STATI E IMPERI DELLA LUNA
La luna era piena, il cielo sgombro e le nove di sera erano
suonate quando, di ritorno da Clamart presso Parigi, dove il
messere di Cuigy figlio, che ne è il signore, aveva offerto la
cena a me e ad altri amici miei, i differenti pensieri che ci offrì
questa boccia di zafferano ci intrattennero durante il cammi­no
in modo che, con gli occhi annegati in questo grande astro,
ora l’uno andava dicendo che essa era l’abbaino del cielo
attra­verso il quale si intravvedeva la gloria dei beati, ora un
altro assicurava che si trattava del disco di rame su cui Diana metteva in piega i colletti di Apollo; un altro che poteva,
addi­rittura, trattarsi dello stesso sole che, essendosi spogliato
la sera dei suoi raggi, guardava, attraverso un foro, che cosa
si faceva nel mondo quando lui non c’era. “E io”, dissi loro
“che desidero mescolare il mio fervore al vostro, credo, senza
pren­dermi gioco delle argute fantasie con le quali solleticate
il tempo per farlo camminare più in fretta, che la luna sia
un mondo esattamente come questo, a cui il nostro serve da
luna.” Qualcuno, nella compagnia, mi rispose con un gran
scoppio di risa. “Allo stesso modo, forse”, dissi loro “in questo momento, sulla luna, viene deriso qualcuno che sostiene
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che il nostro globo è un mondo.” Ma avevo un bel citare che
Pitagora, Epicuro, Democrito e, fra i nostri contemporanei,
Copernico e Keplero, erano stati della mia stessa opinione:
ottenni solo di farli ridere a crepapelle.
Tuttavia questo pensiero, la cui audacia stuzzicava il mio
intelletto, rafforzato dalla contraddizione, penetrò in me così
in profondità che, per tutto il resto del cammino, restai gravido di mille definizioni di luna di cui non riuscivo a sgravarmi,
tanto che, a forza di sostenere questa credenza da burla con
ragionamenti quasi seri, mancava poco che già me ne persua­
dessi, quando il miracolo o l’accidente, la Provvidenza, la
For­tuna o forse quel che chiameremo visione, finzione, chimera o magari follia, mi fornì l’occasione che mi vincolò a
questo convincimento.
Giunto a casa mia, salii nel mio studio, dove trovai sul
tavolo un libro aperto che io non vi avevo messo. Era quello
di Cardano e, per quanto non avessi il disegno di leggervi,
l’occhio mi cadde, come costretto, proprio su una storia di
questo filosofo. Egli riferisce che, mentre studiava una sera
alla luce di una candela, vide entrare, attraverso le porte
chiuse, due grandi vecchi i quali, dopo le numerose domande
che egli pose loro, risposero che erano abitanti della luna, e
scomparvero1. Restai così sorpreso, sia perché avevo trovato
un libro che si era portato là da solo, sia per il momento e
Nel De vita propria, pubblicato a Parigi nel 1643 ma circolante in manoscritto già dopo il 1575, anno di composizione, Girolamo Cardano (Pavia
1501-Roma 1576) scriveva (cap. XXX): “Nel tredicesimo giorno d’agosto
1491 (sic!), dopo aver detto le mie preghiere della ventesima ora del giorno,
mi apparvero sette uomini, vestiti in abiti di seta, con un mantello di foggia
greca, con calzari rossi e giubbe a ricoprire le loro camicie risplendenti
e rosse, d’una taglia più stretta del comune ed assai belle a vedersi. Solamente due di loro erano vestiti in questa maniera, i due che sembravano
essere i più nobili. Altri due seguivano il primo di quei due, quello che era
più grande e rosso. Gli altri seguivano il secondo, più pallido e di minor
taglia. Questi, ed in questo ordine, erano quei sette spiriti con, all’incirca,
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la pagina alla quale lo avevo trovato aperto, che interpretai
questa catena di eventi come un’ispirazione a far sapere agli
uomini che la luna è un mondo. “Come!”, ripetevo dentro di
me “dopo aver parlato per tutto il giorno di una cosa, un libro
che è forse unico al mondo in cui questa materia sia trattata in
modo così approfondito, vola dallo scaffale sulla mia tavola,
diventa capace di ragionare tanto da aprirsi esattamente alla
pagina in cui si narra un’avventura così meravigliosa; trascina
i miei occhi su di essa, quasi a forza, e fornisce di conseguenza alla mia fantasia le riflessioni e alla mia volontà i progetti
che formulo! Senza dubbio”, continuavo “i due vegliardi
apparsi a quel grand’uomo sono gli stessi che hanno spostato
il mio libro e l’hanno aperto a questa pagina, per risparmiarsi
quarant’anni di età ciascuno. Allorquando li si fosse interrogati sulla loro
identità, avrebbero risposto di essere uomini pressoché totalmente pneumatici, che avevano nascita e morte anche se la loro vita era assai più
lunga della nostra, giungendo fino ai trecent’anni. Avrebbero anche detto
d’essere assai più conosciuti dagli dèi che non dagli esseri umani, anche
se erano molto differenti da quelli. Erano, anche, più felici od infelici di
noi come noi lo siamo in rapporto ai bruti. Avrebbero inoltre detto che
nulla era loro nascosto, né libri né tesori…”. È appena il caso di dire che
i due Grandi Vecchi altri non sono che i simbolici Oro ed Argento, colti in
un aspetto tutto particolare. I “quarant’anni” ci indicano che i nostri personaggi adombrano elementi già puri e non in stato di commistione umana,
avendo superato la quarantena. A questi simbolici metalli s’associano Ferro
e Rame, per l’Oro, e Mercurio, Stagno e Piombo per l’Argento. Esiste un
racconto simbolico grosso modo attribuibile al medesimo periodo: si tratta
di un codice alchimistico tedesco che con ogni probabilità rampolla da una
scuola paracelsica. Il Berglied, Canto dello Montagna, usa di un medesimo
simbolismo per, dichiaratamente, permettere la conoscenza del Subiectum
Catholicum Saturnium, dove un pellegrino muove alla ricerca dello Spirito
dei terrestri metalli.
Questo libretto si conclude con una frase: “Natur die spricht: «Mir nach!»”.
“Seguite la Natura”, imperativo che riassume ogni insegnamento tradi­
zionale.
Il fatto, poi, che le date evidentemente non quadrino (l’esperienza non
può essere stata fatta nel 1491 perché Cardano non era ancora nato) ci fa
scoprire che questo testo era stato ripreso dall’opera del padre di Girolamo,
che lo aveva scritto nella sue Memorie.
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la fatica di farmi l’arringa che hanno fatto a Cardano. Ma”,
soggiungevo “come potrei chiarirmi il dubbio se non salendo
fin lassù? E perché no?”, mi rispondevo all’istante. “Prometeo
salì bene una volta in cielo a rubare il fuoco!”
A questi ghiribizzi seguì la speranza di portare a compi­
mento un così bel viaggio. Per venirne a capo, mi chiusi in
una casa di campagna piuttosto isolata e, dopo aver lusingato
i miei sogni con qualche mezzo idoneo al mio scopo, ecco
co­me raggiunsi il cielo.
Mi ero attaccato tutto intorno una quantità di fiale piene di
rugiada2, sulle quali il sole dardeggiava i suoi raggi con tanta
veemenza che il calore che le attirava, avendo generato nuvole
grandissime, mi trascinò così in alto che alla fine mi trovai al
di sopra della regione media. Ma siccome questa attrazione mi
faceva salire con eccessiva velocità e, invece di avvicinarmi
alla luna, come pretendevo, essa mi sembrava più lontana di
quanto lo fosse alla mia partenza, ruppi molte di quelle fiale,
fino a quando sentii che il mio peso superava l’attrazione e
che ridiscendevo verso la terra. La mia opinione non sbagliava, dato che poco dopo vi ricaddi: considerando l’ora della
mia partenza, doveva essere mezzanotte. Tuttavia vidi che il
sole era, in quel momento, al punto più alto dell’orizzonte e
per­tanto era mezzogiorno. Vi lascio immaginare quanto fossi
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La rugiada è un simbolo che più volte ritorna tra quelli dell’Alchimia.
Molti Autori antichi parlano della Ros maialis come della migliore rugiada,
cioè come del primo momento, dopo la allegorica “notte” o putredo mortis,
in cui l’Alchimista si volgeva verso la “primavera filosofica”, cioè al dispiegarsi della Conoscenza sacra. Un’importante indicazione veniva fornita da
Macrobio che, nei Saturnalia (VII, 16, 31), scriveva: “Pure l’aria subisce
l’influsso dell’umidità lunare e se ne manifestano gli effetti nel clima. Quando
la luna è piena o quando sorge (poiché in tal momento è piena dalla parte
rivolta verso l’alto) l’aria si scioglie in pioggia oppure se è asciutta per il
bel tempo, produce gran quantità di rugiada. Appunto per questo il lirico
Alcmane definì la rugiada «figlia dell’aria e della luna»”.
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stupito: certo lo fui in tale misura che, non sapendo a che cosa
attribuire questo miracolo, ebbi l’insolenza di immaginare che
Dio, per favorire il mio ardimento, avesse ancora una volta
inchiodato il sole nei cieli, con lo scopo di illuminare un’im­
presa così magnanima.
Quel che accrebbe il mio stupore fu di non riconoscere
affatto il paese in cui mi trovavo, visto che, essendo io salito
perpendicolarmente, sarei dovuto essere disceso nello stesso
luogo dal quale ero partito. Quindi, equipaggiato com’ero,
m’incamminai verso una specie di capanna da cui vedevo
uscire del fumo; ed ero arrivato appena a un tiro di schioppo,
quando mi vidi circondato da un grande numero di uomini
completamente nudi. Essi parvero molto sorpresi nell’incon­
trarmi, poiché, per quanto posso supporre, ero il primo uomo
che avessero mai visto vestito di bottiglie. E, per confondere
ancora tutte le interpretazioni che essi avrebbero potuto dare
di quell’equipaggiamento, vedevano che, camminando, non
toccavo terra quasi per nulla. Non potevano sapere che, al più
piccolo impulso che davo al mio corpo, l’ardore dei raggi del
mezzogiorno mi sollevava con la mia rugiada e, anche se le
mie fiale non erano più molto numerose, potevo sollevarmi in
aria davanti ai loro occhi. Volli farmi loro incontro ma, come
se il terrore li avesse trasformati in uccelli, in un istante li vidi
disperdersi nella vicina foresta. Tuttavia ne agguantai uno, le
cui gambe avevano senza dubbio tradito il cuore. Gli doman­
dai, con notevole fatica (dato che ero tutto ansimante), quanto
ci fosse da là a Parigi e da quando in Francia la gente andava in
giro nuda, e perché mi fuggissero con tanto spavento. L’uo­mo
al quale parlavo era un vecchio olivastro che, per prima cosa,
si gettò ai miei ginocchi; e giungendo le mani dietro la testa,
aprì la bocca e chiuse gli occhi. Borbottò a lungo fra i denti,
ma io non distinguevo nulla di ciò che articolava: tant’è che
presi la sua lingua per il roco farfugliare di un muto.
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Dopo un po’ vidi arrivare una compagnia di soldati al rullare dei tamburi, e ne notai due che si separavano dal grosso
degli altri per sapere chi io fossi. Quando furono abbastanza
vicini da essere uditi, chiesi loro dove mi trovassi. “Siete in
Francia”, mi risposero; “ma chi diavolo vi ha conciato così?
E come si spiega che non vi conosciamo? Sono arrivate le
navi? Siete in procinto di avvertirne il governatore? E perché
avete diviso la vostra acquavite in tante bottiglie?” A tutto
questo risposi che non era stato il diavolo a ridurmi in quello
stato; che essi non mi conoscevano semplicemente perché
non potevano conoscere tutti gli uomini; che io non sapevo
che la Senna portasse navi a Parigi; che non avevo nessuna
notizia da dare al maresciallo de l’Hôpital; e che ciò di cui ero
carico non era acquavite. “Oh, oh”, mi dissero afferrandomi
per le braccia, “fate il furbo? Il governatore saprà ben lui
chi siete!” Mi condussero verso il gruppo dove appresi che
ero davvero in Francia, ma in quella Nuova3, tanto che dopo
poco venni presentato al viceré. Mi chiese quale fosse il mio
paese, il mio nome e il mio rango; e quando l’ebbi soddisfatto,
raccon­tandogli l’allettante successo del mio viaggio, sia che
lo cre­desse, sia che fingesse di crederlo, ebbe la bontà di farmi
as­segnare una camera nel suo appartamento. Avevo avuto una
gran fortuna nell’incontrare un uomo capace di larghe vedute,
che non si stupì affatto quando gli dissi che, in tutta evidenza,
la terra aveva dovuto girare durante la mia ascesa, poiché,
avendo cominciato a salire a due leghe da Parigi, ero caduto
in Canada quasi a perpendicolo.
Alla sera, mentre stavo per coricarmi, egli entrò nella mia
camera e mi disse: “Non sarei venuto a interrompere il vostro
La Nuova Francia altro non è che l’odierno Canada, ovvero la terra intorno
alla valle di San Lorenzo, Nouvelle France nel XVII-XVIII secolo.
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riposo, se non avessi creduto che una persona che ha potuto
trovare il segreto per fare tanta strada in una mezza giornata,
non possedesse anche quello di non stancarsi. Ma non sapete”, aggiunse “che divertente polemica ho avuto, al vostro
riguar­do, con i nostri Padri? Essi sostengono con assoluta
certezza che siete un mago; e la grazia più grande che possiate
ottenere da loro è di non passare che per un impostore. E in
effetti, questo moto che voi attribuite alla terra è un paradosso al­quanto delicato; e per parte mia, vi dirò con franchezza
che non sono per nulla della vostra opinione giacché, per
quanto ieri voi siate partito da Parigi, potete essere arrivato in
questa contrada oggi, senza che la terra abbia girato; infatti,
non potrebbe il sole, dopo avervi sollevato in aria per mezzo
delle vostre bottiglie, avervi condotto qui visto che, secondo
To­lomeo e i filosofi moderni, esso si muove proprio come voi
fate muovere la terra? D’altra parte, quale verosimiglianza
attribuite all’immaginazione che il sole sia immobile dal momento che vediamo benissimo che cammina? E come potete
dire che la terra gira con tanta rapidità quando noi la sentiamo
ferma sotto i nostri piedi?” “Signore” gli risposi, “ecco all’incirca le ragioni che ci costringono a presumerlo.
In primo luogo, appartiene al senso comune credere che
il sole abbia preso posto al centro dell’universo, poiché tutti i
corpi che si trovano in natura hanno bisogno di questo fuoco
radicale, che abita nel cuore del regno per essere in condizione
di soddisfare con prontezza le necessità di ogni parte di esso, e
che la causa prima della generazione sia collocata nel centro di
tutti i corpi per agirvi uniformemente e in modo più age­vole:
allo stesso modo in cui la saggia natura ha sistemato le parti
genitali nell’uomo, i semi nel centro delle mele, i noccioli nel
cuore dei loro frutti; esattamente come la cipolla conserva, al
riparo di cento strati che lo circondano, il prezioso germe dal
quale dieci milioni di altre cipolle possono attingere la loro
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essenza. Infatti il frutto è un piccolo universo a sé, del quale
il seme, più caldo delle altre parti, è il sole, il quale spande in­
torno a sé il calore che conserva il suo globo; e questo germe,
secondo tale visione, è il piccolo sole di questo piccolo mondo,
che riscalda e nutre il sale vegetativo di questa piccola massa.
Supposto questo, io affermo che la terra, avendo bisogno
della luce, del calore e dell’influsso di questo grande fuoco,
gira intorno a esso per ricevere, in modo uniforme in tutte le
sue parti, questa virtù che la conserva. Infatti sarebbe altret­
tanto ridicolo credere che questo grande corpo luminoso girasse intorno a un punto da cui non trae utilità alcuna, quanto lo
sarebbe immaginare che, quando vediamo un’allodola arrostita, le si fosse fatto girare il caminetto intorno per cuocerla.
Diversamente, se fosse il sole a compiere questa fatica,
sembrerebbe che fosse la medicina ad aver bisogno del ma­
lato; che il forte dovesse piegarsi al debole; il grande servire il
piccolo; e che invece di essere la nave a bordeggiare le coste
di una provincia, si fosse dovuto far passeggiare la provincia
intorno alla nave. E se faticaste a comprendere in che modo
una massa tanto pesante possa muoversi, ditemi, ve ne prego: gli astri e i cieli, che ritenete tanto solidi, sono forse più
leggeri? Inoltre è più agevole per noi, che siamo certi della
rotondità della terra, trarre la conclusione circa il suo moto
attraverso la sua figura. Ma perché supporre rotondo il cielo,
visto che non lo potreste sapere con certezza, e che, tra tutte
le forme, solo con questa esso potrebbe muoversi? Io non vi
rimprovero i vostri eccentrici, i vostri concentrici, né i vostri
epicicli, tutte cose che sapreste spiegare solo in modo molto
confuso, e dalle quali io metto al riparo il mio sistema. Par­
liamo soltanto delle cause naturali di questo movimento. Voi
siete costretti, voi tutti, a ricorrere alle intelligenze che muo­
vono e governano i vostri globi. Ma io, senza disturbare il
riposo dell’Essere Sovrano, che ha senza alcun dubbio creato
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la natura perfetta in ogni dove, e alla cui saggezza si deve che
essa sia stata finita in modo tale che, avendola compiuta per
una cosa, non l’ha resa difettosa per un’altra; io, dico, trovo
nella terra le virtù che la fanno muovere. Affermo, dunque,
che i raggi del sole, con la loro influenza, colpendola con il
loro moto circolare, la fanno girare come noi facciamo girare
un globo colpendolo con la mano; o anche che i fumi che
evaporano di continuo dal suo seno, dalla parte in cui il sole
la guarda, respinti dal freddo della regione media, rica­dono in
basso e non potendo, necessariamente, colpirla che di striscio,
la fanno piroettare.
La spiegazione degli altri due movimenti è ancora meno
imbrogliata. Considerate un po’, ve ne prego…” A queste
parole il viceré mi interruppe: “Preferisco”, disse “dispensarvi
da questa fatica; ho letto anch’io, a questo proposito, qualche
opera di Gassendi; in compenso ascoltate ciò che mi rispose
un giorno uno dei nostri Padri che sosteneva la vostra opi­
nione: «In effetti, diceva, immagino che la terra giri non già
per le ragioni che Copernico presenta, ma perché, essendo il
fuoco dell’inferno chiuso al centro della terra, i dannati, che
vogliono fuggire l’ardore delle sue fiamme, premono per al­
lontanarsene contro la volta, e fanno così girare la terra, come
un cane che faccia girare una ruota quando corre chiuso al
suo interno.»”
Per un po’ lodammo lo zelo del buon Padre: e infine il
vi­ceré si disse sorpreso, visto che il sistema di Tolomeo era
così poco probabile, che fosse stato così generalmente accet­
tato. “Signore”, gli risposi “la maggioranza degli uomini, che
giudicano solo attraverso i sensi, si è lasciata persuadere dagli
occhi; e come colui la cui nave viaggia sotto costa crede di
restare immobile e che la riva si muova, così gli uomini, gi­
rando con la terra intorno al cielo, hanno creduto che fosse il
cielo stesso a ruotare intorno a loro.
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