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La Cina raccontata dai cinesi ai cinesi
Debolezza della Cina e problema tibetano
Polonews.info - Saggi critici
di Stefano Cammelli
Polonews Rif.: 20080505
La supposta debolezza della Cina ha una lunga tradizione storica. Si può dire che a partire dalla morte di Mao essa
è stata continuamente evocata per spiegare e giustificare la maggior parte delle scelte cinesi. In questo
testo l’autore intende spiegare quando si formò l’idea della debolezza cinese, ovvero quando diventò, in
qualche modo, definitiva. Emergerà un quadro, certo assai problematico, in stridente contraddizioni con
le tesi più popolari sulla realtà cinese. Ovviamente la verità storica - come scrisse il grande Edward Carr è una montagna. Essa ci appare sempre diversa a seconda di dove ci collochiamo come punto di osservazione. Eppure ognuna di queste differenti letture e osservazioni non è in qualche modo reale? Un saggio tutt’altro che
facile e semplice, che muove i suoi passi dai giorni in cui finì ogni incanto verso la Cina da parte occidentale: il giugno
del 1989.
La debolezza della Cina e il problema tibetano
Piace sentirne parlare: il tema della debolezza cinese, dell’imminente o meno crollo della Cina continua ad
emergere da una molteplicità di interventi. Il fatale procedere del potere cinese verso un collasso che condurrà
alla democrazia è atteso quasi quotidianamente dai tanti che ancora condividono la convinzione, di origine colonialistica e di immarcescibile vitalità, che progresso e democrazia procedano di pari passo. Sicché l’uno abbia
bisogno dell’altro, e senza l’uno non vi possa essere l’altro.
A chi ci chiede se la modernizzazione della Cina contribuisce alla nostra causa, io rispondo che la Cina non
è moderna. Modernizzazione significa democratizzazione. Significa rispetto per i diritti umani e una società
aperta ai diritti individuali. Nulla di tutto questo esiste oggi in Cina.1
Le difficoltà attuali cinesi sulla questione tibetana – si osserva – sono la prova della fragilità di un regime che
rifiuta i benefici e inevitabili effetti del binomio modernizzazione / democrazia, ovvero sono il frutto della stridente contraddizione di un regime che si rifiuta di prendere atto che non può esistere vero progresso economico
senza democrazia. Il regime cinese, aggrappato ai propri privilegi e sordo al dialogo con la comunità internazionale, starebbe così spingendosi verso un cul de sac fatale. Il Tibet sarebbe solo un segnale, solo il più forte e
riconoscibile, di questa deriva del potere cinese, di fatto tenuto in piedi dall’interesse e dai calcoli economici di
una comunità internazionale dedita interamente al business.
Così, ipotesi interpretativa di eccezionale popolarità, la Cina stessa godrebbe della divisione che attraversa l’occidente, spaccato tra le proteste dei puri che nonostante gli interessi economici hanno il coraggio di dire quello
che va detto, e il silenzio colposo e cinico di chi per proteggere gli interessi nazionali delle proprie imprese preferisce fare finta di non vedere, non capire. Tale semplificata lettura dei comportamenti europei nei confronti
della Cina procede di pari passo con analoga e popolarissima semplificazione dei comportamenti cinesi. In
Cina, si legge con frequenza quotidiana, l’unico interesse è il denaro. L’unica ideologia è arricchirsi.
1
1 Samdhong Rimpoche, Non violenza, così il Tibet vincerà, Il Corriere della Sera, 3 maggio 2008.
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E così la contrapposizione europea tra puri e uomini di affari si trasferirebbe in Cina dove, si spiega, non esiste
più alcuna questione ideologica ma solo un disincantato inseguimento del benessere. Sicché in un paese dove
l’ideologia contò così tanto fino alla morte di Mao, la debolezza del regime è tutta in questo pragmatismo economico, costretto a produrre risultati straordinari in assenza dei quali - si afferma – esploderebbe inevitabile la
disillusione della masse cinesi ed emergerebbe evidente l’assenza di un qualunque supporto a questo governo,
ideologicamente povero e politicamente in bilico. Anzi: debole.
È in questo più ampio contesto che la questione tibetana diventa spinosa: Pechino sarebbe infatti politicamente
isolata e indifendibile e, proprio per questo, il dilemma dell’Occidente sarebbe se cogliere l’occasione per dare
una spallata a un regime morente (come in molti chiedono) o, più prudentemente, astenersi dal dare giudizi
frettolosi. Ma, tacendo e consigliando una generica moderazione politica, cercare di superare questa tempesta
mediatica rimandando a momenti più favorevoli la soluzione del problema tibetano.
Nelle prossime pagine cercheremo di spiegare perché non condividiamo questa popolare lettura della situazione cinese e quanto invece una sua analisi più approfondita sia in grado di dire non solo sulla Cina, ma sull’atteggiamento occidentale nei confronti della Cina.
Spiegheremo che non crediamo affatto che la Cina stia attraversando un momento di debolezza interna, ma
piuttosto sia sottoposta a un’aggressione culturale senza precedenti che poggia su gravissimi errori da parte cinese e solide ignoranze occidentali. Spiegheremo che mai, come in questo momento, il governo cinese e il PCC
hanno potuto contare sulla compatta solidarietà dell’opinione pubblica cinese e che questa solidarietà, cercata
con astuzia e con metodo, con falsificazioni e forzature, è oggi alla base di una crescente ondata nazionalistica
pericolosa, inquietante.
Cercheremo di dimostrare che questa ondata di aggressivo nazionalismo cinese ha ormai una lunga storia ed
è l’evento più pericoloso dell’attuale panorama cinese. Ignorarlo, come si sta facendo in Europa o stuzzicarlo,
come stanno facendo l’Unione Europea e il governo USA , mette in modo dinamiche pericolose che coinvolgono la collaborazione e l’apertura della Cina al mondo.
Il ragionamento non sarà né breve né semplice. Dunque finirà inevitabilmente per perdere quei lettori frettolosi
che cercano risposte semplificate e rapide da applicare a domande preconfezionate ed auto referenziali. Ce ne
dispiace, naturalmente. D’altra parte la tesi dell’intrinseca debolezza cinese e del sostegno dato a Pechino dal
cinismo di un Occidente dedito ai soli propri interessi materiali ha ormai una lunga storia. Se essa riemerge
come se nulla fosse in questi giorni è perché non è mai stata discussa in modo sistematico e le è stata concessa,
per così dire, diritto di cittadinanza nell’agorà dei dibattiti televisivi, delle recensioni bibliografiche, della stampa
e più in generale dei media. Il dilagare di questa tesi ha avuto una tale forza e una tale capacità di convincimento
che è comprensibile sia mancata molta volontà di contrapporsi da parte degli studiosi di storia della Cina.
Così, poiché – come dice un proverbio tibetano – ogni sconfitta non compresa è destinata a ripetersi, ecco che
la nostra analisi è costretta a risalire al giugno di diciannove anni fa. A quella Tienanmen che l’Occidente nel
suo insieme non ha compreso e le cui ombre si allungano sul quadro della storia contemporanea cinese e i suoi
rapporti con l’Occidente.
Ritornare a Tienanmen
2
Fu in quelle giornate che, per la prima volta e con una sicurezza oggi inquietante, l’Occidente prese posizione sul
governo cinese decretandone, in una volta sola, la morte e la sostanziale mancanza di rappresentatività. Alcune
citazioni – certo imbarazzanti per chi allora scrisse queste parole – aiuteranno a comprendere la rigidità di una
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presa di posizione assunta mentre il governo cinese portava a termine quel massacro di folla studentesca che
oggi l’Occidente chiama strage e che Pechino preferisce definire incidente di Tienanmen.
«Il problema e gli interrogativi che si aprono adesso, sono altri. E si possono sintetizzare così: come si presenta la Cina poche ore dopo che l’ ordine è stato ristabilito a Pechino? E’ la stessa Cina di quaranta giorni
fa, quando alla notizia della morte di Hu Yaobang iniziarono le manifestazioni studentesche, o è un paese
diverso, cambiato? Il lettore conosce benissimo la risposta. La Cina è adesso diversa. (…) Nel grande paese c’
è da oggi, insomma, un clima da guerra civile.»2
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La tesi di un crollo di rappresentatività del governo cinese venne maggiormente articolata nei giorni successivi
al massacro. Non bastando che fosse ampiamente condivisa si cercò di spiegarne in qualche modo la genesi con
argomenti quasi “scientifici”:
“La leadership cinese ha offerto al popolo una massiccia modernizzazione economica, il progresso, ma non
sufficienti libertà politiche. Ha dato un po’ di democrazia alla gente, e la gente ne ha chiesta di più. C’ è un detto, in America: non puoi mettere un po’ incinta una donna. Per questo, qualunque cosa accada nei prossimi
giorni, settimane o mesi, io credo che la strage di piazza Tienanmen sia stata l’inizio della fine per i leader al
potere.”3
Dunque l’irreversibile cammino verso la democrazia – così come l’ingravidare una donna – non poteva essere
interrotto, disponeva di meccanismi di avanzamento automatici e irreversibili. Pretendendo di controllarli Pechino si sottraeva all’ineluttabilità della storia e dunque- così facendo – creava le basi per la propria sconfitta.
E, certo, questa sarebbe giunta inevitabile e rapida se a sostenere il potere cinese non fosse giunta la paura occidentale, il cinico agire dei governi. La pavidità dei comitati d’affari che in ogni capitale europea decise in quei
giorni che era meglio un regime sanguinario con cui fare affari, piuttosto che uno democratico con cui perdere
commesse e precipitare nel caos.
La tesi dell’Occidente «vergognosamente» compromesso venne in quei giorni tracciata con una lucidità al tempo stesso tragica e storica. Tragica per la grossolanità dell’approccio e storica perché segnò l’affermazione - per
la prima volta dopo la fine della IIa guerra mondiale – del diritto dell’Occidente di imporre la propria democrazia anche con le armi. Diritto che nasceva dall’esistenza di una sorta di diritto naturale dei popoli: sicché
vergogna e infamia dovevano ricadere su quella classe politica che per meschina tutela dei propri interessi fosse
venuta meno al suo destino storico preferendo tradire la propria natura democratica in nome di fini bassamente economici. Leggiamo:
“Nel momento in cui i dirigenti cinesi, i signori della guerra o chiunque abbia dato l’ ordine di intervenire,
hanno deciso di schiacciare la ribellione pacifica degli studenti, nessuno, non in America, non in Russia, non
a Roma, poteva fare nulla per aiutarli. Un paradosso insolubile. E noi restiamo, spettatori impotenti, a contemplare l’amarezza di un’ altra delusione storica, a vedere come i principi che guidarono una generazione
alla rivolta conducano quella successiva alla repressione. La grande, bruciante ironia della Tienanmen e
delle fiacche reazioni internazionali è infatti nel trionfo di quei sacri principi anticoloniali di sovranità e di
indipendenza dei popoli che hanno consentito ai macellai di Pechino di muoversi nella certezza della impunità internazionale. In altre epoche, la rivolta degli studenti e la strage di Pechino avrebbero offerto perfetti
3
2 Sandro Viola, Guerra civile? in «Repubblica», 4 giugno 1989.
3 Una nuova lunga marcia verso la terza rivoluzione - Intervista con Harry Harding, in «Repubblica», 7 giugno 1989.
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pretesti alle potenze straniere per intervenire e tagliare via fette di territorio dal corpo sfatto del Celeste Impero. Oggi, nessuno può neppure contemplare l’invio di cannoniere a Shanghai e di soldati a Pechino per
modificare il corso della storia cinese. Di fronte alle colonne della Ventisettesima Armata che schiacciavano i
dimostranti il mondo si è trovato così nella morsa di un paradosso insolubile. Se un governo straniero si fosse
mosso per fermare la repressione, avrebbe riesumato lo spettro coloniale e intollerabile dell’intervento negli
affari interni cinesi e di un colonialismo non più territoriale ma certo politico.”4
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Costretti dalla propria miseria intellettuale e dalla propria pavidità (e avidità) i governi occidentali erano così
messi spalle al muro. Da una parte la paura a intervenire e dall’altra l’invito a investire dimenticando Tienanmen.
“La questione non è se credere o no alla sincerità di questo invito. E’ invece di cercar di sapere se gli aiuti
occidentali troveranno una remunerazione economica e politica grazie alla dottrina denghista del centro e
due punti fondamentali oppure no, se questa dottrina potrà assicurare, anche dopo Deng, una ragionevole
stabilità alla Cina oppure no.”5
Nacque così in quelle giornate lo schema che vediamo risorgere oggigiorno. Non interessa comprendere – non
qui, non ora - come prese forma questo tragico evolversi della sensibilità internazionale che portò gran parte
dell’Occidente dalla difesa dell’indipendenza nazionale contro le teorie di sovranità limitata a questa aggressiva
difesa della democrazia anche in paesi terzi. Si potrà dire e convenire che in quel 1989 che di tante tragedie fu
fine (e di molte altre inizio) l’avanzata della democrazia parve a tutti così naturale e scontata, così inevitabile
che nell’entusiasmo di quelle giornate, una sorta di primavera della democrazia, vennero passati in secondo
piano problemi di metodo al tempo stesso gravi e pericolosi. Oggi possiamo davvero sottoscrivere le parole di
Jacoviello là dove “Se un governo straniero si fosse mosso per fermare la repressione, avrebbe riesumato lo
spettro coloniale e intollerabile dell’intervento negli affari interni cinesi e di un colonialismo non più territoriale
ma certo politico.”
Oggi sappiamo che è esattamente questo che è avvenuto e ne misuriamo, quotidianamente, l’orrore. E, tuttavia,
tutto questo non interessa la presente riflessione sul Tibet. Non perché non sia pertinente, ma perché riguarda
un aspetto – quello dell’intervento internazionale – che oggi la potenza e la forza cinese rendono impossibile e
che, dunque, non è nemmeno lontanamente in agenda.
Mentre è in agenda, e vive tuttora di grande vitalità, questo spettro evocato da tanti nel 1989: la fine della rappresentatività del governo cinese, la fine di un regime. Lo slittamento ineluttabile del governo cinese dall’area
della protezione mediatica (in cui aveva sostato in modo davvero incomprensibile per quasi 40 anni) a quello
della condanna, quasi una riedizione dei regimi di Ceausescu o di Breznev.
Non ci faremo distrarre, non qui e non ora, dalla domanda se e in che misura i vari Viola, Zucconi, Jacoviello e
mille altri giornalisti di quegli anni compresero la Cina. Nutriamo il sospetto che la situazione di quei giorni fosse sensibilmente diversa da come venne raccontata. La Cina che in quello stesso 1988-1989 noi attraversammo
ci mostrò insieme a molti entusiasmi sinceri e talora ingenui anche il crescente caos, la paura per quanto stava
avvenendo a Pechino, i timori di disgregazione nazionale. E una sorta di irresponsabile e splendida ventata di
4
4 Vittorio Zucconi, Dimenticar Tienanmen, in «Repubblica», 10 giugno 1989.
5 Alberto Jacoviello, Dimenticare Tienanmen? in «Repubblica», 13 agosto, 1989.
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anarchia che poteva assomigliare alla democrazia quanto un intervallo scolastico tra una lezione e l’altra può
assomigliare all’antifascismo.
Tuttavia tutto questo possiamo dimenticarlo e sposare, sia pure senza convinzione, le analisi di Viola e Jacoviello perché ora preme, piuttosto, rispondere a un’altra domanda: ammesso e non concesso che la crisi di
rappresentatività fosse reale e che il paese vivesse davvero in un clima di guerra civile, cosa avvenne nei mesi e
negli anni successivi? Se il 1989 rappresentò la fine di ogni rappresentatività del partito e del governo cinese in
che misura quanto avvenne dopo segnò un recupero?
[Fine della rappresentatività: splendida e sfacciata insolenza di un mondo politico e di una sinistra culturale
che si rifiutava – come tuttora si rifiuta – di misurarsi sul come il PCC vinse la guerra civile, come conquistò
il potere nelle città e nelle campagne, come si comportò nei confronti delle missioni cristiane in Cina, come
si rapportò con l’opposizione interna, come approdò al grande balzo in avanti e alla rivoluzione culturale…
nonostante tutto c’era ancora qualcuno che aveva il coraggio di parlare di un’ altra delusione storica…]
Il post-1989 è tutto qui. In questa attesa di un crollo cinese, nella certezza che il clima da guerra civile sia ormai
carattere emergente della situazione politica interna e il crollo politico del regime sia forse rimandabile ancora
per qualche tempo ma sia, in qualche modo, inevitabilmente segnato.
Dopo Tienanmen: il crollo dell’URSS.
Usa dire che con il massacro di Tienanmen e la repressione del movimento degli studenti in Cina ebbe inizio
un periodo di riflessione, caratterizzato da silenzi ed approfondimenti che portarono alla frantumazione dello
schieramento che aveva sostenuto le manifestazioni della primavera. Là dove la libertà economica era stata
giudicata prioritaria si sarebbe sviluppata un’intensa critica al radicalismo della rivolta6 sfociata nell’impegno di
promuovere una più stretta relazione tra intellettuali e potere e, contestualmente, limitare il ricorso alle masse.
Come nella migliore tradizione del pensiero politico cinese le folle vennero respinte in qualche modo alle loro
dimore, la discussione politica ristretta ai circoli ufficiali.
Ciò che segue a Tienanmen, coi suoi silenzi e le sue affermazioni quasi solo sussurrate (e comunque note solo
a chi parlava e leggeva cinese) sfuggì ai più. O forse non è il dibattito politico a sfuggire, ovvero gli orientamenti
di quelle settimane, ma qualcosa di più grave. La repressione di Tienanmen e la forza con cui l’Occidente aveva
emesso un verdetto condiviso in Occidente da tutti, spalancò una voragine tra l’Occidente e la Cina. Un’ennesima incapacità di entrare di comprendere che si trascinò nel presente ed è venuta nel mentre complicandosi a
poco a poco, ma senza soluzioni di continuità.
La stampa, i politici, gli occidentali interessati alla Cina e spesso e volentieri amanti delle sue straordinarie e
ricche contraddizioni, pensarono veramente che fosse giunto il momento della spallata finale; che non ci fosse
nulla più da dire con quel governo e con quel partito. Videro delinearsi se non una guerra civile un inevitabile
declino: non perché lo desiderassero, ma perché non sembrò più possibile mediazione alcuna. L’immagine
che si affermò in Occidente, confermata da scene ormai leggendarie come quella dello studente che cerca di
fermare un carro armato, fu quella di un’insanabile rovina collettiva: non c’erano vincitori in piazza Tienanmen
il giorno successivo alla repressione. Regime e protesta studentesca dovevano ripartire da zero: il primo aveva
ormai i giorni contati, i secondi dovevano imparare a fare politica.
5
6 Wang Hui, China’s new order, Cambridge, Harvard University Press, 2003 op.cit.p.78 e seguenti.
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L’Occidente, scegliendo una posizione così estrema, si infilò così in una situazione di stallo: non essendoci nessuna istruttoria aperta ma una condanna già emessa si attese di vedere franare il regime, o il ricomparire sotto
nuove spoglie della rivolta studentesca e popolare. Oppure il rapido, quasi sovietico, degradarsi di un partito
incapace di rinnovarsi e di sopravvivere alla sfida del binomio «modernizzazione – democrazia».
Come sappiamo non giunse nessun segnale di questa natura, anzi. Dopo mesi di silenzio e di paralisi politica si
espressero invece tendenze differenti e che parvero incomprensibili: la Cina stava percorrendo strade antiche.
Non v’era traccia di alcun dibattito libertario né di nuove richieste di democrazia: il movimento studentesco che
pareva così straordinariamente vitale era incapace di risorgere. Nel giugno del 1994 giunse la notizia, subito
ripresa, più inspiegabile di tutte: la nuova fortuna del culto di Mao7 era già balzata agli onori della cronaca. Inchieste promosse dal China Youth Daily (giugno 1994) tra i giovani lettori confermarono il dirompente successo
di Mao, il più amato leader cinese davanti a Zhou Enlai e Deng Xiaoping8.
Per molti fu l’ennesimo mistero di un paese inafferrabile. Sfuggì il nesso tra rivolta democratica e il simbolo
stesso dell’oppressione totalitaria. Come potesse Mao essere in cima alle preferenze della gioventù democratica
che aveva presidiato piazza Tienanmen: a nemmeno tre anni di distanza da quel massacro.
Di fronte a questo mistero si cercò rifugio in altre, simili, delusioni: quella europea post-1969 ad esempio o
quella americana post-Vietnam. Come alla generazione combattiva - sia in Europa che in USA - era succeduta
una generazione assai meno pugnace e più cinica, così si pensò di assistere a qualcosa di analogo in Cina. Nella
letteratura post-Tienanmen fiorirono così descrizioni di una Cina disincantata, cinica, inacidita: il trionfo delle
business school e la sconfitta della filosofia e del maoismo.
Si credette veramente che privata della politica e di una ragionevole possibilità di espressione democratica, la
protesta cinese fosse diventata fuga nell’esilio, nell’intimismo o in una ricerca del successo personale fine a sé
stessa. Si fosse trasformata da battaglia politica di una società in rivincita personale su di un mondo di cui non
si voleva più parlare e con cui non si intendeva più comunicare. Il denaro venne presentato così come il simbolo
di una Cina nuova, senza più alcun rapporto col passato, cinica, a modo suo spietata. I giornali occidentali si
popolarono di modelle cinesi, di ricchi cinesi, di sesso cinese. Ogni pulsione ideologica, ogni battaglia ideale era
dunque finita - venne detto a chiare lettere - la Cina non esiste più9. Privata del naturale sbocco democratico la
Cina parve agli occidentali più occidentale dell’Occidente: successo, sesso, denaro erano gli unici valori di una
popolazione disincantata. Da parte sua il potere, persa ogni veste ideologica e ogni capacità di coesione ideale
era ormai degradato a comitato d’affari e fascismo corporativo.
Non solo oggi, ma anche allora questa lettura della Cina, così frequente sulla stampa di tutto il mondo, lasciò
seriamente perplessi: c’erano in queste interpretazioni contraddizioni stridenti, un venire incontro più a ciò che
l’Occidente desiderava sentirsi dire che non alla realtà cinese. Il salto dalla protesta di massa alla corsa all’arricchimento individuale poteva forse avere una sua logica: ma la rivalutazione di Mao? Non basta citare l’eliminazione fisica di una parte dei dissidenti, il carcere, la fuga all’estero, il rifugiarsi nelle università dell’Inghilterra e
degli USA per spiegare il crollo del movimento democratico e il trionfo di Mao.
Fermo restando la complessità del simbolo ‘Mao’, nei confronti del quale si impone grande prudenza, ci sono
alcuni eventi che influenzarono molto la Cina.
7 Geremie Barmé, Private practice, public performance: the cultural revelations of Dr Li, in «The China Journal», n.35 gennaio 1996.
8 Beijing qingnianbao (Xinwen Zhoukan), citato in Barmé (1996).
9 Secondo Lucian Pye il giornalismo occidentale di questi anni vuole vedere e documenta quelli che reputa essere “i perversi limiti raggiunti
da una società che è ossessionata dall’idea di fare soldi ma manca del minimo senso di orientamento morale” in Lucian Pye, Chinese politics in
late Deng era, in «The China Quarterly», 142, giugno 1995.
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L’errore compiuto - suggestiva contraddizione della storia che trascina gli osservatori esterni della Cina nelle
stesse contraddizioni più vive della Cina stessa! - fu il rinchiudersi in un antico, claustrofobico, egotismo cinese.
Come se ogni discussione in quegli anni potesse ruotare solamente intorno al dilemma delle riforme e della
corruzione; come se la centralità cinese non ammettesse deroghe, o discussioni.
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Probabilmente mai nella storia cinese una simile convinzione si rivelò così errata. In un certo senso il marcato carattere
di apertura e di dialogo verso l’Occidente dell’era di Deng avrebbe potuto e dovuto influenzare diversamente analisi
che sposarono troppo velocemente l’ipotesi che in Cina tutto stesse ripiegandosi in un silenzioso isolamento: oltre ogni
discussione, in attesa di tempi migliori10.
Quella dell’isolamento cinese post-Tienanmen fu un grave errore di valutazione di molto occidente nei confronti della Cina. Inevitabilmente aperta al mondo dal massiccio ingresso degli occidentali, la Cina osservò invece
con partecipazione e crescente inquietudine gli eventi di quel miracoloso 1989. In un incalzare quasi cinematografico, poco più di due anni, si produssero eventi che in altre epoche avrebbero meritato di occupare da sole
un intero capitolo di storia: la caduta del muro di Berlino, quindi del blocco sovietico, fino alla disgregazione
dell’URSS. Quindi in Medio Oriente la cosiddetta Prima guerra del golfo. Il trattato di Maastricht in Europa e la
vittoria di Clinton negli Stati Uniti.
Il mondo che assistette alla repressione di Tienanmen era un mondo sorretto da una bipolarità relativamente
conflittuale, con Giappone ed Europa come potenze emergenti ma segnate da sostanziale mutismo internazionale. In meno di tre mesi a partire dal giugno del 1989 prese forma lo scenario attuale, segnato dalla potenza
egemone e incontrastata degli Stati Uniti. Il mondo cui Tienanmen si era rivolta non esisteva - semplicemente
- più.
Assai significativamente questa epoca di grandi sconvolgimenti venne chiusa da un evento altamente simbolico: la mancata assegnazione a Pechino delle Olimpiadi del 2000. In una situazione di equilibrio ‘bi-polare’ sulla
loro assegnazione avrebbe influito in modo decisivo il peso politico dell’URSS. Nel nuovo ordine mondiale la
Cina venne bocciata da quella che i cinesi giudicarono essere una città di provincia, la sperduta periferia australiana dell’impero americano. Probabilmente mai, nella storia recente della Cina, l’orgoglio e la presunzione di
centralità cinese era stata umiliata così profondamente.
Quando, tuttavia, si compì il ‘misfatto’ della mancata attribuzione delle Olimpiadi del 2000 a Pechino, erano già
successe nel mondo molte altre cose che segnarono in modo profondo la sensibilità cinese e il suo complesso ed
infantile rapporto di amore superficiale per un occidente di cui, nel complesso, ignorava quasi tutto.
Non sappiamo dove avrebbe portato la riflessione su Tienanmen, forse non sappiamo nemmeno quanto avrebbe potuto resistere ancora il partito. Il fatto è che lo scenario post-Tienanmen venne di colpo stravolto da eventi
di importanza storica. Mentre gli intellettuali cinesi riflettevano sulle contraddizioni interne del movimento
sociale di Tienanmen l’attenzione della Cina - come del mondo intero -venne in pochi giorni indirizzata altrove:
il dramma del vicino sovietico divenne decisivo.
7
10 Indicativo sembrò il segnale dato dal governo: nell’anniversario della rivolta di Tieanmen “venne deciso di promuovere il patriottismo
attraverso altre due commemorazioni: il 4 maggio 1919 e il centocinquantesimo anniversario della guerra dell’Oppio.” Così il tentativo di
commemorare quanto accaduto l’anno prima divenne di fatto “una scusa degli occidentali per continuare a offendere la Cina ed interferire
negli affari interni del paese” (Ben Xu, Chinese Populist Nationalism: its intellectual politics and moral dilemma, in «Representations», n.76,
autunno 2001).
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La Cina raccontata dai cinesi ai cinesi
La Cina guardò all’URSS, a quanto stava avvenendo a Mosca e al rapporto tra ciò che i paesi occidentali dicevano
e facevano. Osservò sia prima che dopo Tienanmen il comportamento di Gorbaciov e dell’Occidente, i passi annunciati, le promesse fatte, il sostegno e gli aiuti ricevuti. Quello che vide fu al tempo stesso terribile e scontato:
terribile perché la distruzione dell’URSS venne attuata - secondo i cinesi – rapidamente e senza dare in cambio
nulla; scontato perché quello che si vide confermò un antico principio della politica estera cinese: il disordine
interno (neiluan 内乱 ) provoca calamità esterne (waihuan, 外患): senza uno stato forte all’interno le frontiere
sono indifendibili. La lezione che i cinesi trassero dalla vicenda dell’URSS e di come riuscì a scomparire in meno
di due anni spostò indietro l’orologio delle relazioni internazionali di almeno venti anni. Interrogati, molti cinesi
risposero che non fu la Cina a cambiare, ma l’Occidente a gettare la maschera: nelle vicende dell’URSS i cinesi
compresero cosa volesse dire, per l’America, l’espressione «diritti umani».
La Cina non restò muta osservatrice della crisi sovietica: cercò anzi - compatibilmente con le sue forze - di
influire su quegli eventi. Stretta tra la necessità di ricucire i rapporti con l’Occidente e di non interferire nelle
questioni interne dell’URSS, tentò quello che le era possibile per dare una mano a Gorbaciov, pur avendo piena
consapevolezza di quanto fosse distante dalle posizioni ideologiche cinesi. Centrale per i cinesi era respingere
l’attacco di Eltsin da una parte e dell’Occidente dall’altra11. Ci fu in quelle giornate, da parte cinese, la consapevolezza che le sorti dell’URSS avrebbero coinvolto molto da vicino anche il futuro della Cina, non solo dal punto
di vista internazionale, ma anche per quanto riguarda l’assetto interno.
Il fallimento di Gorbaciov, la sua estromissione per mano di Eltsin, la disgregazione dell’URSS, mutarono l’orizzonte ideologico dei cinesi, democratici e non: ogni prospettiva politica interna ed internazionale doveva essere
profondamente rivista. Il crollo dell’URSS, ovvero il vedere come l’Occidente si comportò davanti alle difficoltà
sovietiche, anticipò a molti ragazzi cinesi cosa sarebbe successo se in Tienanmen avessero vinto. L’URSS apparve come un gigante che aveva creduto con incredibile ingenuità alle offerte occidentali, fino a illudersi che
democrazia e trasparenza fossero le strade da percorrere per giungere alla modernità. E ancora: lo smembramento dell’URSS non era ancora terminato e già ne cominciò un secondo: quello della Jugoslavia.
“I diritti umani - sosterrà un libretto famosissimo di cui si parlerà tra poco12 - sono l’arma dell’Occidente per
distruggere i propri avversari. Ascoltare l’Occidente nella questione dei diritti umani è la premessa perché nessuno più al mondo abbia diritti umani.”
Nacque in quei giorni, con il crollo di Gorbaciov e delle sue speranze, con l’inizio della guerra di Jugoslavia e con
la contemporanea Guerra del Golfo13, con i suoi macroscopici errori politici, una delusione che non si è ancora
rimarginata e che in questi giorni sta riemergendo con potenza. Una delusione verso l’Occidente maturata nel
peggiore dei modi: cresciuta nell’infatuazione infranta, nel sogno spezzato, nella prova dell’inganno perpetrato.
L’uccisione dell’URSS e poi il suo smembramento - che molti intellettuali cinesi attribuirono all’agire dell’Occidente - fu la riprova in Cina che non esisteva alcuna contrapposizione tra libertà e autoritarismo, tra diritti
umani e compito morale dello stato. Non esisteva Occidente libero da una parte e stati dittatoriali da riformare
dall’altra: nessuno scontro ideologico, nessuna battaglia di principi. Non c’erano da una parte il futuro, la demo-
8
11 Tale è l’opinione di John W.Garver, The Chinese communist party and the collapse of Soviet Communism, in «The China Quarterly»,
n.133, marzo 1993. L’autore fa largo uso di fonti riservate e secretate per dimostrare lo sforzo di Jiang Zemin di fornire una collaborazione anche
economica a Gorbaciov .
12 La Cina può dire No! (Zhongguo keyi shuo bu) vedi più avanti.
13 La Prima Guerra del Golfo, proprio perché si ergeva a difesa dei diritti di una nazione (Kuwait) occupata da un altra (Iraq) venne combattuta
sotto la bandiera dell’Onu e la Cina non si avvalse del diritto di veto.
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crazia, il progresso economico e dall’altra un regime vecchio, chiuso in sé stesso, ecc.
Quanto avvenuto all’URSS confermò invece le analisi del partito: la vocazione all’omicidio delle democrazie
occidentali nei confronti delle altre nazioni. Gli USA avevano usato la democrazia e i diritti umani - ecco dove si
chiude il cerchio, ecco le accuse all’Europa della Commissione e all’amministrazione americana - per dividere,
per spezzare un rivale che ne aveva contrastato con successo il potere. I diritti umani e la democrazia erano stati
il cavallo di Troia attraverso cui gli USA avevano raggiunto l’obiettivo di distruggere l’URSS. Non c’è nessuna
novità, si affermò in Cina in quei giorni: è l’antica tecnica dell’imperialismo e prima ancora del colonialismo.
Quella tentata in Cina, quando le potenze occidentali tentarono di spartirsi il paese.
L’Occidente respinse queste accuse: tra l’azione degli stati coloniali negli anni venti e la fine del comunismo
le differenze sono troppe perché si possano fare paragoni. Il fatto è che queste analogie, giuste o sbagliate che
siano, le videro i cinesi.
È in questo contesto, davanti al crollo di Gorbaciov, che la popolarità di Mao crebbe, a vista d’occhio, in modo
irrefrenabile. I suoi errori furono molti, gravi e dolorosi. Avevano tuttavia il merito di avere salvato l’unità del
paese. In Corea Mao aveva certamente perduto novecentomila uomini contro i cinquantamila americani, ma
aveva resistito in Corea a nemmeno un anno dalla fine della rivoluzione14. Mao divenne per i giovani cinesi
l’anti-Gorbaciov per eccellenza: i suoi sbagli furono terribili, ma comunque cinesi. Non consegnarono il paese
all’Occidente. Mao si misurò col mondo intero - dall’ONU ad ogni altra organizzazione internazionale - e seppe
cosa ci si poteva attendere. Mao non illuse né sé stesso né la nazione sulla bontà degli USA e della loro politica:
seppe stanare e contrastare, anzi sconfiggere l’imperialismo.
Lo sfascio dell’URSS trasformò per contrapasso Mao nel garante dell’unità del paese, del suo riscatto internazionale. Non fu un ritorno al maoismo, ma al Qiangguo meng (強國夢) ovvero al «Sogno di una nazione potente»: unica difesa contro l’aggressività spietata e determinata dell’Occidente.
Da allora lo scenario non solo non è mutato ma anzi. In questi ultimi venti anni è venuto progressivamente
rinforzandosi. Oggi il culto di Mao è ben lungi dall’esaurirsi, e rientrare nelle pagine della storia del passato. La
grandezza della Cina, il sogno di una nazione potente è diventato pilastro della cultura cinese, non di una sola
generazione, o di un leader di un partito in difficoltà.
Non ci si può fidare dell’Occidente
Nella ripresa del dibattito politico interno alla Cina la tragedia russa, le colpe di Gorbaciov, l’azione dell’occidente e il disgregarsi dell’URSS ebbero, dunque, un peso decisivo. Non solo il boicottaggio internazionale, ma gli
stessi eventi russi confermarono - agli occhi dei cinesi - di quale abbraccio mortale erano capaci gli Stati Uniti
e le altre potenze occidentali. Venne individuata una necessità primaria: rinforzare la Cina. Nessuna potenza
occidentale, nessuna battaglia sui diritti umani sarebbe mai riuscita a distruggere la Cina se il paese fosse stato
più forte e più stabile al suo interno. La parola d’ordine divenne così rinforzare il centro sulle periferie, lo stato
sulle amministrazioni locali, il potere del partito su ogni altra forma di rappresentanza. Come è stato felicemen-
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14 Solo pochi anni dopo, nell’ambito del dibattito sulla politica estera americana in relazione a Taiwan, queste le opinioni espresse dal prof.
Chu Shulong (China Institute of Contemporary International Relations CICIR, e docente presso il College of International Relations di Beijing):
«I cinesi ancora considerano la guerra di Corea una vittoria perché una repubblica nata da appena un anno ebbe abbastanza coraggio per
combattere una super-potenza che aveva appena vinto la Seconda guerra mondiale e possedeva armi nucleari. Le forze guidate dagli Stati
Uniti si stavano spingendo al confine cinese e quindi vennero fermate dai cinesi su quella linea. Un rapporto di perdite di 900,000 uomini a
50,000 fu il prezzo che dovette pagare una nazione debole per proteggere sé stessa contro la più grande potenza mondiale.» in National unity,
sovereignity and territorial integration, in «The China Journal» n.36, 1996.
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te sottolineato: “in questa epoca post-Tienanmen, la discussione non riguardò tanto la necessità delle riforme,
ma come fronteggiarle, in che modo.”15
Tra le considerazioni emergenti in quegli anni il dibattito riguardò come riformare senza ostacolare le riforme
che avevano in qualche modo dato inizio alla crescita dell’economia cinese. La politica di delegare il potere e
condividere i benefici (fangquan rangli, 放权让利) aveva messo in moto una forte tendenza centrifuga: l’esperienza russa dimostrava che questa tendenza unita all’agire ostile dell’Occidente avrebbe messo a repentaglio la
sicurezza nazionale, la stessa unità del paese. Timori eccessivi? Diciamo, più che altro, timori cinesi. Le rivolte
- da non enfatizzare ma pur sempre rilevanti del Xinjiang - non lasciavano ben sperare. Il comportamento dei
governi occidentali nei confronti del Tibet era ispirato a grande cautela, ma non quello dell’opinione pubblica
europea e americana che reclamava a gran voce mire indipendentiste così decise che nemmeno il Dalai Lama
osò farle sue. Che non si trattasse di un’eccezione se ne ebbe la riprova nell’afflusso ininterrotto di un turismo
individuale in Tibet con il suo corredo di comunicazione diretta con la gente locale ed il suo diffondere la solidarietà di cui il Tibet godeva in tutto il mondo16. Il carattere indipendentista di questa propaganda risultò ostile al
partito e incomprensibile alla maggior parte dei cinesi. Le ragioni del Tibet sono molte e nobili ma la sintesi che
ne viene fatta in Europa sappiamo essere spesso semplificata in modo inaccettabile. Presentare il Tibet come
paese sovrano fino al 1957 quando venne occupato dai cinesi significa ignorare la complessità di un rapporto
che unì la storia della Cina al Tibet dalla metà del XIII secolo ai giorni nostri. È, più che una forzatura, un falso.
Tanta cattiva propaganda, diffusa senza alcuna decenza dalle guide turistiche incluso la provocatoria Lonely
Planet, andò ad alimentare paure che non avevano bisogno di benzina per incendiarsi.
Per tutto il 1991, mentre lo smantellamento dell’URSS procedeva a ritmo accelerato fino al colpo di mano di Eltsin che estromise Gorbaciov (estate del 1991), queste tendenze si espressero in un dibattito alla luce del sole sulle
riviste di partito o sulle riviste di natura culturale. Muovendo dalla premessa che “le teorie marxiste-leniniste
avevano perso molta della loro capacità di interpretare la società contemporanea e di guidare le masse cinesi”
“onde evitare una tragedia di tipo sovietico la Cina aveva bisogno di adottare un programma neo-conservatore
(xin baoshouzhuyi, 新保守主义) in grado di enfatizzare non tanto lo scontro di classe”17 ma un nuovo ordine, di
armoniosa convivenza tra le classi sociali cinesi, ispirato al Confucianesimo e alla tradizione nazionale.
Alla fine del 1991 venne pubblicato un documento che circolava da settimane con forti critiche sia a Zhao Ziyang
ed ai cosiddetti ‘riformatori radicali’ sia a coloro che non avevano compreso la sfida dei tempi contemporanei e
pensavano di potersi rifugiare in uno sterile mantenimento dello status quo. Nel documento si affermava, tra
l’altro, la fine della vecchia ideologia legata alla rivoluzione e la necessità di rinvigorirla con elementi tratti dalla
millenaria tradizione cinese.
«Ancora più importante è il fatto che si debba accettare in modo realistico che, per lo meno in alcuni settori
della masse popolari, il richiamo esercitato dall’ideologia del passato è declinato, e l’unico risultato che ottiene
questa mobilitazione ideologica di vecchio stampo è sollevare la voglia di ribellarsi. Nel mentre, la specificità
della situazione nazionale del paese e del suo patriottismo riesce a penetrare con facilità nel senso comune.
L’alta e nobile tradizione della cultura cinese - attualmente - è esattamente ciò che può fornire alle masse popolari il segno di valori di riferimento nel campo etico e spirituale.»18
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15 Joseph Fewsmith, Neoconservatism and the end of the Dengist era, in «Asia Survey», vol.35, n.7, Luglio 1995 .
16 Il comportamento del turismo individuale venne individuato come pericoloso per la stabilità della regione e successivamente, alla metà
degli anni ’90, sostanzialmente reso impossibile prima di essere quasi ufficialmente interdetto.
17 Richard Baum, China after Deng: Ten scenarios in search of reality, in «The China quarterly», 145, 1996.
18 Realistic responses and strategic choices for China after the Soviet upheaval, in «Zhongguo qinnian bao», dicembre 1991. Citazione tratta
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Non molto tempo dopo un caso letterario scosse il paese e richiamò l’attenzione degli ambienti politici cinesi.
Un autore ignoto di nome ‘Leninger’, presentato come ‘uno dei più influenti sinologi europei’ pubblicò un testo
dalle tesi politiche decisamente forti in “Guardando la Cina attraverso il terzo occhio” (Disanzhi yanjing kan
Zhongguo, 第三只眼睛看中国)19. Tesi e temi dell’argomentare resero chiaro che dietro una riflessione di tale
spessore doveva esserci l’autorità di un importante esponente del partito. Si vociferò che il leader che aveva
fatto uso dell’espediente - molto tradizionale nelle letteratura cinese - di scrivere sotto falso nome fosse lo stesso
Jiang Zemin o uno dei suoi più stretti collaboratori. Per sgombrare il campo da ogni discussione Wang Shan,
che nella prima edizione figurava come traduttore, denunciò sé stesso come autore e, da allora, il libro gli viene
attribuito.
Il saggio muoveva dalla considerazione che aveva colpito gli stessi autori del saggio “Risposte praticabili e scelte
strategiche per la Cina dopo il sollevamento sovietico” già precedentemente ricordato. Occorreva portare subito
sotto controllo il movimento dei lavoratori disoccupati, divenuti una sorta di mina vagante per la stabilità del
paese. Nella storia della Cina il proliferare degli emigranti senza lavoro (liumin, 流民) aveva condotto alla rovina
numerose dinastie20.
Tuttavia il controllo della popolazione rurale e delle sue difficoltà, attestate da episodi di ribellismo sia nel 1992
che nel 1993, non poteva prescindere da una discussione franca sulla nuova politica del governo. Occorreva
dunque ristabilire l’ordine interno ed il potere centrale dello stato, ma questo non sarebbe mai potuto avvenire
in modo convincente senza “l’adozione del sistema di valori culturali legati al pensiero di Mao Zedong come
fede comune di tutto il corpo sociale”21. Non si trattava di un ritorno al passato ma di combattere con tutte le
armi a disposizione contro l’avvelenamento del paese per opera di principi di utilità economica capitalistica.
Contro la morale del denaro che uccide la società, la priva dei suoi valori fondanti, contro questo tumore che sta
trasformando la società cinese. “Una società senza valori - scrive l’autore del “Guardando la Cina attraverso il
terzo occhio” - è in perenne pericolo22.
Gli fece eco l’economista Yang Fan in un attacco violentissimo al potere corrosivo della logica del mercato, veleno che distrugge la società e la avvilisce uniformandola sui livelli più infimi23.
È noto come nel corso di questo dibattito, a partire dal gennaio del 1992, Deng Xiaoping riprese l’azione politica,
rilanciò le riforme e in un memorabile - per le molte e importanti conseguenze - viaggio nel sud della Cina fece
ripartire un meccanismo economico e una strategia dello stato che sembrava irrimediabilmente inceppata.
I successi di Deng e della crescita economica della Cina sono al tempo stesso evidenti e sotto gli occhi degli
economisti.
Sul piano politico, quello che maggiormente interessa il presente studio, è che ciò che venne chiamato neoda Joseph Fewsmith, Neo-conservatism…, op.cit. p.642.
19 Wang Shan, Disanzhi yanjing kan Zhongguo, Shanxi renmin chubanshe. 1994 - Il testo venne ripubblicato diverse volte a Hong Kong
(Mingbao Press, 3a edizione 1994).
20 In realtà - soprattutto nelle statistiche ufficiali la denominazione limin viene giudicata troppo generica e si preferisce ‘popolazione in
movimento’ (nei testi in lingua inglese floating population, in cinese liudong renkou). Tuttavia nella cosiddetta floating population rientrano
anche gli operai in cerca di lavoro, disoccupati e, genericamente, borderline. Quando i gruppi di ‘popolazione in movimento’ riescono - nonostante
lo stretto controllo della autorità - a conquistarsi una zona di residenza (baraccopoli) allora se ne parla come di ‘comunità esterne al sistema’
(tizhiwai qunluo). Sul tema Cheng Li, Surplus rural laborers and internal migration in China, in «Asian Survey», n.36, 11, 1996. Ricchissimo
di dati il Zhongguo renkou nianjian (Annuario statistico della popolazione cinese).
21 Wang Shan, Disanzhi… op. cit., pp.166, 178 e 221
22 ibidem, p.211-212.
23 Yang Fan, Primo anniversario dell’economia di mercato, (Sichang jingji yizhounian), in «Fazhan yu guanli», Novembre 1993.
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conservativismo, nazionalismo, destra, eccetera si presenta agli occhi della critica come un programma di conservazione dell’unità nazionale in risposta a una temuto o reale pericolo occidentale. Elementi di forte conservazione emersero di fianco a considerazioni così critiche dal punto di vista sociale che da questa costola del
pensiero cinese si tende a fare risalire il formarsi della nuova sinistra sociale cinese.
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Mentre la stampa occidentale di quegli anni indugiava in ritratti della Cina tra l’improbabile e il fantasioso (ricerca del denaro e cinismo, ideologia finita e unico valore il portafoglio pieno), mentre le riviste di moda scrutavano
con occhio apparentemente saputo l’evolversi della femminilità cinese, il finire della moralità rivoluzionaria e
il dilagare di civetteria e cinismo, le notti brave di Pechino e Shanghai… mentre le rubriche televisive si riempivano di piccanti notizie sulle disincantate ragazzine di Pechino e lo spettro ormai vicino di Pechino e Shanghai
nuove Bangkok, la Cina stava preparando una svolta ideologica che avrebbe segnato il decennio successivo e le
cui conseguenze - lungi dall’essersi manifestate pienamente - sono il grande interrogativo del futuro.
Il crollo russo spianò la strada al compattarsi di correnti che già negli anni precedenti avevano acquisito una
certa vitalità: la critica all’occidente divenne aggressiva, sembrò talora acquisire caratteri nazionalistici, ospitò al
proprio interno un più complesso schieramento sociale che si coagulò intorno alla comune convinzione che l’ingresso della Cina nella modernità non sarebbe avvenuto a rimorchio dell’Occidente e delle sue idee: era giunto
il momento per la Cina di dire “No!”.
Ancora una volta, come era già accaduto in molte altre occasioni nel corso della storia - contrariamente alla
convinzione diffusa che tutto quello che riguarda Cina sia solo cinese - la Cina precedette ed anticipò una rivolta
culturale che solamente tre anni dopo sarebbe esplosa, sostanzialmente identica, da Seattle a tutto il mondo. Rivendicando il diritto di progredire ed entrare nella modernità senza che questo volesse dire diventare americani
e ‘parodie dell’Oriente’ (Bangkok) la Cina mosse un primo passo in una direzione verso cui stavano marciando
molti altri schieramenti sociali e politici, di tutto il mondo.
La Cina può dire ‘No’!
In questo progressivo sfaldamento della popolarità occidentale in Cina probabilmente non è errato indicare
un turning point: un momento in cui tutto, di colpo, cambiò. La storia regala con grande parsimonia momenti
decisivi: nessun evento lo è mai, completamente. Eppure nella percezione dell’Europa e degli Stati Uniti in Cina
c’è una data - dolorosa - che nessun cinese dimenticherà mai. Una notte del settembre del 1993.
Il Comitato Olimpico Internazionale doveva deliberare quella notte a quale città sarebbero state assegnate le
olimpiadi del 2000. Le strade di Pechino era imbandierate: quasi ovunque svettavano scritte bilingue “Una
Cina più aperta attende le Olimpiadi del 2000”, “Una chance per la Cina, un onore per Pechino”.
Negli alberghi il personale si avvicinava agli occidentali sorridendo e abbandonando una naturale riservatezza:
“Questa è la grande notte!” veniva ripetuto a ogni istante. Qualche occidentale si univa ai festeggiamenti, ma
altri, più esperti, abbassavano lo sguardo, evitavano di commentare, “Questa è la grande notte!”.
C’era nelle strade un eccesso di illuminazione che faceva presagire i preparativi di una grande festa. In piazza
Tienanmen soldati scaricavano da camion delle transenne, come se fosse attesa una folla immensa. Un rumore
eccitato in tutta la città, avvertito da tutti: dall’occidentale nell’hall dell’albergo all’anziano ciclista. «Questa è la
grande notte!».
Da dove traevano tanto sicurezza i cinesi? Come potevano essere sicuri di un evento così delicato e in bilico
fino all’ultimo? C’era stato sulla stampa internazionale un susseguirsi di dichiarazioni volutamente ambigue:
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il confine tra la legittimità della richiesta cinese di ospitare i giochi olimpici e la certezza che sarebbero stati assegnati alla Cina non era affatto nitido, anzi. Solo gli osservatori occidentali residenti a Pechino si mostravano
molto freddi: Tienanmen era troppo vicina, era impossibile fare finta di nulla. Ma ai pochi che parlavano i cinesi
rispondevano “Tienanmen è lontana, non quattro ma quattro volte quattrocento anni”. Così in una montante
euforia cinese e in silenzi occidentali sempre più profondi iniziò la serata decisiva, la “grande notte”.
Poi di colpo senza che nessuno dicesse niente o bisbigliasse una parola - antica magia di Pechino, città dove
nulla si vede ma tutto si sa in baleno - scese un silenzio irreale. La voce delle annunciatrici alle televisioni cominciò a ripetere la parola “xīní” (Sydney, 悉尼): nella calda notte settembrina di Pechino rimase il suono delle
televisioni dalle finestre aperte.
A poco a poco le luci in strada si spensero. Qualche cameriere si affrettò a portare via i fiori rossi portati in precedenza sul tavolo a preparazione dei festeggiamenti. A mezzanotte Pechino giaceva sotto un silenzio impossibile:
alle prime luci dell’alba, prima che il traffico si mettesse in moto scomparvero gli striscioni, se non altro quelli
più esposti, sulla strada dell’aeroporto.
Tre anni dopo quelle giornate due autori balzati d’improvviso agli onori della cronaca internazionale - Zhang
Xiaobo e Song Qiang confessarono, in un’intervista al New York Times24, che quella sera di settembre aveva pesato moltissimo nella decisione di rompere gli indugi e scrivere quello che sarebbe diventato in poche settimane
uno dei più popolari best seller dell’anti-occidentalismo cinese La Cina può dire no (Zhongguo keji shuobu, 中
国可以说不)25.
Conviene soffermarsi un istante sull’ultima sezione del libro, la dove gli autori raccontano come e perché il testo
nacque:
«Il moto del Cielo è costante; il gentiluomo (junzi, termine confuciano) lotta costantemente per il proprio perfezionamento. Dopo aver risposto alle sollecitazioni degli amici per la pubblicazione, ancora non avevo messo mano alla penna. Non mi sentivo rilassato. La scadenza per la consegna è ormai vicina: posso solo sedere
alla luce della lampada, e stendere i fogli. Questa è la prima volta che io mi esprimo su una cosa che è estranea
alla letteratura. Quegli scritti in forma di note che oggi vengon fuori, sono tuttavia il risultato della decisione
del voto su chi avrebbe avuto il diritto di ospitare le Olimpiadi, effettuata dal Comitato Olimpico Internazionale nell’autunno del 1993. L’esito del voto non fu una buona notizia per i Cinesi. Quella sera d’autunno, io così
sentii acutamente il sapore dell’essere un Cinese. L’aria sopra Pechino si era solidificata. Vedevo una miriade
di luci insonni, che come un tempo luccicavano alle finestre dello spirito nazionale. Ma vidi anche un’altra
torcia sacra, ancor più luminosa. Che qualcuno fosse in grado di estinguerla, era impossibile: una splendente
civiltà di cinquemila anni sulle torri di avvistamento della Grande Muraglia mostrava un titolo ancora più
solenne. I Cinesi accettarono la decisione del Comitato Olimpico. Questo non era uguale all’accettare le deprecabili intenzioni di alcuni paesi occidentali, che hanno usato i mezzi dello sport per provare a indebolire
il “caso Cina” in ambito politico ed economico. Lo spirito olimpico era stato tradito. L’occasione di un ampio
scambio fra Pechino e il mondo era stata uccisa. Il trucco di politicizzare lo sport non era per niente un bello
spettacolo. Alla fine, compresi le vere implicazioni delle sanzioni economiche contro la Cina da parte dell’Occidente, con gli USA come suoi rappresentanti. Essi sapevano cos’è il voto; ma non sapevano cos’è il rinculo.
24 Beijing Journal;Rebels’ New Cause: A Book for Yankee Bashing, in «The New York Times», 4 settembre 1996.
25 Song Qiang, Zhang Zangzang, Zhang Zanzang, Qiao Ben, Gu Qingsheng e Tang Zhengyu Zhongguo keyi shuo bu, Beijing, Zhonghua
gongshang lianhe chubanshe, 1996
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I Cinesi, gli intellettuali cinesi di una generazione ancora più giovane - tra i quali ci sono gli intellettuali che
avevano illusioni sulla democrazia occidentale - furono improvvisamente colpiti su una spalla. La replica fu
legittima. La via dell’apertura alle riforme non può essere uniforme; la strada e l’obiettivo scelti dai Cinesi
possono essere soltanto da noi stessi percorsi, lottando e realizzandole. Non c’è mai stato nessun salvatore.
Perse le illusioni, camminavo verso lo studio; tornando al mio studio, continuavo a riflettere: non si può sfuggire alla realtà, il passo della realtà giunge più veloce, è spesso così. Per ciò che mi riguarda, sono un Cinese, e
orgoglioso [di esserlo].Questo orgoglio non può essere modificato dall’esito di un qualsiasi voto. La pazienza e
la tolleranza dei Cinesi, intese come tradizione nazionale dell’etichetta, nell’andare incontro a un trattamento
irrispettoso, possono mostrare un altro volto: “Xing Tian sta combattendo con scudo e ascia, la sua forza di
volontà continua a esprimersi. La danza che imita il Cielo coinvolge i familiari, una determinazione coraggiosa sussiste in eterno”. Dalla Guerra dell’Oppio in poi, la forza della giustizia protegge la Cina. Ho imparato
molte cose dal mio destino, dalle mie vicissitudini e sofferenze individuali. Le cose che ho imparato dalla storia
della nazione cinese mi hanno incoraggiato ancora di più. Senza persone con autostima nazionale, cosa resta
all’individuo? Come membro di una delle 56 nazionalità cinesi dal comune destino, lavoro e vivo a Pechino.
Mi commuovono profondamente le risonanti foglie dei bianchi pioppi, dalla loro nascita ombrosa fino al loro
ondeggiante cadere. Mi donano ricordi, e anche speranze. “Il moto del Cielo è costante; il gentiluomo lotta
costantemente per il proprio perfezionamento”. Questa frase dello “Yijing”, è come la frase dell’antica Grecia
“Conosci te stesso”. Ancora oggi, ci incita a dire tutto. Il fumo della Guerra Fredda non si è ancora disperso.
Gli USA hanno lanciato il segnale di una nuova Guerra Fredda. Tranne gli USA e i loro seguaci, nessuno
pensa che questo segnale possa illuminare il futuro del mondo.Il 23 aprile, un altro piano rivolto contro la
Cina è stato sconfitto. La “Bozza di risoluzione sulla situazione dei diritti umani in Cina”, lanciata dagli USA e
dall’Unione Europea, è abortita. Notizie giunte da Ginevra ancora una volta mostrano che giustizia e verità
trionfano sui complotti della politica di potenza. Considerare i diritti umani come uno strumento politico è
sempre stato ritenuto conveniente dagli USA: essi continueranno a farlo. Il metodo bigotto e arrogante degli
USA potrà soltanto danneggiare i loro stessi interessi. Un buon modo per contrastare gli USA è, primo avvertirli cortesemente, secondo fargli compagnia. Essere silenti e ritirati non è di aiuto alla comprensione e al
giudizio degli USA verso le grandi tendenze mondiali. Alla fine, desidero adottare una metafora che amo per
concludere le mie parole: sappiamo che un leone è più forte di un domatore, ma anche il domatore lo sa. Il
problema è, che un leone non lo sa affatto. Se un leone si risvegliasse, mentre un domatore è ancora immerso
nel proprio ruolo, quale sarebbe il risultato ?» 26
Una reazione spropositata? probabilmente sì: in ogni caso una reazione su cui confluirono molti altri fattori
che hanno poco a che vedere con problematiche olimpiche. Tuttavia è impossibile non notare che nell’occasione di quella scelta che penalizzò Pechino e decretò la vittoria di Sidney vennero realizzati macroscopici errori
diplomatici. In un paese in cui «non perdere la faccia» è un valore assoluto le competizioni non sono mai tali.
Si risparmia allo sconfitto l’umiliazione di perdere invitandolo a recedere, prima che la sconfitta divenga tale. I
dibattiti interni allo stesso PCC sono, da questo punto di vista, illuminanti. In tutta la sua vita Zhou Enlai ebbe
modo più di una volta di invocare la necessità di abolire questo ‘vizio feudale’: sfidarsi per una nomina o discutere da due posizioni diverse non voleva dire ‘perdere la faccia’ o farla perdere a qualcun altro, ma fare avanzare
il dibattito27. La Cina dunque che entrò nella rosa finale per la nomina olimpica dette per acquisito che le sarebbe
14
26 Zhongguo keyi shuo bu, op.cit.
27 Una buona serie di episodi di questa natura sono narrati da Dick Wilson, Zhou Enlai. A Biography, New York, Viking,
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stata risparmiata la sconfitta ‘umiliante’ davanti a tutti: se non le era stato suggerito di ritirarsi fu perché si stava
preparando – evidentemente – la vittoria. La non assegnazione olimpica fu un dispiacere, ma il come giunse quando si era certi di averla ormai conseguita – venne vissuta in tutto il paese come una offesa, grave e gratuita.
In ogni caso umiliante.
A poche settimane dalla sconfitta di Pechino nell’assegnazione dei giochi olimpici, mentre Song Qiang e i suoi
amici stanno scrivendo La Cina può dire No! un secondo evento contribuì ad alimentare la crescente ostilità
anti-occidentale. Curiosamente nemmeno della gravità di questo secondo episodio l’Occidente ha mai avuto
percezione nitida: esso è anzi circondato da un silenzio così profondo che pare non sia mai avvenuto, sia stato
un parto della fantasia.
A nemmeno cinque anni dal boicottaggio politico ed economico introdotto come risposta politica alla strage di
Tienanmen il mondo occidentale assistette, praticamente senza interferire, al colpo di stato di Eltsin (ottobre
1993). Le stime ufficiali parlarono di circa duecento morti e di quasi duemila feriti: come per Tienanmen il bilancio ufficiale non è mai stato reso noto, ma l’opposizione russa parlò di quasi duemila morti e circa diecimila
feriti. Le differenze in termini di vittime rispetto al massacro di Tienanmen (ammesso che la contabilità dei
morti muti il segno di un evento) furono, come si noterà, scarse: furono invece sostanziali quelle di natura
istituzionale. Eltsin non usò i carri armati e i cannoni per reprimere una manifestazione di piazza che andava
trascinandosi ininterrottamente da quasi quattro mesi, ma usò i cannoni contro i membri di un parlamento
regolarmente eletto.
Dove erano i difensori dei diritti umani, i solerti filosofi della libertà occidentale, dove la stampa democratica e
libera dell’Occidente mentre Eltsin prendeva a cannonate un parlamento regolarmente eletto dal popolo? Per
le illusioni cinesi sulla democrazia, sull’Occidente, sull’uguaglianza di tutti i popoli davanti agli organismi internazionali fu un colpo durissimo:
«Fu nell’ottobre del 1993 che il presidente russo Boris Eltsin ordinò a gruppi armati di attaccare e sopprimere
il parlamento eletto legalmente. Questa violenta azione anti-costituzionale presa in nome di una opposizione
a membri comunisti del precedente governo non solo rivelò la natura della crisi russa - ed in particolare la
‘spontaneità di quel processo di privatizzazione’ che era stato intrapreso con l’aiuto degli Stati Uniti e degli
stati occidentali - ma rese anche esplicite le evidenti contraddizioni della politica americana riguardo alla
democrazia e ai diritti umani, così come l’evidente emergere di uno spirito anti-democratico e di esclusivo
calcolo dei propri interessi. Ci fu dunque un’evidente contraddizione tra il sostegno dato dall’America alla
violenza di Eltsin e la condanna della Cina per le violenze del 1989… tutto ciò diede agli eventi dell’ottobre del
1993 in Russia un significato particolarmente profondo, soprattutto per coloro che avevano un’idealistica
visione dell’Occidente, per quelli che pensavano per davvero che la storia si fosse conclusa, e per quelli che
consideravamo la Guerra Fredda un ricordo del passato.» 28
Il sorgere di un nazionalismo così forte, ovvero il palesarsi di una ostilità tanto decisa nei confronti dell’Occidente sia in ambito popolare che in quello accademico, colse di sorpresa molti importanti osservatori: unito
alla contemporanea pubblicazione in cinese di importanti contributi internazionali contribuì a tracciare nuovi
contorni ideologici e culturali29. Naturalmente nessuno di coloro che studiavano il paese da anni era caduto
15
1984.
28 Wang Hui, China.., op.cit.p.86
29 È’ di questi anni la traduzione in cinese del saggio di Samuel Huntington The clash of civilizations? (in italiano Lo scontro delle civiltà e il
nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997) e quello di Edward W. Said, Orientalismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.
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nella trappola che la Cina riservava ai corrispondenti appena giunti a Pechino. Costoro, circondati da amore
superficiale e ostentato per l’Occidente, da anni ormai - come si è veduto - alimentavano una letteratura leggera
e senza pretese di una Cina più Occidente dell’Occidente. Tenuta lontana dalla democrazia (cui sarebbe certamente approdata in poco tempo) dalla gerontocrazia comunista.
Per molti altri, meno inclini alla velocità di certe analisi, forti di una tradizione anche accademica formatasi nelle
università americane e inglesi e nei think tank, la repentina comparsa - esplosione sarebbe forse la parola giusta
- del nazionalismo cinese fu un problema: un nuovo orizzonte da inquadrare al più presto. Divenne importante
capire quali fossero in contorni di questa opposizione all’Occidente che aveva una lunga tradizione nella storia
cinese ma che era apparentemente scomparsa con il 1949. Non era stata riconosciuta eccessiva importanza a
questa particolare componente della rivoluzione culturale. Ne era stato evidenziato l’aspetto folclorico, in ogni
caso ampiamente contraddittorio. Il ricomparire nel 1993 di un nazionalismo - sempre che fosse tale - allargò lo
spettro della crisi: da una parte occorreva forse estendere l’analisi alle epoche pregresse, dall’altra comprendere
cosa stava avvenendo nel presente.
L’anti-occidentalismo che emergeva con così chiara evidenza chiudeva in modo definitivo l’esperienza del 1989?
Ci si domandò se fosse spontaneo o gestito dal partito: restano negli archivi una serie di interviste che non aggiungono nulla su Song Qiang, ma che documentano in modo importante l’incredulità di un occidente che fino
a quel momento si era sentito sicuro, certo del risveglio democratico cinese e della sua natura filo-occidentale.
« “Se non c’è dietro il partito che cosa vi ha spinto a scrivere questo libro?” “I giovani della mia generazione
pensano che la Cina abbia detto di sì troppo a lungo alla cultura, all’ideologia, al sistema di valori americani.
Ora noi vogliamo dire basta a questo genere di mentalità e di falsità”. “Dunque a cosa volete dire “SI”? Devo
chiederlo tre volte prima che lui interrompa la sua tiritera anti-occidentale per dire “Nei valori tradizionali”
insegnati dal Confucianesimo e dal Taoismo. E quali sarebbero questi valori? “Sottomissione e obbedienza” mi
ha risposto.»30.
Non soltanto Steven Mufson, il corrispondente del Washington Post da Pechino, è disorientato: nonostante sia
stato uno dei più acuti osservatori della Cina non riesce a nascondere la sorpresa: a spiegarsi come sia potuto
succedere, in così poco tempo, di passare dalle manifestazioni in piazza Tienanmen intorno a una Statua della
libertà in polistirolo a un anti-americanismo così confuso, ma istintivo, duro. Pregiudiziale.
«Quando eravamo all’università, tutti noi ammiravamo la cultura americana e tutto quanto proveniva
dall’America. Ora che siamo più vecchi abbiamo compreso che non dobbiamo voltare le spalle alla nostra
nazione. … Gli Americani sono ingenui, loro pensano che tutta la gioventù cinese sia filo-occidentale e li ammiri. Noi vogliamo che gli Americani, gli inglesi e gli altri occidentali capiscano che cosa i giovani della Cina
pensano per davvero. (…)»31
I contenuti de La Cina può dire no! sono contradditori, pasticciati, talora grossolani, sostanzialmente privi di
una coerenza politica. Questo non toglie che siano molto seri e che non possano essere ignorati. Gli Stati Uniti ora vengono accusati di intromissioni continue negli affari interni degli altri paesi, ora di isolazionismo. La
politica estera americana è immorale, si afferma: i due pesi e le due misure per Cina e Russia sono metafora di
due pesi e due misure a seconda degli interessi USA. In contrasto con l’immoralità americana la politica estera
cinese - si sostiene - dovrebbe ispirarsi alla superiorità dei principi morali. Poi, nel volgere di poche pagine, si
16
30 China’s Shaky Grip; A Nation of Contradictions Gropes for an Identity, in «The Washington Post», 17 novembre 1996.
31 Young China bashes US ‘The Chinese race is at a most crucial moment and we should stand up and build a new Great Wall with our own
flesh and blood’ Chinese national anthem, in «The Guardian», 15 luglio 1996.
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afferma il contrario: dobbiamo fare come gli occidentali, rispondere con la guerra alla guerra; perché mai la politica estera cinese dovrebbe essere decisa dal bisogno di una nuova moralità? L’unica cosa che conta veramente
è vendere prodotti cinesi e boicottare quelli prodotti all’estero, il resto non conta nulla.
La violenza degli autori non si esaurisce negli attacchi agli Stati Uniti: ancora peggio è trattato il Giappone. Celebrato l’omaggio a Sun Yat-sen e alla sua definizione del Giappone come fratello minore della Cina, gli autori
negano ogni moralità storica all’intervento del Giappone nelle vicende del Pacifico, ogni natura umana al loro
comportamento “se vuoi trattare con gli uomini - si osserva parodiando un antico detto - guarda gli uomini, ma
se devi trattare con le bestie devi essere bestiale.”
Più che una riflessione le considerazioni espresse in La Cina può dire No! possono essere paragonate a un grido
di rabbia: contro la sudditanza nei confronti degli USA, contro un Occidente ostile e geloso del proprio essere
avanguardia, contro l’arroganza di chi va in Cina e pontifica o ridicolizza la cultura cinese definendola morta per
sempre. A tutto questo la Cina deve imparare a rispondere, una volta per tutte, “No!”.
Una rapida occhiata all’indice dà la misura delle riflessioni che il libro contiene. Scegliendo i capitoli più significativi si va dalla premessa Come ha potuto diffondersi la piaga della mentalità americana al capitolo Per
noi è molto facile convertirci in schiavi, dopo di che ne siamo anche felici. Per non dimenticare, tra i tanti che
è possibile citare, La diplomazia USA non è onesta e non ha senso di responsabilità, Bruciare Hollywood, Il
risultato finale della lotta per i diritti umani è il consentire la perdita dei diritti umani, ecc.
Non sorprende che la Cina - anche in aree molto vaste della popolazione urbana e (soprattutto?) rurale - abbia
reagito con violenza all’invasione della modernizzazione che, come si è veduto, viene talora confusa e sovrapposta all’occidentalizzazione.
Il disagio provocato dalla riduzione o sospensione di alcuni aspetti dello stato sociale (in particolare sanità e
istruzione) si sommava in quegli anni alla protesta per molti importanti centri manifatturieri chiusi perché in
passivo o obsoleti, e all’esasperazione contadina per un progresso accelerato che puntava tutto su un numero
limitato di centri della costa orientale abbandonando la Cina centrale e le regioni più povere. Quando nel 1996
comparve il libro La Cina può dire no! la protesta era già diventata opposizione talora xenofoba contro l’Occidente, contro la modernizzazione a tutti i costi, contro la distruzione degli spazi fisici e culturali di una tradizione
per lasciare posto a un progresso di cui si faticava a intuire i vantaggi mentre si misuravano - con immediatezza
- i problemi32.
In altri termini la Cina del 1996 - con la sua tiratura di centinaia di migliaia di copie de La Cina può dire no! - era
già un paese in cui una componente di esasperazione e disagio sociale era confluita in un contenitore di antioccidentalismo e anti-americanismo. Qualche anno dopo, in un pur bel saggio, Yongnian Zheng parlerà di “xenofobia come carattere distintivo del nuovo nazionalismo”33 compiendo lui stesso una sovrapposizione dei due
termini non convincente e, comunque, mai così diretta. L’avversione cinese agli stranieri precede di gran lunga
non solo la formazione della nazione cinese, ma anche qualunque idea di nazione e di nazionalismo. Sommare
le due cose - xenofobia e nazionalismo - non è possibile senza gravi distorsioni.
32 In un testo di non molto successivo ma contemporaneo come stesura (Qian Ning, Chinese students entounter America, Seattle, University
of Washington Press, 2002) l’autore racconta come gli Stati Uniti sono veduti dagli studenti cinesi. Sebbene l’autore sia stato giornalista del
People’s Daily ed abbia un atteggiamento nel complesso costruttivo dalla sua indagine emerge ugualmente il forte risentimento nei confronti
di un paese segnato da un provincialismo che li induce a credere: “…che il modello di vita americano debba servire da modello a tutti gli
altri popoli… dopo il fallimento del Vietnam gli americani hanno avuto la possibilità di ripensare a queste loro convinzioni. Purtroppo, queste
riflessioni non sono andate troppo in profondità”, Qian Ning, op.cit. pag.139.
33 Yongnian Zheng, Discovering Chinese nationalism in China - Modernization, identity and international relations, Cambridge, Cambridge
University Press, 1999; pag. 47 e successive.
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Tuttavia è vero che ne La Cina può dire No! la componente rabbiosa e schematica, antioccidentale è centrale.
Le affermazioni politiche sono avventate e superficiali, denotano inoltre una scarsa conoscenza dello scenario
internazionale: l’alleanza in funzione anti-occidentale tra Iran, Russia e Cina lascia, in quel 1996, quasi divertiti.
Recensendo il libro il China Journal, legato a uno dei più qualificati centri studi sulla politica contemporanea cinese34 dirà qualche mese più tardi: “L’esperienza di leggere La Cina può dire No! lascia il lettore - per citare una
frase di Lin Yutang - “tra le lacrime e il sorriso” - sorriso per il tono del testo, lacrime per la sua sostanza.”35.
Tuttavia quello che sorprende ieri - e richiede di essere maneggiato con estrema cura quest’oggi in termini politici - è l’esplosivo e irrazionale anti-occidentalismo, un vero e proprio livore che trasuda dal nulla. Come se si sia
venuto depositando per molti anni e solo ora abbia la forza di emergere.
«Come si possono permettere gli stranieri di prendere in giro come noi usiamo coltello e forchetta a tavola
quando loro non sono in grado di tenere in mano i bastoncini? Forse che il coltello e la forchetta occidentali
sono meglio dei bastoncini cinesi?Andate a farvi fottere!”36
Alle richieste USA e internazionali di dichiarare guerra alle copie abusive di CD, DVD, e marchi di qualità del
tessile la risposta degli autori de La Cina può dire No! non è priva di ambizioni: prima gli occidentali paghino
i diritti sulla carta, la bussola e la polvere da sparo e poi ne riparliamo37. L’America sta dirigendo un complotto
internazionale contro la Cina, è dietro il formarsi di una lobby anticinese di cui fanno parte il Giappone e il
Vietnam38. Hollywood sta promuovendo un’invasione culturale che ha il compito di minare i valori delle altre
culture e promuovere la pornografia, la violenza e l’individualismo: le tre armi che l’Occidente usa per piegare la
forza interiore delle culture che non intendono sottomettersi.39 Alla domanda se il pubblico cinese sia d’accordo
con le sue considerazioni Song Qiang risponde: “Molti pensano che avrei dovuto intitolarlo in maniera diversa:
non La Cina può dire No! La Cina deve dire No!”40.
La Cina può dire No! ebbe un clamoroso successo commerciale, i dati delle vendite confermarono l’eccezionale
gradimento del libro. Sul web comparvero sequel così numerosi che nel linguaggio politico il titolo China can
say No diventò un genere: i libri China can say no . In una sorta di palestra creativa cui concorsero sia gli autori
del primo testo che un’infinità di altri - generalmente studenti - le versioni di La Cina può dire No! divennero
sempre più numerose e ricche: gli autori del testo originario ne produssero un secondo ugualmente fortunato
La Cina può ancora dire No! (Zhuongguo hai neng shuo bu41). Si dice - e, certo, dietro ogni “si dice” il confine
tra leggenda e realtà è sempre troppo poco definito - che del solo primo libro siano state stampate e vendute in
poche ore ottocentomila copie42, in particolare tra la popolazione studentesca delle università delle grandi città.
34 Contemporary China Center, Australian National University.
35 Peter Gries, China can say no. Studying in USA.; China can still say no, in «The China Journal», n.37 (gennaio 1997).
36 Chinese Say `Yes’ to `China Can Say No’. Hot-Selling Manifesto Demands Mainland’s Autonomy From the U.S, in «Asian Wall Street
Journal», 25 giugno 1996.
37 Young China bashes … «The Guardian», 15 luglio 1996, cit..
38 Chinese Say ` … in «Asian Wall Street Journal», 25 giugno 1996, cit..
39 ibidem.
40 Young China bashes … «The Guardian», 15 luglio 1996, cit..
41 Song Qiang, Zhang Zanzang, Qiao Ben, Gu Qingsheng e Tang Zhengyu Zhongguo hai neng shuo bu, Beijing, Zhongguo wenlian chubanshe,
1996.
42 « Paru en 1996, ce pamphlet simpliste fustige l’hégémonie politique, culturelle et économique du supergrand. Récusant les leçons de
morale à propos des droits de l’homme, l’ouvrage flatte le nationalisme ombrageux des enfants de Deng : 800 000 exemplaires vendus en
quelques mois. La grandeur de la Chine, passée, présente ou future, reste la meilleure recette du succès.», in «Le Nouvel Observateur», 27
febbraio 1997.
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I numeri sono tuttavia assai poco indicativi: dopo poche settimane il testo originale era disponibile per il download in rete: impossibile quantificare quante persone lo scaricarono.
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Tra le molte considerazioni legate al successo di Song Qiang e del gruppo di collaboratori che produssero La
Cina può dire No! ce ne sono alcune di non secondaria importanza, legate all’esperienza condotta all’estero
dagli studenti cinesi e dal senso di frustrazione maturato in Europa che confluì in odio anti-occidentale e in una
forma di accentuato nazionalismo.
Nell’ondata di nazionalismo che attraversa la Cina per tutti gli anni novanta, non soltanto nel gruppetto di autori de La Cina può dire No!, si registrò l’apporto decisivo di studenti o letterati che avevano studiato all’estero
(America o Europa) che al ritorno in Cina trasferirono in riflessione intellettuale quello che avevano sperimentato in prima persona nei campus universitari. Non sembri eccessivo sottolineare come il senso di alienazione
ed estraneità provato nelle università, il rinchiudersi tra studenti cinesi fino al disimparare l’inglese in Inghilterra, ebbe un suo corrispettivo sul piano intellettuale. Il contributo più importante nella nuova corrente di
nazionalismo cinese degli anni ’90 provenne da persone che al di à del proprio percorso intellettuale, avevano
sperimentato in prima persona la distanza esistente tra Occidente e Cina.
Probabilmente i più famosi furono Hu Angang e Wang Shaoguang, con una lunga esperienza di studio e di
insegnamento alla Yale University . Nel loro A Report on China’s State capacity43 teorizzarono la necessità per
i paesi in via di sviluppo di adottare una forte concentrazione del potere in mano allo stato in modo di potere
esercitare un ferreo controllo soprattutto sul piano finanziario ed economico. Certamente gli autori avevano
davanti agli occhi la crisi di liquidità del centro cinese alla fine degli anni ’80 e il provincializzarsi delle scelte strategiche più importanti per lo sviluppo cinese. Altri sostennero - come si è veduto - questa necessità, ma nessuno
seppe farlo meglio di Hu e Wang che a Yale avevano avuto modo di studiare le vie della nascita del capitalismo
ed il ruolo che in esse non aveva avuto lo stato.
Una maggiore attenzione verso i media maturata nell’esperienza di studi all’estero portò molti intellettuali cinesi a sostenere che “il predominio della cultura occidentale negli scambi culturali internazionali stava danneggiando la cultura delle nazioni in via di sviluppo come la Cina”44. Questi intellettuali “utilizzarono gli strumenti
critici di cui si erano impadroniti in Occidente come il post-colonialismo, il post-modernismo, il post-marxismo
e l’orientalismo, per attaccare la cultura occidentale”45.
Tuttavia ben poco fu così impressionante come il successo della rivista Zhanlüe yu guanli (Strategie e Management, 战略与管理), fondata nel 1993 dalla Società di studi in strategie e management diventata il cuore dei
cosiddetti neo-conservatori e promotrice di due meeting di ampio respiro sul nazionalismo cinese tra il 1994 e
il 1995. A questa ondata non rimasero estranei le riviste liberal Oriente (Dongfang, 东方) e Letture (Dushu, 读
书).
E fu sempre in ambito di intellettuali un tempo affascinanti dall’Occidente e dalla sua cultura che si svilupparono le correnti di pensiero fieramente anti-occidentali: ‘Critica del post-colonialismo’ (Hou zhimin wenhua
piping, 后殖民文化批评) e ‘Nuova sinistra’ (xin zuopai, 新左派).
Sebbene nessuna delle due raggiunse l’aggressività di quella inaugurata dall’economista Sheng Hong che nel
1994, sempre nelle pagine della rivista Zhanlüe yu guanli, lanciò un attacco durissimo alla cultura occidentale.
43 Hu Angang e Wang Shaoguang, Zhongguo guojia nengli baogao (A report on China’s State capacity), Shenyang, Liaoning ren min chu
ban she, 1993.
44 Suisheng Zhao, Quest for National… , op.cit. p.735
45 ibidem.
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Secondo Sheng la cultura occidentale ha ormai esaurito ogni funzione propulsiva e sta conducendo l’umanità
verso una stasi che degenererà in catastrofe. Il morbo che infetta la cultura occidentale e la rende pericolosa per
il mondo intero è l’esistenza di un doppio binario, tanto preciso quanto inconfessato. Da una parte si proclamano le virtù della democrazia, dei diritti umani, della libertà di espressione. Dall’altra si impongono a tutto il
mondo le concezioni scientifiche e culturali legate al darwinismo che sono solo un tassello, nemmeno l’ultimo,
della storia della cultura dell’umanità46.
Riflettendo sul sorgere di un movimento anti-occidentale di questa forza il letterato cinese Xiao Gongqin - che
anche per queste posizioni acquistò una riconosciuta credibilità anche nel ristretto cerchio dei corrispondenti esteri da Pechino - sottolineò ancora una volta il lungo percorso di umiliazioni subite dagli studenti cinesi
all’estero, il ruolo che aveva avuto nel sorgere di una simile animosità l’accorgersi dei forti risentimenti anticinesi presenti in Europa e negli Stati Uniti, la teoria dei complotti orditi dal dipartimento di stato USA contro
la Cina non tutti dei quali risultarono essere fantasiose ‘bufale’. L’idea del nazionalismo cinese come reazione
a stimoli negativi (buliang ciji, 不良刺激) da un lato ne riduce la pericolosità, ma dall’altro enfatizza le pesanti
responsabilità culturali e politiche di una società occidentale che non ha ancora imparato a gestire la presenza
intellettuale cinese.
Errori piccoli, errori anche modesti, talora, si convertono in ferite che diventa duro rimarginare. L’assenza di
un trattamento dignitoso per gli ospiti che vengono dall’estero, in primo luogo; la sostanziale mancanza di rispetto per i loro studi o ignorati tout-court o semplicemente non letti. Nulla, tuttavia, colpisce maggiormente
delle pagine del libro già ricordato di Qian Ning47, là dove l’autore spiega che il crescere del nazionalismo degli
intellettuali cinesi fu direttamente proporzionale alla loro conoscenza dell’inglese: più furono in grado di leggere
e avvicinare la cultura occidentale più si sentirono respinti verso una scelta di solidale e cinese nazionalismo.
Sul piano internazionale gli eventi del 1993 - 1996, culminati nel boom letterario de La Cina può dire No! combinandosi con l’imminente scomparsa dalla scena politica del Grande riformatore, Deng Xiaoping, sollecitarono riflessioni molto importanti sulla natura del nazionalismo cinese, le sue costanti storiche e le principali
contraddizioni interne. Ne emerse un forte salto in avanti nella conoscenza delle ragioni interne della politica
cinese che tuttavia non venne percepito in modo omogeneo dalla stampa internazionale.
Probabilmente non è errato dire che le vie dell’accademia e quelle del giornalismo - fino ad allora così intrecciate da non potere essere distinte l’una dall’altra - si avviarono in quegli anni su strade divergenti. Non poteva
essere diversamente: proprio l’irrompere delle folle cinesi e degli intellettuali in Tienanmen e nel dibattito degli
anni successivi indicò che era finita la stagione di un certo giornalismo romantico e naïf, talora geniale, talora
commosso, ma comunque succube degli interpreti di stato e delle veline in inglese predisposte per i corrispondenti esteri. Gli uomini che avevano dato vita alle grandi discussioni di piazza Tienanmen e che sull’altare di un
cambiamento avevano sacrificato anche la propria vita meritavano di essere conosciuti per quello che dicevano
e scrivevano.
Così, mentre Geremie Barmé, Jonathan Unger, Wang Gungwu e molti altri sottoponevano all’attenzione della
ricerca mondiale riflessioni che hanno aperto nuove strade e gettato una luce sulle (preoccupanti) ragioni del
20
46 Sheng Hong, What is civilization (Shenme shi wenming, 什么是文明), in «Zhanlüe yu guanli», n. 5 (1995) e From nationalism to
cosmopolitanism (Cong minzuzhuyi dao tianxiazhuyi, 从民族主义到天下主义), in «Zhanlüe yu guanli», n. 1 (1996).
47 Qian Ning, Chinese students, op.cit.
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nascente nazionalismo cinese48 molta stampa internazionale rimase ferma al cliché post-1989. Inseguendo ormai una Cina democratica e libertaria che non esisteva più, non nei termini sperati e descritti, si ritrovò in una
sorta di cul de sac. Il mancato successo dei liberali cinesi venne spiegato appellandosi alla repressione subita e
alla natura sostanzialmente fascista e corporativa dello stato cinese. Negli anni che seguirono, segnati da una
forte crisi internazionale (1996 - 1999) - tale interpretazione trasformò il Partito comunista in una sorta di deus
ex-machina cui fare risalire tutto. In una sorta di meccanismo perfetto, auto-referenziato e inossidabile, si passò dal partito che muore alla repressione di stato, dalla repressione di stato alla mobilitazione nazionalistica di
stato, dalla mobilitazione nazionalistica di stato alle sommosse antioccidentali organizzate dallo stato.
Una sistemazione concettuale ricca di suggestioni per molto Occidente che ha ancora voglia di illudersi che
Europa e America continuino ad essere un grande amore e la Cina - quando finalmente si sarà risvegliata - sia
attesa da un approdo festoso e popolare alle sponde delle democrazia.
Purtroppo non tutti condividono questo roseo quadro: le accuse che La Cina può dire No! mosse all’Occidente, alle organizzazioni internazionali, all’America, all’Europa furono forti, studentesche, schematiche: spesso
politicamente rozze. Tuttavia, dopo l’11 settembre 2001, non fanno più sorridere. Esse presentano assonanze
significative con l’anti-occidentalismo del mondo arabo, di parte dell’Europa e dell’America meridionale. Giudicate nel 1996 parte di una indefinita specificità cinese, sono confluite in un gigantesco fiume sotterraneo che
è emerso di colpo a Seattle e a Genova.
Non si tratta di difenderne la mancanza di spessore e la rozzezza della riflessione politica, ma di sottolineare il
carattere più ampio, forse planetario, di un disagio che si esprime ormai negli stessi termini all’università di Pechino, come a quella di Damasco, di Bologna o di Lima San Marcos o in qualunque altra università della terra.
Il problema dell’Occidente - certamente dell’Europa intera - è non soltanto quello che dicono i letterati di
Damasco, Lima e Pechino ma anche che nessuno si sia ancora posto la domanda se sia opportuno continuare a
muoversi e a dare lezioni di diritti democratici in un mondo di cui si ignora tutto.
L’Occidente che non intende il cinese, che non sa quello che si dice nelle moschee di Damasco e di Medina, che
ignora quello che si scrive sui giornali di Delhi e di Tehran, che trascura le opinioni della stampa pechinese e di
Shanghai, di Bangkok e di Giakarta sembra non volere sbagliare nulla, ma proprio nulla, per sfuggire al disastro
che lo attende.
Crisi internazionale: Taiwan
21
È comunque nel più generale contesto post-Tienanmen che prese corpo la rischiosa avventura politica del leader taiwanese Lee Teng-hui. Molto discusso in patria e fuori, impresse una svolta democratica alla vita politica
dell’isola e, reclamando una maggiore autonomia dalla Cina, alzò il livello delle tensioni internazionali in Asia
sud-orientale. La sua vicenda politica si intrecciò inevitabilmente con Pechino e il comportamento delle folle
cinesi, contribuendo a gettare nuova luce, ma non nuova chiarezza, sugli scenari interni del paese.
Cosa abbia rappresentato in ambito internazionale la sua non brevissima parentesi politica è tuttora discussione aperta: le teorie più contrastanti si misurano a colpi di saggi entrati ormai a fare parte della discussione politica contemporanea. In sede storica si osserverà che nemmeno a dieci di anni di distanza il quadro si è chiarito:
le tesi, generalmente ben costruite, poggiano tutte su dati plausibili, ‘credibili’ e ‘ragionevoli’.
La storia, tuttavia, pur nutrendo grande rispetto per il ruolo che tutto ciò che è plausibile può comportare in
48 Jonathan Unger (a cura di), Chinese nationalism, op.cit.;. John Fitzgerald, Awekening China, op.cit.
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una situazione particolare, tende a privilegiare non tanto quello che avrebbe potuto succedere, quanto quello
che avvenne, ovvero l’operare (alla luce del sole e non solo) dei protagonisti di quelle vicende. D’altra parte è
evidente come la partita di Taiwan continui ancora oggi a recitare una parte decisiva negli equilibri interni ed
internazionali dell’Asia. Coloro che agirono nel decennio 1990 - 2000 sono, dunque, ancora al lavoro: le analisi
non sono mai astratte riflessioni ma parte dello stesso dibattito politico49. Fino a quando non saranno accessibili
archivi oggi secretati, fino a quando non sapremo con maggiore precisione quale ruolo ebbero negli eventi alcuni protagonisti non minori (incluso il governo cinese e il dipartimento di stato americano) sarà bene astenersi
dall’entrare in un’arena dove tutto e il contrario di tutto viene detto e sostenuto.
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In linea di massima è possibile dire che la crisi con Taiwan spianò la strada in quegli anni a nuove possibili
interpretazioni che ruotarono intorno al dilemma centrale su chi ne avesse avuto la principale responsabilità. I
molti che reputarono legittimo il progressivo distacco di Taiwan dalla Cina accusarono Pechino di avere alzato
la tensione internazionale e mobilitato le folle (il nazionalismo di stato di cui si è già accennato) per distogliere
l’attenzione da gravi e profonde crisi interne. A margine di questa interpretazione fiorirono teorie, oggi non
molto di moda e sulla cui assennatezza saranno i decenni futuri a esprimersi, su un possibile e probabile conflitto nel Pacifico tra USA e Cina per la conquista della supremazia regionale50.
Tuttavia proprio nei mesi di maggiore tensione su Taiwan Richard Baum pubblicò un saggio51 che ebbe il merito
di sottolineare l’alta probabilità - secondo indagini della CIA - che il frammentarsi della Cina in una molteplicità
di poli regionali non avrebbe portato né alla frammentazione della Cina né alla sua decentralizzazione, ma solo
a una nuova variante di uno scenario segnato da un emergente e incontrollabile caos.
Il rischio di frazionamento della Cina dovette essere percepito come possibile se commentatori notoriamente
molto vicini al governo cinese, talora più cinesi dei cinesi stessi, ne parlarono alcuni anni dopo come di una
possibilità reale che Pechino era riuscita, in qualche modo, a rimandare o risolvere52.
Coloro che reputarono provocatorio il comportamento dei leader taiwanesi individuarono le ragioni della crisi
nel tentativo di Lee di cogliere le opportunità offerte dalla crisi internazionale aperta da Tienanmen. In un momento di notevoli difficoltà cinesi, sarebbe stata tentata la partita di separare Taiwan dalla Cina, contando al
tempo stesso sulla debolezza internazionale cinese, su un ricco fronte alleato interno agli USA e sulla mancanza
di controparti in grado di ostacolare la politica americana. Lo spazio politico che si aprì allora (la “finestra”) era
49 Nel tentativo di fare chiarezza sulla crisi dello stretto di Formosa il «The China Journal» chiese un parere ai più importanti esperti di
politica internazionale e ne pubblicò le risposte in un numero unico di straordinaria importanza (n.36, 1996). A distanza di quasi dieci anni
i termini del dibattito non hanno progredito significativamente e restano, sostanzialmente, gli stessi. Andrew J. Nathan, China’s Goals in
the Taiwan Strait, pp. 87-93; Jia Qingguo, Reflections on the Recent Tension in the Taiwan Strait, pp. 93-97; Chu Shulong, National Unity,
Sovereignty and Territorial Integration, pp. 98-102; Parris H. Chang, Don’t Dance to Beijing’s Tune, pp. 103-106; Chih-yu Shih, National
Security is a Western Concern, pp. 106-110; Jonathan D. Pollack, China’s Taiwan Strategy: A Point of No Return?, pp. 111-116; Willy Wo-Lap
Lam, The Factional Dynamics in China’s Taiwan Policy, pp. 116-118; You Ji, Taiwan in the Political Calculations of the Chinese Leadership, pp.
119-125; Peter Van Ness, Competing Hegemons, pp. 125-128; Stuart Harris, The Taiwan Crisis: Some Basic Realities, pp. 129-134 .
50 Illuminante e controcorrente l’articolo di Taoka Shunji È largo lo stretto di Taiwan, comparso su «Limes» (1999 /1) .
51 Richard Baum, China after Deng, op.cit.
52 «Nemmeno cinque anni dopo questi allarmi, la Cina appare oggi più solida e unita che mai. Certo, permangono molte incognite sul futuro,
che possono riaprire antiche ferite nell’immenso corpo dell’Impero di Mezzo. Ma Pechino sembra aver arrestato il processo di frammentazione
del paese, invertendo le tensioni centrifughe e attivando anzi nei confronti dell’intero continente una forza centripeta che la pone oggi al
centro dell’Asia e dei suoi 3 miliardi e mezzo di abitanti. Le conseguenze geopolitiche ed economiche per l’Asia e per il resto del mondo sono
fondamentali.» Francesco Sisci, La Cina al centro dell’Asia, in «Limes», 1999/1.
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destinato a richiudersi in pochi anni con la ripresa della Russia e la crescita cinese: fu dunque una mossa d’azzardo che per qualche anno ebbe alcune possibilità di riuscita.
Tuttavia il montare della tensione internazionale legato a Taiwan avvenne in un contesto non nuovo, ma in
rapida evoluzione. La crisi dei mercati orientali rese per la prima volta manifesto anche in Cina quale saldo
collegamento unisse la ripresa cinese all’economia globale. I problemi interni dello stato cinese (crescita economica, autonomia fiscale delle province, riduzione del gettito fiscale del centro a fronte di maggiore entrate locali)
si misurarono con un contesto assai più vasto. Per la prima volta, in modo assai approfondito, gli intellettuali
cinesi si resero conto dei limiti di sovranità esistenti: in un’epoca di mobilità di capitali la partita dello sviluppo
(ovvero della sua equità) non si giocava più solo a Pechino, ma in Wall Street e più complessivamente sulle
piazze finanziarie dell’Asia.
Tutto questo contribuì alla formazione di scenari inattesi. L’emergere del problema della ‘globalizzazione’
che caratterizza anche il dibattito intellettuale cinese a partire dal 199753, finì con il saldarsi con un filone
anti-occidentale che negli ultimi anni era stato in costante crescita e, probabilmente, non è mai mancato nella storia cinese. Fortissimo disagio sociale, risentimenti nazionalistici, crescente opposizione all’infiltrazione
culturale occidentale divennero costanti nella vita politica cinese e si saldarono in un fronte non unico ma sostanzialmente omogeneo in cui la resistenza intellettuale delle grandi città trovava appoggio, sostegno e nuovo
slancio in quella delle campagne dimenticate dal progresso e in quella delle città, lacerate da tensioni spesso
terribili e nuove.
Questa area di disagio e di protesta sociale non fu tutt’uno con il montare di un ‘nazionalismo di stato’ i cui termini sono stati, sostanzialmente, fraintesi.
Che una parte dell’opinione pubblica cinese si sia mobilitata, anche in modo molto attivo, per protestare contro un temuto attacco all’unità nazionale, non trasforma necessariamente questa protesta ‘nazionalistica’ in un
succube strumento dello stato, anzi. Arricchisce piuttosto un quadro, già ricco di tensioni sociali enormi e di
un accentuato anti-occidentalismo, di componenti nazionalistiche nuove. D’altra parte che si sia trattato di un
attacco all’unità dello stato per come i cinesi lo intendono non ci sono, oggi, molti dubbi: il tentativo politico di
Lee - comunque lo si voglia valutare - non andava nel senso di un ricongiungimento con la ‘madrepatria’ ma in
direzione esattamente opposta sebbene con tempi e modalità da verificare.
I tempi di questa crisi, a loro volta, sembrarono dare priorità alle interpretazioni più pessimistiche: non sembrò
casuale il coincidere della crisi taiwanese con la fine dell’epoca di Deng, coi timori che si concentravano sulla
nuova dirigenza cinese, sulla sua capacità di essere all’altezza di un così complesso scenario internazionale .
Lo stesso dibattito internazionale che si è aperto sulla questione taiwanese si è limitato a valutare i diritti (storici,
teorici, economici, anche etnici) all’indipendenza di Taiwan, non a negare che questi stessi diritti non venissero
riconosciuti dalla popolazione della Cina continentale. Indipendentemente dalla posizione assunta nei confronti del problema di Taiwan ci fu, insomma, larghissima convergenza internazionale sulla valutazione che
toccare la questione taiwanese significasse andare a sollecitare la reattività della masse cinesi su temi di antico,
fiero nazionalismo.
Attendersi che si creda che tutto sia avvenuto in modo leggero, senza avere consapevolezza di quanto avrebbe
destato, è dunque oltre ogni ragionevolezza.
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53 Wang Hui, China’s…, op.cit. pp.91 e seguenti
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Divenuto presidente della ROC54 A partire dall’inizio degli anni ’90 Lee rimosse gradualmente le leggi che sospendevano (dal 1949) le garanzie democratiche e aprì la strada alla democratizzazione di Taiwan favorendo
un inserimento nella classe dirigente dell’isola dei nativi, ovvero di coloro che discendevano da famiglie nate
nell’isola e che non provenivano dai discendenti dell’emigrazione post-194955. In un crescente nervosismo non
solo cinese - con ricadute non lievi sulla stessa borsa - il presidente di Taiwan promosse una maggiore attenzione verso le istanze autonomiste e indipendentiste da Pechino.
Già si è trattato in precedenza delle attese che il biennio 1989-1991 creò e di come si diffuse la convinzione che
la rivoluzione democratica che aveva scosso la Cina e abbattuto l’URSS fosse a un passo dall’affermarsi in modo
definitivo in tutto il mondo. Il comportamento di Lee andò incontro alle aspettative e certezze occidentali: era
il segnale che molto Occidente attendeva. Come scrisse Terzani, le elezioni in Taiwan e Corea del Sud “hanno
questo significato, sono l’indicazione di una tendenza che sta cambiando la faccia del continente: la democratizzazione”. 56
Quanto stava accadendo a Taiwan non era dunque sorprendente: confermava, piuttosto, la dimensione planetaria della rivoluzione del 1989.
Oggi si rincorrono molte accuse sulla figura di Lee: la sua uscita ingloriosa dalla politica e l’avere in qualche
modo accettato di essere un simbolo dell’indipendenza di Taiwan ha scatenato le critiche. In ogni gesto da lui
compiuto fin da quando ha iniziato a occuparsi di politica si è voluto vedere, ad ogni costo, la determinazione
di giungere alla separazione dalla Cina. È tuttavia un fatto che i primi gesti politici di Lee raccolsero molta solidarietà internazionale: gli elogi per la democratizzazione che stava attuando nell’isola servirono al presidente
taiwanese per prendere coraggio e dare maggiore visibilità a sussurrati ma tutt’altro che incerti desideri di autonomia da Pechino.
La crisi divenne ufficiale (ed internazionale) quando Lee accettò l’invito della Cornell University e il governo
americano, che aveva già respinto un tentativo analogo nel 1994, si trovò ad a doverne accettare la presenza sul
proprio territorio venendo così meno a ogni impegno precedente con Pechino. Nell’estate del 1995 la Cina rispose con esercitazioni militari nello stretto, ripetute nel 1996, alla vigilia delle elezioni presidenziali di Taiwan.
In un pericoloso crescendo della tensione internazionale si passò allo spostamento di navi da guerra americane
nell’area dello stretto, e all’accelerazione del riarmo sia della Cina che di Taiwan.
Ripensando a quasi dieci anni di distanza a quegli eventi non è possibile dire che la tensione internazionale
abbia in quei giorni oltrepassato i limiti di tolleranza. I quotidiani e le riviste di politica internazionali non si
sono dedicate in ugual misura ad altri eventi che influenzarono profondamente il clima politico di quei giorni
ma su cui, in definitiva, c’era poco da dire. Così a uno storico che tra un secolo volesse ricostruire le vicende del
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54 Republic of China, ROC nella denominazione internazionale e nei documenti ufficiali. In questo senso l’uso prevalente in Occidente della
denominazione Taiwan incontra, ovviamente una forte opposizione da parte cinese. È stato visto, infatti, come premessa di indipendenza, fattore
questo impossibile fino a quando Taiwan si chiamerà, come si chiama oggi, Repubblica di Cina in contrapposizione a Repubblica popolare
cinese. Per semplicità si continuerà ad utilizzare da denominazione corrente in Europa non senza avere avvertito il lettore delle tutt’altro che
neutre implicazioni che l’adozione di una denominazione come Taiwan in contrapposizione a Cina provoca.
55 Il tema dell’appartenenza alla Cina degli abitanti di Taiwan è questione molto complessa su cui si concentrano evidenti tensioni politiche.
Il tema deve essere inserito nella più vasta letteratura dei ‘cinesi d’oltre mare’ su cui può essere introduzione Stefano Cammelli, Ombre cinesi,
op. cit., Capitolo 3 (Il mistero dell’identità). Sul tema, tuttavia, il riferimento fondamentale è certamente l’intera ricchissima opera di Wang
Gungwu di cui qui si segnala China and the Chinese Overseas, Times Academic Press, Singapore, 1991 (nuova ed. 2003). Sul tema di cosa si
debba intendere o meno per ‘nativi’, argomento anche questo assai controverso, si veda l’illuminante Hsieh Fuh-Sheng, National Identity and
Taiwan’s Mainland China Policy, in «Journal of Contemporary China», XIII, n. 40, 2004.
56 Tiziano Terzani, L’Asia a lezione di democrazia, op.cit., 19 dicembre 1992.
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decennio 1990 - 2000 la crisi internazionale di Taiwan finirà col risultare, sulla base delle ricerche pubblicate e
dei documenti disponibili, assai più grave di quanto non venne percepito in quei giorni. Essa fu infatti inserita
in quel clima euforico di trepida attesa per il ritorno alla Cina di Hong Kong che ridusse l’attenzione persino sul
grande evento di quell’anno, il decesso di Deng Xiaoping e su quell’altro - europeo - di drammatica emergenza,
la crisi che avrebbe portato alla guerra del Kossovo.
La strategia politica di Lee si mosse dunque in un contesto di preoccupazione internazionale ma anche di relativa fiducia ed esaltazione: da una parte la crisi taiwanese e il crollo dei mercati asiatici, dall’altra il ritorno di
Hong Kong e la stabilità economica della Cina, cui molti riconobbero il merito di avere retto, contribuendo in
modo significativo (decisivo?) alla stabilità economica dell’Asia.
Negli anni che separarono il 1997 dalle elezioni del 2000 Lee insistette in una politica di distacco dalla Cina vissuta da Pechino con grande nervosismo. Oggi, dopo la presidenza più indipendentista di tutte (dal 2000, Chen
Shui-bian), la situazione sembra avere imboccato un sentiero nel complesso chiaro e che promette stabilità per
i prossimi anni. Le elezioni di Taiwan del 2008 hanno dato un chiaro segnale sull’esistenza di una maggioranza,
non lontana dall’80%, che è forse ancora divisa politicamente ma che è unita da tre forti motivazioni: desiderio
di pace con la Cina, rapporti distesi sul piano politico e intensi su quello economico. Il movimento autonomista
che negli anni 1995 - 2002 sembrò in forte crescita è ormai in costante e progressiva diminuzione di importanza e di peso elettorale. La crisi sembra dunque essere sostanzialmente finita. Per lo meno fino alla prossima
puntata57.
La crisi di Taiwan mise a dura prova il governo cinese. Chi conosce la sensibilità politica cinese sul tema di
Taiwan, chi ha seguito le ricorrenti crisi che su questo tema si sono succedute in Oriente58 sa di quanta pazienza
c’è stato bisogno per smorzare i toni e ricondurre il tutto alle dimensioni di un problema da risolvere con la trattativa. Le due precedenti crisi di Taiwan - entrambe verificatesi in epoca di pesantissimo ricatto nucleare - erano
andate molto più avanti, non si erano fermate alle parole. Ancora: chi ha assistito alle manifestazioni di massa
avvenute in Hong Kong per un incidente di ben più modesta rilevanza riguardante le isole Diaoyu (in cinese) o
Senkaku (in Giapponese) 59 sa quanto può essere ancora alta la suscettibilità cinese. Le folle che in quella circostanza invocarono l’intervento dell’esercito per otto scogli disabitati non erano attivisti comunisti ‘organizzati
dallo stato’, ma cittadini anglo-cinesi dell’ultima colonia britannica.
Il giornalista del Corriere riferì che in Pechino i dazebao studenteschi vennero rimossi in tutta fretta dalla polizia
e le manifestazioni proibite. È ovviamente assai difficile trovare conferma di una manifestazione proibita ma
l’ipotesi non pare fantasiosa.
Tuttavia per tutta la terza crisi taiwanese, la stampa internazionale fece largo uso di schematizzazioni già utilizzate in precedenza per inquadrare i complessi problemi in atto in Cina. La tematica del nazionalismo venne risuscitata, ma con varianti significative. Quando si ebbe notizia di manovre militari cinesi nello stretto di Taiwan
ogni calcolo parve quadrare, corrispondere.
La crisi, venne detto, nasceva per le istanze autonomiste presenti in Taiwan, dalla voglia di democrazia che
aveva prevalso nell’isola e dalla conseguente crescita dei movimenti autonomisti di Taiwan. Ma tutto questo
non avrebbe portato in alcuna direzione se la crisi non fosse stata anche utilizzata dal comunismo cinese per
57 Robert Ross, Taiwan’s fading indipendent movement, in «Foreign Affairs», marzo / aprile 2006.
58 La crisi del 1995-1996 viene normalmente definita Terza crisi. Le altre due sono quella del 1954-55 e quella del 1958.
59 Ferraro Renato, La rissa degli scogli. C’è la prima vittima, in «Corriere della Sera» 27 settembre 1997 .
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sopravvivere, ponendo un fermo alla disintegrazione nazionale in corso.
Anzi: il governo cinese e il partito comunista cinese – venne scritto - impegnati nell’impossibile compito di
cercare di sopravvivere, avevano cavalcato il nazionalismo interno60 e sfruttato una crisi alle frontiere per ricompattare il proprio potere e risollevare il proprio prestigio ormai in declino61. La crisi era dunque strumentale
alla sopravvivenza di un regime ormai morto: solo risollevando l’orgoglio nazionale e fingendolo ferito il partito
poteva sperare di mantenere la Cina unita e salda sotto la sua dittatura.
D’altra parte non c’era da meravigliarsi «Il problema è che il comunismo evidentemente ha perso, è il nazionalismo ormai che tiene insieme l’impero cinese.»62 ovvero «Il nazionalismo è la nuova base ideologica del
regime.»63.
Non mancarono, a dire il vero, segnali di opposta tendenza:
«Nella nostra opinione pubblica è forte il sospetto che gli Stati Uniti continuino a perseguire una geopolitica
imperialistica, allineando contro di noi una variopinta congerie di ideologemi, dal clash of civilizations alla
globalizzazione come retorica utile a penetrare il mercato interno cinese e indebolire il nostro Stato, al sostegno
al regime di Taipei.»64
Nonostante l’affannarsi dei cinesi ed anche la freddezza di molti europei residenti a Pechino, l’ipotesi di un crollo rimandato grazie all’appello al nazionalismo cinese prevalse in Italia e nel mondo.
Oggi, a crisi rientrata, nessuno più sembra ricordare il clima di quelle giornate e quanto fosse forzata un’analisi
che anticipava crolli epocali per rimandare i quali ci si sarebbe appellati al nazionalismo delle folle. Se il nazionalismo fosse stato la bandiera di un governo e di un partito alla ricerca del consenso interno nelle stesse pagine
dei giornali si troverebbe traccia di manifestazioni di massa, di raduni oceanici, di slogan anti-imperialisti e nazionalisti davanti all’ambasciata americana, presso la sede delle principali istituzioni internazionali. O reportage
di scritte bellicose negli alberghi e nelle strade in particolare là dove potevano essere vedute dagli stranieri.
Di quei mesi il ricordo trattiene invece la determinazione con cui il paese cercava di riprendersi; la Cina come
immenso cantiere; gli orologi con il conto alla rovescia dei minuti che mancavano alla liberazione di Hong Kong
intesa come una compensazione, gesto di rivincita e di compensazione storica65.
L’incredibile festa, in tutte le città cinesi, alla riconsegna della città che cancellò un lieve dispiacere (assai celato
invero) per il fatto che il leader che tutto questo aveva reso possibile fosse scomparso sole poche settimane
prima.
60 «Alcuni osservatori politici Americani dicono Stati Uni e Taiwan possono fare finta di niente davanti alle minacce cinesi. Ma essi
sottovalutano la serietà dei leader cinesi, specialmente quando si tratta di Taiwan, e il pericolo del risorgente nazionalismo specialmente in
un’epoca di transizione. … Il nazionalismo cinese impone una risposta forte a ciò che avverte come sfida alla sovranità e dignità nazionale.»
China’s New Muscle: Military or Monetary? Despite Neighbors’ Fears, Beijing Seems Intent on Economic Buildup, in «The Washington Post»,
24 luglio 1995.
61 «…il regime sfrutta ogni pretesto per inasprire la dittatura, disattendere le regole del commercio internazionale, e anche suscitare crisi
esterne, in modo da distrarre l’attenzione dai problemi domestici e coprire con il vessillo del nazionalismo un partito rimasto nudo dopo aver
perso il manto socialista.» in Ferraro Renato, Cina rossa addio, è l’ ora dell’ esercito, in «Corriere della Sera», 11 febbraio 1996.
62 Santevecchi Guido, T Day, cosi’ la Cina prendera’ Taiwan, in «Corriere della Sera», 2 gennaio 1995.
63 Ferraro Renato, Deng e’ vivo. Il Denghismo no, in «Corriere della Sera», 8 giugno 1995.
64 Shen Luo Yan, L’Occidente secondo i media cinesi, in «Limes», 1997 / 4.
65 «Per i dirigenti cinesi la questione principale non è la democrazia, è la sovranità. Per loro il recupero di Hong Kong è una rivincita sulle
guerre dell’oppio e sulle umiliazioni subite quando la Cina veniva smembrata dalle potenze occidentali. I cinesi non possono accettare misure
«sovrane» unilaterali da parte dei britannici che modificherebbero il regime politico di Hong Kong: sarebbe una ratifica della sconfitta, della
conquista, della colonizzazione di una parte del territorio cinese. Sarebbe un’ammissione della validità dei «trattati ineguali», in Luca Romano,
Hong Kong 1997,la grande rivincita, in «Limes», 1995/1 .
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Di Taiwan e del come venne risolta quella crisi molti analisti hanno evidenziato il sommarsi di comportamenti
antichi e di cinica saggezza contemporanea. Il dispiego di forza nell’esercitazioni militari si inserì in un’augusta,
grande tradizione cinese: nascondere la propria forza quando si attacca, mostrarla in tutta la sua potenza quando non si intende agire “Questo metodo risultò efficace contro i barbari”66.
Il nazionalismo delle folle cinesi venne certamente gratificato da questa esibizione di forza che sembrava fare
suoi molti dei concetti espressi in La Cina può dire No!.
Per risolvere la crisi il governo si limitò ad usare quegli stessi meccanismi di interazione finanziaria di cui aveva
notato il potere di interferire sull’indipendenza ‘reale’ di uno stato. La pressione militare, combinata con la paura di un intervento militare opportunamente denunciata dalla stampa (mai come in questa crisi così funzionale
alla strategia di Pechino), portò a forti pressioni sulla borsa di Taiwan. Per sostenere la borsa vennero spese
riserve importanti: il crollo degli ordini e degli investimenti fece il resto.
Al di là delle pulsioni ideali e personali, la popolazione di Taiwan si rese conto direttamente, nella propria banca
e nelle proprie aziende, a cosa avrebbe portato uno scontro, anche solo annunciato, con la Cina. Uno schieramento che abbracciava quasi il 70% dei votanti sostenne, alle elezioni successive, una politica di conciliazione e
di non conflitto con la Cina. Il consenso che il movimento autonomista taiwanese gode oggi presso la popolazione di Taiwan è, secondo gli osservatori internazionali, entrato in una fase di progressiva erosione. Il rischio di
una nuova crisi è ritenuto, nei prossimi anni, quasi inesistente.
Il disagio degli altri
Negli anni che precedono la crisi di Taiwan e nei mesi che la seguono, nello stesso periodo in cui tanta stampa
internazionale67 sembra faticare ad afferrare il problema, ci furono in Cina crisi di nazionalismo68: ne furono
protagoniste popolazioni non cinesi che diedero vita a scontri anche gravi nelle due regioni a maggiore tensione
etnica: Tibet69 e Xinjiang, ovvero Turkestan cinese70. Sebbene sia arduo farsi strada tra i molti si dice e il poco
veduto, sia in Tibet che in Xinjiang si ebbero diversi morti. In Tibet, onde ristabilire l’ordine, venne mandato
Hu Jintao (1988-1992) a conferma che la responsabilità politica di Lhasa è passaggio importante nella crescita
politica della classe dirigente cinese.
Curiosamente né la stampa italiane né quella di lingua inglese usa la parola ‘nazionalismo’ per le sommosse di
Kashgar71 e Lhasa72: nei pochi reportage disponibili - una quindicina in tutto e tutti sono commento indiretto 66 “Le operazioni militari richiedono lo stratagemma: se sei abile, mostrati inabile; se sei capace, mostrati incapace.” in Sun Tzu, L’arte della
guerra, Roma, Ubaldini, 1988, p.49.
67 Si sarebbe potuto citare qualunque altro quotidiano: le differenze - ampiamente verificate - sono davvero minime.
68 Sonnenfeldt Helmut, Marx, separatismo, diritti civili: i mille dubbi della “ transizione impossibile “ in «Corriere della Sera», 14 maggio
1997.
69 Gli scontri più rilevanti in Tibet sembrerebbero avvenuti nell’ottobre del 1987, nel marzo del 1989 e nel maggio del 1993.
70 Scontri a Kashgar o altre città Uigure per proteste anticinesi sono attestati nell’aprile del 1990 e nel febbraio del 1997. Tuttavia - e la
precisazione vale anche per il Tibet - è probabile che gli scontri che non si sono potuto tacere alla stampa siano solamente quelli delle grandi
città (Lhasa e Kashgar).
71 Francesco Sisci è di diverso avviso: “…nell’Impero di Mezzo vive una minoranza musulmana di notevoli dimensione, concentrata nella
regione occidentale dello Xinjiang. Si tratta di una popolazione di ascendenza turcofona, quella degli uiguri, da tempo in lotta con il potere
centrale e che ha come obbiettivo finale la creazione di un proprio Stato, il Turkestan orientale, separandosi così dalla Cina”, La Cina serve
all’America, in «Limes», La guerra del terrore, 2001.
72 Di diverso avviso (per quanto riguarda il Tibet) F.Sisci. «Questa è l’unica regione dove esiste compiutamente un movimento indipendentista,
dove le spinte secessioniste sono palesi e determinate e dove esistono motivi nella storia recente per argomentare l’indipendenza o almeno una
forte autonomia della regione.» in Francesco Sisci, Una, dieci, mille Cine, in «Limes» 1995/1
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le sommosse dei Uiguri del Turkestan e quelle dei Tibetani del Tibet sono presentate come anti-cinesi. In esse
si sarebbe espresso dunque non un seppur confuso desiderio di autonomia o indipendenza, ma una protesta
contro il procedere della sinizzazione, ovvero la perdita di elementi culturali autoctoni e l’introduzione forzosa
di elementi, invece, cinesi.
Nel confuso uso della parola nazionalismo di quegli anni la distinzione suona al tempo stesso opportuna e di
grande utilità: non è nazionalismo protestare per la difesa della propria religione, dei propri mercati, delle proprie scritture73. Il nazionalismo è, dunque, un’altra cosa.
Nel marzo del 1996 esce sul Washington Post un articolo che sembra tornare sul tema del nazionalismo cinese.
L’analisi di Steven Mufson è articolata, la qualità del ragionamento da saggio.74 Nel contenitore che per semplicità continua a chiamare nazionalismo, Mufson deve tuttavia inserire una molteplicità di componenti anche
contraddittorie. C’è il recupero della gloria passata (anche l’epoca di Mao aveva avuto una sua gloria internazionale) rispetto alle umiliazioni del presente; la paura degli stati vicini che tutto questo porti al ristabilirsi di una leadership cinese in politica estera che potrebbe essere contrastata solo con l’aiuto degli USA. C’è la possibilità che
i militari si appellino al nazionalismo. Ma tutto questo, aggiunge, non porta a nulla: che nazionalismo potrebbe
mai essere invocato da una nazione che ha “come minimo cinquantacinque gruppi etnici, dialetti che non comunicano con quelli dell’altra parte del paese, come minimo cinque religioni e un’infinità di storie diverse?”.
Cosa accomuna questi popoli così diversi: un odio antico contro l’occidente. Che compare non appena si aprono
le porte della conoscenza e si comunica con loro. Non c’è nazionalismo se non come odio verso lo straniero. E
tanto più la Coca cola apre nuovi negozi e il McDonald’s vende più hamburger tanto più questo sentimento
cresce fino a diventare un rumore sordo, muto: ma assordante.
Lo consola Xiao Gongqin (il ‘nazionalista’ che negava di esserlo): quello che sta avvenendo, dice, è la ricerca e
la salvaguardia di valori comuni di fronte a una società che si sta smembrando. La protesta degli intellettuali
per ‘il senso di essere cinese’ si sta smarrendo, non produrrà nessun Vladimir Zhirinovsky. Secoli di tradizione
multietnica e multiculturale impediscono a chiunque di scegliere l’opzione del ‘nazionalismo’.
Xiao Gongqin ritorna sul tema affrontato già due anni prima con il giornalista del Corriere, ma questa volta la
conclusione è diversa, Mufson sembra fare sue le conclusioni di Xiao. “Se vuoi capire la Cina - dice nell’intervista
Xiao Gongqin, e sono le ultime parole del saggio - devi seguire una sola strada, guarda alla storia.”
Prima di seguire il consiglio di Xiao è inevitabile notare che il disagio cinese che Mufson descrive è articolato,
contraddittorio, ricco di impossibili estensioni. C’è spazio anche per i governi, per i militari, forse anche per i
monaci buddhisti tibetani. Perché quello che Mufson e Xiao dicono in questo bell’articolo è che il disagio cinese
di cui tutto è espressione e di cui tutti fummo testimoni in quel 1996 può essere chiamato nazionalismo, se
proprio ci si tiene. Ma richiama, piuttosto, processi più articolati e complessi. Riguarda l’impatto di un mondo
contadino con la modernizzazione: contrasto dolorosissimo ma che non convolge il nazionalismo. Coinvolge
l’impatto di un vecchio sistema educativo (il monaco, il bonzo, il mullah, l’intellettuale) che si trova di colpo
scavalcato e tagliato fuori dalla televisione e più in generale dai media. Ma, e soprattutto, coinvolge cinquantacinque popoli diversi che non hanno una nazione di riferimento, non hanno una lingua comune, non hanno
una storia comune: condividono solo un sentimento, l’odio per gli stranieri.
Può esistere un nazionalismo senza nazione? Si può essere al tempo stesso vittime (in casa propria) e carnefici (in
Tibet e Xinjiang)? O l’odio anticinese sta al disagio sociale dei tibetani e degli uiguri come l’odio anti-occidentale
73 Si veda Elisabetta Alles Adams Quando l’Islam ha gli occhi a mandorla, in «Limes», 1995/1.
74 Steven Mufson, Maoism, Confucianism Blur Into Nationalism, in «The Washington Post », 19 marzo 1996
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sta ai cinesi? Ha senso chiamare tutto questo nazionalismo?
Bombe sull’ambasciata cinese a Belgrado
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È comunque in questo contesto che il fortuito bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado (maggio
1999) dà inizio a proteste anti-occidentali che colgono di sorpresa la maggioranza degli osservatori. Le cronache
dei giornali di quei giorni non possono astenersi dal notare che il governo cinese è imbarazzato, e che quello che
sta avvenendo porta con sé un superiore e non previsto scenario. Compaiono “folle ormai irate che gridano con
un gioco di parole “renquan (人权, diritti umani) uguale baquan (霸权, egemonismo)”75.
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Quale rapporto colleghi slogan di questa natura col bombardamento per errore dell’ambasciata di Belgrado è
ormai chiaro a chi ha seguito fino in fondo questa lunga introduzione. Ci sono le emozioni, c’è la rabbia, c’è un
insieme di fattori non previsti e non prevedibili che deflagrano quasi contemporaneamente. C’è quanto accade
in Cina, non sempre noto: ma c’è anche quanto accade negli Stati Uniti, ugualmente ignorato. Il bombardamento dell’ambasciata cinese di Belgrado è una pagina che muta in modo non definitivo ma per molto tempo
non tanto i rapporti politici tra i due paesi, ma il ‘sentimento’ che li unisce, il feeling. Gli americani, in primo
luogo, non accettano quello che vedono, lo rifiutano:
« Cette nervosité de Pékin est en partie une réponse au caractère de plus en plus sinueux - et incompréhensible pour les Chinois - de la politique américaine à leur égard. Pendant les années 80, la Chine était perçue par
Washington comme un pays important, certes, mais qui ne posait pas de problème urgent et, surtout, qui ne
constituait pas une menace immédiate pour les intérêts américains. La politique chinoise de la Maison-Blanche
était laissée au Département d’Etat et n’intéressait en fait qu’une poignée de multinationales ayant des intérêts
en Chine - Boeing, Motorola, etc. L’opinion publique américaine était alors favorable à la Chine. Cette atmosphère détendue devait beaucoup à la personnalité de Deng Xiaoping. Pragmatique, conscient que la Chine avait
besoin d’un environnement international stable pour assurer son développement, il avait réussi le tour de force
de faire croire que la Chine communiste était l’alliée naturelle des Etats-Unis. Aujourd’hui, le cadre feutré dans
lequel s’est défini pendant des années la politique américaine à l’égard de la Chine a volé en éclats. Les relations
avec Pékin sont devenues un enjeu de politique intérieure, notamment entre les mains d’un Congrès dominé
par les républicains. Certains lobbies industriels, dans les secteurs concurrencés par les importations chinoises, bataillent dur contre toute concession à Pékin. Dans l’opinion publique, l’image de la Chine est désormais
celle d’un pays hostile. Elle évoque le goulag, la répression au Tibet, les attaques contre Taïwan, les violations
multiples des droits de l’homme. La vision, il y a quatre mois, de la foule assiégeant et lapidant l’ambassade
américaine à Pékin en représailles contre le bombardement de l’ambassade de Chine à Belgrade a eu un effet
désastreux.»76
C’è un problema di sospetti, in primo luogo, ed è ben lungi dall’essere chiarito anche a dieci anni di distanza.
Così è vero che la Nato dichiarò essere stato un errore ed è vero che i cinesi non diedero a questa notizia la
rilevanza necessaria per contenere la rabbia popolare. Ma il fatto è che nemmeno in Occidente, nemmeno in
Europa, si crede più all’ipotesi dell’errore: per lo meno fino a quando non ci saranno risposte circostanziate
75 Rabbia a Pechino, migliaia in piazza: gli studenti assediano le rappresentanze diplomatiche USA: consolato incendiato, in «Corriere
della Sera», 9 maggio 1999.
76 Jiang Zemin réveille l’Amérique, in «Le Nouvel Observateur» 9 settembre 1999.
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all’accusa lanciata dall’Observer di Londra il 17 ottobre 1999 77.
È indubbio che dopo l’11 settembre del 2001 molte animosità si sono spente, tuttavia resta il problema che
anche prima delle dichiarazioni dell’Observer fu evidente l’esistenza di un tale cumulo di contraddizioni da
lasciare, come minimo, perplessi.
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Le lettere scritte ai giornali in quei giorni sono state raccolte e studiate in un bel saggio78 la cui utilità va molto
al di là degli ambienti accademici. Peter Hays Gries ha semplicemente raccolto le lettere di protesta inviate ai
giornali in quella circostanza e le ha confrontate o affiancate con i biglietti appesi per strada ai pali della luce o
sui muri delle università. Un’opera semplice, di interesse notevole.
Vi compare molta demagogia, naturalmente, molta giovanile demagogia. Ma compaiono anche i temi di una
rivolta anti-americana ed anti-europea che, ormai lo si è compreso, non è più né nazionalismo, né anti-americanismo.
«Cinesi! questo sta succedendo, gli Americani ci vogliono umiliare! Il desiderio americano di umiliarci non
è legato solamente a questo ultimo fatto. Bocciare la nostra candidatura ad ospitare i giochi olimpici è stata un’umiliazione. Intercettare la nave Milky Way e fermarla con la forza per verificarne il cargo è stata
umiliazione!79 La recente accusa che noi avremmo rubato i loro segreti militari (atomici) è un’umiliazione. La
ragione per bombardare la nostra ambasciata è ancora quella di umiliarci. Ecco la spiegazione delle assurde
scuse presentate, sostenere che si sia trattato di un errore: umiliarci, ancora di più! »80
Lettere di rabbia fine a sé stessa (“Lavare il sangue col sangue!” “Gli occidentali sono come lupi, assaltano in
branco e scappano”). Lettere che reclamano giustizia, il ristabilimento della legalità internazionale unite a lettere di indignazione, di rammarico.
Sullo sfondo, tuttavia, si delinea un diverso scenario. È la debolezza del fronte interno che rende le frontiere
deboli, è la nostra debolezza che ha consentito agli americani questo insulto oltraggioso. Non è una debolezza
militare, né di risposta. Non si tratta nemmeno di semplice boicottaggio: la debolezza cinese è un problema di
coscienza. Un antico problema di coscienza.
«Quando noi si veste Pierre Cardin e Nike / Quando noi guidiamo Cadillac, Lincoln e andiamo al KFC e McDonald’s / abbiamo una coscienza limpida? No!!! // Quando i nostri battelli sono fermati e ispezionati senza
ragione / quando i nostri compatrioti perdono le loro vite nell’Oceano proteggendo le isole Daoyu / Possiamo
noi sedere davanti alla televisione Sony? No!!! // I Coreani sono orgogliosi di usare i loro prodotti nazionali
/ è possibile che noi si trovi ancora gloria nell’usare i prodotti stranieri? No!!! /// Produciamo e consumiamo
prodotti nazionali»81
Sono temi che attraversano la protesta popolare - studentesca e non solo - da almeno quindici anni. Possono, se
proprio si vuole, essere inseriti in una prospettiva di lotta nazionalistica ma, è evidente, ormai la parola nazionalismo ha tutt’altro significato, tutt’altro valore.
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77 Nato bombed chinese deliberately, in «Observer», 17 ottobre 1999.
78 Ricchissimo di informazioni è Peter Hays Gries Chinese Nationalist reactions to the Belgrade Embassy bombing, in «The China Journal»,
46, luglio 2001.
79 La nave era diretta in Medio Oriente, l’episodio avvenne nel 1992.
80 Peter Hays Gries Chinese Nationalist reactions.. op.cit., p.33.
81 ibidem, p.37.
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Le folle in rivolta, i cortei, le manifestazioni: tutto passò in televisione e sui giornali e come d’incanto fantasmi
che sembravano scomparsi si materializzano nuovamente. Se in Cina “non c’è libertà di stampa” non ci può
essere “libertà di espressione” così - si deve avere pensato - in un paese dove i diritti umani non vengono riconosciuti non possono avvenire manifestazioni spontanee. Se l’italiano Corriere della Sera forse erra nell’interpretazione ma comunque riferisce quello che è stato veduto ( “folle ormai irate che gridano con un gioco di parole
“renquan (diritti umani) uguale baquan (egemonismo)”, il contributo del Washington Post è un capolavoro di
mezze parole - usate con grande maestria - per alludere senza dire, prospettare senza affermare:
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«Quando decine di migliaia di giovani studenti con in mano pietre, molotov e cartelli con scritto “Kill Americans” hanno attraversato le strade di Pechino questo week-end per protestare contro l’incidentale ma tuttavia mortale attacco della NATO all’ambasciata cinese a Belgrado, erano accompagnati dal fantasma di ben
altre manifestazioni, dieci anni or sono.» 82
Quale è la differenza che separa questa manifestazione da quelle del 1989? il giornalista del Washington Post è
informatissimo:
«… le proteste di questo weekend sono state preparate meticolosamente. Autobus portavano decine di migliaia di studenti nelle strade vicine all’ambasciata americana qui a Pechino e nei pressi delle missioni consolari USA in altre quattro città.»
Il giornalista del Post ha davvero pochi argomenti in mano: tutti gli abitanti di Pechino si spostano in autobus. In
quale altro modo avrebbero dovuto recarsi all’ambasciata USA per non destare sospetti, forse in taxi? … tuttavia
il nostro ha le idee chiarissime: «i leader studenteschi delle organizzazioni governative hanno ricevuto una lista
degli slogan da gridare». Inutilmente si cercherà di capire se lo ha saputo, se gli è stato detto, o se lo sospetta: le
acrobazie di certo giornalismo fanno colpo il giorno dopo, ma a dieci anni di distanza perdono ogni virtuosismo
letterario e si rivelano, semplicemente, per quello che sono: improvvisazioni prive di professionalità.
La stampa occidentale - non tutta, certo, ma molta - è talmente sorpresa nelle sue convinzioni (“gli studenti
sono liberal, la Cina urbana è liberal, solo la gerontocrazia del PCC opprime con una politica vecchia il naturale
sviluppo della società cinese verso la democrazia”) che se una manifestazione anti-USA sconvolge Pechino non
può che essere colpa del partito. Tuttavia certe enormità le si può affermare in un momento di perplessità ma
tutta Pechino ha veduto come sono andate le cose e allora occorre aggiungere:
«Ma sarebbe un errore dire che questi studenti siano stati forzati a protestare. Le dimostrazioni, sebbene
dirette dalle autorità, esprimono in modo molto fedele i sentimenti delle folle.»83
È «La Stampa» ad avvicinarsi con maggiore precisione a quanto sta accadendo. Forse perché l’Italia non è stata
oggetto di aggressione o per una lunga tradizione di maggiore attenzione da parte del quotidiano torinese, la
cronaca contiene riflessioni interessanti, forse inquietanti?
«Diversamente da Tiananmen però, quando i dimostranti vedevano gli stranieri come amici, questa folla e’
xenofoba e accusa gli stranieri caucasici di essere “americani”. Alcuni giornalisti e passanti sono stati spintonati e minacciati. Capipopolo improvvisati urlavano ai poliziotti che “i cinesi non devono difendere gli stra-
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82 A Protest Beijing Can Endorse, in «The Washington Post», 10 maggio 1999.
83 Ibidem.
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nieri” o chiedevano il boicottaggio delle merci americane, da domani niente più Coca-Cola o McDonald’s.»84
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Dunque è in atto una crisi tra Cina e Occidente, centrata sull’attacco agli Stati Uniti. Sembra irreale come un
incubo di altri tempi. Sembra un brutto sogno emerso da epoche lontane, è difficile da accettare. Gli attacchi
all’America e all’Occidente erano eventi comuni negli anni Trenta, episodi da film85. Coloro che osservano le
manifestazioni antiamericane del 1999 reputano - tuttavia - di sapere come pensano e come si comportano le
folle di Pechino. Nessuno sembra ricordare la profonda avversione anti-occidentale che percorre per tutta la
sua durata la rivoluzione cinese. Nessuno ricorda le devastanti ondate xenofobe che attraversano la rivoluzione
culturale. Nessuno sa del trionfo editoriale del libro La Cina può dire No! Così ci si culla nell’illusione di avere
compreso tutto nel 1989: gli studenti in piazza, la democrazia, la richiesta di maggiore libertà, il regime cieco
e brutale. Come accettare in una notte sola quello che non si è voluto vedere per anni? Come chiudere in poche ore di violenza di piazza il divario tra ciò che si credeva e ciò che si vede? Sì, c’erano state grandi proteste e
grande delusione anche quando alla Cina erano state negate le Olimpiadi del 2000, ma la delusione non si era
trasformata in movimento antioccidente, non era diventata xenofobia.
Così, come succede sovente quando non si riesce a comprendere in modo convincente quello che avviene, si va
alla ricerca del grande vecchio: il regista del complotto, il mestatore di segrete trame. Il malvagio nascosto dietro
le quinte silenziose e ambigue - vecchi pregiudizi anticinesi - della ‘misteriosa’ Pechino. Nessuna sorpresa che
l’untore venga individuato nel governo, nel partito, nel potere che tutto fa e disfa.
«Il nazionalismo è sempre più importante in Cina. Il comunismo infatti è stato messo in naftalina, se non del
tutto sepolto. Pechino non l’ha rispolverato neppure durante la recente violenta campagna di propaganda
contro la setta dei Falun Gong… (…) In questa Cina che sogna di diventare America c’e’ bisogno di una nuova ideologia che tenga uniti il suo miliardo e 300 milioni di cittadini. Questa si sta costruendo intorno a una
nuova idea di nazione e nazionalismo…».86
È un gioco antico: quando non si sanno porre domande si trasferiscono risposte. Tuttavia come molte altre
imprese letterarie prive di collegamenti col reale il quadro descritto non è ‘sbagliato’ ma è solamente ‘plausibile’.
Tuttavia perché un evento plausibile sia reale occorrerebbe qualcosa di più, magari delle prove. Ad esempio
potrebbe essere utile spiegare quale rapporto unisca il nazionalismo all’avversione per gli americani, se siano
o meno la stessa cosa. Quale rapporto unisce un governo alle folle con una tale capacità di comunicazione da
renderne possibile la mobilitazione in pochi attimi: non era - infatti - un governo che aveva ormai rotto ogni
rapporto con le folle a partire dal 1989? Non era isolato nella sua cittadella tecnocrate e modernista? Non cercava di fare della Cina una America asiatica? Bisognerebbe poi spiegare altre cose ancora: ad esempio quale
differenza esista tra sommossa anti-americana e sommossa anti-modernizzazione e cosa c’entra tutto questo
con la parola ‘nazionalismo’.
Il fatto è quando il fenomeno di milioni di copie de La Cina può dire No! passa inosservato davanti a coloro che
dovrebbero essere gli occhi dell’Occidente in Cina, non si può pretendere che questi occhi siano poi in grado
di comprendere in una notte quello che non hanno visto per anni. Per un decennio, salvo rare eccezioni, la
cittadella occidentale in Cina ha accarezzato il sogno di un 1989 popolare, di massa, nazionale. Splendida utopia,
ma ben misera testimonianza. A coloro che sognano e raccontano di una «Cina che vuole diventare America»
84 Assalto all’ambasciata Usa; Attaccato e incendiato il consolato americano a Chengdu, in «La Stampa», 11 maggio 1999.
85 The Sand Pebbles (Quelli della San Pablo), con Steve Mcqueen e Candice Bergen, regia di Robert Wise, 1966.
86 L’oriente non è più rosso. La patria funziona meglio di Marx. E’ il nazionalismo la nuova ideologia del partito, in «La Stampa», 30
settembre 1999.
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non giunge la rabbia della generazione di cinquantenni che si sono sentiti scippati del loro paese, l’umiliazione
di chi credeva di essere avanguardia del Terzo mondo e si scopre periferia sottosviluppata e affamata, la furia di
chi non comprende come sia possibile passare nel volgere di dieci anni dalla gloria del futuro luminoso (Mao)
alla miseria di un paese privo di tutto: di strade, di ferrovie, di tecnici, di know-how. L’umiliazione che prova chi
era certo di dovere insegnare a tutti ed è costretto di colpo a subire lezioni di ogni genere. In effetti basterebbe
andare nei giardini del Tempio del Cielo di Pechino, o in quelli del lungo lago di Nanchino, basterebbe ascoltare
legioni di cinquantenni che si ritrovano alla mattina e trascorrono il tempo fino a sera cantando le canzoni della
Rivoluzione culturale e chiedersi: perché lo fanno? O entrare nella case dei più remoti villaggi dello Shanxi,
osservare il ritratto di Mao emergere da trionfi di uva e di mele rosse e domandarsi: perché lo fanno? O andare
nelle miniere di Datong, poche ore da Pechino e domandare cosa prova un minatore quando dopo dodici ore di
miniera vede alla televisione ragazzine ‘Britney-Spears-vestite’ osannare la fragranza del BigMac ….
Non interessa, oggi e qui, trasformare queste domande in un processo individuale. Ma annotare con precisione
che quello che poteva essere fatto non è stato fatto: gli occhi degli osservatori occidentali di quegli anni erano
tutti a Pechino, avvolti a rassicurati dal circolo vizioso “hall di albergo / ambasciata / internet”, per dirla con il
giornalista cinese.
E così le folle in protesta a Pechino vengono confuse con la trattativa WTO, con lo spionaggio atomico cinese,
con le imminenti elezioni americane che in ogni caso avrebbero posto fine all’era Clinton e, presumibilmente,
avrebbero aperto l’era Bush… Non si intuisce nemmeno che il passaggio tra disagio sociale e manifestazioni
antiamericane non è né immediato né necessario. In una sorta di puzzle in cui si cerca di mettere di tutto un po’,
si scomodano le attese democratiche (???) delle folle cinesi, la richiesta di una maggiore autonomia per il Tibet
inoltrata da Clinton, le promesse non mantenute dalla presidenza americana a proposito del WTO87. Errori senza colpevoli, sbagli di crescita che richiedono non condanne - troppo facili a posteriori - ma una comprensione
profonda del ruolo e della presenza occidentale in Cina (ma probabilmente anche in altri parti del mondo)88.
È segnale poco confortante che di questa profonda crisi dell’Occidente presso le folle cinesi, che è obbligatorio
mettere in relazione con la vasta area di malcontento sociale che culmina con la destituzione di Jiang Zemin
di due anni dopo e l’avvento del gruppo capitanato da Hu Jintao e Wen Jiabao, l’Occidente - e in particolare
l’Europa - non abbiano avuto il minimo sentore. Né che le manifestazioni del 1999 contro il bombardamento
dell’ambasciata cinese siano servite come campanello di allarme.
Nel momento in cui l’opinione pubblica cinese decretava il successo di un libro nazionalista, anti-occidentale,
87 La Cina ci inganna. L’America ci tradisce, in «Corriere della Sera», 14 giugno 1999. D’altra parte non si può certo dire che esperti con
una propensione maggiore allo studio dei comportamenti delle masse popolari cinesi fossero riusciti a sviluppare un’analisi più approfondita.
Si veda l’emblematico Enrica Collotti Pischel, Realtà e immagine nella tensione tra Stati Uniti e Cina, in «Mondo cinese», n.101, maggio 1999.
88 Nell’ottobre del 1999 il Corriere della Sera riporta un’interessante intervista a Lucian Pye, probabilmente uno dei più grandi sinologi
viventi, consigliere della Casa Bianca. La crisi cinese viene inserita in un contesto di ampiezza secolare in cui si stemperano, fino a scomparire, le
preoccupazioni per l’ondata di xenofobia e si smentisce nel modo più totale l’uso del nazionalismo da parte del governo cinese. Ma il giornalista
non ci sta e chiede: «Che sbocco potrà avere questa crisi d’ identità ? Un ritorno al marxismo - leninismo o un nazionalismo spinto? “Secondo
me, - risponde Pye - Pechino si trascinerà avanti come sta facendo adesso ancora per alcuni anni. C’ e’ però il pericolo che il regime degeneri in
una sorta di semi - dittatura fascista. In crisi simili, è la via d’ uscita più facile. Non credo che si giungerà a questo punto. Il regime lo eviterà se
attingerà al substrato culturale del Paese, che e’ straordinariamente ricco…». E ancora, più avanti: «Ci vuole più apertura. La Cina e’ un Paese
logorato dall’occupazione giapponese, dal secondo conflitto mondiale, dalla guerra civile, i fiaschi di Mao, la dislocazione di intere popolazioni,
le guardie rosse. La sua psiche nazionale ne e’ rimasta traumatizzata. I cinesi sono alla ricerca disperata di qualcosa che riempia il loro vuoto
spirituale. E i leader ne sono spaventati. A mio parere, la questione culturale è la più importante ma anche la più difficile da risolvere.» Ma la
Cina soffre di vuoto spirituale in «Corriere della Sera», 1 ottobre 1999.
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xenofobo e aggressivo, mentre la ‘tradizionale’ xenofobia cinese89 si manifestava a chiare lettere nella manifestazioni contro l’Occidente in seguito al bombardamento dell’ambasciata di Belgrado, sulla stampa occidentale
- incluso quella italiana - si continuava a descrivere una Cina improbabile, affarista, completamente dedita alla
sola ricerca di denaro e del successo economico, più occidentale dell’Occidente. Pronta, proprio perché ormai
matura, alla democrazia occidentale che un partito “sclerotico” composto da una vecchia dirigenza arroccata al
potere, negava ricorrendo anche alla repressione fisica dei dissidenti.
Quanto è cambiato dalla fine degli anni ’90? Quanto si è approfondita la nostra conoscenza della Cina? Quanta
strada è stata fatta nella direzione di conoscere la Cina reale e non quella di molte fantasie europee?
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Verso le Olimpiadi
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Come si vede e come si è dimostrato con un corredo di note che avrebbe potuto essere più completo e imponente se non avessimo avuto problemi di spazio e di leggibilità, il quadro politico cinese all’inizio degli anni di Hu
Jintao e di Wen Jiabao è ormai molto diverso da quello descritto dai reportage del 1989, a piazza Tienanmen
occupata.
Ed è in questo contesto che ora – speriamo – il lettore si renderà conto, ove già non lo avesse intuito o saputo in
precedenza - quale carattere politicamente avventato abbia assunto la campagna per il Tibet avviata in questo
2007 / 2008 in Occidente. E poiché quanto da noi scritto è stato spesso deformato e mutato fino a trasformarne il senso stesso, gioverà ripetere – perché sia chiaro in modo indiscutibile – che non si sta dicendo che
le richieste del Dalai Lama siano inopportune. Non si sta difendendo il governo cinese, né negando le ragioni
dell’autonomismo e delle ambizioni politiche tibetane. Il tema della aspirazioni tibetane e della loro legittimità
è stato già affrontato in separata sede e dunque a quell’intervento si rimanda90.
In questa sede si intende sottolineare che nei modi in cui è stato riproposto il problema tibetano ha equivalso
a girare bendati e con una candela accesa in un deposito di dinamite. Rispetto al passato recente, in questo
saggio descritto con maggiore attenzione che non altrove, le argomentazioni occidentali sono parse ai cinesi
ancora più provocatorie, gratuite. Dense di una ignoranza così profonda da giustificarsi in un solo modo: come
provocazione.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti e mette, sinceramente, apprensione se non spavento.
Tutta la Cina è attraversata da una nuova ondata anti-occidentale la cui estensione dovrebbe mettere in guardia.
In tutto il paese – nelle stazioni ferroviarie come nelle università, negli impianti di risalita alle montagne sacre
così come nelle fermate della metropolitana – si avverte palpabile e non descritto (grande tradizione cinese…
solo dopo si descrive e racconta che deve succedere quello che è già successo) una preoccupazione nuova.
Si temono manifestazioni pro-Tibet da parte degli stranieri? Difficile crederlo. Il problema è piuttosto nascondere all’Occidente che giungerà qui tra pochi mesi per l’apertura dei giochi olimpici quale difficile situazione
si sta venendo a creare. Quale potente ondata di anti-occidentalismo è ormai in corso e - pare – quanto sia
difficilmente contenibile da parte del governo. Ormai in tutte le città cinesi sono avvenute decine e decine di
manifestazioni contro le imprese occidentali a ragione o a torto accusate di sostenere il Tibet, manifestazioni
di protesta contro le nazioni (Francia e USA) che sembrano avere mostrato maggiore tolleranza verso il Dalai
Lama.
La protesta e la repressione tibetana con i suoi probabili duecento morti, la repressione e lo stato d’assedio, l’in89 Jonathan Unger (a cura di), Chinese Nationalism, East Gate Book 1996. Si veda anche John Fitzgerald, Awakening China - Politics,
Culture, and Class in the Nationalist Revolution, Stanford, Stanford University Press, 1996.
90 Stefano Cammelli, Tibet: domande per chi ha ancora voglia di interrogarsi, in Polonews, www.polonews.info, 9 aprile 2008.
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carcerazione di centinaia di militanti e l’imposizione di un sostanziale coprifuoco in tutta la regione tibetana si
accompagnerebbe, secondo i media occidentali, ad una volontà di dialogo che ha condotto a nuovi colloqui.
E, naturalmente, tutto ciò si comprende e spiega in ragione della debolezza di un partito e di un regime che non
potrebbe contare sul consenso popolare.
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Siano i sostenitori della debolezza della Cina a spiegare da dove giungono le loro informazioni e quali siano le
loro fonti. Davanti ai nostri occhi – al rientro dalla Cina – scorrono immagini di decine di manifestazioni dal
sapore antico: Boicottare Carrefour (dizhi jialefu, 抵制家乐福), Sostenere Pechino, sostenere i giochi olimpici (zhichi Beijing, zhichi Ao Yun, 支持北京, 支持奥运), Lunga vita alla Cina (Zhongguo wansui, 中国万岁).
Nelle grandi città Carrefour è riuscita a evitare il boicottaggio facendo indossare al personale la maglietta con
la scritta Sostenere Pechino, sostenere i giochi olimpici. Ma tutto questo non sembra essere stato sufficiente: in
tutto il paese domina uno stato di allerta e di preoccupazione che raccoglie molte e contraddittorie istanze: preoccupazione per la violenza dell’attacco internazionale e delle manifestazioni che si è lasciato inscenare contro
la fiaccola olimpica, preoccupazione per il sorgere di un indipendentismo tibetano che sembra avere messo in
un canto e tagliato fuori lo stesso Dalai Lama, preoccupazione per l’ondata anti-occidentale delle folle cinesi che
potrebbe costringere il governo o a una repressione popolare non opportuna o a una ancor meno opportuna
conflittualità con i paesi occidentali. Non c’è dubbio che mentre in Tibet quanto avvenuto alimenta i dubbi
più seri (compreso che si sia voluto cercare lo scontro prima dell’inizio dei giochi in modo da blindare il paese
durante i giochi stessi), quello che sta avvenendo nelle città cinesi e nelle città europee e americane dove vivono
grandi comunità di studenti cinesi è un potente sostegno al governo cinese come non avvenne nemmeno durante i giorni del bombardamento dell’ambasciata di Belgrado.
La reazione occidentale – culturalmente rozza e dai toni sgradevolmente aggressivi – ha posto dietro il governo
cinese, a sostegno delle sue tesi e del suo approccio alla questione tibetana, decine di milioni di cinesi fino ieri
esitanti a esprimersi o poco propensi ad affrontare il tema del Tibet e della sua autonomia.
C’è in Cina in questi giorni un tale, massiccio, compatto anti-occidentalismo a sostegno al governo che rappresenta un nuovo punto di forza, assolutamente eccezionale, per il governo di fronte alle difficoltà attuali dello
sviluppo cinese e interno. Mai, negli ultimi quaranta anni, il paese è stato così compatto, deciso, sicuro di essere
oggetto di una aggressione internazionale senza precedenti, di fronte alla quale devono cessare le divisioni e
deve ricomporsi una solidarietà nazionale senza esitazioni e senza ma.
C’è un problema tibetano. Gravissimo. E c’è un problema ugualmente grave di crescente deriva anti-occidentale
dei sentimenti della popolazione cinese. I problemi della Cina in questi giorni non nascono dalla debolezza del
governo o delle sue posizioni. Ma dall’eccesso di solidarietà tra le masse cinesi; una solidarietà cresciuta in un
ventennio di crescente anti-occidentalismo, alimentata dalle quotidiane esperienze di sufficienza e di arroganza
occidentale, che viene oggi innescata dall’atteggiamento dei paesi occidentali sulla questione tibetana. La Cina
che esce da questa crisi è più forte, più salda, più popolare di prima.
Vengono in mente le riflessioni di un bel intervento di questi giorni91: solo la violenza e la superficialità di certe
posizioni politiche americane ha consentito a regimi ormai falliti (Cuba) o in difficoltà (Iran) di sopravvivere.
Stiamo forse assistendo alla forma più indiretta ed efficace dell’amministrazione Bush per venire incontro alla
Cina e alle sue ben note difficoltà interne? I sostenitori dell’indipendenza tibetana nemmeno si rendono conto
91 Vicki Huddelston, Cuba Embargo’s usefullness has run its course, in Brookings Institute, Opinion, 4 maggio 2008
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come sono stati usati e fino a che punto da chi non ha alcun interesse né per il loro paese né per la loro indipendenza. Una buona soluzione della vicenda tibetana è oggi ancora più difficile e lontana di ieri. E il Dalai Lama
appare – bella e nobile figura, nonostante le accuse cinesi – essere l’unico ad avere compreso quanto il suo
popolo e il Tibet pagheranno per tutto questo.
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Debolezza della Cina e problema tibetano