Riccardo Becheri
SECONDO
DIARIO DI QUESTO MILLENNIO
2005 – 2008
CON ALTRI PEZZI AGGIUNTI
Prato 2009
EDIZIONE FUORI COMMERCIO
di cento copie numerate a mano
e firmate dall’autore.
E’ vietata qualsiasi riproduzione.
Prato 2009
COPIA N°
©Tutti i diritti riservati all’autore
[email protected]
www.riccardobecheri.it
4
In conclusione, fratelli,
tutto ciò che è vero e nobile,
che è giusto e puro, che è amabile e onorato,
che è virtù e merita lode,
tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri.
Filippesi 4,8
5
6
INDICE
7 INTRODUZIONE
SIGNIFICATI E DIGNITA’
9 PROSODIA E SIGNIFICATI
18 DIGNITA’ DELLA POESIA
19 La risata
26 La vita unica
41 DIARIO DI QUESTO MILLENNIO
43 ANNO 2005
Quartine 30-42
Sonetti 198-213
75 ANNO 2006
Sonetti 214-228
Quartine 43-52
103 ANNO 2007
Sonetto 229
107 MORES MAIORUM
Sonetti 230-241
Quartina 53
123 Sonetti 242-246
Quartine 54-59
7
135 ANNO 2008
Sonetti 247-253
Quartine 60-65
151 ALBUM DI HAI
161 TRADUZIONI DA EMILY DICKINSON
173 PRIME POESIE
189 L’ULTIMA PRIMAVERA
8
INTRODUZIONE
SIGNIFICATI E DIGNITA’
9
10
PROSODIA E SIGNIFICATI
Ogni lingua parlata ha uno specifico impasto di vocali e
consonanti, una musicalità e un ritmo suoi propri; ha cioè
una sua prosodia, il cui primo significato è: “Questi è un
figlio della mia stessa lingua materna”. Il che implicitamente
mette in attesa e sotto osservazione chi parla con un’altra
prosodia, pur se le parole e le frasi sono perfettamente
comprese.
Anche dopo i primi anni di vita durante i quali si
apprende la lingua materna, continua e si approfondisce
questa funzione sociale della prosodia, per adeguamento del
singolo alla media espressiva della comunità generale dei
parlanti la sua lingua, e poi dei vari gruppi particolari in cui
egli entra a far parte.
Già in origine, nelle società senza scrittura, certamente
la prosodia delle donne e degli uomini era differente. Ciò
cominciava al momento dei riti di passaggio quando il
giovane doveva smettere di comportarsi e di parlare come un
ragazzo ed assumere il ruolo e il tono di adulto. Le femmine
invece dovevano distinguersi al contrario; e da qui il tono
stridulo, le risatine insistenti e alte che si odono anche oggi
per strada incrociando gruppetti di ragazzine dai tredici ai
quindici anni e che le stesse ragazze smettono prima dei
vent’anni. A me quei primi squittii di seduzione fanno
sempre grande tenerezza. E’ inoltre ammissibile che con
ritorni che si rinforzavano a vicenda questo processo abbia
influito sui cambiamenti fisici che danno solo ai maschi il
tono più grave di voce al momento della maturazione
sessuale.
Altre tracce di questa importante funzione sociale
rimangono nella prosodia dei gerghi giovanili, sportivi,
11
professionali e così via. Ma la funzione di riconoscimento
sociale non è l’unico significato della prosodia; i suoi
significati sono molti, importanti e di gradazioni infinite: di
enfasi, di sottolineature, di abbassamenti, di sensi contrari; e
poi la gioia dei suoni, della musica, dei ritmi, o l’angoscia
dei toni lugubri. Questi e tanti altri sono i significati della
prosodia in tutte le lingue del mondo, che ciascuna impasta
col materiale esclusivo della sua storia, mantenendo intatta
anche oggi la ricchezza primordiale di ogni cultura.
Su questa base l’umanità ha potuto produrre la
meraviglia della scrittura e, per ciò che qui m’interessa, gli
studi di grammatica, di retorica, di metrica e di poesia.
Questa civiltà letteraria non ha solo approfondito per secoli i
temi dei suoi studi, ma li ha trasmessi a tutti gli uomini.
Quegli studi infatti sono stati compiuti dalle persone più
istruite, sensibili e prestigiose della società. Loro hanno
individuato le regole del corretto parlare e le regole formali
della poesia. E loro le hanno affinate continuamente per
scrivere con efficacia ed eleganza. Gli altri, dai più lontani e
analfabeti, ai più vicini ma gergali, sanno che esiste il canone
del buon gusto per ciascuna lingua e per imitazione cercano
di adeguarsi. Chi per incapacità non ci riesce, che lo voglia o
no, trasmette il messaggio della sua ignoranza. Chi per scelta
non rispetta il canone trasmette il messaggio della sua
insofferenza e della sua ricerca e proposta di un nuovo
canone. Anche questi sono significati.
E infine e per primo viene il significato che tutti i
significati concentra, il significato delle parole, delle frasi,
dell’intero discorso.
Al di là della mitologia del verbo divino, la parola, la
frase, il discorso hanno davvero la capacità miracolosa di
12
creare significati condivisibili a disposizione di ciascuno per
chiarire a se stesso se stesso e la realtà esterna, e trasmettere
agli altri e ricevere da loro nuovi e infiniti significati. La
riflessione millenaria sul linguaggio ha svelato e rivela
sempre di più la complessità di questa capacità umana. Il
vero miracolo è la facilità dei bambini di imparare ad usare
questo meraviglioso strumento; ed è un miracolo che esso
perduri e si arricchisca per tutta la durata della vita degli
uomini; ed è un miracolo che si riesca a tradurre da una
lingua ad un’altra; ed è un miracolo che alcuni bambini
cresciuti in ambienti aperti a più lingue siano istintivamente
bilingue o addirittura trilingue; ed è un ultimo e stupendo
miracolo che oltre una certa età non si riesca più ad imparare
in maniera istintiva una lingua come lingua materna, il che
non è un limite ma la raggiunta conquista dell’essenziale,
cioè la base solida su cui l’individuo può pienamente vivere
in comunità col proprio gruppo e svilupparsi.
Questo essenziale coltiva la poesia, dove la parola, la
frase, il discorso non si disperdono in chiacchiere né si
diluiscono per centinaia di pagine, ma dove invece ogni
parola, ogni frase, ogni discorso concentra una densità di
significati altrimenti irraggiungibili.
Ciò si persegue quando si scrivono poesie. E quando si
leggono, e a voce alta, si deve poter gustare il significato
primordiale della prosodia: i suoni, il ritmo, il respiro come
dissi nell’introduzione ai “Sonetti di Shakespeare” parlando
del sonetto; significato primordiale che mi situa tramite la
lingua nella mia società in un dato momento storico. Si deve
poter ritrovare il significato culturale, l’adeguarsi o no al
canone del buon gusto, lo stile personale, le innovazioni, il
mestiere. Si deve poter avvertire il significato più denso delle
parole, delle frasi, dell’intero componimento. E allora la
13
poesia esprimerà il significato spirituale dell’insieme, un
tutt’uno che è lì e basta, la preghiera, l’unione di individuale
e universale, la verità della poesia in quanto tale, ineffabile
in qualunque altro modo, dicibile e a voce alta solo con quei
suoni, quei versi, quelle strofe che compongono la poesia.
La scrittura, è stato detto in vari modi, è il tentativo di
dare forma all’informe, di dare una forma stabile, cosciente e
voluta al mondo selezionato dai nostri sensi ed elaborato dal
nostro cervello in maniera inconscia sulla base dell’eredità
evolutiva che in noi si raccoglie. E’ una grande opera di
civiltà che cerca di salvare dallo scorrere pazzesco delle cose
e dei nostri pensieri ciò che, per chi scrive, è il senso di
questo scorrere fermando sulla carta un suo momento. Ed è
stato detto da molti che la poesia e la filosofia sono i modi
privilegiati di scrittura, dando però alla poesia una sorta di
primogenitura, comunque declinata nelle varie riflessioni,
per la sua immediatezza nel dare forma al confronto fra il
singolo individuo e il mondo, con le sue regole metriche e
concentrando tutti i significati che dicevo sopra.
Oggi, almeno da Galileo se non dai greci e dai babilonesi,
alla scrittura delle lingue materne si è aggiunta la scrittura
dei linguaggi specializzati nelle varie scienze, che ampliano
via via i nostri sensi e l’elaborazione dei nostri cervelli.
Inoltre ci sono sempre stati i linguaggi della musica e delle
arti figurative. Però, finché i neonati impareranno a parlare
dalle loro madri, la scrittura nelle lingue naturali resterà
insostituibile come strumento fondamentale nello sviluppo e
nell’educazione della coscienza umana. Di questi tempi, poi,
affogati come siamo nell’informe, nel movimento, nelle
immagini in movimento, la scrittura è forse diventata
14
un’ultima ancora a cui agganciare la nostra salute mentale
altrimenti travolta e dispersa.
Comunque, essendo la scrittura nelle lingue naturali
leggibile da chiunque, o almeno trasmissibile vocalmente a
tutti, è a disposizione di ogni uomo, sia per educare la
propria personalità sul momento particolare fermato nello
scritto, sia come esempio generale di un uso dello strumento
che ognuno può fare proprio. Anche questi sono significati
che in qualche modo vengono trasmessi dalla vera poesia. E
in essi risiede la sua funzione sociale, che io ritengo sempre
più necessaria benché sia sempre più negletta nelle sue
manifestazioni alte, in particolare nella poesia civile e
filosofica che non è una contraddizione teorica, ma una
mancanza da colmare.
Queste mie considerazioni d’oggi sono solo
approfondimenti di quanto scrissi subito dopo aver
completato la traduzione dei sonetti di Shakespeare e prima
d’iniziare il mio “Diario di Questo Millennio 2001 - 2004”,
con i suoi sonetti e le sue quartine in endecasillabi.
L’esperienza scespiriana mi aveva lasciato due semi: la
capacità intatta del sonetto italiano di esprimere l’esprimibile
dalla poesia, e le possibilità quasi inesplorate delle raccolte
di sonetti di organizzare in modi più o meno espliciti un
mondo unitario, lasciando ad ogni momento la sua compiuta
realtà. Ho cercato di far fruttare quei semi nel “Diario”,
mantenendomi fedele al sonetto e agli endecasillabi non
rimati: ritenevo di avere cose importanti da chiarire a me
stesso e non avevo tempo da dedicare a cose futili come le
innovazioni metriche fini a se stesse.
Arrivato però di nuovo alla misura scespiriana di 154
sonetti, mi resi conto che, per il troppo ragionare, talvolta mi
15
sfuggiva l’immediatezza del mondo, la sua offerta unitaria
nel tempo e nello spazio ai nostri sensi, alla vista, all’udito,
al tatto, al gusto, alla reazione degli umori. Così, senza
affatto rinunciare ai sonetti e alle loro raccolte tematiche, ho
scritto diverse quartine cercando di fermare
quella
immediatezza; e sempre in endecasillabi.
Non faccia meraviglia che, riprendendo a scrivere versi
dopo venti anni durante i quali avevo altro da fare, non abbia
rispolverato quell’abbozzo di teoria che scrissi nel 1969 e
pubblicai con “Roberto ed Elvira”. Le poesie contenute in
quel libretto, scritte in versi liberi o secondo “La Metrica
della mia Poesia” premessa a quel libretto, mi sembrano
ancora belle, così come “L’Ultima Primavera” e altre delle
mie prime, che stampo in fondo al volume. Ma le riflessioni
che avevo poi svolte nel saggio su Ungaretti mi avevano
convinto profondamente: lo sperimentalismo metrico è
sempre un alibi per la debolezza poetica. Di certo su ritmi
secolari nascono versi e metri nuovi e altri vengono
abbandonati; ma questo deve avvenire in una lunga
maturazione che sia in accordo con l’evolversi della lingua,
della sensibilità e della cultura di ogni uomo, e per me
italiana. Non per manifesti letterari estemporanei, quasi
sempre d’accatto straniero; né per sentirsi poeti, tutti d’una
specie mai vista che appunto scrivono in versi mai visti cose
viste dappertutto. Quando anche oggi, di contemporanei, mi
capita di leggere tiritere ermetiche e rimasticature di inglesi,
americani e francesi, mi chiedo: “Ma costoro conoscono
l’eredità che hanno ricevuto? Certamente non solo italiana e
non solo degli ultimi cento anni. E sanno che stanno
descrivendo il mondo dell’intera umanità in parole e modi
italiani, sotto la disciplina di questa cultura, forti della sua
forza?” E quasi sempre mi cadono le braccia per
16
l’incredulità, come unica risposta possibile. E poi ne rido, li
trascuro e mi occupo di me stesso.
Tornando quindi, anche a mo’ d’esempio, alla mia ricerca
d’una maggiore immediatezza per alcuni temi e momenti,
di recente sono sceso fino alla brevità degli haiku giapponesi
per risalire subito a un metro di tre endecasillabi particolari
che ho ribattezzato “HAI”. Gli haiku giapponesi sono brevi
composizioni di tre versi con 5, 7 e 5 sillabe; sono poesie
che non descrivono, non spiegano, ma presentano piccoli
momenti in una dimensione fuori del tempo lineare, immersi
invece nel ciclo eterno delle stagioni. Da secoli sono un bel
frutto del buddismo zen e tendono al satori, l’illuminazione
buddista. Matsuo Bashō, vissuto nella seconda metà del
Seicento, è universalmente riconosciuto come il più grande
autore di haiku, ma ancora oggi in Giappone milioni di
persone si dedicano alla composizione di haiku.
Da decenni anche in Occidente ci sono molti cultori di
haiku. E in Italia. Purtroppo il passaggio di questo metro
poetico dal giapponese all’italiano è molto problematico;
innanzi tutto il computo delle sillabe in giapponese è
differente dall’italiano e la misura di 5, 7 e 5 in effetti non
riguarda le sillabe come le intendiamo noi, ma gli onji, i
segni grafici della scrittura giapponese. Inoltre il giapponese
non possiede generi, numeri, declinazioni; e infine l’ordine
degli elementi nella frase è l’opposto di quello italiano. Ma
soprattutto sono differenti le rispondenze intime delle due
lingue ciascuna alla propria storia, alla propria sensibilità e ai
significati che esse attingono.
Comunque ho provato a scrivere due o tre haiku:
venivano uno dietro l’altro, come le ciliegie. C’era la brevità,
forse l’immediatezza, di sicuro una faciloneria sospetta. Mi
17
tornò subito in mente uno degli interrogativi che mi
animavano trentacinque anni fa, quando scrissi “La nonpoesia d’Ungaretti e la poesia oggi”: fin dove si può spingere
la concisione senza distruggere la poesia? Non volevo
certamente risuscitare l’analogismo ermetico di Ungaretti,
mi ricordavo benissimo la mia stroncatura al “M’illumino
d’immenso”, che è solo un settenario, il cuore di un haiku.
In conclusione, completai i due quinari e il settenario dei
miei haiku con tre emistichi per ottenere tre endecasillabi,
composizione che ho chiamato “Haiku Ad Incastro”, dalle
iniziali: “HAI”. E’ bene citarne uno:
nebbie di marzo--------in lingue a mezza costa
su sentieri indecisi-----evanescenti
giovani persi------------fra sogni irreali
La parte a sinistra è un haiku che non porta mai l’accento
sulla quinta sillaba, la parte a destra completa i tre
endecasillabi. Nella lettura ci deve essere un senso compiuto
dello haiku, un senso compiuto dei tre emistichi aggiunti letti
di seguito e un senso globale sia quando leggiamo prima lo
haiku e poi gli emistichi, sia quando leggiamo
semplicemente i tre endecasillabi. Ovviamente, sono tutte
varianti d’un unico senso. Anzi, in molti casi è possibile una
lettura incrociata fra i singoli versi dello haiku e i singoli
emistichi aggiunti, rispettando o no l’endecasillabo. E’ un
gioco, il gioco futile delle varianti così magnificate dalla
critica ungarettiana. E per gioco ho calcolato quante varianti
sono possibili dello stesso “hai”: 144 varianti, di cui 36
versioni leggendo prima gli haiku e poi gl’incastri (12 veri
haiku e 24 impropri, cioè in sequenza 5,5,7 o 7,5,5 sillabe),
più altre 36 versioni leggendo prima gl’incastri e poi gli
18
haiku, più altre 36 versioni leggendo per righe, per totali 108
versi di cui 60 endecasillabi e 48 altri versi, più altre 36
versioni leggendo per righe prima gli incastri e poi gli haiku;
in questo caso la divisione fra endecasillabi e altri versi varia
a seconda delle terminazioni sdrucciole degli emistichi e i
loro inizi per vocali. Sarebbe una bella scommessa scrivere
uno “hai” che consenta senza forzature 144 letture sensate!
In effetti, più che alla poesia, lo “hai” si presta ad essere un
gioco enigmistico.
Comunque, nello scrivere gli “hai” mi sono attenuto ad
alcune regole, oltre a quelle metriche suddette: non scrivo
mai “io” o verbi alla prima persona singolare;
l’interpunzione è quasi inesistente, così come l’uso delle
maiuscole. Infine non mi ritengo vincolato ai temi
tradizionali degli haiku giapponesi. Forse il satori non fa per
me. Mi basta “L’infinito” del Leopardi, per non dire della
Divina Commedia che è la illuminazione di un’anima non in
17 sillabe ma in cento canti. Insomma, è tutto un gioco e non
sono capace di fingere o recitare.
Pertanto stampo, dopo il Diario degli anni dal 2005 al
2008, una ventina di HAI, come campioni del nuovo gioco
perché maturino nel confronto.
Stampo anche dieci mie traduzioni da Emily Dickinson,
le cui poesie mi hanno accompagnato durante l’ultima estate.
Mi sembrava che le traduzioni italiane che avevo sotto mano
attribuissero a questa grande poetessa, contrariamente al
vero, un percorso spirituale verso la religione, quando invece
la sua disgraziata vita, pur dominata dalla prossimità della
morte, fu tutta un lucido travaglio per affermare la sua libertà
contro le grettezze fideistiche e sociali che ammorbavano il
suo ambiente.
19
DIGNITA’ DELLA POESIA
Nel frattempo ho continuato ad interrogarmi sul senso
generale di tutto questo e sulla sua importanza per me, per
gli altri, per la cultura italiana, per l’umanità intera. Non
m’interessava, sia ben chiaro, architettare un ben costrutto
sistema filosofico con la sua brava “Estetica” nel terzo o
quarto tomo. In genere, certi sistemi tendono a esagerare
l’importanza dell’arte e della poesia, con effetti quasi sempre
nefasti. M’interessava solo capire perché continuavo a
scrivere; e se davvero la poesia non valga niente e non abbia
più nessuna funzione sociale, come dicevo nella chiusura
dell’introduzione ai miei “Sonetti di Shakespeare” e come in
parte ho corretto più sopra.
Via via che riflettevo su questi interrogativi e su altri
argomenti, mi si facevano sempre più chiari i limiti del
concetto di “valore” e le confusioni inestricabili e i pericoli
generati dal suo uso. Pertanto d’ora in avanti userò il
sostantivo “valore” e il verbo “valere” e simili solo nel loro
senso strettamente economico. Mai in senso filosofico, etico,
spirituale ed artistico. Perciò parlo, non del valore, ma della
dignità della poesia.
Sul concetto di “dignità” qui basti dire che, se
l’etimologia non inganna, il latino dignus deriva da decnoûs: il decoro di e verso il demiurgo platonico del cosmo, o
il primo motore aristotelico, o lo spirito universale quale
seconda ipostasi della triade plotiniana di Uno-Noûs-Anima.
Dunque, dignità come attributo manifesto e confacente a
qualcosa di per se stesso elevato nel mondo, nelle cose, negli
esseri viventi, nell’essere umano, in ogni individuo in quanto
tale recita la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e
infine nelle opere create dall’uomo; e dignità anche come
20
contegno doveroso per tutti di rispetto verso le
manifestazioni di questo attributo di elevatezza.
Preciso inoltre che in queste pagine tratto della scrittura,
della poesia, della letteratura, di ciò che l’uomo esprime con
le parole della lingua materna. Il concetto di “arte” in
generale è appunto troppo generale e andrebbe rivisitato a
parte.
***
LA RISATA. Per me la poesia, e lo studio, e lo scrivere
sono sempre stati molto importanti, e spero non nefasti, ma
sono arrivato a riconoscere che questo mio bisogno di
scrivere mi si manifestò, all’inizio vagamente, quando avevo
forse quindici anni e da allora mi si è consolidato fino a
diventare un bisogno solo per le letture, gli studi e
l’educazione che mi hanno portato ad essere quello che sono.
In ciò, per me e per tutti, non c’è nessun destino geniale, ma
solo il destino umano di ciascuno di noi di essere quasi
“infettato” da complessi circuiti imitativi, che, partiti da una
base genetica ai fini della sopravvivenza, sono poi montati su
se stessi e formano ora la nostra personalità individuale, che
è parte di una certa cultura e frammento dell’umanità. E’
naturale che ciascuno dia importanza alle ragioni del suo
essere oggi; e che l’umanità dia importanza e cumuli milioni
di libri sulla poesia e sulla civiltà umana. Ma è bene
ricordarsi che tutto avrebbe potuto essere differente, o non
essere affatto; e che un giorno, fra migliaia o milioni di anni,
non sarà più e quindi non sarà mai stato.
Questo pensiero non nega, anzi rinforza la convinzione
che l’umanità è un’avventura grandiosa, magnifica, unica
21
nell’universo. E fragile. E che a ciascuno di noi è demandato
di viverla, di riceverla e di trasmetterla.
Dunque, mi sembra naturale che io dica semplicemente
quello che penso e sento sull’importanza delle mie opere
letterarie: per me sono, quale più quale meno, oneste, belle,
degne di avere un loro posto nella cultura italiana e di essere
una possibile offerta alla civiltà dei miei simili.
La loro dignità letteraria non ha nessun riconoscimento
sociale? Qui si apre un interrogativo importante sul
significato di simili riconoscimenti in relazione alla dignità
delle mie opere; e in generale, delle opere letterarie di
qualunque autore; e persino della vita di ogni uomo.
Intanto mi chiedo quale sia stato il riconoscimento sociale
d’un grande mistico morto anacoreta nel deserto, od anche
del più grande musicista della Grecia classica, di cui si è
perso anche il nome nonché la musica. E mi chiedo cosa se
ne facciano Omero e Dante e Shakespeare dei tanti
riconoscimenti odierni. Tutti costoro e gl’infiniti altri,
grandi, piccoli o nulli, ora sono morti; e i riconoscimenti o i
silenzi passati, presenti e futuri non li toccano. Le opere
insigni che oggi ammiriamo, con le vicende dei loro autori
finché erano in vita, ed anche le opere anonime, le trascurate
e le perdute che per rivoli misteriosi tuttora influiscono, sono
il patrimonio spirituale dell’umanità a disposizione di ogni
essere umano vivente, mentre i nomi di chi concorse a
formarlo sono soltanto etichette degli scaffali su cui sono
conservati quei beni. Questa eredità ricevuta da ogni essere
umano vivente è ciò che appunto lo infetta e che ognuno per
imitazione fa propria in parte, con risposte individuali che
gradualmente fanno di lui la persona che è nei vari stadi
della sua vita.
22
Da questo punto di vista parrebbe che il riconoscimento
della dignità delle opere venga dal loro diventare in seguito
parte del patrimonio dell’umanità, ma è un’illusione che
discende dal dare sostanza alla parola “futuro”. Se già il
rapporto fra un vivente e i grandi del passato è in verità il
rapporto fra lui e il patrimonio umano che gli si offre nel
presente con la sua presenza concreta, quale rapporto può
instaurarsi fra l’operare quotidiano dell’uomo e il futuro che
è inesistente per definizione? Soltanto un rapporto malsano
con l’illusione, con l’autoesaltazione, con le droghe
psicologiche che negli intellettuali, nei poeti e negli artisti
portano alla “posa”, al recitare la parte dei loro personaggi
inventati che gli altri riconosceranno in futuro, e nei fanatici
violenti portano alle distruzioni e alla guerra nella certezza
dei folli che il futuro li giustificherà.
Quest’ultima, brevemente accennata, è la fenomenologia
dell’Assoluto con la A maiuscola: dell’Arte; ma anche dello
Spirito, dell’Essere, della Morale; e di Dio che tutte le
maiuscole riassume. L’assoluto è un altro nome per
inesistente, usato spesso per nascondere le vergogne e
nobilitarsi.
Tornando a noi, il vero riconoscimento della dignità delle
opere si ha dunque solo nell’ambito del vivente Per
sgombrare il campo, ribadisco che le mie opere non hanno
nessun riconoscimento; e per evitare ogni equivoco dichiaro
subito che preferirei aver vinto il premio Nobel vent’anni fa
e avere oggi un mucchio di soldi dai diritti d’autore. Ma i
milioni di copie e i milioni in soldi sono cose estrinseche che
riguardano più che altro l’industria e la pubblicità, campi nei
quali non ho mai avuto l’aspirazione di lasciare un “grazie” e
dove mi abbandono alla pigrizia: lo riconosco e non me ne
23
lamento. Il massimo che ho fatto per far conoscere le mie
opere è stato di far stampare a mie spese cinque libri, sei con
questo, e di regalarli agli amici, di distribuirli ad alcune
biblioteche sparse per il mondo e, di recente, di mettere tutto
quello che ho scritto in un blog su internet. Basta e avanza
per la mia pigrizia.
La domanda quindi diventa: se dobbiamo restare
nell’ambito del vivente, la dignità di un’opera letteraria
dipende dal riconoscimento sociale dei contemporanei? E’
questo riconoscimento il metro, o almeno un buon metro, per
giudicare la dignità di opere già prodotte? Ma la risposta è
no.
Questo rincorrersi di domande si basa ovviamente su un
malinteso: l’opera prodotta è già nel passato dal momento in
cui l’autore l’ha licenziata, per lui fa già parte del patrimonio
dell’umanità. E dunque la sua dignità nasce, per i rapporti
concreti nell’ambito vivente, al momento stesso del suo farsi
opera. L’opera e la sua dignità sono un tutt’uno e l’unico che
la può giudicare in senso stretto è l’autore, che la può anche
correggere per adeguarla, non a un futuro riconoscimento,
ma a un progetto da lui abbozzato, a un disegno via via più
preciso, per attingere alla fine la dignità più soddisfacente
per lui. Dopo diventa un’offerta per gli altri uomini, che ne
approfitteranno a seconda delle circostanze e dei loro
interessi, ognuno concedendo o no, in piena libertà, un
riconoscimento di dignità spirituale alle altrui opere
frequentate.
Qua e là si parla di “lettore ideale”. Bene, per definizione
il lettore ideale è l’autore stesso che dell’opera conosce la
genesi, il contesto sottinteso, gli equilibri, i rimandi interni
ed esterni; e che con l’ultima correzione ne sancisce la
24
dignità nel suo mondo. Altrove, in mondi altrui, l’opera non
sarà accolta perché rifiutata o semplicemente sconosciuta?
Pace: ha già prodotto sull’autore la sua efficacia spirituale.
Perciò ripeto: per me le mie opere sono, quale più quale
meno, oneste, belle, degne di avere un loro posto nella
cultura italiana e di essere una possibile offerta alla civiltà
dei miei simili. Io le ho prodotte per esprimere al più alto
grado che ho potuto il significato dell’argomento che volta
per volta m’interessava. Per me fanno già parte del
patrimonio spirituale dell’umanità. In esse ho riunito ciò che
ho ricevuto dell’eredità passata e l’apporto della mia
personalità nei termini italiani che mi sono propri. Al loro
farsi ho dedicato tempo, studi, pensieri e sentimenti senza
nessuna pigrizia; e prima di licenziarle le ho considerate
mille volte e cercato incessantemente di migliorarle. Ora
non intendo discuterne la dignità con nessuno, non devo
mercanteggiare, non voglio elemosinare riconoscimenti.
Avrei anche potuto distruggere le mie opere, ma ho preferito
metterle semplicemente a disposizione degli altri come
ringraziamento votivo dei beni gratuiti che io ho ricevuto.
Il resto riguarda gli altri, se e quando potranno e vorranno
nutrirsi delle mie opere, come di tutto il mondo che ogni
essere umano eredita nascendo. La mia notorietà, il mio
successo sono cose che riguardano gli altri; o me e gli altri in
un senso strettamente pratico, ma nel più ampio senso
spirituale non riguardano me autore, non le mie opere e la
loro dignità. Queste mie affermazioni possono sembrare
orgogliose, ma in effetti sono solo una risata svolta in tutti i
suoi passaggi.
Sopra ho adoprato il termine “offerta” nel senso di un
bene messo a disposizione gratuita di tutti. Per spiegarmi
25
forse è opportuno riprendere questo termine e restringerne il
significato al senso economico di “offerta sul mercato”. E
qui sul mercato la ricerca del lettore ideale diventa una
ricerca di marketing, al fine di produrre una merce adatta al
cosiddetto target da colpire perché, dopo le opportune
sollecitazioni pubblicitarie, compri il più possibile. E qui sul
mercato la mia grande pigrizia è dovuta al fatto che lo
ritengo dannoso per la poesia ed ho una così scarsa stima,
per non dire della sua dignità, anche del suo valore
economico oltre un certo limite, da non voler lasciare
contributi. Accetto pertanto tranquillamente il fatto che sul
mercato i riconoscimenti sociali per le mie opere non ci
siano, cioè che lì esse non valgano niente; e che in ogni caso
il loro valore economico non dovrebbe andare al di là dei
pochi sforzi che mi consente la mia pigrizia nella produzione
industriale e nella diffusione pubblicitaria delle mie opere.
Il mercato infatti instaura tra gli uomini rapporti limitativi
fra pochi produttori e tanti consumatori, che con i loro
acquisti mantengono economicamente i pochi o l’unico
produttore nel caso del monopolista, ma dove tutti soffrono
di una carenza feroce di libertà; e i produttori più che i
semplici consumatori con possibilità di spendere. Un autore
sul mercato è un produttore che ha perso la sua libertà. Non è
il mio mondo, non è un mondo che consenta il dispiegarsi
della poesia nella sua dignità spirituale. Non è un mondo
sano.
Per me la vita dello spirito è, e la vita quotidiana di ogni
essere umano dovrebbe essere, un dispiegarsi incessante di
libertà, dove ciascuno partendo dalla sua gracilità di neonato
aggrappato a una mammella succhia gratuitamente il mondo
che i suoi simili gli hanno lasciato e vi costruisce ogni giorno
26
la propria personalità appropriandosi gratuitamente dei beni
che più gli si confanno. Così facendo, allarga se stesso in
libertà ogni giorno di più e produce nell’arco della sua vita il
fiore unico del suo mondo che gratuitamente aggiungerà al
patrimonio umano: Matteo, 10, 8, gratis accepistis, gratis
date.
So purtroppo che per tanti, per troppi, e per tutti in alcuni
momenti o giorni o anni, così non è; ma così è per l’umanità
intera, per la civiltà umana come si è formata nella storia,
per lo spirito umano che si è realizzato fino ad oggi e che
ciascun essere umano eredita. In questa diversità fra l’essere
passato dello spirito ricevuto e il dover crescere di ogni
uomo si manifestano tutti i caratteri dell’individuo, dalla
perdita dei pazzi furiosi, dei delinquenti e degli assassini al
galleggiare calduccio dei più, dal vero paradossale della
comicità al paradosso doloroso della tragedia incarnati in
ognuno di noi.
In questa crescita non si instaura mai un rapporto fra i
pochi e i tanti, fra gli artisti e il pubblico per dire, né un
rapporto fra uguali, ma solo e soltanto un rapporto fra
l’unico neonato del giorno e tutto il resto dell’universo, cioè
la natura, la storia passata dell’umanità, lui stesso ieri e
l’altrui odierno. Da questo universo, quell’unico trae in
libertà ciò che più gli piace, ciò che può, ciò che gli sta più
vicino, a caso o con studio e ricerca paziente. La crescita di
quell’unico mondo che ognuno di noi è, è in effetti l’essereper-la-vita, mai per la morte, come qualcuno cerca di
enfatizzare con le lineette che io uso solo per ridere. Un
essere per la vita che è appunto il crescere in libertà, cioè,
senza retorica, il senso nudo della parola “vita”: avere vita.
27
Con tutto questo so benissimo che un giorno, domani o
tra diecimila anni, le mie opere moriranno e che la loro
dignità sarà stata anche per il passato e sarà per sempre zero.
Ma non prima che io muoia, perché ben ricordo di averle
prodotte e deposte fra i tesori dell’umanità in ringraziamento
dei doni ricevuti. Certo, un giorno anch’io morirò, ma io
come tutti ho il privilegio di non assistere alla mia morte. E
anche l’umanità ha il privilegio di non assistere alla sua
estinzione. Nell’istante precedente saremo ancora neonati di
fronte all’universo intero.
Questo significa nel senso più ampio dare forma
all’informe. E in questo risiede la grandezza dell’avventura
umana. La vita ha proprio questo di bello: la risata.
***
LA VITA UNICA. Quanto ho scritto sopra è vero e
giusto; ed è la parte intima del significato spirituale delle mie
poesie. Ma quale significato spirituale potranno mai avere
per gli altri che le dovessero frequentare?
Posta così, questa domanda è senza senso, perché
ipotizza implicitamente che esista un significato valido per
tutti chiamato “Poesia” e che i miei versi lo attingano in
maniera oggettiva. La pretesa di oggettività, che si parli di
significati o di dignità delle opere umane o dello spirito
umano in generale, vuole sempre ricondurre queste
manifestazioni sotto il concetto di “valore” e irreggimentarle
in una scala alla cui sommità si instaura un valore supremo
geloso della sua presunta prerogativa, la fenomenologia
dell’Assoluto maiuscolo già accennata all’inizio. Inoltre
sorge naturalmente fra i vari gradini della scala la ricerca di
28
un criterio oggettivo di misura del loro stare sopra o sotto,
del loro valore relativo, che, nonostante i fingimenti mistici e
misterici e angelici prima e dopo la Scala di Giacobbe, non
potrà che essere il loro valore economico, il volgare denaro
che getta tutta la scala sul mercato. Ma soprattutto questa
pretesa di oggettività nega la libertà di ogni singolo essere
umano e, nel caso in questione, di ogni eventuale lettore dei
miei versi. Ed io, proprio io, non posso rispondere alla
domanda di sopra. E nessuno in effetti può mai rispondere
per gli altri.
Posso invece dire qualcosa su come io mi rapporto alle
opere altrui, io come altro rispetto agli autori che conosco, di
poesia, letteratura e saggistica. Non intendo nemmeno
accennare a una qualche sociologia della letteratura, né ad
una fenomenologia degli scaffali e delle etichette. Ammesso
che siano cose sante e belle, non m’interessano qui e ora. E’
solo un esempio che spero possa essere utile a qualche
lontano lettore.
Prima di tutto, per parlare di altri autori bisogna saper
leggere; e non è una battuta. E’ strano che ci siano migliaia
di libri che insegnano a scrivere, che addirittura insegnano la
“scrittura creativa”, e che ci sia solo l’abbecedario di prima
elementare che insegna a leggere o, peggio, manuali
aziendali che insegnano la “lettura veloce”. E’ strano perché
saper leggere è più difficile che saper scrivere. Leggere, per
me e per chi sa, significa risalire da pagine tracciate di segni
all’intenzione esplicita di chi li tracciò e da qui elevarsi
infine allo spirito, anche implicito, sottaciuto e persino
inconscio, che emana per me dalla personalità dell’autore: un
risultato totale che è la mia interpretazione di quel suo scritto
particolare e insieme il mio giudizio del reciproco stare delle
29
nostre due personalità in un unico ambito spirituale che in
verità è il mondo visto dal mio centro, dalla mia personalità
come essa si è formata dalla mia nascita fino ad oggi.
Questo modo di leggere è frutto di una lunga
maturazione, ma a un certo punto diventa istintivo: basta
leggere l’indice, mezza pagina, una conclusione e qualche
paragrafo per vietare a un tomo ponderoso di qualche
luminare pretenzioso di entrare nel mio ambito spirituale; o
basta leggere due brevi poesie e metà d’una terza per
sentirmi soffocare. D’altra parte basta una frase, un accenno,
un verso per ricevere un invito fraterno a continuare, ad
approfondire, a cercare altri scritti di quell’autore. Ed anche
nei contrasti o nelle incomprensioni, mi arricchisco e il mio
spirito si espande.
Capita che al primo interesse segua poi una delusione; o,
al contrario, che a un primo rifiuto segua anche a distanza di
anni una scoperta profonda. Capita, purtroppo spesso in
campo accademico, che s’inciampi in scritti su altri autori,
dove la loro lettura si è fermata al primo stadio,
all’intenzione esplicita del primo autore su cui si esercita una
critica pedissequa e una smania di parafrasare il già detto.
Ma capita anche d’incontrare un giovane autore vivente
come rinchiuso in un gergo artefatto e in un cerchio
meschino di aspettative nei suoi confronti, e d’intravedere il
suo spirito ricco di grandi tesori non ancora esplosi. Come
un prigione di Michelangelo che lotta per liberarsi dal
marmo. Questo mi è successo anche di recente: perché so
leggere e per caso.
Il caso è il miglior metodo per allargare i propri confini,
una volta superate la scuola necessaria e l’incertezza
giovanile. Chi invece rimane sempre nella scuola quasi
30
sempre smette di espandersi e coltiva con metodo maniacale
un orticello soffocante. E si mette a insegnare. Ma
fortunatamente ci sono anche grandi maestri che
arricchiscono il loro spirito e i frutti che ricadono dalle loro
cattedre non solo con i loro studi e le loro letture, dove il
caso e il metodo formano un’unità superiore, ma continuano
per tutta la vita ad imparare dagli allievi che il caso affida
loro, nonché, come tutti dovremmo, dai più svariati contatti
umani che casualmente ci capitano.
Chi crede che il caso nelle letture sia un metodo
dilettantesco di procedere negli studi si sbaglia. In effetti è
una difesa contro la sovrabbondanza, o meglio, è il vero
metodo per dominarla per quanto possibile.
Il fenomeno della sovrabbondanza si manifesta in così
tanti aspetti della vita che si può dire che è la vita stessa, il
suo presupposto e la sua conseguenza. Già un’altra volta ho
scritto che mio padre ha dovuto produrre miliardi di
spermatozoi e mia madre centinaia di ovuli, quando per
farmi nascere bastavano uno e uno. La vita è una meraviglia
così improbabile che solo nei grandissimi numeri può
sorgere e continuare per miliardi di anni nei milioni di specie
e nei miliardi e miliardi di individui. Ed è un’ancor più
inaudita meraviglia che la specie umana ne abbia coscienza e
veda se stessa parte di questo flusso di ricchezza; e lo veneri
e lo studi in molte forme e su molti piani. E che riesca a
concentrarlo in una sola parola: vita appunto.
La sovrabbondanza, però, si è rivelata nella storia della
civiltà umana anche pericolosa, ingannevole, dispersiva,
quando non si è rivelata addirittura come il male, la hybris,
nostra colpa e nostra condanna, di noi contemporanei. Negli
ultimi due secoli infatti è esplosa sempre più in tutti i
31
fenomeni sociali, all’inizio come conquiste positive, ma poi
via via gonfiate, come fardelli insopportabili e infine come
pericoli estremi. Negli anni la sovrabbondanza è stata
chiamata con molti nomi, e pertanto confusa e nascosta:
nella politica, dall’indipendenza nazionale all’imperialismo e
all’esportazione dell’ideologia dei forti in altre nazioni con le
bombe e gli eserciti stranieri, e dalla democrazia fino alla
concentrazione in poche mani dell’apocalisse atomica;
nell’economia, dalla rivoluzione industriale e dalla
liberazione dai bisogni alla creazione artificiale di bisogni
fasulli e al consumismo distruttivo di se stesso e
dell’ambiente, riducendo, alla fine e per ora, un miliardo di
persone alla fame. E così via in tutti i campi; ed anche, per
l’argomento di questo scritto, nel campo degli studi
umanistici, nella filosofia, nella letteratura, nella poesia e
nell’arte in genere.
Stranamente poi, a questa sovrabbondanza, a questo
gonfiare di esseri umani, di forze, di prodotti, di mezzi, di
scoperte, di libri e di opere non è corrisposto un
arricchimento e una diversificazione dei fondamenti ideali e
materiali. Anzi, c‘è stato un impoverimento progressivo
delle differenze e delle ricchezze spirituali ereditate dalle
epoche precedenti, una uniformità montante, una
devastazione delle forme spirituali e un riemergere
dell’informe, un rattrappirsi dell’intero universo umano su
un unico perno: il denaro, come incarnazione quantificabile e
tesaurizzabile della hybris, ma in effetti come uno schermo
che nasconde e prepara la nemesi della realtà sull’apparenza.
A monito: oltre al retto pensare, non resta che la guerra, la
fame, la miseria, la malattia e il lutto per ricondurci tutti a
fare i conti con la realtà. E se ne vedono già i sintomi.
32
Questo fenomeno, astrattamente grandioso ma appunto
sostanzialmente tragico, della sovrabbondanza dell’informe e
del monoteismo del denaro ha permeato infine ogni
creazione umana, deprivando le persone della loro dignità e
riducendo ogni manifestazione spirituale al suo valore, a un
prodotto commerciale qualunque, a spettacolo: a uno
spettacolo possibilmente molto costoso nell’allestimento,
nella produzione e nella diffusione, perché così si eliminano
i meno ricchi e i poveri con uno sbarramento all’entrata; e
insieme si elevano i più ricchi, i famosi e i potenti in una
mandorla sugli altari (un palcoscenico, i film, la televisione,
le cariche politiche, le onorificenze e le cattedre prestigiose, i
milioni di copie, i milioni di euro), che li rende uno di fronte
all’adorazione dei molti. Il che è la negazione del reciproco
stare in dignità di due esseri umani in un medesimo ambito
spirituale, ancorché vissuto dai due punti di vista differenti.
Ogni essere umano vive una sola vita e se s’interessa di
libri, oggi l’industria culturale gliene mette davanti così tanti
milioni che nemmeno in mille vite potrebbe leggere, opere
degne o non degne che siano. Come ci si può muovere per
non arrendersi allo spettacolo globalizzato, per formarsi una
personalità e coltivare e allargare il nostro spirito senza
ridursi all’autarchia? Come orientarsi in mezzo all’alluvione
di libri, di milioni e milioni di opere del pensiero umano e di
oggetti artistici?
Ho scritto sopra del caso come unico mezzo per dominare
la sovrabbondanza per quanto possibile, dopo aver superata
la scuola necessaria e l’incertezza giovanile; ed ho accennato
a una superiore unità di metodo e caso, dove il caso
comunque predomina. Prima ancora ho parlato dell’unico
33
neonato del giorno di fronte all’universo intero. Tutto vero.
Ma come si svolge in pratica? Continuo col mio esempio.
Io sono nato in Italia, la mia lingua materna è l’italiano e
la sua prosodia l’ho succhiata col latte nei primi mesi di vita;
sono stato poi allevato e istruito nelle tradizioni italiane,
cominciando e proseguendo un percorso scolastico in scuole
scelte dalla mia famiglia per ragioni pratiche dove ho
incontrato maestri e professori buoni e meno buoni. Tutto
questo costretto dal caso? Certamente, ma nel senso che il
caso mi ha proposto ogni ora, ogni giorno, la possibilità di
scegliere come reagire a quell’ora e a quel giorno per fare
tesoro dell’esperienza ed affrontare l’ora e il giorno
successivo. Partendo dalle mie caratteristiche fisiche alla
nascita, questo circuito di esperienze e risposte ha prima
gettato le basi della mia personalità e poi l’ha sviluppata fino
a quando è diventata adulta, cioè fino a quando sono
diventato cosciente della mia dignità e di come ero diventato
quello che ero; e mi sono sentito in grado di perseguire
liberamente l’allargamento della mia personalità,
selezionando e sfruttando le mie esperienze successive in
maniera più proficua.
Soprattutto fino a quando ho pienamente ereditato la parte
che mi compete del lascito spirituale della civiltà italiana ed
insieme ho ereditato il sentimento della sua grandezza e
bellezza anche in campi lontani dai miei interessi e che ad
altri compete ereditare; ed ho ereditato infine la sua apertura
universale a quanto di veramente umano e di bello le altre
civiltà hanno prodotto nei secoli ed ancora oggi producono.
Questa è la mia eredità che io vivo come un impegno a
difenderla, ad arricchirla e a tramandarla, perché in effetti io
sono questa eredità ed essa fonda la mia dignità.
34
Così come io mi sono formato, così parimenti si formano
in dignità tutti gli altri uomini a qualunque cultura
appartengano. E come io sono il centro del mio mondo, so
che ogni mio simile, ogni singolo essere umano dovunque
sia nato, è il centro del suo mondo. In questo percorso di
formazione consiste la coscienza e l’autocoscienza; e in
questo riconoscimento reciproco si crea la ricchezza, la
bellezza, la varietà infinita dei mondi umani, mentre non
esiste un unico mondo materiale, un universo oggettivo che
comprenda gli uomini quali moscerini intercambiabili su uno
sperduto pianeta. E non esiste un unico spirito più o meno
assoluto, né un’unica vita spirituale, né un unico mondo
spirituale. Se proprio si vuole, si potrebbe dire che il mondo
spirituale è un multiverso che non soffre confini e
continuamente si espande utilizzando le migliaia di lingue
naturali e i più svariati linguaggi artistici e scientifici
inventati dagli uomini
La vita spirituale in verità è il più elevato frutto del
cervello di ognuno di noi, con i suoi miliardi di neuroni e di
miliardi e miliardi di sinapsi che li collegano, dove agli
estremi confini è assurdo porre obiettivi e censure. La vita
spirituale è come una grande isola di libertà in espansione
alla quale si può approdare da infiniti punti di attracco, ma
dove si entra, si sta e si riconoscono gli altri solo per dignità.
Questa è la realtà che la tracotanza del denaro e l’orpello
dello spettacolo non potranno mai nascondere o corrompere.
Ed essa è ancora la vita con la sua sovrabbondanza che si
evolve, si differenzia e si moltiplica in libertà, cioè grazie al
caso e alla selezione naturale.
Trattandosi della vita spirituale, il caso è più
propriamente la vagabonda curiosità d’una persona adulta e
35
istruita; e la selezione naturale è più propriamente l’igiene
che ognuno di noi deve perseguire per bloccare le infezioni
nocive dall’esterno e per liberarsi dalle scorie di nostre
vecchie certezze e abitudini mentali, difendendo però i
fondamenti del nostro essere.
L’igiene spirituale attuata conosce e dunque mostra il
cascame volutamente non accolto dall’esterno. E’ la parte
rigettata dalla nostra libera scelta. Oltre c’è solo il troppo, il
troppo lontano, l’ignoto, che finché rimangono tali non sono
oggetto né di scelta né di rifiuto. Dall’altra parte
l’accoglienza dall’esterno è il libero riconoscimento della
dignità spirituale delle opere altrui offerte alla nostra
attenzione dal caso e dalle nostre ricerche, è il sedimento
della libertà che costituisce la nostra personalità
perennemente in divenire.
Invece il rifiuto o il superamento dei nostri pregiudizi è
un atto volitivo con vari gradi d’esclusione cosciente che
vanno dall’indifferenza e dalla sazietà fino a raggiungere
l’allarme più vigile contro i veleni che altrimenti
ammalerebbero il nostro spirito rendendolo più meschino
invece d’allargarlo; e che alla fine lo annienterebbero.
Questa igiene su noi stessi richiede la ferma convinzione di
essere ciascuno il centro insostituibile del mondo, compito
sfida grazia peso o maledizione da cui ci libera solo la morte.
Cos’è la coscienza e l’autocoscienza se non questo?
La profonda igiene spirituale, questa vigilanza, questa
convinzione può giungere fino all’austerità più severa, fino
alla povertà più netta, fino al silenzio nostro nel parlare e
nello scrivere, e di altri non ascoltandoli nel loro parlare e
nei loro libri. Per esempio: si possono tranquillamente
ridurre al silenzio le cataste di romanzi che ingombrano
banconi e scaffali nelle librerie, oppure le rimasticature
36
accademiche che disgustano invece d’invogliare agli studi.
Può giungere anche alla risata, allo sberleffo, alla parodia,
alla stroncatura, il che è una meritata vendetta. Oppure, ci si
potrebbe porre il limite di accogliere non più di un libro a
decennio degli ultimi due o trecento anni. E’ un criterio
ridicolo, ma forse ha una logica.
Soprattutto questa igiene spirituale è necessaria contro
gl’influssi negativi, coscienti e ancor più inconsci, del “Noi”
come io li chiamo.
L’uomo è un animale sociale, certo. Prima però è un
corpo che si muove individualmente; e vuole muoversi e
camminare anche quando ancora non sa; e al contrario delle
piante, col suo moto individuale e con gli organi che la
natura gli ha formato per permetterlo, crea lo spazio e il
tempo; e lui individuo ne è sempre al centro finché non
muore; ed è cosciente; ed è autocosciente di essere al centro
perché l’autocoscienza è tutta qui: il vedersi e sentirsi al
centro del mondo che si vede e si sente. Se l’uomo fosse
rimasto solo un animale sociale avremmo unicamente uno
spirito da orda, non sarebbero sorti altri gruppi umani, altri
“Noi”: la famiglia, la città, lo stato, l’unione di stati, e la
cerchia di amicizie, le professioni, i sindacati e i mille altri
“Noi” che nella vita pronuncia l’individuo; e che ad ogni
livello richiede una diversa modulazione nell’uso della
lingua, richiede narrazioni diverse e l’esercizio diversificato
del dovere d’igiene.
La parte più difficile dell’igiene profonda si soffre
proprio nello sceverare, fra gli elementi costitutivi del nostro
essere, quelli retrogradi che ci fagocitano nel gruppo, nel
“Noi” verso l’orda primigenia il cui ambito spirituale si
limita alla semplice sopravvivenza in quanto orda
37
trascurando completamente l’individuo ed ogni altro “Noi”.
Come si potrebbero se non con questa regressione
comprendere i kamikaze, da quelli originari giapponesi a
quelli islamici d’oggi, o i milioni di morti degli eserciti di
coscritti?
Nello scavo interiore però io, per quello che mi riguarda,
ho rintracciato anche le basi fondamentali del mio essere,
quelle solide, che coniugano il mio spirito con la dignità
delle opere dei miei simili che mi sono state tramandate e
offerte; e che d’ora in avanti debbo, voglio, confido di
conoscere sempre meglio e di sviluppare. In questo compito,
mio per me, e di ognuno nei confronti della propria eredità,
si sostanzia anche quella superiore unità di metodo e caso,
indirizzando la vagabonda curiosità nella lettura e negli
studi, in qualche modo limitandola e nobilitandola. Il
compito mio e di tutti non è certo quello d’impadronirsi della
bibliografia universale dello scibile umano, ma di coltivare
io il mio spirito e ognuno il suo.
E ritorno ai miei scritti: perché, contro la moda corrente,
scrivo endecasillabi, sonetti e quartine? Certamente, perché
le loro possibilità espressive sono ancora intatte, ma anche
come parte di una sorta di disciplina igienica a difesa dei
miei fondamenti italiani.
Devo su questo punto premettere alcune note sulle culture
marginali e colonizzate, tenendo ben ferma la più grande
apertura agli apporti spirituali da dovunque provengano, ma
senza riverenze servili e con il dovere primario di proteggere
e sviluppare la mia eredità culturale e di proporre a tutte le
persone sensibili i miei apporti al patrimonio umano.
Constato allora che, per la letteratura e la poesia, a parte la
38
forte tradizione classica che continuò a predominare in Italia
fino al Carducci, la cultura colonizzatrice fu quella francese.
E abbiamo avuto la scapigliatura, il decadentismo, il
futurismo, l’ermetismo, tutti tributari di Baudelaire ed eredi.
A questo influsso francese si è via via affiancato l’influsso
inglese e americano fino a soppiantarlo completamente, col
risultato finale di uniformare i pensieri, i sentimenti, gli
atteggiamenti esteriori e i risultati poetici in una poltiglia
globalizzata di nessuna importanza, che aspira a far parte
dello spettacolo e che espone la sua bandiera nel verso libero
e nel metro indefinito.
Io, per le mie forze e i miei interessi, cerco nella poesia di
salvare dall’estinzione l’endecasillabo e il sonetto, come se
fossero l’ultima coppia di mammiferi sulla Terra o di alberi
sull’isola di Pasqua prima del collasso. Trent’anni fa su
queste basi scrissi e pubblicai una stroncatura feroce
d’Ungaretti, otto anni fa tradussi i sonetti di Shakespeare
polemicamente in sonetti italiani e non elisabettiani. E
continuerò. Forse qualcuno ci potrà ridere sopra, ma capisce
davvero di cosa sto parlando?
Oggi non solo la poesia, ma tutta la cultura italiana è
stata colonizzata da infezioni d’origine inglese e statunitense,
e mandata ai margini dell’umanità, purtroppo anche dagli
stessi italiani. E similmente tutte le culture non anglofone.
Persino i fondamenti e la struttura della lingua italiana (e
spagnola francese tedesca e tutte) sono colonizzati dalla
lingua franca imperiale, il broken english, da cui rifuggono
per primi i parlanti sensibili del vero inglese. In effetti questa
lingua franca, anche declinata in un falso italiano (o in un
falso spagnolo francese tedesco eccetera), e la cultura
globalizzata che la usa sono la lingua e la cultura dell’attuale
39
civiltà dello spettacolo. E più che cultura e civiltà dovrei dire
“corruzione dello spirito”; e nella politica dovrei dire
“decadenza dell’impero statunitense”: la mondializzazione
della civiltà dello spettacolo è come l’ultimo rimasuglio del
primato USA nel mercato globale, a parte le bombe atomiche
e nucleari che hanno sì un grandissimo valore ma non una
dignità.
Beninteso, non lo spettacolo in se stesso è corruzione;
può essere uno svago, un riposo, uno stimolo fra tanti per
riflettere o perdere tempo. E’ la sua simbiosi col denaro,
unità astratta d’ogni prodotto umano e d’ogni cosa naturale,
che a tutto assegna un prezzo, compresi gli esseri umani. E
tutti, esseri umani, prodotti e cose, possono essere paragonati
nel loro prezzo: costa più una bambina da rapire e avviare
alla prostituzione o un metro quadrato d’appartamento nel
centro di New York? Questa natura ineludibile del denaro di
uniformare tutto e di cumularsi in poche mani, quando si
riversa nello spettacolo, ottiene i due effetti che ho già
accennato: l’elevazione in una mandorla sugli altari dei
ricchi, dei famosi e dei potenti (oggi queste tre categorie si
possono graziosamente raggruppare nell’unica di “coloro che
hanno avuto successo”); e laggiù in basso la moltitudine
meno graziosa dei fedeli, degli spettatori passivi, dei falliti
che non hanno avuto successo, ma che vi aspirano per tutta
la vita, spesa o ancora da spendere nell’adorazione. Si noti di
sfuggita che questo risultato ha permesso per secoli e
millenni la nascita e la permanenza delle caste sacerdotali di
tutte le religioni. Si noti ancora di sfuggita che lo spettacolo
si allestisce non con i concetti e il pensiero, ma con le storie,
le storiacce e le storielline, una volta dei miti e dei poemi e
ora dei romanzoni di almeno settecento pagine, per finire,
40
nel cinema e nella televisione, con l’abbandono non solo dei
concetti e del pensiero, ma persino delle comuni parole
disperse in un mare d’immagini. Oggi, con l’esplosione dei
mezzi di comunicazione di massa, questa civiltà dello
spettacolo ha invaso con le sue storielle tutte le ore del
giorno e della notte d’ogni uomo civilizzato e tutti gli ambiti
umani, la politica e il giornalismo subito e con gioia degli
addetti, e poi la poesia, la letteratura, la filosofia, le arti e la
scienza, con i loro vergognosi festival sparsi per l’Italia e la
pietita presenza sui teleschermi. Come tutti i sistemi di
potere non fondati sulla dignità degl’individui, la civiltà
dello spettacolo continua a preparare veleni e magie nel
tentativo di mantenere in uno stato di privazione cerebrale la
moltitudine dei fedeli, un vero parco buoi del successo altrui:
buoi appunto con la cavezza per tirarli dove vuole il padrone.
Ma che c’entra questa corruzione dei cervelli con la
necessità d’ogni essere umano di formarsi una personalità e
di espandere il suo spirito? Vorrei dire, che c’entra con
l’aspirazione di ognuno di noi a dare alla realtà grezza e
informe una forma di hybris verticale e qualitativa, e non
orizzontale e quantitativa? Che c’entra dunque il denaro e lo
spettacolo con la dignità?
Qualche secolo fa gli attori e i cantanti (specialmente
donne, non importerebbe dirlo) dovevano essere sepolti in
terra non consacrata. Purtroppo anche allora papi e re, e
qualche volta anche i poeti, venivano sepolti nelle più belle
chiese. Oggi sarebbe ora di confinare tutto ciò che è
spettacolo, affrancato il più possibile dal denaro, in un
piccolo promontorio dell’immensa isola della vita spirituale.
La quale naturalmente non riguarda solo la poesia, di cui ho
trattato qui perché di questo qui mi occupo. Forse, di più, la
41
vita spirituale si manifesta in un mio simile che coltiva
dignitosamente cipolle e mi giudica dal centro del suo
mondo come un essere umano abbastanza ridicolo, ma spero
non del tutto privo di dignità. Perché non ho detto niente di
utile per fare soldi, niente che possa servire da pretesto per
fare del male agli altri, niente che impedisca la libertà, la
dignità e le possibilità di sviluppo di ogni essere umano in
campi anche lontanissimi da quelli a me vicini.
Queste sono le premesse che sostengono i miei scritti, le
mie letture, i miei studi, le mie accoglienze e i miei rifiuti.
Spero che qualche lontano lettore possa trovare in esse un
motivo di riflessione per la sua vita spirituale. A me, per le
forze, il tempo e i casi che ho avuto a disposizione, queste
premesse hanno consentito e tuttora consentono di
partecipare all’avventura umana in modi che ritengo
dignitosi.
In conclusione, la vita ha questo di bello, oltre alla risata:
che la nostra vita per ognuno di noi è unica, ma la vediamo
riflessa in milioni di modi negli occhi del prossimo. Per
ognuno di noi è unica ed è perciò anche seria, unica e seria.
E troppo breve per esaurire tutte le risate del mondo, tutti i
riflessi negli occhi altrui, tutte le vere conquiste spirituali
prima di capire d’essere caduti nella hybris.
Marzo 2009
R.B.
42
DIARIO DI QUESTO MILLENNIO
43
44
ANNO 2005
45
46
Q.N. 30
Aver compiuto o compiere un’azione?
La falsità dei verbi nel presente
ci racconta la vita e la impedisce.
E’ più semplice vivere o parlare?
11-1-2005
Q.N. 31
Non odo voci, parlano le notti
coi pensieri vaganti dell’insonnia;
mi sfugge il senso o non c’è, vedo quasi
monti vicini per chiarezza d’aria.
22-1-2005
48
198 – L’AQUILA
Se fossi l’essere non sarei uno.
Se fossi il nulla non sarei qualcuno.
Se fossi moto non arriverei.
Se fossi freccia starei fermo in aria.
Frusto e assurdo da sembrare tenero
il luminare accademico lustra,
aquila solitaria fra gl’inchini,
riviste, libri, corridoi ed aule.
Da nascoste premesse, senza libri,
o parole, o concetti, si concretano
inaspettate vite. E intanto l’aquila:
se fossi una ghiacciaia sarei ghiaccio,
se fossi una fungaia sarei fungo,
se fossi una mugnaia sarei munto.
14-3-2005
49
Q.N. 32
Non vivo la mattina dalla sera.
La dimentico, forse la significo:
una fiaba, un accenno, un velo candido,
una storia che, forse, mi significa.
26-3-2005
50
199 – VARIAZIONI
Pasqua di pioggia. Un grigio pomeriggio
d’ozio svagato ha scoperto il mio ingegno.
Sono un genio: le Variazioni Goldberg
distorcono seriose un’aria astratta;
i tigli, drasticamente potati,
e i platani, che seminano ancora
i vecchi frutti, son pronti a partire
per le infinite varietà d’amore;
se io amo tu ami egli ama
noi amiamo voi amate essi amano,
verbi, persone, situazioni variano.
Non so il perché, di queste variazioni
indulgente sorrido, e di me genio.
Ché mi limito a variare i misteri.
27-3-2005
51
Q.N. 33
Riconosco l’aprile d’oro liquido.
In sé forse ribolle il sole, ed io
in me. Ma qui confortevole aspetta.
E anch’io aspetto, calmo, altre magie.
2-4-2005
52
200 – DUECENTO VOLTE
Come un roco pittore che ripete
il suo trito stilema, estenuato
scrivo il diario d’un solo sospiro
duecento volte in quattordici versi.
Perché continuo? Troverò il silenzio,
risposta dello spirito e dell’oltre?
Il silenzio del mancante domani?
Il silenzio perché tutto fu detto?
Ma forse so, se mai prima sapevo,
ora perché più non esiste ieri?
E che ne fu? E sarà mai domani?
Non conto più: duecento volte è un uno
che nel presente nega le risposte
centonovantanove volte date.
12-4-2005
53
201 – LA MAGIA
Emerge alla coscienza il manto verde
della magia dal profondo scrigno
che, benedetto, rinnova i miracoli
di antichi parti della madre Terra.
Ma se pretesa ad arte levatrice
di doglie isteriche d’uomini sterili,
la magia s’indemonia, maledetta,
in nere liturgie d’onnipotenza.
Vorrei volere il tutto della vita,
creare ed essere ogni specie, assolvere
ogni nascita mia e di me madre,
plasmare il nulla e la materia enflata,
io sfera immobile. Poi m’allontano.
E cerco un piccolo ventre di donna.
23-4-2005
54
202 – IL COMMERCIO E IL DONO
Non ho messo in commercio magazzini
d’iniziatiche gemme dell’Acquario,
né silos di granaglie sapienziali,
né depositi di scienze orientali.
Nemmeno fo commercio dell’assurdo
con libri sacri e paramenti strani.
Cito la Bibbia e miti a me vicini
quali metafore piane. Non vere.
Cosa cerchiamo di fare, scrivendo?
Cerco, io, di chiarire al noi quell’io
da sé, grezzo, inespresso, per lì sciogliermi,
nella mia lingua, in un nobile noi
purificato ch’io possa inglobare
nel solo dono che apporto: il presente.
2-6-2005
55
Q.N. 34
Non come il pino radicato in alto,
ma con spire profonde il ventre duro
perforerò dei fatti e della terra,
coltivando il linguaggio ricevuto.
11-7-2005
56
203 – SETTIMANA LAVORATIVA
Come se il mondo esterno fosse stanco
di oscillare fra passato e futuro,
chiudiamo il sole nell’attimo d’oggi,
mercoledì, dei cinque giorni fulcro.
Sole immobile, ognuno in sé raccoglie
d’ogni passato o futuro la luce,
d’ogni spirito il frutto e l’energia.
Materia stanca e spirito centripeto?
O è lo spirito stanco? E nell’eterno
qui e ora s’appaga e si ritrae,
troppo debole per guidare il tempo?
Un’ombra di torpore e sazietà
c’illude nel lavoro quotidiano
d’arginare un vulcano che spaventa.
11-7-2005
57
204 – GIOCHI D’AMORE
Qual altro gioco inventerò d’amore?
Col rasoio sull’io dei sentimenti,
come discepolo d’Occam, denudo
il re me stesso davanti a me stesso.
La modesta superbia multiforme
rivendico come unico gioco
dell’amore sovrano che nasconde
nel più semplice stare tutto l’oro.
Non so le forme: precipito vivo
godendo la lussuria che si offre,
nella bonaccia del presente, all’essere.
Certo, godo il peccato di non dare.
Quale dono se non parole umane,
semplici, nude, accamperei a discolpa?
9-8-2005
58
205 – LA DURATA
Com’io per me non morrò mai, così
durano tutti i noi che mi comprendono:
istante che al vivente eterno appare
uguale di durata nel durare.
La mia lingua italiana e la sua storia,
la civiltà che da Omero mi inizia,
l’umanità da che in Africa nacqui,
altri, non io o noi, vedrà morire.
E ucciderà la glaciale entropia
galassie, stelle e la durata e il tempo,
negando testimoni o eredi e pianti.
Ma che il mondo dall’inizio alla fine
sia d’eterna durata come il noi ,
come il mio corpo, io testimonio ora.
10-8-2005
59
206 – I KAMIKAZE
Vento pigro da sud e pioggia bassa,
il mare e il cielo un calmissimo grigio:
ieri un sole ventoso sulla spiaggia
consentiva il commercio agli ambulanti.
Uno, arabo, giovane bellissimo,
venduti, orgogliosamente umiliato,
due asciughini, rispose: “Non ho amici,
io, né parenti: vengo da Torino.”
Oh mio fratello, principe d’Allah
in terra d’infedeli che Torino,
madre matrigna, minacci a vessillo!
Io come te straniero sulla Terra,
pur disgustato dal marcio, diffido
della mia rabbia, misericordioso.
11-8-2005
60
Q.N. 35
Piove: indugiano alcuni sulla spiaggia,
altri fuggono, tre ragazzi nuotano
incuranti ai richiami del bagnino,
molti nei bar. E’ più in alto la vita?
12-8-2005
61
Q.N. 36
Schegge di sole, dalla scia maestra
più larga all’orizzonte, dai miei piedi
innalzata fino al biancore concavo
che me e il mare sovrasta, fermentano.
13-8-2005
62
Q.N. 37
Neve d’agosto, il lago della luna
nel mare alto sprofonda a Occidente.
Il buio ha preso l’Elba e la Capraia.
A Oriente, nulla mai? Forse domani.
15-8-2005
63
Q.N. 38
Più amo i singoli e meno amo i troppi,
maligna società degl’imbecilli,
cancro egoista che non sa morire.
Solo un gonfiare e replicarsi cieco.
16-8-2005
64
207 – LA VERA FEDE
Perché andare e convertire gli altri?
Non basto io o la verità non basta?
Da quanti più goduta si fa vera
una fiaba o potente chi la narra?
La verità non è un potere, è.
Semplicemente muove le stagioni
e indifferente ci trascura e tace:
semplicemente allora ci fa liberi.
Chi mi dice che morto andrò all’inferno
e vivo non godrò la buona gioia
finché non credo ai suoi miti, mi offende.
Scendendo sul suo piano potrei dirgli:
“Ma cacciatela in culo la tua fede!”
ma sto sul mio, e solitario dubito.
22-8-2005
65
208 – RAZZE E CULTURE
Mia madre l’Africa mi separò
dal ceppo delle scimmie e per millenni
con materlineari dinastie
conquistò i maschi di tutte le terre.
Lo Spirito mio padre eiaculò
Ur dei Caldei, la Sfinge, Atene e Roma,
Gerusalemme e i Rotoli e il Calvario,
l’Italia e la sua lingua che mi onora.
Distillerà il mio sangue l’Asia estrema,
Budda e Confucio e la Sacra Trimurti,
l’unica Luce della Mezzaluna,
e in Africa tornando, l’animismo.
Sono un fiero meticcio universale
e mai fornicherò con gl’imbecilli.
25-8-2005
66
209 – QUARTO ANNIVERSARIO
Gridan vendetta molti nel dolore:
“Occhio per occhio, anima per anima”.
Imbelle sfogo degli offesi, giusto,
lacerati fra silenzi deserti.
Ma altri tanti predicano fede,
parola droga sconcia di potere,
su molte genti di futuro incerte
terribili nel terrore dell’Altro.
Io ascolto sul terrazzo varie piante
di lingue sconosciute che mi parlano
con la bellezza dei loro colori,
mi educano all’armonia delle forme,
mi esaltano al futuro mio e loro,
senza paure, prediche o vendette.
New York 11 settembre 2005
67
210 – QUALCOSA ESISTE
“Perché qualcosa esiste e non il nulla?”
Perché chiedi il perché? Esiste, basta.
Perché piuttosto la parola nulla,
sinonimo dell’oltre e della fine?
Arriva Ottobre e svanisce Settembre.
Queste che ho scritto stupide parole,
d’osservazione ordinaria sublimi,
sono la vetta della mia poetica.
Tradurre i fatti in parole sensate
fuggendo l’escrescenza di pensieri
sazi del vomito d’altre parole.
Lascerò il nulla spumeggiante ad altri.
Un sorriso mi basta, una carezza,
il mio sguardo sul mio piccolo essere.
16-10-2005
68
211 – L’ILLUMINATO
Profondamente meditai a lungo
regolando il respiro all’orientale.
Mi mancò forse il tibetano o il sanscrito,
o il digiuno o una droga o un campanello.
Ho ventilato il sangue e digerito,
questo sì. Quanto alla luce, era giorno:
se mai diventerò un illuminato
vorrei fosse di notte, per vedere.
Se non ricordo le vite passate
dov’è l’uno dall’inizio alla fine
che si educa e soffre e si rincarna?
C’è un uno che pervade ogni respiro:
qui e ora il presente; e la ragione
che pulendo le tenebre c’illumina.
24-10-2005
69
Q.N. 39
“Storico e grande l’agire potente!”
Meschino invece il fare quotidiano?
Ma quando affogheremo nell’oblio
quest’inversione da schiavi plaudenti?
5-11-2005
70
212 – IL REDENTORE
Non vedo i limiti, inizio e fine.
Navigo nella bolla del presente,
immaginando fuori della sfera
dalle memorie ai progetti un continuo.
Do un senso all’essere compassionevole
di questo mondo di viventi e cose:
forme sensibili per questo corpo,
forma esso stesso e creatore insieme.
Di natura divina io m’incarno,
non padrone e signore della morte,
ma redentore del mondo, colui
che sempre più con la ragione afferma
il continuo crearsi del presente.
E Dio, solo per sé la morte accetta.
12-11-2005
71
Q.N. 40
Ore d’angoscia. Abbandoni e carezze.
Miopi misteri.
Chiarissima pace.
Nega il percorso unitario del mondo
il violento cozzare in alto e in basso.
25-11-2005
72
Q.N. 41
Il taglio trasversale della pioggia…
Vento costante di tristezza viscida…
Né luce o buio: un lunedì viola
vìola il percorso visivo degli occhi.
19-12-2005
73
Q.N. 42
Morbidi fianchi di femmina neve
dalle montagne specchiate di sole
invitano su di loro a giacere,
del continuo gocciolare dimentichi.
29-12-2005
74
213 – IL FLAUTO PARI
Aria ferma, crepuscolo lentissimo,
ed io non ho paure o desideri:
si fermerà all’orizzonte il tempo?
la notte, sospensione della vita?
Solo un attimo ed è già buio. Un attimo!
Nell’assolo di flauto Bach mi parla,
magnanimo. E un desiderio sorge:
la nostalgia dei miei pari. Sereni.
Dio, nei migliori, spoglio di potere,
incarna nel suo nome il desiderio
degli uomini di vivere fra simili,
eletti in armonia con tutti gli esseri
senza invidia di tempi, corpi o spiriti,
per la serena parola d’un flauto.
30-12-2005
75
76
ANNO 2006
77
78
214 – TRAMONTO INNOCENTE
Oh, com’è bello un tramonto innocente!
Come un tramonto innocente che spande
calma, bellezza, innocenza finale,
vorrei che al mio tramonto l’innocenza,
incarnata di versi nella luce
che tra i monti declina, sospendesse
ogni attimo crudele dell’intero
arco giorno nell’attimo sublime.
Poiché innocente la bellezza appare
dell’inferno nucleare del sole
se incastonato fra i miei monti amici,
spero in futuro d’acquistare amici
che catturino sempre del mio sole
l’attimo fermo che innocente appare.
10-1-2006
79
215 – LA RICERCA
I miei pari! Sto cercando i miei pari
e piango, silenzioso, senza lacrime.
Senza riscontri o incontri, in solitudine,
sto cercando i miei pari. Inutilmente?
Non nei viventi: tutti sono uguali
in quest’ansia di colori e tormenti,
nelle feste d’amore, nell’oblio
malinconico d’ogni luce e forza.
Più in alto, forse in qualcosa più astratto.
Spogliatomi di vesti, essenza nuda,
sto cercando le pure essenze pari,
non a chi dette risposte, a chi visse
vite come domande in sé risposte.
Sto cercando completezza nell’essere.
14-1-2006
80
Q.N. 43
Oh, il rosso della vite americana!
Infiamma di bellezza: vite e rosso.
Ma al disfarsi, vivendo, della vita,
il bruno sfatto del rosso sgomenta.
22-1-2006
81
216 – TRAMONTI E GABBIANI
Non di tramonti, dicono, o gabbiani,
di frigoriferi invece dovrei
poetare, o d’inevasi punti e virgola
loro. Ho due frigoriferi pieni
e non mi dicono nulla; volendo,
potrei scrivere una pagina intera
di punti e virgola: stupidi segni
che non reggono alcun senso d’eterno.
Certo un tramonto è difficile, duro
da spogliare dai secoli; e un gabbiano,
per chi vede una parola, non vola.
Io vorrei, non poetare, pregare
il gabbiano dalle stanche falcate
che al mio tramonto mi faccia volare.
23-1-2006
82
Q.N. 44
pregare l’Altro da me come Tutto
tutto in me compenetrato vorrei
vorrei abbandonarmi e nel risorgere
risorgere da qui nuovo e pregare
pregare…
12-2-2006
83
Q.N. 45
Attimi inermi violentati in pagine
di poesie, imbalsamati spasimi,
scrivo tristezze incomprese nel flusso
da un breve ieri a un terminale oggi.
25-2-2006
84
217 – MORTE DI UN FRATELLO
Dolore scisso di tronco e radici
mi strugge del più bel tiglio di fronte,
sacrificato da una specie aliena
per sgombrare al destino un marciapiede.
Foglie mai sciolte, fiori mai esplosi,
che dal futuro nulla oggi rimpiango,
vedrò donarmi dagli altri fratelli.
Altre, altri, non quelli suoi, miei.
Forse smembrare un albero vivente
nell’orgia di marciapiedi apollinei
rende tragico il destino di morte
di Dioniso ubriaco. Ma io soffro.
Solo a un pensiero spettatore appare
eroica la tragedia e sacra l’orgia.
5-3-2006
85
218 – SGOMENTO
Oh, il rosso della vite americana!
L’immagine d’un tralcio nel ricordo,
fioco lume che allampanando illumina,
infiamma di bellezza: vite e rosso.
Ma al disfarsi, vivendo, della vita,
quando il tempo la bellezza contamina,
il bruno sfatto del rosso sgomenta.
C’illuderà di ritorni futuri?
Nell’eterno presente degli Adesso,
che non passando in nuovi mondi esplodono,
il primo rosso della prima vita
resta incorrotto; nell’eterno ciclo
invece tornerà in eterno. Io,
anche sgomento, mi attacco all’effimero.
12-3-2006
86
Q.N. 46
Un dio meschino onnipotente a Sodoma:
La Terra estranea all’uomo onnipotente:
“Così distruggerò la tua città,
per mia virtù, affinché tu mi tema!”
30-3-2006
87
Q.N. 47
I profondi legami che armonizzano
il sé nel mondo e il mondo in questi versi
se siano e dove, e come l’uomo crei
un’armonia che lo comprende, ascolto.
1-4-2006
88
Q.N. 48
Forse cogito ergo sum, forse no;
perché non sa, il latino lapidario,
le sfumature d’alterni futuri.
Forse si vive col metodo “Forse”.
28-5-2006
89
219 – VENTI E RADICI
Quasi autunno: da Nord un vento freddo
rovescia i tralci di surfinia lilla
che orgogliosi gonfiavano il balcone.
Che traccia lasceremo, noi al vento?
Festa della Repubblica Italiana,
sessant’anni: chi è vissuto ed è morto,
chi ancora è qui e sogna in questa lingua,
può dire io fui, io sono, io sarò sempre
l’Italia? Da mille anni orgoglioso,
a tutti i venti sciolto, alle radici
fermissimo, astraendo dal sé, può.
Se astrae dal tempo e solo l’io sente,
può. Se nel tempo e nell’io e nel tutto
insieme è fermo e sciolto, allora è.
2-6-2006
90
220 – LA ROCCIA
Come bisonti impazziti corriamo
contro una roccia. E gli ultimi vivranno:
sopra montagne di carcasse, spugne
gonfie di sangue e gradini per l’oltre.
Pretesti-falsità: democrazia,
scontro di religioni e civiltà,
guerra al terrore e guerra di terrore,
stati impotenti sulla loro forza.
C’è qualcuno che sa o sono solo?
Irrespirabile l’aria che soffoca,
acqua sporca, claustrofobici spazi,
lingue barbare a cui i nostri non ridono.
In troppi siamo e vogliamo. La Terra
roccia è davanti: gli ultimi gl’insetti.
11-8-2006
91
Q.N. 49
Con lo spettacolo, perso lo spirito,
ammaestrano i deboli alla fede:
troppo difficile credere agli occhi,
e al pensiero che ci pensa nel mondo.
13-8-2006
92
221 – IN MEMORIA DI HINA SALEEM
E LE ALTRE
Fiore sacrificato a atroci dogmi
anche alla libertà toglie il suo dogma:
non l’altrui libertà, ma dubitando
la nostra igiene il nostro agire limita.
Come una scala che sprofonda o innalza,
la giusta causa dell’agire libero,
rinchiusa nella lettera meschina
altrui per noi, ci sprofonda in tragedia:
“Nel cerchio culturale che mi libera,
gli altri son vincolati al mio rispetto:
perché vigliaccamente mi tradiscono?”
E’ negativo l’amore profondo
delle proprie radici. Nell’igiene
cresce il fiore che purifica l’Hybris.
17-8-2006
93
Q.N. 50
Ho ballato e gioito al matrimonio
spagnolo di mio figlio: d’acqua pura
ubriaco, con vero oblio dimentico,
da uomo saggio che apre gli occhi e sogna.
5-9-2006
94
222 – QUINTO ANNIVERSARIO
Cosa accadde di puro, vero, saggio,
ora che senza musica ricordo
ubriaco di libri e di pensieri?
Comprata merce, ubbidito al potere.
E che avverrà nella storia reale?
Ricostruiranno fameliche torri,
mentre di vite modeste ci parlano
gl’imbecilli che applaudono l’impero?
Pochi morti – a migliaia – e lo sgomento,
puro, vero, non saggio, pei miliardi
di vite collassate che ci attendono,
riscattano persino la pigrizia
quale saggio acquietarsi nell’attesa,
se ogni azione-pretesto ci avvicina.
New York 11 settembre 2006
95
Q.N. 51
BREVE AI PRĬNCIPI:
Perché?
Su ingiallite
precocità sta oggi l’equilibrio:
A quanti oggi precoci affideremo,
retrocedendo, futuri squilibri?
4-10-2006
96
223 – VENDERSI
Vendere, vendersi, esibirsi ai soldi:
la vita dello spirito sparisce
in balletto di chierici a comando.
Non è il comprare, è il vendersi il peccato.
Farò la volpe che disprezza l’uva:
marcia in milioni di copie, dipinta
a filari, barili filosofici
telepromossi in calici eruditi.
Mi suggeriscono di non comprare,
o comprar poco e solidale e bio:
mi vorrebbero in un altro mercato.
Basta! Ho bisogno d’aria pura, gratis,
e di emettere spontaneo un mio soffio:
ho bisogno di non vendere l’anima.
7-10-2006
97
224 – RECIPROCITA’
Guardare e non vedere, distraendo
all’infinito gli occhi, all’infinito
focalizzando la seconda vista
sullo sfondo indistinto dell’esistere,
matura i veri frutti del pensare
uno l’umano, il vivente e le cose,
a volta a volta, dal centro dell’uomo,
di chiunque respiri, o di chi regga
la solida colonna inanimata
che in un mondo di anime diafane
ancori a corpi pesanti gli slanci,
per capire alla fine il vero ordine
razionale del reciproco stare
qui, o nel fuoco, o all’infinito sfondo.
15-10-2006
98
225 – ALTRE STAGIONI
Tre torte al cioccolato e vino doc,
undici stanze due bagni e cantina,
tre auto in tre, vestiti innumerevoli,
e niente trema se non il presente.
Cadere lento d’un giallastro sporco
sul grigio triste dell’autunno. Penso,
o mi lascio tremare da una foglia?
Dovrei godere l’attimo e le cose.
Ma è qui ed ora che il presente trema:
non è per me, o per la mia vecchiaia,
che cadono le foglie, o per l’autunno.
Ciò che cade tremando delle cose
è che non sorgeranno altre stagioni:
l’uomo nel troppo ha perduto il futuro.
21-10-2006
99
Q.N. 52
Bianchi batuffoli fra terra e cielo,
nel calare della luce al tramonto,
rendono morbide le asperità
nel soffice presagio della notte.
22-10-2006
100
226 – TROPPO
Come tradurre in italiano hybris ?
Il superbo peccato capitale
di scegliersi titano contro Dio
travia su vecchi miti la ricerca.
Già l’arroganza calda d’un ottobre
che s’impone all’estate chiede all’oggi,
non la risposta semantica, l’arte
umile d’interrogare le cose.
Troppo chiedemmo al passato di svolgere
sensi pei fasti d’un nostro museo,
troppo al presente anche di buono e bello,
e al futuro di congelare i secoli
troppo simili a noi. Dal fiore Gaia
troppo volemmo e troppo avremo: troppo.
30-10-2006
101
227 – MANIFESTARE
Manifestare, o non manifestare?
Prender altri per mano e render chiaro,
o arrendersi al mistero e convertirsi
al non espresso o al troppo dire occulto?
Il semplice legare verso a verso
in partitura rigida e compiuta,
con vincoli d’accento e poche sillabe,
manifesta lo scheletro del vero.
Con l’onda delle cose e del sentire
nell’incarnato di mille sembianze
si plasma l’aderenza col reale.
Perché tacere, o impoverirsi al buio
di prolissi misteri mai sorretti
dal vero e mai di colori incarnati?
5-12-2006
102
228 – SUONI E CHIACCHIERE
Scardinati sproloqui poeteschi,
prolissi romanzacci medievalfantastici, claudicanti libercoli
di attori e giornalisti: Dio, che merce!
Quando e perché dovessi ancora scrivere
prosa non so. Citando questo e quello
da insigne professore dovrei scrivere
sistemi filosofici in più tomi?
Quando reggo la regia via maestra,
si disfanno i milioni di lettori
e internet sa di morte petrolifera;
guardo invece me stesso e il mondo in uno,
e cerco i suoni su un’unica pagina.
Se sono chiacchiere, che siano brevi.
19-12-2006
103
104
ANNO 2007
105
106
229 – VIVI NASCOSTO
Non rincorro lo spirito del tempo,
da lontano l’osservo e un po’ ne rido.
Altri si fermano al suo caldo abbraccio;
io scavo, Lathe biosas, nel mio spirito.
Non rincorsi lo spirito del tempo
per insicure forze giovanili.
Poi stroncai con minuzia opere altrui:
maschere oscene di carriere e soldi.
E imparai da Epicureo. Lathe biosas:
silenziose preghiere nel deserto
e nella vita il vivere comune.
Non volli grandi commerci, bastò
d’ogni tempo lo spirito. Nascosto.
Quel che io feci di compiuto resta.
1-1-2007
107
108
MORES MAIORUM
109
110
230 – LEX PRIMA
Risum teneatis, amici?
(Orazio, Ars Poetica, 5)
Settimina come i rami dei tigli
nel traditore inverno di quest’anno,
nasce prima del tempo l’allegria
di poetiche gemme sapienziali.
Conoscenza e avventura, o forse gioco,
mi sfidano a cercare dei miei gruppi
dodici almeno antichissime leggi
che il volto umano fissano e rivelano.
Tra il pensiero che impersonale giudica
e il folleggiante io che sente e ride,
la severa allegria spero mi guidi.
Mai stolto, il Noi gl’individui trascura.
Con altri gruppi seriamente tratta,
sì sì no no: difendersi o morire.
17-2-2007
111
231 – LEX SECUNDA
Nemo propheta in patria
(Luca, 4,24)
La profezia come tabù: incesto
di valori futuri nel presente,
del possibile unico nel tutto,
del peccato d’esistere nel nulla.
Incesto e profezia, uscita e scambio:
figli e profeti fonderanno fuori,
tra pericoli smarrimenti e morti,
altre famiglie e mai comprese scuole.
Ma se il fuori degli altri è il noi protetto,
perché il tabù? Domanda vereconda
d’un pensiero che gode incesti osceni.
Sia perciò maledetta l’eresia
del pensiero che astrattamente affermi
il Noi ineguagliato uguale all’Altro.
31-3-2007
112
232 – LEX TERTIA
E pluribus unum
(Motto degli Stati Uniti d’America)
Se intorno a noi rotante l’universo,
come sfera armillare a nostra gloria,
sparsi attimi di speranza centra
nell’individuo immaginato neutro,
di gioia danzo e canto sbeffeggiando
chi davvero ci crede e l’Uno pensa.
Io, da te donna, pretendo l’amplesso.
Tu parla: sogni la casa d’amore?
Da forze ostili ci faremo coppia:
dal due, i molti; nel due, tu io noi;
solo la morte è la metà di due.
Minimo gruppo, l’unità pluràstica
d’ogni gruppo rivela la sorgente,
tra violenza ed amore, di energia.
3-4-2007
113
233 – LEX QUARTA
Miseris succurrere disco
(Virgilio, Aen. 1,630)
Non ignaro del bene, quanto male
l’evanescente morale causò
(cinicamente rido) con le ipocrite
regoline sempre prone al potere?
Da grande cinico e da gran signore,
elargirò ogni briciola con cura
a sempre più distanti noi concentrici,
cantando lodi agli ultimi e affamandoli.
Se mai misero, io, ed affamato,
smetterò il lusso di fare l’ipocrita,
stringerò il cerchio e ucciderò l’estraneo.
Dei miei gruppi oltre il limite, l’umano
senza confini del cielo stellato
violenta il vero e il male altrui mi arreca.
14-4-2007
114
234 – LEX QUINTA
Quid sumus et quidnam victuri gignimur
(Persio, Sat. 3,66)
Da uno a cinque o sei o sette o otto
(o forse cento?) dentro me gli omuncoli,
seri seri col cartellino al collo,
a seconda del rango e del primato
prendon possesso a turno dei tiranti
e al mio corpo comandano: «Ubbidisci:
ora parla lo stato, la famiglia,
la classe, il ceto, o la tua santa chiesa!»
Come sarebbe caldo il mondo ingenuo,
o sacro caos fascinoso tremendo
che ovunque sei e ovunque tu risorgi!
Né gerarchie, né gradi, né primizie
salveranno dal caos i gruppi eredi
del gruppo che sfuggì dal primo caos.
14-7-2007
115
235 – LEX SIXTA
Philosophia omnibus lucet
(Seneca, Epist. 44,2)
Come comprendere il male assoluto?
Che luce brillerà ai nascituri,
se ai defunti la luce eterna splende
e ai vivi ogni mattina il sole canta?
Dovrà qualcuno (dovrò io ridendo?)
gl’inganni della luce agli occhi togliere:
il commercio coi morti come gruppo
venèfici Aldilà eterni impose.
Or che il passato sbianca e ne ridiamo,
estraggono al futuro il nuovo gruppo
dei Nascituri del Bene Assoluto.
E risorge a contrasto fra i viventi
dati già morti l’Inferno Assoluto.
Per noi, no! Noi immoleremo il capro.
17-7-2007
116
236 – LEX SEPTIMA
Philosophia ad paucos pertinet
(Quintiliano, Inst.or. 8,24)
Nessuno dubiti del nostro Nomos:
millenni fa misurammo la terra.
Prima fu pascolo dei nostri armenti;
poi campi arati da buoi poderosi,
e castelli e città con alte mura;
ed ora stati vasti fino al mare.
La Terra intera? Che nessuno infranga
il primo nomos che cacciò l’estraneo.
Quale diritto accamperei sul Tutto?
Nel bisogno dell’Altro per fondarmi
sempre rinnegherò l’Uno mortale.
Misurerò di nuovo un primo pascolo
per battere il maligno che prolifica:
pochi saremo e incideremo il cancro.
21-7-2007
117
237 – LEX OCTAVA
Ut sit mens sana in corpore sano
(Giovenale, Sat. 10, 356)
Da forze cieche in un’ansa del tempo
primo ordine creato fu il corpo,
corpo fra corpi, elica fra eliche,
giovane e sano o sofferente e morto.
Ordine superiore del creato
ed oggi ordinatore delle regole,
l’umano è il caos organizzato in gruppi
legati da un contagio detto “Mente”.
E finché il corpo si nutre di corpi
e contro l’entropia intanto naviga,
ha la salute del calore e vive.
Ma pur se il corpo è per la vita sano,
folle ed esclusa soffrirà la mente
quando smarrisca i gruppi che la reggono.
27-7-2007
118
238 – LEX NONA
Non scribit cuius carmina nemo legit
(Marziale, Epigr. 3,9,2)
La mania di grandezza non mi angustia.
Filosofo, poeta e ierofante,
od anche illuso, parolaio e falso,
mi chiedo: avrò un peso nei miei gruppi?
L’allegria mi travolge e chiedo tutto.
Mi chiedo quanto pesi la galassia,
o il nostro sole, o le montagne intorno,
e quanto infine i gruppi, nel mio spirito.
Non lo spirito astratto ma il bifronte,
che m’indirizza ligio nei miei gruppi
e con l’opposto sguardo i gruppi giudica
se in armonia col mio creato stanno,
fa la mia vita unica epperciò
seria: unica e seria in sé totale.
3-8-2007
119
239 – LEX DECIMA
Norit quisque naturam sui corporis
(Celso, De re med. 1,1)
Il corpo è l’àncora dell’io nel mondo.
Ed è anche l’ancòra in ogni istante
che, multiforme variando, sviluppa
l’unicità dei miei stili di vita.
Finché son vivo, io, di questo mondo
creatore creato dai miei gruppi,
con la mia vita torno a modellare
la creta delle tornanti stagioni,
sempre più nuove, sempre più profonde,
sempre uguali all’insieme “Io e mondo”,
onnipotente solo per la morte
che, distruggendo me, di nero pianto
distruggerà il creato ed i miei gruppi,
lasciando forse all’entropia due atomi.
14-8-2007
120
240 – LEX UNDECIMA
Paid the exceptional penalty
of exceptional honour
(Christina Rossetti, Monna innominata)
Almeno ricordassi il giorno o l’attimo!
Venne. Passò. E non ne ho memoria.
E se fui lupo, scimmia, pesce o alga,
almeno questo vorrei ricordare.
Miliardi d’anni scissi in nove mesi
e, mi dicono, nacqui. Altri mesi,
potessi ricordarli! e fui impresso
figlio, fratello, duttile e italiano.
Fui nutrito dai miei e fui protetto
finché la mia memoria si formò,
unica sulla mia unica vita.
Ora ricordo, ma non ho più voglia:
l’essenziale lo trasmisi ai miei figli.
Ora coltivo uno sguardo sul mondo.
18-8-2007
121
241 – LEX DUODECIMA
Nun hab’ ich mein Sach auf Nichts gestellt
( Goethe, Vanitas!
Vanitatum vanitas! Qo. 1,2)
Quando alla storia per gioco mi arrendo,
scopro la specie umana inetta a vivere:
venne la guerra e poi tornò la pace;
fu ancora guerra e non tornò la pace.
Sparuti gruppi di barbari umani
posposero la fine di millenni,
accelerando la ragione umana
col semplice contagio della Mente.
Ora, al tramonto, incapace di freni
la ragione protende troppo più
ombre allungate sul nostro futuro.
Resta una cruda, selvaggia speranza:
le antiche leggi senza tempo valgono.
E ho fondato la mia causa sul nulla.
18-8-2007
122
Q.N. 53 TERTIA DECIMA PARS
Non si terra mari miscebitur
et mare coelo
(Lucrezio, De rerum naturae, 3,842)
Senza allegria, come uno stolto rido
immerso nello scandalo del caos
che ci consente il male e il bene e il tempo,
finché la Terra dura ed io non muoio.
19-8-2007
123
124
242 – TU. MA IO?
Omaggio a Christina Rossetti
Vorrei quel primo giorno ricordare,
il primo istante che tu m’incontrasti!
Se era luce, buio, estate, inverno,
nemmeno così poco posso dire.
Tanto anonimo scivolò quel giorno!
Fui così cieca a vedere, a capire,
così ottusa a notare i miei bocci
anni prima che fiorisse il mio albero.
Se solo ricordassi un tale giorno,
il primo! Lo lasciai venire, andare,
senza traccia come neve disciolta:
pareva niente. Tanto ora sarebbe,
se solo ricordassi il primo tocco,
la mano nella mano – almeno questo!
20-8-2007
125
243 – SESTO ANNIVERSARIO
Fu l’undici settembre un’illusione?
Non i morti, le distruzioni, il male,
né la fuga dell’inferiore sperso
per eligere il nemico assoluto.
Fu l’undici settembre un’illusione?
Non il delirio obeso sulla fame
compulsiva di cibo e onnipotenza
di chi, tutto sapendo, nulla seppe.
Fu un’illusione la pietra d’inciampo
che sembrò dissepolta e non lo fu,
lo scandalo che allora non esplose
nell’orgia distruttiva delle fiamme,
nella follia di vendette divine,
nell’occasione persa di riflettere.
New York 11 settembre 2007
126
Q.N. 54
Vagavano parole nella notte,
come fantasmi, non dette, future.
O senza tempo. Gemiti di parto.
Forse vagiti di pensieri altrui.
12-9-2007
127
Q.N. 55
Pomeriggio di festa e guardo piovere,
tristezza distillata, acqua inutile.
In poche gocce immobili l’estate
disfà ogni sua forza e si trattiene.
16-9-2007
128
244 – NOTTE
Mille schizzi di nulla e una fornace
che bruciando petrolio il tempo accelera
c’illudono su noi e sul presente.
Arrendiamoci nudi alle domande.
Cosa sarà di noi fra mille anni?
E fra un milione resterà una traccia?
Se dopo la mia morte il tempo tace
è la mia vita un battere illusorio?
O è illusorio il dipanarsi astratto
di numerati secoli, in parametri
cari forse alle stelle e a noi abnormi?
L’Ottocento è scomparso e il Novecento,
tragica farsa, svapora incompreso.
Ci fu qualcosa che non fosse notte?
13-10-2007
129
Q.N. 56
Sbatte lanciando frammenti di sole
l’imposta al vento d’un rudere vuoto.
Per ora il vetro resiste, ma quanto?
E verrà una grandinata di lame.
27-10-2007
130
245 – OCCAM
Sono mai esistiti i dinosauri?
E Ulisse, Omero, Dante e Beatrice?
Mi concepirono i miei genitori,
o concepisco io la loro idea?
Splende il rasoio di Occam solamente
come stella in un fuoco dell’ellisse?
O permette domande senza senso
per affermare il nonsenso del tempo?
Vibra il sole dal giallo delle foglie
tremolanti nel vento, che sta fermo
oggi per sempre nel caduco autunno:
è così semplice sbalzare, e lieto,
l’unico ente che interseca il mondo,
la mia unica vita nel presente.
5-11-2007
131
Q.N. 57
Se conterà i secoli, per secoli
maledirà, scavato dalla fame
sotto un cielo di nuvole rossastre,
noi pingui demoni l’uomo futuro.
5-11-2007
132
Q.N. 58
La via di armonici percorsi umani,
lungamente in disunione allevati,
per l’amore che sovrano ci vinse
io so che tu sai che io so che tu sei.
30-11-2007
133
Q.N. 59
Ormai persi, di pietà trascurabili,
guardiamo gli altri, e gli altri noi, fantasmi
d’epoche indegne che per scherno il tempo
ci fa vedere a noi stessi noi ultimi.
15-12-2007
134
246 – POLVERE
Fra papi incerti ed antipapi inutili
morì a vent’anni Ottone imperatore.
Mille anni soltanto son passati,
soltanto mille polverosi anni.
Per me, vorrei soltanto mille anni,
solo (e tanto!) mille anni ancora,
gli ultimi miei che a rotazione tornino:
attimo eterno esteso a mille anni.
Ma la polvere scossa, che ricade
sulle stesse giornate ripetute
in riti vani ritenuti eterni?
O il mitico invecchiare senza fine
in un mondo incompreso sempre nuovo?
E penso a Ottone sperso in questo mondo.
29-12-2007
135
136
ANNO 2008
137
138
247 – LA RELIGIONE DI GAIA
Quest’isola danzante in equilibrio
tra il Sole ed altre forze, Gaia Viva,
in dimensioni dai millenni agli attimi
ogni attimo ogni millennio danza,
equilibrando i ritmi innumerevoli
sul battito del piede, che schiacciando
forme vecchie di vita partorisce
forme altre di vita innumerevoli.
L’uomo sempre adorò la Grande Madre,
ma Gaia, la religione crudele,
non si addolcisce con preghiere o riti,
né si adira, non è una persona:
indifferente ai sacrifici umani
corregge ad ogni passo i nostri errori.
13-1-2008
139
Q.N. 60
C’è sempre un imbecille che ti chiede
di definire esattamente un albero,
l’arte, il gioco, la lingua che parliamo
e persino l’“imbecille”. Ma c’è.
29-1-2008
140
Q.N. 61
Gettare perle ai porci è cosa inutile.
Ma santa, di cecità generosa:
spargere ovunque ricchezza su tutti.
Non giudicatemi col vostro metro.
8-2-2008
141
248 – MOZART
Come dovrei da qui pensare il Tutto?
Non con parole che gelano in cose,
né con strutture ordinate dal tempo,
né con i non che negano il mio esserci.
E’ volato un piccione dal mio tetto
al cornicione di fronte, sbrecciato,
superbamente inutile. Alleluia!
cantavamo con Mozart, io e loro,
loro tutti che c’erano, il piccione,
il rudere sbrecciato, il tiglio nudo,
il vento gelido nel sole. Ed io.
E Mozart che creava
il ritmo delle voci,
il vero d’ogni tempo,
il caldo d’ogni cosa,
l’esserci Tutto in me.
16-2-2008
142
Q.N. 62
Perché la nostra psiche viene invasa
da peccati che nostri ci convincono
per nascondere cause e inoculare
scopi-cilicio Masoch-teologici?
20-5-2008
143
Q.N. 63
Continua inesorabile l’estate:
stillicidio violento di sudore.
Tossico d’umidità, l’equilibrio
perde il folle che vuol essere escluso.
5-9-2008
144
249 – SETTIMO ANNIVERSARIO
Stanchezza di pensare: dondolare,
soltanto dondolare senza attese,
senza pretese di pensieri, vuoto,
in questo mese termine d’estate.
Ma mi rode l’impegno a riproporre
ogni anno, per sempre, la domanda:
Perché? Cosa nasconde di tremendo
nel futuro l’incompreso passato?
Alzato, fatta barba e colazione,
tranquillamente andai coi miei compagni
a morire pur d’uccidere a freddo.
Perché? Cosa nascondo di tremendo?
Quale massacro mi massacra il cuore?
Non so, vorrei soltanto dondolare.
New York 11 settembre 2008
145
250 – IL SOLO SACRO
Ad ogni palpito milioni di anni
e in ogni giorno milioni di palpiti,
tristissimi di morte e ritornanti
di vita, legano il tempo alla carne.
Io, benedetto dall’arcobaleno,
passeggiando nella pioggia ottobrina,
con la mia carne creo il punto qui,
ora, da cui lo spazio e il tempo sono.
Atomi evanescenti di materia,
attimi inconsistenti di durata,
nell’ozio agiato li pongo per gioco.
Ma nel vivere e nell’amare, il mondo,
nella tortura e nel pianto, il mio mondo,
nel disfarsi e nel buio, è il solo sacro.
3-10-2008
146
Q.N. 64
Incomprensibile incompresa resta
la vita: turbine calmo, noioso
d’abitudine, eroico di pazienza,
meraviglia di mondi tremolanti.
17-10-2008
147
251 – LA COSCIENZA
Nel mistero le Variazioni Goldberg
sovrane restino. Perché studiarle?
Venti e nuvole sovrastano i platani;
sopra, anche il cielo degrada la luce;
più in alto il Tutto, o la mia Mente, guarda.
Ascolto, guardo e nel pensiero vedo
là in fondo anche me stesso, pio sovrano,
pacatamente essere cosciente.
Guardo gli alberi; e loro sanno me.
Sento il vento; e mi sfiora. Mi degradano
nuvole e luce. E mi esaltano effimero.
Prima di analizzare e numerare,
abbiamo sciolto i sentimenti al ritmo?
e intrecciato le voci, il buono, il bello?
30-10-2008
148
Q.N. 65
Lembo di nebbia dal letto del fiume:
sull’argine tre fichi miei fratelli,
potati per violenza o per amore,
sdegnano le carezze nel letargo.
9-11-2008
149
252 – NOSTALGIA REMOTA
Nostalgia della memoria futura:
fra mille, diecimila, centomila
anni, di me individuo limitato,
dei miei pochi pensieri e sentimenti,
di chi mi amò e credette in eterno,
di chi fuggevole ho visto e m’ha visto,
dei tanti mai incontrati eppur viventi,
dei tanti ad uno ad uno ad oggi morti,
di questo mondo di cui sono il centro,
sarà tutto frantumato e disperso?
Sarà polvere al vento in un deserto?
Nemmeno il nome in un’era remota
rimarrà di quest’epoca in cui sciolgo
oggi la nostalgia d’essere sempre.
27-12-2008
150
253 – ESSERE O AVERE?
Essere sempre o coltivare il prossimo?
Il verbo essere condanna gli uomini
a lustrare da Parmenide ad oggi
il vuoto cenotafio della vita.
Con gentilezza, volendo, gli stringo
e mi stringe la mano: nei suoi occhi
i miei occhi, volendo, con pudore
la dignità del prossimo riflettono.
Avere: non possedere, non essere;
avere come passato reciproco,
come linfa da foglia a foglia verde.
Avere: dono gratuito di vivere
partorito nel sangue tra fratelli.
Non sillogismo arido del Verbo.
31-12-2008
151
152
ALBUM DI HAI
153
154
HAI N. 1
il vento grigio---------------contrasto di tuoni
Disegnare! e i colori?------lontanissimi
finisce l’anno----------------persi nel passato
8-2-2008
HAI N. 2
innamorarsi------------------con raggi di luce
d’intelligente amore--------corrisposto
per ogni giorno--------------da giorni d’amore
11-2-2008
HAI N. 3
un uomo un cane-----------vulcanici pini
su un tappeto di sassi------scorticati
in controluce----------------nel tramonto esangue
15-2-2008
155
HAI N. 4
numeri primi----------------sciocchi indisponibili
parentesi sacrali------------per quozienti
d’intelligenza---------------fuori dell’umano
18-2-2008
HAI N. 5
occhieggia il giglio--------virgineo candore
meravigliosamente--------nel preludio
fra l’erba incolta-----------di doni del tempo
20-2-2008
HAI N. 6
labbra serrate---------------nel tremito sordo
lingua tesa al palato-------per l’orrore
saliva cieca-----------------Oh, misericordia!
24-2-2008
156
HAI N. 7
debole pioggia--------------nel notturno quieto
riflessa sul bagnato--------come trina
sciabola luce----------------fra l’anse del buio
27-2-2008
HAI N. 8
al centro media-------------su un trespolo fisso
un’aquila di paglia---------tra due punti
e mima il volo--------------comoda vertigine
12-3-2008
HAI N. 9
di gemme e foglie----------al ritorno solare
si dilungano i rami---------nella danza
di Proserpina----------------nove mesi pregna
20-3-2008
157
HAI N. 10
Essere ente-----------------c-osa che c-osasse
essere-per-la-morte-------abba-i-ando
nella radura----------------sol-co(n)-tr-(o)-al la l-una
21-3-2008 (Mi ricorda che non sopporto Heidegger)
HAI N. 11
la poesia-------------------bellezza rafferma
oggetto per oggetto------forse altrui
cerca la vita---------------forse nel già morto
21-3-2008
HAI N. 12
nebbie di marzo-----------in lingue a mezza costa
su sentieri indecisi--------evanescenti
giovani persi---------------fra sogni irreali
15-4-2008
158
HAI N. 13
notte: russare-----------------rantoli d’ossigeno
sogni lunghi e affannosi----claustrofobici
senz’aria o luce--------------bramano risvegli
21-4-2008
HAI N. 14
notte sul fiume---------------piccolo vascello
c’illumina d’immenso------incantamento
franti nell’acqua-------------di sogni virili
15-5-2008 (Scherzo su Dante e Ungaretti)
HAI N. 15
troppo bagnati----------------passata la pioggia
petali di geranio--------------disperati
cercano il sole----------------sulla terra dura
23-5-2008
159
HAI N. 16
spumante giallo--------------su sfondo di foglie
è iniziata la pioggia---------molte righe
dai tigli in fiore--------------cercano la vita
2-6-2008
HAI N. 17
nel cielo d’afa---------------immobile biancastro
una rondine sola------------inconcepibile
stanca si sveglia------------come un segno nero
6-7-2008
HAI N. 18
foglie e poi rami------------trastullo del vento
d’un respiro profondo------ritornante
verde risata------------------per basso continuo
19-8-2008
160
HAI N. 19
disfà la vita-------------------la chioma degli alberi
lo sfogliarsi dei libri--------già morenti
ad ogni autunno-------------puri nell’estate
1-10-2008
HAI N. 20
menti cosmiche-------------guardano lontane
gracili fiori dubbi-----------loro stesse
in questo autunno-----------nell’anno incarnate
13-10-2008
HAI N. 21
dal verde al giallo------------danzano le foglie
del sole in piena luce--------strette al ramo
va torna il vento--------------che al ritorno ride
15-11-2008
161
HAI N. 22
l’ultima foglia---------------cerca un’altra vita
del platano più alta---------in altre forme
vibra e si stacca------------ su di sé girando
13-12-2008
162
TRADUZIONI DA EMILY DICKINSON
Dieci frammenti barocchi
da un’appartata vita tragica
vittima di Shakespeare
e della Bibbia di re Giacomo.
Quando usciremo dal Romanticismo?
Agosto – Settembre 2008
(Numerazione Johnson delle poesie di Emily Dickinson)
163
164
N. 216
Al sicuro in camere d’alabastro,
non toccati dal mattino
né dall’alto del giorno,
dormono i docili membri della Resurrezione.
Solaio di raso
e tetto di pietra.
Lieve ride la brezza
nel castello sopra di loro,
chiacchiera l’ape a orecchi impenetrabili,
dolci uccelli cinguettano incompresi.
Ah, che sagacia qui rovinò!
(Versione del 1859)
N. 216
Al sicuro in camere d’alabastro
non toccati dal mattino
né dall’alto del giorno,
giacciono i docili membri della Resurrezione.
Solaio di raso e tetto di pietra!
Grandiosi passano gli anni, nella volta sopra di loro,
mondi scavano archi
e firmamenti navigano,
diademi cadono e dogi si arrendono,
silenziosi come briciole, su un disco di neve.
(Versione del 1861)
165
N. 258
Vi è una certa inclinazione di luce,
i pomeriggi d’inverno,
che opprime come il peso
di musiche di cattedrale.
Una celeste ferita ci provoca:
non troveremo cicatrici,
ma una differenza interiore
dove i significati stanno.
Nessuno può spiegarla, nessuno;
ne è sigillo la disperazione,
un’afflizione imperiale
inviataci nell’aria.
Quando giunge, il paesaggio ascolta,
le ombre trattengono il fiato.
Quando cessa, è come la lontananza
sull’espressione di morte.
166
N. 280
Avvertii un funerale nella testa,
e i dolenti avanti, indietro
camminavano camminavano, finché parve
che si spezzasse ogni senso.
E quando furono tutti seduti,
una funzione, simile a un tamburo,
batteva batteva, finché pensai
che la mia mente diventasse insensibile.
E allora li udii sollevare una cassa
e attraversarmi scricchiolando l’anima
con quegli stessi stivali di piombo, continui.
Allora lo spazio iniziò a rimbombare
come se tutti i cieli fossero una sola campana;
e l’Essere, un unico orecchio;
e io e il silenzio, una strana razza
naufragata, solitaria, qui.
E allora un asse nella ragione si spezzò;
e io caddi giù, sempre più giù;
e urtai un mondo, ad ogni tuffo;
e finii di conoscere – allora.
167
N. 303
L’anima sceglie la propria società
poi chiude la porta.
Fino al divino raggiungimento dei più
non si presenti altri.
Impassibile, nota le carrozze ferme
al suo piccolo cancello.
Impassibile, un imperatore potrebbe inginocchiarsi
sul suo stoino.
Ho riconosciuto che lei, da una grande nazione,
sceglie un ambiente.
Poi serra i battenti della sua attenzione.
Come una pietra.
168
N. 510
Non era morte, perché stavo in piedi
e tutti i morti giacciono distesi.
Non era notte, perché tutte le campane
suonavano a distesa il mezzogiorno.
Non era gelo, perché sulla mia carne
sentivo venti caldi strisciare;
né il fuoco, perché i miei piedi di marmo
potevano tenere un presbiterio, freddo.
Eppure sapevano di tutto ciò,
le figure che ho vedute
composte per la sepoltura.
Mi ricordavano, a me, la mia,
come se la mia vita fosse piallata,
e costretta in un’armatura,
e non potesse respirare senza una chiave,
e come fosse mezzanotte,
quando ogni cosa che ticchetta sta ferma,
e lo spazio fissa intorno lo sguardo;
o quando geli sinistri, i primi mattini d’autunno,
annullano il palpito del suolo.
Ma di più, come il caos, sterminato, freddo.
Senza una possibilità, o l’alberatura,
o almeno un segnale di terra,
per assolvere la disperazione.
169
N. 709
Pubblicare – è la vendita all’asta
della Mente d’un uomo.
La povertà potrà giustificare
un atto così vergognoso:
forse. Ma noi, dalla nostra soffitta,
vorremmo piuttosto andare
bianchi fino al Creatore del bianco,
che mettere all’asta la nostra neve.
Il pensiero appartenga a Colui che l’ha dato,
poi, a Colui che ne porta
la forma corporea. Venda
l’aria regale.
Nella partita, sia il mercante
della Grazia divina.
E non riduca nessuno Spirito umano
alla disgrazia del prezzo.
170
N. 712
Poiché io non potevo fermarmi per aspettare la morte,
lei gentilmente si fermò ad aspettarmi.
La carrozza conteneva solo noi due
e l’immortalità.
Viaggiammo lentamente – non conosceva fretta –
ed io potei compiere
il mio lavoro, ed anche il riposo,
per la sua cortesia.
Oltrepassammo la scuola, dove i bambini giocavano
nell’intervallo, in cortile;
oltrepassammo i campi di grano occhieggiante;
oltrepassammo il sole al tramonto,
o meglio lui ci oltrepassò.
Le rugiade stesero tremore e freddo:
solo tessuto leggerissimo la mia veste;
lo scialle, solo tulle.
Indugiammo davanti a una dimora che sembrava
una protuberanza nel terreno:
il tetto era appena visibile,
il cornicione, nel terreno.
Da allora – secoli fa e tuttavia
sembra meno d’un giorno –
io per la prima volta dubitai
che i cavalli fossero rivolti all’eterno.
171
N. 713
Fama di me stessa – Per giustificarla
ogni applauso di altri sarebbe
superfluo, un incenso
senza nessun bisogno.
Fama di me stessa nessuna – Anche se
il mio nome risuonasse dovunque,
ciò sarebbe un onore senza onore,
un futile diadema.
172
N. 721
Dietro di me l’eternità s’immerge,
davanti a me l’immortalità,
io stessa confine fra loro.
La morte, solo deriva del grigio ad Oriente
che dissolve l’alba
prima che l’Occidente sia.
E dopo, dicono, ci sono regni:
perfetta, ininterrotta monarchia,
il cui principe, figlio di nessuno,
lui stesso, sempre, è la sua dinastia,
lui stesso che se stesso diversifica
in duplicato divino.
C’è il miracolo davanti a me, allora,
c’è il miracolo dietro, e nel mezzo.
E una luna crescente nel mare,
con mezzanotte al suo Nord
e mezzanotte al suo Sud.
E tempestoso un vortice nel cielo.
173
N. 754
Era bloccata la mia vita, un fucile carico,
in un angolo, finché un giorno
il proprietario passò, mi riconobbe
e mi portò via.
E ora vaghiamo in boschi regali,
e ora cacciamo la cerva,
e ogni volta che parlo per lui
le montagne pronte rispondono.
E appena sorrido, una tale luce cordiale
splende sulla vallata,
come se un volto vulcanico
facesse trasparire il piacere.
E quando a sera, finita la bella giornata,
sorveglio la testa del mio padrone,
è meglio che aver condiviso
un profondo cuscino di piume.
Al suo nemico sono mortale nemica:
nessuno si muove la seconda volta
su cui poso un occhio geloso
o un imperioso pollice.
Sebbene io di lui possa vivere più a lungo,
egli più a lungo deve di me,
perché io ho solo il potere di uccidere
senza il potere di morire.
174
PRIME POESIE
Undici prove non indegne
175
176
VISITA A UN MORTO
Ho visitato un morto:
l’odore dolciastro della putrefazione
ha colpito le mie narici.
Ho attraversato l’aia
riscaldata dal primo sole di primavera;
ho salito la scala di pietra fresca;
ho percorso l’andito a mattoni
e sono entrato nella camera del morto.
Giaceva su un fianco, coperto dalle coltri,
com’era spirato nel sonno.
La finestra era chiusa;
e l’aria era sempre quella in cui il morto
aveva dato l’ultimo respiro,
poche ore avanti.
Dapprima, ho creduto che quello
fosse l’odore dei muri tinti a calce.
Poi ho capito:
le altre stanze non odoravano di putrefazione.
La moglie e i parenti
tributavano, com’è loro dovere,
pianti e lamenti alla salma.
I bambini guardavano
e non sapevano cosa fare.
177
Io solo
sentivo l’odore dolce
che tutto baciava.
Sono sceso e mi sono seduto all’aperto:
l’aria pura della campagna
e il dio Sole raggiante
mi ristoravano.
Strano come il sole riscaldi ancora,
dopo la morte d’un uomo.
E come scorra, anche ora,
l’acqua nel ruscello vicino.
Ho visitato un morto:
l’odore della putrefazione
ha raggiunto le mie radici.
1962
178
PRATO
Un giorno partirò con questo treno.
Prato,
città murata del medioevo,
città pietrificata sui miei sogni,
non hai albero
che rompa il tuo selciato di ghiaccio;
non hai piazza
che allontani da me le tue fabbriche;
non hai aria
che mi trasmetta voci amiche;
non hai fogna
che non esali putrefazione
di topi e di uomini.
Ma non corromperai anche il mio corpo.
Un giorno partirò con questo treno.
Il mio profilo è di coste marine.
Le mie braccia sono torrenti alpini.
Il mio ventre è una roccia spianata.
Un giorno partirò con questo treno.
Un giorno partirò con questo treno.
179
Le mie mani modellano la creta.
Colgono le gemme di biancospino.
Accarezzan le cosce della femmina.
Un giorno partirò con questo treno.
Un giorno partirò con questo treno.
Le mie parole sono un fiume lento.
I miei orecchi, scrigni che ricevono.
I miei occhi, specchi di civiltà.
Un giorno partirò con questo treno.
Un giorno partirò
con questo treno.
1962
180
ANSIA
L’ansia mi opprime;
e mi scavo,
come il letto d’un fiume,
senza far nulla.
1963
181
IL MORTO
Quando la nostra vita aveva il ritmo
delle stagioni,
quando la nostra vita aveva il ritmo
dei fiumi profondi,
quando la nostra vita era l’eterno,
volevo andare scalzo sull’erba
per udire il battito della terra
quando rinasce e muore.
Ma ora,
datemi un’automobile che sia veloce,
un telefono libero,
una stanza: quattro muri e il soffitto.
Non voglio altro: il calore celeste
del sole, il verde alto dei boschi
è per voi. A me, datemi sepoltura.
1963
182
PRIMO AMORE
Donna, spesso te fanciulla mi ricordo
esitante nella notte dei vergini affanni.
Nel buio del tuo terrazzo t’accarezzavo i capelli
e coi baci una forte risposta ti chiedevo.
E tu, con occhi bassi, tremante,
spiegasti improvvisa una coperta sul pavimento.
Stesi nel muto, primo amplesso,
crudeli lontananze trepidi riscattammo.
Ma poi, fra lacrime fanciullesche ti alzasti,
nascondendo nelle mani il pentito occhio sfuggente.
“No, non piangere più!” sussurravo.
“Ascolta invece questa musica adulta dei corpi:
ora le nostre vite gemono insoddisfatte
se pudica trattieni gli slanci generosi.
O mio fiore, succhiata corolla di nèttare,
affolla di teneri sentimenti il mio abbraccio!”
Il tuo viso, maturo di felici bagliori,
di scatto si volse e afferrò nel mio sguardo
la pienezza delle dolci ragioni d’amore:
come una bimba, t’abbandonasti nell’incavo del mio collo.
La forza che spinge il futuro del mondo
ti ha modellata, sul metro dei miei sogni,
sposa perfetta. Quanta letizia
rendono ora le tue braccia al mio vivere quotidiano!
1968
183
AUTUNNO
Lasciatemi la mia ignoranza!
Perché indagare e studiare,
quando sono triste come il vento di dicembre
e ho solo voglia di piangere?
Ed anche la mia tristezza lasciatemi:
è l’ultima nostalgia della primavera
nel vuoto d’una precoce vecchiaia.
Cosa ho fatto della mia giovinezza?
Un tronco mal potato
ha ributtato poche foglie,
ed è già autunno.
1969
184
LA SIEPE DI BOSSO
Oh, vecchia siepe di bosso,
con le foglioline quasi nere,
con i rami contorti che esploravo
ad uno ad uno, salendo e scendendo,
rimpiattato, così mi sembrava,
alla vista dei compagni, di tutti!
Là dov’era più vecchia e più spoglia
varcavo la sua porta miracolosa.
Come una lunga caverna fatata
andava la siepe lontano
ed io, fra le pareti di foglie,
con lei andavo lontano.
Il dolce incanto della poesia,
che sempre mi richiama sul cammino
dell’ombrosa caverna delle fate,
è la potenza che esaudisce divinamente
la domanda: “Perché sono nato?”
L’arte è la totalità delle cose.
1970
185
LA GIOIA
C’è nell’aria una gioia! Tutto bacia
nella via di città dove t’aspetto.
I volti delle donne, i loro passi,
come impazienti, sorridono svelti.
Perché restare? Nel cielo profondo
si slanciano e ricadono le libere
velocissime rondini, festanti
mentre il sole fiammeggia verso i colli.
Per far l’amore col gusto di terra,
ci nascondiamo nei boschi, dimentichi
nei colori della macchia, dei pini.
E sull’erba, il mistero della gioia
semplice appare e umano e così dolce
che nell’azzurro il mio corpo disciolgo.
1970
186
IL GIORNO DELLE NOZZE
Nessuno osserva le regole sciocche.
Vada l’uomo sotto casa
della sposa, senza entrare.
Ma lui corse avanti a tutti.
E la sposa, chiusa in camera,
non si muova dallo specchio.
Ma lei stessa gli andò incontro.
Lui le porse un mazzolino
che lo fece perdonare.
E da bravi poi formarono
un minuscolo corteo,
con le macchine a noleggio
e i parenti per chauffeurs.
Arrivarono in anticipo:
porte chiuse, chiesa buia,
niente guida, punti fiori.
Le sorelle a rimediare:
corre il prete a rivestirsi
e dà luce il sacrestano.
Finalmente il matrimonio
(dopo un’ora in ginocchioni):
Vuoi tu prendere…? Ma sì!
187
Sì, ma ricordo anche due occhi
che ardenti chiamavano nell’intimo;
e la mano che ti strinsi per risponderti,
quando uscimmo dalla chiesa, non a braccetto,
ma come due compagni di gioco.
E partimmo: noi a noi stessi.
La gioia vibrava lungo il treno
al nostro passaggio, su e giù, per vedere,
per muoversi, per sorridere, per trovare
uno scompartimento tutto nostro.
E il sole appariva e spariva
dietro nubi leggere, che ogni tanto
piovevano come gocce di rugiada.
E ridendo, e sul serio, dicevamo:
“Sposa bagnata,
sposa fortunata.”
1970
188
I FIGLI
La nascita d’un figlio è come
il forte vino del Chianti.
Nacque, la mia prima figlia,
una sera stellata di novembre:
per lei la grandezza del creato
tremolava soavemente benigna.
E il sole, per il secondo mio figlio,
inondò una giornata d’inverno,
sì che la primavera, gioiosa regina,
sbocciò al sorgere di febbraio.
Per la terza, al suo riso insistente,
con ghirlande odorose di maggio
scese l’aria dai colli,
per udirla già in festa col mondo.
Sì, è come il forte vino del Chianti
la nascita d’un figlio:
inebria la testa d’eterno.
1970
189
PREGHIERA
Oh, quanto t’aspetto!
Perché non vieni,
immortale entusiasmo?
Vieni! E purifica
il mio spirito dalla noia!
Rendimi il fuoco!
1970
190
L’ULTIMA PRIMAVERA
191
192
Oggi, ho goduto l’ultima primavera.
Le rose traboccano dai giardini delle ville,
a cespugli, a ciocche: una gialla nel gran verde
d’una macchia, rosine sopra un vecchio olivo
che sembrava ringiovanito, e quelle scarlatte che orgogliose
una per stelo si dilungano. E alberi, i mille
giovani spiriti. Oh, fossi un albero in primavera!
Essi vivono la comunione fuori del tempo.
Camminavo; e più che guardare, adoravo l’eternità.
I fiori, e gli alberi, e l’erba, ed io,
con tutti gli animali (un cane che lontano
abbaia, gl’insetti, le lucertole freddolose,
gli uccelli che ancora cinguettano e volano)
noi tutti, i risvegliati dal tempo, parlavamo
le stesse silenziose parole che legano
fraterne la vita alla vita.
Poi m’ha straziato l’assordante volgarità d’una moto.
Che tristezza, ora, quei cancelli chiusi!
Mi sento come una rondine caduta che sbatte la terra
e soffoco d’asfalto fra cumuli di spazzatura.
Io non desidero oggetti che mi pesino sulle spalle
vietandomi il futuro, non voglio morire perplesso.
Quant’altre generazioni godranno la primavera,
se anche gli oceani gorgogliano?
193
Ad uno ad uno moriamo, da sempre. Ma dopo noi,
le opere nostre stanche senza più luce sprofonderanno.
E la nostra memoria sarà persa nel vuoto;
l’orgoglio della storia, umiliato d’oblio;
e Dante e Socrate non saranno mai stati.
Altre creature, altre tensioni cominceranno da questo nulla.
E il nuovo signore del mondo graffierà,
con artigli mostruosi, i deserti.
Disperato è il futuro che innalziamo. Ma sacro,
sacro e benedetto il trionfo dell’amore,
quando i sogni luminosi nel sangue veloce
si ergono e scacciano le tenebre impaurite.
Morremo, sì, ma ora viviamo: non si oscura l’eterno.
Roseo, il sole squarcia nel cielo
e lo strido dei passeri e la voce dell’uomo
allargano il respiro del giorno.
E’ questa l’opera nostra immortale:
il guardare, il sentire, l’odorare il mondo:
la realtà; e l’armonica luce candida
che al tutto innalza le parti e a noi le rende.
Perché, se onoriamo, ora, grandi i filosofi,
gli artisti, gli scienziati, i guidatori di popoli,
sempre adorammo la maestà del creato, nostra figlia
impressa di puro amore.
194
Io, che di lunghi studi ormai sazio
mi sento e dai libri rifuggo, e in azioni
meschine sono chiuso e alle grandi, o non ebbi
benigna natura o non è l’ora ch’io agisca,
pure, vedendo i figli e mia moglie
muoversi in questa stanza, e gli oggetti e le pareti
e il corpo stesso che chiamo mio,
saldi rimanere, come fossero veri
il tempo e lo spazio e le relazioni che li legano,
io, un grido di stupore ancor tramando:
“O divina, o chiara, o profonda bellezza
di essere, di vivere, di morire!”
1971/1982
195
Scarica

leggi il testo completo