilevanti. La storia ha traghettato attraverso i secoli le popolazioni europee nel lungo passaggio dal feudalesimo al capitalismo, così come questione di secoli è stato l’avvento del feudalesimo che ha fatto seguito al modo di produzione schiavistico. In questi ultimi decenni, però, le trasformazioni si sono progressivamente velocizzate, grazie all’azione congiunta della tecnoscienza e del cosiddetto sviluppo economico. Così, dopo circa un trentennio di rapide e profonde trasformazioni culturali, politiche ed economiche, che hanno inciso in profondità sul dato antropologico e su quello sociale, si sta realizzando il passaggio dal capitalismo del secondo millennio al Nuovo Capitalismo finanziarizzato, destinato a diventare il modo di produzione dominante. Nel nostro presente storico non stiamo vivendo un semplice cambiamento di fase capitalistica, per quanto travagliato e gravido di eventi negativi, ma possiamo osservare l’inizio di una nuova era. Eppure, complice la crisi globale che ha investito come un onda d’urto le vecchie strutture sociali sopravviventi, c’è qualcuno che in relazione a questo capitalismo in via d’affermazione già parla di collasso e di conseguente cambiamento epocale. Le dinamiche finanziarie innescate dai meccanismi riproduttivi neocapitalistici, in effetti, sembrano portare al disastro, sia dal punto di vista economico e sociale sia da quello ambientale, e nessun governo, a partire dall’amministrazione federale americana, ha provveduto sinora ad imbrigliarle, per tentare di metterle sotto controllo. Il che implicherebbe sicuramente il ritorno alle logiche del capitalismo del secondo millennio, alla “cura” keynesiana, all’interruzione, o quantomeno al rallentamento, dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, che sono di esiziale importanza per l’affermazione del nuovo modo storico di produzione e per la sua riproduzione allargata. Ma un ritorno al capitalismo postbellico novecentesco – oltre a non sembrare possibile, giunti a questo punto, richiederebbe un esteso consenso fra i membri della classe dominante, e la nuova Global class capitalistica, nata e cresciuta nella progressiva affermazione del neoliberismo e della globalizzazione dei mercati, non potrebbe mai accettarlo. Al contrario, la classe globale ha voluto l’invasione e l’occupazione dell’Italia, con l’imposizione di un governo fantoccio, per preservare i meccanismi riproduttivi del 284 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Nuovo Capitalismo ed eliminare le resistenze all’avanzata neoliberista, che ormai è travolgente. Non potranno più esistere “isole”, nel mondo occidentale, in cui sopravvivono consistenti tracce del vecchio capitalismo, ed in cui sono ancora possibili significative deviazioni dal modello neoliberista dominante. Gli scopi dei governi liberaldemocratici soggetti al potere globalista sono di distruggere le sopravvivenze keynesiane, i residui di stato sociale e i diritti dei lavoratori, di soffiare sul fuoco dello scontro generazionale fra giovani precari e anziani tutelati, togliendo le tutele agli stabilizzati senza dare nulla ai precari, di distruggere il sistema pensionistico, di costringere i subordinati a lavorare fino alla morte con l’inganno dell’elevarsi della vita media (mentre quella massima, cruciale a tale riguardo, resta immutata), di privatizzare anche laddove non è necessario, di mantenere la precarietà e di creare disoccupazione per sostituire al profilo produttore/ consumatore quello del precario/ escluso, di mettere in liquidazione il patrimonio pubblico e di indebolire lo stato, come accade in queste settimane in Italia con l’osceno governo fantoccio di Monti (e Napolitano). Paesi come l’Italia, che hanno già perduto la sovranità monetaria, perdono completamente anche quella politica e subiscono nell’inerzia di massa (almeno per ora) la tirannide liberista della classe globale. Dovrebbe essere ormai chiaro anche ai più distratti che un governo come quello di Papademos, o come quello di Monti, non rappresenta il popolo (greco, italiano) o comunque una parte significativa anche se minoritaria di esso, ed anzi agisce contro il popolo, contro lo stato, contro le vecchie istituzioni. La cosa più lontana dall’interesse collettivo, se mai questo è esistito, è il programma di un simile governo, che si regge sulla minaccia, sulla paura, sul ricatto e sull’inganno. Agli italiani, quindi, Monti dovrebbe apparire come il peggiore fra i distruttori, in questo confortato dai suoi sodali Draghi e Napolitano. Ma la sua, in fondo, è pur sempre “distruzione creatrice”, in quanto portatore del nuovo per conto degli unici veri referenti che ha e ai quali deve rispondere: i membri della classe globale. Ed il nuovo può pur essere terribile, ma rappresenta la realizzazione concreta, con costi sociali che presto si riveleranno insopportabili, del modello di capitalismo vincente. La “distruzione creatrice” di Monti e del suo esecutivo sta proprio nella disintegrazione del welfare e nella proliferazione dell’iniquità sociale (nuovo ordine sociale fondato sulla dicotomia Global class/ Pauper class), come nel porre interamente al servizio di Mercati e Investitori l’Italia e l’intero apparato produttivo nazionale, sottomettendo la sua popolazione, privata della possibilità di disporre delle risorse nazionali, alla nuova classe dominante neocapitalistica. 285 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 In tal senso, l’euro ha rappresentato il cavallo di troia globalista per depotenziare e poi ridurre a completa impotenza (o quasi) gli stati nazionali, ma il Quisling Monti, spalleggiato dal tristo Napolitano aduso alla menzogna e al tradimento (anzitutto quello dell’ideale comunista), opera ufficialmente per far restare l’Italia nell’Europa fasulla dell’Unione e per la difesa a spada tratta dell’euro maligno. La “crescita”, tanto santificata anche da questo governo, è un mero pretesto per scardinare l’ordine sociale attraverso le contro‐riforme globaliste e per “aprire” l’Italia ancor di più al mercato, riducendo gli spazi di intervento pubblico nell’economia (e le iniziative a difesa dell’industria e dei prodotti nazionali), fino a completa estinzione. Questi passaggi, che avranno effetti terribili su almeno tre quarti della popolazione italiana, sono indispensabili per l’adozione senza riserve del modello capitalistico neoliberista estremo. Perciò Mario Monti, in un certo senso, “sta facendo soltanto il suo dovere” – così come lo facevano i comandanti dei campi di Treblinka e Dachau nello scorso secolo, e quanto più massacrerà gli italiani (anziché ebrei, zingari, armeni, disabili, dissidenti ariani, eccetera), riducendoli all’impotenza per gli anni a venire, quanto più sottrarrà risorse al collettivo rendendole disponibili per la creazione del valore finanziario, azionario e borsistico, tanto più la sua azione di governo avrà avuto successo. Dopo Monti e dopo il completamento della sua opera, fatta la frittata senza una concreta possibilità di tornare alle uova, si concederanno “finalmente” le elezioni, perché questo rito, ad alto contenuto simbolico, è ancora importante per sostenere il sistema politico liberaldemocratico e per ingannare le masse, purché non interferisca – sia ben chiaro, con le decisioni politico‐strategiche che veramente contano (moneta, finanza, spesa pubblica, welfare), rallentandole o vanificandole. Se questo è il contesto in cui siamo costretti a muoverci, e in cui ci muoveremo nel prossimo futuro, le speranze di rapida estinzione dell’euro o addirittura di collasso del capitalismo finanziario mondiale che affiorano negli ambienti alternativi, sembrano non avere troppa consistenza, almeno per quanto riguarda il breve‐ medio periodo, ed anzi è probabile che vicende come quella italiana possano chiudersi con un successo globalista e neoliberista, Inoltre, potrebbero non esserci improvvise precipitazioni degli eventi – una guerra non convenzionale contro l’Iran, ad esempio, con il coinvolgimento di Russia e Cina, tali da compromettere la riproduzione sistemica. L’Italia è ormai un paese occupato, l’esperimento greco si è concluso con successo ed è probabile che seguiranno altre occupazioni senza l’uso dello strumento militare, per “normalizzare” quanto meno l’Europa e l’occidente. Perciò, possibilità concrete di fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non se ne vedono ancora all’orizzonte, ma le strade future da seguire a tale scopo, nel medio‐lungo 286 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 periodo quando si arriverà ad un ennesimo bivio storico, saranno almeno due, l’una alternativa all’altra: 1) Quella rivoluzionaria anticapitalista e anti(liberal)democratica, oggi impensabile e per la quale è necessario che la situazione sociale precipiti ancora e lʹimpoverimento vero morda alle chiappe gran parte del cosiddetto ceto medio, che oggi è il vero obbiettivo delle controriforme neocapitalistiche. 2) Quella rappresentata da un (tentativo di) ritorno al keynesismo assistenziale, con accentuati lineamenti antiliberisti, caratterizzata da un’economia dal lato della domanda, dall’esaltazione del ruolo della spesa pubblica destinata a sostenere consumi e investimenti, dalla ridistribuzione dei redditi, dall’interventismo statale nellʹeconomia, dalla nazionalizzazione non più ostracizzata delle banche e della grande industria, dalla distruzione dei potentati finanziari privati, dall’ʺeutanasia del redditieroʺ che si ingrassa fidando sul valore della scarsità del capitale, come scrisse con intima soddisfazione J.M. Keynes nella General Theory, e da altri elementi ancora. Questa ultima possibilità – ossia il ritorno a Keynes, non sarebbe altro che un tentativo di “ritorno al passato”, e cioè all’età dell’oro (i trenta gloriosi anni) dello storico ebreo di formazione marxista Eric Hobsbawm (allʹincirca il trentennio 1945‐1975), e non implica come quella rivoluzionaria la fuoriuscita dal capitalismo verso il nuovo e l’ignoto, in quanto si tratta dellʹunico riformismo mostratosi efficace, in grado di produrre effetti sociali moderatamente emancipativi e nel contempo di mantenere in piedi il capitalismo. Ma questo “ritorno al passato” sembra quanto mai improbabile, soprattutto nel breve, perché la maggioranza degli economisti, degli intellettuali e degli accademici – valletti ideologici della classe globale ed untori ultraliberisti, è schierata dallʹaltra parte, mentre i veri keynesiani, come i marxisti novecenteschi, gli sraffiani ed altri, rappresentano una minoranza destinata allʹestinzione. Inoltre, una riproposizione della riforma keynesiana non incontrerebbe alcun gradimento, nei centri di potere che veramente contano (oggi controllati dalla classe globale), e gli economisti arditamente riformisti non troverebbero alcun referente di alto profilo disposto ad appoggiarli e ad accogliere le loro tesi. Dovrebbe apparire a tutti fin troppo chiaro, non soltanto in Italia, ma in buona parte dell’Europa e dell’occidente, che “la Rivoluzione può attendere” ancora a lungo e che la fuoriuscita dal Nuovo Capitalismo non è certo dietro l’angolo. 287 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’Europa posticcia dell’Unione. Ovvero la perdita della coscienza sociale e della sovranità nazionale Saggio del 16/01/2012 Quello che ha portato all’attuale stato di cose, nell’Europa sopraffatta dalla crisi neocapitalistica strutturale e dall’assoggettamento degli stati ad entità monetarie e finanziarie private, è stato un lungo processo di creazione e sviluppo delle istituzioni e delle strutture di potere cosiddette comunitarie, le cui radici affondano nel periodo della seconda guerra mondiale, un processo che si è accompagnato alle rilevanti trasformazioni culturali, socio‐economiche e geopolitiche manifestatesi dagli anni quaranta del novecento fino ai giorni nostri. Un processo che un giorno gli storici dovranno ricostruire fuori della retorica e dalle mistificazioni che l’hanno accompagnato in questi ultimi decenni, per far digerire agli europei ciò che loro non volevano, o volevano molto tiepidamente. Un processo, inoltre, che ha proceduto di pari passo con quello di allargamento fisico e psicologico dei mercati che è alla base della globalizzazione neoliberista, contribuendo a rafforzare e ad estendere il potere dei Mercati & Investitori nel mondo, e la cosa non può essere frutto del caso. La mano invisibile neoliberista, che altro non è se non la longa manu accaparratrice della una nuova classe dominante globale, ha voluto ed indirizzato fin dalla seconda metà degli anni ottanta lo sviluppo di questa Europa, così come oggi la conosciamo, ampiamente imposta dall’alto e non particolarmente amata né desiderata dalle popolazioni del vecchio continente, determinandone la sostanza di centro di potere sopranazionale, stabilito contro l’autonomia e l’indipendenza dei vecchi stati nazionali, nonché la sua funzione di apparato burocratico onninvasivo e di detentore del potere finanziario e monetario. La retorica europeista, la cui inconsistenza è ormai scoperta particolarmente in paesi completamente assoggettati come l’Italia e la Grecia, vorrebbe far credere che un’Europa costruita intorno all’allargamento del mercato, e quindi di natura commerciale, ed in conseguenza dell’imposizione di un’unica moneta in mani private, e quindi monetaria, costituisca il presupposto indispensabile per realizzare, nel lungo periodo, una vera e libera unione politica dei popoli. Se non si accetta questa Europa, commerciale, monetaria, soggetta interamente alle leggi del mercato e tassello (sempre meno importante, ma ancora utile ai dominanti) della globalizzazione neoliberista, la minaccia che si paventa, al fine di spaventare gli europei ed indurli ad accettare ciò che senza condizionamenti respingerebbero, è quella della riproposizione dei distruttivi conflitti fra le nazioni europee che hanno funestato il novecento, attraverso due guerre mondiali la cui origine era in questa parte del mondo, e che hanno contribuito in modo decisivo a 288 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 far perdere al vecchio continente, forse per sempre, la sua preminenza a livello mondiale. Così, nel caso collassi l’euro e si svuotino per logica conseguenza le istituzioni europee, abbandonate al loro destino, la propaganda europeista e neocapitalistica, a tutto vantaggio del potere della classe globale occidentale, prospetta scenari terrifici simili a quello già vissuto della “guerra civile europea” fra nazionalsocialismo e comunismo bolscevico, proposto a suo tempo dallo storico Ernst Nolte in una rilettura della storia del novecento (da bravo “revisionista” che rompe i tabù), e dispiegatosi funestamente fra il 1917 (Ottobre Rosso, nascita del potere bolscevico in Russia) e il 1945 (fine della seconda guerra mondiale, sconfitta del nazismo e smembramento della Germania), oppure minaccia disastri economici e sociali a catena, i quali, per la verità, sono già in atto almeno in quella una parte dell’Europa considerata economicamente più debole e più “spendacciona” – in termini di spesa pubblica, di welfare, di burocrazia statale, e questo a causa delle regole e delle misure recessive imposte per tenere in vita la moneta unica, nonché per effetto dello stessa natura e dei veri scopi che ha l’Unione. La costruzione europea, intesa negli ultimi decenni quale strumento di potere e di controllo dei popoli (e delle risorse) da parte degli agenti neocapitalistici, non solo non ha permesso al vecchio continente di riacquisire una posizione preminente nel mondo, da un punto di vista geopolitico oltre che puramente economico (come avrebbe potuto accadere dopo la fine del bipolarismo USA‐URSS), sviluppando politiche unitarie e riappropriandosi della propria indipendenza, ma non poteva che produrre, per gli europei e per le vecchie istituzioni statuali che li rappresentano, esiti maligni come quelli che ha concretamente prodotto e che viviamo drammaticamente sulla nostra pelle. Le esigenze della riproduzione neocapitalistica allargata recepite dall’Europa posticcia dell’Unione, hanno imposto, da circa un trentennio a questo parte, l’allargamento fisico e psicologico dei mercati oltre ogni limite politico, culturale, di sostenibilità ambientale e sociale, il “declassamento” dei vecchi stati nazionali destinati a perdere irrimediabilmente la necessaria sovranità politica e monetaria, l’assoluta preminenza della produzione capitale finanziario derivato su quella del capitale produttivo di marxiana memoria, la flessibilizzazione all’estremo del fattore lavoro (compresso dalle controriforme giuslavoristiche) e la distruzione dei modelli capitalistici particolari, in cui si realizzava ancora, attraverso il welfare, le politiche neokeynesiane sopravviventi, l’intervento dello stato nell’economia per sostenere i consumi interni, quel patto fra Stato e Mercato (inteso come grande capitale in mani private) che ha connotato il capitalismo per buona parte della seconda metà dello scorso secolo. 289 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’Unione europea di oggi, dal suo cerchio interno e monetario al suo cerchio esterno, è una prova evidente che lo Stato non è più sovrano e il Mercato si è definitivamente affrancato dalla Politica. Il calvario della Grecia e dell’Italia, paesi occupati per realizzare attraverso l’euro e le politiche imposte dalla BCE e dagli organi comunitari il grande sogno neocapitalistico di dominio assoluto, sono la dimostrazione più evidente che non è più il Mercato a dover sottostare alla Politica, ma è la politica (questa volta con l’iniziale minuscola) a dover sottostare al Mercato. La vicenda europea ha avuto il suo inizio formale con i cosiddetti Trattati di Roma del 1957, istitutivi della Comunità Economica Europea (l’“antenata” dell’Unione più blanda e meno distruttiva della discendente) e di quella dell’energia atomica (Euratom), preceduti di qualche anno dal trattato istitutivo della Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA). Fra i primi obbiettivi di allora, vi erano quelli dell’abbattimento delle tariffe e dei dazi doganali, per l’allargamento definitivo del Mercato oltre i confini nazionali, e l’istituzione di un organismo finanziario come la Banca Europea degli Investimenti. L’Allargamento capitalistico dei mercati e la finanza, ragioni commerciali ed energetiche, e non un vero “matrimonio” fra i popoli voluto dal basso con positivi riflessi geopolitici, sono comunque all’origine della cosiddetta Europa unita, ed è proprio per questo che la “fratellanza” fra i popoli europei è oggi lettera morta, mentre le istituzioni dell’Europa posticcia e totalitaria che conosciamo, calata dall’alto come un volere divino, la fanno da padrone, e ci impongono con la coercizione ed il ricatto le controriforme liberlcapitalistiche. E’ però evidente che i trattati per l’istituzione di un mercato comune e per la realizzazione di progetti energetici condivisi, siglati dalla Germania ovest, dalla Francia, dall’Italia, dal Belgio, dall’Olanda e dal piccolo Lussemburgo negli anni cinquanta, sono il frutto di una maturazione storica, culturale, politica ed economica degli eventi, che ha le sue radici nel periodo della seconda guerra mondiale e negli anni trenta, nonché il risultato della sconfitta dell’Europa nel secondo conflitto mondiale, a vantaggio della potenza americana e di quella sovietica, e della conseguente divisione del vecchio continente in un due aree di influenza, prive di una vera autonomia, a sovranità limitata. E’ altrettanto vero che il processo che ha portato alla costituzione, al consolidamento e allo sviluppo delle istituzioni europee sopranazionali si è accompagnato nel corso dei decenni alla “evoluzione capitalistica”, fino a aderire perfettamente alle dinamiche ed alle esigenze riproduttive del Nuovo Capitalismo finanziarizzato del terzo millennio. Possiamo far risalire simbolicamente l’adesione dell’Europa “comunitaria” alle nuove dinamiche capitalistiche, ultraliberiste e globalizzanti, al 1992, che è l’anno 290 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 della firma del Trattato di Maastricht da parte dei dodici paesi allora parte della Comunità Europea, il quale ha sancito la nascita dell’attuale Unione. In seguito, attuando le nuove pattuizioni, si è proceduto a dare consistenza all’Unione economica e monetaria (UEM) creando la BCE (1999) e successivamente introducendo l’euro nella circolazione monetaria effettiva dei paesi aderenti (2002). Ma l’Europa “comunitaria” prima, e dell’Unione dopo, considerando la sua genesi, oltre a seguire nella sua storia ultradecennale le linee dello sviluppo e delle trasformazioni capitalistiche, è innegabilmente figlia della decadenza, del declino del continente europeo prostrato da due conflitti e non più centro del mondo, ed è proprio questo esser figlia della crisi e della perdita di potenza che l’ha portata fin dalle origini ad una completa subordinazione al cosiddetto occidente americano, ed infine, a divenire ciò che è oggi nella veste di Unione commerciale e monetaria: un utile strumento di dominazione, attraverso le sue istituzioni, i suoi trattati e la sua moneta “straniera” e privata, della classe dominante globale. E’ nel disastro del secondo conflitto mondiale, che ha completato il suicidio dell’Europa sancendo la definitiva perdita della sua preminenza, che l’irrequieto federalista Altiero Spinelli, espulso dal partito comunista prima della guerra e in quegli anni condannato al confino dal fascismo, ha scritto il celebre Manifesto di Ventotene del 1941 (proprio nell’isola dove trascorse la seconda parte del confino), quale anticipazione, e premonizione, dei tempi nuovi che di lì a poco, dopo la sconfitta della Germania nazista e il suo smembramento, sarebbero arrivati. In questo celebre documento politico “protoeuropeista”, scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, pubblicato e diffuso in clandestinità da Eugenio Colorni, emerge con estrema chiarezza l’ostilità nei confronti dello stato nazionale sovrano, confuso con i totalitarismi europei novecenteschi e con i disegni imperialisti delle grandi potenze, e ciò che si propone come alternativa è sostanzialmente una riorganizzazione federale (e sopranazionale) dell’Europa, nell’attesa che si creino le condizioni per l’unità politica dell’intero globo, ossia per un governo mondiale. Internazionalismo, mutuato dai sogni comunistici otto‐novecenteschi, e dimensione sopranazionale salvifica, per non ripetere gli errori e gli orrori del novecento, ai giorni nostri agitati come spauracchi dalla propaganda filo europeista e globalista, costituiscono la sintesi estrema del Manifesto di Ventotene. Il mostro da sconfiggere, perché non si ripresenti più nell’Europa del futuro, assumendo le forme del totalitarismo e dell’imperialismo che hanno scatenato due guerre mondiali, per Altiero Spinelli è proprio la sovranità assoluta dello stato‐ nazione (senza la quale, però, si mette in discussione anche la sua concreta indipendenza da potentati esterni), ed infatti nel Manifesto si legge che La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo ʺspazio vitaleʺ territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non 291 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti. [Manifesto di Ventotene, La crisi della civiltà moderna] E’ molto importante, e addirittura profetica (detto con il senno di poi), questa presa di posizione “internazionalista” e sopranazionale, di totale ostilità nei confronti del vecchio (e oggi diciamo, con qualche nostalgia, protettivo) stato‐nazione sovrano, al punto che sembra che lo Spinelli anticipi gli eventi di portata storica accaduti in seguito, ai nostri giorni, in cui drammaticamente si afferma uno strano “internazionalismo”, però sostanzialmente diverso da quello auspicato da Spinelli, che doveva emancipare le masse proletarie e popolari, far cessare le distruttive guerre elitistiche, realizzare il suo particolare ideale di socialismo, e ridare all’Europa dopo il conflitto un ruolo positivo nel mondo. L’internazionalismo emancipativo dei popoli, dai lineamenti curiosamente socialistici ed egualitari, in salsa federalista, auspicato da uno dei più inquieti “padri dell’Europa” – quale è stato indubbiamente Altiero Spinelli, espulso dal partito comunista per il suo essere antistaliniano e piccolo borghese, carcerato dal fascismo per dieci anni, poi costretto al confino, e fondatore nel 1943, a Milano, del Movimento Federalista Europeo, in realtà ha assunto le forme minacciose della globalizzazione neoliberista, ed ha comportato la supremazia del Mercato e della finanza, la distruzione della coscienza sociale, oltre che dell’autonomia e della sovranità degli stati, informando, nel passaggio dal secondo al terzo millennio, la stessa costruzione europea. E’ andata diversamente da come aveva auspicato questo “padre dell’Europa”, antemarcia della Comunità e della successiva Unione, e ai vecchi totalitarismi novecenteschi, nati nell’alveo degli stati‐nazione dotati di sovranità assoluta, si è sostituita – dopo i necessari passaggi storici, socio‐economici e geopolitici e le forche caudine della “guerra fredda” fra i blocchi, le rilevanti trasformazioni capitalistiche, l’avvio della globalizzazione economica e finanziaria, una forma di totalitarismo neocapitalistico che ha demolito, con la coscienza sociale e le solidarietà di classe, le dimensioni politiche e sociali dell’esistenza, ha flessibilizzato le masse precarizzandole e idiotizzandole, ed ha sottomesso gli stati nazionali, investendo in pieno, con la sua onda d’urto espropriatrice, impoverente e de‐ emancipante, le popolazioni europee soggiogate dai trattati e dalla burocrazia di questa brutta copia, saldamente nelle mani elitistico‐oligarchiche, dell’Europa stessa. Mai come oggi l’Europa dell’Unione si configura come una “prigione dei popoli”, in prospettiva futura peggiore di quella zarista. Eppure Spinelli scriveva, nel Manifesto di Ventotene del 1941, identificando I compiti nel dopo guerra della riforma della società: Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il 292 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l’attuazione saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita. Oggi sta accadendo esattamente il contrario, e quanto sta accadendo è la migliore (o meglio, la peggior) prova che non è stata sufficiente la caduta dei regimi totalitari europei, per giungere ad un mondo nuovo, di popoli federati in un’Europa unita, nell’attesa dello stabilirsi di un benefico governo mondiale, come credeva il povero e confuso Spinelli: La caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l’avvento della “libertà” sarà scomparso ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione. [Manifesto di Ventotene, La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti] Se Altiero Spinelli, con i suoi compagni federalisti europei e “anti‐sovranisti”, sognava l’avvento di un’Europa libera, unificata e federalista dopo la fine del secondo conflitto mondiale, ed auspicava come esito finale, di lungo periodo, la mitica e mai realizzata unità internazionale, la sola unità internazionale che si è realizzata è quella dello spazio globale per lo scorrimento libero – previo abbattimento degli ostacoli politici, sociali, culturali, dei grandi capitali finanziari, coerentemente con le caratteristiche del nuovo modo di produzione dominante, rappresentato dal Nuovo Capitalismo finanziarizzato del terzo millennio. L’Europa non è mai stata veramente libera, dopo il secondo conflitto mondiale (non imputabile alla pura forma dello stato‐nazione sovrano), il cui esito disastroso l’ha ridotta in una posizione ancillare rispetto alle potenze emergenti, USA e URSS, divisa territorialmente fra i due blocchi come se fosse “bottino di guerra” da spartire. Dopo la fine dell’Unione Sovietica l’Europa non ha saputo, o non ha potuto, riacquisire la sua piena indipendenza dall’esterno, perché oltre agli scenari geopolitici (che rappresentano la superficie) sono mutati radicalmente gli scenari capitalistici (che rappresentano la profondità), e la costruzione europea – ancora fragile, ambigua, parziale, indeterminata sul piano della politica estera e su quello militare, è finita nelle mani della nuova classe dominante, la classe globale neocapitalistica, che sta provvedendo a “normalizzare” il capitalismo europeo con robuste dosi di liberismo economico, aprendo definitivamente al Mercato i paesi più riottosi, più esposti alle intemperie della speculazione finanziaria e più deboli. Come possiamo facilmente comprendere, accade esattamente il contrario di quello che sognava Altiero Spinelli, e questa Europa posticcia, sopranazionale ed elitistica – nuova “prigione dei popoli” che non possono sfuggire agli appetiti neocapitalistici, sta distruggendo la coscienza sociale delle popolazioni e la 293 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sovranità degli stati nazionali, perché l’una e l’altra, lungi dall’essere incompatibili, sono presupposti indispensabili per la libertà e l’autodeterminazione. 294 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Popoli e classi dominate senza rappresentanza Saggio del 23/01/2012 Breve premessa Il presente saggio politico, non specialistico e non politicamente corretto, è diviso in due parti ed ha come oggetto il sopraggiunto deficit di rappresentanza politica e sindacale, all’interno del sistema vigente, di vasti strati della popolazione italiana (e di altri paesi europei) nelle attuali, gravissime contingenze economiche e sociali. La prima parte è dedicata al passato, e cioè alla condizione delle classi dominate nella seconda metà del novecento ed alle ragioni della rappresentanza “condizionata” di cui godevano nel sistema, che si reggeva grazie al compromesso fra uno Stato ancora sovrano ed il libero Mercato e all’inclusione capitalistica in atto, mentre la seconda parte è dedicata al tempo presente, in cui domina la coppia precarizzazione/esclusione ed in cui un numero sempre più grande di soggetti sociali, colpiti nei loro interessi vitali dagli effetti della crisi strutturale neocapitalistica e delle manovre impoverenti imposte dai governi liberaldemocratici (“tecnici” come nel caso dell’Italia, o politici altrove) non ha più alcuna rappresentanza all’interno del sistema e finalmente, dopo anni di acquiescenza alle dinamiche neocapitalistiche, pur con fatica e fra mille difficoltà (intontimento e disinformazione mediatiche, delegittimazione/criminalizzazione della vera protesta, persistenza delle clientele politiche e sindacali, eccetera), inizia a prenderne coscienza. Il passato: compromesso, inclusione e rappresentanza condizionata La liberaldemocrazia, che dal secondo dopoguerra ad oggi ha fatto il paio con il capitalismo liberista anglo‐americano e con i modelli capitalistici subalterni affermatisi nell’Europa continentale, ha sempre garantito in passato alle classi dominate, ed in generale ai popoli soggetti al comando capitalistico, una rappresentanza soggetta alle sue regole nei circuiti parlamentari ed in quelli sindacali, attraverso partiti, cartelli elettorali e centrali sindacali. Un’applicazione parziale e controllata del principio di libertà di associazione ha favorito e promosso, in qualche misura, gli interessi delle classi dominate, e quindi della maggioranza delle popolazioni europee dell’ovest, impedendo che le famigerate “regole del Mercato” (libero da ogni condizionamento) sopprimessero qualsiasi forma di equità sociale e negassero una seppur minima partecipazione alla decisione politica, in posizione subordinata. Quando la vicenda capitalistica era pienamente inserita in quadro nazionale, e vi era ancora una certa autonomia degli stati‐nazione, questa rappresentanza ha potuto trattare con i dominanti borghesi, ancora legati alle sorti dello stato e della nazione di origine, spuntando non trascurabili miglioramenti economici e di vita 295 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 dei dominati (la classe operaia, i ceti medi in espansione nella società), perché in quei contesti culturali, economici e politici era possibile contrattare con il padrone da posizioni di relativa forza, istituzionalmente garantite. In quella epoca, in cui a detta dello scrivente il capitalismo ha lasciato intravedere “un volto umano” (o meglio, “quasi umano”), i dominanti borghesi sono stati costretti a cedere qualcosa del loro potere e della loro ricchezza, attraverso una diversa e più equa divisione del prodotto, nonché una maggior partecipazione alla decisione politica garantita delle classi inferiori, che restavano pur sempre in posizione subordinata. Mediazione e compromesso erano dunque possibili, entro certi limiti invalicabili (in alcun modo avrebbero potuto portare alla costituzione di un entità comunista, fondata sulla socializzazione integrale degli apparati produttivi) e ciò è alla base della nascita e dell’estensione del welfare novecentesco, dei ceti medi, dei processi di relativa emancipazione di una parte significativa della popolazione. Se questo processo di “riforma capitalistica”, nel dopoguerra, fu caratterizzato sul versante macroeconomico dall’applicazione delle teorie di Keynes (che non era un socialista/ laburista e non ha mai ripudiato capitalismo e liberaldemocrazia), ciò è avvenuto per “salvare il capitalismo” dalle minacce interne (reazioni all’iniquità sociale, eccessiva compressione del lavoro) ed esterne (successi del modello alternativo sovietico e minaccia politico‐militare rappresentata dall’URSS) e non per superarlo o affossarlo. Il “Bengodi” capitalistico del welfare, dell’estensione dei consumi, e della promozione sociale, è diventato possibile dopo la seconda guerra mondiale per un breve periodo, al più trentennale, quale effetto del mantenimento della sovranità politica e monetaria degli stati – pur con limitazioni, rilevanti soprattutto nella politica estera, come nel caso dell’Europa divisa fra i due blocchi, e pur alla presenza degli organi sopranazionali mondializzanti, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nati con la conferenza di Bretton Woods del luglio 1944. La Comunità Europea era un simulacro di confederazione, a maglie molto larghe, non aveva ancora una moneta privata e non poteva imporre programmi economico‐finanziari integrali agli stati membri, in taluni casi decidendone i governi assieme ad altri organi della mondializzazione come il FMI, a differenza di quanto accade oggi. Osservando la situazione storica dal punto di vista dei soli paesi dell’Europa occidentale, perché quelli dell’Europa centro‐orientale, com’è noto, hanno seguito una strada diversa, con il senno di poi possiamo affermare che il compromesso fra Pubblico e Privato, fra Stato e Mercato, fra la Politica e il Grande Capitale economico e finanziario, ha consentito di imbrigliare un poco la distruttività sociale ed ambientale di questo ultimo, riconducendolo per certi versi sotto un controllo di 296 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 natura politica, ed ha permesso di ritagliare spazi di emancipazione per l’affermazione (ancora parziale ed insufficiente, bene inteso) dei diritti dei dominati. Per tali motivi – attenuati con il compromesso e con la parziale, ma significativa rappresentanza politica e sindacale concessa alle classi inferiori i rischi rivoluzionari e di destabilizzazione dell’ordine costituito, il capitalismo del secondo millennio è sembrato godere di un consenso piuttosto ampio, proprio fra quelli che subivano i suoi rigori, mitigati dal welfare e dalla promozione sociale, e così il suo “braccio politico ed istituzionale”, cioè la liberaldemocrazia a suffragio universale fondata sulla rappresentanza. Nell’Europa occidentale di allora, le rappresentanze politiche e sindacali concesse ai dominati in seguito al compromesso erano naturalmente del tutto interne al sistema e non ne mettevano in discussione – se non a parole, con dichiarazioni roboanti e disattese, per imbonire elettori e lavoratori, i basamenti strutturali. Si trattava, tutto sommato, di una rappresentanza parziale, condizionata dall’accettazione delle “regole del gioco” liberaldemocratiche, ma soprattutto dal comando capitalistico e dall’appartenenza al cosiddetto mondo occidentale, identificato con il blocco filo‐americano, che non si potevano mettere in discussione. Così, in Italia il partito comunista faceva parte a pieno titolo del cosiddetto “arco costituzionale”, governava importanti regioni e partecipava alla decisione politica (anche alla corruzione politica e della politica, se è per questo), la CGIL, sindacato a maggioranza comunista, condannava quanto il PCI l’azione clandestina e militare delle Brigate Rosse schierandosi con lo stato borghese, mentre nella Germania Ovest, in cui il partito comunista era fuorilegge (ufficialmente dal 1956), impazzava la socialdemocrazia, che dopo aver rifiutato pubblicamente il comunismo e Marx a Bad Godesberg (novembre 1959), approvando il mercato libero, poteva guidare liberamente, senza patemi e sospetti i governi della federazione e caldeggiare la cogestione dei grandi organismi industriali attraverso lo strumento sindacale, ma, naturalmente, senza sognarsi di mettere in discussione l’appartenenza del paese al campo occidentale, che era un tabù e come tale inviolabile. Questa rappresentanza parziale ed ancora insufficiente, accompagnata da un certo grado di emancipazione economica e sociale, concessa in Europa occidentale alle classi dominate dentro i recinti del capitalismo del secondo millennio e della liberaldemocrazia parlamentare, ebbe l’effetto di consentire al sistema politico di reggere agli urti rivendicativi di massa, e al capitalismo di riprodursi, fagocitando nei suoi immaginari milioni di subordinati. I motivi del compromesso raggiunto in quegli anni, ed effettivamente realizzato, erano di origine esogena e di origine endogena: la minaccia collettivista con lineamenti capitalistici dell’Unione Sovietica, e la serrata “concorrenza” del suo 297 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 modello di società, la necessità di distribuire “panem et circenses” ai dominati per tenerli tranquilli, e poterli manipolare efficacemente creando il profilo del produttore/ consumatore, la necessità vitale di sviluppare le forze produttive, non soltanto per resistere alla “concorrenza” sovietica, ma per la stessa natura del capitalismo, la volontà di una piena “normalizzazione” interna, che portava alla distruzione delle culture particolari, d’ostacolo allo sviluppo, e degli aspetti comunitaristici dell’esistenza per imporre i propri stili di vita. Il presente: esproprio, esclusione e deficit di rappresentanza Il mondo sommariamente descritto nella prima parte di questo saggio è finito alla svolta del millennio, che ha visto l’affermazione di un nuovo modo storico di produzione e l’affermazione di un nuovo capitalismo, il quale per riprodursi sembra non avere più la necessità di includere integralmente le masse, concedendo miglioramenti delle condizioni di vita e creando il profilo prevalente del produttore/ consumatore, perché riesce a creare valore ed a moltiplicare il valore creato espropriando i beni collettivi, riducendo le conquiste sociali fino ad azzerarle, precarizzando ed escludendo progressivamente i dominati. E’ per questi motivi (ed ormai, dopo tre decenni di de‐emancipazione nei cosiddetti paesi sviluppati la cosa dovrebbe esser chiara a tutti) che il profilo prevalente imposto alle masse, frantumando l’ordine sociale precedente, tende a diventare quello del precario/ escluso. Alla precarizzazione e all’esclusione nei rapporti di produzione vigenti, qualitativamente diversi da quelli del secondo millennio, si è accompagnata, in un quadro di strapotere degli organi della mondializzazione e di riorganizzazione globalista dell’Europa comunitaria, diventata Unione all’inizio dei novanta, la progressiva perdita di rappresentanza politica (e sindacale) dei dominati che ha proceduto di pari passo con la riduzione della sovranità degli stati. E’ proprio dall’inizio degli anni novanta che è cessato definitivamente il “pericolo” sovietico, e con lo svanire delle attrattive ideologiche che per decenni l’hanno caratterizzato è cessata l’insidiosa concorrenza che metteva in pericolo, in Europa occidentale ed altrove, il controllo capitalistico sulle masse. Trattato di Maastricht del febbraio 1992, riorganizzazione successiva delle istituzioni sopranazionali europee, creazione della BCE ed introduzione dell’euro nella circolazione effettiva, si sono rivelati utili cavalli di troia per espropriare gli stati e flessibilizzare i dominati. Interi gruppi sociali, a partire dagli operai per arrivare ai ceti medi, hanno perso la tutela dei partiti svuotati di rappresentanza, incaricati di applicare i programmi politici imposti dall’esterno ed incapaci di elaborare vere alternative, e sono stati abbandonati al loro destino, in quanto lavoratori, dai sindacati ascari del nuovo 298 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 capitalismo, al punto tale che oggi i non rappresentati, coloro che sono destinati a diventare “invisibili” o “irrilevanti”, tendono ad essere maggioranza assoluta. Questo drammatico deficit di rappresentanza, sconosciuto nelle attuali proporzioni durante la seconda metà del novecento, dall’inizio della crisi sistemica ha iniziato a farsi sentire più drammaticamente, particolarmente in paesi come l’Italia dove è più evidente la subordinazione al comando globalista‐neocapitalistico, e dove il degrado della piccola politica sistemica, che non deve elaborare programmi alternativi e deve soltanto obbedire agli ordini esterni (comprovando la perdita di sovranità politica dello stato), è più avanzato che altrove. I recenti moti siciliani scatenati dalla protesta dei Forconi e da Forza d’urto, pur avendo specifiche motivazioni, quali l’aumento delle accise sulla benzina e il rincaro dei pedaggi autostradali che colpiscono i trasporti dei locali prodotti agricoli, d’allevamento e ittici, in buona misura non fanno riferimento ai partiti di cartapesta della liberaldemocrazia vigente od ai sindacati collaborazionisti che gestiscono dall’alto gli scioperi, ma nascono “fuori e contro”, perché coloro che vi partecipano – siano essi autotrasportatori, agricoltori, pastori, pescatori, operai, disoccupati, studenti, hanno compreso, sulla loro pelle, che non hanno e non potranno avere alcuna rappresentanza in questo sistema, diventato straniero e nemico quanto l’euro. Oltre a chiedere, in concreto, la defiscalizzazione dei carburanti e l’applicazione dello statuto della regione Sicilia, per trattenere nell’isola le imposte che gravano sulle locali imprese, per bocca di uno dei loro capi, i “Forconi” invitano la classe politica tutta, e senza distinzioni di schieramento (spesso soltanto apparenti) a mollare la presa e ad andarsene a casa, e inoltre avanzano la provocatoria richiesta che si inizi a battere una moneta siciliana. Parimenti, i tassinari in rivolta contro le assurde liberalizzazioni del governo fantoccio di Monti, che avanzano richieste specifiche come quella che la decisione sull’assegnazione e sul numero delle licenze resti ai comuni, e rifiutano lʹextra‐ territorialità con la libertà di prestare servizio in altri comuni, faranno sempre meno riferimento ai sindacati di categoria (esistono ben 23 sigle sindacali), perché hanno capito che questi, con un piede saldamente piantato dentro il sistema, cercheranno sempre e comunque, ed a qualsiasi costo sulla pelle dei lavoratori, di arrivare a compromessi con la controparte. La decisione a riguardo del temuto sciopero di dieci giorni dei gestori delle pompe di benzina, passa interamente attraverso i sindacati ufficiali (come ad esempio Faib‐ Confesercenti e Fegica‐CISL), ma non è escluso che si potrà arrivare in futuro, anche in questo settore, a situazioni di tensione come quelle di Roma del 19 di gennaio, in cui c’è stata una frattura fra tassisti (“i sindacati ci hanno tradito e sono scappati via”, come hanno dichiarato gli interessati) e sindacati acquiescenti nei 299 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 confronti di un governo fantoccio, voluto dai globalisti che controllano lʹUEM e la BCE. Dopo la capitolazione del segretario generale della Fiom Landini alla segreteria CGIL della Camusso (dietro la quale c’è il Pd che sostiene Monti a spada tratta), è probabile che una parte degli iscritti e dei delegati si risolverà ad abbandonare il sindacato sistemico di categoria, per intraprendere “fuori e contro” lotte veramente efficaci, mentre chi resterà dovrà languire nell’inedia, attendendo gli eventi, e dovrà rispettare l’ordine di scuderia di non fare scioperi (già di per sé inutili nelle forme note e praticate) contro l’esecutivo Monti, limitandosi a contrastare in modo simbolico e blando (e quindi inefficace) singoli provvedimenti governativi. Per quanto il governo ha fatto dei passi indietro, in molti settori, in relazione alle liberalizzazioni imposte all’Italia dalla BCE (dalle farmacie ai notai, dalle assicurazioni RC auto ai carburanti il rigore liberalizzante sembra che si sia attenuato), ciò che importa rilevare in questa sede, in cui non si tratta da un punto di vista tecnico delle liberalizzazioni stabilite con decreto, è che l’inizio delle proteste contro le misure di Monti rivela qualche importante elemento di novità, ed in particolare un ulteriore, grave “scollamento” fra la popolazione, da un lato, ed i partiti, i sindacati, le stesse istituzioni liberaldemocratiche, dall’altro. Sta emergendo a fatica, ma con una certa chiarezza in questa difficilissima congiuntura, la consapevolezza dei dominati di non avere alcuna rappresentanza all’interno del sistema, e di essere trattati, dal sistema stesso che opera per conto della classe dominante globale (esterna allo stato), come armenti da portare alla tosatura, o, nella peggiore ipotesi, da condurre al macello. Ciò non potrà non comportare una certa disaffezione nei confronti della liberaldemocrazia (volendo usare espressioni fin troppo moderate), il montare della sfiducia in tutte le sue istituzioni (sempre con espressione moderata), ed un’aperta ostilità nei confronti dell’Europa unionista, con il risentimento nei confronti dei partiti che è già evidente, ed è stato furbescamente usato per imporre senza colpo ferire l’attuale governo italiano, emanazione dell’occupatore del paese più che del presidente della repubblica. Come si è detto, la protesta dei Forconi e quella dei tassinari hanno motivazioni specifiche, locali, di categoria, e non esprimono con chiarezza le richieste di un cambio integrale di sistema, della ri‐appropriazione della sovranità nazionale e dell’uscita dall’Europa unionista dell’euro, ma costituiscono pur sempre un passo in avanti rispetto alle blande e ridicole proteste degli Indignados/ Occupy, che sbraitano genericamente contro le banche ed occupano a casaccio (se ci riescono, con metodi pacifici dei quali si vantano) sedi bancarie, piazze, edifici pubblici e parchi. Vi è la consapevolezza – in chi partecipa a queste semi‐rivolte che coinvolgono, pur nella dimensione locale, molti soggetti e molte categorie, oltre che delle concrete e 300 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 dirette ragioni della protesta vissute sulla propria pelle (il reddito, la continuità dell’occupazione, le condizioni future di lavoro), di non avere alcuna rappresentanza in un sistema ostile ed in mani nemiche, di non essere in alcun modo tutelato, e di dover farsi sentire fuori degli schemi degli inutili scioperi di quattro od otto ore, politicamente corretti, rigidamente programmati e controllati dall’alto (quelli “alla Camusso”, per intenderci). Chi scrive ha avuto la netta sensazione che molti subordinati, davanti alle contingenze drammatiche del momento, hanno compreso che non si può più demandare ad altri la difesa dei propri diritti e dei propri interessi, semplicemente perché non vi è nessuno al quale demandare, nessuno che può rappresentarli, nessuna sigla di partito, nessun “corpo intermedio” frapposto fra il singolo e il potere effettivo che possa (o voglia) difendere i loro interessi vitali, e ciò che in passato poteva godere della loro fiducia – partiti politici sistemici, sindacati ammessi ed altre organizzazioni, è oggi saldamente e totalmente in mani nemiche e lavora contro di loro. Anche se i sondaggi ammaestrati mantengono artificiosamente alta la fiducia nei confronti del presidente Napolitano (uno dei peggiori politici di tutta la storia d’Italia, ben peggiore di Berlusconi, per ciò che ha permesso che si faccia al paese e alla popolazione), al solo scopo di far credere che vi è almeno un’istituzione salda ed apprezzata dall’opinione pubblica, è probabile che l’ondata di “sfiducia” nel sistema si estenda a macchia d’olio ed investa in pieno il mondo delle libere professioni, i ceti medi non legati al lavoro dipendente, poiché un obbiettivo inconfessabile del governo Monti, sponsorizzato dal presidente Napolitano, è proprio quello di falcidiare nel numero e nei redditi questi soggetti sociali, per conto della classe globale. Dopo aver disintegrato la classe operaia, precarizzandola e togliendole qualsiasi possibilità rivendicativa e di lotta, dopo aver colpito i ceti medi legati al lavoro dipendente, da riplebeizzare con gli operai, si cerca di depatrimonializzare e di flessibilizzare i ceti medi che praticano le libere professioni, “acclimatandoli” nel nuovo habitat capitalistico che ci è imposto. Quindi non sono in ballo soltanto le sorti degli agricoltori, degli autotrasportatori e degli allevatori siciliani, o dei tassinari di Napoli e Roma, ma anche quelle degli avvocati e dei farmacisti in tutta la penisola, con la Grecia che in tal senso ha fatto da “apripista”. Poi, forse, toccherà ai politici, ai parlamentari, a deputati e a senatori, oggi in grande maggioranza così condiscendenti ed ossequiosi nei riguardi di Monti, e ciò potrà accadere quando non serviranno più per dare una parvenza di legalità costituzionale, votando i provvedimenti dei governi dell’occupatore. I politici, i loro capi, i VIP dei cartelli elettorali liberaldemocratici continuano con le loro assurde polemiche anche in questa situazione eccezionale, in cui diventa chiaro 301 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 a moltissimi che il loro ruolo è soltanto quello di far passare, votandole in parlamento in cambio del mantenimento dei privilegi di cui godono, le manovre di un governo tecnicista‐globalista dal quale sono stati tassativamente esclusi. Così Bossi minaccia Berlusconi di far saltare la giunta regionale lombarda se non toglie la fiducia a Monti, ben sapendo che è solo l’ennesimo bluff e che non lo farà, Sacconi, ex ministro del welfare, e Cicchitto, capo gruppo parlamentare del PdL, criticano un poco il decreto delle liberalizzazioni, per scopi elettoralistici, prima di “fare il loro dovere” e votarlo (si poteva fare di più, per Sacconi, non si voterà un testo fotocopia, secondo Cicchitto), mentre Bersani, capoccia dell’osceno Pd, approva pedissequo, con qualche entusiasmo di troppo che non riesce a trattenere in un eccesso di servilismo (bisogna difendere, rafforzare e accelerare le misure approvate dal governo, dichiara il nostro), ed infine Vendola, l’astuto comunista individualista postsovietico, dichiara di non voler rompere con gli alleati presenti in parlamento sul governo Monti, il quale, per Vendola, non è certo un nemico da combattere in quanto sta massacrando la popolazione, ma è soltanto un po’ “spiazzante” per la sinistra. Tutto ciò non farà altro che aumentare la distanza, destinata a diventare incolmabile, fra una popolazione abbandonata al suo destino e i partiti (tutti liberaldemocratici, anche gli ex comunisti) che da tempo non la rappresentano più, ed accrescerà la consapevolezza, nei soggetti sociali reali che dovranno sopportare l’insopportabile, cioè gli effetti concreti delle controriforme di questo governo, che per loro non vi è salvezza nel sistema, ma vi potrà essere soltanto “fuori e contro”. Sembra finalmente manifestarsi dopo decenni di flessibilizzazione di massa, di idotizzazione collettiva e di precarizzazione del lavoro, in tutta la sua pericolosità per la riproduzione neocapitalistica e la sopravvivenza del sistema liberaldemocratico, lo spettro del conflitto verticale. E’ bene chiudere questo saggio ponendosi la domanda che segue. E’ possibile che dall’estensione di moti come quello siciliano ad altre aree del paese e dall’attivarsi cosciente di un numero sempre maggiore di soggetti sociali e di categorie produttive, colpiti dalle dinamiche impoverenti imposte dall’alto, nasca un programma politico alternativo dai lineamenti rivoluzionari, contro questo capitalismo socialmente criminale e fuori della trappola delle istituzioni e dei partiti liberaldemocratici, in grado di riattivare la solidarietà fra i dominati, di ripudiare l’euro e l’Europa dei globalisti, di liberare l’Italia dall’occupatore, di cacciare il bocconiano Monti e il suo sodale Napolitano, prima che il saccheggio globalista si compia, dal nord al sud della penisola? Chi scrive non è mai stato troppo ottimista, ma spera ardentemente di sì. 302 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Stato Versus Mercato L’Italia stretta fra globalizzazione, Europa unionista e deficit di sovranità nazionale Saggio del 12/02/2012 Premessa Come si evidenzia nel sottotitolo di questo breve saggio politico, l’Italia è finita nella morsa globalizzante neoliberista, stretta com’è fra i processi di globalizzazione, mai interrotti dalla crisi strutturale neocapitalistica, un’Europa aliena e unionista che la sta stritolando imponendo con brutalità i suoi programmi economici, e il drammatico deficit di sovranità nazionale che non consente al paese di decidere, autonomamente, del proprio futuro. Il presente scritto si articola in due capitoli. Il primo capitolo è introduttivo, ed attraverso un esercizio di storia comparata si tenta di evidenziare la gravità e le potenzialità distruttive della crisi neocapitalistica in Italia. Il secondo capitolo, che costituisce il cuore del saggio, è relativo al rapporto, ormai fin troppo chiaro, fra l’avvento dell’Europa dell’Unione, la riorganizzazione delle sue istituzioni sopranazionali, la creazione della BCE, l’introduzione dell’euro e la perdita di sovranità politica e monetaria degli stati succubi, fra i quali lo stato nazionale italiano. Lo scontro fra il sopranazionale e il nazionale che si sta verificando nel vecchio continente, cioè fra l’Unione europea globalista ed alcuni Stati da “normalizzare” economicamente e socialmente (per ora, l’Italia e la Grecia messe di recente “sotto tutela”), nasce dalla rottura dello storico patto fra il vecchio Stato nazionale dotato di sovranità politica ed il Mercato, da intendersi qui come il grande Capitale in mani private. Il “conflitto” fra i due è iniziato nella seconda metà degli anni settanta del novecento, dopo lo scadere dei cosiddetti trenta gloriosi anni di compromesso, di relativo equilibrio e di moderata emancipazione delle classi subalterne. Tale confronto riflette il tentativo, che sta per riuscire, di anteporre sempre e comunque l’economia ultraliberista, dominata dalle ragioni della finanza, alla decisione politica nazionale sovrana, e di demolire le ultime barriere, in Europa e in occidente, che ancora ostacolano la libera circolazione dei capitali. Si tratta, in sostanza, della continuazione in nuove forme, per molti versi inedite, dell’antico scontro fra la crematistica da un lato, intesa come creazione illimitata di valore monetario e finanziario, e l’etica dall’altro lato, che per sussistere può ammettere soltanto la “buona” economia, subordinata alla decisione politica della comunità. Uno scontro vivo fin dai tempi di Aristotele, che ha attraversato i secoli ed oggi potrebbe risolversi con la vittoria della nuova crematistica. Gli effetti sociali e politici, pesantemente negativi, dell’attuale crisi neocapitalistica e la ricerca di possibili vie d’uscita, per l’Italia riorganizzata in chiave neoliberista e globalista dall’esecutivo Monti, non potranno che portare all’avvio di un processo 303 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 rivoluzionario, alimentato da un chiaro disegno politico, economico e sociale alternativo, pena l’implosione definitiva della sua società ed il completamento della colonizzazione neoliberista. Al di fuori di una futura via rivoluzionaria per la salvezza, non sembra che esserci un ritorno incruento, peraltro improbabile (se non impossibile), alle politiche neokeynesiane del dopoguerra, che sollecitavano un forte interventismo statale in campo economico, ammettevano la protezione dell’industria nazionale e richiedevano il controllo della moneta, come accadeva nella precedente fase storica, in cui lo stato‐nazione non era nelle attuali condizioni di subordinazione, ed era ancora dotato di un certo grado di autonomia e sovranità. Nel caso di disordini insidiosi e troppo estesi tendenti al caos permanente, di guerra civile e/o di una frantumazione regionalista del paese con il rischio di un contagio destabilizzante del cosiddetto ordine mondiale, l’occupazione globalista effettiva del paese, manu militari utilizzando lo strumento NATO, potrà diventare una drammatica realtà. La grande crisi e le antiche crisi In seguito agli effetti economico‐sociali negativi delle misure imposte da governi fantoccio che operano per conto terzi, scopertamente al di fuori di un supposto quadro di legalità democratica, si sente affermare sempre più spesso che l’attuale crisi italiana (a causa dell’ingente debito “sovrano”, dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che lievitano con lo spread, della caduta del prodotto, dei segnali economici marcatamente depressivi) è la più grave dal dopoguerra, ma spesso si omette di dire che questa crisi è ampiamente indotta dalla dinamiche neocapitalistiche, e serve per l’omologazione dell’Italia al modello di capitalismo ultraliberista anglo‐americano, “evolutosi” nell’ultimo ventennio senza incontrare ostacoli di rilievo, fino a diventare il nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo millennio. Pur sapendo che gli esercizi di storia comparata sono insidiosi, perché talvolta rischiano di portare fuori strada nell’analisi, non possiamo non riconoscere che la penisola, anticamente, ha già vissuto almeno una situazione simile, foriera di gravi rischi e di innumerevoli lutti, e precisamente durante la cosiddetta crisi del terzo secolo (dopo Cristo) che ha investito l’impero romano, e dalla quale l’impero – fino ad allora sufficientemente saldo ed in espansione, soprattutto nel periodo che andava da Ottaviano Augusto a Traiano, o al più a Marco Aurelio – non si è mai più ripreso. Quando scoppiò la crisi del terzo secolo, la penisola era ancora fiorente e rappresentava il cuore del sistema imperiale, ma quando la crisi finì, in termini economici, demografici e sociali le province italiane ne uscirono malconce ed esauste, pronte per entrare nel lungo tunnel della decadenza dell’occidente, durata circa due secoli, e del conseguente trapasso al “nuovo mondo” feudale. La crisi 304 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 neocapitalistica che oggi investe soprattutto l’Italia e l’Europa, è nel contempo elemento strutturale del Nuovo Capitalismo, senza il quale questo modo storico di produzione non potrebbe reggersi a lungo, e manifestazione del definitivo tramonto, in quanto potenza economica e produttiva, del vecchio continente a rischio di marginalizzazione, con i paesi dell’Europa mediterranea e la stessa Italia che sembrano essere diventati, in quest’ultimo periodo, l’epicentro della crisi stessa, un’area del mondo in cui la “distruzione creatrice” in atto è più evidente e rischia di diventare sanguinosa. Anche la crisi romana del terzo secolo fu una “distruzione creatrice”, naturalmente rapportata al sistema schiavistico e al sistema (politico) imperiale dell’epoca, e lo fu su vari piani: quello economico e sociale, quello militare, e quello dell’organizzazione dell’impero. Ma dalla crisi del terzo secolo non uscì nulla di buono, perché non sempre ciò che si crea dopo aver distrutto è positivo per le società umane e per gli equilibri sociali, per la stessa tenuta delle istituzioni che si vorrebbero preservare. Grazie al cinquantennio ricordato come il periodo dell’anarchia militare (dal 235 al 284 dopo Cristo), si passò dal principato augusteo, che rappresentava una forma politica di dominio relativamente “soft”, in grado di mediare fra i poteri (fra i quali il senato aristocratico d’età repubblicana) e le classi sociali (patrizi e plebei, o meglio, honestiores e humiliores), ad una sorta di dominato, o di dispotismo non asiatico fortemente centralizzato, non di rado retto da figure di militari‐avventurieri emergenti (il primo fu Massimino il Trace). L’avvento del dominato imperiale riduceva i già angusti spazi di libertà concessi alla popolazione, mentre l’accresciuta pressione fiscale per affrontare le ingenti spese di guerra (contro i barbari ed i persiani), nel tentativo di rafforzare l’apparato militare e potenziare quello statale, riduceva sul lastrico ampie fasce di popolazione, risparmiando soltanto i grandi latifondisti. Un po’ come oggi, in Italia, in cui la crescente pressione fiscale colpisce sempre più duramente i redditi da lavoro dipendente e le pensioni (in un paese in cui ci sono undici milioni di poveri, fra i quali moltissimi lavoratori e pensionati, rapidamente cresciuti di numero grazie alla crisi ed alle misure governativo‐europeiste), risparmiando soprattutto i grandi evasori fiscali, i quali nel concreto sono intoccabili perché appartengono alla classe dominante, o rappresentano potentati dell’economia formalmente criminale, che si sviluppa parallelamente a quella neocapitalistica. L’intangibilità del sistema bancario, che deve essere finanziato e sostenuto a tutti i costi, se del caso sottraendo risorse agli impieghi di natura sociale e produttiva, completa il quadro. Se la crisi romana del terzo secolo accrebbe la conflittualità sociale, suscitò le rivolte dei dominanti e modificò l’ordine sociale, in Italia ed altrove entro i confini dell’impero, l’attuale crisi neocapitalistica e l’avvento di un governo collaborazionista dell’occupatore del paese, quale è quello di Monti, suscita fuori 305 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 degli schemi sistemici e del “politicamente corretto” (semi‐)rivolte sociali fino a ieri imprevedibili (Sicilia, trasportatori, tassinari, pescatori, ed in futuro molti altri), mentre la violenza della crisi e delle controriforme montiane accelerano la trasformazione dell’ordine sociale, che procederà, se non incontrerà ostacoli di rilievo, fino alla sua estrema “semplificazione” sociologica in classe globale dominante e classe povera dominata. Per evitare opposizioni di rilievo nel tessuto politico e sociale italiano, e per far procedere speditamente le controriforme pianificate, la classe globale che sostiene Monti ha “comprato” i cartelli elettorali che contano, i sindacati, i vertici delle lobby importanti, assicurandosi il loro appoggio contro gli interessi del popolo italiano (e non di rado dei loro stessi militanti, iscritti ed associati). La prima e più profonda ragione della spaventosa crisi romana del terzo secolo, la quale ha rimodellato brutalmente la società italica peggiorando le condizioni di vita della massa, risiede nello svuotamento progressivo dei “giacimenti” di braccia per il lavoro schiavo, e più in generale per appropriare risorse, come effetto del raggiungimento della massima espansione militare, territoriale e demografica dell’impero. A ciò corrisponde nel nostro tempo storico, in cui la penisola è nuovamente funestata da una profonda crisi economica, politica e sociale, il progressivo e rapido svuotamento di sovranità dello stato nazionale, che dopo aver raggiunto l’apice della sua autonomia con il fascismo, nel periodo prebellico, ha visto progressivamente ridursi le sue competenze, ed ha perso la prerogativa della decisione politica su molte materie strategiche (moneta, debito pubblico, industria, eccetera), fino a scivolare nelle attuali condizioni di subalternità nei confronti dell’esterno. Questa perdita di sovranità, forse irreversibile, è indotta e accelerata dalle dinamiche neocapitalistiche che hanno influenzato la stessa “costruzione” europea, i parametri di Maastricht, il dominio della BCE e del FMI, ed imposto l’euro ai maggiori paesi dell’Europa occidentale. La rapacità del dominato imperial‐ militare romano, che ha impoverito le popolazioni italiche fin dall’età del ferro dei Severi, trova unʹinquietante corrispondenza, oggi, nella rapacità dei globalisti dominanti, i quali, assumendo il controllo degli stati‐nazione privati della loro autonomia, saccheggiano le risorse collettive e de‐emancipano le masse, riducendole a neoplebi. Dovrebbe esser chiara anche al cosiddetto uomo della strada, giunti a questo punto, la vera funzione della UE, della BCE e dell’euro. Come l’impero che in quegli anni lontani ha mostrato il suo vero volto, riorganizzandosi in dominato dispotico e impoverendo la popolazione, per scaricare sulle classi inferiori l’ingente costo della crisi, economica, sociale e militare del terzo secolo, cosi, oggi, la liberaldemocrazia ci mostra il suo vero volto, autoritario, dispotico, oligarchico, di totale subordinazione alle ragioni della classe dominate globale, e contribuisce ad imporre quelle controriforme, economiche e 306 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sociali, che scaricano sui più deboli l’onere della crisi e rimodellano in senso neocapitalistico la società. Gli italici e le altre popolazioni non sono riusciti, nonostante l’insorgente conflittualità fra i gruppi sociali e le numerose rivolte, ad impedire quella trasformazione dell’ordine costituito che alla fine hanno dovuto subire, fino all’estinzione formale, avvenuta due secoli dopo, dell’impero romano d’occidente. Riusciranno nel prossimo futuro gli italiani, e gli altri popoli dell’Europa mediterranea, ad interrompere il processo in atto, sottraendosi alla morsa del nuovo potere globalista, senza dover attenderne l’estinzione? Al momento attuale, in cui gli eventi sono in pieno corso, si moltiplicano le proteste fuori degli schemi, si attiva la repressione sistemica e la “distruzione creatrice” neocapitalistica subisce un’accelerazione, il futuro è sommamente incerto e la domanda non può ancora trovare una chiara risposta. Sovranità nazionale e dominio del sopranazionale L’opposizione, o meglio l’incompatibilità, fra l’affermazione e il mantenimento di una sovranità assoluta degli stati nazionali e la trasmigrazione del potere in entità sopranazionali sempre più potenti e onninvasive, nell’Europa del dopoguerra sembra essersi risolta a favore queste ultime. Non si può ancora sapere se il trionfo del globale sul nazionale, del mondiale sul locale, e soprattutto del Capitale sul Lavoro, sia definitivo, fino all’irreversibilità dei processi in atto, ma è certo che le oligarchie globaliste, supportate dallo strumento militare americano‐NATO e dalla finanza di rapina, hanno vinto un’importante battaglia, sottomettendo in buona misura gli stati, i popoli e le nazioni. La stessa, dissennata tensione, diffusa ad arte, per la “difesa dell’euro” che spiana la strada alle controriforme sociali, e che si giustifica minacciando sciagure inenarrabili in caso di collasso della moneta europea, o semplicemente dell’uscita di uno stato dall’Unione monetaria, costituisce una prova di quanto qui si afferma. Infatti, all’euro si può sacrificare tutto, anche le pensioni, anche la sanità o la scuola pubblica, persino il posto di lavoro fisso e tutelato (unica fonte di sostentamento per la maggioranza), e di questo purtroppo si mostrano convinte, in Italia e altrove, moltissime vittime delle dinamiche neocapitalistiche. Disinformazione mediatica, propaganda ultraliberista e neoliberale, idiotizzazione sociale, “snazionalizzazione” delle coscienze, svalutazione del ruolo dello stato, delle comunità di appartenenza, della socialità e diffusione dell’individualismo anomico, hanno proceduto di pari passo con l’affermazione dei “precetti” economico‐finanziari di questo capitalismo, consentendogli, fino ad ora, di spianare ogni ostacolo sul suo percorso. La grande disputa politica, come dovrebbe essere chiaro a tutti, attualmente è quella fra i sostenitori della sovranità assoluta dello stato nazionale, da un lato, e le oligarchie globaliste che istituiscono nuove forme di governo sopranazionale, 307 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 dall’altro, in accordo con i loro interessi vitali. La classe dominante globale è oggi sul punto di stravincere il confronto, come provano i casi della Grecia e dell’Italia (ma non soltanto questi), e ciò equivarrebbe anche ad uno storico trionfo (irreversibile?) del Capitale sul Lavoro, perché le politiche sociali, assistenziali, di emancipazione dei lavoratori e di tutela del lavoro sono possibili, come la storia ha ampiamente dimostrato, soltanto in un quadro di ampia autonomia, politica e monetaria, degli stati nazionali. Quello che appare scontato è che non c’è più alcuna possibilità di compromesso fra Stato e Mercato (e la condizione dell’Europa lo testimonia), cioè fra la sovranità nazionale, sul piano politico, monetario ed economico, e il grande Capitale finanziario nelle mani della classe neodominante globale. Gli esecutivi di Monti, in Italia, e di Papademos, in Grecia, sono altrettanti “cani da guardia” del capitale finanziario, ed agiscono scopertamente contro i popoli e gli stati nazionali. Di recente, nella Grecia affidata a quel Papademos di cui Monti è un replicante, il maggior sindacato di polizia ellenico, che agisce nel quadro dello stato‐nazione, ha minacciato di arrestare i funzionari del FMI ed europei presenti sul territorio greco, dichiarando di schierarsi con il popolo contro l’Europa finanziaria dei dominanti e la globalizzazione. La grande disputa politica fra i sostenitori della sovranità nazionale e i “globalizzatori”, equivale sul piano economico al confronto fra i sostenitori del “compromesso” fra politica ed economia, regolamentando i mercati (o addirittura sopprimendoli, nel caso si assumano posizioni non riformiste) e gli ultraliberisti che teorizzano, e mettono in pratica con successo, la piena autonomia e la superiorità del Mercato. Ciò che è importante capire, e ribadire una volta di più, è che le due battaglie, quella a difesa dell’autonomia degli stati‐nazione e quella sociale in difesa del welfare, non solo non sono incompatibili – una “di destra” e l’altra “di sinistra”, secondo i vecchi schemi ormai inattuali, ma, al contrario, sono complementari, perché ambedue costituiscono presupposti indispensabili per la libertà, l’autodeterminazione e la giustizia sociale realizzata. Difendendo l’autonomia dello stato nazionale contro i globalisti e contro quel loro strumento di dominio che è l’Europa dell’Unione, si difendono anche il Lavoro, i diritti dei subalterni (quelli concreti, economici, non quelli astratti e posticci liberaldemocratici), le conquiste economico‐sociali della seconda metà del novecento, i meccanismi redistributivi del reddito a vantaggio dei subordinati. Possiamo perciò affermare che lo stato nazione pienamente sovrano, nelle attuali condizioni storiche, rappresenta l’ultimo baluardo della socialità, dell’etica, dell’equità contro il saccheggio operato dai mercati e l’imposizione di una globalizzazione economica che conviene soltanto ai dominanti. 308 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’attacco alla sovranità politica e monetaria dello stato‐nazione ha richiesto, per poter essere sferrato con successo, l’avvio di rilevanti trasformazioni culturali, economico‐sociali e politiche che si possono sintetizzare come segue. [a] Traformazioni antropologico‐culturali e dell’ordine sociale. E’ bene evidenziare che l’attacco allo stato‐nazione, chiarissimo nell’Europa mediterranea, in cui alcune entità statuali sono occupate dagli emissari delle élite globaliste e svuotate di contenuti politici effettivi, è stato reso possibile dallo sconvolgimento dell’ordine sociale precedente e dal grandioso esperimento di manipolazione culturale ed antropologica per la creazione sociale dell’uomo precario, per la flessibilizzazione di massa a partire dal lavoro, per la diffusione della stupidità sociale organizzata. In luogo dell’inclusione domina l’esclusione, dal lavoro e dalla decisione politica, i cittadini consapevoli tendono ad essere sostituiti da “idiotai”, confinati nella dimensione privata dell’esistenza ed espropriati della dimensione politico‐sociale, all’emancipazione si è sostituita la riplebeizzazione di massa, che investe tanto gli operai quanto i ceti medi figli del welfare novecentesco. Senza questi indispensabili presupposti, l’esproprio di sovranità e di socialità in atto avrebbe trovato fortissime resistenze, e probabilmente non potrebbe esser portato a compimento con indubbio successo, come accade di questi tempi. Conditio sine qua non dell’attacco finale alla sovranità nazionale, condotto proprio in questi mesi in Italia e in Grecia, è stato quel processo manipolatorio di massa che ha distrutto le classi del vecchio ordine (espressione del capitalismo del secondo millennio) e neutralizzato l’opposizione sociale, un processo che è in corso da circa un trentennio ed ha ottenuto indiscutibili “successi”. Il mondo culturale borghese, la solidarietà e l’identità della classe operaia, salariata e proletaria, le sicurezze e le “aspettative crescenti” dei ceti medi postbellici stanno scomparendo, anzi, possiamo affermare che in assenza di contrasti fra qualche anno saranno un mero ricordo, materia per gli storici e per una retrospettiva sociologica imbevuta di nostalgismi. [b] Trasformazioni economiche dopo la rottura definitiva del patto fra Stato e Mercato. Altro elemento che ha creato i presupposti, quantomeno nell’Europa mediterranea “spendacciona” e vulnerabile, per la perdita di sovranità degli stati è la crisi neocapitalistica permanente come elemento strutturale del Nuovo Capitalismo e come strumento di dominio globalista, opportunamente combinata con i vincoli di Maastricht e dell’euro. La bolla del debito pubblico e la sopravvivenza dell’euro rappresentano altrettanti cavalli di troia per l’assoggettamento degli stati, e per la loro occupazione (permanente? Sine die?) senza l’uso di strumenti bellici. L’esperimento greco e la vicenda italiana sono a tali propositi paradigmatici. Gli esecutivi imposti ai due paesi rispondono nel concreto soltanto ad interessi esterni e al comando neocapitalistico della classe globale. Il tutto “insaporito” con slogan neoliberisti, da accettare acriticamente e privi di effetti economico‐sociali positivi: 309 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 l’indispensabilità della crescita, perniciosa anche dal punto di vista ambientale, la competitività in uno scenario globale di libero movimento dei capitali, l’apertura definitiva al mercato, la “monotonia” del posto fisso e l’inevitabilità della flessibilizzazione del lavoro, eccetera, eccetera. I sistemi che FMI e Banca Mondiale usavano per assoggettare al libero mercato i paesi del terzo mondo (piani di aggiustamento strutturale, ricatto del debito, apertura forzata dei paesi ai capitali finanziari internazionali) sono simili, per certi versi, a quelli che FMI, UE e BCE utilizzano oggi contro i paesi dell’Europa mediterranea, chiamati con disprezzo PIIGS. Si pensi al vero significato del Cresci‐Italia di Monti che accompagna, come un’illusoria carota agitata dal Quisling globalista, le misure più feroci e impoverenti. I veri obbiettivi delle manovre montiane in Italia, e di quelle del suo omologo Papademos in Grecia, sono essenzialmente i seguenti: (1) imporre il modello capitalistico ultraliberista, portato alle estreme conseguenze, che identifica un nuovo modo di produzione sociale, (2) ridurre all’osso l’area dell’intervento statale, compromettendo persino i cosiddetti beni pubblici puri, che solo lo stato può offrire a condizioni ragionevoli (non di mercato), rendendoli accessibili a tutta la popolazione, (3) rischiavizzare il lavoro per ridurlo a mero fattore produttivo (nello specifico italiano, la scomparsa del contratto collettivo nazionale, l’attacco all’art. 18, la probabile “riforma” della CIG, eccetera), (4) accelerare la trasformazione sociale in senso neocapitalistico, riplebeizzando una parte rilevante dei ceti medi (in questo senso la “liberalizzazione” delle professioni), fino allo stabilirsi della dicotomia Global class/Pauper class. [c] Trasformazioni politiche, svuotamento di contenuti effettivi delle istituzioni statuali e assimilazione completa dei cartelli elettorali liberaldemocratici nell’unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica. L’ultimo supporto che si è rivelato indispensabile per “piegare” gli stati nazionali ai voleri della classe globale neodominate è la piena omologazione della cosiddetta classe politica al neoliberalismo ultraliberista, con particolare biasimo per la sinistra, che si sta rivelando in diversi paesi il miglior servo dei globalisti. In Italia, ad esempio, il cosiddetto centro‐destra (con l’esclusione della Lega che agisce per puro calcolo elettoralistico) ha piegato la testa, a partire dallo spaventato ed isolato Berlusconi, ed ha accettato Monti a denti stretti, cedendogli l’esecutivo e garantendogli un appoggio incondizionato. Ma è il Pd, assieme ai centristi che si mostrano entusiasti delle riforme montiane, il sostenitore/servitore più affidabile di questo governo fantoccio, insediato a tempo di record dagli occupatori del paese, dopo le dimissioni di Berlusconi, con la decisiva complicità di Napolitano. Pur appoggiando servilmente l’esecutivo globalista (PdL, Pd, centristi), o contrastandolo fintamente in parlamento senza esiti concreti (Lega, IdV), espropriati dall’alto del controllo del governo del paese e della possibilità di fare una vera opposizione, i cartelli elettorali marginalizzati continuano nella finzione 310 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 liberaldemocratica e simulano un confronto politico, ormai senza consistenza alcuna. Si va dalle accuse incrociate, quando scoppiano scandali che investono esponenti dell’uno o dell’altro cartello (il caso Penati, l’ex tesoriere della Margherita Lusi, i processi ancora in corso in cui è coinvolto Berlusconi), alle proposte di entente cordiale per la tanto attesa riforma elettorale, la quale, però, potrà trovare concreto riscontro soltanto quando e se i globalisti consentiranno di tornare alle urne. La finzione, finalmente scoperta e trasformatasi in un’indecorosa recita, è dura a morire. Mai come oggi la situazione italiana offre la prova della fine della dicotomia politica destra/ sinistra, che non ha più alcun senso se la politica è completamente soggetta all’economia finanziaria, e supporta un “governo tecnico” incaricato di imporre il modello capitalistico ultraliberista, approvando pedissequa le sue controriforme. In conclusione, possiamo affermare che la vittoria del globale sul nazionale, dell’economico sul politico, della finanza sulla socialità, del Capitale sul Lavoro, altro non sono che scontati riflessi della vittoria complessiva del Mercato sullo Stato, una vittoria epocale (ma forse non definitiva, per tutto il secolo) che ha instaurato il dominio sopranazionale della Global class, espropriando le entità statuali della sovranità politica e monetaria e sottomettendole al comando neocapitalistico. 311 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’Italia del deficit di sovranità nazionale, dell’evasione fiscale e del debito pubblico Articolo del 13/02/2012 Se si guarda alla situazione italiana di questi mesi, emergono tre caratteristiche, tutte negative: l’assenza di sovranità nazionale, l’evasione fiscale diffusa e la persistenza di un debito pubblico fra i maggiori del mondo. In relazione alla connessione fra [a] la dipendenza totale dell’Italia da potentati esterni, da molti identificati semplicisticamente con gli USA, [b] l’evasione ed elusione che sottraggono alla fiscalità quote rilevanti di PIL, e [c] il debito pubblico da comprimere per superare la crisi e riavviare la famigerata Crescita, è bene fare alcune considerazioni per comprendere meglio la situazione in cui si trova, oggi, la penisola. [a] In primo luogo, per quanto riguarda l’ormai assoluta dipendenza dell’Italia dall’esterno e particolarmente dagli USA (secondo una diversa visione, dalla Germania che domina l’Europa unionista), ricordiamo che l’Italia, in quanto paese occupato e soggetto ad un governo collaborazionista dell’invasore, possiamo pensarla divisa “in settori” come la Berlino postbellica (settori però non corrispondenti a specifiche aree o a specifici quartieri urbani), poiché la dipendenza è altresì nei confronti del FMI, della UE/ BCE/ Commissione europea e infine, sul versante militare e della politica estera, dai vertici euro‐americani della NATO. L’occupazione (per ora) incruenta dell’Italia, testimoniata dalla cosiddetta “sospensione della democrazia” che ha fatto spazio all’esecutivo Monti‐Napolitano, rende il paese dipendente dall’esterno per quanto riguarda la decisione politico‐ strategica in molte materie vitali, dalla moneta alla politica industriale, dalla socialità al lavoro, dalla fiscalità alla politica estera, tenendo conto che la cruciale sovranità monetaria è gia “trasmigrata” da tempo verso l’alto, a causa del dominio della BCE e dell’introduzione dell’euro. In queste condizioni, per l’Italia è praticamente impossibile uscire dall’euro e dall’Unione monetaria, cioè dal cerchio più interno della “prigione dei popoli” europea, e uno dei motivi dell’”invasione” del paese è proprio questo: impedire il fondamentale recupero della sovranità monetaria. Le potenze occupanti del “sacro suolo” della patria non sono quindi stati‐nazione o stati federali sovrani, e tengono il posto degli americani, dei russi, dei francesi e degli inglesi nella Berlino postbellica divisa in settori, anche se non c’è una diretta presenza militare sul territorio, eccezion fatta per le solite basi americane‐NATO “ereditate” dalla guerra fredda e mai sgomberate. Queste potenze occupanti, che rappresentano altrettanti organismi sopranazionali, finanziari, economici, militari, rispondono ai famigerati Mercati & Investitori, che 312 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 altro non sono se non l’efficace mascheramento della classe dominante globale, e perciò non corrispondono ai vecchi imperialismi novecenteschi, dei quali non hanno le caratteristiche che ci sono storicamente note. Si può ragionevolmente affermare che la dipendenza italiana dall’esterno, cioè dagli occupatori, è oggi integrale e riguarda tutte le materie, non soltanto quelle prima elencate, investendo le infrastrutture nazionali, essenziali per lo sviluppo capitalisticamente inteso, come le partecipazioni degli enti locali nelle società di servizi, che per quanto “demonizzate” dai neoliberisti contribuiscono a sostenere l’occupazione e a contenere i rincari delle tariffe. In Grecia, il primo paese dell’Europa mediterranea “invaso” dai Mercati & Investitori, ossia dalla classe globale dominante, si voleva persino imporre un commissario europeo per controllare uno stato già sottomesso e governato da un ex vicepresidente della BCE, ridotto quasi alla fame con il pretesto della “difesa dell’euro”, rendendo ancora più evidente il suo status di paese occupato ed espropriato della sovranità. Ma anche i paesi europei non PIIGS che credono di essere al sicuro, e fra questi gli stati venduti dalla propaganda neoliberista come “solidi”, a partire dalla Germania, non possono e non potranno sfuggire, quando verrà il loro momento, alla supremazia delle sedicenti istituzioni europee, dall’Unione Europea Monetaria e dalla BCE privata alla Commissione, e soprattutto al giudizio inappellabile dei Mercati & Investitori. Per quanto riguarda la tesi, sostenuta da molti, che la dipendenza esterna dell’Italia, in quanto paese occupato e totalmente privo di autonomia, è interamente dagli Stati Uniti d’America, tesi smentita dal fatto che il nostro paese è invaso da organismi sopranazionali e non da entità statuali imperialiste come si intendevano nello scorso secolo, è necessario fare ancora qualche considerazione. In verità, se l’intera Europa occidentale per i Neocon americani poteva essere paragonata ad un bel magnete, con grande capacità di attrazione, saldamente nelle mani degli Stati Uniti d’America, dovrebbe essere chiaro a tutti che gli stessi States, negli attuali contesti economici e geopolitici, sono a loro volta uno strumento – economico‐finanziario, monetario e militare, saldamente nelle mani della Global class neocapitalistica, che rappresenta il vero potere vigente. Gli States del dollaro, di Wall Street e delle portaerei nucleari sono uno strumento importante – forse ancora per un po’ di tempo il più importante, ma pur sempre uno strumento che in futuro i globalisti potranno decidere di ridimensionare o di abbandonare al suo destino (assieme al dollaro), smettendolo come un vestito vecchio. Gli USA di oggi non sono paragonabili a quelli dello scorso secolo, pur non essendo cambiati i loro assetti istituzionali, la loro geografia politica né i loro miti fondanti (all’origine dell’american way), e non rappresentano un imperialismo “autonomo” 313 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 vecchio stile, una potenza dotata di piena sovranità con una classe dominante interna, legata cioè alle sorti dello stato federale, ma, come già accennato, sono un mero strumento economico, monetario e militare dell’”Imperialismo Finanziario Privato” del terzo millennio (chiamiamolo pure così), espresso dai Mercati & Investitori e generato dall’illimitatezza neocapitalistica. [b] In secondo luogo, la lotta all’evasione(/elusione) fiscale agitata propagandisticamente dal governo Monti non potrà mai toccare la grande evasione, che è espressa dai membri della classe dominante globale, o ledere irrimediabilmente gli interessi delle grandi organizzazioni criminali, di fatto “alleate” dei globalisti. Infatti, se è intangibile l’evasione/elusione dei grandi Rentier che beneficiano della libertà globale di movimento dei capitali, lo è altrettanto quella dei capitali gestiti dalla grande criminalità organizzata, che partecipano alla creazione del valore azionario, finanziario e borsistico, riemergendo “puliti” per essere investiti e creare altro valore. L’economia formalmente illegale esprime comunque una parte della potenza finanziaria neocapitalistica, rispetta i meccanismi della riproduzione allargata impiegando il “denaro sporco” dopo averlo ripulito (compito dei colletti bianchi della ‘ndrangheta calabrese sulla piazza di Milano), e si sviluppa parallelamente all’economia formalmente legale, ma altrettanto criminale dal punto di vista degli effetti sociali e ambientali, e con lei coesiste tranquillamente. In Italia, una, dieci, cento, mille Cortina investite dagli improvvisi blitz dei finanzieri, non risolveranno il problema, non “faranno cassa” a sufficienza, né daranno “una boccata d’ossigeno” ai conti pubblici, e questo il rinnegato Monti e i suoi complici locali (ministri del suo esecutivo, Napolitano, leader dei partiti che lo appoggiano, eccetera) lo sanno fin troppo bene, perché non è così che si possono smascherare e colpire i grandi evasori. Si potrà colpire al più la piccola e la piccolissima evasione, coerentemente con il disegno di riplebeizzazione di una parte rilevante dei ceti medi postbellici non legati al lavoro dipendente (perché gli altri, quelli legati al lavoro dipendente pubblico e privato, sono già stati ridotti a mal partito), e nel contempo si creerà nuova forza lavoro precaria a basso costo, costituita da lavoratori autonomi e piccoli professionisti rovinati dalle ondate liberalizzatrici. Infine, anche se la lotta contro la piccola evasione fiscale (mai contro la grande, ben fornita di coperture internazionali, disponibilità di paradisi fiscali, servizi delle “stanze di clearing”, costituzione di società “fantasma”, utili operazioni estero su estero, eccetera), porterà concretamente a raggranellare risorse di una qualche consistenza, ciò non rallenterà le privatizzazioni, le svendite del patrimonio pubblico, la demolizione del welfare, i tagli ai servizi pubblici, l’avanzare della 314 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 disoccupazione e della sotto‐occupazione, perché tali risorse sono destinate a finire nelle tasche della Global class. [c] In terzo ed ultimo luogo, crisi economica e “stato d’eccezione liberaldemocratico”, ben simboleggiato dagli esecutivi Monti e Papademos che non sono di natura elettiva, ma imposti dall’esterno e dall’alto, non finiranno fin tanto che domineranno le logiche neocapitalistiche, perché la crisi è un elemento strutturale del Nuovo Capitalismo finanziarizzato e, come tale, potrà soltanto mutare di “forma”, aggredendo altri obbiettivi ed altri specifici mercati. Pertanto, si cercherà di prolungare più a lungo possibile il ricatto del debito nei confronti degli stati, e di sottrarre in permanenza alla cosiddetta consultazione popolare, nella dimensione statuale, le politiche strategiche economico‐finanziarie, negando la piena autonomia anche in politica estera, ben oltre la “finlandizzazione” degli stati praticata a suo tempo dalla vecchia Unione Sovietica, se necessario. Peggiorando la situazione, riducendosi le risorse ed il risparmio interno, una quota sempre più rilevante del debito pubblico nazionale, con maligna ironia definito “sovrano”, finirà in mani straniere (quali mani è facile immaginare) e il cappio si stringerà sempre di più intorno al collo degli italiani. E vero che la costituzione formale di uno stato non corrisponde mai alla costituzione materiale, e che alcuni dettati costituzionali non troveranno realizzazione concreta, ma oggi, per quanto riguarda l’Italia, la distanza fra la costituzione formale disattesa e quella materiale effettivamente applicata è massima, grazie allo “stato di eccezione liberaldemocratico” imposto al paese, e ciò si può constatare facilmente in relazione a molte materie: elezioni di fatto sospese sine die, con un’incerta prospettiva di chiamata alle urne allo scadere naturale della presente legislatura, in dipendenza di una decisione esterna (della classe globale dominante), funzione sociale delle imprese, richiesta dalla costituzione, completamente assente, perché si rischiavizza il lavoro sul quale dovrebbe fondarsi la repubblica, si ricorre alla precarietà a basso costo, si licenzia ogni volta che è possibile farlo, un parlamento “comprato” (forse l’ultimo eletto, per quanto pessimo) che soggiace ad un governo imposto dall’esterno, o se si vuole extracostituzionale, e che vota a grande maggioranza manovre finanziarie e controriforme sulle quali non ha alcun controllo, eccetera, eccetera, eccetera. Debito pubblico “sovrano”, le cui dimensioni restano ragguardevoli, crisi economica permanente, dalla quale è difficile immaginare di poter uscire, “stato d’eccezione liberaldemocratico”, testimoniato dalla presenza dell’esecutivo Monti, sono perciò intimamente connessi, ed anzi, non sono che facce della stessa medaglia che identificano altrettanti strumenti di dominazione neocapitalistici. 315 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Se il deficit di sovranità politica e monetaria, nella persistenza dell’euro, dell’Unione europea e delle attuali alleanze militari, continuerà ad impedire manovre distributive del prodotto sociale, il sostegno ai redditi da lavoro per riavviare i consumi e la protezione delle produzioni nazionali, se l’evasione/elusione fiscale dei Rentier e della criminalità organizzata non sarà contrastata efficacemente, recuperando risorse per lo sviluppo industriale, se il debito pubblico continuerà a crescere come conseguenza della mancata lotta contro i grandi evasori e delle manovre depressive di questo governo, non si comprende come potrà avere successo il Cresci‐Italia montiano, e nasce il fondato sospetto che si tratti soltanto di becera propaganda neoliberista, mentre gli scopi dell’azione di Monti sono semplicemente quelli di trasferire ingenti risorse al grande Capitale Finanziario e di consegnare definitivamente l’Italia nelle mani dei Mercati e degli Investitori. 316 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Napolitano fantoccio delle banche e dei globalisti (e in Sardegna lo sanno) Articolo del 21/02/2012 I sardi stanno vivendo una crisi spaventosa: niente lavoro, uno stato latitante da anni, nessuna prospettiva per il futuro. La due giorni di Napolitano in Sardegna rappresenta perciò un’autentica provocazione nei confronti della popolazione sarda, alla quale va tutta la mia solidarietà e la mia simpatia. Colui che ha ordito una specie di golpe, aggirando la costituzione repubblicana della quale dovrebbe essere il garante, e favorito, per conto terzi, la rapida ascesa di quel Monti che deve mettere in liquidazione il sistema produttivo nazionale e il welfare, ha avuto l’incredibile faccia tosta (non certo il coraggio, perché è ben protetto) di “andare in visita” in una delle regioni italiane dove i morsi della crisi si fanno sentire con più violenza. Niente di strano, dunque, che i sardi, popolazione orgogliosa e intelligente con qualche tendenza autonomista, abbia chiesto a gran voce di rimuovere, come ha fatto senza esitare, la bandiera del Quirinale dal palazzo del consiglio della regione e di lasciare al suo posto la bella bandiera con i quattro mori, simbolo dell’isola. Sardinia Natzione, Movimento dei pastori, agricoltori, artigiani, disoccupati, e più in generale i sardi tutti, non potevano tollerare di vedere quella che è diventata, per loro, la bandiera dell’oppressore, il vessillo di un traditore e non più il simbolo nazionale di unità e coesistenza, sventolare come una beffa al posto della loro bandiera. Napolitano è dovuto entrare nel palazzo del consiglio regionale sardo dalla porta di servizio, alla chetichella come fanno i ladri, evitando accuratamente l’ingresso principale, a testimonianza dell’amore che nutre nei suoi confronti la Sardegna, ma quella vera, non quella ʺistituzionaleʺ, quella fatta di lavoratori poveri in carne ed ossa, di senza lavoro cronici, di orgogliosi autonomisti. Napolitano ha avuto la sfacciataggine di dichiarare, in relazione alla condizione della Sardegna, che “il quadro complessivo è drammatico anche più di quanto non potessi pensare”, ben sapendo che se così è quanto sta accadendo all’isola e alla sua economia è anche “merito” suo. Accusato di essere il galoppino delle banche e della grande finanza, per conto dei quali ha preparato il terreno per il governo fantoccio di Monti, Napolitano non ha trovato di meglio che negare, impantanandosi nella più scontata e vuota retorica: “Io non rappresento le banche e il grande capitale finanziario come qualcuno umoristicamente crede o grida. Io sarò accanto a chi darà il suo apporto allo sforzo collettivo di rilancio della nazione italiana e di ricostruzione di una nuova Europa.” 317 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ma chi ricostruirà la Sardegna dei senza lavoro, chi salverà l’industria sarda dal dilagare della cassa integrazione in deroga e dalle chiusure di stabilimenti, Portovesme di Alcoa per l’alluminio, Porto Torres chiuso da Vinyls in morte della chimica nell’isola, Rockwool per ciò che rimane del minerario ad Iglesias, eccetera, eccetera? Non certo Giorgio Napolitano e il suo complice di palazzo, Mario Monti. Cagliari e Sassari, principali centri dell’isola, hanno fischiato ed inveito contro il presidente della repubblica, con pochi pudori, dandogli dell’”uomo delle banche” nel migliore dei casi, del “buffone, non ti vogliamo” e scagliandosi contro l’esecutivo “infame” del suo socio in affari, Mario Monti. Pur avendo ricevuto il sigillo d’oro dalle mani del rettore dell’università di Cagliari, Napolitano ha compreso di non avere molti estimatori, in Sardegna, se non fra i pochi privilegiati ed uomini del sistema. Nonostante permanga nell’isola dei quattro mori una situazione di estrema difficoltà, fra cassa integrazione, disoccupazione e chiusura di stabilimenti, i sardi, secondo un Napolitano formale e retorico, possono starsene tranquilli e sopportare la crisi a denti stretti, perché ʺLʹItalia sta recuperando fiducia e credito sul piano europeoʺ (sai quanto gliene frega a chi non ha lavoro e reddito!) ed oggi, grazie a Monti ed al cosiddetto governo del presidente, ʺsvolge un proprio ruolo ed ha voce in una dialettica che sembrava fino a qualche tempo fa solo fra due Paesi, Germania e Francia.” I sardi hanno ben compreso chi è Giorgio Napolitano, sanno che il suo gioco è scoperto e che il suddetto rappresenta soltanto il potere esterno di una nuova classe dominante finanziaria, ma è importante che tutti lo capiscano, anche nelle altre regioni. (Solidarietà agli amici sardi) 318 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Le vittime predestinate, l’invidia e il massacro sociale Articolo del 23/02/2012 La Marcegaglia, rampolla di una famiglia di sfruttatori, corrotti e imbroglioni, più elegantemente definiti imprenditori, ha nuovamente insultato i lavoratori, sostenendo che il sindacato tutela assenteisti e ladri, e sottintendendo che dopo l’abolizione, o la neutralizzazione, dell’articolo 18 ci sarà mano libera per licenziare, per fare “piazza pulita” nelle aziende e creare altre centinaia di migliaia di disoccupati cronici. Secondo Emma Marcegaglia, le multinazionali non verranno in Italia, regalandoci a piene mani investimenti e lavoro (è il loro scopo!), «finché non si è in grado di licenziare un fannullone». Questo è ciò che vuole la vampira di Viale dell’Astronomia, perché le vittime designate per il massacro devono preventivamente essere criminalizzate, onde giustificare il massacro che è in arrivo e farne cadere la responsabilità interamente sulle loro spalle. Le parole inequivocabili della Marcegaglia si combinano con la debole reazione dei sindacati collaborazionisti, disposti a qualsiasi compromesso pur di “restare a galla”, e si armonizzano con la “fermezza” dimostrata della ministra Fornero, che ha il compito di demolire integralmente le tutele dei lavoratori ed è disposta, per raggiungere lʹobbiettivo in tempi brevi, ad andare avanti anche senza accordi con le parti sociali. Eʹ chiaro che tali dichiarazioni annunciano un bagno di sangue senza precedenti per i dipendenti privati ed anche per quelli pubblici. Libertà di licenziamento, eccezion fatta per i licenziamenti discriminatori in ossequio alle inutili “libertà” liberaldemocratiche (con le quali non si mangia), riforma peggiorativa o abolizione della cassa integrazione, per privare di ogni sostegno economico i licenziati, mantenimento ed estensione della precarietà sono gli obbiettivi non soltanto della Marcegaglia, ma anche della ministra Fornero e di Mario Monti, che devono rendere conto del loro operato al grande capitale finanziario, al servizio del quale operano. Le vittime predestinate forse intuiscono di non avere più alcuna difesa, davanti al Libero Mercato che avanza, preda come sono del Salva‐Italia e del Cresci‐Italia di Monti, abbandonate al loro destino da tutti i cartelli elettorali e dai sindacati organici al sistema. Il giubilo del giullare deforme Renato Brunetta e la sadica soddisfazione del socialista riciclato Maurizio Sacconi, che hanno assicurato l’appoggio del PdL nella riforma del cosiddetto mercato del lavoro, è una prova che siamo giunti al rush finale. 319 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 A loro serve ancora un piccolo sforzo, senza incontrare particolari contrasti sindacali o opposizioni politiche (tutti sono stati preventivamente “comprati” dai padroni di Monti), e per i decenni a venire il volto del paese cambierà completamente, naturalmente in peggio: un tempo si sarebbe parlato di “brasilianizzazione” della società, con masse crescenti di poveri e poverissimi, disoccupati cronici, giovani senza futuro, tutti privi di assistenza e tutela, e un dieci per cento (scarso) di benestanti e ricchi. Questo è il risultato finale che si vuole ottenere su un piano sociale, al di là delle disgustose dichiarazioni propagandistiche con le quali si vorrebbe far credere che la finalità sono quelle di dare opportunità ai giovani e di favorire, con una maggiore flessibilità, un aumento generalizzato delle retribuzioni, per non parlare poi delle dichiarazioni menzognere di Napolitano, che agita la carota dell’afflusso di investimenti stranieri in Italia, a pioggia in conseguenza della “riforma” del lavoro. Non ci sono organizzazioni politiche e sindacali, oggi, che fanno anche soltanto parzialmente gli interessi dei lavoratori dipendenti, ma anzi, tutti parteciperanno, in modo diretto (Monti, Fornero, Marcegaglia, eccetera) o vigliaccamente indiretto (Bonanni, Camusso, Pd, centristi, PdL, eccetera) al massacro che è alle porte. Nel momento in cui Bonanni dichiara che l’articolo 18 antilicenziamenti, ultima frontiera dell’attacco al lavoro ed ultimo baluardo per milioni di lavoratori, necessita di un’ampia manutenzione, e la Camusso dichiara di non voler abbandonare il tavolo delle trattative, nonostante il governo tiri dritto per la sua strada, si comprende che costoro aspettano l’occasione buona per abbandonare i lavoratori al loro destino, ma senza scoprirsi troppo. Anche i politici sostenitori dell’esecutivo Monti invocano la “manutenzione” dell’articolo antilicenziamenti ammessa dai sindacati gialli, infatti, Bersani in persona ha dichiarato che «se c’è da fare manutenzione all’articolo 18, facciamola». Nonostante gli stragisti sociali e i loro complici abbiano già praticamente vinto, e la realizzazione della “riforma” del mercato del lavoro è solo questione di tempo, l’attacco propagandistico ai lavoratori, ai subalterni, ai poveri, combina la criminalizzazione preventiva delle vittime, che diventano tutte fannulloni, assenteisti e ladri, con la riprovazione davanti all’invidia sociale, perché ribellarsi davanti ai privilegi ingiusti, denunciare gli squilibri sociali, rifiutare il dominio incontrastato di sfruttatori (impresari, imprenditori decotti e disposti a tutto), parassiti (politici, sindacalisti gialli) e delinquenti (criminalità organizzata, agenzie di rating, “istituzioni” finanziarie e investitori), significherebbe invidiare gli altri, le loro fortune, il loro successo, ed assumere, quindi, comportamenti riprovevoli, moralmente censurabili, tipici di chi non ha autostima e capacità proprie. Lʹopposto dellʹinvidia in tal caso non sarebbe tanto una benefica autostima, quanto la mitica coesione sociale, evocata dai valletti della classe globale che temono moti popolari destabilizzanti, e che nel concreto significherebbe, per le vittime, accettare 320 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 con rassegnazione il massacro in arrivo, senza reagire o permettersi di far sentire la loro voce. Il gioco è chiaro, perché non basta definire i lavoratori dipendenti, privati e pubblici, fannulloni, assenteisti e ladri, ma per colpevolizzarli oltre ogni limite, predisponendo il loro massacro, se osano rivendicare diritti come in passato e un trattamento non disumano, devono essere fatti passare per meschini che invidiano i “meritevoli” e i più fortunati. Marcegaglia, Monti, Fornero, Marchionne sono sulla stessa linea, ed i Bonanni e le Camusso, che alla fine saranno disposti a qualsiasi compromesso per “riformare” il mercato del lavoro, rendendolo mercato degli schiavi, i Bersani, i Brunetta e i Sacconi, che alla fine appoggeranno in parlamento la “riforma”, in compagnia di una miriade di intellettuali‐servi e di giornalisti‐pennivendoli seguono a ruota. 321 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Monti, le imposte e l’iniquità sociale Articolo del 01/03/2012 Ed ecco che il gioco di Monti e del suo esecutivo, al servizio della classe dominate globale, diventa chiarissimo anche sul piano della fiscalità. In qualità di ministro dell’economia, oltre che di capo di un governo imposto all’Italia dai potentati finanziari, nell’Atto di indirizzo sulla politica fiscale per il triennio 2012‐2014, Mario Monti manifesta pubblicamente l’intenzione di spostare gradualmente il peso dalle imposte dirette, sul reddito (IRPEF, IRES, IRAP) ed anche sul patrimonio (ICI), a quelle indirette che colpiscono i consumi (IVA, accise ed altre). [http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2012/02/28/visualizza_new.htm l_105297999.html] Perché lo vuole fare e quali sono i veri scopi di questa manovra? Cerchiamo di capirlo, attraverso una breve ma non inutile analisi. Sappiamo bene che le imposte indirette, ed in particolare quelle che colpiscono i consumi di massa, sono ʺregressiveʺ, cioè punitive per i bassi livelli di reddito e ʺpremiantiʺ per i redditi più alti, in particolare se la loro manovra in aumento sostituisce progressivamente quella sulle aliquote delle imposte dirette sui redditi personali e delle società. Lʹimposizione cosiddetta regressiva è quella che meglio realizza lʹiniquità sociale, e ciò può avvenire seguendo due strade: 1) Stabilendo per le imposte dirette, che colpiscono i redditi personali, aliquote decrescenti per scaglioni di reddito crescenti. Ma in tal caso il gioco sarebbe scoperto, e lʹiniquità sociale quanto mai palese. La giustificazione di un simile obbrobrio fiscale potrebbe essere: ʺPremiare chi produce un maggior reddito, e stimolare chi ha redditi bassi a produrre redditi più altiʺ, giustificazione che è falsa, oltre che ipocrita. Questa soluzione, nonostante Monti non abbia necessità di consenso popolare e i suoi padroni hanno preventivamente comprato interi gruppi parlamentari e numerosi capi sindacali, è però irrealistica, non applicabile, perché è troppo “scoperta”, e potrebbe suscitare forti reazioni nel paese. Una via più nascosta per colpire i subalterni e incrementare il tasso di iniquità sociale potrebbe essere quella di ridurre il numero di scaglioni e aliquote, relativi alle imposte sui redditi. Ad esempio, per quanto riguarda l’IRPEF vigente in Italia, dagli attuali cinque a soli tre, o peggio, da cinque a due, che è quello che da sempre avrebbe voluto fare l’estromesso Silvio Berlusconi. 2) Agendo sullʹimposizione indiretta che grava sui consumi ed aumentando indiscriminatamente le aliquote, che per quanto riguarda lʹIVA sono tre: 4%, 10% e 322 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 21%. Eʹ chiaro che lʹincidenza dellʹaumento, e quindi del peso fiscale sopportato, cresce con il ridursi del reddito disponibile, ed è proprio in ciò che risiede la regressività dell’imposta. Storicamente, durante il seicento francese e il regno di Luigi XIV, il sovrintendente alle finanze del re, il celebre mercantilista Jean‐Baptiste Colbert, cercò di colpire lʹaristocrazia e recuperare risorse per lo stato ristrutturando il rudimentale sistema d’imposizione fiscale di allora, e cercando di aumentare lʹimposizione indiretta sui consumi. In quel mondo protocapitalistico, tardo aristocratico e proto borghese, si verificava una situazione opposta rispetto a quella attuale: i consumi erano privilegio della classe dominante, spesso si trattava di consumi di prestigio (arazzi di Gobelines, sete di Lione, lussuosi candelabri d’argento ed ammennicoli vari), e non erano perciò accessibili alla massa, al vecchio popolo di estrazione medioevale. Quella che ai tempi di Colbert era una politica fiscale tutto sommato ʺprogressivaʺ, che colpiva i ricchi difesi dai privilegi (lʹaristocrazia, imbellettata e parassitaria, trasferitasi simbolicamente nella nuova reggia di Versailles, fra i piaceri dell’isola incantata), oggi diventa ʺregressivaʺ, al punto che penalizza i bassi livelli di reddito nel segno più manifesto dellʹiniquità sociale. Una strada, se combinata con una leggera discesa delle aliquote delle imposte dirette (sui redditi personali e dʹimpresa) per tutti gli scaglioni di reddito, che consente di mantenere o aumentare la pressione fiscale, in modo subdolo e (appunto) indiretto, sulle classi subalterne e sui bassi scaglioni, ʺdefiscalizzandoʺ, di fatto, i più ricchi. Eʹ la seconda la strada che seguirà il governo fantoccio di Monti, il quale intende spostare progressivamente il peso fiscale dallʹimposizione diretta a quella indiretta, in primo luogo gravante sui consumi di massa. Del resto, Monti ha già mostrato la direzione di marcia che intende seguire il suo esecutivo mantenendo l’aumento di un punto percentuale della massima aliquota IVA, entrato in vigore il 17 settembre 2011, ed elevando le accise sui prodotti energetici (in breve, sui carburanti) con il decreto detto ironicamente Salva‐Italia, accise che guarda caso sono imposte indirette quanto l’IVA e sulle quali incide la stessa Imposta sul Valore Aggiunto. Ecco cosa nasconde il famigerato «Atto di indirizzo per il conseguimento degli obiettivi di politica fiscale per gli anni 2012‐2014» pubblicato alla fine di febbraio sul sito del ministero dellʹEconomia e delle Finanze. Un’ultima considerazione: se l’aumento dell’imposizione fiscale sui consumi avrà, com’è ragionevole aspettarsi, un effetto depressivo sugli stessi, e quindi un riflesso negativo su produzione e occupazione, in che modo ciò potrà conciliarsi con il progetto Cresci‐Italia (la Crescita neocapitalistica “salvifica”) tanto sbandierato propagandisticamente da Monti e dalle grancasse mediatico‐politiche che lo sostengono? 323 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ritorno al passato: Modern Money Theory e l’ombra di Keynes Saggio del 05/03/2012 I difetti più evidenti della Società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. (J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta) Quando discutiamo di MMT, e perciò di un improbabile ritorno al Keynes della Teoria generale e del Trattato sulla moneta, non stiamo parlando di movimenti popolari nati dal disagio economico e psicologico di massa, di nuove jaquerie che esplodono nei periodi di crisi, di proteste contro questo capitalismo come quelle degli Indignados (Europa) e di Occupy Wall Street (Stati Uniti), che peraltro sembrano essersi già esaurite senza aver sortito effetto alcuno. La MMT parte dagli USA con il figlio del noto economista John Kenneth Galbraith, James, con Stephanie Kelton ed altri, ed anche dall’Australia con l’economista Bill Mitchell, alimentata da personalità del calibro di Randall Wray, e i suoi sostenitori non sono esattamente una massa numerosa e indistinta di “utili idioti”, come lo sono invece gli Indignados e gli Occupy W.S., espressione di una protesta vaga, priva di obbiettivi precisi, politicamente corretta ed inefficace, e perciò destinata a languire, prima di estinguersi senza conseguire alcun risultato, su un binario morto. Questa volta si tratta di economisti, di “animali accademici” concentrati soprattutto, ma non solo, nel dipartimento di economia dell’Università del Missouri, in quel di Kansas City, e quindi interni al sistema neocapitalistico vigente, quota parte, per quanto minoritaria e indisciplinata, dei suoi “apparati ideologici”. Alcuni fra questi vantano qualche influenza sulla politica e qualche contatto con l’amministrazione americana. Le grandi questioni che indubbiamente solleva la MMT, o teoria della moneta moderna, si legano al delicato rapporto che esiste fra stato e moneta, al potere conferito ai governi di suscitare la crescita capitalistica e l’occupazione, attraverso l’espansione della spesa pubblica e i deficit dei bilanci statali, evitando fenomeni devastanti come quello dell’iperinflazione. La Modern Money Theory è una reazione alle dinamiche del Nuovo Capitalismo finanziarizzato del terzo millennio, che non generano in occidente sviluppo produttivo e nuova occupazione. Non si tratta, in tal caso, di una generica protesta contro le banche e la grande finanza, di una rivolta cieca contro la finanziarizzazione dell’economia, come quella degli indignati che occupano edifici e parchi, né di semplici rivendicazioni salariali di lavoratori che subiscono riduzione dei redditi e perdita di diritti, ma di un 324 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 piccolo “attacco” al sistema neocapitalistico partito proprio dall’interno del sistema, del dissenso manifesto di una minoranza, sviluppatosi fra quelli che dovrebbero essere gli “officianti” del rito neocapitalistico, i nuovi sacerdoti, cioè gli economisti. La querelle storica fra keynesiani/ neokeynesiani e monetaristi si è protratta per una parte significativa del novecento, ha inciso sulle trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno investito tutto l’occidente, e influenzato il mondo intero, ed alla fine si è risolta a favore dei monetaristi, con la vittoria della teoria quantitativa della moneta di Milton Friedman, gettando le basi per il passaggio dal capitalismo del secondo millennio ad un nuovo modo storico di produzione: il Nuovo Capitalismo finanziarizzato, sotto la cui ferrea egida oggi stiamo vivendo. Proclamare la neutralità dell’offerta di moneta rispetto alla crescita della cosiddetta economia reale (produzione, occupazione) e presupporre un tasso “naturale” di disoccupazione al di sotto del quel non si può andare, come hanno Friedman e i monetaristi, significa minare alla base le teorie di Keynes e dei neokeynesiani, sconfessarle e procedere in direzione opposta, quanto a politiche economiche, moneta, spesa pubblica, occupazione, ed è proprio questa visione che ha vinto, a cavallo fra gli anni settanta e i primi ottanta, spalancando le porte al neoliberismo. Negli anni ottanta e novanta del novecento, in particolare, è iniziato lo storico passaggio, equivalente ad un “cambio di Evo” e non ad un semplice cambio di fase capitalistica, fra il capitalismo dello scorso millennio e quello del ventunesimo secolo, una vera svolta dalle implicazioni e dagli sviluppi non ancora del tutto chiari, caratterizzata dall’inizio di grandi trasformazioni culturali e antropologiche, economiche e sociali, ed anche geopolitiche. Si è passati da una concezione della spesa pubblica, e dei deficit governativi, quale “principio attivo” del celebrato Sviluppo economico, a restrizioni penalizzanti per la crescita della produzione e dei consumi della spesa stessa, così come questo processo alla lunga ha portato ad espropriare stati e governi, in particolare nell’Europa dell’Unione, dell’indispensabile sovranità monetaria che sola può garantire lo Sviluppo capitalisticamente inteso. Quella degli economisti MMT, che rievocano lo spirito “buono” di Keynes per esorcizzare i peggiori animal spirits di questo capitalismo, rappresenta una reazione di una qualche importanza al presente stato di cose, proprio perché sta avvenendo negli “organi interni” del Nuovo Capitalismo, ed è espressa da alcuni fra coloro che dovrebbero assumere le funzioni di “ideologi” del sistema, gli economisti accademici, i quali hanno il compito partecipare all’elaborazione di un elemento strutturale di grande importanza: l’ideologia di legittimazione. La demonizzazione e l’uso strumentale del deficit e del debito pubblico, da comprimere assolutamente senza curarsi degli effetti sociali e di quelli sullo stesso sviluppo degli apparati produttivi nazionali, sono il Leitmotiv che ci ha accompagnato in questi anni, e che allieta esclusivamente ai detentori del potere 325 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 effettivo e di quello finanziario, ma gli economisti MMT sembrano andare in direzione opposta, perché solo l’elevarsi della spesa pubblica e del deficit possono favorire la Crescita capitalistica, gli aumenti dei redditi, dei consumi, della produzione e dell’occupazione, fino alla posizione estrema che tollera un deficit illimitato. E’ chiaro che uno stato che si permette di accettare un deficit elevato per promuovere lo Sviluppo capitalisticamente inteso, deve avere una piena sovranità politica e monetaria, e non può essere sottomesso a potentati esterni ed organismi sopranazionali, che esprimono interessi privati in aperto contrasto con quelli collettivi, com’è il caso dell’Italia di oggi, sottomessa dai grandi Rentier finanziari e dall’Europa dell’Unione che opera per loro conto. La Modern Money Theory, se lo scrivente ha ben compreso i suoi fondamenti, non può tollerare, per la sua stessa essenza, l’esistenza di una moneta sopranazionale e “privata” come l’euro, sulla quale stati e governi non hanno un pieno controllo. Emettere moneta è prerogativa dello stato, ma sappiamo bene che accanto alla moneta avente corso legale esiste la grande massa di moneta secondaria, bancaria e contabile, superiore a quella della moneta legale in circolazione, ed è proprio per questo che uno stato sovrano dovrebbe poter controllare l’intero sistema bancario nazionale, e non esserne succube. La fiscalità è anche una prerogativa di stati e governi, non assoggettabile a patti‐ capestro, imposti dall’esterno, come il fiscal compact europeo che è in cantiere, e la sua funzione potrebbe essere intesa come regolatrice, per impedire, manovrando la leva fiscale, il “surriscaldamento” del sistema economico, gli eccessi di domanda e le situazioni patologiche che sfociano nell’iperinflazione. Il punto nodale del deficit/ debito pubblico è affrontato dagli economisti MMT da bravi keynesiani/ postkeynesiani (che apprezzano Minsky), perché se il mostro è l’inflazione che degenera in iperinflazione (ricordiamoci che qualche decennio fa proprio la diabolica combinazione inflazione‐stagnazione, detta stagflazione, ha prodotto la sconfitta delle teorie e delle politiche keynesiane/ neokeynesiane), questo mostro potrà materializzarsi soltanto in situazioni di raggiunto pieno impiego del lavoro e di tutte le risorse, che allo stato attuale delle cose, se si pensa al dilagare della disoccupazione e della sotto‐occupazione in parte significativa dell’occidente, non sembrano francamente possibili. Con la MMT si torna al passato, al tormentato periodo che ha fatto seguito al crollo del ’29, ma soprattutto ai trenta gloriosi anni, dal ’45 al ’75, in cui non solo l’investimento pubblico accanto a quello privato, ma la domanda e i consumi di massa erano in piena esaltazione. La nuova teoria monetaria spera di riesumare il “capitalismo dal volto umano” che effettivamente ha fatto capolino in buona parte dell’occidente, fra luci ed ombre nel trentennio ricordato, stimolando una certa emancipazione sociale (l’affermarsi dei 326 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 ceti medi figli del welfare) e un diffuso intervento pubblico nell’economia, provocando la nascita del consumismo ed infine, ma non in ultimo per la sua importanza, suscitando in modo drammatico la questione ecologica. Sul versante squisitamente monetario, è chiaro che se è vera ed è applicabile la MMT la banca centrale/ istituto di emissione non può permettersi “remare contro”il governo in nome di interessi privati, o addirittura essere diminuita nelle sue competenze perché trasferite altrove, come nel caso della Banca d’Italia in rapporto alla BCE, e certe limitazioni di natura politica, come i limiti posti all’acquisto dei titoli del debito pubblico, o l’impossibilità di acquistarli direttamente, non ci dovrebbero più essere. E’ altrettanto chiaro che la MMT, se recepita dai governi ed effettivamente applicata, qui in Italia imporrebbe, per diventare operativa e produrre effetti espansivi, l’abbandono immediato dell’euro e l’appropriazione della sovranità politica e monetaria, il che, allo stato attuale delle cose, è impossibile anche soltanto immaginarlo. Infine, il famigerato pareggio di bilancio è visto negativamente dai sostenitori della moderna teoria monetaria, che attribuiscono al deficit una funzione propulsiva delle produzioni, dei consumi e dell’occupazione soprattutto in periodi di crisi, ed il surplus costituirebbe un dato ancor più negativo del pareggio, poiché significherebbe soltanto un aumento della pressione fiscale e minori risorse a disposizione di famiglie ed imprese. Seguendo questa via, si sconfessano le politiche comunitarie europee, imposte agli stati ed incentrate sulla riduzione di anno in anno dei deficit e del debito pubblico anche in periodi di crisi, perché non porteranno alcun beneficio in termini di produzione, consumo ed occupazione. Alla fine di febbraio sono sbarcati in Italia, in quel di Rimini, cinque economisti “ribelli” sostenitori della teoria della moneta moderna, per un primo seminario in uno dei paesi che più soffrono a causa delle politiche neoliberiste e nuovo‐ capitalistiche. A questo seminario l’eclettico (e perchè no? Coraggioso) Paolo Barnard ha attribuito una funzione, da quel che si comprende leggendo i suoi articoli, post e scritti, propriamente rivoluzionaria, perché si tratterebbe di generare una nuova coscienza politica e sociale, di suscitare un nuovo antagonismo insegnando l’economia al popolo, dato che sarebbe proprio l’economia (in tal caso, la macroeconomia) l’unico grimaldello utile per scardinare i meccanismi riproduttivi del sistema vigente. Sicuramente figure come quelle dei cinque di Rimini (Hudson, Kelton, Parguez, Black, Auerback) possono essere un po’ fastidiose per il potere imperante, tenuto conto che si tratta di professori di economia che dovrebbero far parte dell’apparato, sostenendo il sistema e non certo “remandogli contro”, ma chi scrive non crede 327 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 nella possibilità di una clamorosa affermazione della MMT, e cioè nel ritorno al passato resuscitando lo spirito di Keynes, e soprattutto non crede nella possibilità di una sorta di rivoluzione incruenta, dai lineamenti marcatamente riformisti in senso capitalistico, incentrata esclusivamente sugli aspetti economici, che può compiersi attraverso l’adozione da parte dei governi occidentali, legati mani e piedi al sistema vigente e immersi nei suoi giochi di potere, di politiche economiche d’alternativa capitalistica. Quanto precede, più in dettaglio per i seguenti motivi: 1) Per applicare la MMT dovrebbe esistere una politica indipendente dagli interessi della classe dominante globale, mentre invece il livello politico è interamente sottomesso a tali interessi e non ha né la volontà né il coraggio necessari per adottare politiche alternative, postkeynesiane o di altra origine capitalistica, tali da scardinare l’ordine neocostituito mettendo così in discussione il suo stesso ruolo subdominante e i suoi privilegi. L’alternativa potrà materializzarsi solo con il rovesciamento dell’attuale livello politico ed il superamento del sistema di governo liberaldemocratico che lo ha generato. 2) Restringere la visione alternativa ai soli aspetti economici, pur importanti, è riduttivo e ci fa cadere nella trappola dell’economicismo, cioè in una visione parziale del sistema e dei suoi meccanismi di funzionamento, degli stessi elementi strutturali che lo reggono, che non consente di cogliere gli altri punti di forza sui quali può contare per riprodursi. Ad esempio, si rischia di non vedere la grande operazione antropologico‐culturale in corso per la creazione dell’uomo precario, un essere umano diminuito, inoffensivo per il potere e adatto a vivere nei contesti neocapitalistici, che è fondamentale per imporre le controriforme in corso alle popolazioni dei paesi cosiddetti sviluppati, senza che queste si rivoltino in massa. L’economia, in sintesi, non è la sola fonte del potere della Global class. 3) Le minoranze “eretiche”, in particolare quando si formano all’interno del sistema e dei suoi apparati ideologici (come nel caso dei cinque economisti che erano con Barnard a Rimini), possono essere isolate, screditate o silenziate con estrema facilità (ed infatti, come ammette lo stesso Paolo Barnard, che potrà essere un predicatore pazzo, ma è sicuramente un coraggioso che non difetta di capacità di analisi, gli stessi giornali locali si sono ben guardati dal parlare della cosa), o neutralizzate in modo ancor più subdolo, ma efficace, offrendo loro onori accademici, fama, potere, o ancora, più prosaicamente, robusti cachet, soldi a profusione, lucrose “consulenze”. 4) Queste politiche economiche potrebbero non essere più concretamente applicabili con esiti positivi e salvifici, e sicuramente non lo sono se le adotta un solo stato, o un piccolo gruppo di stati, perché i nuovi dominanti globali hanno avuto estrema attenzione nel “fare la frittata per impedire di tornare alle uova”, ed è evidente che grazie alla globalizzazione economica, alla delocalizzazione 328 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 industriale e alla libertà di movimento concessa ai capitali, le economie dei vecchi stati sono diventate forzatamente interdipendenti, nonché soggette a trattati internazionali capestro (quello costitutivo del WTO, Maastricht per l’Unione Europea, eccetera) e ad organismi internazionali che le controllano e le “imbrigliano” a piacimento. Un’adozione in chiave autarchica della MMT, con ritorno al passato, ai trenta gloriosi, a Keynes, implicherebbe l’isolamento del paese, e dall’esterno i globalisti dominanti cercherebbero, con potenti mezzi (non esistono solo la speculazione finanziaria, l’embargo, i ricatti energetici, ma è attiva anche la NATO) di impedire che la cosa abbia successo. Inoltre, si dovrà comunque fare i conti con i cosiddetti emergenti, e soprattutto con la Cina, che è una mostruosa creatura della globalizzazione nella sua prima fase neoliberista. Concorrenza sleale, lavoro schiavo, bassi costi, indifferenza alla questione ambientale, sistema produttivo orientato all’esportazione di prodotti scadenti, ferreo controllo delle risorse e della società, sono altrettanti punti di forza di questa creatura mostruosa, che deve la sua ascesa alla globalizzazione economica, alla libertà di circolazione dei capitali, alle delocalizzazioni di lavoro e know‐how, e che quindi non accetterà, in occidente, cambiamenti tali da compromettere il suo Sviluppo, ma difenderà con le unghie e con i denti l’attuale stato di cose. Moneta e deficit sono due armi saldamente nelle mani della Global class che le utilizza per estrarre risorse e consolidare il suo dominio, ed è perciò improbabile che chi detiene il potere, manovrando queste leve, sia disposto a rinunciarvi e a permettere ai governi suoi tributari l’adozione di politiche keynesiane, neokeynesiane o postkeynesiane che sia. Il ritorno “armi e bagagli” al passato e alle teorie keynesiane, perché è sostanzialmente questo che propongono gli economisti sostenitori della Modern Money Theory, se mai avverrà non potrà seguire una via pacifica e consensuale, poiché si tratta pur sempre di una riforma che intende riproporre certe dinamiche del precedente modo storico di produzione, il capitalismo del secondo millennio, e questo i cosiddetti Mercati & Investitori non potranno mai accettarlo. Si può evocare, in chiusura, lo spirito del baronetto inglese John Maynard Keynes, il quale sovrasta come un’ombra la MMT, e fare un’ultima considerazione, di ordine generale, che evidenzia la relativa pericolosità di questa teoria “eretica” per le dinamiche neocapitalistiche e la riproducibilità sistemica allargata. A tale scopo, si riporta di seguito un passo del saggio dello scrivente L’insostenibile leggerezza del capitalismo, tratto dal capitolo dedicato a John Maynard Keynes e la Riforma Capitalistica: La disciplina economica non sarà mai in grado di fissare leggi universali, valide in ogni tempo e in ogni luogo, e a differenza di ciò che accade in matematica, in economia invertendo l’ordine dei fattori il risultato della somma è destinato a cambiare. 329 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Infatti, se pensiamo al significato economico, sociale e politico della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, non è casuale che l’autore, a partire dallo stesso titolo dell’opera, abbia messo al primo posto l’occupazione, seguita dall’interesse di natura finanziaria e dall’aspetto monetario, poiché se si inverte l’ordine dei fattori, mettendo ai primi posti interesse e moneta e all’ultimo posto l’occupazione, il risultato della somma cambia completamente e si realizza lo spostamento dal capitalismo moderatamente emancipativo della seconda metà del Novecento – caratterizzato dal patto fra Stato e Mercato, dalla spesa pubblica in espansione, dal welfare, dalla tensione verso il pieno impiego e da una minor ingiustizia distributiva – al capitalismo anarco‐liberista che subordina lo Stato al Mercato, appropriando risorse pubbliche, amplificando le differenze sociali e calpestando i diritti dei lavoratori. Gli economisti che diffondono la moderna teoria monetaria intendono rimettere nell’ordine originario, così com’era nella Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, i tre fattori, ma ciò non potrà che comportare, oltre che un improbabile ritorno ad un passato capitalistico ormai sepolto, un’interruzione delle dinamiche neocapitalistiche e la compromissione della riproducibilità sistemica, cosa che l’attuale classe dominante, la Global class spadroneggiante in un mondo globalizzato e assoggettato, non permetterà mai. Ciò che ci attende in futuro non sarà, dunque, il ritorno pacifico e consensuale a politiche economiche più umane, orientate verso una crescita capitalistica socialmente più “equilibrata, e ad un’economia non più dominata dalla dimensione finanziaria, ma riportata sotto il controllo della politica e degli stati. In futuro ci attende una Guerra Sociale di Liberazione più dura ed estesa della lotta classe otto‐novecentesca, che avrà come possibile alternativa la guerra tout court. 330 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’”esperimento” greco ha avuto un certo successo Articolo del 09/03/2012 Il grande swap sul debito della Grecia ha avuto adesione elevate, persino impreviste, se non erro pari al 95,7%. Il meccanismo neocapitalistico continua a funzionare, e piuttosto bene dal punto di vista dei vincitori e padroni, ma nonostante le elevate adesioni, quelle propriamente volontarie sono rimaste al di sotto della soglia minima imposta del 90%. Perciò, in questo mare di regole‐ capestro imposte dalla Grande Finanza agli stati tributari, saranno Bruxelles con l’Eurofin e un ennesimo organismo sopranazionale in mani globaliste, l’ISDA (Intenational Swaps e Derivatives Association) che controlla lo strategico mercato dei prodotti derivati, a decidere rispettivamente se accettare la richiesta greca di attivare le clausole di azione collettiva e dargli ancora “aiuti”, e se, violata la volontarietà sul mercato dei derivati da parte della Grecia (adesioni volontarie inferiori alla percentuale imposta), è il caso di far scattare la tagliola dei CDS (di protezione e nel contempo speculativi) e provocare così il default dello stato messo alle strette. In tal caso si tratterà di un default controllato, in modo che le architetture finanziarie e di potere internazionali non ne risentano. Questa è la prova che l’operazione della Global class è riuscita, o che comunque sta per riuscire, che la “cavia” dell’esperimento, cioè la Grecia non è riuscita a sottrarsi al destino che altri hanno deciso per lei, e che l’esperimento potrà essere replicato, se ve ne sarà l’occasione. I meccanismi della riproduzione allargata neocapitalistica funzionano bene, perché non c’è alcuna forza, alcun evento, se non imprevisto e catastrofico, in grado di interromperli. La Creazione del Valore azionario, finanziario e borsistica accelera ancora, con l’uso dei derivati, ogni operazione di questo tipo ha la duplice valenza di sottomettere stati e popoli ai voleri dei globalisti e nello stesso tempo creare nuovo valore, ed infine, le strutture messe in piedi dalla classe globale dominante (UE, UEM, BCE in Europa) sono in grado di reggere agli urti. Non vi è attualmente alcuna forza ostile, stati ribelli, movimenti popolari agguerriti, organizzazioni armate clandestine, eccetera, in grado di metterne in discussione potere e tenuta. Indipendentemente dalle decisioni dell’Eurofin di Bruxelles in conference call, attese a stretto giro di posta per le ore 2 p.m. di oggi, 9 marzo 2012, e da quelle dell’ISDA, che riguardano il giudizio sulla ristrutturazione volontaria del debito e l’eventuale default da far scattare, possiamo affermare, dal punto di vista della classe globale dominante, che l’operazione greca, anzi, l’”esperimento” greco ha avuto un certo successo, e sarà replicabile in futuro per soggiogare altri paesi, magari apportandovi qualche necessaria modifica. A questo punto possiamo chiederci: come andrà l’”esperimento” italiano? 331 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La funzione degli scandali, delle inchieste giudiziarie e i sub‐dominanti politici nazionali Saggio del 18/03/2012 Breve premessa Dopo Lusi, la Margherita e Rutelli, dopo Belsito, la famiglia Bossi e la Lega sembra essere arrivata l’ora di Nicola Vendola. Perché questa rapida sequenza di inchieste della magistratura inquirente, in ogni angolo d’Italia, da Milano a Reggio Calabria e la conseguente, immancabile campagna mediatica contro la politica corrotta? A chi giova tutto ciò, chi ne beneficia veramente, cui prodest, come si sarebbero chiesti i romani? Il presente scritto cerca di dare una risposta non conformista, non superficialmente moralistica, non fuorviante alla Stella e Rizzo della scandalistica ed autocratica Casta, alle domande che molti oggi si pongono, o dovrebbero porsi. Aristocrazia globale e sub‐dominanti politici nazionali: anello forte e anello debole della catena di comando globalista La descrizione offertaci a suo tempo da Christopher Lasch nell’opera La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia (1995), il quale dal suo osservatorio privilegiato, negli Stati Uniti d’America, ha potuto osservare e analizzare l’inquietante fenomeno della nascita della nuova classe globale, del suo sistema di potere e il conseguente tradimento della democrazia, è un insuperato punto di partenza per poter comprendere i “caratteri costitutivi” della nuova classe globale dominante, oggi in parte comuni all’Aristocrazia globalista e ai sub‐dominanti politici nazionali che da questa dipendono. Nella ribellione delle élite Lasch ci avverte che tali individui non sentono alcuna responsabilità nei confronti degli altri, in particolare se non sono loro simili, appartenenti alla stessa classe, e precisamente scrive: Le classi privilegiate […] si sono rese indipendenti in misura allarmante non solo dalle città industriali fatiscenti, ma dai servizi sociali in generale. Mandano i loro figli in scuole private, si assicurano contro malattie e incidenti sottoscrivendo i piani previdenziali delle società per cui lavorano, e assumono delle guardie del corpo private per difendersi dalla violenza che li attornia. In effetti, si sono estraniate totalmente dalla vita comune. […] Molti di loro non si considerano neanche più americani in alcun senso importante, non si sentono coinvolti, per il bene e per il male, nel destino dell’America. Ciò accade perché i neodominanti, fin dalla culla, non sviluppano legami di sorta con la comunità di origine, con la nazione, con il resto dell’umanità, non si fanno carico di alcuna responsabilità sociale e soprattutto dei costi che tale responsabilità implicherebbe. 332 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 I suddetti sono indifferenti davanti al destino dei popoli, e la loro fedeltà, se di autentica fedeltà si può parlare, è riservata soltanto ad un ordine globale neocapitistico regolato dal mercato e caratterizzato dalla libertà di circolazione dei capitali finanziari. Il successo ed il potere personale, la performance, il narcisismo, l’assenza di etica come tradizionalmente si intende, l’assenza di idealità, il mantenimento e l’estensione di ingiusti privilegi li caratterizzano fino in fondo e ne determinano i comportamenti, le scelte, le imposizioni alla società che spesso causano sofferenza e disperazione a molti milioni di persone non appartenenti alla loro schiatta. Se accettiamo la quadripartizione del capitale proposta a suo tempo dal sociologo francese Pierre Bourdieu, che ha integrato le analisi di Karl Marx riguardanti la genesi e la produzione del capitale industriale/ produttivo – Capitale economico, Capitale culturale, Capitale sociale, Capitale simbolico – per quanto precede dobbiamo riconoscere che i dominanti globali controllano oggi tutti e quattro i tipi di capitale. Un nemico potente e spietato, insomma, con il quale la lotta non potrà che essere senza quartiere. Un nemico che non si riconosce più nella “vecchia” umanità e non riconosce i diritti naturali dell’uomo, un nemico che non ammette di avere debiti con il passato e con gli altri, un nemico che accomuna con il capitale produttivo quello umano e quello naturale/ambientale, mettendoli tutti sullo stesso piano e concependoli come serbatoi inesauribili di risorse a sua completa disposizione. Un nemico che ha nell’illimitatezza dei suoi desideri, suscitata dall’illimitatezza neocapitalistica, la sua principale forza e il suo più grande limite. Ciò che vale per l’Aristocrazia globale, per la Strategic Global class secondo una mia espressione “esotica”, può valere in una certa misura anche per i sub‐ dominanti, che tendono ad assumere comportamenti simili, conformi, omologati, con alcune sostanziali differenze, però, che rendono i sub‐dominanti più facilmente sconfiggibili dell’alta Aristocrazia, e quindi l’anello debole della catena di comando globalista: la maggior vulnerabilità, dovuta alla maggior esposizione, alla maggior ricattabilità e alla maggior vigliaccheria. La continua esposizione ai media alla quale non possono sottrarsi (a differenza dei membri dell’Aristocrazia globale, che godono di molta maggior riservatezza), la ricattabilità che li contraddistingue (per una generalizzata presenza di “scheletri nell’armadio” dovuta alle cariche che ricoprono e alle funzioni che svolgono), la viltà che spesso emerge dai loro comportamenti (esito scontato dell’assenza di ideali, dell’individualismo anomico, dell’incapacità di sacrificio) insieme ne determinano la generale vulnerabilità. Ma vi è anche un altro importante elemento che li rende ancor più vulnerabili, attaccabili e sconfiggibili, e di questo si discuterà fra poco. 333 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 In Italia, un sub‐dominante mancato, a nome Silvio Berlusconi, ha mostrato tutta la sua viltà e la sua pochezza quando l’Aristocrazia globalista gli ha intimato di farsi da parte per fare spazio al governo dell’affidabilissimo Monti. Nelle probabili trattative segrete per ottenere un “salvacondotto giudiziario”, l’allora presidente del consiglio deve aver abbassato completamente i pantaloni, volendo essere prosaici almeno per una volta, e in cambio della salvezza personale, e dell’integrità del suo patrimonio familiare, non ci avrà messo più di un secondo per risolversi ad offrire “spontaneamente”, come ulteriore contropartita, il “leale” appoggio dei gruppi parlamentari del PdL a Mario Monti. Lo scatto d’orgoglio che Berlusconi ha avuto dopo le risatine di Merkel e Sarközy davanti alle telecamere, dirette contro di lui, il suo esecutivo, ma soprattutto contro il popolo italiano e “propedeutiche” alla deposizione del cavaliere, è stato così cancellato in un istante, e Berlusconi, sub‐dominante mancato, considerato inaffidabile e addirittura “abusivo” dai membri della classe superiore, non solo è uscito di scena senza troppi clamori, anziché resistere e dare battaglia pur con forze (notevolmente) inferiori, ma è arrivato al punto di mettere “la golden share” sul governo Monti, dopo che i Mercati & Investitori, per esser ancor più convincenti e prevenire colpi di testa da parte sua, hanno attaccato il titolo Mediaset in borsa, facendolo crollare di oltre dieci punti. In quei decisivi frangenti Berlusconi ha dimostrato di essere esposto (se non sovraesposto, nel suo particolare caso), vulnerabile, ricattabile e vile, esattamente come possiamo aspettarci che sia la grande parte dei sub‐dominanti politici, e non soltanto politici. In altri termini, se questa sommaria antropomorfizzazione del nemico di classe e di civiltà è corretta, come io credo che sia, o lo è almeno a livello sub‐dominante, è chiaro che non soltanto l’estromesso Berlusconi, ma anche i ben più nocivi Napolitano, Monti, Fornero e lo stesso Marchionne, il quale non è come i primi un politico di professione o un tecnico‐politico, ma un top manager che purtroppo ha a che vedere con l’Italia, costituiscono il vero anello debole della catena di comando nemica, pur essendo gli stessi, nei ruoli e nell’esercizio delle funzioni a loro assegnati, utilissimi per assicurare la riproducibilità sistemica complessiva. Si badi bene: utilissimi ma non insostituibili. Con parole più semplici, a questi individui le sole cose che interessano sono l’integrità fisica, i loro privilegi, il danaro e il (sub‐)potere, anche se ciò non esclude residui di sentimenti umani, come l’attaccamento ai figli, ai genitori, alla famiglia, agli amici più cari – e perché no? – alle amanti o agli amanti. La funzione degli scandali mediatici e delle inchieste giudiziarie nei nuovi assetti del potere 334 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Nei passati scandali che hanno investito ripetutamente la politica italiana, in verità minori e squallidi, abbiamo notato o avremo dovuto notare che il prezzo per il quale questi individui si vendevano era tutto sommato modesto, non di rado a ribasso, e spesso, per giustificarsi una volta caduti in disgrazia e sottoposti alla gogna mediatica, in certi casi peggiore e più distruttiva di quella giudiziaria, tiravano in ballo la famiglia. Il celebre “mezzanino” romano con vista sul Colosseo dell’allora ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola, pagato da altri per sua ammissione e distrazione, se non erro è stato intestato alla figlia dello stesso, a testimonianza che la famiglia conta, e spesso giustifica una corruzione sempre più spicciola. Chi si ricorda il politico protoglobalista Francesco De Lorenzo, della cosiddetta prima repubblica, ex ministro liberale della sanità pubblica dal 1989 al 1993 finito in prigione con l’accusa di associazione per delinquere per finanziamento illecito al partito (più probabilmente a sé stesso e agli amici), che dichiarava, a sua discolpa, di avere una famiglia numerosa (e probabilmente vorace)? Ebbene, in quella diversa ambientazione politica e sociale il ministro De Lorenzo poteva considerarsi, a pieno titolo e a tutti gli effetti, un antemarcia e un precursore dei “tempi moderni”, sostanzialmente in linea, quanto a moventi e comportamenti, con quel che accade oggi. “Tempi moderni” neocapitalistici in cui l’ex tesoriere del cartello elettorale della Margherita confluito nel Pd, senatore della repubblica Luigi Lusi, accusato di essersi appropriato indebitamente ventitré milioni di euro per fini personali, dichiara pubblicamente e senza alcun pudore, al solo scopo di difendere sé stesso attaccando gli altri politici, che c’era fra questi un patto per spartirsi i fondi del partito (pro‐quota: 60% per i popolari e 40% per i rutelliani). Dei prestiti di Lusi, che costituiva società, comprava immobili e pescava regolarmente dalle casse del partito (“mettendo al sicuro” i beni dei rimborsi elettorali), hanno ampiamente beneficiato familiari e cari amici del suddetto, come ad esempio sua moglie che ha avuto tre milioni di euro su un conto a lei intestato, o come il fratello, sembrerebbe un paio di nipoti e due cari amici per importi a scalare. I berlusconiani con incarichi di governo Sandro Bondi (beni culturali) e Michela Vittoria Brambilla (turismo) sono stati implicati in quella che è stata opportunamente (ed anche capziosamente dai media) definita “Parentopoli”, cioè la corruzione nepotistica spicciola della politica minore, “sistemando” in buoni posti, non tanto e soltanto fratelli, mogli, figli riconosciuti e cugini, secondo il “costume” della generalità dei sub‐dominanti politici, ma il figlio della compagna del momento, come Bondi con Fabrizio Indaco, e il fidanzato o boy friend del momento, come nel caso della Brambilla con Eros Maggioni. 335 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’italica giustificazione di azioni delittuose o immorali riassunta dall’espressione “Tengo famiglia”, spesso allargata ed estesa alle dimensioni del clan, è diventata la giustificazione di molti fra questi “professionisti della politica”, una volta finiti nei guai mediatico‐giudiziari e smascherati, e nella serie ormai infinita di episodi che lo testimonia a tutti i livelli, dal nazionale alla sotto‐dimensione locale, trova conferma (una volta di più, se mai necessario) la totale inconsistenza della dicotomia politica destra/ sinistra. Il tumore della corruzione legato a quello della perdita di qualsiasi riferimento ideale ed etico, si è esteso da molto tempo anche ad altri gruppi che sono al servizio del potere globalista, come quello dei giornalisti, incaricato della disinformazione sistemica e dell’intontimento di massa. L’ottuagenario Emilio Fede direttore del TG4, ha ricevuto il benservito dall’azienda, nella “logica di rinnovamento editoriale della testata”, dopo quasi un quarto di secolo di disonorato servizio e dopo aver commesso l’ultima marachella cercando di esportare in Svizzera capitali per due milioni e mezzo di euro. Mentre sto scrivendo queste righe, la Lega di Umberto Bossi è ancora sotto i riflettori dell’inquisizione massmediatica e nelle grinfie di quella giudiziaria, per le inchieste di ben tre procure (Milano, Napoli e Reggio Calabria), alle quali se ne sono rapidamente aggiunte altre due (Genova e Bologna), tutte convergenti sul segretario amministrativo del partito, tale Francesco Belsito. Accanto a quello del tesoriere leghista Belsito, risoltosi nei giorni precedenti a restituire qualche lingotto d’oro, un po’ di gioielli e una lussuosa autovettura Audi A6, sono emersi i nomi di alti papaveri “padani”, di familiari di Bossi e di Umberto Bossi stesso, beneficiari della ricca “cassa” leghista rimpinguata dai rimborsi elettorali, dai contributi dei militanti “duri e puri” e dalla disponibilità di proprietà mobiliari e immobiliari. Sembra che a “Parentopoli”, quale ultimo grido della corruzione e del malcostume di partiti e politici utilizzati propagandisticamente – meglio Monti, imposto dalle circostanze “per il vostro bene”, del disastrato e inaffidabile sistema dei partiti! – si sia sostituita “Tesoropoli”, che ha come figura centrale/ cavallo di Troia utilizzato dall’autorità giudiziaria il tesoriere del partito e come oggetto la distribuzione dei fondi e degli averi, leciti e illeciti, in bianco o in nero, dell’associazione politica fra gli esponenti di spicco, i loro familiari e i clan di vertice. Dai rimborsi elettorali ai beni immobili dell’associazione, tutto è spartibile e i benefit sembra che siano case, bar, auto di lusso come le Porsche e lauree facili, a testimonianza della meschinità degli esponenti politici liberaldemocratici (perché tali sono anche quelli leghisti), fino a raggiungere il grottesco, se, come sembra, la famiglia Bossi godeva di una “cartella Family” ben documentata, una sorta di libretto di deposito a risparmio molto ben alimentato, in quella miserevole spartizione dei pani e dei pesci. 336 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Ultima frontiera della degenerazione della politica minore, che non decide su ciò che conta ed avalla pedissequa decisioni imposte dall’alto e dall’esterno, o che nello specifico caso “padano” finge teatralmente di opporsi ad esse, la “Tesoropoli” leghista è altresì una spia della diffusione del cosiddetto familismo amorale anche fra quelle forze del sistema che cercano di accreditarsi come popolari, “vicine alla gente”, di lotta oltre che di governo. Particolarmente disgustoso ed ignobile, nel caso della Lega, è il comportamento del cosiddetto “Cerchio magico”, composto di alti dirigenti politici che attorniavano e manipolavano Bossi, e degli stessi familiari del leader storico padano, che hanno approfittato della sua malattia, della sua sopraggiunta incapacità (dopo l’ictus), tanto che si potrebbe parlare nella fattispecie di circonvenzione d’incapace, reato previsto e represso dal vigente codice penale all’articolo 643. Invero, questa particolare vulnerabilità dei sub‐dominanti politici nella dimensione nazionale (ed in particolare nella disastrata Italia), che si traduce nella presenza di numerosi e controproducenti “scheletri nell’armadio”, può ritorcersi improvvisamente contro di loro, ed essere utilizzata dai livelli gerarchici superiori della catena di comando, quando i sub‐oligarchi diventano “scomodi” e si vogliono ridimensionare o eliminare dalla scena. Non può essere un caso che lo scandalo mediatico‐giudiziario della “Tesoropoli” leghista, mix di corruzione spicciola, familismo amorale e “tradimento degli ideali” originari, è scoppiato proprio ora, nonostante sono note da anni, in certi ambienti (fra i quali le stesse procure che indagano?), le irregolarità nella gestione della Lega. Lo scandalo che ha travolto Bossi, inferto un duro colpo alla Lega, ed imposto un congresso straordinario dopo la gestione del partito da parte di un triumvirato, è esploso in un momento estremamente critico, perché la controriforma del lavoro, per quanto a buon punto, deve ancora essere votata e passare in parlamento, e il partito bossiano conduce in parlamento un’opposizione dichiarata, sia pur blanda ed elettoralistica, nei confronti dell’esecutivo Monti. Restando sempre in Italia, che rappresenta la “nostra” dimensione nazionale e il quadro entro il quale dovranno muoversi una prima volta le future forze rivoluzionarie, mentre sono ancora in corso le inchieste giudiziarie sulla Lega bossiana e parte dei suoi vertici corrotti (pur trattandosi di corruzione spicciola), i riflettori massmediatici si sono rapidamente spostati su Vendola, presidente della regione Puglia e probabile leader di un nuovo partito “di sinistra” in parlamento, se e quando si consentiranno elezioni politiche. Vendola è coinvolto in un’inchiesta della magistratura inquirente esplosa poco dopo l’attacco alla Lega e la sua parziale demolizione, quanto a decapitazioni al vertice del partito e a consensi in crollo rilevati dai sondaggi, quali sostituti delle elezioni. 337 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Lo scandalo della sanità pubblica concentrato per ora in Puglia, ha portato al (prevedibile) coinvolgimento del presidente di quella regione, indagato per concorso in abuso d’atti d’ufficio in seguito alla nomina a primario di Paolo Sardelli, responsabile del reparto di chirurgia toracica nellʹospedale San Paolo di Bari. A tirare in ballo Vendola è stata Lady Asl, Lea Cosentino, ex direttore generale dellʹazienda sanitaria di Bari, coinvolta negli scandali che hanno travolto qualche tempo fa lʹimprenditore Giampaolo Tarantini, lʹex assessore Alberto Tedesco e i vertici della sanità pugliese. Una vendetta della Cosentino nei confronti di Vendola che l’ha licenziata per coinvolgimento nella “malasanità”, come lo stesso sembra affermare, materializzatasi al momento giusto dopo il colpo inferto a Bossi e alla Lega? Anche nel caso di Vendola, presidente‐fondatore di una nuova formazione politica della sinistra sistemica denominata SEL, Sinistra Ecologia Libertà, che aspira ad accomodarsi sulle screditate poltrone della camera e del senato per ragioni di rimborsi elettorali e di sub‐potere, la base dello scandalo è reale, ed è proprio questa la caratteristica delle azioni impostate dall’apparato giudiziario e diffuse da quello massmediatico, ad esclusivo vantaggio della stabilità (presente e futura) del governo di occupazione globalista di Monti. Eppure Nicola Vendola, l’esponente di maggior spicco in Italia del comunismo individualistico filoliberale postsovietico, sul governo socialmente genocida di Monti non ha trovato niente di meglio da dire che è “spiazzante per la sinistra”, solo “spiazzante”, non certo il nemico, il che non rappresenta neppure una critica, per quanto blanda. Senza entrare nel merito e nei dettagli dei singoli e numerosi scandali che stanno investendo la politica minore italiana in queste ultime settimane, rileviamo soltanto che i battage scandalistici mediatico‐giudiziari sono un’arma nelle mani dei globalisti dominanti, utilizzata per dare stabilità e garantire il radicamento del loro “governo tecnico” nel paese, poiché si permette che esplodano al momento giusto, come bombe cluster a scoppio ritardato, le inchieste della magistratura inquirente (da Milano a Reggio Calabria è tutto un fermento di atti giudiziari e avvisi di garanzia nei confronti dei politici) e nel contempo si utilizza al meglio il docile ed obbediente apparato ideologico‐massmediatico, per dare risonanza ai casi giudiziari, screditare capi politici un po’ “indisciplinati” o lanciargli un avvertimento, ed influenzare così gli immancabili “sondaggi d’opinione”, nel senso che se diminuisce un poco la popolarità di Monti, per i primi effetti avvertiti delle misure socialmente genocide che impone al paese, quella dei partiti “cola a picco” precipitando ai minimi storici. 338 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Del resto, la via giudiziaria‐mediatica è stata ampiamente battuta per ridimensionare Berlusconi, isolarlo ed alla fine, avendo ben preparato il terreno, per lanciargli l’ultimatum e costringerlo a dimettersi. Se il caso di Luigi Lusi, ex segretario amministrativo della Margherita, non ha avuto più di tante conseguenze perché il cartello elettorale della Margherita non esiste più da tempo, nel caso della Lega bossiana e di Vendola ci potranno essere effetti rilevanti ed importanti sviluppi nella politica nazionale minore, come segue: (a) la Lega travolta dagli scandali e condannata al calo dei consensi si affida a Maroni e a nuovi dirigenti che potranno, in parlamento, addirittura appoggiare il governo Monti in toto o per singoli provvedimenti; (b) nel caso di Vendola e del suo SEL, il suddetto e tutta la dirigenza della formazione politica che ha creato ricevono un avvertimento forte (quasi di stampo mafioso, anzi, senza il quasi), e sanno fin d’ora che se l’astuto capoccia sopravvivrà allo scandalo, com’è abbastanza probabile, quando e se arriveranno in parlamento ad occupare qualche poltrona, dovranno “rigare dritto”, a partire da Nicola Vendola, non permettendosi di dare fastidio al governo dell’occupatore ed inscenando, al più, un’opposizione interamente di facciata, totalmente fasulla e perciò del tutto inefficace. Alla luce di quanto precede, è chiaro che l’estrema vulnerabilità dei sub‐dominanti politici nazionali e locali, dovuta ai numerosi “scheletri nell’armadio” accumulati nell’esercizio delle loro funzioni, li espone a vendette e ad avvertimenti da parte dei fedelissimi dell’Aristocrazia globale e degli apparati nazionali di sub‐potere, ormai a loro completa disposizione. La presa dei globalisti su questo paese sembra essere talmente salda e incontrastata che questi possono permettersi, nel momento giudicato più opportuno, di colpire le deboli opposizioni parlamentari “ex post”, come nel caso della Lega presente alla camera ed in senato, o addirittura preventivamente, “ex ante”, come nel caso di Vendola patron del SEL non ancora in parlamento, lanciando a tale scopo, se serve, “avvertimenti di stampo mafioso” non cruenti, senza l’uso di manovalanza criminale armata, corpi di polizia “paralleli”, ordigni esplosivi o sventagliate di mitragliette. La base dell’attacco ai sub‐dominanti politici da far uscire di scena o da intimidire “affinché per il futuro si comportino bene” è sempre reale, e gli scandali, i reati penali contestati a tali soggetti hanno effettività e concretezza, non sono completamente inventati per screditarli correndo il rischio che emerga l’imbroglio, e ciò costituisce un indubbio punto di forza per la piena riuscita delle manovre filo‐ 339 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 globaliste in corso, quantomeno nella nostra periferica ed italica dimensione nazionale. Inoltre, se l’attivissima magistratura inquirente, partita con “la lancia in resta” contro Lusi, contro Belsito, Bossi e la Lega, e contro il Vendola “Rais” della Puglia, potrebbe essere agevolmente fermata per tempo, insabbiandone le inchieste, in tali casi si lascia correre liberamente, si lascia “sfogare”, esattamente come si fa in campagna con i cani, quando finalmente si sciolgono dal guinzaglio perché corrano liberi e felici ... Ripensando per un istante alla stagione di Mani pulite, atto conclusivo della cosiddetta prima repubblica ambiguo e non ancora del tutto chiarito, e ponendo in rapporto questa ultima con quella attuale, dopo un’iniziale sensazione di déjà vu che nasce dalle ovvie concordanze – magistratura inquirente lasciata libera di agire nei confronti di quasi tutti i partiti (a quel tempo tutti meno il PDS apostata del PCI), corruzione generalizzata della politica sistemica (all’epoca, la “dazione ambientale” di Di Pietro), affarismo diffuso e saccheggio libero – riflettendoci un po’ sopra, alle concordanze si sostituisce gradatamente la consapevolezza delle differenze, invero notevoli, perchè allora (a) lo stato nazionale era ancora parzialmente sovrano ed in grado di decidere con una certa autonomia su materie importanti (welfare, lavoro, politica industriale, deficit di bilancio), mentre oggi è interamente asservito a poteri esterni (particolarmente negli aspetti monetari, finanziari, economici), (b) la politica nazionale poteva condurre i giochi nei riguardi dell’imprenditoria locale ed impedire invasioni colonizzanti (e annichilenti) di grandi capitali stranieri, mentre oggi non è più in grado di farlo, (c) gli esecutivi dell’epoca sono stati comunque eletti in rappresentanza di blocchi sociali effettivi, mentre quello attuale, insediatosi dopo la “fuga” repentina e vergognosa di Berlusconi, è un governo imposto dall’esterno senza neppure la legittimazione di elezioni politiche manipolate e pilotate, e deve curare esclusivamente gli interessi, nella penisola, dell’Aristocrazia globale (in subordine tutto il resto). Tornando al presente, la combinazione degli strumenti utilizzati per “educare” i politici nazionali, rappresentati dalla magistratura, dalle procure che indagano, dai pubblici ministeri in cerca di fama e di affermazione personale, dall’intero apparato ideologico‐massmediatico ed accademico, dai sondaggisti e dai relativi istituti come sostituti dei seggi elettorali (“intenzioni di voto” in luogo del voto), consente ai globalisti di conseguire efficacemente gli obiettivi che si sono posti, (1) colpendo gli “indisciplinati” o lanciando loro pesanti avvertimenti, (2) modificando nel senso voluto gli assetti all’interno del sub‐potere politico nazionale, e ultimo nell’esposizione, ma non ultimo per la sua importanza, (3) diffondendo nella popolazione il disgusto nei confronti della politica corrotta onde “legittimare” il cosiddetto governo tecnico in carica (senza alternative credibili, in una tale situazione), per estendere artificialmente il “sostegno popolare”, debitamente 340 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 sbandierato nei sondaggi, alla nuova forma di governo dittatoriale indiretto della classe globale. In riferimento al precedente punto 3, prima di chiudere il discorso sulla vulnerabilità delle sub‐oligarchie negli spazi nazionali, in particolare di quelle politiche, individuate come “anello debole” della “catena di comando globalista”, è bene ricordare che la cosiddetta “sospensione della democrazia”, ossia la sospensione delle elezioni politiche e il loro rinvio a data da destinarsi, nasconde un vero e proprio stato di eccezione in cui è scivolata la liberaldemocrazia e la nascita di una nuova forma di governo dittatoriale/ direttoriale: la dittatura indiretta della classe globale che ha in pugno l’Italia (ed anche la Grecia, paese per questo motivo “gemello”). Nota conclusiva Il vile senza ideali spesso è corruttibile al massimo grado, e il suo ristretto orizzonte è costituito esclusivamente dall’interesse personale (o familiare, oppure clanico, tribale), ma l’aver fatto quello che ha fatto, cioè accettato favori e mazzette, o appartamenti in regalo, o acquistato locali pubblici con i fondi del partito, e l’aver tirato in ballo ipocritamente, come è accaduto in diversi casi, la famiglia quale “umana” giustificazione e motivo della sottrazione di risorse per scopi personali, non esclude che vi sia un vero attaccamento nei confronti dei familiari o di altri soggetti a lui e al suo privato riconducibili, un legame affettivo autentico e non soltanto formale, e ciò può costituire, in certe situazioni, un punto di debolezza fatale per il vile corruttibile, vulnerabile, esposto e ricattabile. Mentre il segretario amministrativo della DC di Arnaldo Forlani, tale Severino Citaristi protagonista di quello strano “viaggio al termine della notte” che è stata la fine della prima repubblica, oltre ad esser l’uomo più inquisito della storia d’Italia (74 avvisi di garanzia, se non erro, probabilmente di più del vituperato Berlusconi) era considerato da molti “un galantuomo”, perché amministrava in modo ineccepibile i fondi, bianchi o neri che fossero, del maggior partito di allora e non teneva nulla per sé, i sub‐dominanti politici odierni, spentasi ogni idealità e svuotati i partiti di reali contenuti politici, trasformati in compagnie teatral‐ parlamentari che inscenano truffaldinamente una recita scadente, in un quadro costituzionale sempre più incerto e sfocato si sono ridotti a predare risorse collettive (accontentandosi sempre più spesso delle sole briciole) esclusivamente per sé e per il “benessere” della propria famiglia, come dichiarano in molti casi se non possono negare e sottrarsi. Per chi è esposto, ricattabile e vile, la famiglia, gli affetti, i rapporti amicali e sentimentali rappresentano un ulteriore e forse fatale punto di grande debolezza, vulnerabilità ed attaccabilità. 341 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 E’ proprio su questo ultimo punto che si dovrà lavorare, ed è proprio quella che io ho definito, non senza un po’ di ironia, una residua debolezza umana dei sub‐ dominanti, più accentuata e controproducente di quanto lo è per l’Aristocrazia globale, che potrà favorire i rivoluzionari nelle loro future azioni di attacco mirato, tenendo conto che per disarticolare il tutto si dovranno concentrare le poche risorse a disposizione e colpire, all’inizio delle “ostilità”, nel punto di maggior debolezza della catena di comando e potere nemica, cercando di “sfondare le linee” per poi dilagare ed alzare, in un secondo tempo, il livello dello scontro estendendo il raggio d’azione delle forze rivoluzionarie oltre la dimensione nazionale (processo di unificazione delle lotte in aree geografiche vaste), ma qui rischiamo di entrare in un campo diverso, e come dovrebbe essere chiaro a tutti molto più delicato ed insidioso. Perciò, almeno per ora, qui mi fermo e più di questo non scrivo e divulgo. 342 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 L’obbiettivo di Monti e Napolitano è licenziare gli italiani Articolo del 21/03/2012 Ormai la cosa dovrebbe essere chiara anche ai più distratti: l’obbiettivo di Monti e Napolitano, reggitori per conto terzi del paese fra i quali c’è unità d’intenti e una complicità di fondo, è quello di fare degli italiani un popolo di disoccupati, sempre meno sostenuti dai vecchi ammortizzatori sociali, sempre meno difesi da leggi sul lavoro e da contratti di lavoro equilibrati. I due lo possono fare senza correre troppi rischi perché riportano soltanto ai loro capi, che risiedono altrove, a Bruxelles, Francoforte, Londra, New York, e non devono in alcun modo rendere conto al popolo italiano delle loro azioni. Chi si ricorda la lettera della BCE, inviata da Trichet e Draghi all’allora esecutivo Berlusconi e contenente le misure richieste all’Italia per “salvare l’euro”, per “ridiventare competitiva”, per incamminarsi sulla strada impervia ed accidentata della crescita neocapitalistica? La missiva, inizialmente “riservata” e datata 5 agosto 2011, è stata poi pubblicata, il 29 di settembre, dal Corsera, suscitando qualche clamore. Perché il Corsera ha potuto pubblicare una missiva riservata, che conteneva i desiderata della classe globale e imponeva un futuro di lacrime e sangue a tutta la penisola? Perché si stava già preparando il terreno per il dopo Berlusconi, per il governo fantoccio del grande capitale finanziario e per l’accelerazione della “ristrutturazione” del paese in senso ultraliberista. Importante rilevare che in quella letterina era riassunto il programma dell’attuale governo Monti – Napolitano, e il primo gruppo di misure da imporre all’Italia, di cui al punto 1 della missiva, riguardava, appunto, la Crescita neocapitalistica, per innescare la quale si richiedeva, oltre alle famigerate liberalizzazioni, di “distruggere il contratto collettivo nazionale di lavoro (e con esso le garanzie residue per i lavoratori stabili) privilegiando i livelli di contrattazione in cui il lavoratore è più debole ed esposto ad ogni sorta di ricatto, e imporre la libertà di licenziamento indiscriminato per flessibilizzare definitivamente il fattore‐lavoro.” [Eugenio Orso, La lettera globale, post pubblicato in Pauperclass e da ComeDonChisciotte] Imporre una certa libertà di licenziamento nel paese faceva parte del diktat globalista che conteneva già l’essenziale di quel programma che oggi Monti sta diligentemente applicando, con l’appoggio incondizionato (e neppure troppo sottilmente anticostituzionale) del suo complice Napolitano. Dopo una lenzuolatina di liberalizzazioni che hanno toccato le lobby meno intoccabili e più sacrificabili (come i tassinari, che non sono il principale problema dell’Italia, come si è cercato di far credere), si arriva al dunque, cioè alla fase finale di flessibilizzazione del fattore‐lavoro. 343 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 Dietro all’attacco finale al lavoro, che deve essere rapidamente privato di ogni forma di concreta tutela, c’è molto di più della semplice tensione per una rapida riduzione dei costi di produzione (identificati furbescamente con quello generato dal lavoro), della conclamata necessità dell’aumento della produttività, e della (peraltro dubbia) volontà di attrarre i capitali stranieri in Italia con una maggior flessibilità “in uscita” imposta ai lavoratori. Dietro l’attacco finale al lavoro c’è un progetto antropologico per ridurre l’uomo, nei contesti produttivi, a mero fattore‐lavoro disumanizzato, al pari delle materie prime, dei semilavorati, dei prodotti energetici utilizzati nel ciclo produttivo (anzi, meno importante di questi ultimi, il cui costo tende ad aumentare), e per creare una neoplebe adatta a vivere, senza ribellarsi e creare troppi problemi, nei contesti culturali e sociali del nuovo capitalismo. Controriformando il mercato del lavoro, privando delle tutele storiche i lavoratori fino ad ora “stabilizzati”, Monti, la sua segretaria Fornero e il suo compagno di merende Napolitano, contribuiscono a portare a compimento il progetto antropologico globalista, imposto dai dominanti. Arrivando al merito dell’ultima controriforma montiana, alla quale la CGIL della Camusso non ha potuto pubblicamente aderire, per evitare di suicidarsi “in diretta” con un colpo alla tempia, notiamo che non c’è soltanto la neutralizzazione dell’articolo 18 della legge 300, ma ci sono altre misure che flessibilizzano il fattore lavoro, compromettendone le tutele e preparando il terreno per le future riduzioni delle paghe. Il nuovo sistema riguardante gli ammortizzatori sociali, da attivare non subito ma nel 2017, prevede l’eliminazione dell’indennità di mobilità nel caso di licenziamenti collettivi (una cosa in meno), introduce l’ASPI (assicurazione sociale per l’impiego) che fungerà da indennità di disoccupazione, coprirà il 75% della retribuzione lorda fino a 1.150 euro lordi, ma si ridurrà inesorabilmente dopo i primi sei mesi, ed esclude la cassa integrazione se non è previsto il rientro in azienda dei lavoratori (altra garanzia in meno). Si introduce un misero fondo di solidarietà per i lavoratori anziani che perderanno il lavoro a pochi anni dalla pensione, ma su base assicurativa, e con qualche misura raffazzonata e poco importante, si finge di stringere sulla precarietà (contributo aggiuntivo dell’1,4% per i contratti a termine) che invece resterà e si diffonderà ulteriormente, perché non ci si sogna neppure di abolire il complesso delle norme che l’hanno introdotta ed estesa. Ma il punto dolente, centrale nella controriforma ultraliberista affidata all’impiegato Monti e alla sua segretaria Fornero, è la “manomissione” dell’articolo 18 della legge 300, prevedendo il reintegro nel posto di lavoro per i soli licenziamenti definiti discriminatori, che erano, sono e saranno abbastanza rari, e 344 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 per gli altri casi, che invece saranno i più frequenti in assoluto, prevedendo un semplice indennizzo se lo deciderà il giudice. I licenziamenti per motivi economico‐organizzativi (chiusure, reengineering, eccetera), in quanto “giustificato motivo oggettivo” non potranno più essere messi in discussione, se non si potrà legalmente reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Se è improbabile che si arrivi al licenziamento per discriminazione razziale o religiosa, è molto più facile dichiarare uno stato di crisi economica e riorganizzare le unità produttive, magari al solo scopo di liberarsi di una parte della forza‐lavoro, giudicata “troppo costosa”, e se del caso riassumendo in seguito qualcuno degli espulsi a condizioni peggiori per il lavoratore. I licenziamenti non discriminatori, dovuti ad uno stato di crisi e alla necessità di riorganizzare, secondo la disgustosa retorica di tutti quelli che sostengono il governo affidato dai globalisti a Monti‐Napolitano, serviranno essenzialmente per: 1) “Licenziare i fannulloni”. Una sorta di colpevolizzazione preventiva delle vittime da sacrificare sull’altare del profitto, per dirla tutta sbrigativamente. 2) “Attrarre gli investimenti stranieri”, grazie all’introduzione della flessibilità in uscita. Leggi ampia libertà di licenziare, indipendentemente dall’afflusso di capitali dall’estero. 3) Garantire la “competitività” del paese nel sovraffollato e concorrenziale spazio globale. Ma ciò che si vuole veramente, e non si dichiara apertamente, è comprimere al massimo, in tempi brevi, il costo del lavoro, “cinesizzando” il fattore‐lavoro in Italia. Riassumendo ancor di più, il licenziamento libero, data la relativa facilità di dichiarare stati di crisi ed attivare riorganizzazioni aziendali, è ormai alle porte, e servirà (a) per creare una grande massa di lavoratori a basso costo, ricattabilissimi, disposti ad accettare qualsiasi imposizione da parte del capitale pur di poter lavorare, nonché (b) per accelerare la mutazione antropologica della popolazione italiana in neoplebe, facilmente gestibile dagli agenti strategici di questo capitalismo. 345 Eugenio Orso, Scritti politici e sociali 2010 – 2012 La crisi economica continua e Monti ha salvato l’Italia: schizofrenia massmediatica? Articolo del 21/03/2012 Di questi tempi si può agevolmente notare, nell’apparato ideologico‐massmediatico e accademico al servizio del sistema, un proliferare pensieri a volte disarticolati e in qualche misura contradditori, che riportano curiosamente, stando alle apparenze, ai sintomi caratteristici della schizofrenia. La cosa diventa sufficientemente chiara in relazione ai giudizi, talora contradditori, e all’atteggiamento, a volte doppio, nei confronti di Mario Monti, della sua figura e dell’azione del suo esecutivo, imposto all’Italia per neutralizzarla, colonizzarla e trasformarla in senso neoliberista. E’ bene premettere, però, che le (apparenti) contraddizioni in tali giudizi non sono propriamente il segno dell’emergere di una “doppia personalità” di natura schizofrenica, perché, al contrario, andando un po’ di più in profondit