n.10 2 The Godfather Alberto Manguel di JACOPO CIRILLO A lberto Manguel era un ragazzino di 16 anni di Buenos Aires, letteralmente malato di libri. La sua più grande aspirazione era vivere immerso tra la carta e, per questo, trovò un lavoretto doposcuola in una libreria del centro. Ecco, un bel giorno entrò Borges. Voi immaginatevi di essere in libreria a spolverare gli scaffali fantasticando su Bellow e Mann ed entra Borges. Con la mamma ottuagenaria che lo apostrofa: “Oh Georgie (sic), non perdere tempo con l’anglosassone, studia il latino”. Insomma, il Maestro, ormai quasi completamente cieco, prima ordinò dei libri assurdi che nessuno, in quella libreria, aveva mai sentito nominare e poi, apprezzandone lo zelo, chiese ad Alberto se voleva essere il suo lettore serale, “perché la mamma si stanca subito”. Da quel momento cominciò un’avventura fantastica per Alberto, ravvivata costantemente dall’intelligenza rivoltante di Borges che si faceva leggere tantissimi libri, li rimescolava mentalmente e arricchiva il giovane volenteroso di perle impagabili e, letteralmente, inaudite su Kipling, Henry James, Heine e chissà chi altro. Manguel, nel tempo, è diventato un grande scrittore e saggista. Grazie, direte voi, anch’io se avessi avuto Borges che mi faceva la lezione serale e che, in un certo senso, pendeva dalle mie labbra sedicenni, qualcosa di buono con la letteratura avrei combinato. Certo, dico io, e grazie a questa –diciamocelo – immeritata fortuna, l’ex-ragazzino ha prodotto libri notevoli tra i quali Una storia della lettura, da poco ripubblicato da Feltrinelli, in cui sembra trasparire un’idea degna del suo –diciamocelo – immeritato mentore. In breve Manguel dice che non si legge semplicemente Delitto e castigo ma anche quel Delitto e castigo, quella edizione, la ruvidezza o la morbidezza della carta, la macchiolina di caffé o l’improvvida orecchia d'un segnalibro mancante. Un libro ha una sua storia da raccontare al lettore in quanto oggetto, a prescindere dalla storia che effettivamente racconta. Il lettore, dal canto suo, ha una lettura “cumulativa e […] in progressione geometrica: ogni nuova lettura posa su ciò che il lettore ha letto prima” (p.28). Allora anche il lettore ha una sua storia da raccontare, a prescindere dalla storia che racconta. Due mondi che si incontrano, libro e lettore, ognuno con la sua storia personale, e la dinamica di questo incontro è teorizzabile, quindi raccontabile anch’essa. Si potrebbe pensare allora a una vera e propria teoria della letteratura senza parlare di letteratura. E Borges sarebbe orgoglioso del suo figlioccio e, forse, anche un po’ di noi che l’abbiamo letto e che ci siamo battezzati in suo onore. 3 Sommario La citazione del mese Le vite ortogonali Libri (quasi) mai letti Mitomania Corrispondenze notevoli Letterature Involontarie Pillole di Scienza Me lo copre il prezzo? Oh, Scena! Donne & Compressori 5 6 7 8 9 10 12 13 14 15 Megaviaggi! La lettera che muore Mattoni Biografie edulcorate I ferri del mestiere La posta dei lettori Metaletterari di carta Ghost World Iperboloser Contributi da 16 17 18 19 20 21 23 24 25 26 Editoriale V na che, pensate, disegna i fumetti senza saper disegnare. isto che in questo numero succedono tantissime cose non ci perderemo nei soliti giochetti iniziali. Benvenuti a Finzioni numero dieci, il primo in doppia cifra. Inizia una nuova rubrica, Donne & Compressori, di Alex Grotto, un metro-bookreader totalmente disorientato e confuso quando si trova a dover acquistare un oggetto di largo consumo che non gli è mai interessato particolarmente, un libro. Tuttavia, grazie a Finzioni, riuscirà a trovare la strada in questo diario/reality show che, presto, porterà molte sorprese, come dire, multimediali. Basta, basta direte voi. Tutte queste novità in un colpo solo potrebbero paradossalmente farci perdere interesse nelle novità stesse, inducendoci a darle per scontate. E invece no. Concludiamo con orgoglio annunciando, onorati, un ospite d'eccezione, Alessandro Bonino (quello di Phonkmeister, quello di eiochemipensavo, quello di Spinoza), che racconta del grande Learco Pignagnoli. Mai come adesso non ci si può permettere di non leggere Finzioni. Da questo mese in doppia cifra. Inizia un'altra nuova rubrica, Corrispondenze notevoli, di Greta Travagliati, dove si raccontano gli scambi epistolari tra scrittori famosi e persone totalmente sconosciute che possono permettersi di essere arroganti e supponenti con le menti più brillanti della storia. Inizia un'altra nuova rubrica, Megaviaggi!, di Alessandro Pollini e Davide La Rosa, un'integrazione dell'ormai classico Viaggi con le vignette di questa gran bella perso- La Redazione 4 Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s'immaginò di trovar modo di comunicar i suoi più reconditi pensieri a qualsiasi altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che sono nelle Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati? E con quale facilità, con l'accostamento di venti caratteruzzi sopra una carta. Galileo Galilei La citazione del mese Elementi di stile nella scrittura e Trilogia della città di K. di JACOPO CIRILLO A aaah, scrivere: che passione! Noi di Finzioni lo sappiamo bene, anche se siamo più o meno tutti autodidatti. C’è invece chi dello scrivere ha fatto un mestiere e, contrario al vecchio adagio che recita “chi sa fare fa e chi non sa fare insegna”, ci ha guadagnato sopra. Esatto, con i manuali di scrittura (creativa). I manuali di scrittura creativa sono un po’ come il Grande Fratello o Uomini e Donne: tutti li snobbano, tutti negano di guardarli (i programmi) o di leggerli (i manuali) ma se continuano a produrli (entrambi) significa che la domanda e l’interesse ci sono, eccome. Il manuale che pare sia considerato il migliore ce lo suggerisce Stephen King, dicendo che “la maggior parte dei libri sulla scrittura sono pieni di scemenze. Una rispettabile eccezione […] è The Elements of Style” di William Strunk jr. In questo libretto, per il quale bisogna rendere merito soprattutto al curatore e traduttore italiano, rispettivamente Mirko Sabatino e Stefania Rossi, si parla di tutte le possibili regole compositive, grammaticali, sintattiche e stilistiche per scrivere bene e correttamente. Come mettere le virgole, che termini usare e che termini dimenticarsi, quali segni d’interpunzione vanno usati dove e così via. Probabilmente Stephen King è così affezionato al manuale perché non si spinge troppo in là nella creazione della storia: si limita alla correttezza, lasciando la creatività a chi scrive. Non dice, per esempio, cosa si dovrebbe fare per inventarsi una trama o, ancora peggio, come si fa a creare personaggi credibili. Per rispondere a queste domande dovete guardare dentro di voi, oppure leggere la Trilogia della città di K. di Agota Kristof. Che sembra un romanzo ma in realtà è un manuale di scrittura creativa romanzato. E, come tale, è tetragono alle critiche comuni di cui si parlava. 5 Senza raccontare troppa trama e rovinare la sorpresa, diciamo che il protagonista del libro è quello che scrive il libro stesso dall’interno, prendendo il nome e tratti del carattere delle persone della sua vita e, a partire da loro, inventandosi dei personaggi e una storia che gli girano letteralmente attorno, come se delimitasse il proprio spazio vitale attorno al romanzo liberamente ispirato alla sua vita, romanzo nel quale lui è dentro fino al collo. Allora forse questo insegnamento, un po’ complicato a dire il vero, sminuisce tutti i tentativi di descrivere la scrittura creativa da fuori. L’idea di un romanzo che parla della propria genesi scritta all’interno del romanzo stesso, innescando dunque una matrioska da cui costitutivamente non si può uscire, abolisce la narrazione come pratica e la reifica in quanto pasta stessa dell’esistenza. Le vite ortogonali Humbert Humbert vs Grenouille di JACOPO DONATI P lutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze. realtà è Humbert Humbert l’ossessionato, l’Humbert che vive la storia d’amore più sincera della letteratura, che non ci pensa due volte —e forse neppure una— prima di cacciarsi in qualcosa che non può che procurargli dei guai. Il suo problema si rivela proprio il non riuscire a resistere a un’ossessione e a una passione travolgenti. Lui, pur rendendosi conto di quanto male sta facendo alla piccola Dolores Haze, non riesce a lasciarla andare, ad allentare la presa. che attirino su di sé l’attenzione o che solletichino corde afrodisiache negli animi di chi li assapora. Dopo aver percepito un profumo divino provenire da una ragazza, Grenouille decide di creare il profumo perfetto. Comincia ora la lunga carneficina che lo porterà ad avere le “note” essenziali per la realizzazione del suo progetto. Grazie alle sue doti di profumiere non solo riuscirà a farsi perdonare per i suoi crimini, ma indurrà chi lo circonda ad amarlo. Alla fine la perde, la sua Dolores. E in quelle pagine dimostra che il sesso era qualcosa di secondario, qualcosa che in poco tempo è sfumato e scivolato in secondo piano. Portato a termine il suo scopo, Grenouille scopre che il suo progetto non gli ha portato che la consapevolezza di non poter essere amato per quello che è davvero. Tornato a Parigi, in mezzo a un gruppo di barboni, si rovescerà addosso l’intera fiala di profumo e la passione suscitata da quell’odore lo farà letteralmente sbranare da quanti saranno nelle vicinanze. Humbert Humbert Come biasimare gli editori che rifiutarono di raccontare le gesta di Humbert Humbert? Humbert, scegliete voi se chiamarlo con nome o cognome, è il professore protagonista di Lolita di Nabokov. Considerato un paria da buona parte dei lettori contemporanei, si invaghisce di un’adolescente, poi di lei si innamora, poi non può più resistere un giorno senza la sua Dolores e impazzisce. Così pazzo che dalla cella deve raccontarci la sua storia. Humbert Humbert il pedofilo. In Grenouille La vita di Grenouille è spesso quella di un semplice spettatore, di uno che guarda gli eventi dall’esterno. Süskind lo descrive nel Profumo come un giovane insignificante, e privo di odore ma dotato di un olfatto straordinario. Impara a “costruire” profumi che lo facciano passare inosservato, 6 Nella vita di Humbert Humbert, così come nella vita di Grenouille, l’ossessione fa da padrone: il tarlo di Humbert sarà la bella Lolita, mentre quello di Grenouille sarà la creazione del profumo perfetto. Entrambi finiscono per compiere atti orribili pur di mantenere viva la propria ossessione, ma se Grenouille non mostrerà mai un rimorso vero, il povero Humbert Humbert, riemergendo per un istante dalla sua follia, riconoscerà di aver privato Lolita dell’infanzia che ogni bambino merita. Libri (quasi) mai letti Gli indifferenti. Quando Alda Merini è uguale a Orazio di Maria Giovanna Ziccardi T emporeggiano, attendono, sbadigliano, s’impigriscono senza ingiallire, marciscono senza maturare. Per quanto sparsi nel tempo e nello spazio, compongono una piccola folla, si chiamano con un unico nome: sono i quasi mai letti libri di poesia. I miei. Mangiati dalla mia indifferenza e resi invisibili, inservibili. Non è che non ci provi: li cerco, li compro, ne sono attratta. Poi però mi si polverizzano in mano fino a sparire. È un effetto strano e inconsulto, poco coerente e molto lontano dalla mia religione della pagina scritta. E i sintomi sono allarmanti: mi accadono tutte le cose più terribili che possa fare o non fare chi si trova per le mani un libro di poesie. Salto quelle più lunghe; alla terza o alla quarta mi sembrano tutte uguali; o tutte belle; o tutte brutte; non ne ho mai copiata una su un quaderno (tranne forse due eccezioni, al liceo) o dedicata una a qualcuno in una lettera; non ho mai letto per intero un libro di poesie; non ho un poeta preferito; che siano versi di Shakespeare o versi di Baudelaire, provo all’incirca le stesse sensazioni. Resto imperdonabilmente distratta e distante, annoiata (dall’autore) e delusa (da me). Le Odi, Orazio, Nel cerchio di un pensiero, Alda Merini, Todo el amor, Pablo Neruda, Dietro la porta, Emily Dickinson, Tutte le poesie, Montale, I sonetti, Shakespeare, I fiori del male, Baudelaire (due edizioni, per essere sicura), Elogio dell’ombra, Jorge Luis Borges (sputiamo sul piatto in cui mangiamo), Mappamondi e corsari, Gian Luca Favetto, l’Antologia di Spoon River, Edgar Lee Masters, Poesie d’amore e dell’esilio, Ovidio. Non sono poi molti in fondo, e anche se li ho contati e messi nero su bianco restano lì senza giustificazioni, senza distinzioni, senza spiegazioni. L’unica cosa che so dire è che non c’è niente che non mi affascini nella poesia in sé per sé. In sé per sé, un verso ben fatto sintetizza tutto quello che la parola scritta può essere: è architettura di suono e immagine, assonanza e pienezza, può colpire o sfiorare, evocare o scolpire, così come sa tradurre in metafora sa parlare senza mezzi termini. Ma è proprio l’in sé per sé il problema: datemi un contesto! Agenti, riferimenti. Storie, una storia. Parole abbracciate da un inizio e da una fine, messe in cammino, coordinate in un senso che si moltiplica con altri sensi. Altrimenti, non trovo né totalità né mordente e mi annoio. Così, finisce che la poesia la tiro fuori dalla prosa…sono tante le pagine di saggi e romanzi in cui ho trovato il senso e il gusto della poesia più perfetta. Quasi a dire che la prosa più perfetta è anche la poesia più perfetta, al punto che la differenza tra l’una e l’altra si scio- 7 glie e tu arrivi là dove si annullano etichette, endecasillabi, trame, filosofie, e restano soltanto l’essenza stessa, la forza misteriosa della parola. Può funzionare come scusa? Non funziona, ma è un bel fraintendimento e mi basta. Mi basta inciamparci così nella poesia, rubarla dove si non va a capo. Un’ultima nota: c’è un libro che non ho messo in elenco perché è l’unico che ho letto da cima a fondo. Ma non vale, perché l’ha scritto Nicole, che è una mia amica, e l’ha appena pubblicato per una casa editrice di Rovereto, ed è bellissimo. E non vi dico il titolo, ché non sembri tutto una trovata pubblicitaria. Mitomania Chi te l’ ha fatto fare, Prometeo? di VIVIANA LISANTI N on possiamo non voler bene a Prometeo, è come il fratello maggiore che tutti noi avremmo voluto: è più sgamato di noi (lo dice il nome stesso “colui che conosce prima”), è coraggioso, intelligente, astutissimo, insomma ha tutte le skills migliori. E’ anche bello come un semidio (è figlio di una ninfa e di un titano) ma non se la tira per niente: ci aiuta con i compiti di greco; ci insegna a contraffare la firma della mamma sul libretto delle giustificazioni…ma cosa più importante di tutte, ci difende sempre dalla collera di nostro padre sfruttando l’ascendente che ha su di lui. Ritornando ai tempi e luoghi del mito narratoci da Eschilo, Prometeo è uno che è entrato nel giro giusto, ha guadagnato la stima di quelli che contano servendo al fianco di Zeus nell’epocale guerra per la sovranità sull’universo, combattuta contro la sua stessa gente, i titani. Ma, come dicevamo, è rimasto con i piedi per terra, anzi sulla terra. I contatti che ha nell’Olimpo gli sono serviti per civilizzare l’umanità: ha insegnato agli uomini la matematica, la medicina, l’architettura etc… La sua passione per la nostra razza ha destato più di una volta il nervosismo di Zeus. Come quella volta che gli uomini stavano decidendo quali parti di un toro sacrificare agli dei e quali tenere per sé stessi. Prometeo si intromise e pensò di raggirare Zeus con un trucchetto di magia spiccia: nascose le parti più gustose del toro dentro un involucro costituito dalle budella dell’animale; poi prese le ossa e le camuffò sotto uno strato di grasso profumato e lucido. Presentò a Zeus i due pacchetti chiedendogli di scegliere. Zeus optò per il grasso e rimase fregato dal contenuto. Come al solito si infuriò parecchio, imprecò, lanciò le sue saette contro Prometeo, il quale se la rideva soddisfatto con i suoi amici uomini credendo di essere stato molto scaltro. C’è da dire che l’ira di Zeus era dovuta più all’affronto subito da parte del titano che per aver vinto le ossa, di per se stesse molto preziose (si diceva contenessero il principio vitale); gli uomini quindi, che fino ad allora condividevano con gli dei l’immortalità, ma non l’eterna giovinezza, e si nutrivano senza fatica sedendo a tavolate interminabili che spuntavano dalla terra già imbandite di ogni prelibatezza, si erano auto condannati ad una vita da mortali, schiavi della loro stessa fame, costretti alla fatica della caccia e dell’agricoltura per poter sopravvivere. Ma liberi artefici del proprio destino. “Mangiassero pure le bistecche”, pensò Zeus, “ma crude”, e tolse il fuoco agli uomini. La disputa poteva così concludersi, se non fosse che l’amore di Prometeo è talmente sconfinato da spingerlo a rubare, con un altro inganno, il seme del fuoco a Zeus e riportarlo sulla Terra. Ennesima mancanza di rispetto che stavolta viene punita dal re degli dei con una delle sue trovate più sadiche: incatena Prometeo ad una rupe e manda un avvoltoio a divorargli il fegato, un supplizio eterno poiché 8 l’organo è destinato a rigenerarsi di continuo. Prometeo soffre terribilmente ma non rinnega mai ciò che ha fatto, continua a proteggere gli uomini e continua ad opporsi al dispotismo crudele di Zeus; anche quando gli si offre la possibilità di essere liberato, il titano non scende a compromessi e afferma il primato della sua libertà interiore. Facile immaginare come questo eroe, benefattore del genere umano, abbia ispirato per secoli a venire la letteratura mondiale. C’è un poeta però che ne parla in termini diversi, ribaltando il punto di vista sulla vicenda. E’ Giacomo Leopardi che nel 1824 scrive un’operetta morale dal titolo La scommessa di Prometeo. Immagina che ad un concorso bandito per designare la più importante delle invenzioni messe a punto dagli dei, vincano a pari merito Bacco per il vino, Minerva per l’olio e Vulcano per un modello super trendy di pentola in rame. Prometeo si sente offeso: è certamente il genere umano la scoperta più lodevole, ed è lui a meritare il premio per aver lottato per la loro esistenza, emancipazione e progresso. Scommette con l’amico Momo, che tanto convinto non è, e gli propone di scendere in alcuni punti della Terra, a caso, per dimostrare la somma perfezione degli umani. La disfatta del titano è totale: i due amici incontrano prima un uomo che sta banchettando con la carne del proprio figlio, poi una vedova esaltata che si da fuoco e infine un padre di famiglia che ha massacrato i propri cari in preda alla noia esistenziale. A questo punto, mentre Momo lo sbeffeggia soddisfatto, Prometeo decide di non infliggersi ulteriori umiliazioni, paga pegno e se ne va. E la domanda retorica che mi era sorta spontanea fin dal principio, leggendo Eschilo, si ripropone in tutta la sua portata: Chi te l’ ha fatto fare, Prometeo?? anni, dal 1903 al 1911, momento in cui probabilmente uno dei due, distrutto, ha deciso di cambiare casa e sparire nel nulla per concludere questo strazio epistolare. Fatto sta che non è ancora certo quanto la semiotica di Peirce debba a questa signorina inglese che aveva in qualche modo deciso che la semiotica potesse al massimo essere una branca del Significs, e scrive a Peirce: “Sia ben chiaro, sono pienamente consapevole del scono non tradurre. Si vede che gli piace molto. Solo che spostano gli accenti, come sempre, così diventa grossòmodò). Poi Peirce si sente un po’ in colpa, e decide che è meglio mettere in chiaro una volta per tutte la relazione tra la sua filosofia e quella di Lady Welby. E’ stato influenzato da questo Significs, che insiste sulla matrice pragmatica, contestuale, esperienziale del senso? Giunge presto ad una risposta formale: “Credo di no. Ma non posso che riconoscere il nostro accor- Corrispondenze notevoli A suon di segni di GRETA TRAVAGLIATI C harles Sander Peirce, noto filosofo e semiotico del 1900, non era certo l’unico ad occuparsi, all’epoca, di studio dei segni. Da notare, fra tutti, la tenace Victoria Welby, che per avvalorare il suo pensiero scientifico si era inventata una terminologia su misura. La sua teoria del significato si chiama infatti Significs (in italiano, “significo”, ma fortunatamente non siamo francesi, quindi possiamo risparmiarci le più azzardate traduzioni, quanto meno per i termini che non esistono.) Colui che pratica la Significs, è il Significian. E via dicendo. Di certo c’era di che strabuzzarsi gli occhi sulle lettere che si mandavano Peirce e Lady Welby: una corrispondenza durata ben nove fatto che questa che voi chiamate “Semiotica” potrebbe anche essere considerata come una sorta di traduzione scientifica o filosofica della disciplina che, spero, verrà conosciuta con il nome di Significs. Ma non credo dovreste disperarvi del fatto che la vostra disciplina sia riconosciuta come qualcosa di più astratto, logicamente astruso e filosoficamente profondo.” Peirce si potrebbe essere offeso, al punto da “rubare” l’idea dello svilupparsi triadico del senso a Lady Welby? Peirce è abbastanza chiaro su questo: non le deve proprio nulla, anzi fa il gradasso e banalizza le idee dell’amica. “Nulla di nuovo nel Suo sviluppo triadico del Significs: corrisponde grossomodo ai tre momenti del pensiero” (tra parentesi, grossomodo è una delle rare parole che i francesi preferi- 9 do, né nascondere di aver letto ed apprezzato il vostro libro”. Così, il mistero si infittisce. Gli esperti giurano che, da una parte, Lady Welby capisse poco o niente di quello che Peirce le scriveva. Ad un certo punto iniziò a parlare delle connessioni tra pragmatica e senso materno, ed il discorso filosofico si incagliò. Dall’altra parte, c’è chi giura che le due filosofie siano davvero troppo simili perché non si siano reciprocamente influenzate. E la battaglia resta aperta. Letterature involontarie “Sciallati”, disse Heidegger di EDOARDO LUCATTI I mpara a stare al mondo. Il piccolo Martin sente questa frase di continuo. Suo padre, probabilmente, non gli dice altro. Quando Martin impara a pedalare senza tenere il manubrio, quando scrive il suo nome nella sabbia con la pipì, quando diventa tutto rosso per un bacione della maestra e quando, la notte seguente, ha la sua prima polluzione, il padre lo aspetta al varco, pronto a tarpare quella vita insolente che in varie forme tenta di affiorare in suo figlio: “Impara a stare al mondo, Martin. Impara a stare al mondo”. E così Martin impara, o almeno ci prova. Ma più che altro studia. Studia e scrive. E scrive così tanto che a un certo punto si ferma e dice: “Cazzo è venuto fuori un libro”. Allora si palleggia in mano quel gran blocco di fogli e, valutandone il peso, comincia a fantasticare su un possibile titolo. Di getto, ma non saprebbe dire perché, vorrebbe scrivere “Impara a stare al mondo”. Suo padre, che nel frattempo ha avuto un ictus e lo guarda ammutolito dalla poltrona, si limita a brandirgli il proprio indice severo. “Mah – conclude Martin . proviamo con «Essere e tempo» e vediamo come va”. È solo a quel punto che Martin diventa Heidegger, il professor Martinheidegger. Ai suoi studenti ama ripetere che al mondo non si impara a stare perché, se sì è, non si può che essere già al mondo. Esserci, dice il professor Martinheidegger, significa essere-nel-mondo. L’essere dell’esserci è l’in-essere, cioè l’essere-nel-mondo. Gli studenti lo guardano un po’ basiti, ma hanno un esame da superare e così studiano, assimilano, nel peggiore dei casi mandano a memoria. Non possono immaginarsi il piccolo Martin che con grande perizia orina nella sabbia per disegnare il proprio nome. E così, dopo tre o quattro appelli, nasce l’esistenzialismo. Il trapezismo lessicale di cui vibrano le pagine di Essere e tempo tende a sdoganare l’idea che Heidegger sia un cervellone per pochi eletti. In realtà la sua filosofia (riletta a debita distanza dai suoi massimi esperti) è un clamoroso invito a vivere senza “menarsela troppo” o, per dirla ancora con i giovini d’oggi, a “sciallarsi”. In questo consiste infatti la nozione di “appagatività”, con la quale Heidegger intende affrancare l’uomo dall’assillo della conoscenza (nonché dalla conoscenza degli assilli), dicendogli in parole povere che il mondo non sarà dei secchioni che vogliono conoscerlo ma di chi vi si rilascia come a ciò che da sempre già si è: “Il mondo è già scoperto preliminarmente, anche se non tematicamente, in tutto ciò che in esso si 10 incontra”. Insomma: esserci significa essere-nel-mondo ed essere-nelmondo significa, in qualche modo, esserne appagati. E se qualcuno non avesse capito bene la faccenda, never mind: “Questa familiarità con il mondo – dice infatti Martin – non richiede necessariamente una trasparenza teoretica dei rapporti che costituiscono il mondo in quanto mondo”. In altre parole: rilassati, non c’è molto da capire. Non subito, almeno. Non ora. Poi si vedrà. Cazzo facciamo sta sera? È proprio qui che insorge il nerd, l’essere votato alla tematizzazione di tutto ciò che incontra, uomo che nega l’esserci, esterno a ciò cui gli altri sono interni, adeso – piuttosto - all’esservi, all’esservi cioè costitutivamente di fronte, strumenti di misurazione alla mano. Quando si ammala di se stesso, il nerd diventa Sheldon Cooper, un fisico teorico affetto dalla sindrome di Asperger, forma di autismo che impedisce alla mente di agganciarsi alla realtà esteriore, di leggere fra le righe, di interpretare la mimica facciale altrui. Sheldon è un genio, ma il suo sconcertante quoziente intellettivo può approcciarsi a cose e persone solo estensivamente, solo cioè per come esse si mostrano effettivamente. Una vita, per così dire, integ ralmente alla lettera, che non conosce sarcasmo. Al vecchio Heidegger, secondo cui capire conta il giusto e l’importante è sentirsi dentro al mood della notte, Sheldon – i cui unici amici (212) sono tutti su myspace – preferisce Cartesio, per il quale l’unica via di accesso genuina alla realtà è l’intellectio. Il conoscere, insomma e - come ridacchia Martin sbragato sul divano – “il conoscere fisicomatematico. Per Cartesio è autenticamente ciò che la matematica conosce. Ciò che in un ente si rende accessibile attraverso la matematica, ne costituirebbe l’essere. Ah ah ah.”. Se Sheldon numera, incasella e categorizza ogni cosa, Martin gli dice che lo può fare solo perché tutte le cose che numera le ha già incontrate nel loro con-esserci. Sheldon inorridisce, il solo uso dell’avverbio “con” lo raggela. Il dott. Cooper, come scrive Martin “conta gli altri senza contare su di loro seriamente e senza voler avere a che fare con loro”. E questo perché al mondo ci sono altri e Altri. Quando Sheldon pensa agli altri ragiona per superfici di separazione, pensando a come tenere gli altri lontani dal suo divano, dalla sua tazza, dal suo laboratorio. Quando Martin pensa agli altri, invece, ragiona per volumi di coinvoluzione: non si riferisce cioè a “coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche. Il mondo dell’esserci – appunto – è con-mondo”. Resse, orge e feste, insomma. Tutto Essere e Tempo, in definitiva, può essere letto come la negazione della nerditudine, e tutta la nerditudine può essere letta come la negazione di Heidegger: “L’Esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza”, scrive Martin. “Avvicinati e nuclearizzo l’area”, gli risponde Sheldon. Ma se vi lasciassimo così, l’avremmo fatta troppo facile. Perché per quanto Martin finga di sciallarsi, l’indice severo del padre che gli intima di imparare a stare al mondo non cessa di tenere banco e di rinfacciare al figlio la sua inettitudine. Heidegger, infatti, ammette che l’Essere-con, “innanzi tutto e per lo più, si mantiene nei modi difettivi, o almeno indifferenti, cioè nell’estraneità del trascurarsi reciproco”. Insomma, quella tendenza essenziale alla vicinanza non ci esime dalla fatica di fare davvero conoscenza l’uno dell’altro, rendendocela piuttosto improrogabile. “E quando poi la conoscenza reciproca si perde nella modalità della dissimulazione, della reticenza e della simulazione – dice Martin l’essere-assieme richiede particolari procedimenti per avvicinarsi agli altri e «penetrare» in essi”. Esattamente la condizione di Sheldon che, vedendo un uomo sorridere e trovandosi intrappolato nelle proprie ipotesi, chiede conforto a un amico che gli siede accanto: “Sarebbe gioia quella lì?”. 11 Verboso metro 20 15 10 5 0 Ritaglia il verbosometro e attaccalo sulla schiena del tuo amico verboso V Verboso metro L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e l’avvolvere. Da 0 a 5 espressioni verbose. Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire. Da 5 a 10 espressioni verbose. Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana. Da 10 a 15 espressioni verbose. Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa. Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa. Più di 20 espressioni verbose. Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo. e l’ho già detto: la scienza è bella e la bellezza influenza la scienza. Questioni di simmetrie e di gusti. A volte aiutano, per il buon vecchio Einstein fu così, come abbiamo già visto. Ma non è sempre domenica, diceva un prete svogliato. C’è infatti chi, pur avendo ottime intuizioni, si fa prendere da idee bizzarre e “carine” prendendo cantonate colossali. Il migliore di questa categoria fu senza dubbio il grande John Newlands, che passò alla storia per la sua “teoria delle ottave”, un’interpretazione errata di una grande verità, e per essere stato uno dei mille Ora, le proprietà degli elementi dipendono essenzialmente da come questi elettroni stanno attorno al nucleo, e quindi ogni otto elettroni le caratteristiche degli atomi tendono a riproporsi. Mendeleev razionalizzò questi comportamenti nel sistema periodico degli elementi: la tavola periodica che tanto fa penare chi studia chimica ma che al suo interno contiene tanta sostanza, anche se difficilmente visibile. Newlands invece di razionalizzare questi andamenti di otto in un diagramma che fece? Un bel parallelismo tra gli andamenti periodici Pillole di scienza 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8. di FABIO PARIS di Garibaldi. Mica male! Costui fu il primo a notare un andamento periodico degli elementi, osservando che le proprietà di questi si ripetevano ad intervalli di otto. Piccola doverosa digressione: gli atomi sono formati da un nucleo (positivo) attorno al quale orbitano gli elettroni (negativi). Il numero degli elettroni è tale da bilanciare le cariche positive del nucleo. Questi elettroni orbitano attorno al nucleo su orbite ben precise, con delle “traiettorie” che si vanno a ripetere ogni otto elettroni, cambiando solo la distanza che li separa dal nucleo. È così, se non vi fidate studiatevi la meccanica quantistica, che è una bella scienza. 12 degli elementi e le ottave musicali. La teoria delle ottave. Fu ovviamente deriso da tutti gli scienziati nel giro dell’uno. Che ci azzeccano le note musicali, anzi, le ottave musicali con gli andamenti delle proprietà degli elementi chimici? Nulla! Ma accostare le due cose non era male... era tutto sommato bello, per un garibaldino a cui piaceva la musica poi! Una specie di new age ante litteram... Me lo copre il prezzo? Confessioni stra-ordinarie di un vetrinista fallito di LICIA AMBU F are la vetrina è complicatissimo. Tanto per cominciare o hai troppa roba nuova da voler mettere oppure non c’è uno straccio di novità. La cosa, in verità, è più spirituale, si pretende in effetti di voler dare un qualche messaggio subliminale o meno. Su una scala da 1 a 10 può andare dal ecco guardate, questo è ciò che il mercato editoriale ha prodotto nell’ultimo quarto d’ora, al più semplice abbiamo messo questo perché è dovere di un qualche ordine metterlo e speriamo sinceramente di trovarvi una ragione, però accanto ci sono titoli bellissimi che abbiamo scelto noi. La maggior parte delle volte temo la crisi epilettica nel dover stare dietro a tanti titoli diversi alla ricerca di un senso che non sempre è palese. Considerando che succede a me che i libri in vetrina ce li infilo, non oso immaginare i voli pindarici che toccano ai curiosi. Mi dico che ci vorrebbe un quarto d’ora e uno sgabello per guardarli tutti e soprattutto il punto di fondo è che il mio senso non è universale, tanto meno univoco, quando c’è. Però, se ci fosse, allora ognuno potrebbe trarne quel che vuole un po’ come una parabola, senza l’obbligo del discerni- mento morale, tanto per dire. Si potrebbe spararsi una semiotica della vetrina e cercare d’inferire quali meccanismi la abitano così che poi ci si regolerebbe di conseguenza. Tipo se il morbo è cromatico niente più fila di supercoralli: - Vorrei il libro che è in vetrina. -… - Quello lì mi sembra verde, forse di cucina. Per una tacita legge, comunque, pare che in vetrina ci debbano an- dare le novità, a volte le quantità e perciò spesso i potenti. La questione si fa più difficile, metafisicamente parlando. Altra roba, insomma. Resta che io non lavoro da Feltrinelli, con i commessi del quale condivido solo l’aspirazione al titolo di libraio e null’altro, lavoro in una libreria indipendente sicché domani non mi chiamerà Mondadori per comprarsi un terzo del mio spazio su strada, che detto fra noi sarebbe si e no un metro per due, e perciò nemmeno tanto conveniente; al massimo riceveremo qualche strana richiesta - Libreria buongiorno - Buongiorno signorina, sono un vostro cliente - Prego, mi dica - Vorrei fare il tagliando della mia Opel E allora pensandoci, in vetrina, preferirei metterci due tizi enormi seduti a fumare la pipa che leggono un libro privo di sovraccoperta e si spaccano dalle risate così che poi chi passa possa decidere se entrare oppure sedersi all’esterno, per guardare due tizi enormi che leggono mentre fumano la pipa, nella vetrina di una libreria. Indipendente, sia detto. 13 Oh, Scena! Oh, Learco! di ALESSANDRO BONINO Se non c’è niente da ridere vuol dire che non c’è niente di tragico, e se non c’è niente di tragico, che valore vuoi che abbia. (Opera n. 161) Salve, sono simone rossi. Questo mese non ho scritto Oh, Scena! perché ho scritto un libro nuovo (http:// phonk.it/sbrisolonando). A proposito di phonk, questo è un pezzo gentilmente concessoci da Alessandro Bonino, cioè Phonkmeister, cioè eiochemipensavo, cioè Spinoza (insieme a Stark, Luca Barbareschi e un sacco di altra gente). E niente, io quando ho visto la storia dello scrittore che non esiste mi sono innamorato, e dovreste proprio innamorarvene anche voi. Al mese prossimo, giuro. “L earco Pignagnoli, ammesso che esista, è filosofo e maestro di tutti noi”. Ho conosciuto Pignagnoli nel 2004, a Torino, era maggio: Paolo Nori aveva letto alcune delle opere, che poi sarebbero state raccolte da Daniele Benati nel volume Opere Complete di Learco Pignagnoli, edito da Aliberti nel 2006; Paolo Nori aveva delle fotocopie, tutte scarabocchiate, e sulla prima c’era scritto soltanto Learco Pignagnoli, e poi sotto Opere Complete. Ho detto che ho conosciuto Pignagnoli, ma avrei potuto usare una metafora come mi sono abbeverato dalla fonte di Pignagnoli, poiché il conoscere prevede normalmente una presenza, una presenza che Pignagnoli non può e non vuole dare: Pignagnoli è un autore che non c’è, e se esista o se non esista non è dato saperlo, ma quel che è importante è che non c’è, dato che ha eletto a sua filosofia l’Assenzialismo, che consiste essenzialmente nel non esserci come pratica. Se si prova a telefonare a uno dei novantuno Pignagnoli presenti sulle pagine bianche, concentrati perlopiù in provincia di Reggio Emilia – io ho provato – vi risponderanno che lì non c’è nessun Learco, e che non lo conoscono. Diventa chiaro, telefonando, ed è un’esperienza che consiglio a tutti – telefonare a dei Pignagnoli a caso in provincia di Reggio Emilia chiedendo di Learco – diventa chiarissimo che il tentativo è inutile: Learco non c’è e non ci sarà mai, e non è casuale che esista un’immagine di J.D. Salinger, autore autorecluso scomparso di recente, non è casuale che ne esista una di J.D. Salinger che spinge tutto incazzato un carrello della spesa e che non ne esista nemmeno una di Learco Pignagnoli. E non è casuale che si facciano convegni e letture di e su Learco Pignagnoli, alle quali lui non partecipa mai. E non è casuale che io, in questo momento, stessi cercando il libro delle Opere Complete di Learco Pignagnoli, senza riuscire a trovarlo per almeno una decina di minuti. Perché Pignagnoli non c’è, e sfido chiunque a provare il contrario. 14 Si dice nell’introduzione alla raccolta delle Opere Complete che la sua biografia “resta per ora del tutto incerta, avendo egli trascorso gran parte della vita da uomo schivo e solitario, apolitico e anarchico, senza famiglia e senza falsi amici. Come è stato detto, Learco Pignagnoli brilla di luce propria nel campo della nostra letteratura contemporanea, perché la sua presenza corrisponde radiosamente ad una massima assenza”. Questo libretto piccolo e nero ricorda molto un breviario da preti, e se uno andasse in giro con il libro delle Opere Complete di Learco Pignagnoli potrebbe essere facilmente scambiato per un prete in borghese, e uno lo guarderebbe, penserebbe Che strano questo prete, che magari uno mentre legge le Opere Complete ha su un giubbotto di pelle, o un eskimo, e magari sotto il giubbotto ha una maglietta colorata, o di qualche gruppo musicale un po’ underground, e magari degli anfibi, o delle scarpe da ginnastica; avrebbe senso, per il passante non avveduto, scambiare il lettore di Pignagnoli per un prete, per uno strano prete: leggere Pignagnoli è un atto trasformativo che rende immediatamente adepti del culto, leggere Pignagnoli in pubblico è come partecipare a una messa pazza. Per me, le Opere Complete di Learco Pignagnoli sono un po’ come la Bibbia; io, se cerco delle risposte, in quel libro lì le trovo, invariabilmente. E chiedersi se Pignagnoli esista o non esista, è un dubbio che è molto simile al chiedersi se esista o non esista Dio. Donne & Compressori Introduzione di ALEX GROTTO I o sono un lettore potenziale, o metro-bookreader, come oserebbe etichettarmi qualche giornalista ossuta di Cosmopolitan tra uno Zoloft e l'altro, magari in un articolo che parla di quei tizi che leggono libri quindici giorni all'anno sotto l'ombrellone e usano le nozioni apprese per montare finissime discussioni a base di dietrologia sui templari alla macchinetta del caffè. Io non sono così, il mio problema è più grave e si chiama “sindrome della Donna e del negozio di ferramenta”. E' una patologia meno diffusa della gastrite, ma più diffusa del votare a sinistra e ritenersi soddisfatti: consiste nell'essere totalmente disorientati e confusi quando ci si trova a dover acquistare un oggetto di largo consumo che non ci è mai interessato particolarmente. Come un compressore per una donna o un libro per me. I sintomi appaiono evidenti al mio ingresso in una libreria; mi aggiro tra gli scaffali come gli adolescenti che cercano i pusher alla stazione, aspetto che qualche copertina mi faccia un segnale: un titolo accattivante, il vago ricordo del nome di un autore, va bene anche il bieco marketing di una bella illustrazione. Mi sento più fuori luogo di un tedesco in campeggio al mare, anzi no, mi sto letteralmente trasformando in un tedesco al mare. Cambio accento, mangio un paio di unghie, mi accorgo di indossare i sandali coi calzini, ho voglia di musica dance tristissima. Il crescente disagio che sto avvertendo mi avvicina sempre più a tutte quelle situazioni di inadeguatezza adolescenziale che inesorabilmente significano fallimento, come quella volta che non potei pomiciare con Clara della terza B perchè lei voleva parlare solo di Asimov, Baudelaire e Murakami, ma io la bloccai dicendo che i loro dischi mi mancavano: grezza figura, clamorose pive nel sacco e lezione sull'utilità socialetrasversale della Letteratura appresa. Lancio un'occhiata a chi sta dietro il bancone, a chi di gente come me ne vede a ondate da anni: lui sa che io non so e farà qualcosa per farlo capire anche agli altri, quelli che mi derideranno per la totale assenza di gusto letterario e per aver invaso, con il mio accento da lettore potenziale mai realizzatosi, la sacralità del luogo in cui si vende la parola stampata. Inizio a gridare “Se fossimo in un negozio di dischi, vi farei vedere io! Vi sistemerei tutti!” mentre nella mia mente viaggiano scene di Daniel San che minaccia biondini cotonati col kimono nero. In realtà tutto ciò che mi esce sono grugniti mentre cerco l'uscita. Forse l'origine del mio problema è legata all'humus umano di cui mi circondo: non ho una guida spirituale che mi indirizzi sulla giusta via, magari con la più variegata verbosità possibile. Non frequento individui colti, nè lettori accaniti a parte un tizio appassionato di audiolibri, ma superati i ventanni e senza disfuzioni debilitanti l'au- 15 diolibro è come girare in bici con le ruotine e il pezzo di cartone tra i raggi, è appagante solo se schivi i cocci dell'imbarazzo. La sola soddisfazione rimastami in ambito letterario è il rifugiarmi nel caro vecchio “mal comune mezzo gaudio”, ovvero la consapevolezza di non essere il solo qui fuori a provare tutto questo sotto la pioggia dell'ignoranza. Siamo in molti ridotti così, ma basta la prima mossa di uno soltanto per salvarci tutti: da oggi il proiettile lo beccherò sempre io per voi e Donne&Compressori sarà il nostro ballo di fine anno dei telefilm da teen-ager, il riscatto degli sconfitti. Parlerò di libri letti a stento tramite impressioni sbagliate infarcite di pregiudizi e luoghi comuni, personaggi inutili che mi hanno colpito; questa rubrica sarà il diario di un giovane dalla cultura mediocre che proverà a redimersi seguendo le idee, le esperienze e i consigli di chi legge Finzioni e vuole adottare un potenziale lettore e reale fallito. Da oggi, entrerò in libreria gridando “Ehi, ho qui con me un Finzioni Magazine e non ho paura di usarla!” Megaviaggi! Analisi Finzioni del testo di ALESSANDRO POLLINI S empre caro mi fu quest'ermo Apple, e questo schermo, che da tanta parte de l'ultimo orizzonte il guardo esclude. Come si può capire dall'intro leopardiano non solo adoro Giacomo Leopardi (Canti, Garzanti, 422 pp. 8,50 euro) ma anche il mio iBook G4, che dopo settimane di riparazione è tornato a casa. Purtroppo quel giorno in un momento di ira non ho trovato di meglio da fare che prendere a pugni tutto quello che mi passasse sotto mano. La prossima volta prendo a pugni il forno, che tanto non lo uso mai. È andata decisamente peggio alla statua del Buddha sbriciolata a martellate. Non che al povero Siddharta fosse andata meglio ne I vagabondi del Dharma (di Jack Kerouac, Mondadori, 272 pp. 8,50 euro): con la scusa dello zen tutti si strafacevano di canne bevendo come spugne, e dire che il buon Siddharta, almeno a quanto ci insegna La vita di Buddha nei testi del canone pali (Ed. Xenia, 192 pp. 10,33 euro) era dovuto passare da anni di ascetismo estremo prima di raggiungere il Nirvana. Anche Hermann Hesse racconta del Buddha e ne fa un romanzo molto bello ma molto Hesse (Siddharta, Adelphi, 198 pp. 9 euro) per non parlare di chi insegna Come diventare un buddha in cinque settimane (di Giulio C. Giacobbe, Ponte alle Grazie, 136 pp. 6,20 euro). Insomma, qua mi sembra si esageri, non è che possiamo tutti scrivere del Buddha, oppure se lo facciamo non lamentiamoci se poi Dio confonde gli haiku con il sudoku (Dio di Davide la Rosa, Casini, 250 pp. 14,90 euro). Una volta per provarci con una, sapendo che le piaceva il Buddha Bar, quel locale carissimo pieno di musica inclassificabile vagamente new age ed un po' elettronica, ho stampato per lei dal sito della Canon un Buddha cartaceo da montare. Povero Buddha, ridotto al rango dei Winnie the Pooh da merchandising estremo. Un po' come dice Margherita F. in Guide pratiche per adolescenti introversi: «Winnie the Pooh è un morbo malvagio individuabile nei pressi dei corpi acerbi delle tredicenni estroverse. Giace pendulo sui loro cellulari e zaini, moltiplica la sua effige su magliet- 16 te e felpe, è plastico, peloso, vitreo, virtuale, gommoso, ligneo». Comunque meglio così che ritrovarsi protagonista di un testo come Il Tao di Winnie Puh (di Benjamin Hoff, Guanda, 136 pp. Fuori catalogo). Altro che Buddha! Mi porto al livello di Winnie the Pooh, anzi, al livello dei Pooh, e cantando Piccola Ketty vado al Buddha Bar a Parigi come Paolo Bitta in Camera Cafè. Quanti caratteri mancano ancora alla fine dell'articolo? Non so, proporrò a Davide la Rosa di realizzare una vignetta più grande, tanto lui mica fa fatica, basta alzare il cielo e disegnarci su due nuvole! vignetta: DAVIDE LA ROSA La lettera che muore Mi scuso con i lettori fidati di MICHELE MARCON Q uesto mese ho proprio rischiato di non riuscire a scrivere il mio pezzo. Se state leggendo, beh, sappiate che il rischio di non leggere quello che state leggendo è stato altissimo. E se siete dei lettori fidati, mi scuso preventivamente per quello che vi apprestate a leggere. Non perché si tratti di cose balorde e senza senso, ma perché il tempo che vi ho dedicato è decisamente minore di quello che voi cari lettori fidati meritereste. Mi scuso soprattutto perché quello che state per leggere è frutto di una vera e propria operazione di riciclaggio. Come vi dicevo, queste righe hanno fortemente rischiato di non vedere la luce, e il motivo essenziale è che da un paio di mesi a questa parte mi sono impegolato a scrivere una tesi mastodontica per le mie limitate capacità intellettuali, una tesi talmente mastodontica che sta letteralmente assorbendo tutto il mio tempo, perciò da due mesi a questa parte non faccio altro che leggere per la tesi e scrivere per la tesi. La mia vita è la tesi, e così ho deciso di scrivere qualcosa sulla mia tesi. Poco male, infatti uno dei testi cardine della mia tesi è proprio La lettera che muore del buon vecchio Frasca, che ha sempre un po’ di cose intelligenti da dire, e perciò gli argomenti non potrebbero essere più calzanti per questa rubrica che voi lettori fidati leggete con tanta passione che spesso io mi emoziono. è l’oralitura? Mi domanderete voi lettori fidati. Beh, l’oralitura è un ibrido mediale fra l’oralità e la scrittura, e il termine è evidentemente una crasi di queste due “tecnologie della parola”. E che ce ne frega a noi dell’oralitura? Diranno a questo punto i lettori meno fidati. Probabilmente niente, ma lasciate che vi citi un passo della tesi, a sua volta carpito da La lettera che muore del buon vecchio Frasca. “Percepire i cambiamenti è pratica che necessita dei più rigorosi esercizi di estraneità. Ma i cambiamenti culturali, fortunatamente, non lasciano invariate le coincidenze spazio-temporali fra un punto di osservazione e un punto osservato. Le modificazioni della cultura, intesa come trasmissione del sapere. Impongono una ridefinizione complessiva dello spazio fisico, un ridisegnarsi dei rapporti e una conseguente rilettura del mondo. Le cose della cultura mutano, e sebbene con maggiore lentezza di quanto l’ansia del nuovo non finisca ogni volta col desiderare, comunque sempre più rapidamente dei nomi che ne sono cancelli e custodi. Ecco perché la necessità di coniare nuovi termini per seguire gli andamenti di queste trasformazioni: per non rimanere aldilà del cancello e fermi nella strada dell’evoluzione culturale”. Ecco perché l’oralitura. L’argomento principale della mia tesi è l’oralitura. E che diavolo Tutto questo per dimostrare che 17 l’ibridazione di due media può aiutare a riflettere criticamente sulle cose del mondo. Ma soprattutto per proseguire la strada dell’evoluzione culturale. Che per me in questi mesi è significato, tra le altre cose, leggere alcuni libri che probabilmente non avrei mai letto senza questa tesi. Things Fall Apart di Chinua Achebe è un tragico grande Gatsby africano mescolato a un saggio di etnologia. The Palm-Wine Drinkard di Amos Tutuola è un fantastico viaggio in un carnevale africano a metà tra le novelle boccaccesche, la fantasia più oscura di Hoffmann e lo sperimentalismo linguistico di Joyce… Detto questo concludo, e mi scuso ancora con i lettori fidati. Spero di avervi offerto comunque qualche spunto interessante. Vi siete accorti che ho tentato di scrivere mantenendo il più possibile uno “stile orale”? Forse no… in ogni caso questa dovrebbe essere più o meno l’oralitura. Già mi fischiano le orecchie per i commenti malevoli dei lettori poco fidati, ma non m’importa. Mi importate voi, cari lettori fidati, e fidatevi che dal prossimo mese tutto tornerà come prima. Il 26 febbraio consegno la tesi e poi sarò tutto vostro. Mattoni "JR" di William Gaddis, Peso: 2,7 kg di FILIPPO PENNACCHIO U ltimamente non si fa altro che parlare di 2666 di Roberto Bolaño: pare lo stia leggendo chiunque e che chiunque ne sia entusiasta – l’amante di world literature di cui alla scorsa puntata, figuriamoci, ne andrà matto. Sì, magari prossimamente lo leggerò anch’io, nonostante sia stato stampato in un formato piuttosto deludente e inservibile ai fini di questa rubrica – pare che anche Adelphi abbia ceduto alla moda imperante di tascabilizzare libri che invece dovrebbero pesare (e costare) tantissimo. Poi, ovviamente, occorrerà valutare se si tratti o meno di “mattone” – mi pare improbabile, visto e considerato che all’unanimità le recensioni dicono di un libro intelligentissimo e brillantissimo, mentre non accennano mai a noia, smaronamenti o a drammi della lettura, cose invece piuttosto comuni nella fenomenologia della lettura laterizia. Vabbè, pazienza. Fortunatamente quest’anno mia zia non ha ceduto all’hype e per Natale mi ha regalato JR di William Gaddis – non si sa bene perché: di solito regala sciarpe o cinture o dà la paghetta. Come sempre non avendo niente di meglio da fare, durante le feste ho deciso di leggerlo. Dio che mattone! Una cosa immensa, intendiamoci, ma pure illeggibile, sfiancante, pesante oltre ogni limite, tediosa, tragica: insomma il non plus ultra per gli amanti della letteratura anti-in- trattenimento (pochi ma esistono). Opera postmoderna per antonomasia, giunta in Italia – per nulla clamorosamente, ci mancherebbe – con trentaquattro anni di ritardo, JR soddisferà immensamente i lettori tormentati, nevrotici, incapaci di rapportarsi pacificamente all’universo-romanzo: quei lettori che, per farla breve, non si esaltano più di tanto di fronte a una storia ben raccontata, a una trama piacevole e conciliante o a trovate più o meno plausibili e interessanti, ma che viceversa concepiscono la letteratura più che altro come un serbatoio di idee, motivi, tic, occorrenze stilistico/formali – i mattoni a partire dai quali si edifica la storia letteraria – da cui estrarre, anzitutto, arricchimento euristico: lo stesso godimento che si ricava dallo smontare una macchina per vedere come funziona il motore, più o meno. Per questi soggetti borderline puntualmente bistrattati – non venitemi a dire che è socialmente ben accetto chi ammette di leggere con gusto, poniamo, L’uomo senza qualità – Gaddis è autore come solo pochissimi altri capace di soddisfare questo malsano bisogno, offrendo nel corso della sua opera un vasto compendio di enciclopedismo letterario applicato: per esempio utilizzando compulsivamente per tre quarti del romanzo lo strumento del dialogo, modellando certosinamente la storia sulla falsariga dell’Anello dei Nibelunghi wagne- 18 riano – non sono stato io a notarlo eh – o abolendo la canonica suddivisione in capitoli e optando per un unico ponderoso piano sequenza in cui si affastellano situazioni, motivi, decine di personaggi, tic linguistici, gradazioni prospettiche. Un buon esempio di massimalismo intransigente, insomma – astenersi romanticoni, cercatori di storie struggenti e simili, ci siamo capiti –, cui d’altra parte l’autore ci aveva già abituato con il grandioso Le perizie, un libro pesantissimo, pedante, tragico e tetragono simpaticamente descritto da un utente di ibs come un mattone di fronte al quale «è facile che il lettore non sappia di cosa cavolo l'autore stia parlando e che muoia di noia prima della metà della quarta pagina». Detto questo, Gaddis non manca di spiegarci due o tre cose fondamentali su come gira il mondo: JR, in soldoni la storia di un ragazzino undicenne che crea un impero finanziario trattando in borsa dal telefono della scuola, è per esempio, tra le altre cose, una parabola nerissima sul mercato finanziario e sulle sue drammatiche derive: motivo per cui sarebbe ottimo leggerlo oggi in tempi di crisi, tempi in cui trovare qualcuno disposto a pagarti decentemente per qualsiasi prestazione offerta è cosa letteralmente impossibile: vi prego datemi un lavoro o inviatemi dei soldi, dico sul serio, ne ho bisogno. Biografie Edulcorate figlio buono del verso lungo di Whitman. Con la differenza che Ginsberg è immagini. E' immagini. E' musica psichedelica. E' giornalismo gonzo in versi. E' sfacciatamente frocio. E' dannatamente beat. E' decisamente hippy. E' follia. E' Peyote. E' lingua parlata. Allen Ginsberg "...O victory forget your underwear we're free..." Brividi. di ANDREA MEREGALLI A h, la beat generation! Ah, San Francisco! Ah, New York! Ah, le psichedeliche devianze divine del Peyote! Come vorrei, anche solo per un minuto o due, essere stato lì. Con l'ebreo Allen e con Jack e con Lawrence e con Gregory e con Neal. Cisco, anni '50. Allucinazioni uditive: un paio di palline colorate, vino, jazz, cannoni a minacciare il mio culo vergine e forse un reading alla Galleria Six. Ah! Perchè, perchè bisogna sapere che Allen Ginsberg la sua allucinazione uditiva, che io non avrò mai e tu nemmeno, l'ha realmente avuta: Harlem, anno del Signore 1948: leggono una poesia di William Blake: Allen è in estasi: Allen sente la voce di Dio: Allen sostiene di non essere fatto. Ah! Insomma io, io della beat generation potrei stare qui a scrivere giorni, settimane. Ma non è questo. E' che Allen Ginsberg ha scritto una roba che, che mi ha turbato per mesi, che mi turba oggi, ancora. Cisco, ottobre 1955. "I saw the best minds of my generation detroyed by madness, starving hysterical naked, dragging themselves through...". Infinito, inarrivabile, ineguagliabile urlo di disagio e di denun- cia e di disperazione. O forse no. Ma comunque. Al bando! Quando la City Lights Bookstore di San Francisco, proprietà di un certo Lawrence Ferlinghetti, poeta, pubblicò, nel 1956, il poema Howl, la benpensante opinione pubblica statunitense non aspettava altro: al bando. Il primo emendamento. Libertà. Di culto. Di parola. Di stampa. La censura. La galera. La galera. Ci vollero nove (9) esperti di letteratura. Ci volle un giudice. Ci volle il senno del giudice. Alla fine vinsero loro, i poeti. E il beat hotel. A Parigi. Il beat hotel. Tutti questi beat, nelle loro stanze, a fumare, a bere, a vivere di ispirazione, a scopare donne a scopare uomini a scopare tra loro, a fare la storia, a scrivere poesie, a scrivere romanzi, a scrivere cose. Per dire, Allen ha scritto Kaddish, a Parigi. Il poema per la madre, per Naomi Ginsberg, donna pazza, donna elettroshockata, donna internata. E poi fu Londra, la Royal Albert Hall, i reading gratis, Bob Dylan, l'India, il Krishnaismo, il National Book Award, il cancro al fegato, la morte nel 1997. Il verso lungo di Ginsberg è il 19 I ferri del mestiere Bestseller. Definitelo voi di AGNESE GUALDRINI Q ualche settimana fa ero in treno. Davanti a me c’era una coppia; un ragazzo e una ragazza suppergiù della mia età. Per tutto il viaggio si sono chiamati con nomignoli mielosi e si sono sussurrati frasette d’amore a tratti erotiche. Il viaggio è durato circa tre ore e io per tutto il tragitto non ho potuto fare altro che vederli e, mio malgrado, ascoltarli (ovviamente sono scesa anche con un certo senso di fastidio). La situazione, di per sé molto comune, era però caratterizzata da una strana coincidenza: entrambi gli innamorati parlavano con una voce stranissima, a tratti soffocata. Probabilmente entrambi avevano una malformazione al palato, tipo, e pertanto uscivano dalle loro labbra parole aspirate, mal pronunciate e arrancate. Bene. Questa storia potrebbe essere il canovaccio tipico per un best seller (non la mia di coatta spettatrice, ma la storia ipotetica di questi due: emarginati dai compagni di classe, scelti per ultimi per formare le squadre delle partite di calcio e pallavolo. Poi un giorno si incontrano capiscono di non essere più soli e si innamorano ecc. ecc.). Ora, a parte gli scherzi, il bestseller è una categoria a posteriori e non un genere letterario. Esso indica semplicemente un libro che ha venduto moltissime copie e così, tanto Gomorra quanto il Codice Da Vinci, sono bestseller. Indubbio. E prendiamolo per assodato – se non altro perché vero. Tuttavia… per una volta concedetemi di dilettarmi affidandomi ai classici luoghi comuni; perché certe trame più di altre, e certi stili più di altri, sono portati per vocazione al bestseller inteso come genere (del resto il bestseller è un libro talmente scritto male da sembrare già un film, si dice). Alcune idee? In un libro davvero spassoso Luca Ricci elenca alcuni tipici cliches: “Il diario in cui una nonnina moribonda rivela alla nipote che la sua famiglia è composta da degenerati responsabili di ogni abiezione, tipo aver brevettato la shoah; la partita a scacchi tra un poliziotto e un serial killer (il poliziotto è appena stato lasciato dalla moglie e il serial killer uccide perché ha subito un forte trauma nell'infanzia); uno zoppo e un'anoressica si amano perché si scoprono simili nelle loro apparentemente diverse storie di handicap, salvo poi scoprire che la vita è comunque tregenda e solitudine.” Come si noterà c'è sempre di mezzo l'infanzia, un segreto svelato e sentimentalismo a frotte. Ora, al di là di questi giochetti divertenti, la casa editrice in cui lavoro (thanks God) non va alla ricerca del bestseller inteso come ge- 20 nere. Tuttavia, quando si fanno le riunioni editoriali la caccia alla tesi forte c’è sempre…perché il colpo di scena, la rivelazione shock, fa gola,: è tutta questione di audience. (Dialogo tipo tra un editor e l’editore: il primo vuole convincere il secondo a pubblicare una monografia su Carlo V. Il secondo non è convinto perché il libro non dice nulla di sensazionale. È solo una monografia su Carlo V. Messo alle strette l’editor azzarda: “Beh, editore, se vuole le dico che Carlo V era gay e lo mettiamo anche come titolo!”). Dunque serve mistero. Escamotage che pare essere stato captato anche dagli aspiranti scrittori che ci mandano i loro manoscritti. Pochi giorni fa abbiamo ricevuto un’email che ci ha davvero tenuti con il fiato sospeso: lo scrittore ci invitava a prendere visione della presentazione del suo libro aggiungendo che il titolo ce l’avrebbe “svelato” solo se ci fossimo rivelati davvero interessati a pubblicarlo. “Per il momento dovrete accontentarvi del sottotitolo”. Chapeau. La Posta dei Lettori di Matteo Bettoli di MATTEO BETTOLI C arissimo Bettoli, lei parla di libri come ne potrebbe parlare il mio lattaio, uomo simpatico ed alla mano, per carità, ma lattaio. Proprio con lei, outsider dell'editoria, ciarlatano incompreso, responsabile della rubrica meno rappresentativa della rivista solo perché possessore di foto compromettenti del caporedattore Jacopo Cirillo in gita & sotto la doccia, ecco, vorrei parlare dell'Amazon Kinder (sic, ndr) e dell'Apple iPad. nuova frontiera del libro, utilizzimi accessori per sfoggiare titoli indie e fuori catalogo nel palmo di una mano. L'editoria è boccheggiante, in Italia molti leggono solo lo scontrino del supermercato per controllare che non gli abbiano fottuto dei sordi, e caspita però sarebbe utilissimo leggere tomi su uno schermetto con inchiostro digitale e bullarsi col compagno di pendolarismo scandendo “io Zanna Bianca di Jack London lo leggo sull'iPad”. Scettico sulle nuove tecnologie tangenziali all'editoria, Campobasso S cettico, anche io sono scettico riguardo a 'ste cagate. Pure Jobs, mentre presentava l'iPad, ha detto che “i quattro libri che l'americano medio tiene in casa qui nell'iPad ci stanno tranquillamente, in alta definizione”, ma l'ha detto sottovoce, e tossendo. I responsabili di Garvin Ltd, principale casa editrice americana, hanno alzato la mano in quel momento, quasi a salutare la platea. Nessuno li ha considerati o rico- nosciuti. Molti hanno sputato per terra. Dopo questo bel momento, Jobs ha continuato “passiamo alle cose veramente appassionanti, ora” illustrando la bussola integrata nell'iPad. Il pubblico è esploso in un boato, memore delle giovani marmotte. L'Amazon Kindle (non Kinder) è un po' più serio e un po' più tristo e un po' più orientato alla lettura vera e propria, quindi sarà un flop assordante e verrà ricordato insieme al laserdisc ed a Microsoft Bob. Insomma. L'entusiasmo di chi saluta questi prodotti come il futuro dell'editoria verrà tacitato e tornerà la modestia e la misura. I fan del book crossing, dopo aver fatto un rapido conto e realizzato che -contro 10 libri lasciati in giro- ne avevano trovati e raccolti 2 (e zozzi) in un anno, hanno lasciato perdere, si sono detti disillusi. Vedremo stavolta, nel frattempo quaggiù si continua a leggere Zanna Bianca in versione cartonata. • G entile Bettoli, gli affitti nelle grosse città italiane hanno assunto tinte fosche e preoccupanti. C'è chi dice che è tutta una trovata dei bamboccioni per continuare a stare divanati, le camicie stirati, il gatto coccolati, i jeans lavati e le bollette pagati in casa coi genitors e chi invece esclama che non si può, sbotta contro il cartello dei padroni di casa, insorge contro il sistema immobiliare e si agita. Il mio babbo è padrone di diverse villette a schiera in Costa Brava e 21 quindi seguo la querelle con distacco, ma solidarizzo coi disperati dell'affitto, giovanotti che vorrebbero uscirsene di casa ma trovano un postolétto a 500 sacchi in nero, colore che contraddistingue anche i sanitari e gli infissi un tempo candidi di melanconiche monostanze nei sobborghi. Squat 'til you drop (ed. Risciò) racconta storie di squatters, gente come l'autore Jean Michel Roviel ed i suoi compagni di bevute a spasso per l'Eurasia in case di vecchi nobili rimbambiti. Interessante pure Couchsurfing senza mai dare il couch (ed. Lungomare) vergato dalla penna di Massorini e indirizzato a chi è passato dal divano di mammà a quello di persone a random. Giovanniello, Castel Guazza C aro Giovanniello, avere casa senza ereditarla da un anziano zio ligure è sempre più complicato. Capita così di distrarsi tramite esperienze che *sanno* di casa, tipo dormire nei bed & breakfast o applicare il principio asimmetrico del couchsurfing: bere come spugne a casa di sconosciuti con cui non c'è niente da spartire per poi stramazzare al suolo. Il couchsurfing in particolare è un fenomeno divertente perché mi ricorda certe catene di Sàntantònio che giravano su internet qualche anno fa, quelle che invitavano a infilare 5 dollari in 5 buste e a spedirle a 5 persone che figuravano in una lista in cui, se la catena aveva attraversato un po' d'Italia, figurava sempre Turbato Thomas da Godo. Si sarebbe poi aggiunto il proprio nome in fondo alla lista e altre persone avrebbero inviato fiumi di banconote da 5 dollari pure a te. Senz'altro. Queste catene avevano il solo scopo di arricchire le prime persone della lista, mentre gli altri ci avrebbero rimesso 25 bei dollaroni. C'era poi chi raccoglieva i tappi di plastica o i codici a barre che iniziavano con l'8, ma questa è un'altra storia. Insomma, Massorini ci spiega che nel couchsurfing sono pochi i fenomeni che dormono a sbafo e molte le anime pie che vedono il proprio divano IKEA occupato da anarcoinsurrezionalisti una notte si e quella dopo pure. Il frigo svuotato. Il gatto scalciato. L'inventore del couchsurfing ha una casa blindata in cui non ospita nessuno, senza divani. Non è un caso. • F inzioni si è imborghesito e non apre alla letteratura contemporanea, quella che si fa a Berlino in università libere, oppure in Nuova Caledonia su spiagge dorate. Lettera ad un maiale mai nato, Benoit di Günter Moeller (ed. Neubauten) parla di animalismo con la leggiadria che ho rico- nosciuto solo in Milly Fanilli o in Leandro Van Persie. L'autore immagina lo spleen di un ragazzino che sente in tv che George Clooney c'ha un maialino da compagnia e ne richiede uno per Natale ad un genitore ottuso che gli vieta questa soddisfazione perché gretto e avaro. Dormi come un antipatico di Rodolfi (ed. Eisenauer) racconta la storia di Genoveffa e del suo compagno, che sprofonda regolarmente in sonni antipatici invece di dedicarle attenzioni. La solitudine del prigioniero è invece l'opera magna di Gustavo Isegnus (ed. Ludovico) ed è divenuta celebre nell'enclave di Melilla perché composta esclusivamente dall'anagramma della frase *all'inizio avevo sonno e stavo bene prigioniero, ora ne ho abbastanza*. Hans, Rovigno L a letteratura contemporanea di cui parla non trova spazio su riviste serie, figuriamoci questa. Hans, lei deve avere pazienza. I libri di rottura non possono essere facilmente decodificati e richiedono un certo distacco. Finzioni non c'ha una lira e l'unico distacco che conosce è quello della luce, perché non paga le bollette. Le edizioni Neubauten pubblicano i propri libri 22 (tra cui pure il da lei citato Benoit) su carta velina con costa dorata. Li accoppiano a 45 giri pressati in Giappone contenenti il libro letto dalla sorella dell'autore. Li fanno pagare 67 euro. Mandano lettere all'antrace ai critici che parlano male dei loro autori. C'è chi non si prende sul serio, ma questi eccedono sul versante opposto. Le edizioni Eisenauer sono di proprietà del tizio di American Apparel e mettono sempre in copertina gente coi baffi, chiedendo per questo 30 euro a volume. Le edizioni Ludovico pubblicano libri probabilmente composti da nerd informatici tramite algoritmi in Turbo Pascal: anagrammi ripetuti per 200 pagine, palindromi, haiku che non significano niente e sono pure meno graziosi degli origami. Utilizzano nomi di opere quotate. Svalvolano recensioni entusiastiche di riviste inesistenti. 45 euri in economica. Se li tengono. La cultura costa, ma la nemesi della cultura costa pure di più, e la scuola di Berlino è qui per ricordarcelo. Metaletterari di carta Leggo per legittima difesa di LICIA AMBU B eduina (Alicia Erian, Adelphi 2008, pp.349, 12 euro) è un libro intrigante. Il titolo richiama l’appellativo onorifico, nonché dispregiativo, con cui Jasira, la protagonista, si sente chiamare da quello stuolo di adolescenti imbecilli che popolano la sua scuola. Jasira ha tredici anni, quando la madre, un’irlandese dall’isteria galoppante, accortasi delle attenzioni che il suo compagno dedica alla figlia, decide di spedirla a vivere con l’ex marito, libanese, scienziato nasa e precetti educativi dediti alla mano facile. Data l’età e il nuovo ambiente, la questione è un guazzabuglio di stimoli continui tra amicizie, discrimini razziali, sviluppi fisici e soprattutto sesso. E anche le botte. Questa piccola lolita non riesce a distinguere le attenzioni degli uomini adulti da preoccupazioni di ordine paterno. Non comprende i meccanismi fisiologici naturali di un corpo in divenire, dell’eccitazione, dell’orgasmo. Il mondo sembra passarle addosso senza concederle il dono di accorgersene. Allora arriva la vicina di casa che, comprese le difficoltà di orientamento, decide di andare incontro alla spaesata fanciulla. contesto della storia è la guerra del golfo, non bisogna poi andare secoli indietro, eppure il libro è il mezzo che meglio comunica, che meglio si rende utile nella gestione della situazione. Permette di essere consultato come, quando e dove si vuole. Senza, nel caso, l’imbarazzo di affrontare argomenti delicati. Questo fa un libro. Nel momento in cui ti insegna qualcosa, nel momento in cui ti porta altrove evitandoti il pesante fardello del dover pensare. Perfettamente sintonizzato e/o partecipe di alcuni meccanismi del reale (ammesse declinazioni al passato, presente e futuro). Non si tratta di acculturarsi in un senso fine a sé stesso, la cosa è differente. Si tratta di trovare risposta ad una necessità, utile o futile conta poco, si tratta di riceverne qualcosa (che nel migliore dei casi diventa un input). Scrive Harold Bloom nel suo La saggezza dei libri (Bur 2007, pp.288, 12 euro): “I libri, da soli, nutrono il pensiero, la memoria, e la loro fitta rete di interazioni nel- Dunque, le compra un libro. Pedagogia allo stato puro. Un testo che in termini scientifico-comprensibili, illustri e spieghi tutto quello che occorre sapere. L’abc, per capirci. Così che la multiforme e ingestibile realtà diventi più duttile e la sbarbina tredicenne possa difendersi. La scoperta dell’acqua calda, in effetti. In verità, però, il 23 la vita della nostra mente. La sola lettura non basterà a salvarci o a renderci saggi”, ma senza è decisamente peggio. Senza melanconiche prose d’amore è proprio constatazione imprescindibile: ne ho necessità, mi cibo del libro. Un sillogismo impeccabile per Firmino (Einaudi 2008, pp.184, 14 euro) pare, lettore accanito il cui tasso nutrizionale si fa proporzionale alle eroine commestibili. Quando si dice leggere per vivere (Flaubert in tempi non sospetti)… E insomma, in qualche modo questi due esuli del mondo, estranei al ciclo – ciclotimico – degli eventi, a modo loro si sono rifugiati nei libri. Per apprendere, per campare, per fare entrambe le cose, comunque sia, in contesti più che odierni hanno fatto del libro il loro cavallo di battaglia. A dispetto della sospirata ed inflazionata (verbalmente s’intende) convergenza multimediale e tutto il resto. Lo diceva anche Allen Woody che lui leggeva per legittima difesa. Così fan tutti. Forse. Graphic Novel "Jimmy Corrigan, The Smartest Kid On Earth" di Chris Ware di MARINA PIERRI C onosco almeno un paio di critici e giornalisti che traggono piacere dal remare controcorrente, cosa che si traduce nello scrivere o recensire prodotti culturali in maniera opposta rispetto alla maggioranza. Non posso dire di non capirli, almeno in qualche misura: del resto, distruggere è liberatorio ed esiste una perversa voluttà nel fare valere le proprie idee a dispetto del rischio di essere additati come dei rincoglioniti. Perciò non vogliatemene se in questa sede lo farò anche io. Dunque: Jimmy Corrigan di Chris Ware. Un mattonazzo assurdo in cui vignette e didascalie si intrufolano sotto le ascelle, nelle narici e sotto il palato e che tutti, per anni, mi hanno spacciato per un libro della madonna. Orbene, a mani basse, lo è sotto tutti i punti di vista; ma a me non è piaciuto per niente. O forse, semplicemente, lo rifiuto. Mi sono mossa negli ingorghi logici delle sue almeno mille pagine con fatica morale e fisica, consumandomi gli occhi su testi microscopici e chiedendomi perché non provassi nulla tranne irritazione. Ho provato a volere bene al ragazzino più intelligente del mondo, ma, niente, non ci sono riuscita per quanto mi sforzassi . Jimmy Corrigan è il bambino in- ventato, appunto, da Chris Ware, autore cresciuto con i Peanuts, le paperdolls e i diorama, poi “adottato” dal maestro Art Spiegelmann. Avendo a che fare con il protagonista del libro, vi troverete a pensare immediatamente a una via di mezzo tra le strisce di Schulz e Stewie (il bambino saputello dei Griffin). Poi lo vedrete agire all’interno di linee geometriche rigide e severe – dentro e fuor di metafora - che chiudono la sua anima e ostacolano ogni sua impresa. Conoscerete molti Jimmy. Uno, quello reale, attuale, presente: bolso, autistico e terribilmente inespressivo, eppure straordinario sognatore - è lui il soggetto profondo della storia e la sua fantasia strabordante che ne è il motore; un altro, il “piccolo” Jimmy, attraverso dei flashback; infine ancora altri due, che non sono proprio Jimmy, ma proiezioni legate alla sua terribile famiglia e, soprattutto, alla figura paterna. Di racconto, nel senso convenzionale del termine, ce n’è molto poco: il personaggio principale incontra un padre estraneo per la prima volta nella sua vita. Ma non importa. La trama, infatti, è poco più che una scusa per costruire attorno a Jimmy un mondo fatto di periodi ipotetici esplorati con un solo pensiero e viaggi fugaci in mondi paralleli che si dissolvono nell’arco 24 di un battito di ciglia. C’è magia, in questo universo storto, e c’è anche poesia; ma non c’è nulla di magico e nulla di poetico a ben guardare. Questo succede perché la materia di cui sono fatte le “allucinazioni” di Jimmy è il dolore: uno così sordo e intransigente che non permette al lettore di entrare mai nel personaggio, bloccando il meccanismo empatico. Se accettiamo la teoria per cui, attraverso l’identificazione, il fruitore diviene attore, allora il lettore di Ware resta sempre e solo uno spettatore, un uomo che guarda, un voyeur. Costretto, peraltro, ad assistere a una vita talmente misera e sbagliata da fargli desiderare di distogliere lo sguardo, chiudere il libro, correre altrove ed essere qualcun altro. Non discuto sul fatto che, in molti, possano trovare geniale la messa in atto di un congegno simile in una graphic novel (il cinema, al contrario, ne è piuttosto avvezzo), specie che quest’ultima si piega su se stessa e si rompe, si frattura nel momento stesso in cui, leggendola, si arriva a provare qualcosa. Non io, che ho trovato Jimmy Corrigan un libro brutale. E, come dicevo, l’ho rifiutato. C i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si al- ternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa. non fuori, come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione. Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti. E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me. Iperboloser Harold McGraw III di JACOPO CIRILLO N el 1909 il signor James H. McGraw e il suo compare John A. Hill unirono gli sforzi e crearono The McGraw-Hill Publishing Company, Inc., uno degli imperi editoriali più grandi al mondo. Il signor McGraw, uomo semplice e di ingegno, quando dovette decidere il suo successore per la poltrona non era convinto di abdicare seguendo il suo albero genealogico. “Al comando ci va chi se lo merita, non chi è nato con il mio stesso cognome” soleva ripetere quel vecchio brontolone. Al momento tutti gli dicevano “sì sì, va là, non preoccuparti” ma poi, alla fine, tutti i figli, nipoti e parenti alla lontana si azzuffarono per prendere il posto del vecchio, instaurando una tradizione consanguinea di oltre 50 anni. Tutto andò bene fino a che non si è issato sul ponte di comando Harold McGraw III detto Terry, un uomo con un taglio di capelli irrispettoso per le lesbiche (cit.). Proprio il giorno prima del lancio dell’iPad della Apple, dunque il 26 gennaio, il buon Terry, partner editoriale dell’azienda informatica, ha pensato bene di andare alla CNBC e sputtanare Steve Jobs, raccontando un sacco di cose che dovevano rimanere segrete per altre 24 ore per preservare la suspance della pre- 25 sentazione ufficiale. Per questo Jobs, il giorno dopo, ha tolto la McGraw-Hill dalla slide di presentazione dei partner editoriali dell’iPad, che com’è noto sarà un reader molto potente per gli ebook, dileggiando il vecchio Terry e, in sostanza, eliminandolo dal giro d’affari che, presumibilmente, dominerà il mondo editoriale dei prossimi anni. E la morale è: ascoltare sempre i vecchi, soprattutto quelli che hanno fondato un impero editoriale. Contributi da: Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge. Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sbagliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissimo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può permettersi. Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni. Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù. Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata. Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre paesi è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto. Sono Davide La Rosa e faccio i fumetti anche se non so disegnare (so che questa cosa potrebbe far strabuzzare lo strabuzzabile ma avrei potuto fare il chirurgo senza saper nulla di medicina). Sono nato il 23 giugno del 1980 e un giorno morirò ma non so darvi una data precisa. Una volta morto, comunque, voglio essere caramellato. Vabbè non c'è molto altro da dire su di me. Chi volesse leggere i miei fumetti può trovarli qui: http://www. lario3.splinder.com/ Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie. Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”. n. 10 / Febbraio 2010 [email protected] www.finzionimagazine.it 26 guenza, alle volte si annoia tantissimo. Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico. Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un giorno diventerà anche un templare così sposerà la figlia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto saltellando allegramente tra le piramidi. Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita. Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane. Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è stato in Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur igni. Il suo gatto si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’. Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali. Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera. Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie. Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa che la matematica sia alla base del declino della civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto. Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conse- Finzioni è disponibile solo su abbonamento. Abbonati o richiedi gli arretrati su http://finzioni.bigcartel.com 27 www.finzionimagazine.it