Riccardo Becheri SECONDO DIARIO DI QUESTO MILLENNIO 2005 – 2008 CON ALTRI PEZZI AGGIUNTI Prato 2009 EDIZIONE FUORI COMMERCIO di cento copie numerate a mano e firmate dall’autore. E’ vietata qualsiasi riproduzione. Prato 2009 COPIA N° ©Tutti i diritti riservati all’autore [email protected] www.riccardobecheri.it 4 In conclusione, fratelli, tutto ciò che è vero e nobile, che è giusto e puro, che è amabile e onorato, che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Filippesi 4,8 5 6 INDICE 7 INTRODUZIONE SIGNIFICATI E DIGNITA’ 9 PROSODIA E SIGNIFICATI 18 DIGNITA’ DELLA POESIA 19 La risata 26 La vita unica 41 DIARIO DI QUESTO MILLENNIO 43 ANNO 2005 Quartine 30-42 Sonetti 198-213 75 ANNO 2006 Sonetti 214-228 Quartine 43-52 103 ANNO 2007 Sonetto 229 107 MORES MAIORUM Sonetti 230-241 Quartina 53 123 Sonetti 242-246 Quartine 54-59 7 135 ANNO 2008 Sonetti 247-253 Quartine 60-65 151 ALBUM DI HAI 161 TRADUZIONI DA EMILY DICKINSON 173 PRIME POESIE 189 L’ULTIMA PRIMAVERA 8 INTRODUZIONE SIGNIFICATI E DIGNITA’ 9 10 PROSODIA E SIGNIFICATI Ogni lingua parlata ha uno specifico impasto di vocali e consonanti, una musicalità e un ritmo suoi propri; ha cioè una sua prosodia, il cui primo significato è: “Questi è un figlio della mia stessa lingua materna”. Il che implicitamente mette in attesa e sotto osservazione chi parla con un’altra prosodia, pur se le parole e le frasi sono perfettamente comprese. Anche dopo i primi anni di vita durante i quali si apprende la lingua materna, continua e si approfondisce questa funzione sociale della prosodia, per adeguamento del singolo alla media espressiva della comunità generale dei parlanti la sua lingua, e poi dei vari gruppi particolari in cui egli entra a far parte. Già in origine, nelle società senza scrittura, certamente la prosodia delle donne e degli uomini era differente. Ciò cominciava al momento dei riti di passaggio quando il giovane doveva smettere di comportarsi e di parlare come un ragazzo ed assumere il ruolo e il tono di adulto. Le femmine invece dovevano distinguersi al contrario; e da qui il tono stridulo, le risatine insistenti e alte che si odono anche oggi per strada incrociando gruppetti di ragazzine dai tredici ai quindici anni e che le stesse ragazze smettono prima dei vent’anni. A me quei primi squittii di seduzione fanno sempre grande tenerezza. E’ inoltre ammissibile che con ritorni che si rinforzavano a vicenda questo processo abbia influito sui cambiamenti fisici che danno solo ai maschi il tono più grave di voce al momento della maturazione sessuale. Altre tracce di questa importante funzione sociale rimangono nella prosodia dei gerghi giovanili, sportivi, 11 professionali e così via. Ma la funzione di riconoscimento sociale non è l’unico significato della prosodia; i suoi significati sono molti, importanti e di gradazioni infinite: di enfasi, di sottolineature, di abbassamenti, di sensi contrari; e poi la gioia dei suoni, della musica, dei ritmi, o l’angoscia dei toni lugubri. Questi e tanti altri sono i significati della prosodia in tutte le lingue del mondo, che ciascuna impasta col materiale esclusivo della sua storia, mantenendo intatta anche oggi la ricchezza primordiale di ogni cultura. Su questa base l’umanità ha potuto produrre la meraviglia della scrittura e, per ciò che qui m’interessa, gli studi di grammatica, di retorica, di metrica e di poesia. Questa civiltà letteraria non ha solo approfondito per secoli i temi dei suoi studi, ma li ha trasmessi a tutti gli uomini. Quegli studi infatti sono stati compiuti dalle persone più istruite, sensibili e prestigiose della società. Loro hanno individuato le regole del corretto parlare e le regole formali della poesia. E loro le hanno affinate continuamente per scrivere con efficacia ed eleganza. Gli altri, dai più lontani e analfabeti, ai più vicini ma gergali, sanno che esiste il canone del buon gusto per ciascuna lingua e per imitazione cercano di adeguarsi. Chi per incapacità non ci riesce, che lo voglia o no, trasmette il messaggio della sua ignoranza. Chi per scelta non rispetta il canone trasmette il messaggio della sua insofferenza e della sua ricerca e proposta di un nuovo canone. Anche questi sono significati. E infine e per primo viene il significato che tutti i significati concentra, il significato delle parole, delle frasi, dell’intero discorso. Al di là della mitologia del verbo divino, la parola, la frase, il discorso hanno davvero la capacità miracolosa di 12 creare significati condivisibili a disposizione di ciascuno per chiarire a se stesso se stesso e la realtà esterna, e trasmettere agli altri e ricevere da loro nuovi e infiniti significati. La riflessione millenaria sul linguaggio ha svelato e rivela sempre di più la complessità di questa capacità umana. Il vero miracolo è la facilità dei bambini di imparare ad usare questo meraviglioso strumento; ed è un miracolo che esso perduri e si arricchisca per tutta la durata della vita degli uomini; ed è un miracolo che si riesca a tradurre da una lingua ad un’altra; ed è un miracolo che alcuni bambini cresciuti in ambienti aperti a più lingue siano istintivamente bilingue o addirittura trilingue; ed è un ultimo e stupendo miracolo che oltre una certa età non si riesca più ad imparare in maniera istintiva una lingua come lingua materna, il che non è un limite ma la raggiunta conquista dell’essenziale, cioè la base solida su cui l’individuo può pienamente vivere in comunità col proprio gruppo e svilupparsi. Questo essenziale coltiva la poesia, dove la parola, la frase, il discorso non si disperdono in chiacchiere né si diluiscono per centinaia di pagine, ma dove invece ogni parola, ogni frase, ogni discorso concentra una densità di significati altrimenti irraggiungibili. Ciò si persegue quando si scrivono poesie. E quando si leggono, e a voce alta, si deve poter gustare il significato primordiale della prosodia: i suoni, il ritmo, il respiro come dissi nell’introduzione ai “Sonetti di Shakespeare” parlando del sonetto; significato primordiale che mi situa tramite la lingua nella mia società in un dato momento storico. Si deve poter ritrovare il significato culturale, l’adeguarsi o no al canone del buon gusto, lo stile personale, le innovazioni, il mestiere. Si deve poter avvertire il significato più denso delle parole, delle frasi, dell’intero componimento. E allora la 13 poesia esprimerà il significato spirituale dell’insieme, un tutt’uno che è lì e basta, la preghiera, l’unione di individuale e universale, la verità della poesia in quanto tale, ineffabile in qualunque altro modo, dicibile e a voce alta solo con quei suoni, quei versi, quelle strofe che compongono la poesia. La scrittura, è stato detto in vari modi, è il tentativo di dare forma all’informe, di dare una forma stabile, cosciente e voluta al mondo selezionato dai nostri sensi ed elaborato dal nostro cervello in maniera inconscia sulla base dell’eredità evolutiva che in noi si raccoglie. E’ una grande opera di civiltà che cerca di salvare dallo scorrere pazzesco delle cose e dei nostri pensieri ciò che, per chi scrive, è il senso di questo scorrere fermando sulla carta un suo momento. Ed è stato detto da molti che la poesia e la filosofia sono i modi privilegiati di scrittura, dando però alla poesia una sorta di primogenitura, comunque declinata nelle varie riflessioni, per la sua immediatezza nel dare forma al confronto fra il singolo individuo e il mondo, con le sue regole metriche e concentrando tutti i significati che dicevo sopra. Oggi, almeno da Galileo se non dai greci e dai babilonesi, alla scrittura delle lingue materne si è aggiunta la scrittura dei linguaggi specializzati nelle varie scienze, che ampliano via via i nostri sensi e l’elaborazione dei nostri cervelli. Inoltre ci sono sempre stati i linguaggi della musica e delle arti figurative. Però, finché i neonati impareranno a parlare dalle loro madri, la scrittura nelle lingue naturali resterà insostituibile come strumento fondamentale nello sviluppo e nell’educazione della coscienza umana. Di questi tempi, poi, affogati come siamo nell’informe, nel movimento, nelle immagini in movimento, la scrittura è forse diventata 14 un’ultima ancora a cui agganciare la nostra salute mentale altrimenti travolta e dispersa. Comunque, essendo la scrittura nelle lingue naturali leggibile da chiunque, o almeno trasmissibile vocalmente a tutti, è a disposizione di ogni uomo, sia per educare la propria personalità sul momento particolare fermato nello scritto, sia come esempio generale di un uso dello strumento che ognuno può fare proprio. Anche questi sono significati che in qualche modo vengono trasmessi dalla vera poesia. E in essi risiede la sua funzione sociale, che io ritengo sempre più necessaria benché sia sempre più negletta nelle sue manifestazioni alte, in particolare nella poesia civile e filosofica che non è una contraddizione teorica, ma una mancanza da colmare. Queste mie considerazioni d’oggi sono solo approfondimenti di quanto scrissi subito dopo aver completato la traduzione dei sonetti di Shakespeare e prima d’iniziare il mio “Diario di Questo Millennio 2001 - 2004”, con i suoi sonetti e le sue quartine in endecasillabi. L’esperienza scespiriana mi aveva lasciato due semi: la capacità intatta del sonetto italiano di esprimere l’esprimibile dalla poesia, e le possibilità quasi inesplorate delle raccolte di sonetti di organizzare in modi più o meno espliciti un mondo unitario, lasciando ad ogni momento la sua compiuta realtà. Ho cercato di far fruttare quei semi nel “Diario”, mantenendomi fedele al sonetto e agli endecasillabi non rimati: ritenevo di avere cose importanti da chiarire a me stesso e non avevo tempo da dedicare a cose futili come le innovazioni metriche fini a se stesse. Arrivato però di nuovo alla misura scespiriana di 154 sonetti, mi resi conto che, per il troppo ragionare, talvolta mi 15 sfuggiva l’immediatezza del mondo, la sua offerta unitaria nel tempo e nello spazio ai nostri sensi, alla vista, all’udito, al tatto, al gusto, alla reazione degli umori. Così, senza affatto rinunciare ai sonetti e alle loro raccolte tematiche, ho scritto diverse quartine cercando di fermare quella immediatezza; e sempre in endecasillabi. Non faccia meraviglia che, riprendendo a scrivere versi dopo venti anni durante i quali avevo altro da fare, non abbia rispolverato quell’abbozzo di teoria che scrissi nel 1969 e pubblicai con “Roberto ed Elvira”. Le poesie contenute in quel libretto, scritte in versi liberi o secondo “La Metrica della mia Poesia” premessa a quel libretto, mi sembrano ancora belle, così come “L’Ultima Primavera” e altre delle mie prime, che stampo in fondo al volume. Ma le riflessioni che avevo poi svolte nel saggio su Ungaretti mi avevano convinto profondamente: lo sperimentalismo metrico è sempre un alibi per la debolezza poetica. Di certo su ritmi secolari nascono versi e metri nuovi e altri vengono abbandonati; ma questo deve avvenire in una lunga maturazione che sia in accordo con l’evolversi della lingua, della sensibilità e della cultura di ogni uomo, e per me italiana. Non per manifesti letterari estemporanei, quasi sempre d’accatto straniero; né per sentirsi poeti, tutti d’una specie mai vista che appunto scrivono in versi mai visti cose viste dappertutto. Quando anche oggi, di contemporanei, mi capita di leggere tiritere ermetiche e rimasticature di inglesi, americani e francesi, mi chiedo: “Ma costoro conoscono l’eredità che hanno ricevuto? Certamente non solo italiana e non solo degli ultimi cento anni. E sanno che stanno descrivendo il mondo dell’intera umanità in parole e modi italiani, sotto la disciplina di questa cultura, forti della sua forza?” E quasi sempre mi cadono le braccia per 16 l’incredulità, come unica risposta possibile. E poi ne rido, li trascuro e mi occupo di me stesso. Tornando quindi, anche a mo’ d’esempio, alla mia ricerca d’una maggiore immediatezza per alcuni temi e momenti, di recente sono sceso fino alla brevità degli haiku giapponesi per risalire subito a un metro di tre endecasillabi particolari che ho ribattezzato “HAI”. Gli haiku giapponesi sono brevi composizioni di tre versi con 5, 7 e 5 sillabe; sono poesie che non descrivono, non spiegano, ma presentano piccoli momenti in una dimensione fuori del tempo lineare, immersi invece nel ciclo eterno delle stagioni. Da secoli sono un bel frutto del buddismo zen e tendono al satori, l’illuminazione buddista. Matsuo Bashō, vissuto nella seconda metà del Seicento, è universalmente riconosciuto come il più grande autore di haiku, ma ancora oggi in Giappone milioni di persone si dedicano alla composizione di haiku. Da decenni anche in Occidente ci sono molti cultori di haiku. E in Italia. Purtroppo il passaggio di questo metro poetico dal giapponese all’italiano è molto problematico; innanzi tutto il computo delle sillabe in giapponese è differente dall’italiano e la misura di 5, 7 e 5 in effetti non riguarda le sillabe come le intendiamo noi, ma gli onji, i segni grafici della scrittura giapponese. Inoltre il giapponese non possiede generi, numeri, declinazioni; e infine l’ordine degli elementi nella frase è l’opposto di quello italiano. Ma soprattutto sono differenti le rispondenze intime delle due lingue ciascuna alla propria storia, alla propria sensibilità e ai significati che esse attingono. Comunque ho provato a scrivere due o tre haiku: venivano uno dietro l’altro, come le ciliegie. C’era la brevità, forse l’immediatezza, di sicuro una faciloneria sospetta. Mi 17 tornò subito in mente uno degli interrogativi che mi animavano trentacinque anni fa, quando scrissi “La nonpoesia d’Ungaretti e la poesia oggi”: fin dove si può spingere la concisione senza distruggere la poesia? Non volevo certamente risuscitare l’analogismo ermetico di Ungaretti, mi ricordavo benissimo la mia stroncatura al “M’illumino d’immenso”, che è solo un settenario, il cuore di un haiku. In conclusione, completai i due quinari e il settenario dei miei haiku con tre emistichi per ottenere tre endecasillabi, composizione che ho chiamato “Haiku Ad Incastro”, dalle iniziali: “HAI”. E’ bene citarne uno: nebbie di marzo--------in lingue a mezza costa su sentieri indecisi-----evanescenti giovani persi------------fra sogni irreali La parte a sinistra è un haiku che non porta mai l’accento sulla quinta sillaba, la parte a destra completa i tre endecasillabi. Nella lettura ci deve essere un senso compiuto dello haiku, un senso compiuto dei tre emistichi aggiunti letti di seguito e un senso globale sia quando leggiamo prima lo haiku e poi gli emistichi, sia quando leggiamo semplicemente i tre endecasillabi. Ovviamente, sono tutte varianti d’un unico senso. Anzi, in molti casi è possibile una lettura incrociata fra i singoli versi dello haiku e i singoli emistichi aggiunti, rispettando o no l’endecasillabo. E’ un gioco, il gioco futile delle varianti così magnificate dalla critica ungarettiana. E per gioco ho calcolato quante varianti sono possibili dello stesso “hai”: 144 varianti, di cui 36 versioni leggendo prima gli haiku e poi gl’incastri (12 veri haiku e 24 impropri, cioè in sequenza 5,5,7 o 7,5,5 sillabe), più altre 36 versioni leggendo prima gl’incastri e poi gli 18 haiku, più altre 36 versioni leggendo per righe, per totali 108 versi di cui 60 endecasillabi e 48 altri versi, più altre 36 versioni leggendo per righe prima gli incastri e poi gli haiku; in questo caso la divisione fra endecasillabi e altri versi varia a seconda delle terminazioni sdrucciole degli emistichi e i loro inizi per vocali. Sarebbe una bella scommessa scrivere uno “hai” che consenta senza forzature 144 letture sensate! In effetti, più che alla poesia, lo “hai” si presta ad essere un gioco enigmistico. Comunque, nello scrivere gli “hai” mi sono attenuto ad alcune regole, oltre a quelle metriche suddette: non scrivo mai “io” o verbi alla prima persona singolare; l’interpunzione è quasi inesistente, così come l’uso delle maiuscole. Infine non mi ritengo vincolato ai temi tradizionali degli haiku giapponesi. Forse il satori non fa per me. Mi basta “L’infinito” del Leopardi, per non dire della Divina Commedia che è la illuminazione di un’anima non in 17 sillabe ma in cento canti. Insomma, è tutto un gioco e non sono capace di fingere o recitare. Pertanto stampo, dopo il Diario degli anni dal 2005 al 2008, una ventina di HAI, come campioni del nuovo gioco perché maturino nel confronto. Stampo anche dieci mie traduzioni da Emily Dickinson, le cui poesie mi hanno accompagnato durante l’ultima estate. Mi sembrava che le traduzioni italiane che avevo sotto mano attribuissero a questa grande poetessa, contrariamente al vero, un percorso spirituale verso la religione, quando invece la sua disgraziata vita, pur dominata dalla prossimità della morte, fu tutta un lucido travaglio per affermare la sua libertà contro le grettezze fideistiche e sociali che ammorbavano il suo ambiente. 19 DIGNITA’ DELLA POESIA Nel frattempo ho continuato ad interrogarmi sul senso generale di tutto questo e sulla sua importanza per me, per gli altri, per la cultura italiana, per l’umanità intera. Non m’interessava, sia ben chiaro, architettare un ben costrutto sistema filosofico con la sua brava “Estetica” nel terzo o quarto tomo. In genere, certi sistemi tendono a esagerare l’importanza dell’arte e della poesia, con effetti quasi sempre nefasti. M’interessava solo capire perché continuavo a scrivere; e se davvero la poesia non valga niente e non abbia più nessuna funzione sociale, come dicevo nella chiusura dell’introduzione ai miei “Sonetti di Shakespeare” e come in parte ho corretto più sopra. Via via che riflettevo su questi interrogativi e su altri argomenti, mi si facevano sempre più chiari i limiti del concetto di “valore” e le confusioni inestricabili e i pericoli generati dal suo uso. Pertanto d’ora in avanti userò il sostantivo “valore” e il verbo “valere” e simili solo nel loro senso strettamente economico. Mai in senso filosofico, etico, spirituale ed artistico. Perciò parlo, non del valore, ma della dignità della poesia. Sul concetto di “dignità” qui basti dire che, se l’etimologia non inganna, il latino dignus deriva da decnoûs: il decoro di e verso il demiurgo platonico del cosmo, o il primo motore aristotelico, o lo spirito universale quale seconda ipostasi della triade plotiniana di Uno-Noûs-Anima. Dunque, dignità come attributo manifesto e confacente a qualcosa di per se stesso elevato nel mondo, nelle cose, negli esseri viventi, nell’essere umano, in ogni individuo in quanto tale recita la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e infine nelle opere create dall’uomo; e dignità anche come 20 contegno doveroso per tutti di rispetto verso le manifestazioni di questo attributo di elevatezza. Preciso inoltre che in queste pagine tratto della scrittura, della poesia, della letteratura, di ciò che l’uomo esprime con le parole della lingua materna. Il concetto di “arte” in generale è appunto troppo generale e andrebbe rivisitato a parte. *** LA RISATA. Per me la poesia, e lo studio, e lo scrivere sono sempre stati molto importanti, e spero non nefasti, ma sono arrivato a riconoscere che questo mio bisogno di scrivere mi si manifestò, all’inizio vagamente, quando avevo forse quindici anni e da allora mi si è consolidato fino a diventare un bisogno solo per le letture, gli studi e l’educazione che mi hanno portato ad essere quello che sono. In ciò, per me e per tutti, non c’è nessun destino geniale, ma solo il destino umano di ciascuno di noi di essere quasi “infettato” da complessi circuiti imitativi, che, partiti da una base genetica ai fini della sopravvivenza, sono poi montati su se stessi e formano ora la nostra personalità individuale, che è parte di una certa cultura e frammento dell’umanità. E’ naturale che ciascuno dia importanza alle ragioni del suo essere oggi; e che l’umanità dia importanza e cumuli milioni di libri sulla poesia e sulla civiltà umana. Ma è bene ricordarsi che tutto avrebbe potuto essere differente, o non essere affatto; e che un giorno, fra migliaia o milioni di anni, non sarà più e quindi non sarà mai stato. Questo pensiero non nega, anzi rinforza la convinzione che l’umanità è un’avventura grandiosa, magnifica, unica 21 nell’universo. E fragile. E che a ciascuno di noi è demandato di viverla, di riceverla e di trasmetterla. Dunque, mi sembra naturale che io dica semplicemente quello che penso e sento sull’importanza delle mie opere letterarie: per me sono, quale più quale meno, oneste, belle, degne di avere un loro posto nella cultura italiana e di essere una possibile offerta alla civiltà dei miei simili. La loro dignità letteraria non ha nessun riconoscimento sociale? Qui si apre un interrogativo importante sul significato di simili riconoscimenti in relazione alla dignità delle mie opere; e in generale, delle opere letterarie di qualunque autore; e persino della vita di ogni uomo. Intanto mi chiedo quale sia stato il riconoscimento sociale d’un grande mistico morto anacoreta nel deserto, od anche del più grande musicista della Grecia classica, di cui si è perso anche il nome nonché la musica. E mi chiedo cosa se ne facciano Omero e Dante e Shakespeare dei tanti riconoscimenti odierni. Tutti costoro e gl’infiniti altri, grandi, piccoli o nulli, ora sono morti; e i riconoscimenti o i silenzi passati, presenti e futuri non li toccano. Le opere insigni che oggi ammiriamo, con le vicende dei loro autori finché erano in vita, ed anche le opere anonime, le trascurate e le perdute che per rivoli misteriosi tuttora influiscono, sono il patrimonio spirituale dell’umanità a disposizione di ogni essere umano vivente, mentre i nomi di chi concorse a formarlo sono soltanto etichette degli scaffali su cui sono conservati quei beni. Questa eredità ricevuta da ogni essere umano vivente è ciò che appunto lo infetta e che ognuno per imitazione fa propria in parte, con risposte individuali che gradualmente fanno di lui la persona che è nei vari stadi della sua vita. 22 Da questo punto di vista parrebbe che il riconoscimento della dignità delle opere venga dal loro diventare in seguito parte del patrimonio dell’umanità, ma è un’illusione che discende dal dare sostanza alla parola “futuro”. Se già il rapporto fra un vivente e i grandi del passato è in verità il rapporto fra lui e il patrimonio umano che gli si offre nel presente con la sua presenza concreta, quale rapporto può instaurarsi fra l’operare quotidiano dell’uomo e il futuro che è inesistente per definizione? Soltanto un rapporto malsano con l’illusione, con l’autoesaltazione, con le droghe psicologiche che negli intellettuali, nei poeti e negli artisti portano alla “posa”, al recitare la parte dei loro personaggi inventati che gli altri riconosceranno in futuro, e nei fanatici violenti portano alle distruzioni e alla guerra nella certezza dei folli che il futuro li giustificherà. Quest’ultima, brevemente accennata, è la fenomenologia dell’Assoluto con la A maiuscola: dell’Arte; ma anche dello Spirito, dell’Essere, della Morale; e di Dio che tutte le maiuscole riassume. L’assoluto è un altro nome per inesistente, usato spesso per nascondere le vergogne e nobilitarsi. Tornando a noi, il vero riconoscimento della dignità delle opere si ha dunque solo nell’ambito del vivente Per sgombrare il campo, ribadisco che le mie opere non hanno nessun riconoscimento; e per evitare ogni equivoco dichiaro subito che preferirei aver vinto il premio Nobel vent’anni fa e avere oggi un mucchio di soldi dai diritti d’autore. Ma i milioni di copie e i milioni in soldi sono cose estrinseche che riguardano più che altro l’industria e la pubblicità, campi nei quali non ho mai avuto l’aspirazione di lasciare un “grazie” e dove mi abbandono alla pigrizia: lo riconosco e non me ne 23 lamento. Il massimo che ho fatto per far conoscere le mie opere è stato di far stampare a mie spese cinque libri, sei con questo, e di regalarli agli amici, di distribuirli ad alcune biblioteche sparse per il mondo e, di recente, di mettere tutto quello che ho scritto in un blog su internet. Basta e avanza per la mia pigrizia. La domanda quindi diventa: se dobbiamo restare nell’ambito del vivente, la dignità di un’opera letteraria dipende dal riconoscimento sociale dei contemporanei? E’ questo riconoscimento il metro, o almeno un buon metro, per giudicare la dignità di opere già prodotte? Ma la risposta è no. Questo rincorrersi di domande si basa ovviamente su un malinteso: l’opera prodotta è già nel passato dal momento in cui l’autore l’ha licenziata, per lui fa già parte del patrimonio dell’umanità. E dunque la sua dignità nasce, per i rapporti concreti nell’ambito vivente, al momento stesso del suo farsi opera. L’opera e la sua dignità sono un tutt’uno e l’unico che la può giudicare in senso stretto è l’autore, che la può anche correggere per adeguarla, non a un futuro riconoscimento, ma a un progetto da lui abbozzato, a un disegno via via più preciso, per attingere alla fine la dignità più soddisfacente per lui. Dopo diventa un’offerta per gli altri uomini, che ne approfitteranno a seconda delle circostanze e dei loro interessi, ognuno concedendo o no, in piena libertà, un riconoscimento di dignità spirituale alle altrui opere frequentate. Qua e là si parla di “lettore ideale”. Bene, per definizione il lettore ideale è l’autore stesso che dell’opera conosce la genesi, il contesto sottinteso, gli equilibri, i rimandi interni ed esterni; e che con l’ultima correzione ne sancisce la 24 dignità nel suo mondo. Altrove, in mondi altrui, l’opera non sarà accolta perché rifiutata o semplicemente sconosciuta? Pace: ha già prodotto sull’autore la sua efficacia spirituale. Perciò ripeto: per me le mie opere sono, quale più quale meno, oneste, belle, degne di avere un loro posto nella cultura italiana e di essere una possibile offerta alla civiltà dei miei simili. Io le ho prodotte per esprimere al più alto grado che ho potuto il significato dell’argomento che volta per volta m’interessava. Per me fanno già parte del patrimonio spirituale dell’umanità. In esse ho riunito ciò che ho ricevuto dell’eredità passata e l’apporto della mia personalità nei termini italiani che mi sono propri. Al loro farsi ho dedicato tempo, studi, pensieri e sentimenti senza nessuna pigrizia; e prima di licenziarle le ho considerate mille volte e cercato incessantemente di migliorarle. Ora non intendo discuterne la dignità con nessuno, non devo mercanteggiare, non voglio elemosinare riconoscimenti. Avrei anche potuto distruggere le mie opere, ma ho preferito metterle semplicemente a disposizione degli altri come ringraziamento votivo dei beni gratuiti che io ho ricevuto. Il resto riguarda gli altri, se e quando potranno e vorranno nutrirsi delle mie opere, come di tutto il mondo che ogni essere umano eredita nascendo. La mia notorietà, il mio successo sono cose che riguardano gli altri; o me e gli altri in un senso strettamente pratico, ma nel più ampio senso spirituale non riguardano me autore, non le mie opere e la loro dignità. Queste mie affermazioni possono sembrare orgogliose, ma in effetti sono solo una risata svolta in tutti i suoi passaggi. Sopra ho adoprato il termine “offerta” nel senso di un bene messo a disposizione gratuita di tutti. Per spiegarmi 25 forse è opportuno riprendere questo termine e restringerne il significato al senso economico di “offerta sul mercato”. E qui sul mercato la ricerca del lettore ideale diventa una ricerca di marketing, al fine di produrre una merce adatta al cosiddetto target da colpire perché, dopo le opportune sollecitazioni pubblicitarie, compri il più possibile. E qui sul mercato la mia grande pigrizia è dovuta al fatto che lo ritengo dannoso per la poesia ed ho una così scarsa stima, per non dire della sua dignità, anche del suo valore economico oltre un certo limite, da non voler lasciare contributi. Accetto pertanto tranquillamente il fatto che sul mercato i riconoscimenti sociali per le mie opere non ci siano, cioè che lì esse non valgano niente; e che in ogni caso il loro valore economico non dovrebbe andare al di là dei pochi sforzi che mi consente la mia pigrizia nella produzione industriale e nella diffusione pubblicitaria delle mie opere. Il mercato infatti instaura tra gli uomini rapporti limitativi fra pochi produttori e tanti consumatori, che con i loro acquisti mantengono economicamente i pochi o l’unico produttore nel caso del monopolista, ma dove tutti soffrono di una carenza feroce di libertà; e i produttori più che i semplici consumatori con possibilità di spendere. Un autore sul mercato è un produttore che ha perso la sua libertà. Non è il mio mondo, non è un mondo che consenta il dispiegarsi della poesia nella sua dignità spirituale. Non è un mondo sano. Per me la vita dello spirito è, e la vita quotidiana di ogni essere umano dovrebbe essere, un dispiegarsi incessante di libertà, dove ciascuno partendo dalla sua gracilità di neonato aggrappato a una mammella succhia gratuitamente il mondo che i suoi simili gli hanno lasciato e vi costruisce ogni giorno 26 la propria personalità appropriandosi gratuitamente dei beni che più gli si confanno. Così facendo, allarga se stesso in libertà ogni giorno di più e produce nell’arco della sua vita il fiore unico del suo mondo che gratuitamente aggiungerà al patrimonio umano: Matteo, 10, 8, gratis accepistis, gratis date. So purtroppo che per tanti, per troppi, e per tutti in alcuni momenti o giorni o anni, così non è; ma così è per l’umanità intera, per la civiltà umana come si è formata nella storia, per lo spirito umano che si è realizzato fino ad oggi e che ciascun essere umano eredita. In questa diversità fra l’essere passato dello spirito ricevuto e il dover crescere di ogni uomo si manifestano tutti i caratteri dell’individuo, dalla perdita dei pazzi furiosi, dei delinquenti e degli assassini al galleggiare calduccio dei più, dal vero paradossale della comicità al paradosso doloroso della tragedia incarnati in ognuno di noi. In questa crescita non si instaura mai un rapporto fra i pochi e i tanti, fra gli artisti e il pubblico per dire, né un rapporto fra uguali, ma solo e soltanto un rapporto fra l’unico neonato del giorno e tutto il resto dell’universo, cioè la natura, la storia passata dell’umanità, lui stesso ieri e l’altrui odierno. Da questo universo, quell’unico trae in libertà ciò che più gli piace, ciò che può, ciò che gli sta più vicino, a caso o con studio e ricerca paziente. La crescita di quell’unico mondo che ognuno di noi è, è in effetti l’essereper-la-vita, mai per la morte, come qualcuno cerca di enfatizzare con le lineette che io uso solo per ridere. Un essere per la vita che è appunto il crescere in libertà, cioè, senza retorica, il senso nudo della parola “vita”: avere vita. 27 Con tutto questo so benissimo che un giorno, domani o tra diecimila anni, le mie opere moriranno e che la loro dignità sarà stata anche per il passato e sarà per sempre zero. Ma non prima che io muoia, perché ben ricordo di averle prodotte e deposte fra i tesori dell’umanità in ringraziamento dei doni ricevuti. Certo, un giorno anch’io morirò, ma io come tutti ho il privilegio di non assistere alla mia morte. E anche l’umanità ha il privilegio di non assistere alla sua estinzione. Nell’istante precedente saremo ancora neonati di fronte all’universo intero. Questo significa nel senso più ampio dare forma all’informe. E in questo risiede la grandezza dell’avventura umana. La vita ha proprio questo di bello: la risata. *** LA VITA UNICA. Quanto ho scritto sopra è vero e giusto; ed è la parte intima del significato spirituale delle mie poesie. Ma quale significato spirituale potranno mai avere per gli altri che le dovessero frequentare? Posta così, questa domanda è senza senso, perché ipotizza implicitamente che esista un significato valido per tutti chiamato “Poesia” e che i miei versi lo attingano in maniera oggettiva. La pretesa di oggettività, che si parli di significati o di dignità delle opere umane o dello spirito umano in generale, vuole sempre ricondurre queste manifestazioni sotto il concetto di “valore” e irreggimentarle in una scala alla cui sommità si instaura un valore supremo geloso della sua presunta prerogativa, la fenomenologia dell’Assoluto maiuscolo già accennata all’inizio. Inoltre sorge naturalmente fra i vari gradini della scala la ricerca di 28 un criterio oggettivo di misura del loro stare sopra o sotto, del loro valore relativo, che, nonostante i fingimenti mistici e misterici e angelici prima e dopo la Scala di Giacobbe, non potrà che essere il loro valore economico, il volgare denaro che getta tutta la scala sul mercato. Ma soprattutto questa pretesa di oggettività nega la libertà di ogni singolo essere umano e, nel caso in questione, di ogni eventuale lettore dei miei versi. Ed io, proprio io, non posso rispondere alla domanda di sopra. E nessuno in effetti può mai rispondere per gli altri. Posso invece dire qualcosa su come io mi rapporto alle opere altrui, io come altro rispetto agli autori che conosco, di poesia, letteratura e saggistica. Non intendo nemmeno accennare a una qualche sociologia della letteratura, né ad una fenomenologia degli scaffali e delle etichette. Ammesso che siano cose sante e belle, non m’interessano qui e ora. E’ solo un esempio che spero possa essere utile a qualche lontano lettore. Prima di tutto, per parlare di altri autori bisogna saper leggere; e non è una battuta. E’ strano che ci siano migliaia di libri che insegnano a scrivere, che addirittura insegnano la “scrittura creativa”, e che ci sia solo l’abbecedario di prima elementare che insegna a leggere o, peggio, manuali aziendali che insegnano la “lettura veloce”. E’ strano perché saper leggere è più difficile che saper scrivere. Leggere, per me e per chi sa, significa risalire da pagine tracciate di segni all’intenzione esplicita di chi li tracciò e da qui elevarsi infine allo spirito, anche implicito, sottaciuto e persino inconscio, che emana per me dalla personalità dell’autore: un risultato totale che è la mia interpretazione di quel suo scritto particolare e insieme il mio giudizio del reciproco stare delle 29 nostre due personalità in un unico ambito spirituale che in verità è il mondo visto dal mio centro, dalla mia personalità come essa si è formata dalla mia nascita fino ad oggi. Questo modo di leggere è frutto di una lunga maturazione, ma a un certo punto diventa istintivo: basta leggere l’indice, mezza pagina, una conclusione e qualche paragrafo per vietare a un tomo ponderoso di qualche luminare pretenzioso di entrare nel mio ambito spirituale; o basta leggere due brevi poesie e metà d’una terza per sentirmi soffocare. D’altra parte basta una frase, un accenno, un verso per ricevere un invito fraterno a continuare, ad approfondire, a cercare altri scritti di quell’autore. Ed anche nei contrasti o nelle incomprensioni, mi arricchisco e il mio spirito si espande. Capita che al primo interesse segua poi una delusione; o, al contrario, che a un primo rifiuto segua anche a distanza di anni una scoperta profonda. Capita, purtroppo spesso in campo accademico, che s’inciampi in scritti su altri autori, dove la loro lettura si è fermata al primo stadio, all’intenzione esplicita del primo autore su cui si esercita una critica pedissequa e una smania di parafrasare il già detto. Ma capita anche d’incontrare un giovane autore vivente come rinchiuso in un gergo artefatto e in un cerchio meschino di aspettative nei suoi confronti, e d’intravedere il suo spirito ricco di grandi tesori non ancora esplosi. Come un prigione di Michelangelo che lotta per liberarsi dal marmo. Questo mi è successo anche di recente: perché so leggere e per caso. Il caso è il miglior metodo per allargare i propri confini, una volta superate la scuola necessaria e l’incertezza giovanile. Chi invece rimane sempre nella scuola quasi 30 sempre smette di espandersi e coltiva con metodo maniacale un orticello soffocante. E si mette a insegnare. Ma fortunatamente ci sono anche grandi maestri che arricchiscono il loro spirito e i frutti che ricadono dalle loro cattedre non solo con i loro studi e le loro letture, dove il caso e il metodo formano un’unità superiore, ma continuano per tutta la vita ad imparare dagli allievi che il caso affida loro, nonché, come tutti dovremmo, dai più svariati contatti umani che casualmente ci capitano. Chi crede che il caso nelle letture sia un metodo dilettantesco di procedere negli studi si sbaglia. In effetti è una difesa contro la sovrabbondanza, o meglio, è il vero metodo per dominarla per quanto possibile. Il fenomeno della sovrabbondanza si manifesta in così tanti aspetti della vita che si può dire che è la vita stessa, il suo presupposto e la sua conseguenza. Già un’altra volta ho scritto che mio padre ha dovuto produrre miliardi di spermatozoi e mia madre centinaia di ovuli, quando per farmi nascere bastavano uno e uno. La vita è una meraviglia così improbabile che solo nei grandissimi numeri può sorgere e continuare per miliardi di anni nei milioni di specie e nei miliardi e miliardi di individui. Ed è un’ancor più inaudita meraviglia che la specie umana ne abbia coscienza e veda se stessa parte di questo flusso di ricchezza; e lo veneri e lo studi in molte forme e su molti piani. E che riesca a concentrarlo in una sola parola: vita appunto. La sovrabbondanza, però, si è rivelata nella storia della civiltà umana anche pericolosa, ingannevole, dispersiva, quando non si è rivelata addirittura come il male, la hybris, nostra colpa e nostra condanna, di noi contemporanei. Negli ultimi due secoli infatti è esplosa sempre più in tutti i 31 fenomeni sociali, all’inizio come conquiste positive, ma poi via via gonfiate, come fardelli insopportabili e infine come pericoli estremi. Negli anni la sovrabbondanza è stata chiamata con molti nomi, e pertanto confusa e nascosta: nella politica, dall’indipendenza nazionale all’imperialismo e all’esportazione dell’ideologia dei forti in altre nazioni con le bombe e gli eserciti stranieri, e dalla democrazia fino alla concentrazione in poche mani dell’apocalisse atomica; nell’economia, dalla rivoluzione industriale e dalla liberazione dai bisogni alla creazione artificiale di bisogni fasulli e al consumismo distruttivo di se stesso e dell’ambiente, riducendo, alla fine e per ora, un miliardo di persone alla fame. E così via in tutti i campi; ed anche, per l’argomento di questo scritto, nel campo degli studi umanistici, nella filosofia, nella letteratura, nella poesia e nell’arte in genere. Stranamente poi, a questa sovrabbondanza, a questo gonfiare di esseri umani, di forze, di prodotti, di mezzi, di scoperte, di libri e di opere non è corrisposto un arricchimento e una diversificazione dei fondamenti ideali e materiali. Anzi, c‘è stato un impoverimento progressivo delle differenze e delle ricchezze spirituali ereditate dalle epoche precedenti, una uniformità montante, una devastazione delle forme spirituali e un riemergere dell’informe, un rattrappirsi dell’intero universo umano su un unico perno: il denaro, come incarnazione quantificabile e tesaurizzabile della hybris, ma in effetti come uno schermo che nasconde e prepara la nemesi della realtà sull’apparenza. A monito: oltre al retto pensare, non resta che la guerra, la fame, la miseria, la malattia e il lutto per ricondurci tutti a fare i conti con la realtà. E se ne vedono già i sintomi. 32 Questo fenomeno, astrattamente grandioso ma appunto sostanzialmente tragico, della sovrabbondanza dell’informe e del monoteismo del denaro ha permeato infine ogni creazione umana, deprivando le persone della loro dignità e riducendo ogni manifestazione spirituale al suo valore, a un prodotto commerciale qualunque, a spettacolo: a uno spettacolo possibilmente molto costoso nell’allestimento, nella produzione e nella diffusione, perché così si eliminano i meno ricchi e i poveri con uno sbarramento all’entrata; e insieme si elevano i più ricchi, i famosi e i potenti in una mandorla sugli altari (un palcoscenico, i film, la televisione, le cariche politiche, le onorificenze e le cattedre prestigiose, i milioni di copie, i milioni di euro), che li rende uno di fronte all’adorazione dei molti. Il che è la negazione del reciproco stare in dignità di due esseri umani in un medesimo ambito spirituale, ancorché vissuto dai due punti di vista differenti. Ogni essere umano vive una sola vita e se s’interessa di libri, oggi l’industria culturale gliene mette davanti così tanti milioni che nemmeno in mille vite potrebbe leggere, opere degne o non degne che siano. Come ci si può muovere per non arrendersi allo spettacolo globalizzato, per formarsi una personalità e coltivare e allargare il nostro spirito senza ridursi all’autarchia? Come orientarsi in mezzo all’alluvione di libri, di milioni e milioni di opere del pensiero umano e di oggetti artistici? Ho scritto sopra del caso come unico mezzo per dominare la sovrabbondanza per quanto possibile, dopo aver superata la scuola necessaria e l’incertezza giovanile; ed ho accennato a una superiore unità di metodo e caso, dove il caso comunque predomina. Prima ancora ho parlato dell’unico 33 neonato del giorno di fronte all’universo intero. Tutto vero. Ma come si svolge in pratica? Continuo col mio esempio. Io sono nato in Italia, la mia lingua materna è l’italiano e la sua prosodia l’ho succhiata col latte nei primi mesi di vita; sono stato poi allevato e istruito nelle tradizioni italiane, cominciando e proseguendo un percorso scolastico in scuole scelte dalla mia famiglia per ragioni pratiche dove ho incontrato maestri e professori buoni e meno buoni. Tutto questo costretto dal caso? Certamente, ma nel senso che il caso mi ha proposto ogni ora, ogni giorno, la possibilità di scegliere come reagire a quell’ora e a quel giorno per fare tesoro dell’esperienza ed affrontare l’ora e il giorno successivo. Partendo dalle mie caratteristiche fisiche alla nascita, questo circuito di esperienze e risposte ha prima gettato le basi della mia personalità e poi l’ha sviluppata fino a quando è diventata adulta, cioè fino a quando sono diventato cosciente della mia dignità e di come ero diventato quello che ero; e mi sono sentito in grado di perseguire liberamente l’allargamento della mia personalità, selezionando e sfruttando le mie esperienze successive in maniera più proficua. Soprattutto fino a quando ho pienamente ereditato la parte che mi compete del lascito spirituale della civiltà italiana ed insieme ho ereditato il sentimento della sua grandezza e bellezza anche in campi lontani dai miei interessi e che ad altri compete ereditare; ed ho ereditato infine la sua apertura universale a quanto di veramente umano e di bello le altre civiltà hanno prodotto nei secoli ed ancora oggi producono. Questa è la mia eredità che io vivo come un impegno a difenderla, ad arricchirla e a tramandarla, perché in effetti io sono questa eredità ed essa fonda la mia dignità. 34 Così come io mi sono formato, così parimenti si formano in dignità tutti gli altri uomini a qualunque cultura appartengano. E come io sono il centro del mio mondo, so che ogni mio simile, ogni singolo essere umano dovunque sia nato, è il centro del suo mondo. In questo percorso di formazione consiste la coscienza e l’autocoscienza; e in questo riconoscimento reciproco si crea la ricchezza, la bellezza, la varietà infinita dei mondi umani, mentre non esiste un unico mondo materiale, un universo oggettivo che comprenda gli uomini quali moscerini intercambiabili su uno sperduto pianeta. E non esiste un unico spirito più o meno assoluto, né un’unica vita spirituale, né un unico mondo spirituale. Se proprio si vuole, si potrebbe dire che il mondo spirituale è un multiverso che non soffre confini e continuamente si espande utilizzando le migliaia di lingue naturali e i più svariati linguaggi artistici e scientifici inventati dagli uomini La vita spirituale in verità è il più elevato frutto del cervello di ognuno di noi, con i suoi miliardi di neuroni e di miliardi e miliardi di sinapsi che li collegano, dove agli estremi confini è assurdo porre obiettivi e censure. La vita spirituale è come una grande isola di libertà in espansione alla quale si può approdare da infiniti punti di attracco, ma dove si entra, si sta e si riconoscono gli altri solo per dignità. Questa è la realtà che la tracotanza del denaro e l’orpello dello spettacolo non potranno mai nascondere o corrompere. Ed essa è ancora la vita con la sua sovrabbondanza che si evolve, si differenzia e si moltiplica in libertà, cioè grazie al caso e alla selezione naturale. Trattandosi della vita spirituale, il caso è più propriamente la vagabonda curiosità d’una persona adulta e 35 istruita; e la selezione naturale è più propriamente l’igiene che ognuno di noi deve perseguire per bloccare le infezioni nocive dall’esterno e per liberarsi dalle scorie di nostre vecchie certezze e abitudini mentali, difendendo però i fondamenti del nostro essere. L’igiene spirituale attuata conosce e dunque mostra il cascame volutamente non accolto dall’esterno. E’ la parte rigettata dalla nostra libera scelta. Oltre c’è solo il troppo, il troppo lontano, l’ignoto, che finché rimangono tali non sono oggetto né di scelta né di rifiuto. Dall’altra parte l’accoglienza dall’esterno è il libero riconoscimento della dignità spirituale delle opere altrui offerte alla nostra attenzione dal caso e dalle nostre ricerche, è il sedimento della libertà che costituisce la nostra personalità perennemente in divenire. Invece il rifiuto o il superamento dei nostri pregiudizi è un atto volitivo con vari gradi d’esclusione cosciente che vanno dall’indifferenza e dalla sazietà fino a raggiungere l’allarme più vigile contro i veleni che altrimenti ammalerebbero il nostro spirito rendendolo più meschino invece d’allargarlo; e che alla fine lo annienterebbero. Questa igiene su noi stessi richiede la ferma convinzione di essere ciascuno il centro insostituibile del mondo, compito sfida grazia peso o maledizione da cui ci libera solo la morte. Cos’è la coscienza e l’autocoscienza se non questo? La profonda igiene spirituale, questa vigilanza, questa convinzione può giungere fino all’austerità più severa, fino alla povertà più netta, fino al silenzio nostro nel parlare e nello scrivere, e di altri non ascoltandoli nel loro parlare e nei loro libri. Per esempio: si possono tranquillamente ridurre al silenzio le cataste di romanzi che ingombrano banconi e scaffali nelle librerie, oppure le rimasticature 36 accademiche che disgustano invece d’invogliare agli studi. Può giungere anche alla risata, allo sberleffo, alla parodia, alla stroncatura, il che è una meritata vendetta. Oppure, ci si potrebbe porre il limite di accogliere non più di un libro a decennio degli ultimi due o trecento anni. E’ un criterio ridicolo, ma forse ha una logica. Soprattutto questa igiene spirituale è necessaria contro gl’influssi negativi, coscienti e ancor più inconsci, del “Noi” come io li chiamo. L’uomo è un animale sociale, certo. Prima però è un corpo che si muove individualmente; e vuole muoversi e camminare anche quando ancora non sa; e al contrario delle piante, col suo moto individuale e con gli organi che la natura gli ha formato per permetterlo, crea lo spazio e il tempo; e lui individuo ne è sempre al centro finché non muore; ed è cosciente; ed è autocosciente di essere al centro perché l’autocoscienza è tutta qui: il vedersi e sentirsi al centro del mondo che si vede e si sente. Se l’uomo fosse rimasto solo un animale sociale avremmo unicamente uno spirito da orda, non sarebbero sorti altri gruppi umani, altri “Noi”: la famiglia, la città, lo stato, l’unione di stati, e la cerchia di amicizie, le professioni, i sindacati e i mille altri “Noi” che nella vita pronuncia l’individuo; e che ad ogni livello richiede una diversa modulazione nell’uso della lingua, richiede narrazioni diverse e l’esercizio diversificato del dovere d’igiene. La parte più difficile dell’igiene profonda si soffre proprio nello sceverare, fra gli elementi costitutivi del nostro essere, quelli retrogradi che ci fagocitano nel gruppo, nel “Noi” verso l’orda primigenia il cui ambito spirituale si limita alla semplice sopravvivenza in quanto orda 37 trascurando completamente l’individuo ed ogni altro “Noi”. Come si potrebbero se non con questa regressione comprendere i kamikaze, da quelli originari giapponesi a quelli islamici d’oggi, o i milioni di morti degli eserciti di coscritti? Nello scavo interiore però io, per quello che mi riguarda, ho rintracciato anche le basi fondamentali del mio essere, quelle solide, che coniugano il mio spirito con la dignità delle opere dei miei simili che mi sono state tramandate e offerte; e che d’ora in avanti debbo, voglio, confido di conoscere sempre meglio e di sviluppare. In questo compito, mio per me, e di ognuno nei confronti della propria eredità, si sostanzia anche quella superiore unità di metodo e caso, indirizzando la vagabonda curiosità nella lettura e negli studi, in qualche modo limitandola e nobilitandola. Il compito mio e di tutti non è certo quello d’impadronirsi della bibliografia universale dello scibile umano, ma di coltivare io il mio spirito e ognuno il suo. E ritorno ai miei scritti: perché, contro la moda corrente, scrivo endecasillabi, sonetti e quartine? Certamente, perché le loro possibilità espressive sono ancora intatte, ma anche come parte di una sorta di disciplina igienica a difesa dei miei fondamenti italiani. Devo su questo punto premettere alcune note sulle culture marginali e colonizzate, tenendo ben ferma la più grande apertura agli apporti spirituali da dovunque provengano, ma senza riverenze servili e con il dovere primario di proteggere e sviluppare la mia eredità culturale e di proporre a tutte le persone sensibili i miei apporti al patrimonio umano. Constato allora che, per la letteratura e la poesia, a parte la 38 forte tradizione classica che continuò a predominare in Italia fino al Carducci, la cultura colonizzatrice fu quella francese. E abbiamo avuto la scapigliatura, il decadentismo, il futurismo, l’ermetismo, tutti tributari di Baudelaire ed eredi. A questo influsso francese si è via via affiancato l’influsso inglese e americano fino a soppiantarlo completamente, col risultato finale di uniformare i pensieri, i sentimenti, gli atteggiamenti esteriori e i risultati poetici in una poltiglia globalizzata di nessuna importanza, che aspira a far parte dello spettacolo e che espone la sua bandiera nel verso libero e nel metro indefinito. Io, per le mie forze e i miei interessi, cerco nella poesia di salvare dall’estinzione l’endecasillabo e il sonetto, come se fossero l’ultima coppia di mammiferi sulla Terra o di alberi sull’isola di Pasqua prima del collasso. Trent’anni fa su queste basi scrissi e pubblicai una stroncatura feroce d’Ungaretti, otto anni fa tradussi i sonetti di Shakespeare polemicamente in sonetti italiani e non elisabettiani. E continuerò. Forse qualcuno ci potrà ridere sopra, ma capisce davvero di cosa sto parlando? Oggi non solo la poesia, ma tutta la cultura italiana è stata colonizzata da infezioni d’origine inglese e statunitense, e mandata ai margini dell’umanità, purtroppo anche dagli stessi italiani. E similmente tutte le culture non anglofone. Persino i fondamenti e la struttura della lingua italiana (e spagnola francese tedesca e tutte) sono colonizzati dalla lingua franca imperiale, il broken english, da cui rifuggono per primi i parlanti sensibili del vero inglese. In effetti questa lingua franca, anche declinata in un falso italiano (o in un falso spagnolo francese tedesco eccetera), e la cultura globalizzata che la usa sono la lingua e la cultura dell’attuale 39 civiltà dello spettacolo. E più che cultura e civiltà dovrei dire “corruzione dello spirito”; e nella politica dovrei dire “decadenza dell’impero statunitense”: la mondializzazione della civiltà dello spettacolo è come l’ultimo rimasuglio del primato USA nel mercato globale, a parte le bombe atomiche e nucleari che hanno sì un grandissimo valore ma non una dignità. Beninteso, non lo spettacolo in se stesso è corruzione; può essere uno svago, un riposo, uno stimolo fra tanti per riflettere o perdere tempo. E’ la sua simbiosi col denaro, unità astratta d’ogni prodotto umano e d’ogni cosa naturale, che a tutto assegna un prezzo, compresi gli esseri umani. E tutti, esseri umani, prodotti e cose, possono essere paragonati nel loro prezzo: costa più una bambina da rapire e avviare alla prostituzione o un metro quadrato d’appartamento nel centro di New York? Questa natura ineludibile del denaro di uniformare tutto e di cumularsi in poche mani, quando si riversa nello spettacolo, ottiene i due effetti che ho già accennato: l’elevazione in una mandorla sugli altari dei ricchi, dei famosi e dei potenti (oggi queste tre categorie si possono graziosamente raggruppare nell’unica di “coloro che hanno avuto successo”); e laggiù in basso la moltitudine meno graziosa dei fedeli, degli spettatori passivi, dei falliti che non hanno avuto successo, ma che vi aspirano per tutta la vita, spesa o ancora da spendere nell’adorazione. Si noti di sfuggita che questo risultato ha permesso per secoli e millenni la nascita e la permanenza delle caste sacerdotali di tutte le religioni. Si noti ancora di sfuggita che lo spettacolo si allestisce non con i concetti e il pensiero, ma con le storie, le storiacce e le storielline, una volta dei miti e dei poemi e ora dei romanzoni di almeno settecento pagine, per finire, 40 nel cinema e nella televisione, con l’abbandono non solo dei concetti e del pensiero, ma persino delle comuni parole disperse in un mare d’immagini. Oggi, con l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, questa civiltà dello spettacolo ha invaso con le sue storielle tutte le ore del giorno e della notte d’ogni uomo civilizzato e tutti gli ambiti umani, la politica e il giornalismo subito e con gioia degli addetti, e poi la poesia, la letteratura, la filosofia, le arti e la scienza, con i loro vergognosi festival sparsi per l’Italia e la pietita presenza sui teleschermi. Come tutti i sistemi di potere non fondati sulla dignità degl’individui, la civiltà dello spettacolo continua a preparare veleni e magie nel tentativo di mantenere in uno stato di privazione cerebrale la moltitudine dei fedeli, un vero parco buoi del successo altrui: buoi appunto con la cavezza per tirarli dove vuole il padrone. Ma che c’entra questa corruzione dei cervelli con la necessità d’ogni essere umano di formarsi una personalità e di espandere il suo spirito? Vorrei dire, che c’entra con l’aspirazione di ognuno di noi a dare alla realtà grezza e informe una forma di hybris verticale e qualitativa, e non orizzontale e quantitativa? Che c’entra dunque il denaro e lo spettacolo con la dignità? Qualche secolo fa gli attori e i cantanti (specialmente donne, non importerebbe dirlo) dovevano essere sepolti in terra non consacrata. Purtroppo anche allora papi e re, e qualche volta anche i poeti, venivano sepolti nelle più belle chiese. Oggi sarebbe ora di confinare tutto ciò che è spettacolo, affrancato il più possibile dal denaro, in un piccolo promontorio dell’immensa isola della vita spirituale. La quale naturalmente non riguarda solo la poesia, di cui ho trattato qui perché di questo qui mi occupo. Forse, di più, la 41 vita spirituale si manifesta in un mio simile che coltiva dignitosamente cipolle e mi giudica dal centro del suo mondo come un essere umano abbastanza ridicolo, ma spero non del tutto privo di dignità. Perché non ho detto niente di utile per fare soldi, niente che possa servire da pretesto per fare del male agli altri, niente che impedisca la libertà, la dignità e le possibilità di sviluppo di ogni essere umano in campi anche lontanissimi da quelli a me vicini. Queste sono le premesse che sostengono i miei scritti, le mie letture, i miei studi, le mie accoglienze e i miei rifiuti. Spero che qualche lontano lettore possa trovare in esse un motivo di riflessione per la sua vita spirituale. A me, per le forze, il tempo e i casi che ho avuto a disposizione, queste premesse hanno consentito e tuttora consentono di partecipare all’avventura umana in modi che ritengo dignitosi. In conclusione, la vita ha questo di bello, oltre alla risata: che la nostra vita per ognuno di noi è unica, ma la vediamo riflessa in milioni di modi negli occhi del prossimo. Per ognuno di noi è unica ed è perciò anche seria, unica e seria. E troppo breve per esaurire tutte le risate del mondo, tutti i riflessi negli occhi altrui, tutte le vere conquiste spirituali prima di capire d’essere caduti nella hybris. Marzo 2009 R.B. 42 DIARIO DI QUESTO MILLENNIO 43 44 ANNO 2005 45 46 Q.N. 30 Aver compiuto o compiere un’azione? La falsità dei verbi nel presente ci racconta la vita e la impedisce. E’ più semplice vivere o parlare? 11-1-2005 Q.N. 31 Non odo voci, parlano le notti coi pensieri vaganti dell’insonnia; mi sfugge il senso o non c’è, vedo quasi monti vicini per chiarezza d’aria. 22-1-2005 48 198 – L’AQUILA Se fossi l’essere non sarei uno. Se fossi il nulla non sarei qualcuno. Se fossi moto non arriverei. Se fossi freccia starei fermo in aria. Frusto e assurdo da sembrare tenero il luminare accademico lustra, aquila solitaria fra gl’inchini, riviste, libri, corridoi ed aule. Da nascoste premesse, senza libri, o parole, o concetti, si concretano inaspettate vite. E intanto l’aquila: se fossi una ghiacciaia sarei ghiaccio, se fossi una fungaia sarei fungo, se fossi una mugnaia sarei munto. 14-3-2005 49 Q.N. 32 Non vivo la mattina dalla sera. La dimentico, forse la significo: una fiaba, un accenno, un velo candido, una storia che, forse, mi significa. 26-3-2005 50 199 – VARIAZIONI Pasqua di pioggia. Un grigio pomeriggio d’ozio svagato ha scoperto il mio ingegno. Sono un genio: le Variazioni Goldberg distorcono seriose un’aria astratta; i tigli, drasticamente potati, e i platani, che seminano ancora i vecchi frutti, son pronti a partire per le infinite varietà d’amore; se io amo tu ami egli ama noi amiamo voi amate essi amano, verbi, persone, situazioni variano. Non so il perché, di queste variazioni indulgente sorrido, e di me genio. Ché mi limito a variare i misteri. 27-3-2005 51 Q.N. 33 Riconosco l’aprile d’oro liquido. In sé forse ribolle il sole, ed io in me. Ma qui confortevole aspetta. E anch’io aspetto, calmo, altre magie. 2-4-2005 52 200 – DUECENTO VOLTE Come un roco pittore che ripete il suo trito stilema, estenuato scrivo il diario d’un solo sospiro duecento volte in quattordici versi. Perché continuo? Troverò il silenzio, risposta dello spirito e dell’oltre? Il silenzio del mancante domani? Il silenzio perché tutto fu detto? Ma forse so, se mai prima sapevo, ora perché più non esiste ieri? E che ne fu? E sarà mai domani? Non conto più: duecento volte è un uno che nel presente nega le risposte centonovantanove volte date. 12-4-2005 53 201 – LA MAGIA Emerge alla coscienza il manto verde della magia dal profondo scrigno che, benedetto, rinnova i miracoli di antichi parti della madre Terra. Ma se pretesa ad arte levatrice di doglie isteriche d’uomini sterili, la magia s’indemonia, maledetta, in nere liturgie d’onnipotenza. Vorrei volere il tutto della vita, creare ed essere ogni specie, assolvere ogni nascita mia e di me madre, plasmare il nulla e la materia enflata, io sfera immobile. Poi m’allontano. E cerco un piccolo ventre di donna. 23-4-2005 54 202 – IL COMMERCIO E IL DONO Non ho messo in commercio magazzini d’iniziatiche gemme dell’Acquario, né silos di granaglie sapienziali, né depositi di scienze orientali. Nemmeno fo commercio dell’assurdo con libri sacri e paramenti strani. Cito la Bibbia e miti a me vicini quali metafore piane. Non vere. Cosa cerchiamo di fare, scrivendo? Cerco, io, di chiarire al noi quell’io da sé, grezzo, inespresso, per lì sciogliermi, nella mia lingua, in un nobile noi purificato ch’io possa inglobare nel solo dono che apporto: il presente. 2-6-2005 55 Q.N. 34 Non come il pino radicato in alto, ma con spire profonde il ventre duro perforerò dei fatti e della terra, coltivando il linguaggio ricevuto. 11-7-2005 56 203 – SETTIMANA LAVORATIVA Come se il mondo esterno fosse stanco di oscillare fra passato e futuro, chiudiamo il sole nell’attimo d’oggi, mercoledì, dei cinque giorni fulcro. Sole immobile, ognuno in sé raccoglie d’ogni passato o futuro la luce, d’ogni spirito il frutto e l’energia. Materia stanca e spirito centripeto? O è lo spirito stanco? E nell’eterno qui e ora s’appaga e si ritrae, troppo debole per guidare il tempo? Un’ombra di torpore e sazietà c’illude nel lavoro quotidiano d’arginare un vulcano che spaventa. 11-7-2005 57 204 – GIOCHI D’AMORE Qual altro gioco inventerò d’amore? Col rasoio sull’io dei sentimenti, come discepolo d’Occam, denudo il re me stesso davanti a me stesso. La modesta superbia multiforme rivendico come unico gioco dell’amore sovrano che nasconde nel più semplice stare tutto l’oro. Non so le forme: precipito vivo godendo la lussuria che si offre, nella bonaccia del presente, all’essere. Certo, godo il peccato di non dare. Quale dono se non parole umane, semplici, nude, accamperei a discolpa? 9-8-2005 58 205 – LA DURATA Com’io per me non morrò mai, così durano tutti i noi che mi comprendono: istante che al vivente eterno appare uguale di durata nel durare. La mia lingua italiana e la sua storia, la civiltà che da Omero mi inizia, l’umanità da che in Africa nacqui, altri, non io o noi, vedrà morire. E ucciderà la glaciale entropia galassie, stelle e la durata e il tempo, negando testimoni o eredi e pianti. Ma che il mondo dall’inizio alla fine sia d’eterna durata come il noi , come il mio corpo, io testimonio ora. 10-8-2005 59 206 – I KAMIKAZE Vento pigro da sud e pioggia bassa, il mare e il cielo un calmissimo grigio: ieri un sole ventoso sulla spiaggia consentiva il commercio agli ambulanti. Uno, arabo, giovane bellissimo, venduti, orgogliosamente umiliato, due asciughini, rispose: “Non ho amici, io, né parenti: vengo da Torino.” Oh mio fratello, principe d’Allah in terra d’infedeli che Torino, madre matrigna, minacci a vessillo! Io come te straniero sulla Terra, pur disgustato dal marcio, diffido della mia rabbia, misericordioso. 11-8-2005 60 Q.N. 35 Piove: indugiano alcuni sulla spiaggia, altri fuggono, tre ragazzi nuotano incuranti ai richiami del bagnino, molti nei bar. E’ più in alto la vita? 12-8-2005 61 Q.N. 36 Schegge di sole, dalla scia maestra più larga all’orizzonte, dai miei piedi innalzata fino al biancore concavo che me e il mare sovrasta, fermentano. 13-8-2005 62 Q.N. 37 Neve d’agosto, il lago della luna nel mare alto sprofonda a Occidente. Il buio ha preso l’Elba e la Capraia. A Oriente, nulla mai? Forse domani. 15-8-2005 63 Q.N. 38 Più amo i singoli e meno amo i troppi, maligna società degl’imbecilli, cancro egoista che non sa morire. Solo un gonfiare e replicarsi cieco. 16-8-2005 64 207 – LA VERA FEDE Perché andare e convertire gli altri? Non basto io o la verità non basta? Da quanti più goduta si fa vera una fiaba o potente chi la narra? La verità non è un potere, è. Semplicemente muove le stagioni e indifferente ci trascura e tace: semplicemente allora ci fa liberi. Chi mi dice che morto andrò all’inferno e vivo non godrò la buona gioia finché non credo ai suoi miti, mi offende. Scendendo sul suo piano potrei dirgli: “Ma cacciatela in culo la tua fede!” ma sto sul mio, e solitario dubito. 22-8-2005 65 208 – RAZZE E CULTURE Mia madre l’Africa mi separò dal ceppo delle scimmie e per millenni con materlineari dinastie conquistò i maschi di tutte le terre. Lo Spirito mio padre eiaculò Ur dei Caldei, la Sfinge, Atene e Roma, Gerusalemme e i Rotoli e il Calvario, l’Italia e la sua lingua che mi onora. Distillerà il mio sangue l’Asia estrema, Budda e Confucio e la Sacra Trimurti, l’unica Luce della Mezzaluna, e in Africa tornando, l’animismo. Sono un fiero meticcio universale e mai fornicherò con gl’imbecilli. 25-8-2005 66 209 – QUARTO ANNIVERSARIO Gridan vendetta molti nel dolore: “Occhio per occhio, anima per anima”. Imbelle sfogo degli offesi, giusto, lacerati fra silenzi deserti. Ma altri tanti predicano fede, parola droga sconcia di potere, su molte genti di futuro incerte terribili nel terrore dell’Altro. Io ascolto sul terrazzo varie piante di lingue sconosciute che mi parlano con la bellezza dei loro colori, mi educano all’armonia delle forme, mi esaltano al futuro mio e loro, senza paure, prediche o vendette. New York 11 settembre 2005 67 210 – QUALCOSA ESISTE “Perché qualcosa esiste e non il nulla?” Perché chiedi il perché? Esiste, basta. Perché piuttosto la parola nulla, sinonimo dell’oltre e della fine? Arriva Ottobre e svanisce Settembre. Queste che ho scritto stupide parole, d’osservazione ordinaria sublimi, sono la vetta della mia poetica. Tradurre i fatti in parole sensate fuggendo l’escrescenza di pensieri sazi del vomito d’altre parole. Lascerò il nulla spumeggiante ad altri. Un sorriso mi basta, una carezza, il mio sguardo sul mio piccolo essere. 16-10-2005 68 211 – L’ILLUMINATO Profondamente meditai a lungo regolando il respiro all’orientale. Mi mancò forse il tibetano o il sanscrito, o il digiuno o una droga o un campanello. Ho ventilato il sangue e digerito, questo sì. Quanto alla luce, era giorno: se mai diventerò un illuminato vorrei fosse di notte, per vedere. Se non ricordo le vite passate dov’è l’uno dall’inizio alla fine che si educa e soffre e si rincarna? C’è un uno che pervade ogni respiro: qui e ora il presente; e la ragione che pulendo le tenebre c’illumina. 24-10-2005 69 Q.N. 39 “Storico e grande l’agire potente!” Meschino invece il fare quotidiano? Ma quando affogheremo nell’oblio quest’inversione da schiavi plaudenti? 5-11-2005 70 212 – IL REDENTORE Non vedo i limiti, inizio e fine. Navigo nella bolla del presente, immaginando fuori della sfera dalle memorie ai progetti un continuo. Do un senso all’essere compassionevole di questo mondo di viventi e cose: forme sensibili per questo corpo, forma esso stesso e creatore insieme. Di natura divina io m’incarno, non padrone e signore della morte, ma redentore del mondo, colui che sempre più con la ragione afferma il continuo crearsi del presente. E Dio, solo per sé la morte accetta. 12-11-2005 71 Q.N. 40 Ore d’angoscia. Abbandoni e carezze. Miopi misteri. Chiarissima pace. Nega il percorso unitario del mondo il violento cozzare in alto e in basso. 25-11-2005 72 Q.N. 41 Il taglio trasversale della pioggia… Vento costante di tristezza viscida… Né luce o buio: un lunedì viola vìola il percorso visivo degli occhi. 19-12-2005 73 Q.N. 42 Morbidi fianchi di femmina neve dalle montagne specchiate di sole invitano su di loro a giacere, del continuo gocciolare dimentichi. 29-12-2005 74 213 – IL FLAUTO PARI Aria ferma, crepuscolo lentissimo, ed io non ho paure o desideri: si fermerà all’orizzonte il tempo? la notte, sospensione della vita? Solo un attimo ed è già buio. Un attimo! Nell’assolo di flauto Bach mi parla, magnanimo. E un desiderio sorge: la nostalgia dei miei pari. Sereni. Dio, nei migliori, spoglio di potere, incarna nel suo nome il desiderio degli uomini di vivere fra simili, eletti in armonia con tutti gli esseri senza invidia di tempi, corpi o spiriti, per la serena parola d’un flauto. 30-12-2005 75 76 ANNO 2006 77 78 214 – TRAMONTO INNOCENTE Oh, com’è bello un tramonto innocente! Come un tramonto innocente che spande calma, bellezza, innocenza finale, vorrei che al mio tramonto l’innocenza, incarnata di versi nella luce che tra i monti declina, sospendesse ogni attimo crudele dell’intero arco giorno nell’attimo sublime. Poiché innocente la bellezza appare dell’inferno nucleare del sole se incastonato fra i miei monti amici, spero in futuro d’acquistare amici che catturino sempre del mio sole l’attimo fermo che innocente appare. 10-1-2006 79 215 – LA RICERCA I miei pari! Sto cercando i miei pari e piango, silenzioso, senza lacrime. Senza riscontri o incontri, in solitudine, sto cercando i miei pari. Inutilmente? Non nei viventi: tutti sono uguali in quest’ansia di colori e tormenti, nelle feste d’amore, nell’oblio malinconico d’ogni luce e forza. Più in alto, forse in qualcosa più astratto. Spogliatomi di vesti, essenza nuda, sto cercando le pure essenze pari, non a chi dette risposte, a chi visse vite come domande in sé risposte. Sto cercando completezza nell’essere. 14-1-2006 80 Q.N. 43 Oh, il rosso della vite americana! Infiamma di bellezza: vite e rosso. Ma al disfarsi, vivendo, della vita, il bruno sfatto del rosso sgomenta. 22-1-2006 81 216 – TRAMONTI E GABBIANI Non di tramonti, dicono, o gabbiani, di frigoriferi invece dovrei poetare, o d’inevasi punti e virgola loro. Ho due frigoriferi pieni e non mi dicono nulla; volendo, potrei scrivere una pagina intera di punti e virgola: stupidi segni che non reggono alcun senso d’eterno. Certo un tramonto è difficile, duro da spogliare dai secoli; e un gabbiano, per chi vede una parola, non vola. Io vorrei, non poetare, pregare il gabbiano dalle stanche falcate che al mio tramonto mi faccia volare. 23-1-2006 82 Q.N. 44 pregare l’Altro da me come Tutto tutto in me compenetrato vorrei vorrei abbandonarmi e nel risorgere risorgere da qui nuovo e pregare pregare… 12-2-2006 83 Q.N. 45 Attimi inermi violentati in pagine di poesie, imbalsamati spasimi, scrivo tristezze incomprese nel flusso da un breve ieri a un terminale oggi. 25-2-2006 84 217 – MORTE DI UN FRATELLO Dolore scisso di tronco e radici mi strugge del più bel tiglio di fronte, sacrificato da una specie aliena per sgombrare al destino un marciapiede. Foglie mai sciolte, fiori mai esplosi, che dal futuro nulla oggi rimpiango, vedrò donarmi dagli altri fratelli. Altre, altri, non quelli suoi, miei. Forse smembrare un albero vivente nell’orgia di marciapiedi apollinei rende tragico il destino di morte di Dioniso ubriaco. Ma io soffro. Solo a un pensiero spettatore appare eroica la tragedia e sacra l’orgia. 5-3-2006 85 218 – SGOMENTO Oh, il rosso della vite americana! L’immagine d’un tralcio nel ricordo, fioco lume che allampanando illumina, infiamma di bellezza: vite e rosso. Ma al disfarsi, vivendo, della vita, quando il tempo la bellezza contamina, il bruno sfatto del rosso sgomenta. C’illuderà di ritorni futuri? Nell’eterno presente degli Adesso, che non passando in nuovi mondi esplodono, il primo rosso della prima vita resta incorrotto; nell’eterno ciclo invece tornerà in eterno. Io, anche sgomento, mi attacco all’effimero. 12-3-2006 86 Q.N. 46 Un dio meschino onnipotente a Sodoma: La Terra estranea all’uomo onnipotente: “Così distruggerò la tua città, per mia virtù, affinché tu mi tema!” 30-3-2006 87 Q.N. 47 I profondi legami che armonizzano il sé nel mondo e il mondo in questi versi se siano e dove, e come l’uomo crei un’armonia che lo comprende, ascolto. 1-4-2006 88 Q.N. 48 Forse cogito ergo sum, forse no; perché non sa, il latino lapidario, le sfumature d’alterni futuri. Forse si vive col metodo “Forse”. 28-5-2006 89 219 – VENTI E RADICI Quasi autunno: da Nord un vento freddo rovescia i tralci di surfinia lilla che orgogliosi gonfiavano il balcone. Che traccia lasceremo, noi al vento? Festa della Repubblica Italiana, sessant’anni: chi è vissuto ed è morto, chi ancora è qui e sogna in questa lingua, può dire io fui, io sono, io sarò sempre l’Italia? Da mille anni orgoglioso, a tutti i venti sciolto, alle radici fermissimo, astraendo dal sé, può. Se astrae dal tempo e solo l’io sente, può. Se nel tempo e nell’io e nel tutto insieme è fermo e sciolto, allora è. 2-6-2006 90 220 – LA ROCCIA Come bisonti impazziti corriamo contro una roccia. E gli ultimi vivranno: sopra montagne di carcasse, spugne gonfie di sangue e gradini per l’oltre. Pretesti-falsità: democrazia, scontro di religioni e civiltà, guerra al terrore e guerra di terrore, stati impotenti sulla loro forza. C’è qualcuno che sa o sono solo? Irrespirabile l’aria che soffoca, acqua sporca, claustrofobici spazi, lingue barbare a cui i nostri non ridono. In troppi siamo e vogliamo. La Terra roccia è davanti: gli ultimi gl’insetti. 11-8-2006 91 Q.N. 49 Con lo spettacolo, perso lo spirito, ammaestrano i deboli alla fede: troppo difficile credere agli occhi, e al pensiero che ci pensa nel mondo. 13-8-2006 92 221 – IN MEMORIA DI HINA SALEEM E LE ALTRE Fiore sacrificato a atroci dogmi anche alla libertà toglie il suo dogma: non l’altrui libertà, ma dubitando la nostra igiene il nostro agire limita. Come una scala che sprofonda o innalza, la giusta causa dell’agire libero, rinchiusa nella lettera meschina altrui per noi, ci sprofonda in tragedia: “Nel cerchio culturale che mi libera, gli altri son vincolati al mio rispetto: perché vigliaccamente mi tradiscono?” E’ negativo l’amore profondo delle proprie radici. Nell’igiene cresce il fiore che purifica l’Hybris. 17-8-2006 93 Q.N. 50 Ho ballato e gioito al matrimonio spagnolo di mio figlio: d’acqua pura ubriaco, con vero oblio dimentico, da uomo saggio che apre gli occhi e sogna. 5-9-2006 94 222 – QUINTO ANNIVERSARIO Cosa accadde di puro, vero, saggio, ora che senza musica ricordo ubriaco di libri e di pensieri? Comprata merce, ubbidito al potere. E che avverrà nella storia reale? Ricostruiranno fameliche torri, mentre di vite modeste ci parlano gl’imbecilli che applaudono l’impero? Pochi morti – a migliaia – e lo sgomento, puro, vero, non saggio, pei miliardi di vite collassate che ci attendono, riscattano persino la pigrizia quale saggio acquietarsi nell’attesa, se ogni azione-pretesto ci avvicina. New York 11 settembre 2006 95 Q.N. 51 BREVE AI PRĬNCIPI: Perché? Su ingiallite precocità sta oggi l’equilibrio: A quanti oggi precoci affideremo, retrocedendo, futuri squilibri? 4-10-2006 96 223 – VENDERSI Vendere, vendersi, esibirsi ai soldi: la vita dello spirito sparisce in balletto di chierici a comando. Non è il comprare, è il vendersi il peccato. Farò la volpe che disprezza l’uva: marcia in milioni di copie, dipinta a filari, barili filosofici telepromossi in calici eruditi. Mi suggeriscono di non comprare, o comprar poco e solidale e bio: mi vorrebbero in un altro mercato. Basta! Ho bisogno d’aria pura, gratis, e di emettere spontaneo un mio soffio: ho bisogno di non vendere l’anima. 7-10-2006 97 224 – RECIPROCITA’ Guardare e non vedere, distraendo all’infinito gli occhi, all’infinito focalizzando la seconda vista sullo sfondo indistinto dell’esistere, matura i veri frutti del pensare uno l’umano, il vivente e le cose, a volta a volta, dal centro dell’uomo, di chiunque respiri, o di chi regga la solida colonna inanimata che in un mondo di anime diafane ancori a corpi pesanti gli slanci, per capire alla fine il vero ordine razionale del reciproco stare qui, o nel fuoco, o all’infinito sfondo. 15-10-2006 98 225 – ALTRE STAGIONI Tre torte al cioccolato e vino doc, undici stanze due bagni e cantina, tre auto in tre, vestiti innumerevoli, e niente trema se non il presente. Cadere lento d’un giallastro sporco sul grigio triste dell’autunno. Penso, o mi lascio tremare da una foglia? Dovrei godere l’attimo e le cose. Ma è qui ed ora che il presente trema: non è per me, o per la mia vecchiaia, che cadono le foglie, o per l’autunno. Ciò che cade tremando delle cose è che non sorgeranno altre stagioni: l’uomo nel troppo ha perduto il futuro. 21-10-2006 99 Q.N. 52 Bianchi batuffoli fra terra e cielo, nel calare della luce al tramonto, rendono morbide le asperità nel soffice presagio della notte. 22-10-2006 100 226 – TROPPO Come tradurre in italiano hybris ? Il superbo peccato capitale di scegliersi titano contro Dio travia su vecchi miti la ricerca. Già l’arroganza calda d’un ottobre che s’impone all’estate chiede all’oggi, non la risposta semantica, l’arte umile d’interrogare le cose. Troppo chiedemmo al passato di svolgere sensi pei fasti d’un nostro museo, troppo al presente anche di buono e bello, e al futuro di congelare i secoli troppo simili a noi. Dal fiore Gaia troppo volemmo e troppo avremo: troppo. 30-10-2006 101 227 – MANIFESTARE Manifestare, o non manifestare? Prender altri per mano e render chiaro, o arrendersi al mistero e convertirsi al non espresso o al troppo dire occulto? Il semplice legare verso a verso in partitura rigida e compiuta, con vincoli d’accento e poche sillabe, manifesta lo scheletro del vero. Con l’onda delle cose e del sentire nell’incarnato di mille sembianze si plasma l’aderenza col reale. Perché tacere, o impoverirsi al buio di prolissi misteri mai sorretti dal vero e mai di colori incarnati? 5-12-2006 102 228 – SUONI E CHIACCHIERE Scardinati sproloqui poeteschi, prolissi romanzacci medievalfantastici, claudicanti libercoli di attori e giornalisti: Dio, che merce! Quando e perché dovessi ancora scrivere prosa non so. Citando questo e quello da insigne professore dovrei scrivere sistemi filosofici in più tomi? Quando reggo la regia via maestra, si disfanno i milioni di lettori e internet sa di morte petrolifera; guardo invece me stesso e il mondo in uno, e cerco i suoni su un’unica pagina. Se sono chiacchiere, che siano brevi. 19-12-2006 103 104 ANNO 2007 105 106 229 – VIVI NASCOSTO Non rincorro lo spirito del tempo, da lontano l’osservo e un po’ ne rido. Altri si fermano al suo caldo abbraccio; io scavo, Lathe biosas, nel mio spirito. Non rincorsi lo spirito del tempo per insicure forze giovanili. Poi stroncai con minuzia opere altrui: maschere oscene di carriere e soldi. E imparai da Epicureo. Lathe biosas: silenziose preghiere nel deserto e nella vita il vivere comune. Non volli grandi commerci, bastò d’ogni tempo lo spirito. Nascosto. Quel che io feci di compiuto resta. 1-1-2007 107 108 MORES MAIORUM 109 110 230 – LEX PRIMA Risum teneatis, amici? (Orazio, Ars Poetica, 5) Settimina come i rami dei tigli nel traditore inverno di quest’anno, nasce prima del tempo l’allegria di poetiche gemme sapienziali. Conoscenza e avventura, o forse gioco, mi sfidano a cercare dei miei gruppi dodici almeno antichissime leggi che il volto umano fissano e rivelano. Tra il pensiero che impersonale giudica e il folleggiante io che sente e ride, la severa allegria spero mi guidi. Mai stolto, il Noi gl’individui trascura. Con altri gruppi seriamente tratta, sì sì no no: difendersi o morire. 17-2-2007 111 231 – LEX SECUNDA Nemo propheta in patria (Luca, 4,24) La profezia come tabù: incesto di valori futuri nel presente, del possibile unico nel tutto, del peccato d’esistere nel nulla. Incesto e profezia, uscita e scambio: figli e profeti fonderanno fuori, tra pericoli smarrimenti e morti, altre famiglie e mai comprese scuole. Ma se il fuori degli altri è il noi protetto, perché il tabù? Domanda vereconda d’un pensiero che gode incesti osceni. Sia perciò maledetta l’eresia del pensiero che astrattamente affermi il Noi ineguagliato uguale all’Altro. 31-3-2007 112 232 – LEX TERTIA E pluribus unum (Motto degli Stati Uniti d’America) Se intorno a noi rotante l’universo, come sfera armillare a nostra gloria, sparsi attimi di speranza centra nell’individuo immaginato neutro, di gioia danzo e canto sbeffeggiando chi davvero ci crede e l’Uno pensa. Io, da te donna, pretendo l’amplesso. Tu parla: sogni la casa d’amore? Da forze ostili ci faremo coppia: dal due, i molti; nel due, tu io noi; solo la morte è la metà di due. Minimo gruppo, l’unità pluràstica d’ogni gruppo rivela la sorgente, tra violenza ed amore, di energia. 3-4-2007 113 233 – LEX QUARTA Miseris succurrere disco (Virgilio, Aen. 1,630) Non ignaro del bene, quanto male l’evanescente morale causò (cinicamente rido) con le ipocrite regoline sempre prone al potere? Da grande cinico e da gran signore, elargirò ogni briciola con cura a sempre più distanti noi concentrici, cantando lodi agli ultimi e affamandoli. Se mai misero, io, ed affamato, smetterò il lusso di fare l’ipocrita, stringerò il cerchio e ucciderò l’estraneo. Dei miei gruppi oltre il limite, l’umano senza confini del cielo stellato violenta il vero e il male altrui mi arreca. 14-4-2007 114 234 – LEX QUINTA Quid sumus et quidnam victuri gignimur (Persio, Sat. 3,66) Da uno a cinque o sei o sette o otto (o forse cento?) dentro me gli omuncoli, seri seri col cartellino al collo, a seconda del rango e del primato prendon possesso a turno dei tiranti e al mio corpo comandano: «Ubbidisci: ora parla lo stato, la famiglia, la classe, il ceto, o la tua santa chiesa!» Come sarebbe caldo il mondo ingenuo, o sacro caos fascinoso tremendo che ovunque sei e ovunque tu risorgi! Né gerarchie, né gradi, né primizie salveranno dal caos i gruppi eredi del gruppo che sfuggì dal primo caos. 14-7-2007 115 235 – LEX SIXTA Philosophia omnibus lucet (Seneca, Epist. 44,2) Come comprendere il male assoluto? Che luce brillerà ai nascituri, se ai defunti la luce eterna splende e ai vivi ogni mattina il sole canta? Dovrà qualcuno (dovrò io ridendo?) gl’inganni della luce agli occhi togliere: il commercio coi morti come gruppo venèfici Aldilà eterni impose. Or che il passato sbianca e ne ridiamo, estraggono al futuro il nuovo gruppo dei Nascituri del Bene Assoluto. E risorge a contrasto fra i viventi dati già morti l’Inferno Assoluto. Per noi, no! Noi immoleremo il capro. 17-7-2007 116 236 – LEX SEPTIMA Philosophia ad paucos pertinet (Quintiliano, Inst.or. 8,24) Nessuno dubiti del nostro Nomos: millenni fa misurammo la terra. Prima fu pascolo dei nostri armenti; poi campi arati da buoi poderosi, e castelli e città con alte mura; ed ora stati vasti fino al mare. La Terra intera? Che nessuno infranga il primo nomos che cacciò l’estraneo. Quale diritto accamperei sul Tutto? Nel bisogno dell’Altro per fondarmi sempre rinnegherò l’Uno mortale. Misurerò di nuovo un primo pascolo per battere il maligno che prolifica: pochi saremo e incideremo il cancro. 21-7-2007 117 237 – LEX OCTAVA Ut sit mens sana in corpore sano (Giovenale, Sat. 10, 356) Da forze cieche in un’ansa del tempo primo ordine creato fu il corpo, corpo fra corpi, elica fra eliche, giovane e sano o sofferente e morto. Ordine superiore del creato ed oggi ordinatore delle regole, l’umano è il caos organizzato in gruppi legati da un contagio detto “Mente”. E finché il corpo si nutre di corpi e contro l’entropia intanto naviga, ha la salute del calore e vive. Ma pur se il corpo è per la vita sano, folle ed esclusa soffrirà la mente quando smarrisca i gruppi che la reggono. 27-7-2007 118 238 – LEX NONA Non scribit cuius carmina nemo legit (Marziale, Epigr. 3,9,2) La mania di grandezza non mi angustia. Filosofo, poeta e ierofante, od anche illuso, parolaio e falso, mi chiedo: avrò un peso nei miei gruppi? L’allegria mi travolge e chiedo tutto. Mi chiedo quanto pesi la galassia, o il nostro sole, o le montagne intorno, e quanto infine i gruppi, nel mio spirito. Non lo spirito astratto ma il bifronte, che m’indirizza ligio nei miei gruppi e con l’opposto sguardo i gruppi giudica se in armonia col mio creato stanno, fa la mia vita unica epperciò seria: unica e seria in sé totale. 3-8-2007 119 239 – LEX DECIMA Norit quisque naturam sui corporis (Celso, De re med. 1,1) Il corpo è l’àncora dell’io nel mondo. Ed è anche l’ancòra in ogni istante che, multiforme variando, sviluppa l’unicità dei miei stili di vita. Finché son vivo, io, di questo mondo creatore creato dai miei gruppi, con la mia vita torno a modellare la creta delle tornanti stagioni, sempre più nuove, sempre più profonde, sempre uguali all’insieme “Io e mondo”, onnipotente solo per la morte che, distruggendo me, di nero pianto distruggerà il creato ed i miei gruppi, lasciando forse all’entropia due atomi. 14-8-2007 120 240 – LEX UNDECIMA Paid the exceptional penalty of exceptional honour (Christina Rossetti, Monna innominata) Almeno ricordassi il giorno o l’attimo! Venne. Passò. E non ne ho memoria. E se fui lupo, scimmia, pesce o alga, almeno questo vorrei ricordare. Miliardi d’anni scissi in nove mesi e, mi dicono, nacqui. Altri mesi, potessi ricordarli! e fui impresso figlio, fratello, duttile e italiano. Fui nutrito dai miei e fui protetto finché la mia memoria si formò, unica sulla mia unica vita. Ora ricordo, ma non ho più voglia: l’essenziale lo trasmisi ai miei figli. Ora coltivo uno sguardo sul mondo. 18-8-2007 121 241 – LEX DUODECIMA Nun hab’ ich mein Sach auf Nichts gestellt ( Goethe, Vanitas! Vanitatum vanitas! Qo. 1,2) Quando alla storia per gioco mi arrendo, scopro la specie umana inetta a vivere: venne la guerra e poi tornò la pace; fu ancora guerra e non tornò la pace. Sparuti gruppi di barbari umani posposero la fine di millenni, accelerando la ragione umana col semplice contagio della Mente. Ora, al tramonto, incapace di freni la ragione protende troppo più ombre allungate sul nostro futuro. Resta una cruda, selvaggia speranza: le antiche leggi senza tempo valgono. E ho fondato la mia causa sul nulla. 18-8-2007 122 Q.N. 53 TERTIA DECIMA PARS Non si terra mari miscebitur et mare coelo (Lucrezio, De rerum naturae, 3,842) Senza allegria, come uno stolto rido immerso nello scandalo del caos che ci consente il male e il bene e il tempo, finché la Terra dura ed io non muoio. 19-8-2007 123 124 242 – TU. MA IO? Omaggio a Christina Rossetti Vorrei quel primo giorno ricordare, il primo istante che tu m’incontrasti! Se era luce, buio, estate, inverno, nemmeno così poco posso dire. Tanto anonimo scivolò quel giorno! Fui così cieca a vedere, a capire, così ottusa a notare i miei bocci anni prima che fiorisse il mio albero. Se solo ricordassi un tale giorno, il primo! Lo lasciai venire, andare, senza traccia come neve disciolta: pareva niente. Tanto ora sarebbe, se solo ricordassi il primo tocco, la mano nella mano – almeno questo! 20-8-2007 125 243 – SESTO ANNIVERSARIO Fu l’undici settembre un’illusione? Non i morti, le distruzioni, il male, né la fuga dell’inferiore sperso per eligere il nemico assoluto. Fu l’undici settembre un’illusione? Non il delirio obeso sulla fame compulsiva di cibo e onnipotenza di chi, tutto sapendo, nulla seppe. Fu un’illusione la pietra d’inciampo che sembrò dissepolta e non lo fu, lo scandalo che allora non esplose nell’orgia distruttiva delle fiamme, nella follia di vendette divine, nell’occasione persa di riflettere. New York 11 settembre 2007 126 Q.N. 54 Vagavano parole nella notte, come fantasmi, non dette, future. O senza tempo. Gemiti di parto. Forse vagiti di pensieri altrui. 12-9-2007 127 Q.N. 55 Pomeriggio di festa e guardo piovere, tristezza distillata, acqua inutile. In poche gocce immobili l’estate disfà ogni sua forza e si trattiene. 16-9-2007 128 244 – NOTTE Mille schizzi di nulla e una fornace che bruciando petrolio il tempo accelera c’illudono su noi e sul presente. Arrendiamoci nudi alle domande. Cosa sarà di noi fra mille anni? E fra un milione resterà una traccia? Se dopo la mia morte il tempo tace è la mia vita un battere illusorio? O è illusorio il dipanarsi astratto di numerati secoli, in parametri cari forse alle stelle e a noi abnormi? L’Ottocento è scomparso e il Novecento, tragica farsa, svapora incompreso. Ci fu qualcosa che non fosse notte? 13-10-2007 129 Q.N. 56 Sbatte lanciando frammenti di sole l’imposta al vento d’un rudere vuoto. Per ora il vetro resiste, ma quanto? E verrà una grandinata di lame. 27-10-2007 130 245 – OCCAM Sono mai esistiti i dinosauri? E Ulisse, Omero, Dante e Beatrice? Mi concepirono i miei genitori, o concepisco io la loro idea? Splende il rasoio di Occam solamente come stella in un fuoco dell’ellisse? O permette domande senza senso per affermare il nonsenso del tempo? Vibra il sole dal giallo delle foglie tremolanti nel vento, che sta fermo oggi per sempre nel caduco autunno: è così semplice sbalzare, e lieto, l’unico ente che interseca il mondo, la mia unica vita nel presente. 5-11-2007 131 Q.N. 57 Se conterà i secoli, per secoli maledirà, scavato dalla fame sotto un cielo di nuvole rossastre, noi pingui demoni l’uomo futuro. 5-11-2007 132 Q.N. 58 La via di armonici percorsi umani, lungamente in disunione allevati, per l’amore che sovrano ci vinse io so che tu sai che io so che tu sei. 30-11-2007 133 Q.N. 59 Ormai persi, di pietà trascurabili, guardiamo gli altri, e gli altri noi, fantasmi d’epoche indegne che per scherno il tempo ci fa vedere a noi stessi noi ultimi. 15-12-2007 134 246 – POLVERE Fra papi incerti ed antipapi inutili morì a vent’anni Ottone imperatore. Mille anni soltanto son passati, soltanto mille polverosi anni. Per me, vorrei soltanto mille anni, solo (e tanto!) mille anni ancora, gli ultimi miei che a rotazione tornino: attimo eterno esteso a mille anni. Ma la polvere scossa, che ricade sulle stesse giornate ripetute in riti vani ritenuti eterni? O il mitico invecchiare senza fine in un mondo incompreso sempre nuovo? E penso a Ottone sperso in questo mondo. 29-12-2007 135 136 ANNO 2008 137 138 247 – LA RELIGIONE DI GAIA Quest’isola danzante in equilibrio tra il Sole ed altre forze, Gaia Viva, in dimensioni dai millenni agli attimi ogni attimo ogni millennio danza, equilibrando i ritmi innumerevoli sul battito del piede, che schiacciando forme vecchie di vita partorisce forme altre di vita innumerevoli. L’uomo sempre adorò la Grande Madre, ma Gaia, la religione crudele, non si addolcisce con preghiere o riti, né si adira, non è una persona: indifferente ai sacrifici umani corregge ad ogni passo i nostri errori. 13-1-2008 139 Q.N. 60 C’è sempre un imbecille che ti chiede di definire esattamente un albero, l’arte, il gioco, la lingua che parliamo e persino l’“imbecille”. Ma c’è. 29-1-2008 140 Q.N. 61 Gettare perle ai porci è cosa inutile. Ma santa, di cecità generosa: spargere ovunque ricchezza su tutti. Non giudicatemi col vostro metro. 8-2-2008 141 248 – MOZART Come dovrei da qui pensare il Tutto? Non con parole che gelano in cose, né con strutture ordinate dal tempo, né con i non che negano il mio esserci. E’ volato un piccione dal mio tetto al cornicione di fronte, sbrecciato, superbamente inutile. Alleluia! cantavamo con Mozart, io e loro, loro tutti che c’erano, il piccione, il rudere sbrecciato, il tiglio nudo, il vento gelido nel sole. Ed io. E Mozart che creava il ritmo delle voci, il vero d’ogni tempo, il caldo d’ogni cosa, l’esserci Tutto in me. 16-2-2008 142 Q.N. 62 Perché la nostra psiche viene invasa da peccati che nostri ci convincono per nascondere cause e inoculare scopi-cilicio Masoch-teologici? 20-5-2008 143 Q.N. 63 Continua inesorabile l’estate: stillicidio violento di sudore. Tossico d’umidità, l’equilibrio perde il folle che vuol essere escluso. 5-9-2008 144 249 – SETTIMO ANNIVERSARIO Stanchezza di pensare: dondolare, soltanto dondolare senza attese, senza pretese di pensieri, vuoto, in questo mese termine d’estate. Ma mi rode l’impegno a riproporre ogni anno, per sempre, la domanda: Perché? Cosa nasconde di tremendo nel futuro l’incompreso passato? Alzato, fatta barba e colazione, tranquillamente andai coi miei compagni a morire pur d’uccidere a freddo. Perché? Cosa nascondo di tremendo? Quale massacro mi massacra il cuore? Non so, vorrei soltanto dondolare. New York 11 settembre 2008 145 250 – IL SOLO SACRO Ad ogni palpito milioni di anni e in ogni giorno milioni di palpiti, tristissimi di morte e ritornanti di vita, legano il tempo alla carne. Io, benedetto dall’arcobaleno, passeggiando nella pioggia ottobrina, con la mia carne creo il punto qui, ora, da cui lo spazio e il tempo sono. Atomi evanescenti di materia, attimi inconsistenti di durata, nell’ozio agiato li pongo per gioco. Ma nel vivere e nell’amare, il mondo, nella tortura e nel pianto, il mio mondo, nel disfarsi e nel buio, è il solo sacro. 3-10-2008 146 Q.N. 64 Incomprensibile incompresa resta la vita: turbine calmo, noioso d’abitudine, eroico di pazienza, meraviglia di mondi tremolanti. 17-10-2008 147 251 – LA COSCIENZA Nel mistero le Variazioni Goldberg sovrane restino. Perché studiarle? Venti e nuvole sovrastano i platani; sopra, anche il cielo degrada la luce; più in alto il Tutto, o la mia Mente, guarda. Ascolto, guardo e nel pensiero vedo là in fondo anche me stesso, pio sovrano, pacatamente essere cosciente. Guardo gli alberi; e loro sanno me. Sento il vento; e mi sfiora. Mi degradano nuvole e luce. E mi esaltano effimero. Prima di analizzare e numerare, abbiamo sciolto i sentimenti al ritmo? e intrecciato le voci, il buono, il bello? 30-10-2008 148 Q.N. 65 Lembo di nebbia dal letto del fiume: sull’argine tre fichi miei fratelli, potati per violenza o per amore, sdegnano le carezze nel letargo. 9-11-2008 149 252 – NOSTALGIA REMOTA Nostalgia della memoria futura: fra mille, diecimila, centomila anni, di me individuo limitato, dei miei pochi pensieri e sentimenti, di chi mi amò e credette in eterno, di chi fuggevole ho visto e m’ha visto, dei tanti mai incontrati eppur viventi, dei tanti ad uno ad uno ad oggi morti, di questo mondo di cui sono il centro, sarà tutto frantumato e disperso? Sarà polvere al vento in un deserto? Nemmeno il nome in un’era remota rimarrà di quest’epoca in cui sciolgo oggi la nostalgia d’essere sempre. 27-12-2008 150 253 – ESSERE O AVERE? Essere sempre o coltivare il prossimo? Il verbo essere condanna gli uomini a lustrare da Parmenide ad oggi il vuoto cenotafio della vita. Con gentilezza, volendo, gli stringo e mi stringe la mano: nei suoi occhi i miei occhi, volendo, con pudore la dignità del prossimo riflettono. Avere: non possedere, non essere; avere come passato reciproco, come linfa da foglia a foglia verde. Avere: dono gratuito di vivere partorito nel sangue tra fratelli. Non sillogismo arido del Verbo. 31-12-2008 151 152 ALBUM DI HAI 153 154 HAI N. 1 il vento grigio---------------contrasto di tuoni Disegnare! e i colori?------lontanissimi finisce l’anno----------------persi nel passato 8-2-2008 HAI N. 2 innamorarsi------------------con raggi di luce d’intelligente amore--------corrisposto per ogni giorno--------------da giorni d’amore 11-2-2008 HAI N. 3 un uomo un cane-----------vulcanici pini su un tappeto di sassi------scorticati in controluce----------------nel tramonto esangue 15-2-2008 155 HAI N. 4 numeri primi----------------sciocchi indisponibili parentesi sacrali------------per quozienti d’intelligenza---------------fuori dell’umano 18-2-2008 HAI N. 5 occhieggia il giglio--------virgineo candore meravigliosamente--------nel preludio fra l’erba incolta-----------di doni del tempo 20-2-2008 HAI N. 6 labbra serrate---------------nel tremito sordo lingua tesa al palato-------per l’orrore saliva cieca-----------------Oh, misericordia! 24-2-2008 156 HAI N. 7 debole pioggia--------------nel notturno quieto riflessa sul bagnato--------come trina sciabola luce----------------fra l’anse del buio 27-2-2008 HAI N. 8 al centro media-------------su un trespolo fisso un’aquila di paglia---------tra due punti e mima il volo--------------comoda vertigine 12-3-2008 HAI N. 9 di gemme e foglie----------al ritorno solare si dilungano i rami---------nella danza di Proserpina----------------nove mesi pregna 20-3-2008 157 HAI N. 10 Essere ente-----------------c-osa che c-osasse essere-per-la-morte-------abba-i-ando nella radura----------------sol-co(n)-tr-(o)-al la l-una 21-3-2008 (Mi ricorda che non sopporto Heidegger) HAI N. 11 la poesia-------------------bellezza rafferma oggetto per oggetto------forse altrui cerca la vita---------------forse nel già morto 21-3-2008 HAI N. 12 nebbie di marzo-----------in lingue a mezza costa su sentieri indecisi--------evanescenti giovani persi---------------fra sogni irreali 15-4-2008 158 HAI N. 13 notte: russare-----------------rantoli d’ossigeno sogni lunghi e affannosi----claustrofobici senz’aria o luce--------------bramano risvegli 21-4-2008 HAI N. 14 notte sul fiume---------------piccolo vascello c’illumina d’immenso------incantamento franti nell’acqua-------------di sogni virili 15-5-2008 (Scherzo su Dante e Ungaretti) HAI N. 15 troppo bagnati----------------passata la pioggia petali di geranio--------------disperati cercano il sole----------------sulla terra dura 23-5-2008 159 HAI N. 16 spumante giallo--------------su sfondo di foglie è iniziata la pioggia---------molte righe dai tigli in fiore--------------cercano la vita 2-6-2008 HAI N. 17 nel cielo d’afa---------------immobile biancastro una rondine sola------------inconcepibile stanca si sveglia------------come un segno nero 6-7-2008 HAI N. 18 foglie e poi rami------------trastullo del vento d’un respiro profondo------ritornante verde risata------------------per basso continuo 19-8-2008 160 HAI N. 19 disfà la vita-------------------la chioma degli alberi lo sfogliarsi dei libri--------già morenti ad ogni autunno-------------puri nell’estate 1-10-2008 HAI N. 20 menti cosmiche-------------guardano lontane gracili fiori dubbi-----------loro stesse in questo autunno-----------nell’anno incarnate 13-10-2008 HAI N. 21 dal verde al giallo------------danzano le foglie del sole in piena luce--------strette al ramo va torna il vento--------------che al ritorno ride 15-11-2008 161 HAI N. 22 l’ultima foglia---------------cerca un’altra vita del platano più alta---------in altre forme vibra e si stacca------------ su di sé girando 13-12-2008 162 TRADUZIONI DA EMILY DICKINSON Dieci frammenti barocchi da un’appartata vita tragica vittima di Shakespeare e della Bibbia di re Giacomo. Quando usciremo dal Romanticismo? Agosto – Settembre 2008 (Numerazione Johnson delle poesie di Emily Dickinson) 163 164 N. 216 Al sicuro in camere d’alabastro, non toccati dal mattino né dall’alto del giorno, dormono i docili membri della Resurrezione. Solaio di raso e tetto di pietra. Lieve ride la brezza nel castello sopra di loro, chiacchiera l’ape a orecchi impenetrabili, dolci uccelli cinguettano incompresi. Ah, che sagacia qui rovinò! (Versione del 1859) N. 216 Al sicuro in camere d’alabastro non toccati dal mattino né dall’alto del giorno, giacciono i docili membri della Resurrezione. Solaio di raso e tetto di pietra! Grandiosi passano gli anni, nella volta sopra di loro, mondi scavano archi e firmamenti navigano, diademi cadono e dogi si arrendono, silenziosi come briciole, su un disco di neve. (Versione del 1861) 165 N. 258 Vi è una certa inclinazione di luce, i pomeriggi d’inverno, che opprime come il peso di musiche di cattedrale. Una celeste ferita ci provoca: non troveremo cicatrici, ma una differenza interiore dove i significati stanno. Nessuno può spiegarla, nessuno; ne è sigillo la disperazione, un’afflizione imperiale inviataci nell’aria. Quando giunge, il paesaggio ascolta, le ombre trattengono il fiato. Quando cessa, è come la lontananza sull’espressione di morte. 166 N. 280 Avvertii un funerale nella testa, e i dolenti avanti, indietro camminavano camminavano, finché parve che si spezzasse ogni senso. E quando furono tutti seduti, una funzione, simile a un tamburo, batteva batteva, finché pensai che la mia mente diventasse insensibile. E allora li udii sollevare una cassa e attraversarmi scricchiolando l’anima con quegli stessi stivali di piombo, continui. Allora lo spazio iniziò a rimbombare come se tutti i cieli fossero una sola campana; e l’Essere, un unico orecchio; e io e il silenzio, una strana razza naufragata, solitaria, qui. E allora un asse nella ragione si spezzò; e io caddi giù, sempre più giù; e urtai un mondo, ad ogni tuffo; e finii di conoscere – allora. 167 N. 303 L’anima sceglie la propria società poi chiude la porta. Fino al divino raggiungimento dei più non si presenti altri. Impassibile, nota le carrozze ferme al suo piccolo cancello. Impassibile, un imperatore potrebbe inginocchiarsi sul suo stoino. Ho riconosciuto che lei, da una grande nazione, sceglie un ambiente. Poi serra i battenti della sua attenzione. Come una pietra. 168 N. 510 Non era morte, perché stavo in piedi e tutti i morti giacciono distesi. Non era notte, perché tutte le campane suonavano a distesa il mezzogiorno. Non era gelo, perché sulla mia carne sentivo venti caldi strisciare; né il fuoco, perché i miei piedi di marmo potevano tenere un presbiterio, freddo. Eppure sapevano di tutto ciò, le figure che ho vedute composte per la sepoltura. Mi ricordavano, a me, la mia, come se la mia vita fosse piallata, e costretta in un’armatura, e non potesse respirare senza una chiave, e come fosse mezzanotte, quando ogni cosa che ticchetta sta ferma, e lo spazio fissa intorno lo sguardo; o quando geli sinistri, i primi mattini d’autunno, annullano il palpito del suolo. Ma di più, come il caos, sterminato, freddo. Senza una possibilità, o l’alberatura, o almeno un segnale di terra, per assolvere la disperazione. 169 N. 709 Pubblicare – è la vendita all’asta della Mente d’un uomo. La povertà potrà giustificare un atto così vergognoso: forse. Ma noi, dalla nostra soffitta, vorremmo piuttosto andare bianchi fino al Creatore del bianco, che mettere all’asta la nostra neve. Il pensiero appartenga a Colui che l’ha dato, poi, a Colui che ne porta la forma corporea. Venda l’aria regale. Nella partita, sia il mercante della Grazia divina. E non riduca nessuno Spirito umano alla disgrazia del prezzo. 170 N. 712 Poiché io non potevo fermarmi per aspettare la morte, lei gentilmente si fermò ad aspettarmi. La carrozza conteneva solo noi due e l’immortalità. Viaggiammo lentamente – non conosceva fretta – ed io potei compiere il mio lavoro, ed anche il riposo, per la sua cortesia. Oltrepassammo la scuola, dove i bambini giocavano nell’intervallo, in cortile; oltrepassammo i campi di grano occhieggiante; oltrepassammo il sole al tramonto, o meglio lui ci oltrepassò. Le rugiade stesero tremore e freddo: solo tessuto leggerissimo la mia veste; lo scialle, solo tulle. Indugiammo davanti a una dimora che sembrava una protuberanza nel terreno: il tetto era appena visibile, il cornicione, nel terreno. Da allora – secoli fa e tuttavia sembra meno d’un giorno – io per la prima volta dubitai che i cavalli fossero rivolti all’eterno. 171 N. 713 Fama di me stessa – Per giustificarla ogni applauso di altri sarebbe superfluo, un incenso senza nessun bisogno. Fama di me stessa nessuna – Anche se il mio nome risuonasse dovunque, ciò sarebbe un onore senza onore, un futile diadema. 172 N. 721 Dietro di me l’eternità s’immerge, davanti a me l’immortalità, io stessa confine fra loro. La morte, solo deriva del grigio ad Oriente che dissolve l’alba prima che l’Occidente sia. E dopo, dicono, ci sono regni: perfetta, ininterrotta monarchia, il cui principe, figlio di nessuno, lui stesso, sempre, è la sua dinastia, lui stesso che se stesso diversifica in duplicato divino. C’è il miracolo davanti a me, allora, c’è il miracolo dietro, e nel mezzo. E una luna crescente nel mare, con mezzanotte al suo Nord e mezzanotte al suo Sud. E tempestoso un vortice nel cielo. 173 N. 754 Era bloccata la mia vita, un fucile carico, in un angolo, finché un giorno il proprietario passò, mi riconobbe e mi portò via. E ora vaghiamo in boschi regali, e ora cacciamo la cerva, e ogni volta che parlo per lui le montagne pronte rispondono. E appena sorrido, una tale luce cordiale splende sulla vallata, come se un volto vulcanico facesse trasparire il piacere. E quando a sera, finita la bella giornata, sorveglio la testa del mio padrone, è meglio che aver condiviso un profondo cuscino di piume. Al suo nemico sono mortale nemica: nessuno si muove la seconda volta su cui poso un occhio geloso o un imperioso pollice. Sebbene io di lui possa vivere più a lungo, egli più a lungo deve di me, perché io ho solo il potere di uccidere senza il potere di morire. 174 PRIME POESIE Undici prove non indegne 175 176 VISITA A UN MORTO Ho visitato un morto: l’odore dolciastro della putrefazione ha colpito le mie narici. Ho attraversato l’aia riscaldata dal primo sole di primavera; ho salito la scala di pietra fresca; ho percorso l’andito a mattoni e sono entrato nella camera del morto. Giaceva su un fianco, coperto dalle coltri, com’era spirato nel sonno. La finestra era chiusa; e l’aria era sempre quella in cui il morto aveva dato l’ultimo respiro, poche ore avanti. Dapprima, ho creduto che quello fosse l’odore dei muri tinti a calce. Poi ho capito: le altre stanze non odoravano di putrefazione. La moglie e i parenti tributavano, com’è loro dovere, pianti e lamenti alla salma. I bambini guardavano e non sapevano cosa fare. 177 Io solo sentivo l’odore dolce che tutto baciava. Sono sceso e mi sono seduto all’aperto: l’aria pura della campagna e il dio Sole raggiante mi ristoravano. Strano come il sole riscaldi ancora, dopo la morte d’un uomo. E come scorra, anche ora, l’acqua nel ruscello vicino. Ho visitato un morto: l’odore della putrefazione ha raggiunto le mie radici. 1962 178 PRATO Un giorno partirò con questo treno. Prato, città murata del medioevo, città pietrificata sui miei sogni, non hai albero che rompa il tuo selciato di ghiaccio; non hai piazza che allontani da me le tue fabbriche; non hai aria che mi trasmetta voci amiche; non hai fogna che non esali putrefazione di topi e di uomini. Ma non corromperai anche il mio corpo. Un giorno partirò con questo treno. Il mio profilo è di coste marine. Le mie braccia sono torrenti alpini. Il mio ventre è una roccia spianata. Un giorno partirò con questo treno. Un giorno partirò con questo treno. 179 Le mie mani modellano la creta. Colgono le gemme di biancospino. Accarezzan le cosce della femmina. Un giorno partirò con questo treno. Un giorno partirò con questo treno. Le mie parole sono un fiume lento. I miei orecchi, scrigni che ricevono. I miei occhi, specchi di civiltà. Un giorno partirò con questo treno. Un giorno partirò con questo treno. 1962 180 ANSIA L’ansia mi opprime; e mi scavo, come il letto d’un fiume, senza far nulla. 1963 181 IL MORTO Quando la nostra vita aveva il ritmo delle stagioni, quando la nostra vita aveva il ritmo dei fiumi profondi, quando la nostra vita era l’eterno, volevo andare scalzo sull’erba per udire il battito della terra quando rinasce e muore. Ma ora, datemi un’automobile che sia veloce, un telefono libero, una stanza: quattro muri e il soffitto. Non voglio altro: il calore celeste del sole, il verde alto dei boschi è per voi. A me, datemi sepoltura. 1963 182 PRIMO AMORE Donna, spesso te fanciulla mi ricordo esitante nella notte dei vergini affanni. Nel buio del tuo terrazzo t’accarezzavo i capelli e coi baci una forte risposta ti chiedevo. E tu, con occhi bassi, tremante, spiegasti improvvisa una coperta sul pavimento. Stesi nel muto, primo amplesso, crudeli lontananze trepidi riscattammo. Ma poi, fra lacrime fanciullesche ti alzasti, nascondendo nelle mani il pentito occhio sfuggente. “No, non piangere più!” sussurravo. “Ascolta invece questa musica adulta dei corpi: ora le nostre vite gemono insoddisfatte se pudica trattieni gli slanci generosi. O mio fiore, succhiata corolla di nèttare, affolla di teneri sentimenti il mio abbraccio!” Il tuo viso, maturo di felici bagliori, di scatto si volse e afferrò nel mio sguardo la pienezza delle dolci ragioni d’amore: come una bimba, t’abbandonasti nell’incavo del mio collo. La forza che spinge il futuro del mondo ti ha modellata, sul metro dei miei sogni, sposa perfetta. Quanta letizia rendono ora le tue braccia al mio vivere quotidiano! 1968 183 AUTUNNO Lasciatemi la mia ignoranza! Perché indagare e studiare, quando sono triste come il vento di dicembre e ho solo voglia di piangere? Ed anche la mia tristezza lasciatemi: è l’ultima nostalgia della primavera nel vuoto d’una precoce vecchiaia. Cosa ho fatto della mia giovinezza? Un tronco mal potato ha ributtato poche foglie, ed è già autunno. 1969 184 LA SIEPE DI BOSSO Oh, vecchia siepe di bosso, con le foglioline quasi nere, con i rami contorti che esploravo ad uno ad uno, salendo e scendendo, rimpiattato, così mi sembrava, alla vista dei compagni, di tutti! Là dov’era più vecchia e più spoglia varcavo la sua porta miracolosa. Come una lunga caverna fatata andava la siepe lontano ed io, fra le pareti di foglie, con lei andavo lontano. Il dolce incanto della poesia, che sempre mi richiama sul cammino dell’ombrosa caverna delle fate, è la potenza che esaudisce divinamente la domanda: “Perché sono nato?” L’arte è la totalità delle cose. 1970 185 LA GIOIA C’è nell’aria una gioia! Tutto bacia nella via di città dove t’aspetto. I volti delle donne, i loro passi, come impazienti, sorridono svelti. Perché restare? Nel cielo profondo si slanciano e ricadono le libere velocissime rondini, festanti mentre il sole fiammeggia verso i colli. Per far l’amore col gusto di terra, ci nascondiamo nei boschi, dimentichi nei colori della macchia, dei pini. E sull’erba, il mistero della gioia semplice appare e umano e così dolce che nell’azzurro il mio corpo disciolgo. 1970 186 IL GIORNO DELLE NOZZE Nessuno osserva le regole sciocche. Vada l’uomo sotto casa della sposa, senza entrare. Ma lui corse avanti a tutti. E la sposa, chiusa in camera, non si muova dallo specchio. Ma lei stessa gli andò incontro. Lui le porse un mazzolino che lo fece perdonare. E da bravi poi formarono un minuscolo corteo, con le macchine a noleggio e i parenti per chauffeurs. Arrivarono in anticipo: porte chiuse, chiesa buia, niente guida, punti fiori. Le sorelle a rimediare: corre il prete a rivestirsi e dà luce il sacrestano. Finalmente il matrimonio (dopo un’ora in ginocchioni): Vuoi tu prendere…? Ma sì! 187 Sì, ma ricordo anche due occhi che ardenti chiamavano nell’intimo; e la mano che ti strinsi per risponderti, quando uscimmo dalla chiesa, non a braccetto, ma come due compagni di gioco. E partimmo: noi a noi stessi. La gioia vibrava lungo il treno al nostro passaggio, su e giù, per vedere, per muoversi, per sorridere, per trovare uno scompartimento tutto nostro. E il sole appariva e spariva dietro nubi leggere, che ogni tanto piovevano come gocce di rugiada. E ridendo, e sul serio, dicevamo: “Sposa bagnata, sposa fortunata.” 1970 188 I FIGLI La nascita d’un figlio è come il forte vino del Chianti. Nacque, la mia prima figlia, una sera stellata di novembre: per lei la grandezza del creato tremolava soavemente benigna. E il sole, per il secondo mio figlio, inondò una giornata d’inverno, sì che la primavera, gioiosa regina, sbocciò al sorgere di febbraio. Per la terza, al suo riso insistente, con ghirlande odorose di maggio scese l’aria dai colli, per udirla già in festa col mondo. Sì, è come il forte vino del Chianti la nascita d’un figlio: inebria la testa d’eterno. 1970 189 PREGHIERA Oh, quanto t’aspetto! Perché non vieni, immortale entusiasmo? Vieni! E purifica il mio spirito dalla noia! Rendimi il fuoco! 1970 190 L’ULTIMA PRIMAVERA 191 192 Oggi, ho goduto l’ultima primavera. Le rose traboccano dai giardini delle ville, a cespugli, a ciocche: una gialla nel gran verde d’una macchia, rosine sopra un vecchio olivo che sembrava ringiovanito, e quelle scarlatte che orgogliose una per stelo si dilungano. E alberi, i mille giovani spiriti. Oh, fossi un albero in primavera! Essi vivono la comunione fuori del tempo. Camminavo; e più che guardare, adoravo l’eternità. I fiori, e gli alberi, e l’erba, ed io, con tutti gli animali (un cane che lontano abbaia, gl’insetti, le lucertole freddolose, gli uccelli che ancora cinguettano e volano) noi tutti, i risvegliati dal tempo, parlavamo le stesse silenziose parole che legano fraterne la vita alla vita. Poi m’ha straziato l’assordante volgarità d’una moto. Che tristezza, ora, quei cancelli chiusi! Mi sento come una rondine caduta che sbatte la terra e soffoco d’asfalto fra cumuli di spazzatura. Io non desidero oggetti che mi pesino sulle spalle vietandomi il futuro, non voglio morire perplesso. Quant’altre generazioni godranno la primavera, se anche gli oceani gorgogliano? 193 Ad uno ad uno moriamo, da sempre. Ma dopo noi, le opere nostre stanche senza più luce sprofonderanno. E la nostra memoria sarà persa nel vuoto; l’orgoglio della storia, umiliato d’oblio; e Dante e Socrate non saranno mai stati. Altre creature, altre tensioni cominceranno da questo nulla. E il nuovo signore del mondo graffierà, con artigli mostruosi, i deserti. Disperato è il futuro che innalziamo. Ma sacro, sacro e benedetto il trionfo dell’amore, quando i sogni luminosi nel sangue veloce si ergono e scacciano le tenebre impaurite. Morremo, sì, ma ora viviamo: non si oscura l’eterno. Roseo, il sole squarcia nel cielo e lo strido dei passeri e la voce dell’uomo allargano il respiro del giorno. E’ questa l’opera nostra immortale: il guardare, il sentire, l’odorare il mondo: la realtà; e l’armonica luce candida che al tutto innalza le parti e a noi le rende. Perché, se onoriamo, ora, grandi i filosofi, gli artisti, gli scienziati, i guidatori di popoli, sempre adorammo la maestà del creato, nostra figlia impressa di puro amore. 194 Io, che di lunghi studi ormai sazio mi sento e dai libri rifuggo, e in azioni meschine sono chiuso e alle grandi, o non ebbi benigna natura o non è l’ora ch’io agisca, pure, vedendo i figli e mia moglie muoversi in questa stanza, e gli oggetti e le pareti e il corpo stesso che chiamo mio, saldi rimanere, come fossero veri il tempo e lo spazio e le relazioni che li legano, io, un grido di stupore ancor tramando: “O divina, o chiara, o profonda bellezza di essere, di vivere, di morire!” 1971/1982 195