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Rivista giovanile di cultura e critica sociale
anno 2 - numero 6 - Aprile-Maggio 2006
Il Nuovo che Avanza
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Silvio Berlusconi come Roberto Da Crema? Il popolo
italiano abbindolato dal tele marketing politico?
Mai un risultato delle elezioni è stato in modo così
diretto figlio legittimo di una campagna elettorale.
Mai nella storia della repubblica una campagna elettorale ha inciso in maniera così pensante sul risultato
del voto. L’unico paragone storico che mi sovviene è
il 1948. Allora si parlava di scontro ideologico; oggi
abbiamo visto un confronto meramente mediatico. I
media hanno dettato i tempi e condizionato il gioco.
Tutti si son fatti attori, volenti o nolenti.
Le reazioni di tanta sinistra
al
voto del 9 e 10 Aprile sono state
davvero inquietanti. Ne
abbiamo sentite di
tutti
i colori e nella classifica
vorrei citare la più
delicata: “Che paese di
merda!” e quella che
più mi ha colpito
per l’estremo senso
civico: “Io emigro!”.
Riminiscenze di periodi lontani quando le gentil
nobildonne addossavano alla “plebe” tutti i malanni
dell’Italia. E all’ennesima dichiarazione la mia memoria mi ha visto su di un aereo per Berlino mentre
leggevo, aspettando di fargli visita, la sottile e
tagliente ironia di Bertold Brecht secondo il quale
quando un popolo smentisce un governo, allora il
governo deve cambiare popolo.
Ecco dunque: se la sinistra non ha vinto surclassando
L’editoriale di questo numero è stato scritto da
Marco Maschietto
l’avversario è colpa del maledetto popolo.
Giammai che non fosse stata colpa “nostra”, ovvero dei
“nostri” dirigenti, della classe politica di sinistra.
Ho visto poi scendere in campo un popolo politicamente
muto, quello dei telespettatori, quello che non è rilevabile
nè dai sondaggi nè dagli exit-pool.
L’originale novità non è stata la spaccatura dicotomica
del paese, ma il paese nella sua totale interezza. Gli
ottimisti carichi di volontà hanno visto in questa scesa in
campo una attiva partecipazione democratica, i pessimisti
dell’intelligenza una passiva mobilitazione di massa.
Questo mio commento esce ad una distanza
r a gionevole dal voto del 9 e 10 Aprile. Non
vorrei arrestarmi agli aspetti
accessori, accidentali, eventuali, ma tentare di andare
leggermente oltre cercando di individuare
un paio di problemi di
fondo che dal risultato
elettorale sono stati
partoriti.
La società italiana:
una questione irrisolta e sconosciuta a tutti, anche a
quelli che in linea di principio dovrebbero governarla;
l’ignoranza analitica: quella che caratterizza l’immobile
classe dirigente dei nostri partiti.
Hanno costruito i loro programmi senza analizzare l’humus
culturale e sociale italiano, hanno cioè costruito una diga
senza prima sguinzagliare una moltitudine di geologi. La
storia ci ha mostrato il dramma che ne è seguito, ma
non abbiamo ancora imparato. Dovevano costruire delle
fabbriche della conoscenza prima di mettersi a pensare al
programma, prima capire a chi rivolgerlo, chi rappresen-
Tempi Supplementari - rassegna cinematografica
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Nuovo Cinema Don Bosco, S. Donà
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Les Amants Réguliers (P. Garrel)
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Il Grande Silenzio (P. Groning)
ingresso 4,00€ ridotto 3,50€. Cinema Teatro Don Bosco, via XIII Martiri 86
Critica
tano, capire la geografia politica, e
solo in un secondo momento stilare
il benedetto programma. Capire
chi sono e cosa vogliono. Questo
facevano i partiti.
Ora parliamo solo ed esclusivamente di coalizioni, e quindi per
forza di cose a come si presentano. Dall’essere all’apparire, la
dittatura mediatica, una tesi tutta
situazionista.
Guardate l’organigramma delle
segreterie: pubblicitari, sondaggisti ed exit-poolisti, commercialisti
della finanza, non più economisti,
non più sociologi, non più uomini
di indiscussa cultura, ma uomini di
mondo carichi di una irragionevole
spregiudicatezza. Il trionfo dell’antintellettualità. Una crisi di cultura
politica. La democrazia tramutata
in un mercato della politica. Vince
il prodotto meglio presentato.
Migliore nella terminologia del
marketing significa il più utile, ed
è questo il valore che unisce l’Italia. L’utilitarismo politico come
colla sociale. Le urne hanno eletto
decretandolo vincitore un solo concetto: l’antipolitica.
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a cura dell’associazione culturale Punto G.
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culturale Punto G., vuole essere uno strumento
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parlare dei problemi, della cultura, e delle
necessità dei giovani. Il collettivo redazionale
è aperto a chiunque voglia veicolare attraverso
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Collettivo redazionale
Federica Alfier, Alberto Boem, Serena
Boldrin, Alberto Cereser, Giovanni Lapis,
Marco Maschietto, Alice Montagner,
Ferdinando Morgana, Marco Piovesan,
Stefano Radaelli, Daniele Vazzola, David
Vian, Marco Zamuner
Impaginazione e grafica: David Vian
Stampa: DigiPress s.r.l. - S. Donà (VE)
supplemento alla testata “Radio San Donà”
Iscrizione n°1084 trib di VE del 22.02.92
direttore responsabile: Andrea Landi
Ahi dorotea Italia, di centrismo ostello
Punto G. - Aprile-Maggio 2006
di Marco Zamuner
2
Ho atteso qualche tempo prima di
mettermi a ragionare su carta a
riguardo delle Politiche 2006. Ho
atteso che sfumasse la delusione;
sarebbe stato “snob” e decisamente di cattivo gusto riservare
una pagina troppo risentita nei
confronti di un buon cinquanta
per cento dell’elettorato italiano:
agli insulti ci pensa già il premier
(quasi) uscente. Per queste scelte
di etichetta che contraddistinguono da sempre la nostra rivista,
la mia analisi cercherà di attenersi
all’obiettività e alla semplice speculazione di fatti reali.
Primo, innegabile dato di fatto:
Berlusconi ha scelto, a buona ragione, da subito un clima da guerra
civile. Ha parlato di un pericolo
comunista, di derive dittatoriali in
seno alla magistratura, di complotti internazionali a lui sfavorevoli.
Berlusconi ha lasciato il segno su
questo malandato paese, un segno
Studia a tempo perso Antropologia a Venezia, a tempo perso
invece è leader dei Duracel
tangibile, inequivocabile. La linea
secca che in quell’orrendo lunedì
notte tagliava in due la “mela”
nella grafica del Viminale l’ha tracciata lui. L’ha pensata, disegnata,
scolpita nella nostra testa in questo
triste quinquennio. Ha creato in
Italia una spaccatura profonda e
insanabile, una barricata che divide
due categorie di pensiero: il berlusconismo e l’antiberlusconismo.
Spariti borghesia e proletariato, si
affermano queste due nuove classi,
due sezioni nette e distinte.
I rappresentanti di queste due
categorie si odiano tra loro. Si
odiano di un odio profondo, viscerale, retto da un nuovo, fortissimo
senso di appartenenza. Berlusconi,
consapevole che i propri atteggiamenti volgari, violenti e pregni
di infima demagogia non potevano
guadagnargli il consenso generalizzato, ha deciso deliberatamente
di cristallizzare attorno a sé il suo
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questo articolo: 4,5 min
658 Parole
elettorato, infischiandosene di convincere una fetta moderata dei suoi
oppositori che anzi ha preferito insultare e calunniare fino all’ultimo.
Alla fine ha convinto a votare per
lui, e spesso nonostante lui, tutti
gli elettori di destra, che piuttosto
di premiare una coalizione che
schiera il pericoloso “segnato da
Dio” Luxuria o il folle bolscevico
Caruso, hanno preferito la Casa
delle Libertà.
Dall’altra parte chi ha votato centrosinistra sarebbe stato disposto
a votarlo anche se la candidata
premier fosse stata Maria De Filippi. L’orrore per il berlusconismo
ha portato a votare per la prima
volta centri sociali ed estrema
sinistra (avvezza all’astensione),
artisti e scienziati, intellettuali
e giovani precari. Prodi, di suo,
sembra non aver portato un solo
voto in più alla propria coalizione.
Il suo ruolo doveva essere quello
per risultati perché è finita per
diventare, a sorpresa, portatrice
di diritti oggi discussi anche dai
suoi compagni di coalizione. Compreso quello della laicità, battaglia
sottratta alla Rosa nel Pugno: gli
spettri della recente scampagnata
berlusconiana di Bonino & company
hanno spaventato buona parte del
suo potenziale elettorato.
Ed ecco che i dati, secondo alcuni oscuri e incomprensibili, mi
sembrano parlare dell’Italia in
maniera chiara, inequivocabile.
Il nostro paese ha un piede a
sinistra e un piede a destra. Da
sempre. Non è una novità, non è
la conseguenza della legge elettorale “porcata” che la Destra ha
sfacciatamente progettato per
consegnare alla sinistra almeno una
camera all’impasse.
È lo specchio di un’Italia che ha
paura del nuovo, paura del diverso,
paura del radicalismo, paura di
cambiare.
È lo specchio del solito, vecchio
paradiso degli inciuci, dei governi
di unità nazionale, delle promesse
non mantenute, della classe dirigente incollata alla poltrona, immune dai lavaggi di Tangentopoli.
È il triste specchio di un’Italia
che sa perfettamente di essere
stata, prima che berlusconiana,
democristiana. Di esserlo tuttora.
Di esserlo per sempre.
Critica
di traghettare i moderati indecisi
sulle sponde dell’Unione: il risultato è stato trascurabile. Cadono
così con somma soddisfazione le
squallide teorie neocentriste di
D’Alema e Rutelli: le elezioni, vi
è la riprova definitiva nella crisi
di DS e Margherita, non si vincono
spartendosi un pugno di elettori a
colpi di rassicurazioni a commercianti e Confindustria, a sindacati e
cooperative. Le elezioni si vincono
se si torna a mettere in bocca alla
sinistra le parole semplici, quelle
del popolo che ci si prende la briga
di rappresentare: istanze di miglioramento, ripresa dei servizi, della
democrazia diretta e partecipativa. Rifondazione Comunista brilla
Come Lucia, la bella sposina
di Serena Boldrin
fesercenti. Addio pubblicità sulle
schede elettorali. Addio manifesti.
Addio banchetti azzurri, verdi, rossi, gialli, magenta, iridati, grigiobeige. Addio rose e colombe. Addio
inutili conversazioni con gli indecisi
o con i decisi dalla parte sbagliata.
Addio dibattiti. Addio Emilio Fede
ti-sei-dimesso-come-un-martirema-i-martiri-restiamo-noi, ma poi
Perché non ti sei dimesso? Addio
cari e grassi insaccati, così rassicuranti e paterni. Addio previsioni
del tempo. Addio anfibi. Addio
magistrati poco politically correct.
Addio donne vicepremier. Addio
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questo articolo: 2 min
248 Parole
ubriachi e drogati. Addio utili e
idioti. Addio crisi economica. Addio Europa, ma ricorda che è stato
bello, credimi, fin dal 1952! Addio.
Addio. Addio. Ora so che per altri
cinque anni potrò essere ancora
invisibile e muta, o fare casino e
non essere ascoltata nonostante le
grida, e vivere così tranquillamente
la mia vita precaria, ma flessibile.
Ecco perché la maggioranza degli
italiani non è fatta di coglioni:
evidentemente è nel loro interesse
contare zero.
Ventiquattromarzo. La memoria
di Simone Zen
Mi sono svegliato tardi oggi, tradito
dal sole e dalla notte sudamericana. Galeano segue raccontandomi
la settimana santa degli indios
che è diversa perché per loro non
è prevista la resurrezione. Mentre
la canna da zucchero brucia la
costa umida del nordest brasiliano e i vassalli spagnoli succhiano
il sangue di Potosì, il mate caldo
accompagna il mio risveglio.
Oggi è il 24 marzo, giorno della memoria qui in Argentina. Qualcuno
mi ha raccontato del Pozzo di San
Vive 365 giorni d’estate. E’ un
ospite in questo numero.
Lorenzo, un edificio che durante la
dittatura militare era usato come
centro clandestino di tortura e
di morte. Dovrebbe essere a sei
solati dal mio appartamento in
Rioja e Alvear. Devo dire che Rosario mi piace, anche se fuori dal
centro bisogna fare attenzione.
Mi incammino per calle Santa Fe,
ma ad un paio di isolati già ripiego
per calle San Lorenzo. Il cielo è
straordinariamente celeste qui in
Argentina, oggi però fa un’eccezione: il grigio che minaccia pioggia
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questo articolo: 7 min
1083 Parole
si addice di più alla giornata della
memoria. Io seguo il mio percorso
ipotetico ma non arrivo da nessuna
parte. Ho già chiesto ad un paio di
persone... sembra che nessuno lo
conosca, che nessuno lo ricordi,
che nessuno lo voglia ricordare.
Poca gente per strada in questo
quartiere e nessun negozio aperto.
Abbandono il pozzo: rimarrà un
luogo inesplorato. Forse meglio
tornare da Galeano. Sicuramente mi racconterà altri malanni
dei lestofanti europei in questo
Aprile-Maggio 2006 - Punto G.
Sto male, vorrei ripigliarmi. Tuttavia, in tutta questa baraonda, come
posso riprendermi? Che shock,
ragazzi! È come se un trattore, un
carro armato e una mietitrebbia
mi fossero passati sopra uno dopo
l’altro, lasciandomi a brandelli.
Perché, è ovvio, solo a brandelli
potrei essere uscita. Ma io SONO
uscita. E SONO a brandelli, ma è
finita, finalmente! Non se parla più
in tv di bot cct ici e ciò che manca
è sottinteso. Basta! È finito tutto!
Addio campagna elettorale. Addio
posta indesiderata. Addio Vespa e
Mimun. Addio Confindustria e Con-
Bella Brava Buona: una Boldrin!
Lei preferisce definirsi... semplicemente Divina.
3
Punto G. - Aprile-Maggio 2006
Critica
splendido continente violentato.
Prima però cerco un telefono,
anche se oggi chiamare i parenti
si limiterebbe solo ad un vuoto
rituale. Le mie suole calpestano
già il Boulevard Oroño, quando mi
appare davanti agli occhi un gruppo
di donne e bambini seduti. Le loro
4
facce mi dicono che provengono
dalle province del nord, un ragazzo
vestito bene mi dice addirittura
che sono “bolitas”, immigrati boliviani. Dio mio, penso, hanno gli
stessi sguardi profondi degli indios
di Galeano. Qualche metro più
avanti un altro gruppetto di ragazzi
con percussioni. Inizia a incuriosirmi questo strano clima!
Proseguo la mia passeggiata fino
alla riva del rio Paranà, complice
l’acustica delle prove di qualche
concerto. Infatti ne stanno montando uno. Un mezzo sorriso mi si
dipinge in faccia: la mia memoria
vola ai caldi pomeriggi di Fiesta!,
quando con gli amici montavamo
ombreggianti, luci, pali e transenne. Ma questa è un’altra storia.
Sono qui per un’altra memoria
che non è la mia. Il parco sembra
avvolto da una tranquilla atmosfera
domenicale. Papà stempiati giocando a pallone raccontano ai loro
figli di Kempes e Tarantini, anche
se l’innaturale talento del Diego li
ha cancellati. Poi coppiette di giovani, uguali a quelle che si vedono
in qualsiasi altro parco del mondo,
anche se questi si distinguono per
l’immancabile mate, loro stile di
vita!
Altra occasione mancata, nemmeno qui si vuole ricordare. Caspita!
E sì che ogni parete è tappezzata
da manifesti con un gran 30 ed una
rosa o con foto di desaparecidos e
madri della piazza di maggio!
Percorro Oroño in senso inverso. Mi
chiedo dove ho sbagliato, oggi è un
giorno importante ma sembra che
mi voglia schivare. Tutto questo è
assurdo: posso leggere libri, documenti, posso venire a conoscenza
della storia in qualsiasi altro luogo.
Ma non qui. Forse la ferita è ancora
troppo
grande
e troppo
aperta,
forse la
gente
vuole
solo dimenticare.
OroñoU r quiza;
OroñoSan Lorenzo;
OroñoSanta Fe, sono quasi arrivato.
Galeano si sarà spazientito per il
mio ritardo. Ha ragione, lui sì che è
riuscito a scrivere la memoria!
Vedo alcune bandiere... cosa
succede? C’è un capannello di
gente, poi un’altro. Calle Còrdoba
è piena!! Inizia a battermi il cuore, sono emozionato, la memoria
argentina mi ha preso di sorpresa. Bandiere, colori, fischietti e
molte percussioni. Le percussioni
del carnevale. Dribblo la gente,
voglio capire, voglio vedere. Se
qualcuno mi chiede qualcosa, dirò
che sono un giornalista! Ma quante
bandiere, quante immagini. Dentro
a calle Còrdoba. Adesso è pieno di
bolitas, ma ci sono anche bandiere
venezuelane. Una striscia lunghissima di tela bianco-celeste viene
distesa al suolo. Non mi lasciano
andare in mezzo alla strada. Io non
sono schierato, per me c’è spazio
sul marciapiede. Poi tante bandiere
rosse, il Che che guarda l’infinito.
Per un péso e cinquanta una signora mi vende una rivista che grida
“Contro l’impunità non c’è vacanza!”; con un altro pèso ne compro
una con la foto dei tre generali
macchiata di sangue e con la scritta
“Impuniti!”. Ricevo un volantino
della gioventù peronista. Ma anche Juan Peròn era un dittatore...
non ci capisco più niente! Troppe
immagini, troppi colori, troppe
emozioni! Devo riappropriarmi di
me stesso. Allora salgo gli scalini
dell’entrata di una banca, la posizione leggermente sopraelevata
mi permetterà di vedere bene il
corteo. Con ordine.
Sfilano i giovani socialisti, indossano magliette rosse. Poi, con bandiere dello stesso colore, vengono
i militanti del Partito Comunista
Rivoluzionario. La maggior parte
della gente di questo gruppo sono
di etnia andina, hanno immagini
di Che Guevara e sono vestiti in
maniera povera. Appaiono altre
bandiere del Venezuela. Poi è la
volta del Partito Intransigente,
con i loro drappi rossi e neri: a
dire la verità sembrano più tifosi
del Newel’s Old Boys! Ora tocca
agli studenti, il movimento per la
alfabetizzazione. Anche qui cori e
bandiere argentine. Ma il gruppo
che si fa più sentire sono i peronisti: sono più organizzati e anche più
eleganti. Indossano magliette azzurre, portano striscioni stampati e
non stracci fatti a mano. Ovunque
bandiere bianco-celesti con il sole
di maggio. Passa l’aggruppamento
Evita, qui ogni bandiera ha il sorriso
enigmatico della prima moglie del
generale Peròn. Siamo già verso la
coda del corteo e sono quasi riuscito a mandare giù il groppo che
dall’emozione mi era preso alla
gola. Comunisti, socialisti, grasitas, bolitas, studenti, peronisti..
tutti assieme, tutti piangendo i loro
compagni assassinati, tutti chiedendo che i crimini non rimangano
impuniti, tutti gridando contro
l’oblio. Tanti problemi ha questo
meraviglioso paese ma nessuno
vuole dimenticare: la memoria è
forte, la memoria non può essere
cancellata: trenta mila desaparecidos sono troppi! Mi ricordo che da
qualche parte da noi in Europa c’è
scritto che chi dimentica il proprio
passato è destinato a ripeterlo. Qui
nessuno vuole ripetere l’incubo
della dittatura, oggi me lo hanno
fatto sapere.
È ora di tornare a casa. Mi aspettano le miniere Ouro Preto, le piantagioni di Pernambuco, la caduta in
disgrazia di Potosì e l’ottusaggine
del Conquistador... ed un altro
mate da compartire con Galeano.
A proposito: se lui fosse qui davvero, sicuramente mi avrebbe accompagnato alla marcia della memoria.
Rosario, 24 marzo 2006
di Alberto Boem
non è ripeto funzionale, ma la cosa
sorprendente è la sua presenza vitale, attraverso i numerosi registi,
attori, sceneggiatori che occupano
un posto in ogni sequenza del film,
non li elenco tutti, ma si può enumerare quei registi “scoperti” da
Nanni Moretti come Carlo Mazzacurati (fantastico cameriere-killer),
Matteo Garrone, oppure l’amico
sceneggiatore Stefano Rulli (nella
parte del giudice), Valerio Mastandrea, Michele Placido; e ancora i
registi Paolo Virzì e Paolo Sorrentino (rispettivamente celebrante e
sposo nel matrimonio maoista).
Ma il discorso più complesso, anche
a livello simbolico, si materializza
nella presenza di Giuliano Montaldo
e Jerzy Stuhr. Perché “Il Caimano”
pone in causa un forte interrogativo, sulla funzione del cinema in
una società; Moretti si chiede come
abbia fatto in tutti questi anni il
cinema italiano a non prendere una
parola forte contro ciò che stava
succedendo, da quella vera e propria “rivoluzione politica” (termine
poco corretto ma che esprime bene
il concetto) che nel ’94 la discesa
Tempo necessario per leggere
questo articolo: 9 min
1360 Parole
in campo di Silvio Berlusconi ha
portato. Perché nessuno ha detto
nulla? Perché nessuno ha mai avuto
il coraggio di prendere la parola?
Chiariamo subito che questo non
è un film contro Berlusconi, non è
un campanello d’allarme, un film
d’urgenza, di “denuncia” (come
si diceva al tempo dei Rosi e dei
Petri), ma un’amara presa
d’atto che nulla si è mosso,
che nulla ha voluto veramente
contrastare una concezione
dello Stato paradossalmente
anti-statale, e di una politica
d’interessi. Ci apre gli occhi
Jerzy Sthur – regista di quel
cinema polacco altamente polemico, e forte nella denuncia
-, con un intervento che non
lascia dubbi. E tutti appaiono
(volutamente) impotenti e
indifferenti: la RAI che non
vuole produrre il film, e il regista interpretato da Giuliano
Montaldo (figura di spicco del
“cinema d’impegno civile”
degli anni ’60-’70) volta le
spalle all’amico produttore,
assieme all’attore figurato da
Michele Placido (che ricorda i
tempi delle proteste insieme
a Gian Maria Volonté), per
girare l’ennesimo “Cristoforo
Colombo”, prodotto dalla
televisione di Stato. Nessuno si vuole contrapporre, e tutti
sembrano non voler cambiare gli
eventi. Gli unici tenaci appaiono la
giovane regista e il suo produttore
che stringono i denti di fronte alle
loro difficoltà, prima di tutto quella
di girare il film. Moretti però è un
cineasta atipico e deciso a catturare quelle impercettibili sfumature
dei sentimenti (con “La stanza del
figlio” aveva messo alla scoperta
una parte del suo cinema lieve,
delicato, umano e laico che era
sempre passato sotto piega), perché nei film di Moretti la famiglia è
il luogo privilegiato, il luogo da cui
nasce e si disperde la crisi, di una
coppia (interpretata da Margherita
Buy, attrice dal volto sofferto, e
da un superbo Silvio Orlando, che
si conferma attore assolutamente
Aprile-Maggio 2006 - Punto G.
Ormai è passato un mese, e forse è
già stato detto quasi tutto nell’ultimo capolavoro (perché nella sua
semplice confusione lo è indubbiamente) di Nanni Moretti. Prendendo atto di questa situazione nella
quale mi inserisco con voce non
autorevole, ma appassionata da
spettatore partigiano del cinema
di Moretti, e soprattutto di
questo “Il Caimano”.
Dico subito che non mi interessa vedere se il film ha o
no rispettato le attese del
pubblico, o dilungarmi nella
noia della politica italiana (il
tormentone destra-sinistra
elettorale è finito). Ma poi
cosa pretende questo pubblico, specie quello di sinistra ?
“Il Caimano” è un film sul
cinema, prima di tutto; sulla
crisi del cinema italiano, di
una famiglia e di un intero
paese, il nostro. Moretti non
è nuovo a parlare del mondo
del cinema nei suoi lavori (che
assieme a “Sogni d’oro” è il
più esplicito), ma questa volta invece di narrare la storia
di un regista in crisi, racconta
quella di una aspirante regista
e di un produttore sulla via
del fallimento. L’ambientazione nel mondo del cinema
non è puramente evocativa,
o pretesto per una riflessione
sul mezzo cinematografico, ma
un’analisi delle sue modalità produttive, realizzative e di tendenze storico-critiche. L’inizio della
pellicola coincide con il finale di
“Cataratte”, film inesistente che
si pone come ironico esempio della
fortuna critica che hanno avuto
negli ultimi anni i b-movies italiani
degli anni ’70, messa in scena dal
sempre autoironico critico cinematografico Tatti Sanguinetti, che
riferendosi a questi film, dice <<voi
eravate gli anticorpi del cinema
italiano>>, determinato mettere
insieme una serie di dvd pieni zeppi
di contenuti speciali, assieme ad
altri titoli evocativi quali “Violenza
Cosenza” e “Mocassini assassini”.
La presenza del cinema italiano
Studente frequentante del corso
di laurea DAMS-Cinema di Padova.
Il suo cognome è ormai una hit.
Cultura
Girotondo casca il mondo
5
Punto G. - Aprile-Maggio 2006
Cultura
non conformato) che si riflette
sui due figli che, privi di un reale
punto d’appoggio, di precariato
degli affetti, cercano di ricomporre (come una costruzione Lego)
le loro certezze, ma non riescono
a trovare il pezzo più importante
- in un’analoga situazione è interessante vedere come Moretti e
Benigni in “La Tigre e la neve” sviluppano il rapporto padre-figlio. Ma torniamo al titolo. “Il Caimano”
è un film che non esiste, che non
esisterà mai, perché il soggetto è
sempre stato lì, e la sceneggiatura
si è sviluppata davanti agli occhi di
tutti (di tutti!), ma nessuno ha mai
avuto il coraggio di farlo quando
doveva essere fatto; un’occasione
persa, o elusa dal cinema italiano.
È quello di un cinema per la maggior parte piegato alla televisione
(che purtroppo molte volte è l’unica fonte di finanziamento), che
abbassa anche la sua forza incisiva.
“Il Caimano” si svolge solamente
nella testa del produttore, e persino lui ne ha terrore. È una patata
bollente, e nessuno sembra volersi
scottare. Forse un poco ingenua è
la giovane regista con la sua carica
“idealista”, ma non lo è Moretti
che sa di non essere un eroe, e di
essere stato uno che forse è staso
troppo a guardare, e che forse nel
momento del bisogno ha preferito
spegnere la macchina da presa per
scendere in piazza. Constatazione
6
di un cinema divenuto impotente, che non ha saputo ascoltare i
segnali che numerosi giungevano.
Per primo era stato Federico Fellini
che già a fine anni Ottanta aveva
espresso il suo progetto di fare un
film su Silvio Berlusconi, e su quelle
televisioni private che stavano
ammazzando il cinema italiano a
colpi di gratis, di svendite, di tutto
per tutti. E il cinema si trasforma
in televisione - come Fellini amaramente constatava nei suoi ultimi
film -, nei teatri di posa si girano
televendite, e queste fabbriche
di sogni in celluloide così evocative (le scenografie per i western)
vengono distrutte a colpi di debiti
e di una scavatrice (che non può
che richiamare alla mente quella
di “Prova d’orchestra” di Federico,
appunto). Ma di fronte ad un atto
d’accusa così forte l’autore non si
nasconde e ci mette la faccia, decidendo in prima persona di recitare
nel finale quella terribile sceneggiatura, già parte della storia italiana, fatta di accuse e di violenze
verbali, di tabula rasa della morale, della legalità, della giustizia. E
i dialoghi che Moretti ripete sono
quelle stesse parole delle quali noi
tutti italiani siamo stati virtuali
testimoni in un’ aula giudiziaria.
Il regista romano a dispetto di
tutti non fa una sorta di “Being
Berlusconi”, ma immette il “Berlusconi-come-concetto” in un
corpo opposto (anche fisicamente)
per registrarne le conseguenze,
terribili. Moretti non si ferma qui,
e il lungo primo piano finale con
un’Italia in fiamme alle spalle del
Caimano-Moretti (assieme a quella
musica imperiosa ci fa tremare il
sangue); è forse una delle immagini
più potenti e più apocalittiche del
cinema italiano.
E se in un suo corto giovanile,
“Come parli frate?” interpreta un
Don Rodrigo pasticcione, qui Moretti non vuole scherzare, e richiama
alla memoria le sue esperienze di
attore in film scomodi come “Padre
Padrone” dei fratelli Taviani e soprattutto “Il Portaborse” di Daniele
Lucchetti, ultimo esempio di film
capace di smuovere le coscienze
civili degli spettatori.
Nanni Moretti con “Il Caimano”
realizza il suo “Mulhollland Drive”
(film che non bisogna dimenticare,
profetico esempio di un cinema
“della crisi”, di un cinema che
potrebbe essere, e che forse non è
mai stato), e che perfettamente si
inscrive nella sua filmografia, una
mossa tanto inaspettata, imprevedibile ma estremamente coerente
di una delle più grandi personalità
del cinema italiano, irriducibile al
compromesso, e volto a svelare e
combattere tutti quei pregiudizi
che hanno segnato... anche il suo
film.
Ricordi
di Alberto Cereser
[email protected]
Quando a Venezia i giapponesi in
frotte avanzano a scariche di flash
omicida, le pietre vecchie di storia
chiacchierano serrate, chiedendo
spesso qualche parere ai portici e
ai negozianti di fiducia, che non le
lasciano al loro destino. Ma cosa
sarà mai di tutte queste fotografie? Ha senso vedere la laguna e i
suoi miracoli con un occhio chiuso
solo per poterne mostrare tutte le
sfaccettature agli amici, una volta
a casa? Tutti i porfidi condannano
all’unisono questa pratica dissacrante, e una piastrella tra le
più loquaci ricorda che una volta
una ragazza tintinnante di gioia
inciampò sul gradino di un ponte,
Studia Fisica all’Università di
Padova, e ultimamente sta
proprio bene.
ed un fratello di cava di questa
piastrella chiacchierona si ritrovò
come lenzuolo per qualche decina di secondi un foglio di carta,
preziosissimo perché spiegava che
secondo alcune tribù chi fotografa
ruba l’anima al modello.
-Ecco perché siamo diventate
tutte quante così intrattabili”,
dice la prima di una lunga serie di
colonne, tutte sorelle, presenti in
chissà quante foto di innamorati
sparsi in giro per il mondo. –E non
possiamo farci nulla, credo di aver
perso la mia interiorità tra gente
di posti troppo distanti. Neanche
se tu andassi in pensione, Toni, ce
la faresti a recuperare tutti i pezzi
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sparsi da un angolo all’altro dei
sette mari...-Ciò fia, cossa situ drio dir? Oooops
mi scusi, lei viene da fuori, cosa sta
blaterando signora colonna in marmo di Carrara? Io di foto ne ho fatte
poche, ma venderei comunque la
mia anima per tre sopresse con
l’aglio e una damigiana di raboso o
di valpollicella. E sto qui, a parlare
con una colonna dalla testa dura.
Solo ricordati di me, che mio nipote
non sa neanche come le faccio le
sardee in saor, nessuno mi ha mai
fotografato mentre vivo, e non
mentre sono in posa...-
di Serena Boldrin
possiamo vedere? Quanto tempo
dobbiamo restare fermi, maestra?
Non posso dar torto al ragazzo che
ha urlato: state zitti! Ma ormai
era troppo tardi. La generale e
subitanea reazione è stata aprire i
finestrini per prendere aria. Cioè,
spero che nessuno fosse interessato al macabro spettacolo di ciò
che resta di uomo che ha deciso
di togliersi la vita gettandosi sotto ad un treno. Sono state molte
le altre reazioni e ho tentato di
studiarle, pensando ai modi in cui
reagisce la gente di fronte alla
morte altrui. Beh, interessante! Il
commento più frequente è “non
poteva suicidarsi sotto al treno
dopo?”, oppure il concetto viene
espresso nelle diverse varianti possibili. Poi ci sono quelli interessati
al vero e proprio spettacolo della
morte suicida e questi raggiungono
subito il capotreno. I bambini sono
un po’ preoccupati, ma le maestre
consigliano loro di mangiare ciò che
hanno avanzato e quindi si tranquillizzano. Ah, già, subito dopo
l’annuncio, ognuno ha preso in
mano il proprio telefono cellulare
e ha chiamato mamma, amica/o,
collega o capo, fidanzato/a per
avvisare del ritardo. “Eh, uno si è
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fatto mettere sotto dal MIO treno”,
spiegavano. Già, perché il problema è proprio questo: perché è capitato proprio a me? Non posso essere
ipocrita: l’ho pensato anch’io! Fin
dall’inizio, proprio, e non posso
vergognarmi di questo sentimento
così poco eucaristico. Mi sembrava
una maledizione: io, in mezzo alla
campagna – perché ci trovavamo
in mezzo alla campagna e quindi
ogni via di fuga mi è preclusa -, in
un vagone pieno di bambini e con
un libro da finire entro la giornata,
a stomaco vuoto dalle 8 di mattina, ferma su un treno italiano per
non-so-quanto tempo. Si, doveva
trattarsi di una maledizione. Dopo
più di mezz’ora tornano le persone
che si erano prese la briga di andare a vedere cosa ne sarebbe stato
di noi. Confortanti! - Dovremmo
restare bloccati per due-tre ore -.
Sguardi di paura, volti terrorizzati,
tra le altre una voce femminile - al
massimo 25 anni - giunge alle mie
rassegnate orecchie:- Cosa facciamo? Ci vengono a prendere con un
altro treno, no? -. Ehm, non so cosa
fare per trattenermi. Vorrei ridere,
ma vorrei anche urlare tutto il mio
disgusto di fronte ad un tale grado
di ingenuità. Possibile che ci sia
Aprile-Maggio 2006 - Punto G.
Dico: corro e prendo il treno alle
16.10, così riesco a studiare due
minuti a casa. Devo riuscire a finire
almeno un libro per l’esame. Uno,
dai. Allora decido di correre e riesco a salire, sedermi ed estrarre il
libro da studiare. Poi parte il treno.
Stranamente puntuale. Inizio a
leggere e sottolineare delle frasi,
tuttavia mi accorgo che ciò che
sottolineo sono le classiche parole
in libertà. Intorno a me un vagone
di ragazzini delle elementari di ritorno dalla gita a Venezia. Parlano
fra loro, ridono, si fanno gli scherzetti. Che carini! Che carini?? Mi
pento subito di quanto ho appena
pensato. La confusione è tale che
nemmeno il lettore mp3 al massimo
volume riesce a coprire gli schiamazzi giovanili e gli sbuffi dei miei
adulti vicini di sedile. L’insofferenza cresce. Le maestre percorrono
il corridoio avanti e indietro per
incutere paura ai loro alunni, ma è
noto che gli alunni se ne fregano.
È noto e palese. Mai che mi tocchi l’eccezione che conferma la
regola. Perfetto, il treno ferma a
Mestre e riprende la sua corsa. Ad
un certo punto frena. Frena. Frena.
E si ferma, un po’ bruscamente,
a dire il vero. Succede, dovrà far
passare un treno. E infatti
un altro treno sfreccia
alla mia sinistra. Non ripartiamo subito, però.
Nemmeno dopo poco. Il
vagone intero si spazientisce. Sentiamo il richiamo
del capotreno, quel suono
presago di ritardi e dispensatore di scuse inutili
o auguri benevoli per un
futuro viaggio. Voce metallica: ehm, avvisiamo i
signori viaggiatori, uhm,
che il treno rimarrà fermo... - pausa, molto breve, a dire il vero – causa
investimento... - non sono
riuscita a capire come abbia concluso l’annuncio,
perché i bambini hanno
iniziato a chiedere: chi?
Come? Dove? Quando?
Davvero? Qui? Maestra,
Bella Brava Buona: una Boldrin!
Lei preferisce definirsi... semplicemente Divina.
Racconti
Cronaca di una morte collettiva
7
ancora qualcuno a riporre le proprie
speranze su Trenitalia? Dopo questo
fugace momento di ilarità soffocata,
ritorno al mio libro, mancano solo
cinque pagine. Ed ecco arrivare i
due ragazzi seduti vicino a me, che
prima dell’inconveniente parlavano
teneramente di ragazze, calcio e cibo.
- Ancora mezz’ora-un’ora e si riparte.
È arrivata la polizia, quando finiscono,
partiamo -. Poi seguono scrosci di domande e la dichiarazione di uno dei
due:- A Carpenedo uno si è buttato,
l’autista ha frenato, ma era tardi. Non
sanno ancora niente di preciso -. L’altro ragazzo mi guarda e mi dice:- Si
vede del sangue e un pezzo di corpo,
ma è meglio se non aggiungo altro -.
Chi ti ha chiesto niente? Perché mi hai
detto del sangue? Perché mi hai detto
del corpo? Ti sembro una persona che
vuole sentirsi raccontare certe cose?
Ho la faccia da serial killer? O da suicida? Ma io non lo so, questi giovani
d’oggi proprio non riescono a pensare.
Me ne faccio una ragione e continuo
a studiare, mentre loro si stupiscono
della mia capacità di concentrazione in una simile situazione. Me ne
stupisco anch’io, ma devo studiare,
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quindi la cosa passa in secondo piano.
Si perché mancano quattro pagine.
E io non sono minimamente scossa
dall’accaduto. Non me ne importa
niente, ad essere sincera. Voglio solo
finire queste quattro pagine. Ma la
tentazione di fermarmi a riflettere
vince, e così il mio ego si interroga
a proposito della sua atarassia e del
modo scientifico di percepire la morte di questo povero essere umano...
mi dico che è una sciocchezza e non
sto davvero pensando che di quella
persona non me ne frega niente, che
anzi, sono così toccata che le lacrime sono paralizzate. Cerco in tutti i
modi di sembrare a me stessa un po’
umana, sensibile. Ma è inutile, sono
davvero paralizzata, ma dalla fretta
di arrivare alla fine di questo libro.
Riflettere è impossibile, mi manca la
forza di volontà. E allora la matita
scorre sul foglio, aiutata dal righello.
I miei occhi inviano al cervello parole,
parole, parole. Nemmeno studiare
sembra un attività così realizzabile.
I ragazzi seduti con me, nel frattempo, chiacchierano, uno è di Quarto,
l’altro di Porto. Devono avere molta
fame, ma soprattutto tanta voglia di
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arrivare a casa a farsi la doccia. Ok,
due pagine... una pagina! Mi sento
davvero libera, ora. Dai, manca poco.
Poche righe... il treno inizia a muoversi, lentamente, molto lentamente. I
bambini e l’intero vagone si alzano in
piedi e urlano felici. Io, li seguo, con
qualche secondo di ritardo:- Ho finito
il libro!!! -. I due miei vicini esultano con me, ci sediamo e una strana
sensazione ci pervade. Tranquillità.
Ora tutti sono tranquilli, anche la
scolaresca. È come se il treno di nuovo
in movimento abbia disteso i nervi di
tutti. - Prossima fermata: San Donà
di Piave. Trenitalia informa i signori
viaggiatori che il treno ha maturato
un ritardo di settantacinque minuti. Ci
scusiamo per il disagio -. Arrivo a casa,
stanca ed affamata. Vado a letto.
Buona notte... e auguro buon riposo a
quell’anziano signore che il 22 marzo
ha deciso di togliersi la vita gettandosi
sotto ad un treno che aveva appena
lasciato dietro di sé la stazioncina
di Carpenedo. Io spero solo che lei
riesca a perdonare il nostro assurdo e
deprecabile atteggiamento. Sebbene
nessuno di noi meriti tanto.
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ci vediamo a giugno...
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Aprile-Maggio 2006