IATTURA E IETTATURA di Armando Polito Armando Polito per Vesuvioweb.com Nella nostra gerontocratica società non mi fa meraviglia che l’investimento sui giovani (per intenderci quello serio, che non sponsorizza le chiappe di questa o quella velina ma il cervello di questo o quel ricercatore) sia praticamente assente; sta per completarsi, infatti, un perverso disegno politico protervamente portato avanti negli ultimi decenni da tutti i governi che si sono succeduti, che vede nell’affossamento della cultura lo strumento più rapido per declassare i cittadini a sudditi e mantenerli in questo stato il più a lungo possibile. Non a caso i nostri studenti per preparazione teorica e pratica sono scivolati agli ultimi posti della classifica mondiale e non mi meraviglierei se, dopo avere scritto queste righe, apprendessi che nel frattempo si sono assicurati il fondo. Chi ancora conserva un barlume di lucidità si renderà conto che ci stiamo giocando il futuro, forse ce lo siamo già precluso. E la iattura sembra aver preso il posto della iettatura, il danno, la disgrazia quello della sua minaccia, il triste concreto quello dell’astratto solo potenzialmente negativo. Vale la pena ricordare che iattura e iettatura, per una sorta di ironia filologica, hanno non solo semanticamente ma anche formalmente a che fare col futuro: iattura (che per il De Mauro nasce nel XIV secolo) è dal sostantivo latino iactùra=il gettare in mare, perdita, a sua volta da iàctum, supino del verbo iàcere che significa gettare, con l’aggiunta di un suffisso -ura che è quello che concorre pure alla formazione del participio futuro, ma che già in latino nei sostantivi presenta un’attenuazione dell’idea di futuro destinata a diventare ancora più labile e a conservarsi in italiano solo in quei sostantivi che originano da un participio futuro latino (futuro, nascituro, imperituro, etc. etc.); iettatura (che nasce, sempre per il De Mauro, nel 1787) è modellato su un latino *eiectatùra, participio futuro di eiectàre (intensivo di eìcere, a sua volta composto dalla preposizione e e dal citato iàcere). Il futuro, dicevo, forse non ci appartiene più, anche se qualcuno si affanna a predicare, col culo adagiato su comode poltrone, la speranza e l’ottimismo a poveri cristi che ormai per sopravvivere debbono solo confidare in una metaforica botta di culo, mentre quello reale fra poco sarà costretto a sfogare i suoi bisogni in aperta campagna...sempre che il povero cristo, con la debolezza che si ritrova, faccia in tempo ad arrivarci; il futuro: cancellato dalla iattura costituita dall’incompetenza e dalla disonestà di chi ci ha governato negli ultimi decenni, ci governa oggi e ci governerà domani. E pensare che al tempo dei Borboni, tanto per fare un esempio di tempi a noi relativamente vicini, gli unici attentati al futuro avevano come responsabile la iettatura: la iattura, cioè la disgrazia, il male vero e proprio, semmai, si concretizzava a distanza di tempo. Armando Polito per Vesuvioweb.com Ancora oggi lo iettatore ha un posto di rilievo come espressione di quella parte dell’immaginario collettivo che i razionalisti liquidano come superstizione, salvo poi, in concreto, essere i portabandiera occulti del detto “non è vero...ma ci credo”, la cui paternità (sento il dovere di ricordarlo ai poveri giovani di cui sopra, ai quali, tra l’altro, è stata subdolamente inculcata l’idea che il dialetto è ignobile ciarpame e che il corretto italiano è un optional che può essere nobilitato solo intercalando, anche quando non è necessario, voci straniere, magari derivanti, per una sorta di nemesi storica, dal latino o dal greco…) non solo artistica risale al titolo della trasposizione cinematografica fatta nel 1952 da Peppino De Filippo della sua commedia scritta, sia pure in lingua, dieci anni prima col titolo, chiaramente allusivo al tema, di Gobba a ponente. Sorvolo sulle nostre iatture (chi fosse così masochista da saperne di più non ha bisogno di assistere ad una seduta parlamentare, gli basta seguire in qualsiasi telegiornale qualsiasi rappresentante politico che rilasci una qualsiasi dichiarazione: checché dica, la sua non è una iettatura ma una iattura perché tutto è già deciso da tempo e il danno già in atto) e tratto invece di uno iettatore famoso e nello stesso tempo famigerato del XIX secolo. Il suo nome? Cesare Della Valle, duca di Ventignano (1776-1860). Il titolo spiega in parte il precedente famoso, ma le notizie che sto per dare ne daranno una definizione più completa che esula dal solo peso nobiliare e, dunque, politico del personaggio. Potrei definirlo un poligrafo, anche nell’accezione parzialmente negativa che il termine comporta. Egli si interessò, infatti, di svariati argomenti appartenenti ai campi più diversi: scrisse, così, liriche (Le Ricordanze, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1843), trattati di economia (Cenno sulla futura prosperità della provincia di Capitanata, Tipografia Flautina, Napoli, 1832, Della miseria pubblica, sue cause ed indizi: considerazioni applicate allo stato attuale del Regno Citeriore di Napoli, Tipografia Flautina, Napoli, 1833), storico-politico-filosofici (Osservazioni sulla rivoluzione di Napoli, L. Nobile, Napoli, 1820 e, nello stesso anno e presso lo stesso editore, Seconda Osservazione sulla Riforma Politica di Napoli e Ragguaglio istorico della peste sviluppata in Noja nell'anno 1815, Tipografia Trani, Napoli, 1816; Prospetto filosofico della storia del mondo umano, Detken, Napoli, 1854), di critica d’arte (Lalage nello studio di Canova, Giuseppe Favale, Torino, 1819 e Considerazioni sullo stato attuale del teatro italiano, G. Gioja, Napoli, 1856), tragedie (ricordo solo, tra i tanti, due titoli: Giulietta e Romeo, Ospizio Apostolico, Roma, 1828 e Ippolito, P. M. Visaj, Milano, 1830). Ho citato solo una piccola parte della sua vastissima produzione, ma questa basta per capire come esso fosse uno dei letterati più in vista del Regno. Armando Polito per Vesuvioweb.com Ma il nostro bravo Cesare, oltre che famoso, era anche, come s’è detto, famigerato per la iella che portava. Questa sua capacità era tanto sviluppata e conosciuta che Alessandro Dumas padre non potè fare a meno di registrarla nel capitolo XVII (solo un caso?) del suo Le corricolo. Veniamo così a sapere, in una sequenza inizialmente degna del quasi contemporaneo Lombroso, che le prince de ---- naquit avec tous les caractères de la jettatura. Il avait les lèvres minces, les yeux gros et fixes, et le nez en bec de corbin. (il principe di —- nacque con tutti i caratteri della iettatura.Aveva le labbra piccole, gli occhi grossi e fissi e il naso a becco di corvo.) La sua carriera di iettatore è precocissima: Sa mère, dont il était le second enfant, n'eut pas même le bonheur de voir le nouveau-né: elle mourut en couches.On chercha une nourrice pour l'enfant, et l'on trouva une belle et vigoureuse paysanne des environs de Nettuno. Mais à peine le malencontreux poupon lui eut-il touché le sein que son lait tourna. (Sua madre, di cui era il secondo figlio, non ebbe la gioia di vedere il neonato: morì nel letto subito dopo il parto. Si cercò una nutrice per il bimbo e si trovò una bella e vigorosa contadina dei dintorni di Nettuno. Ma appena il malincontrato pupo le ebbe toccato il seno essa perse il latte.) Passa un po’ di tempo e le jour où il entra au séminaire, tous les enfans de la classe danslaquelle il fut mis attrapaient la coqueluche. Notez qu'au milieu de tout cela aucun accident personnel n'atteignait le principino; il grandissait à vue d'oeil et prospérait que c'était un charme. Il fit ses classes avec le plus grand succès, l'emportant sur tous ses camarades. Une seule fois, on ne sait comment cela se fit, il ne remporta que le second prix; mais l'élève qui avait remporté le premier, en allant recevoir sa couronne, butta sur la première marche de l'estrade et se cassa la jambe. (il giorno in cui entrò in seminario tutti i ragazzi della classe nella quale era stato messo contrassero la pertosse. Notate che in tutto questo nessun accidente personale colpiva il principino; egli cresceva a vista d’occhio e stava bene ch’era un piacere. Fece le sue classi con i migliori risultati, superando tutti i suoi compagni. Una sola volta, non si sa come successe, riportò il secondo premio; ma l’allievo che aveva conseguito il primo mentre si recava a ricevere la sua corona urtò contro il primo gradino del podio e si ruppe una gamba.) Armando Polito per Vesuvioweb.com Cesare ha ormai 17 anni e finalmente giunge il giorno della sua prima uscita dal seminario; come premio per gli ottimi risultati raggiunti negli studi ottiene il permesso di assistere alla benedizione delle bandiere che, nell’imminenza della guerra, l’arcivescovo di Napoli avrebbe fatto nella chiesa di Santa Chiara: Le grand jour arriva. La cérémonie fut pleine de solennité; tout se passa avec un calme et un grandiose parfaits; seulement, au moment où les étendards, après la bénédiction, défilaient pour sortir de l'église, un des porte-drapeaux tomba mort d'une apoplexie foudroyante en passant devant le principino. Le principino, qui avait un coeur excellent, se précipita aussitôt sur ce malheureux pour lui porter secours, mais il avait déjà rendu le dernier soupir. Ce que voyant, le principino saisit l'étendard, l'agita d'un air martial qui indiquait quel homme il serait un jour, et le remit à un officier en criant:”Vive le roi!”, cri qui fut répété avec enthousiasme par toute l'assemblée. Trois mois après, l'armée napolitaine était battue, le drapeau était tombé au pouvoir des Français avec une douzaine d'autres et le roi Ferdinand s'embarquait pour la Sicile. (Il grande giorno arrivò. La cerimonia fu piena di solennità; tutto si svolgeva con una calma e una grandiosità perfette; solamente, nel momento in cui le bandiere,dopo la benedizione, sfilavano per uscire dalla chiesa, uno dei portabandiera cadde morto per un colpo apoplettico fulminante mentre passava davanti al principino. Questi, che aveva un cuore generoso, si precipitò subito sull’infelice per recargli soccorso, ma quello aveva già esalato l’ultimo respiro. Vedendo questo il principino afferrò la bandiera, la agitò con un’aria marziale che indicava che uomo sarebbe stato un giorno e la consegnò a un ufficiale gridando: “Viva il re!”, grido che fu ripetuto con entusiasmo da tutti i presenti. Tre mesi dopo l’esercito napoletano era battuto, la bandiera era caduta in potere dei Francesi con una dozzina di altre e il re Ferdinando s’imbarcava per la Sicilia. Terminati gli studi in seminario, il s'agissait de faire choix d'un couvent. Le jeune homme choisit les camaldules. En conséquence, il sortit du séminaire où il avait passé son adolescence, et il entra comme novice dans le monastère où devait s'écouler sa virilité et s'éteindre sa vieillesse. Le lendemain de son entrée aux camaldules parut l'ordonnance du nouveau gouvernement qui supprimait les communautés religieuses. (si trattava di scegliere un convento. Il giovane scelse i Camaldolesi. Di conseguenza uscì dal seminario quando non era più adolescente e entrò come novizio nel monastero dove doveva spendere la sua maturità e trascorrere la sua vecchiaia. Il giorno dopo il suo ingresso nei Camaldolesi apparve l’ordinanza del nuovo governo che sopprimeva le comunità religiose.) Armando Polito per Vesuvioweb.com Per farla breve, e attingendo sempre da Dumas, dopo che era tornato alla vita da laico e per l’abolizione della legge sul maggiorascato aveva ereditato alla morte del padre una fortuna, decise di recarsi in Inghilterra, ma la nave naufragò insieme con quella giunta in soccorso. Naturalmente egli scampò al disastro ed ebbe ancora occasione di dar prova delle sue straordinarie, anche se poco gradite, capacità. Tornato a Napoli e sposatosi, ebbe due figli; quando Olimpia, la femmina, giunta in età da marito, andò sposa al duca Giovanni Ferrari, famoso libertino, al momento delle nozze Cesare abbracciò il genero augurandogli una nidiata di figli: il risultato fu che il duca Ferrari non potè nemmeno consumare le nozze essendo diventato, è il caso di dire quasi all’istante, impotente. Olimpia ottenne dalla Sacra Rota l’annullamento del matrimonio e al momento di recarsi all’altare col nuovo marito dispensò solennemente il padre da ogni effusione e benedizione; successivamente divenne madre, ma anche lo stesso duca Ferrari, rotto l’incantesimo, recuperò quelle funzioni che per un libertino come lui dovevano essere una ragione di vita. Il nostro Cesare si rifece ben presto da questa sorta di iettatura a tempo quando andò a fuoco il Teatro San Carlo la prima volta che vi mise piede. E la sua carriera di iettatore proseguì come attesta il Dumas alla fine del capitolo: Au mois de mars dernier, le prince de ---- est entré dans sa soixante-dix-huitième année; mais, loin que l'âge lui ait rien fait perdre de sa terrible influence, on prétend, au contraire, qu'il devient plus formidable au fur et à mesure qu'il vieillit. (Nel marzo scorso il principe di —-è entrato nel suo settantottesimo anno; ma non solo l’età non gli ha fatto perdere nulla della sua terribile influenza, si vuole, al contrario, che egli diviene più formidabile man mano che invecchia.) Le testimonianze di Dumas, dirà qualcuno, debbono essere accolte con beneficio d’inventario perché inserite in un’opera che, tutto sommato, appartiene al genere del romanzo storico. Sono d’accordo, però è innegabile, fatta la dovuta tara, che Dumas avrà pure attinto alla voce del popolo. La conferma mi viene da un aneddoto che ci ha lasciato Raffaele De Cesare nel suo La fine di un regno, Lapi, Città di Castello, 1900, pagg. 274-275: Armando Polito per Vesuvioweb.com L’ultimo ballo ebbe luogo la sera del 14 gennaio 1856, con due mila invitati. Un altro era stato fissato nel gennaio del 1857, ma non fu potuto dare per una serie di disgrazie sopravvenute a causa, si disse, dell’invito fatto al duca di Ventignano, iettatore famoso. Caratteristico il colloquio che in quella occasione ebbe il Re col duca D’Ascoli. Questi gli leggeva le vecchie liste degli invitati, cancellando gli assenti, i morti e quelli di non sicura fede politica e proponendone dei nuovi. A un certo punto si fermò sul nome del Ventignano, che aveva sollecitato un invito. Ferdinando II riconobbe la convenienza d’invitarlo, per le buone qualità e la provata fede del duca, consigliere della Corte dei conti, ma disse al D’Ascoli:”Tu sai i pregiudizi che corrono sul suo conto; io non ci credo; invitalo, ma ti annunzio che la festa non si darà”. Il Re credeva alla iettatura come si è veduto, ma in alcuni casi si studiava di non mostrarlo. Il duca fu compreso nella lista degl’invitati; ma, pochi giorni dopo, avvenne l’attentato di Agesilao Milano e la festa andò in fumo; anzi nella Reggia di Napoli e di Caserta non vi furono più grandi feste, né conviti di nessun genere. Due piccole veglie con danze diè il Re a Gaeta ad eletta schiera d’invitati, una la sera del 12 e l’altra del 15 febbraio 1858. L’”eletta schiera”, secondo il linguaggio ufficiale, era formata da militari, da sindaci e personaggi autorevoli dei paesi vicini. Il Re e i principi si divertivano a dar la baia ai “pacchiani” imbarazzati e confusi. Altre grandi feste si preparavano per le nozze del principe ereditario, ma le sventure sopravvenute le mandarono in fumo. Durante gli agitati quindici mesi di Francesco II, vi furono ricevimenti, baciamani e circoli, ma balli punto. Tutto questo non fece che accrescere il pregiudizio sul conto del povero duca di Ventignano, il quale era uomo di spirito, zio paterno di Federigo, Cesare e Alfonso Della Valle di Casanova e sopportava in pace quella specie di odiosa leggenda, che si era formata sul suo nome. Né era il solo dei malcapitati, perché di iettatori, reputati famosi, Napoli ne contava parecchi che ancora si ricordano con comico spavento. Ogni napoletano, più o meno confessandolo, ha sempre creduto al malefico influsso. A questo punto mi chiedo se è per un puro caso che il Maometto II di Rossini, il cui libretto era stato scritto dal duca di Ventignano, fu accolto alla sua prima rappresentazione nel 1820 da una bordata di fischi; e se per fortuna oppure per una momentanea défaillance del nostro Cesare il vulcano sterminatore non diede percettibili segni di reazione quando nel 1810 venne pubblicato a Napoli dall’editore Angelo Trani il suo poema Il Vesuvio. Ma, considerando il canto finale in cui descrive la sua ascensione sul vulcano e il salvataggio di una madre e del figlioletto da un’improvvisa eruzione, tutto è chiaro: sarebbero stati guai se avesse, per esempio, cantato il Vesuvio dormiente. Non è vero...ma ci credo.