n.10
2
The Godfather
Alberto Manguel
di JACOPO CIRILLO
A
lberto Manguel era un ragazzino di 16 anni di Buenos Aires, letteralmente
malato di libri. La sua più grande aspirazione era vivere immerso tra la
carta e, per questo, trovò un lavoretto doposcuola in una libreria del centro. Ecco,
un bel giorno entrò Borges. Voi immaginatevi di essere in libreria a spolverare gli
scaffali fantasticando su Bellow e Mann ed entra Borges. Con la mamma ottuagenaria che lo apostrofa: “Oh Georgie (sic), non perdere tempo con l’anglosassone,
studia il latino”.
Insomma, il Maestro, ormai quasi completamente cieco, prima ordinò dei libri
assurdi che nessuno, in quella libreria, aveva mai sentito nominare e poi, apprezzandone lo zelo, chiese ad Alberto se voleva essere il suo lettore serale, “perché la
mamma si stanca subito”.
Da quel momento cominciò un’avventura fantastica per Alberto, ravvivata costantemente dall’intelligenza rivoltante di Borges che si faceva leggere tantissimi libri, li rimescolava mentalmente e arricchiva il giovane volenteroso di perle
impagabili e, letteralmente, inaudite su Kipling, Henry James, Heine e chissà chi
altro.
Manguel, nel tempo, è diventato un grande scrittore e saggista. Grazie, direte
voi, anch’io se avessi avuto Borges che mi faceva la lezione serale e che, in un certo
senso, pendeva dalle mie labbra sedicenni, qualcosa di buono con la letteratura
avrei combinato. Certo, dico io, e grazie a questa –diciamocelo – immeritata fortuna, l’ex-ragazzino ha prodotto libri notevoli tra i quali Una storia della lettura,
da poco ripubblicato da Feltrinelli, in cui sembra trasparire un’idea degna del
suo –diciamocelo – immeritato mentore.
In breve Manguel dice che non si legge semplicemente Delitto e castigo ma anche quel Delitto e castigo, quella edizione, la ruvidezza o la morbidezza della carta, la macchiolina di caffé o l’improvvida orecchia d'un segnalibro mancante. Un
libro ha una sua storia da raccontare al lettore in quanto oggetto, a prescindere
dalla storia che effettivamente racconta. Il lettore, dal canto suo, ha una lettura
“cumulativa e […] in progressione geometrica: ogni nuova lettura posa su ciò che
il lettore ha letto prima” (p.28). Allora anche il lettore ha una sua storia da raccontare, a prescindere dalla storia che racconta.
Due mondi che si incontrano, libro e lettore, ognuno con la sua storia personale, e la dinamica di questo incontro è teorizzabile, quindi raccontabile anch’essa.
Si potrebbe pensare allora a una vera e propria teoria della letteratura senza parlare di letteratura.
E Borges sarebbe orgoglioso del suo figlioccio e, forse, anche un po’ di noi che
l’abbiamo letto e che ci siamo battezzati in suo onore.
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Sommario
La citazione del mese
Le vite ortogonali
Libri (quasi) mai letti
Mitomania
Corrispondenze notevoli
Letterature Involontarie
Pillole di Scienza
Me lo copre il prezzo?
Oh, Scena!
Donne & Compressori 5
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9
10
12
13
14
15
Megaviaggi!
La lettera che muore
Mattoni
Biografie edulcorate
I ferri del mestiere
La posta dei lettori
Metaletterari di carta
Ghost World
Iperboloser
Contributi da
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26
Editoriale
V
na che, pensate, disegna i fumetti senza saper disegnare.
isto che in questo numero succedono tantissime
cose non ci perderemo nei soliti giochetti iniziali.
Benvenuti a Finzioni numero dieci, il primo in doppia
cifra. Inizia una nuova rubrica, Donne & Compressori,
di Alex Grotto, un metro-bookreader totalmente disorientato e confuso quando si trova a dover acquistare un oggetto di largo consumo che non gli è mai interessato particolarmente, un libro. Tuttavia, grazie a Finzioni, riuscirà
a trovare la strada in questo diario/reality show che, presto, porterà molte sorprese, come dire, multimediali.
Basta, basta direte voi. Tutte queste novità in un colpo
solo potrebbero paradossalmente farci perdere interesse
nelle novità stesse, inducendoci a darle per scontate. E
invece no. Concludiamo con orgoglio annunciando, onorati, un ospite d'eccezione, Alessandro Bonino (quello di
Phonkmeister, quello di eiochemipensavo, quello di Spinoza), che racconta del grande Learco Pignagnoli.
Mai come adesso non ci si può permettere di non leggere Finzioni. Da questo mese in doppia cifra.
Inizia un'altra nuova rubrica, Corrispondenze notevoli, di Greta Travagliati, dove si raccontano gli scambi
epistolari tra scrittori famosi e persone totalmente sconosciute che possono permettersi di essere arroganti e supponenti con le menti più brillanti della storia.
Inizia un'altra nuova rubrica, Megaviaggi!, di Alessandro Pollini e Davide La Rosa, un'integrazione dell'ormai
classico Viaggi con le vignette di questa gran bella perso-
La Redazione
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Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s'immaginò di
trovar modo di comunicar i suoi più reconditi pensieri a qualsiasi altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con
quelli che sono nelle Indie, parlare a quelli che non
sono ancora nati? E con quale facilità, con l'accostamento di venti caratteruzzi sopra una carta.
Galileo Galilei
La citazione del mese
Elementi di stile nella scrittura e Trilogia
della città di K.
di JACOPO CIRILLO
A
aaah, scrivere: che passione!
Noi di Finzioni lo sappiamo
bene, anche se siamo più o meno
tutti autodidatti. C’è invece chi
dello scrivere ha fatto un mestiere
e, contrario al vecchio adagio che
recita “chi sa fare fa e chi non sa fare
insegna”, ci ha guadagnato sopra.
Esatto, con i manuali di scrittura (creativa). I manuali di scrittura
creativa sono un po’ come il Grande
Fratello o Uomini e Donne: tutti li
snobbano, tutti negano di guardarli
(i programmi) o di leggerli (i manuali) ma se continuano a produrli
(entrambi) significa che la domanda e l’interesse ci sono, eccome.
Il manuale che pare sia considerato il migliore ce lo suggerisce Stephen King, dicendo che “la maggior
parte dei libri sulla scrittura sono
pieni di scemenze. Una rispettabile
eccezione […] è The Elements of Style” di William Strunk jr. In questo
libretto, per il quale bisogna rendere merito soprattutto al curatore e
traduttore italiano, rispettivamente Mirko Sabatino e Stefania Rossi,
si parla di tutte le possibili regole
compositive, grammaticali, sintattiche e stilistiche per scrivere bene
e correttamente. Come mettere le
virgole, che termini usare e che
termini dimenticarsi, quali segni
d’interpunzione vanno usati dove
e così via. Probabilmente Stephen
King è così affezionato al manuale
perché non si spinge troppo in là
nella creazione della storia: si limita alla correttezza, lasciando la
creatività a chi scrive. Non dice, per
esempio, cosa si dovrebbe fare per
inventarsi una trama o, ancora peggio, come si fa a creare personaggi
credibili.
Per rispondere a queste domande dovete guardare dentro di voi,
oppure leggere la Trilogia della città
di K. di Agota Kristof. Che sembra
un romanzo ma in realtà è un manuale di scrittura creativa romanzato. E, come tale, è tetragono alle
critiche comuni di cui si parlava.
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Senza raccontare troppa trama e
rovinare la sorpresa, diciamo che il
protagonista del libro è quello che
scrive il libro stesso dall’interno,
prendendo il nome e tratti del carattere delle persone della sua vita
e, a partire da loro, inventandosi dei
personaggi e una storia che gli girano letteralmente attorno, come se
delimitasse il proprio spazio vitale
attorno al romanzo liberamente
ispirato alla sua vita, romanzo nel
quale lui è dentro fino al collo.
Allora forse questo insegnamento, un po’ complicato a dire il vero,
sminuisce tutti i tentativi di descrivere la scrittura creativa da fuori.
L’idea di un romanzo che parla della propria genesi scritta all’interno
del romanzo stesso, innescando
dunque una matrioska da cui costitutivamente non si può uscire,
abolisce la narrazione come pratica
e la reifica in quanto pasta stessa
dell’esistenza.
Le vite ortogonali
Humbert Humbert vs Grenouille
di JACOPO DONATI
P
lutarco scrisse una serie di 24
biografie che prese il nome
di Vite parallele. Per ognuna prese
una figura greca ed una romana, le
mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla
di finzione, mica di realtà!, e così i
miei grandi saranno i personaggi
d’inchiostro dei libri. Lavoro ben
più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di
questi personaggi, ne sottolineerà
le differenze.
realtà è Humbert Humbert l’ossessionato, l’Humbert che vive la storia
d’amore più sincera della letteratura, che non ci pensa due volte —e
forse neppure una— prima di cacciarsi in qualcosa che non può che
procurargli dei guai. Il suo problema si rivela proprio il non riuscire
a resistere a un’ossessione e a una
passione travolgenti. Lui, pur rendendosi conto di quanto male sta
facendo alla piccola Dolores Haze,
non riesce a lasciarla andare, ad allentare la presa.
che attirino su di sé l’attenzione o
che solletichino corde afrodisiache negli animi di chi li assapora.
Dopo aver percepito un profumo
divino provenire da una ragazza,
Grenouille decide di creare il profumo perfetto. Comincia ora la
lunga carneficina che lo porterà ad
avere le “note” essenziali per la realizzazione del suo progetto. Grazie
alle sue doti di profumiere non solo
riuscirà a farsi perdonare per i suoi
crimini, ma indurrà chi lo circonda
ad amarlo.
Alla fine la perde, la sua Dolores.
E in quelle pagine dimostra che il
sesso era qualcosa di secondario,
qualcosa che in poco tempo è sfumato e scivolato in secondo piano.
Portato a termine il suo scopo,
Grenouille scopre che il suo progetto non gli ha portato che la consapevolezza di non poter essere amato per quello che è davvero. Tornato
a Parigi, in mezzo a un gruppo di
barboni, si rovescerà addosso l’intera fiala di profumo e la passione
suscitata da quell’odore lo farà letteralmente sbranare da quanti saranno nelle vicinanze.
Humbert Humbert
Come biasimare gli editori che
rifiutarono di raccontare le gesta di
Humbert Humbert? Humbert, scegliete voi se chiamarlo con nome o
cognome, è il professore protagonista di Lolita di Nabokov. Considerato un paria da buona parte dei
lettori contemporanei, si invaghisce di un’adolescente, poi di lei si
innamora, poi non può più resistere
un giorno senza la sua Dolores e impazzisce. Così pazzo che dalla cella
deve raccontarci la sua storia.
Humbert Humbert il pedofilo. In
Grenouille
La vita di Grenouille è spesso
quella di un semplice spettatore, di
uno che guarda gli eventi dall’esterno. Süskind lo descrive nel Profumo
come un giovane insignificante, e
privo di odore ma dotato di un olfatto straordinario.
Impara a “costruire” profumi che
lo facciano passare inosservato,
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Nella vita di Humbert Humbert,
così come nella vita di Grenouille,
l’ossessione fa da padrone: il tarlo di Humbert sarà la bella Lolita,
mentre quello di Grenouille sarà
la creazione del profumo perfetto.
Entrambi finiscono per compiere
atti orribili pur di mantenere viva
la propria ossessione, ma se Grenouille non mostrerà mai un rimorso vero, il povero Humbert Humbert, riemergendo per un istante
dalla sua follia, riconoscerà di aver
privato Lolita dell’infanzia che ogni
bambino merita.
Libri (quasi) mai letti
Gli indifferenti. Quando Alda Merini è
uguale a Orazio
di Maria Giovanna Ziccardi
T
emporeggiano, attendono,
sbadigliano, s’impigriscono
senza ingiallire, marciscono senza maturare. Per quanto sparsi nel
tempo e nello spazio, compongono
una piccola folla, si chiamano con
un unico nome: sono i quasi mai
letti libri di poesia. I miei. Mangiati
dalla mia indifferenza e resi invisibili, inservibili.
Non è che non ci provi: li cerco, li compro, ne sono attratta. Poi
però mi si polverizzano in mano
fino a sparire. È un effetto strano e
inconsulto, poco coerente e molto
lontano dalla mia religione della
pagina scritta. E i sintomi sono allarmanti: mi accadono tutte le cose
più terribili che possa fare o non
fare chi si trova per le mani un libro
di poesie. Salto quelle più lunghe;
alla terza o alla quarta mi sembrano tutte uguali; o tutte belle; o tutte
brutte; non ne ho mai copiata una
su un quaderno (tranne forse due
eccezioni, al liceo) o dedicata una
a qualcuno in una lettera; non ho
mai letto per intero un libro di poesie; non ho un poeta preferito; che
siano versi di Shakespeare o versi di
Baudelaire, provo all’incirca le stesse sensazioni. Resto imperdonabilmente distratta e distante, annoiata
(dall’autore) e delusa (da me).
Le Odi, Orazio, Nel cerchio di
un pensiero, Alda Merini, Todo el
amor, Pablo Neruda, Dietro la porta, Emily Dickinson, Tutte le poesie,
Montale, I sonetti, Shakespeare,
I fiori del male, Baudelaire (due
edizioni, per essere sicura), Elogio
dell’ombra, Jorge Luis Borges (sputiamo sul piatto in cui mangiamo),
Mappamondi e corsari, Gian Luca
Favetto, l’Antologia di Spoon River,
Edgar Lee Masters, Poesie d’amore
e dell’esilio, Ovidio.
Non sono poi molti in fondo, e
anche se li ho contati e messi nero
su bianco restano lì senza giustificazioni, senza distinzioni, senza
spiegazioni. L’unica cosa che so
dire è che non c’è niente che non
mi affascini nella poesia in sé per
sé. In sé per sé, un verso ben fatto
sintetizza tutto quello che la parola scritta può essere: è architettura
di suono e immagine, assonanza
e pienezza, può colpire o sfiorare,
evocare o scolpire, così come sa tradurre in metafora sa parlare senza
mezzi termini. Ma è proprio l’in sé
per sé il problema: datemi un contesto! Agenti, riferimenti. Storie,
una storia. Parole abbracciate da un
inizio e da una fine, messe in cammino, coordinate in un senso che si
moltiplica con altri sensi. Altrimenti, non trovo né totalità né mordente
e mi annoio.
Così, finisce che la poesia la tiro
fuori dalla prosa…sono tante le
pagine di saggi e romanzi in cui
ho trovato il senso e il gusto della
poesia più perfetta. Quasi a dire
che la prosa più perfetta è anche la
poesia più perfetta, al punto che la
differenza tra l’una e l’altra si scio-
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glie e tu arrivi là dove si annullano
etichette, endecasillabi, trame, filosofie, e restano soltanto l’essenza stessa, la forza misteriosa della
parola.
Può funzionare come scusa? Non
funziona, ma è un bel fraintendimento e mi basta. Mi basta inciamparci così nella poesia, rubarla dove
si non va a capo.
Un’ultima nota: c’è un libro che
non ho messo in elenco perché è
l’unico che ho letto da cima a fondo.
Ma non vale, perché l’ha scritto Nicole, che è una mia amica, e l’ha appena pubblicato per una casa editrice di Rovereto, ed è bellissimo. E
non vi dico il titolo, ché non sembri
tutto una trovata pubblicitaria.
Mitomania
Chi te l’ ha fatto fare, Prometeo?
di VIVIANA LISANTI
N
on possiamo non voler bene
a Prometeo, è come il fratello maggiore che tutti noi avremmo
voluto: è più sgamato di noi (lo dice
il nome stesso “colui che conosce
prima”), è coraggioso, intelligente,
astutissimo, insomma ha tutte le
skills migliori. E’ anche bello come
un semidio (è figlio di una ninfa e
di un titano) ma non se la tira per
niente: ci aiuta con i compiti di
greco; ci insegna a contraffare la
firma della mamma sul libretto delle giustificazioni…ma cosa più importante di tutte, ci difende sempre
dalla collera di nostro padre sfruttando l’ascendente che ha su di lui.
Ritornando ai tempi e luoghi del
mito narratoci da Eschilo, Prometeo è uno che è entrato nel giro giusto, ha guadagnato la stima di quelli che contano servendo al fianco di
Zeus nell’epocale guerra per la sovranità sull’universo, combattuta
contro la sua stessa gente, i titani.
Ma, come dicevamo, è rimasto con
i piedi per terra, anzi sulla terra. I
contatti che ha nell’Olimpo gli sono
serviti per civilizzare l’umanità: ha
insegnato agli uomini la matematica, la medicina, l’architettura etc…
La sua passione per la nostra razza ha destato più di una volta il nervosismo di Zeus. Come quella volta
che gli uomini stavano decidendo
quali parti di un toro sacrificare
agli dei e quali tenere per sé stessi.
Prometeo si intromise e pensò di
raggirare Zeus con un trucchetto
di magia spiccia: nascose le parti più gustose del toro dentro un
involucro costituito dalle budella
dell’animale; poi prese le ossa e le
camuffò sotto uno strato di grasso profumato e lucido. Presentò a
Zeus i due pacchetti chiedendogli
di scegliere. Zeus optò per il grasso e rimase fregato dal contenuto.
Come al solito si infuriò parecchio,
imprecò, lanciò le sue saette contro Prometeo, il quale se la rideva
soddisfatto con i suoi amici uomini credendo di essere stato molto
scaltro. C’è da dire che l’ira di Zeus
era dovuta più all’affronto subito da
parte del titano che per aver vinto le
ossa, di per se stesse molto preziose
(si diceva contenessero il principio
vitale); gli uomini quindi, che fino
ad allora condividevano con gli
dei l’immortalità, ma non l’eterna
giovinezza, e si nutrivano senza fatica sedendo a tavolate interminabili che spuntavano dalla terra già
imbandite di ogni prelibatezza, si
erano auto condannati ad una vita
da mortali, schiavi della loro stessa fame, costretti alla fatica della
caccia e dell’agricoltura per poter
sopravvivere. Ma liberi artefici del
proprio destino. “Mangiassero pure
le bistecche”, pensò Zeus, “ma crude”, e tolse il fuoco agli uomini.
La disputa poteva così concludersi, se non fosse che l’amore di
Prometeo è talmente sconfinato
da spingerlo a rubare, con un altro
inganno, il seme del fuoco a Zeus
e riportarlo sulla Terra. Ennesima
mancanza di rispetto che stavolta
viene punita dal re degli dei con
una delle sue trovate più sadiche:
incatena Prometeo ad una rupe e
manda un avvoltoio a divorargli il
fegato, un supplizio eterno poiché
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l’organo è destinato a rigenerarsi
di continuo. Prometeo soffre terribilmente ma non rinnega mai ciò
che ha fatto, continua a proteggere
gli uomini e continua ad opporsi al
dispotismo crudele di Zeus; anche
quando gli si offre la possibilità di
essere liberato, il titano non scende
a compromessi e afferma il primato
della sua libertà interiore.
Facile immaginare come questo
eroe, benefattore del genere umano, abbia ispirato per secoli a venire la letteratura mondiale. C’è un
poeta però che ne parla in termini
diversi, ribaltando il punto di vista
sulla vicenda. E’ Giacomo Leopardi che nel 1824 scrive un’operetta
morale dal titolo La scommessa di
Prometeo. Immagina che ad un
concorso bandito per designare la
più importante delle invenzioni
messe a punto dagli dei, vincano a
pari merito Bacco per il vino, Minerva per l’olio e Vulcano per un
modello super trendy di pentola
in rame. Prometeo si sente offeso:
è certamente il genere umano la
scoperta più lodevole, ed è lui a meritare il premio per aver lottato per
la loro esistenza, emancipazione e
progresso. Scommette con l’amico
Momo, che tanto convinto non è,
e gli propone di scendere in alcuni
punti della Terra, a caso, per dimostrare la somma perfezione degli
umani. La disfatta del titano è totale: i due amici incontrano prima un
uomo che sta banchettando con la
carne del proprio figlio, poi una vedova esaltata che si da fuoco e infine un padre di famiglia che ha massacrato i propri cari in preda alla
noia esistenziale. A questo punto,
mentre Momo lo sbeffeggia soddisfatto, Prometeo decide di non infliggersi ulteriori umiliazioni, paga
pegno e se ne va. E la domanda retorica che mi era sorta spontanea
fin dal principio, leggendo Eschilo,
si ripropone in tutta la sua portata:
Chi te l’ ha fatto fare, Prometeo??
anni, dal 1903 al 1911, momento in
cui probabilmente uno dei due, distrutto, ha deciso di cambiare casa
e sparire nel nulla per concludere
questo strazio epistolare.
Fatto sta che non è ancora certo
quanto la semiotica di Peirce debba a questa signorina inglese che
aveva in qualche modo deciso che
la semiotica potesse al massimo
essere una branca del Significs, e
scrive a Peirce: “Sia ben chiaro,
sono pienamente consapevole del
scono non tradurre. Si vede che gli
piace molto. Solo che spostano gli
accenti, come sempre, così diventa grossòmodò). Poi Peirce si sente
un po’ in colpa, e decide che è meglio mettere in chiaro una volta per
tutte la relazione tra la sua filosofia
e quella di Lady Welby. E’ stato influenzato da questo Significs, che
insiste sulla matrice pragmatica,
contestuale, esperienziale del senso? Giunge presto ad una risposta
formale: “Credo di no. Ma non posso che riconoscere il nostro accor-
Corrispondenze
notevoli
A suon di segni
di GRETA TRAVAGLIATI
C
harles Sander Peirce, noto
filosofo e semiotico del 1900,
non era certo l’unico ad occuparsi,
all’epoca, di studio dei segni. Da
notare, fra tutti, la tenace Victoria
Welby, che per avvalorare il suo
pensiero scientifico si era inventata
una terminologia su misura.
La sua teoria del significato si
chiama infatti Significs (in italiano,
“significo”, ma fortunatamente non
siamo francesi, quindi possiamo
risparmiarci le più azzardate traduzioni, quanto meno per i termini
che non esistono.)
Colui che pratica la Significs, è il
Significian. E via dicendo.
Di certo c’era di che strabuzzarsi
gli occhi sulle lettere che si mandavano Peirce e Lady Welby: una
corrispondenza durata ben nove
fatto che questa che voi chiamate
“Semiotica” potrebbe anche essere considerata come una sorta di
traduzione scientifica o filosofica
della disciplina che, spero, verrà
conosciuta con il nome di Significs.
Ma non credo dovreste disperarvi
del fatto che la vostra disciplina sia
riconosciuta come qualcosa di più
astratto, logicamente astruso e filosoficamente profondo.”
Peirce si potrebbe essere offeso,
al punto da “rubare” l’idea dello
svilupparsi triadico del senso a
Lady Welby? Peirce è abbastanza
chiaro su questo: non le deve proprio nulla, anzi fa il gradasso e banalizza le idee dell’amica. “Nulla di
nuovo nel Suo sviluppo triadico del
Significs: corrisponde grossomodo
ai tre momenti del pensiero” (tra
parentesi, grossomodo è una delle
rare parole che i francesi preferi-
9
do, né nascondere di aver letto ed
apprezzato il vostro libro”.
Così, il mistero si infittisce. Gli
esperti giurano che, da una parte,
Lady Welby capisse poco o niente di quello che Peirce le scriveva.
Ad un certo punto iniziò a parlare
delle connessioni tra pragmatica e
senso materno, ed il discorso filosofico si incagliò. Dall’altra parte, c’è
chi giura che le due filosofie siano
davvero troppo simili perché non si
siano reciprocamente influenzate.
E la battaglia resta aperta.
Letterature
involontarie
“Sciallati”,
disse Heidegger
di EDOARDO LUCATTI
I
mpara a stare al mondo. Il piccolo Martin sente questa frase
di continuo. Suo padre, probabilmente, non gli dice altro. Quando
Martin impara a pedalare senza
tenere il manubrio, quando scrive
il suo nome nella sabbia con la pipì,
quando diventa tutto rosso per un
bacione della maestra e quando,
la notte seguente, ha la sua prima
polluzione, il padre lo aspetta al
varco, pronto a tarpare quella vita
insolente che in varie forme tenta di
affiorare in suo figlio: “Impara a stare al mondo, Martin. Impara a stare
al mondo”. E così Martin impara, o
almeno ci prova. Ma più che altro
studia. Studia e scrive. E scrive così
tanto che a un certo punto si ferma
e dice: “Cazzo è venuto fuori un libro”. Allora si palleggia in mano
quel gran blocco di fogli e, valutandone il peso, comincia a fantasticare su un possibile titolo. Di getto, ma non saprebbe dire perché,
vorrebbe scrivere “Impara a stare
al mondo”. Suo padre, che nel frattempo ha avuto un ictus e lo guarda
ammutolito dalla poltrona, si limita
a brandirgli il proprio indice severo. “Mah – conclude Martin . proviamo con «Essere e tempo» e vediamo come va”. È solo a quel punto
che Martin diventa Heidegger, il
professor Martinheidegger. Ai suoi
studenti ama ripetere che al mondo
non si impara a stare perché, se sì è,
non si può che essere già al mondo.
Esserci, dice il professor Martinheidegger, significa essere-nel-mondo.
L’essere dell’esserci è l’in-essere,
cioè l’essere-nel-mondo. Gli studenti lo guardano un po’ basiti, ma
hanno un esame da superare e così
studiano, assimilano, nel peggiore
dei casi mandano a memoria. Non
possono immaginarsi il piccolo
Martin che con grande perizia orina nella sabbia per disegnare il proprio nome. E così, dopo tre o quattro appelli, nasce l’esistenzialismo.
Il trapezismo lessicale di cui vibrano le pagine di Essere e tempo
tende a sdoganare l’idea che Heidegger sia un cervellone per pochi
eletti. In realtà la sua filosofia (riletta a debita distanza dai suoi massimi esperti) è un clamoroso invito a
vivere senza “menarsela troppo” o,
per dirla ancora con i giovini d’oggi, a “sciallarsi”. In questo consiste
infatti la nozione di “appagatività”,
con la quale Heidegger intende affrancare l’uomo dall’assillo della
conoscenza (nonché dalla conoscenza degli assilli), dicendogli in
parole povere che il mondo non
sarà dei secchioni che vogliono
conoscerlo ma di chi vi si rilascia
come a ciò che da sempre già si è:
“Il mondo è già scoperto preliminarmente, anche se non tematicamente, in tutto ciò che in esso si
10
incontra”. Insomma: esserci significa essere-nel-mondo ed essere-nelmondo significa, in qualche modo,
esserne appagati. E se qualcuno
non avesse capito bene la faccenda, never mind: “Questa familiarità
con il mondo – dice infatti Martin
– non richiede necessariamente
una trasparenza teoretica dei rapporti che costituiscono il mondo
in quanto mondo”. In altre parole:
rilassati, non c’è molto da capire.
Non subito, almeno. Non ora. Poi si
vedrà. Cazzo facciamo sta sera?
È proprio qui che insorge il nerd,
l’essere votato alla tematizzazione
di tutto ciò che incontra, uomo che
nega l’esserci, esterno a ciò cui gli
altri sono interni, adeso – piuttosto - all’esservi, all’esservi cioè costitutivamente di fronte, strumenti
di misurazione alla mano. Quando si ammala di se stesso, il nerd
diventa Sheldon Cooper, un fisico
teorico affetto dalla sindrome di
Asperger, forma
di autismo che
impedisce
alla
mente di agganciarsi alla realtà
esteriore, di leggere fra le righe,
di interpretare la
mimica facciale
altrui. Sheldon
è un genio, ma
il suo sconcertante quoziente
intellettivo può
approcciarsi
a
cose e persone
solo
estensivamente, solo cioè
per come esse si
mostrano effettivamente. Una
vita, per così dire,
integ ralmente
alla lettera, che
non conosce sarcasmo. Al vecchio Heidegger,
secondo cui capire conta il giusto
e l’importante è
sentirsi dentro al mood della notte, Sheldon – i cui unici amici (212)
sono tutti su myspace – preferisce
Cartesio, per il quale l’unica via di
accesso genuina alla realtà è l’intellectio. Il conoscere, insomma e
- come ridacchia Martin sbragato
sul divano – “il conoscere fisicomatematico. Per Cartesio è autenticamente ciò che la matematica
conosce. Ciò che in un ente si rende
accessibile attraverso la matematica, ne costituirebbe l’essere. Ah ah
ah.”. Se Sheldon numera, incasella e categorizza ogni cosa, Martin
gli dice che lo può fare solo perché
tutte le cose che numera le ha già
incontrate nel loro con-esserci.
Sheldon inorridisce, il solo uso
dell’avverbio “con” lo raggela. Il
dott. Cooper, come scrive Martin
“conta gli altri senza contare su di
loro seriamente e senza voler avere
a che fare con loro”. E questo perché al mondo ci sono altri e Altri.
Quando Sheldon pensa agli altri
ragiona per superfici di separazione, pensando a come tenere gli altri
lontani dal suo divano, dalla sua
tazza, dal suo laboratorio. Quando
Martin pensa agli altri, invece, ragiona per volumi di coinvoluzione:
non si riferisce cioè a “coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli
altri sono piuttosto quelli dai quali
per lo più non ci si distingue e fra i
quali, quindi, si è anche. Il mondo
dell’esserci – appunto – è con-mondo”. Resse, orge e feste, insomma.
Tutto Essere e Tempo, in definitiva,
può essere letto come la negazione
della nerditudine, e tutta la nerditudine può essere letta come la
negazione di Heidegger: “L’Esserci
ha una tendenza essenziale alla vicinanza”, scrive Martin. “Avvicinati
e nuclearizzo l’area”, gli risponde
Sheldon.
Ma se vi lasciassimo così,
l’avremmo fatta troppo facile. Perché per quanto Martin finga di
sciallarsi, l’indice severo del padre
che gli intima di imparare a stare al
mondo non cessa di tenere banco e
di rinfacciare al figlio la sua inettitudine. Heidegger, infatti, ammette
che l’Essere-con, “innanzi tutto e
per lo più, si mantiene nei modi difettivi, o almeno indifferenti, cioè
nell’estraneità del trascurarsi reciproco”. Insomma, quella tendenza
essenziale alla vicinanza non ci
esime dalla fatica di fare davvero
conoscenza l’uno dell’altro, rendendocela piuttosto improrogabile.
“E quando poi la conoscenza reciproca si perde nella modalità della
dissimulazione, della reticenza e
della simulazione – dice Martin l’essere-assieme richiede particolari procedimenti per avvicinarsi agli
altri e «penetrare» in essi”. Esattamente la condizione di Sheldon
che, vedendo un uomo sorridere e
trovandosi intrappolato nelle proprie ipotesi, chiede conforto a un
amico che gli siede accanto: “Sarebbe gioia quella lì?”.
11
Verboso
metro
20
15
10
5
0
Ritaglia il verbosometro
e attaccalo sulla schiena
del tuo amico verboso
V
Verboso
metro
L’eloquio deloquia: lo si
parametri, dunque, in
funzione di soglie di
verbosità che ne dipanino
l’evolvere, l’involvere e
l’avvolvere.
Da 0 a 5 espressioni
verbose.
Latenza del verboso. Il
singolare riluce nel
pauperismo dei villici,
ramingo dinoterio prosodico
scampato all’impudente
glaciarsi del dire.
Da 5 a 10 espressioni
verbose.
Brezza verbosa. Distendesi
l’eloquio lungo plaghe
d’orpelli musabili,
muscovite di senso che
rattiene la voce in
gibigiana.
Da 10 a 15 espressioni
verbose.
Telluria verbosa. Ciacchero
clivo del sema che
incerona l’abisso a meta,
liberando legioni d’una
lutulenza che ‘l pudore
tenea per ascosa.
Da 15 a 20 espressioni
verbose.
Verbocrazia. Tripudio
fulgente della lingua: di
fuètto s’agguizzano i
nervi palatali; ne
promana un sentire che
mal s’addice al fucato
anelito del frasaio e ben
si predica, invece, d’un
dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa.
Più di 20 espressioni
verbose.
Verborrimìa. Il nulla
s’attarda nel discorso e
ne fa vano asfodelo.
e l’ho già detto: la scienza è
bella e la bellezza influenza
la scienza. Questioni di simmetrie e
di gusti. A volte aiutano, per il buon
vecchio Einstein fu così, come abbiamo già visto. Ma non è sempre
domenica, diceva un prete svogliato. C’è infatti chi, pur avendo
ottime intuizioni, si fa prendere da
idee bizzarre e “carine” prendendo
cantonate colossali.
Il migliore di questa categoria fu
senza dubbio il grande John Newlands, che passò alla storia per la
sua “teoria delle ottave”, un’interpretazione errata di una grande verità, e per essere stato uno dei mille
Ora, le proprietà degli elementi dipendono essenzialmente da
come questi elettroni stanno attorno al nucleo, e quindi ogni otto
elettroni le caratteristiche degli
atomi tendono a riproporsi. Mendeleev razionalizzò questi comportamenti nel sistema periodico degli
elementi: la tavola periodica che
tanto fa penare chi studia chimica
ma che al suo interno contiene tanta sostanza, anche se difficilmente
visibile.
Newlands invece di razionalizzare questi andamenti di otto in un
diagramma che fece? Un bel parallelismo tra gli andamenti periodici
Pillole di
scienza
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8.
di FABIO PARIS
di Garibaldi. Mica male!
Costui fu il primo a notare un andamento periodico degli elementi, osservando che le proprietà di
questi si ripetevano ad intervalli di
otto. Piccola doverosa digressione:
gli atomi sono formati da un nucleo
(positivo) attorno al quale orbitano
gli elettroni (negativi). Il numero
degli elettroni è tale da bilanciare
le cariche positive del nucleo. Questi elettroni orbitano attorno al nucleo su orbite ben precise, con delle
“traiettorie” che si vanno a ripetere
ogni otto elettroni, cambiando solo
la distanza che li separa dal nucleo.
È così, se non vi fidate studiatevi la
meccanica quantistica, che è una
bella scienza.
12
degli elementi e le ottave musicali.
La teoria delle ottave. Fu ovviamente deriso da tutti gli scienziati
nel giro dell’uno. Che ci azzeccano le note musicali, anzi, le ottave
musicali con gli andamenti delle
proprietà degli elementi chimici?
Nulla!
Ma accostare le due cose non era
male... era tutto sommato bello, per
un garibaldino a cui piaceva la musica poi! Una specie di new age ante
litteram...
Me lo copre il prezzo?
Confessioni stra-ordinarie di un
vetrinista fallito
di LICIA AMBU
F
are la vetrina è complicatissimo. Tanto per cominciare
o hai troppa roba nuova da voler
mettere oppure non c’è uno straccio di novità. La cosa, in verità, è
più spirituale, si pretende in effetti
di voler dare un qualche messaggio subliminale o meno. Su una
scala da 1 a 10 può andare dal ecco
guardate, questo è ciò che il mercato
editoriale ha prodotto nell’ultimo
quarto d’ora, al più semplice abbiamo messo questo perché è dovere di
un qualche ordine metterlo e speriamo sinceramente di trovarvi una
ragione, però accanto ci
sono titoli bellissimi che
abbiamo scelto noi. La
maggior parte delle volte temo la crisi epilettica
nel dover stare dietro a
tanti titoli diversi alla ricerca di un senso che non
sempre è palese. Considerando che succede a
me che i libri in vetrina
ce li infilo, non oso immaginare i voli pindarici
che toccano ai curiosi. Mi
dico che ci vorrebbe un
quarto d’ora e uno sgabello per guardarli tutti
e soprattutto il punto di
fondo è che il mio senso
non è universale, tanto
meno univoco, quando
c’è. Però, se ci fosse, allora ognuno potrebbe trarne quel che vuole un po’
come una parabola, senza l’obbligo del discerni-
mento morale, tanto per dire. Si potrebbe spararsi una semiotica della
vetrina e cercare d’inferire quali
meccanismi la abitano così che poi
ci si regolerebbe di conseguenza.
Tipo se il morbo è cromatico niente
più fila di supercoralli:
- Vorrei il libro che è in vetrina.
-…
- Quello lì mi sembra verde, forse
di cucina.
Per una tacita legge, comunque,
pare che in vetrina ci debbano an-
dare le novità, a volte le quantità e
perciò spesso i potenti. La questione si fa più difficile, metafisicamente parlando. Altra roba, insomma.
Resta che io non lavoro da Feltrinelli, con i commessi del quale condivido solo l’aspirazione al titolo di
libraio e null’altro, lavoro in una
libreria indipendente sicché domani non mi chiamerà Mondadori per
comprarsi un terzo del mio spazio
su strada, che detto fra noi sarebbe
si e no un metro per due, e perciò
nemmeno tanto conveniente; al
massimo riceveremo qualche strana richiesta
- Libreria buongiorno
- Buongiorno signorina, sono un vostro cliente
- Prego, mi dica
- Vorrei fare il tagliando della mia Opel
E allora pensandoci, in vetrina, preferirei
metterci due tizi enormi
seduti a fumare la pipa
che leggono un libro privo di sovraccoperta e si
spaccano dalle risate così
che poi chi passa possa
decidere se entrare oppure sedersi all’esterno,
per guardare due tizi
enormi che leggono mentre fumano la pipa, nella
vetrina di una libreria.
Indipendente, sia detto.
13
Oh, Scena!
Oh, Learco!
di ALESSANDRO BONINO
Se non c’è niente da ridere vuol
dire che non c’è niente di tragico,
e se non c’è niente di tragico, che
valore vuoi che abbia.
(Opera n. 161)
Salve, sono simone rossi. Questo
mese non ho scritto Oh, Scena! perché ho scritto un libro nuovo (http://
phonk.it/sbrisolonando). A proposito di phonk, questo è un pezzo
gentilmente concessoci da Alessandro Bonino, cioè Phonkmeister, cioè
eiochemipensavo, cioè Spinoza
(insieme a Stark, Luca Barbareschi
e un sacco di altra gente). E niente,
io quando ho visto la storia dello
scrittore che non esiste mi sono innamorato, e dovreste proprio innamorarvene anche voi. Al mese prossimo,
giuro.
“L
earco Pignagnoli, ammesso che esista, è filosofo e
maestro di tutti noi”.
Ho conosciuto Pignagnoli nel
2004, a Torino, era maggio: Paolo
Nori aveva letto alcune delle opere,
che poi sarebbero state raccolte da
Daniele Benati nel volume Opere
Complete di Learco Pignagnoli, edito da Aliberti nel 2006; Paolo Nori
aveva delle fotocopie, tutte scarabocchiate, e sulla prima c’era scritto soltanto Learco Pignagnoli, e poi
sotto Opere Complete. Ho detto che
ho conosciuto Pignagnoli, ma avrei
potuto usare una metafora come mi
sono abbeverato dalla fonte di Pignagnoli, poiché il conoscere prevede normalmente una presenza,
una presenza che Pignagnoli non
può e non vuole dare: Pignagnoli
è un autore che non c’è, e se esista
o se non esista non è dato saperlo,
ma quel che è importante è che non
c’è, dato che ha eletto a sua filosofia
l’Assenzialismo, che consiste essenzialmente nel non esserci come
pratica.
Se si prova a telefonare a uno dei
novantuno Pignagnoli presenti sulle pagine bianche, concentrati perlopiù in provincia di Reggio Emilia
– io ho provato – vi risponderanno
che lì non c’è nessun Learco, e che
non lo conoscono. Diventa chiaro,
telefonando, ed è un’esperienza
che consiglio a tutti – telefonare a
dei Pignagnoli a caso in provincia
di Reggio Emilia chiedendo di Learco – diventa chiarissimo che il
tentativo è inutile: Learco non c’è e
non ci sarà mai, e non è casuale che
esista un’immagine di J.D. Salinger,
autore autorecluso scomparso di
recente, non è casuale che ne esista
una di J.D. Salinger che spinge tutto
incazzato un carrello della spesa e
che non ne esista nemmeno una di
Learco Pignagnoli. E non è casuale
che si facciano convegni e letture di
e su Learco Pignagnoli, alle quali
lui non partecipa mai. E non è casuale che io, in questo momento,
stessi cercando il libro delle Opere
Complete di Learco Pignagnoli, senza riuscire a trovarlo per almeno
una decina di minuti. Perché Pignagnoli non c’è, e sfido chiunque
a provare il contrario.
14
Si dice nell’introduzione alla
raccolta delle Opere Complete che
la sua biografia “resta per ora del
tutto incerta, avendo egli trascorso
gran parte della vita da uomo schivo e solitario, apolitico e anarchico,
senza famiglia e senza falsi amici.
Come è stato detto, Learco Pignagnoli brilla di luce propria nel campo della nostra letteratura contemporanea, perché la sua presenza
corrisponde radiosamente ad una
massima assenza”.
Questo libretto piccolo e nero
ricorda molto un breviario da preti, e se uno andasse in giro con il
libro delle Opere Complete di Learco Pignagnoli potrebbe essere
facilmente scambiato per un prete
in borghese, e uno lo guarderebbe,
penserebbe Che strano questo prete, che magari uno mentre legge le
Opere Complete ha su un giubbotto
di pelle, o un eskimo, e magari sotto
il giubbotto ha una maglietta colorata, o di qualche gruppo musicale
un po’ underground, e magari degli
anfibi, o delle scarpe da ginnastica;
avrebbe senso, per il passante non
avveduto, scambiare il lettore di
Pignagnoli per un prete, per uno
strano prete: leggere Pignagnoli
è un atto trasformativo che rende
immediatamente adepti del culto,
leggere Pignagnoli in pubblico è
come partecipare a una messa pazza. Per me, le Opere Complete di Learco Pignagnoli sono un po’ come la
Bibbia; io, se cerco delle risposte, in
quel libro lì le trovo, invariabilmente. E chiedersi se Pignagnoli esista o
non esista, è un dubbio che è molto
simile al chiedersi se esista o non
esista Dio.
Donne & Compressori
Introduzione
di ALEX GROTTO
I
o sono un lettore potenziale, o
metro-bookreader, come oserebbe etichettarmi qualche giornalista ossuta di Cosmopolitan tra
uno Zoloft e l'altro, magari in un
articolo che parla di quei tizi che
leggono libri quindici giorni all'anno sotto l'ombrellone e usano le
nozioni apprese per montare finissime discussioni a base di dietrologia sui templari alla macchinetta
del caffè. Io non sono così, il mio
problema è più grave e si chiama
“sindrome della Donna e del negozio di ferramenta”. E' una patologia
meno diffusa della gastrite, ma più
diffusa del votare a sinistra e ritenersi soddisfatti: consiste nell'essere totalmente disorientati e confusi
quando ci si trova a dover acquistare un oggetto di largo consumo
che non ci è mai interessato particolarmente. Come un compressore
per una donna o un libro per me. I
sintomi appaiono evidenti al mio
ingresso in una libreria; mi aggiro
tra gli scaffali come gli adolescenti
che cercano i pusher alla stazione,
aspetto che qualche copertina mi
faccia un segnale: un titolo accattivante, il vago ricordo del nome di
un autore, va bene anche il bieco
marketing di una bella illustrazione.
Mi sento più fuori luogo di un
tedesco in campeggio al mare,
anzi no, mi sto letteralmente trasformando in un tedesco al mare.
Cambio accento, mangio un paio
di unghie, mi accorgo di indossare i
sandali coi calzini, ho voglia di musica dance tristissima. Il crescente disagio che sto avvertendo mi
avvicina sempre più a tutte quelle
situazioni di inadeguatezza adolescenziale che inesorabilmente significano fallimento, come quella
volta che non potei pomiciare con
Clara della terza B perchè lei voleva
parlare solo di Asimov, Baudelaire e
Murakami, ma io la bloccai dicendo che i loro dischi mi mancavano:
grezza figura, clamorose pive nel
sacco e lezione sull'utilità socialetrasversale della Letteratura appresa.
Lancio un'occhiata a chi sta dietro il bancone, a chi di gente come
me ne vede a ondate da anni: lui sa
che io non so e farà qualcosa per
farlo capire anche agli altri, quelli che mi derideranno per la totale
assenza di gusto letterario e per
aver invaso, con il mio accento da
lettore potenziale mai realizzatosi,
la sacralità del luogo in cui si vende la parola stampata. Inizio a gridare “Se fossimo in un negozio di
dischi, vi farei vedere io! Vi sistemerei tutti!” mentre nella mia mente
viaggiano scene di Daniel San che
minaccia biondini cotonati col kimono nero. In realtà tutto ciò che
mi esce sono grugniti mentre cerco
l'uscita.
Forse l'origine del mio problema
è legata all'humus umano di cui mi
circondo: non ho una guida spirituale che mi indirizzi sulla giusta
via, magari con la più variegata
verbosità possibile. Non frequento
individui colti, nè lettori accaniti a parte un tizio appassionato di
audiolibri, ma superati i ventanni
e senza disfuzioni debilitanti l'au-
15
diolibro è come girare in bici con
le ruotine e il pezzo di cartone tra
i raggi, è appagante solo se schivi i
cocci dell'imbarazzo. La sola soddisfazione rimastami in ambito letterario è il rifugiarmi nel caro vecchio
“mal comune mezzo gaudio”, ovvero la consapevolezza di non essere
il solo qui fuori a provare tutto questo sotto la pioggia dell'ignoranza.
Siamo in molti ridotti così, ma basta la prima mossa di uno soltanto
per salvarci tutti: da oggi il proiettile lo beccherò sempre io per voi e
Donne&Compressori sarà il nostro
ballo di fine anno dei telefilm da
teen-ager, il riscatto degli sconfitti.
Parlerò di libri letti a stento tramite
impressioni sbagliate infarcite di
pregiudizi e luoghi comuni, personaggi inutili che mi hanno colpito;
questa rubrica sarà il diario di un
giovane dalla cultura mediocre
che proverà a redimersi seguendo
le idee, le esperienze e i consigli di
chi legge Finzioni e vuole adottare
un potenziale lettore e reale fallito.
Da oggi, entrerò in libreria gridando “Ehi, ho qui con me un Finzioni Magazine e non ho paura di
usarla!”
Megaviaggi!
Analisi Finzioni del testo
di ALESSANDRO POLLINI
S
empre caro mi fu quest'ermo
Apple, e questo schermo, che
da tanta parte de l'ultimo orizzonte il guardo esclude. Come si può
capire dall'intro leopardiano non
solo adoro Giacomo Leopardi (Canti, Garzanti, 422 pp. 8,50 euro) ma
anche il mio iBook G4, che dopo
settimane di riparazione è tornato
a casa. Purtroppo quel giorno in un
momento di ira non ho trovato di
meglio da fare che prendere a pugni
tutto quello che mi passasse sotto
mano. La prossima volta prendo a
pugni il forno, che tanto non lo uso
mai. È andata decisamente peggio
alla statua del Buddha sbriciolata a martellate. Non che al povero
Siddharta fosse andata meglio ne
I vagabondi del Dharma (di Jack
Kerouac, Mondadori, 272 pp. 8,50
euro): con la scusa dello zen
tutti si strafacevano di canne
bevendo come spugne, e dire
che il buon Siddharta, almeno
a quanto ci insegna La vita di
Buddha nei testi del canone
pali (Ed. Xenia, 192 pp. 10,33
euro) era dovuto passare da
anni di ascetismo estremo
prima di raggiungere il Nirvana. Anche Hermann Hesse
racconta del Buddha e ne fa un
romanzo molto bello ma molto
Hesse (Siddharta, Adelphi, 198
pp. 9 euro) per non parlare di
chi insegna Come diventare un
buddha in cinque settimane (di
Giulio C. Giacobbe, Ponte alle
Grazie, 136 pp. 6,20 euro). Insomma, qua mi sembra si esageri, non è che possiamo tutti
scrivere del Buddha, oppure se
lo facciamo non lamentiamoci
se poi Dio confonde gli haiku con il
sudoku (Dio di Davide la Rosa, Casini, 250 pp. 14,90 euro).
Una volta per provarci con una,
sapendo che le piaceva il Buddha
Bar, quel locale carissimo pieno di
musica inclassificabile vagamente
new age ed un po' elettronica, ho
stampato per lei dal sito della Canon un Buddha cartaceo da montare. Povero Buddha, ridotto al rango
dei Winnie the Pooh da merchandising estremo. Un po' come dice
Margherita F. in Guide pratiche per
adolescenti introversi: «Winnie the
Pooh è un morbo malvagio individuabile nei pressi dei corpi acerbi
delle tredicenni estroverse. Giace
pendulo sui loro cellulari e zaini,
moltiplica la sua effige su magliet-
16
te e felpe, è plastico, peloso, vitreo,
virtuale, gommoso, ligneo». Comunque meglio così che ritrovarsi
protagonista di un testo come Il Tao
di Winnie Puh (di Benjamin Hoff,
Guanda, 136 pp. Fuori catalogo). Altro che Buddha! Mi porto al livello
di Winnie the Pooh, anzi, al livello
dei Pooh, e cantando Piccola Ketty
vado al Buddha Bar a Parigi come
Paolo Bitta in Camera Cafè. Quanti caratteri mancano ancora alla
fine dell'articolo? Non so, proporrò
a Davide la Rosa di realizzare una
vignetta più grande, tanto lui mica
fa fatica, basta alzare il cielo e disegnarci su due nuvole!
vignetta:
DAVIDE LA ROSA
La lettera che muore
Mi scuso con i lettori fidati
di MICHELE MARCON
Q
uesto mese ho proprio rischiato di non riuscire a
scrivere il mio pezzo. Se state leggendo, beh, sappiate che il rischio
di non leggere quello che state leggendo è stato altissimo. E se siete
dei lettori fidati, mi scuso preventivamente per quello che vi apprestate a leggere. Non perché si tratti
di cose balorde e senza senso, ma
perché il tempo che vi ho dedicato
è decisamente minore di quello che
voi cari lettori fidati meritereste. Mi
scuso soprattutto perché quello che
state per leggere è frutto di una vera
e propria operazione di riciclaggio.
Come vi dicevo, queste righe hanno
fortemente rischiato di non vedere
la luce, e il motivo essenziale è che
da un paio di mesi a questa parte
mi sono impegolato a scrivere una
tesi mastodontica per le mie limitate capacità intellettuali, una tesi
talmente mastodontica che sta letteralmente assorbendo tutto il mio
tempo, perciò da due mesi a questa
parte non faccio altro che leggere
per la tesi e scrivere per la tesi. La
mia vita è la tesi, e così ho deciso di
scrivere qualcosa sulla mia tesi.
Poco male, infatti uno dei testi
cardine della mia tesi è proprio La
lettera che muore del buon vecchio
Frasca, che ha sempre un po’ di
cose intelligenti da dire, e perciò gli
argomenti non potrebbero essere
più calzanti per questa rubrica che
voi lettori fidati leggete con tanta
passione che spesso io mi emoziono.
è l’oralitura? Mi domanderete voi
lettori fidati. Beh, l’oralitura è un
ibrido mediale fra l’oralità e la scrittura, e il termine è evidentemente
una crasi di queste due “tecnologie
della parola”.
E che ce ne frega a noi dell’oralitura? Diranno a questo punto i
lettori meno fidati. Probabilmente
niente, ma lasciate che vi citi un
passo della tesi, a sua volta carpito
da La lettera che muore del buon
vecchio Frasca.
“Percepire i cambiamenti è pratica che necessita dei più rigorosi
esercizi di estraneità. Ma i cambiamenti culturali, fortunatamente,
non lasciano invariate le coincidenze spazio-temporali fra un punto di
osservazione e un punto osservato.
Le modificazioni della cultura, intesa come trasmissione del sapere. Impongono una ridefinizione
complessiva dello spazio fisico, un
ridisegnarsi dei rapporti e una conseguente rilettura del mondo. Le
cose della cultura mutano, e sebbene con maggiore lentezza di quanto
l’ansia del nuovo non finisca ogni
volta col desiderare, comunque
sempre più rapidamente dei nomi
che ne sono cancelli e custodi. Ecco
perché la necessità di coniare nuovi
termini per seguire gli andamenti
di queste trasformazioni: per non
rimanere aldilà del cancello e fermi
nella strada dell’evoluzione culturale”.
Ecco perché l’oralitura.
L’argomento principale della
mia tesi è l’oralitura. E che diavolo
Tutto questo per dimostrare che
17
l’ibridazione di due media può aiutare a riflettere criticamente sulle
cose del mondo. Ma soprattutto per
proseguire la strada dell’evoluzione
culturale. Che per me in questi mesi
è significato, tra le altre cose, leggere alcuni libri che probabilmente
non avrei mai letto senza questa
tesi. Things Fall Apart di Chinua
Achebe è un tragico grande Gatsby
africano mescolato a un saggio di
etnologia. The Palm-Wine Drinkard
di Amos Tutuola è un fantastico
viaggio in un carnevale africano a
metà tra le novelle boccaccesche,
la fantasia più oscura di Hoffmann
e lo sperimentalismo linguistico di
Joyce…
Detto questo concludo, e mi scuso ancora con i lettori fidati. Spero
di avervi offerto comunque qualche spunto interessante. Vi siete
accorti che ho tentato di scrivere
mantenendo il più possibile uno
“stile orale”? Forse no… in ogni
caso questa dovrebbe essere più o
meno l’oralitura. Già mi fischiano
le orecchie per i commenti malevoli
dei lettori poco fidati, ma non m’importa. Mi importate voi, cari lettori
fidati, e fidatevi che dal prossimo
mese tutto tornerà come prima. Il
26 febbraio consegno la tesi e poi
sarò tutto vostro.
Mattoni
"JR" di William Gaddis,
Peso: 2,7 kg
di FILIPPO PENNACCHIO
U
ltimamente non si fa altro
che parlare di 2666 di Roberto Bolaño: pare lo stia leggendo
chiunque e che chiunque ne sia
entusiasta – l’amante di world literature di cui alla scorsa puntata,
figuriamoci, ne andrà matto. Sì,
magari prossimamente lo leggerò
anch’io, nonostante sia stato stampato in un formato piuttosto deludente e inservibile ai fini di questa
rubrica – pare che anche Adelphi
abbia ceduto alla moda imperante
di tascabilizzare libri che invece
dovrebbero pesare (e costare) tantissimo. Poi, ovviamente, occorrerà
valutare se si tratti o meno di “mattone” – mi pare improbabile, visto e
considerato che all’unanimità le recensioni dicono di un libro intelligentissimo e brillantissimo, mentre
non accennano mai a noia, smaronamenti o a drammi della lettura,
cose invece piuttosto comuni nella
fenomenologia della lettura laterizia.
Vabbè, pazienza. Fortunatamente quest’anno mia zia non ha
ceduto all’hype e per Natale mi ha
regalato JR di William Gaddis – non
si sa bene perché: di solito regala
sciarpe o cinture o dà la paghetta.
Come sempre non avendo niente di
meglio da fare, durante le feste ho
deciso di leggerlo. Dio che mattone!
Una cosa immensa, intendiamoci,
ma pure illeggibile, sfiancante, pesante oltre ogni limite, tediosa, tragica: insomma il non plus ultra per
gli amanti della letteratura anti-in-
trattenimento (pochi ma esistono).
Opera postmoderna per antonomasia, giunta in Italia – per nulla
clamorosamente, ci mancherebbe
– con trentaquattro anni di ritardo, JR soddisferà immensamente i
lettori tormentati, nevrotici, incapaci di rapportarsi pacificamente
all’universo-romanzo: quei lettori
che, per farla breve, non si esaltano
più di tanto di fronte a una storia
ben raccontata, a una trama piacevole e conciliante o a trovate più
o meno plausibili e interessanti,
ma che viceversa concepiscono la
letteratura più che altro come un
serbatoio di idee, motivi, tic, occorrenze stilistico/formali – i mattoni a
partire dai quali si edifica la storia
letteraria – da cui estrarre, anzitutto, arricchimento euristico: lo
stesso godimento che si ricava dallo smontare una macchina per vedere come funziona il motore, più o
meno. Per questi soggetti borderline
puntualmente bistrattati – non venitemi a dire che è socialmente ben
accetto chi ammette di leggere con
gusto, poniamo, L’uomo senza qualità – Gaddis è autore come solo pochissimi altri capace di soddisfare
questo malsano bisogno, offrendo
nel corso della sua opera un vasto
compendio di enciclopedismo letterario applicato: per esempio utilizzando compulsivamente per tre
quarti del romanzo lo strumento
del dialogo, modellando certosinamente la storia sulla falsariga
dell’Anello dei Nibelunghi wagne-
18
riano – non sono stato io a notarlo
eh – o abolendo la canonica suddivisione in capitoli e optando per un
unico ponderoso piano sequenza in
cui si affastellano situazioni, motivi, decine di personaggi, tic linguistici, gradazioni prospettiche.
Un buon esempio di massimalismo intransigente, insomma –
astenersi romanticoni, cercatori di
storie struggenti e simili, ci siamo
capiti –, cui d’altra parte l’autore ci
aveva già abituato con il grandioso
Le perizie, un libro pesantissimo,
pedante, tragico e tetragono simpaticamente descritto da un utente
di ibs come un mattone di fronte
al quale «è facile che il lettore non
sappia di cosa cavolo l'autore stia
parlando e che muoia di noia prima
della metà della quarta pagina».
Detto questo, Gaddis non manca
di spiegarci due o tre cose fondamentali su come gira il mondo: JR,
in soldoni la storia di un ragazzino
undicenne che crea un impero finanziario trattando in borsa dal
telefono della scuola, è per esempio, tra le altre cose, una parabola
nerissima sul mercato finanziario
e sulle sue drammatiche derive:
motivo per cui sarebbe ottimo leggerlo oggi in tempi di crisi, tempi
in cui trovare qualcuno disposto a
pagarti decentemente per qualsiasi
prestazione offerta è cosa letteralmente impossibile: vi prego datemi
un lavoro o inviatemi dei soldi, dico
sul serio, ne ho bisogno.
Biografie
Edulcorate
figlio buono del verso lungo di
Whitman. Con la differenza che
Ginsberg è immagini. E' immagini. E' musica psichedelica. E' giornalismo gonzo in versi. E' sfacciatamente frocio. E' dannatamente
beat. E' decisamente hippy. E' follia.
E' Peyote. E' lingua parlata.
Allen Ginsberg
"...O victory forget your underwear we're free..."
Brividi.
di ANDREA MEREGALLI
A
h, la beat generation! Ah, San
Francisco! Ah, New York! Ah,
le psichedeliche devianze divine
del Peyote! Come vorrei, anche solo
per un minuto o due, essere stato lì.
Con l'ebreo Allen e con Jack e con
Lawrence e con Gregory e con Neal.
Cisco, anni '50. Allucinazioni
uditive: un paio di palline colorate,
vino, jazz, cannoni a minacciare il
mio culo vergine e forse un reading
alla Galleria Six. Ah!
Perchè, perchè bisogna sapere
che Allen Ginsberg la sua allucinazione uditiva, che io non avrò mai e
tu nemmeno, l'ha realmente avuta:
Harlem, anno del Signore 1948: leggono una poesia di William Blake:
Allen è in estasi: Allen sente la voce
di Dio: Allen sostiene di non essere
fatto. Ah!
Insomma io, io della beat generation potrei stare qui a scrivere
giorni, settimane. Ma non è questo. E' che Allen Ginsberg ha scritto
una roba che, che mi ha turbato per
mesi, che mi turba oggi, ancora.
Cisco, ottobre 1955.
"I saw the best minds of my generation detroyed by madness,
starving hysterical naked, dragging
themselves through...".
Infinito, inarrivabile, ineguagliabile urlo di disagio e di denun-
cia e di disperazione. O forse no. Ma
comunque.
Al bando! Quando la City Lights
Bookstore di San Francisco, proprietà di un certo Lawrence Ferlinghetti, poeta, pubblicò, nel 1956, il
poema Howl, la benpensante opinione pubblica statunitense non
aspettava altro: al bando. Il primo
emendamento. Libertà. Di culto. Di
parola. Di stampa. La censura. La
galera. La galera.
Ci vollero nove (9) esperti di letteratura. Ci volle un giudice. Ci
volle il senno del giudice. Alla fine
vinsero loro, i poeti.
E il beat hotel. A Parigi. Il beat hotel. Tutti questi beat, nelle loro stanze, a fumare, a bere, a vivere di ispirazione, a scopare donne a scopare
uomini a scopare tra loro, a fare la
storia, a scrivere poesie, a scrivere
romanzi, a scrivere cose.
Per dire, Allen ha scritto Kaddish, a Parigi. Il poema per la madre, per Naomi Ginsberg, donna
pazza, donna elettroshockata, donna internata.
E poi fu Londra, la Royal Albert
Hall, i reading gratis, Bob Dylan,
l'India, il Krishnaismo, il National
Book Award, il cancro al fegato, la
morte nel 1997.
Il verso lungo di Ginsberg è il
19
I ferri del mestiere
Bestseller. Definitelo voi
di AGNESE GUALDRINI
Q
ualche settimana fa ero in
treno. Davanti a me c’era
una coppia; un ragazzo e una ragazza suppergiù della mia età. Per
tutto il viaggio si sono chiamati con
nomignoli mielosi e si sono sussurrati frasette d’amore a tratti erotiche. Il viaggio è durato circa tre
ore e io per tutto il tragitto non ho
potuto fare altro che vederli e, mio
malgrado, ascoltarli (ovviamente
sono scesa anche con un certo senso di fastidio). La situazione, di per
sé molto comune, era però caratterizzata da una strana coincidenza:
entrambi gli innamorati parlavano
con una voce stranissima, a tratti
soffocata. Probabilmente entrambi
avevano una malformazione al palato, tipo, e pertanto uscivano dalle loro labbra parole aspirate, mal
pronunciate e arrancate.
Bene. Questa storia potrebbe essere il canovaccio tipico per un best
seller (non la mia di coatta spettatrice, ma la storia ipotetica di questi
due: emarginati dai compagni di
classe, scelti per ultimi per formare
le squadre delle partite di calcio e
pallavolo. Poi un giorno si incontrano capiscono di non essere più soli
e si innamorano ecc. ecc.).
Ora, a parte gli scherzi, il bestseller è una categoria a posteriori
e non un genere letterario. Esso
indica semplicemente un libro che
ha venduto moltissime copie e così,
tanto Gomorra quanto il Codice Da
Vinci, sono bestseller. Indubbio. E
prendiamolo per assodato – se non
altro perché vero.
Tuttavia… per una volta concedetemi di dilettarmi affidandomi ai
classici luoghi comuni; perché certe trame più di altre, e certi stili più
di altri, sono portati per vocazione
al bestseller inteso come genere
(del resto il bestseller è un libro talmente scritto male da sembrare già
un film, si dice).
Alcune idee?
In un libro davvero spassoso
Luca Ricci elenca alcuni tipici cliches:
“Il diario in cui una nonnina moribonda rivela alla nipote che la sua
famiglia è composta da degenerati
responsabili di ogni abiezione, tipo
aver brevettato la shoah;
la partita a scacchi tra un poliziotto e un serial killer (il poliziotto
è appena stato lasciato dalla moglie
e il serial killer uccide perché ha subito un forte trauma nell'infanzia);
uno zoppo e un'anoressica si
amano perché si scoprono simili
nelle loro apparentemente diverse
storie di handicap, salvo poi scoprire che la vita è comunque tregenda
e solitudine.”
Come si noterà c'è sempre di
mezzo l'infanzia, un segreto svelato
e sentimentalismo a frotte.
Ora, al di là di questi giochetti
divertenti, la casa editrice in cui
lavoro (thanks God) non va alla ricerca del bestseller inteso come ge-
20
nere. Tuttavia, quando si fanno le
riunioni editoriali la caccia alla tesi
forte c’è sempre…perché il colpo di
scena, la rivelazione shock, fa gola,:
è tutta questione di audience. (Dialogo tipo tra un editor e l’editore: il
primo vuole convincere il secondo
a pubblicare una monografia su
Carlo V. Il secondo non è convinto
perché il libro non dice nulla di sensazionale. È solo una monografia su
Carlo V. Messo alle strette l’editor
azzarda: “Beh, editore, se vuole le
dico che Carlo V era gay e lo mettiamo anche come titolo!”).
Dunque serve mistero. Escamotage che pare essere stato captato
anche dagli aspiranti scrittori che
ci mandano i loro manoscritti. Pochi giorni fa abbiamo ricevuto un’email che ci ha davvero tenuti con il
fiato sospeso: lo scrittore ci invitava
a prendere visione della presentazione del suo libro aggiungendo che
il titolo ce l’avrebbe “svelato” solo se
ci fossimo rivelati davvero interessati a pubblicarlo. “Per il momento
dovrete accontentarvi del sottotitolo”.
Chapeau.
La Posta dei Lettori di
Matteo Bettoli
di MATTEO BETTOLI
C
arissimo Bettoli, lei parla
di libri come ne potrebbe
parlare il mio lattaio, uomo simpatico ed alla mano, per carità, ma
lattaio. Proprio con lei, outsider
dell'editoria, ciarlatano incompreso, responsabile della rubrica
meno rappresentativa della rivista solo perché possessore di foto
compromettenti del caporedattore
Jacopo Cirillo in gita & sotto la doccia, ecco, vorrei parlare dell'Amazon Kinder (sic, ndr) e dell'Apple
iPad. nuova frontiera del libro,
utilizzimi accessori per sfoggiare
titoli indie e fuori catalogo nel palmo di una mano. L'editoria è boccheggiante, in Italia molti leggono
solo lo scontrino del supermercato
per controllare che non gli abbiano fottuto dei sordi, e caspita però
sarebbe utilissimo leggere tomi
su uno schermetto con inchiostro
digitale e bullarsi col compagno di
pendolarismo scandendo “io Zanna Bianca di Jack London lo leggo
sull'iPad”.
Scettico sulle nuove tecnologie
tangenziali all'editoria,
Campobasso
S
cettico, anche io sono scettico riguardo a 'ste cagate. Pure
Jobs, mentre presentava l'iPad,
ha detto che “i quattro libri che
l'americano medio tiene in casa
qui nell'iPad ci stanno tranquillamente, in alta definizione”, ma
l'ha detto sottovoce, e tossendo. I
responsabili di Garvin Ltd, principale casa editrice americana,
hanno alzato la mano in quel momento, quasi a salutare la platea.
Nessuno li ha considerati o rico-
nosciuti. Molti hanno sputato per
terra. Dopo questo bel momento,
Jobs ha continuato “passiamo alle
cose veramente appassionanti,
ora” illustrando la bussola integrata nell'iPad. Il pubblico è esploso
in un boato, memore delle giovani
marmotte. L'Amazon Kindle (non
Kinder) è un po' più serio e un po'
più tristo e un po' più orientato alla
lettura vera e propria, quindi sarà
un flop assordante e verrà ricordato
insieme al laserdisc ed a Microsoft
Bob. Insomma. L'entusiasmo di chi
saluta questi prodotti come il futuro dell'editoria verrà tacitato e tornerà la modestia e la misura. I fan
del book crossing, dopo aver fatto
un rapido conto e realizzato che
-contro 10 libri lasciati in giro- ne
avevano trovati e raccolti 2 (e zozzi)
in un anno, hanno lasciato perdere, si sono detti disillusi. Vedremo
stavolta, nel frattempo quaggiù si
continua a leggere Zanna Bianca in
versione cartonata.
•
G
entile Bettoli, gli affitti nelle grosse città italiane hanno assunto tinte fosche e preoccupanti. C'è chi dice che è tutta una
trovata dei bamboccioni per continuare a stare divanati, le camicie
stirati, il gatto coccolati, i jeans lavati e le bollette pagati in casa coi
genitors e chi invece esclama che
non si può, sbotta contro il cartello
dei padroni di casa, insorge contro
il sistema immobiliare e si agita.
Il mio babbo è padrone di diverse
villette a schiera in Costa Brava e
21
quindi seguo la querelle con distacco, ma solidarizzo coi disperati dell'affitto, giovanotti che
vorrebbero uscirsene di casa ma
trovano un postolétto a 500 sacchi
in nero, colore che contraddistingue anche i sanitari e gli infissi un
tempo candidi di melanconiche
monostanze nei sobborghi. Squat
'til you drop (ed. Risciò) racconta storie di squatters, gente come
l'autore Jean Michel Roviel ed i
suoi compagni di bevute a spasso per l'Eurasia in case di vecchi
nobili rimbambiti. Interessante
pure Couchsurfing senza mai dare
il couch (ed. Lungomare) vergato
dalla penna di Massorini e indirizzato a chi è passato dal divano
di mammà a quello di persone a
random.
Giovanniello, Castel Guazza
C
aro Giovanniello, avere casa
senza ereditarla da un anziano zio ligure è sempre più complicato. Capita così di distrarsi tramite esperienze che *sanno* di casa,
tipo dormire nei bed & breakfast o
applicare il principio asimmetrico
del couchsurfing: bere come spugne a casa di sconosciuti con cui
non c'è niente da spartire per poi
stramazzare al suolo. Il couchsurfing in particolare è un fenomeno
divertente perché mi ricorda certe
catene di Sàntantònio che giravano
su internet qualche anno fa, quelle
che invitavano a infilare 5 dollari
in 5 buste e a spedirle a 5 persone
che figuravano in una lista in cui,
se la catena aveva attraversato un
po' d'Italia, figurava sempre Turbato Thomas da Godo. Si sarebbe poi
aggiunto il proprio nome in fondo
alla lista e altre persone avrebbero inviato fiumi di banconote da 5
dollari pure a te. Senz'altro. Queste catene avevano il solo scopo di
arricchire le prime persone della
lista, mentre gli altri ci avrebbero
rimesso 25 bei dollaroni. C'era poi
chi raccoglieva i tappi di plastica o
i codici a barre che iniziavano con
l'8, ma questa è un'altra storia. Insomma, Massorini ci spiega che nel
couchsurfing sono pochi i fenomeni che dormono a sbafo e molte le
anime pie che vedono il proprio divano IKEA occupato da anarcoinsurrezionalisti una notte si e quella
dopo pure. Il frigo svuotato. Il gatto
scalciato. L'inventore del couchsurfing ha una casa blindata in cui non
ospita nessuno, senza divani. Non è
un caso.
•
F
inzioni si è imborghesito
e non apre alla letteratura
contemporanea, quella che si fa a
Berlino in università libere, oppure in Nuova Caledonia su spiagge
dorate. Lettera ad un maiale mai
nato, Benoit di Günter Moeller
(ed. Neubauten) parla di animalismo con la leggiadria che ho rico-
nosciuto solo in Milly Fanilli o in
Leandro Van Persie. L'autore immagina lo spleen di un ragazzino
che sente in tv che George Clooney
c'ha un maialino da compagnia e
ne richiede uno per Natale ad un
genitore ottuso che gli vieta questa soddisfazione perché gretto e
avaro. Dormi come un antipatico
di Rodolfi (ed. Eisenauer) racconta la storia di Genoveffa e del suo
compagno, che sprofonda regolarmente in sonni antipatici invece di
dedicarle attenzioni. La solitudine
del prigioniero è invece l'opera magna di Gustavo Isegnus (ed. Ludovico) ed è divenuta celebre nell'enclave di Melilla perché composta
esclusivamente dall'anagramma
della frase *all'inizio avevo sonno
e stavo bene prigioniero, ora ne ho
abbastanza*.
Hans, Rovigno
L
a letteratura contemporanea
di cui parla non trova spazio
su riviste serie, figuriamoci questa.
Hans, lei deve avere pazienza. I libri di rottura non possono essere
facilmente decodificati e richiedono un certo distacco. Finzioni non
c'ha una lira e l'unico distacco che
conosce è quello della luce, perché
non paga le bollette. Le edizioni
Neubauten pubblicano i propri libri
22
(tra cui pure il da lei citato Benoit)
su carta velina con costa dorata.
Li accoppiano a 45 giri pressati in
Giappone contenenti il libro letto
dalla sorella dell'autore. Li fanno
pagare 67 euro. Mandano lettere
all'antrace ai critici che parlano
male dei loro autori. C'è chi non si
prende sul serio, ma questi eccedono sul versante opposto. Le edizioni
Eisenauer sono di proprietà del tizio di American Apparel e mettono
sempre in copertina gente coi baffi,
chiedendo per questo 30 euro a volume. Le edizioni Ludovico pubblicano libri probabilmente composti
da nerd informatici tramite algoritmi in Turbo Pascal: anagrammi ripetuti per 200 pagine, palindromi,
haiku che non significano niente
e sono pure meno graziosi degli
origami. Utilizzano nomi di opere
quotate. Svalvolano recensioni entusiastiche di riviste inesistenti. 45
euri in economica. Se li tengono. La
cultura costa, ma la nemesi della
cultura costa pure di più, e la scuola
di Berlino è qui per ricordarcelo.
Metaletterari di carta
Leggo per legittima difesa
di LICIA AMBU
B
eduina (Alicia Erian, Adelphi
2008, pp.349, 12 euro) è un
libro intrigante. Il titolo richiama
l’appellativo onorifico, nonché dispregiativo, con cui Jasira, la protagonista, si sente chiamare da quello stuolo di adolescenti imbecilli
che popolano la sua scuola. Jasira
ha tredici anni, quando la madre,
un’irlandese dall’isteria galoppante, accortasi delle attenzioni che
il suo compagno dedica alla figlia,
decide di spedirla a vivere con l’ex
marito, libanese, scienziato nasa e
precetti educativi dediti alla mano
facile. Data l’età e il nuovo ambiente, la questione è un guazzabuglio
di stimoli continui tra amicizie,
discrimini razziali, sviluppi fisici e
soprattutto sesso. E anche le botte.
Questa piccola lolita non riesce a
distinguere le attenzioni degli uomini adulti da preoccupazioni di
ordine paterno. Non comprende i
meccanismi fisiologici naturali di
un corpo in divenire, dell’eccitazione, dell’orgasmo. Il mondo sembra
passarle addosso senza concederle
il dono di accorgersene. Allora arriva la vicina di casa che, comprese
le difficoltà di orientamento, decide
di andare incontro alla spaesata
fanciulla.
contesto della storia è la guerra
del golfo, non bisogna poi andare
secoli indietro, eppure il libro è il
mezzo che meglio comunica, che
meglio si rende utile nella gestione
della situazione. Permette di essere
consultato come, quando e dove si
vuole. Senza, nel caso, l’imbarazzo
di affrontare argomenti delicati.
Questo fa un libro. Nel momento
in cui ti insegna qualcosa, nel momento in cui ti porta altrove evitandoti il pesante fardello del dover
pensare. Perfettamente sintonizzato e/o partecipe di alcuni meccanismi del reale (ammesse declinazioni al passato, presente e futuro).
Non si tratta di acculturarsi in un
senso fine a sé stesso, la cosa è differente. Si tratta di trovare risposta
ad una necessità, utile o futile conta
poco, si tratta di riceverne qualcosa
(che nel migliore dei casi diventa
un input). Scrive Harold Bloom nel
suo La saggezza dei libri (Bur 2007,
pp.288, 12 euro): “I libri, da soli,
nutrono il pensiero, la memoria, e
la loro fitta rete di interazioni nel-
Dunque, le compra un libro. Pedagogia allo stato puro. Un testo
che in termini scientifico-comprensibili, illustri e spieghi tutto
quello che occorre sapere. L’abc,
per capirci. Così che la multiforme
e ingestibile realtà diventi più duttile e la sbarbina tredicenne possa
difendersi. La scoperta dell’acqua
calda, in effetti. In verità, però, il
23
la vita della nostra mente. La sola
lettura non basterà a salvarci o a
renderci saggi”, ma senza è decisamente peggio. Senza melanconiche
prose d’amore è proprio constatazione imprescindibile: ne ho necessità, mi cibo del libro. Un sillogismo
impeccabile per Firmino (Einaudi
2008, pp.184, 14 euro) pare, lettore
accanito il cui tasso nutrizionale si
fa proporzionale alle eroine commestibili. Quando si dice leggere
per vivere (Flaubert in tempi non
sospetti)… E insomma, in qualche
modo questi due esuli del mondo,
estranei al ciclo – ciclotimico – degli eventi, a modo loro si sono rifugiati nei libri. Per apprendere, per
campare, per fare entrambe le cose,
comunque sia, in contesti più che
odierni hanno fatto del libro il loro
cavallo di battaglia. A dispetto della sospirata ed inflazionata (verbalmente s’intende) convergenza multimediale e tutto il resto. Lo diceva
anche Allen Woody che lui leggeva
per legittima difesa. Così fan tutti.
Forse.
Graphic Novel
"Jimmy Corrigan, The
Smartest Kid On Earth"
di Chris Ware
di MARINA PIERRI
C
onosco almeno un paio di
critici e giornalisti che traggono piacere dal remare controcorrente, cosa che si traduce nello
scrivere o recensire prodotti culturali in maniera opposta rispetto
alla maggioranza. Non posso dire
di non capirli, almeno in qualche
misura: del resto, distruggere è liberatorio ed esiste una perversa voluttà nel fare valere le proprie idee
a dispetto del rischio di essere additati come dei rincoglioniti. Perciò
non vogliatemene se in questa sede
lo farò anche io.
Dunque: Jimmy Corrigan di
Chris Ware. Un mattonazzo assurdo in cui vignette e didascalie si intrufolano sotto le ascelle, nelle narici e sotto il palato e che tutti, per
anni, mi hanno spacciato per un libro della madonna. Orbene, a mani
basse, lo è sotto tutti i punti di vista;
ma a me non è piaciuto per niente.
O forse, semplicemente, lo rifiuto.
Mi sono mossa negli ingorghi logici
delle sue almeno mille pagine con
fatica morale e fisica, consumandomi gli occhi su testi microscopici e
chiedendomi perché non provassi
nulla tranne irritazione. Ho provato a volere bene al ragazzino più
intelligente del mondo, ma, niente,
non ci sono riuscita per quanto mi
sforzassi .
Jimmy Corrigan è il bambino in-
ventato, appunto, da Chris Ware,
autore cresciuto con i Peanuts, le
paperdolls e i diorama, poi “adottato” dal maestro Art Spiegelmann.
Avendo a che fare con il protagonista del libro, vi troverete a pensare
immediatamente a una via di mezzo tra le strisce di Schulz e Stewie
(il bambino saputello dei Griffin).
Poi lo vedrete agire all’interno di
linee geometriche rigide e severe – dentro e fuor di metafora - che
chiudono la sua anima e ostacolano ogni sua impresa. Conoscerete
molti Jimmy. Uno, quello reale, attuale, presente: bolso, autistico e
terribilmente inespressivo, eppure
straordinario sognatore - è lui il
soggetto profondo della storia e la
sua fantasia strabordante che ne è il
motore; un altro, il “piccolo” Jimmy,
attraverso dei flashback; infine ancora altri due, che non sono proprio
Jimmy, ma proiezioni legate alla
sua terribile famiglia e, soprattutto,
alla figura paterna.
Di racconto, nel senso convenzionale del termine, ce n’è molto
poco: il personaggio principale incontra un padre estraneo per la prima volta nella sua vita. Ma non importa. La trama, infatti, è poco più
che una scusa per costruire attorno
a Jimmy un mondo fatto di periodi ipotetici esplorati con un solo
pensiero e viaggi fugaci in mondi
paralleli che si dissolvono nell’arco
24
di un battito di ciglia. C’è magia, in
questo universo storto, e c’è anche
poesia; ma non c’è nulla di magico
e nulla di poetico a ben guardare.
Questo succede perché la materia
di cui sono fatte le “allucinazioni”
di Jimmy è il dolore: uno così sordo
e intransigente che non permette
al lettore di entrare mai nel personaggio, bloccando il meccanismo
empatico.
Se accettiamo la teoria per cui,
attraverso l’identificazione, il fruitore diviene attore, allora il lettore
di Ware resta sempre e solo uno
spettatore, un uomo che guarda, un
voyeur. Costretto, peraltro, ad assistere a una vita talmente misera e
sbagliata da fargli desiderare di distogliere lo sguardo, chiudere il libro, correre altrove ed essere qualcun altro. Non discuto sul fatto che,
in molti, possano trovare geniale la
messa in atto di un congegno simile
in una graphic novel (il cinema, al
contrario, ne è piuttosto avvezzo),
specie che quest’ultima si piega su
se stessa e si rompe, si frattura nel
momento stesso in cui, leggendola,
si arriva a provare qualcosa. Non io,
che ho trovato Jimmy Corrigan un
libro brutale. E, come dicevo, l’ho
rifiutato.
C
i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione
dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o
iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva
che fare una caricatura non è altro
che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il
tutto, creando dunque, dico io, una
sproporzione. O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa
pensare, perché non è regolare,
dunque buffa, e va messa a posto
gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata,
segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare.
Ci sono poi due ruoli che si al-
ternano nelle storie: la banalità dei
vincitori e il sorprendente spessore
dei perdenti. Le storie dei vincitori
sono retroattivamente incastrate
nel rasoio di Occam: la soluzione
è spesso la più semplice e ovvia.
Quando le leggi, sembra che tutto
sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e
niente altro. L’eroe ha vinto perché
è buono, la soluzione più semplice è
che vinca. Non si scappa.
non fuori, come Karate Kid. Solo
che loro perdono per costituzione.
Le storie dei perdenti invece sono
più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più
soggettivo, si guardano dentro non
potendo ovviamente aggrapparsi
alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé,
In questa rubrica accoppieremo
felicemente questi due fenomeni,
raccontando storie esagerate di
grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia
è il bottino dei vincitori. L’iperbole,
allora, è la risorsa, forse l’ultima,
dei perdenti.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era
Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione
della verità in termini esistenziali.
La verità per me.
Iperboloser
Harold McGraw III
di JACOPO CIRILLO
N
el 1909 il signor James H.
McGraw e il suo compare
John A. Hill unirono gli sforzi e crearono The McGraw-Hill Publishing
Company, Inc., uno degli imperi
editoriali più grandi al mondo.
Il signor McGraw, uomo semplice
e di ingegno, quando dovette decidere il suo successore per la poltrona non era convinto di abdicare
seguendo il suo albero genealogico.
“Al comando ci va chi se lo merita, non chi è nato con il mio stesso
cognome” soleva ripetere quel vecchio brontolone.
Al momento tutti gli dicevano
“sì sì, va là, non preoccuparti” ma
poi, alla fine, tutti i figli, nipoti e
parenti alla lontana si azzuffarono
per prendere il posto del vecchio,
instaurando una tradizione consanguinea di oltre 50 anni.
Tutto andò bene fino a che non
si è issato sul ponte di comando
Harold McGraw III detto Terry, un
uomo con un taglio di capelli irrispettoso per le lesbiche (cit.).
Proprio il giorno prima del lancio
dell’iPad della Apple, dunque il 26
gennaio, il buon Terry, partner editoriale dell’azienda informatica, ha
pensato bene di andare alla CNBC e
sputtanare Steve Jobs, raccontando
un sacco di cose che dovevano rimanere segrete per altre 24 ore per
preservare la suspance della pre-
25
sentazione ufficiale.
Per questo Jobs, il giorno dopo,
ha tolto la McGraw-Hill dalla slide
di presentazione dei partner editoriali dell’iPad, che com’è noto sarà
un reader molto potente per gli ebook, dileggiando il vecchio Terry
e, in sostanza, eliminandolo dal
giro d’affari che, presumibilmente,
dominerà il mondo editoriale dei
prossimi anni.
E la morale è: ascoltare sempre i
vecchi, soprattutto quelli che hanno fondato un impero editoriale.
Contributi da:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua
nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato
questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per
poter dire quello che gli pare sui libri che legge.
Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sbagliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica
sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che
ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in
denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema
abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo
di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissimo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può
permettersi.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia
sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”.
Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani
segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.
Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia
uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco
di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù.
Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel
lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in
una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno
invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere,
i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata.
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro
di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la
radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di
trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in
Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre paesi è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è
sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto.
Sono Davide La Rosa e faccio i fumetti anche se non
so disegnare (so che questa cosa potrebbe far strabuzzare lo strabuzzabile ma avrei potuto fare il chirurgo senza
saper nulla di medicina). Sono nato il 23 giugno del 1980
e un giorno morirò ma non so darvi una data precisa.
Una volta morto, comunque, voglio essere caramellato.
Vabbè non c'è molto altro da dire su di me. Chi volesse leggere i miei fumetti può trovarli qui: http://www.
lario3.splinder.com/
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La
sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di
suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non
pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a
leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo
più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi
per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto,
quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare
una laurea a detta di molti “inutile”.
n. 10 / Febbraio 2010
[email protected]
www.finzionimagazine.it
26
guenza, alle volte si annoia tantissimo.
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso
nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per
alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi
al vostro personale sconcerto teoretico.
Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità
medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri
e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un
giorno diventerà anche un templare così sposerà la figlia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto
saltellando allegramente tra le piramidi.
Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere
da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una
certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo
scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare
uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un
abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci
gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare
la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling
Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di
tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film
e serie televisive americane.
Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove
ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di
notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è stato in
Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe
e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere
sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus
nocte et consumimur igni. Il suo gatto si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’.
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque
anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti
del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore
di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate,
piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare
correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte
della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte
dei cessi nei centri commerciali.
Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte,
Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di
tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se
avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a
Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera
aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca
ed un centro di gravità permanente a forma di pera.
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare
che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la
sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto
di nanotecnologie.
Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza
a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha
una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa
che la matematica sia alla base del declino della civiltà
moderna e crede che chi è capace di fare la conversione
euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere
e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto.
Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla
figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni.
Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri
nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conse-
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numero 10 - Finzioni