SOLIDALI, PERCHÉ Riprendendo iprendendo in mano la BIBBIA 1 PREMESSA Un consiglio da amico: riprendi in mano la Bibbia Scusi, lei è solidale? Provate a rivolgere a qualcuno (un passante, l’autostoppista al quale avete appena dato un passaggio, il vicino di sedia nella sala d’attesa dell’ambulatorio dell’ASL): in risposta avrete sempre un sì rotondo, spesso entusiasta. Come quando, tanto tempo fa, si domandava a bruciapelo a qualcuno: Lei è cristiano? Quello, dopo appena un momento d’attesa, dopo un brusco movimento indietro della stesa, rispondeva : E che ho da esse’, ‘na bestia?. Siamo tutti solidali, anche quando ci guardiamo in cagnesco Siamo tutti solidali. Viva l’Italia. Eppure fino ai nostri giorni i Cattolici faticavano a dichiararsi solidali. E i laici facevano di tutto perché ci si potesse guardare in cagnesco. I Cattolici evitavano i sostantivo “solidarietà” innanzitutto perché la parola solidarietà non esiste nella Bibbia1; anzi, fino alla prima della metà dell'ottocento non esisteva nemmeno nel vocabolario delle lingue europee: esisteva la locuzione latina in solidum, che nel diritto romano indicava la responsabilità di soggetti distinti chiamati a rispondere d'un certo atto come se fossero una sola persona. In secondo luogo, perché la parola solidarietà ebbe corso legale, inizialmente nella forma aggettivale, solidaire, in Francia, ad opera di gente che vedeva il cattolicesimo come il fumo negli occhi. Parlo di quegli Illuministi che nel Settecento sprigionarono una specie di furore iconoclasta contro il Vangelo (“Sono tutte balle”!) e contro la tradizionale carità cristiana(“È una deteriore forma d’amore”)2. Quel loro attacco a testa bassa a conti fatti esaltò lo splendore della verità cristiana come il furore del toro Miura esalta il valore del torero abile e coraggioso. Da allora infatti gli studi biblici presero a galoppare e oggi la Bibbia è senza paragone il libro più studiato, criticato, setacciato del mondo; qualcuno tenta anche di liofilizzarlo, ma questo è scorretto; e da allora gli approfondimenti teologici sul tema della carità approdarono al risultato di sottrarla oggi alle accuse che allora vennero formulate contro di essa. In cagnesco La carità - dicevano quegli uomini dai neuroni lucidi e scattanti, ai quali per altro verso tutti dobbiamo gratitudine profonda - è la versione mitologica della solidarietà umana; una versione in tono decisamente minore, perché impegna ad amare in funzione di quell'unico amore che la religione ritiene veramente degno, fino in fondo, di questo nome: l'amore di Dio3; la carità ha il suo valore nell’ambito di quella suprema lex del cristianesimo che è la salus animarum (“ La salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa”). La carità serve a tentare di portare in Paradiso più bente possibile, possibilmente tutti, non a liberare l’uomo dalle sue miserie terrene. 1 B. MAGGIONI, Radici e figure bibliche della solidarietà, in AA.VV.La solidarietà, Vita e Pensiero 1990, 41 ibid., .53 3 P.LEROUX, De l'humanité, citato in V.Paglia Storia dei poveri in occidente, Rizzoli 1993, 354 2 2 Non hanno toro del tutto. Nel linguaggio comune la locuzione carità cristiana ha tre diversi significati: o elemosina: gli spiccioli che scivolano sul piattino del mendicante e si sentono attribuire significati che non meritano; o l'insieme delle iniziative socio/assistenziali della Chiesa; o virtù teologale, che la fede cristiana vuole sia stata infusa in noi (a livello di germe) dal battesimo. insieme con la fede e la speranza; in sinergia con esse, la carità abilita l’uomo ad amare Dio sopra ogni cosa a motivo della sua bontà infinita,… e gli altri così come Lui li ama, … ci fa partecipare alla forza e alla bellezza dell’amore con cui Cristo ha amato il Padre e i fratelli4 La polemica illuminista contro la carità come elemosina non può non essere condivisa, senza però snobbare la realtà di un risposta al bisogno giornaliero. Della carità come insieme delle attività assistenziali della Chiesa gli Illuministi dicono che non ha più senso: sul piano teorico sono fuorvianti, sul piano pratico ci pensa lo Stato La virtù che secondo gli Illuministi deve sostituire le carità, messa definitivamente in crisi dall’avvento della ragione, è la solidarietà intesa come filantropia, l’amore dell’uomo in quanto uomo, l’unica forma di amore dalla quale possono nascere iniziative socioassistenziali tese a servire l’uomo amato per se stesso, e non strumentalizzato in funzione del fine soprannaturale che egli si presume sia chiamato a raggiungere. Su queste basi la contrapposizione fra solidarietà e carità ha serpeggiato per due secoli come sottofondo di ogni incontro/confronto fra iniziative a vantaggio dei deboli ispirate al cristianesimo e iniziative analoghe ispirate a una visione laico/agnostica del mondo. Grazie a questi antefatti il termine "solidarietà" è stato comprensibilmente tenuto e debita distanza dall’area dai credenti: in tutti i documenti pontifici antecedenti il magistero di Giovanni Paolo II il termine “solidarietà” ricorre poche decine di volte. Poi la diga è crollata. È stata un’alluvione. Nell'insegnamento di Papa Wojtyla il termine solidarietà si ripropone circa ventimila volte. La diga è crollata. È stata un’alluvione. Nel fiume limaccioso che ci trasporta tutti a valle siamo diventati tutti solidali. "Solidarietà": una parola troppo fortunata. Se ne fa un uso talmente acritico da farle connotare, sulla base di un filiforme comune denominatore, tutto e il contrario di tutto.5 Viene chiamata solidarietà quella specie di improvviso moto collettivo, tutto emozionale, con un quid di fortemente consumistico, che suscita una notizia di quelle che sembrano studiate apposta per far accapponare la pelle; Alfredino nel pozzo di Vermicino; il barbone massacrato per aver difeso alcune notturne studentesse girovaghe. Qualcuno ci soffia su, per venderne meglio i dettagli prossimi venturi ad un pubblico che è disposto a pagarli bene, perché ama il consumo di sensazione forti, acri, fuori del comune, per alimentare, in particolari occasioni, il clima idoneo a consumare in pace i buoni sentimenti che l’occasione richiede; sotto Natale alla borsa dei buoni sentimenti i bambini neri col pancino pronunciato e gli occhi fuori delle orbite spuntano prezzi nettamente superiori che non a Ferragosto. Molte le facili variazioni sul tema Viene chiamata solidarietà la momentanea confluenza d'interessi di un'aggregazione tutta funzionale ad un fine utilitaristico; ad esempio, la solidarietà di una cooperativa edilizia, che tiene insieme i soci , e limita le litigate tra loro, ma solo finché c'è da costruire la casa; una volta che l’edificio ha cimato, sciolta la cooperativa, i soci si trasformano in condomini e litigare fa parte del gioco. 4 5 CEI, La verità vi farà…., o.c., n.832 G.FERRETTI, in Volontariato addio, Comunità di Capodarco 1990, pro manuscripto 3 Senza beneficio d’inventario viene attribuito a Solidarietà il brusco gesto emotivo/liberatorio compiuto dall'anonimo che durante Telethon accredita a Bressanello un miliardo prelevato sulla propria carta di credito; del bene comune lui non s'è mai occupato, e non ha alcune intenzione di occuparsene nel futuro prossimo venturo, ha altro da fare; il gesto è sincero, ma anche abilmente sollecitato dal vero e proprio ricatto psicologico di 30 ore consecutive di megatrasmissione televisiva, tutte tese a gasare il malcapitato, facendogli capire che, se stasera si decide a sganciare "generosamente", “sarà a posto” a lungo, o magari per tutta la vita. Cavato il dente, passato il dolore. Solidarietà è l'aggregazione visceralmente irrazionale (di tifosi, di nostalgici impenitenti, di idealisti irriducibili) che si esprime oggi nelle teste rasate e nel giubbino di pelle e nel tatuaggio inutilmente minaccioso, in maniera specularmente opposta a come ieri si esprimeva nei capelli lunghi e nell'eskimo. Solidarietà è il biglietto di banca che il fedele medio allunga la domenica verso il cestino della colletta, automaticamente, senza nemmeno chiedersi se quella piccola.......fuoruscita il suo robusto portafogli l'avverte. Solidarietà è quella di P. Damiano che va a vivere e a morire coi suoi lebbrosi, lontano dal mondo che dei lebbrosi parla tanto, troppo, ma solo durate la giornata a loro dedicata… "SOLIDARIETA’. Un labirinto di significati. "Quot capita, tot sententiae". Evidentemente nell'uomo c'è un bisogno profondo ed esteso di solidarietà, e ognuna di queste forme d'impegno solidaristico, per quanto limitata e distorta, dà una sua risposta a quel bisogno. Ma è anche chiaro che la maggior parte delle varie "solidarietà" qui sopra tratteggiate sono settoriali, episodiche, destinate a consumarsi su se stesse e ad esporre all’autoinganno chi si ferma ad esse. Solidarietà è quella delle partite del cuore: Ottime nell’intenzione: 11 VIP in mutande in una serata d’inverno sono pur sempre qualcosa…: ma non si potrebbe trovate un nome diverso per applaudirne la performance? Stop and go Il fatto è che qualcuno ha tentato di dare un stpo and go a questa gara. Giovanni Paolo II6 ha definito la SOLIDARIETÀ ferma e perseverante determinazione a impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo responsabili di tutti, perché tutti siamo uguali come immagine di Dio, riscattati dal sangue di Cristo, oggetto dell'azione perenne dello Spirito". A livello antropologico, la solidarietà in sé consiste nella ferma e perseverante determinazione a impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo responsabili di tutti. A livello teologico chi ha avuto il dono della fede può e deve attingere le radici ultime della solidarietà: il Padre che crea, Cristo che abilita, lo Spirito Santo che prema dal di dentro. Hasta la vista! Una determinazione a perseguire il bene comune, che deve essere ferma, un passo oltre le sabbie mobili del ricatto sentimentale; perseverante, cioè incarnata in una serie di comportamenti omogenei; impegnata sia sul piano politico (“il bene di tutti”) che sul piano interpersonale (“il bene di ciascuno”). Soprattutto radicata in un vitale senso di appartenenza alla grande famiglia umana, che è il solidum che dà senso e pienezza ad una vita individuale sentita come responsabile verso tutto. "L'Altro" come istanza assolutamente primaria e ineludibile della realizzazione dell'Io.7 "L'Altro", con l’iniziale maiuscola: non "il concetto di altro" (i concetti non meritano l’iniziale maiuscola); non l'idea dell'”alterità” che illumina i tuoi momenti di alta contemplazione, ma il piccolo essere, sgangherato come e più di te, che arranca e borbotta e si soffia il naso rumorosamente accanto a te. 6 7 Sollicitudo rei socialis, 38-40 B..MAGGIONI, o.c., 41; ruota intorno a questa intuizione l’intera filosofia di Emmnuel Lévinas 4 "L'altro", con l'articolo determinativo: l' "unicum" che sussiste in miliardi di soggetti, uguali e distinti. La suocera di San Pietro A questo punto, inattesa e petulante, si presenta alla ribalta la suocera di San Pietro. È qui per illustrare l’aspetto – per così dire – quantitativo della tesi qui sopra delineata. “L’Altro…l’unicum che sussiste in miliardi di soggetti”. “Miliardi”: come bruscolini. Non è che, prima o poi, arriverà il giorno in cui in questa traballante barca che è la vita, con tutti i secoli di navigazioneche essa si porta sulle spalle, ci ritroveremo ad essere in troppi!?! “La suocera di S. Pietro” è un racconto che ho sentito per la prima volta, in forma un po’ più asciutta di come mi accingo a raccontarlo io, dalla bocca di Ennio Antonelli, amico e maestro, ora cardinale a Firenze, allora vescovo a Gubbio. Ce la presentò come una favola russa. “Favola”: mica tanto! La suocera di San Pietro era una di quelle donne la cui lingua taglia, cuce e a richiesta fa anche le asole. Si muoveva nella maldicenza come un pesce nell’acqua. Quella volta che Gesù la trovò a letto con la febbre, era afona; un po’ era stata l’influenza, un po’ era crisi di astinenza, perché durante quel mese di letto aveva visto prosciugarsi i rifornimenti della sua assidua attività di pettegola. Gesù la guarì, miracolosamente, ma i suoi, che non osarono mai rimproverarglielo, almeno una volta, a turno, lo pensarono: Beh, per lo meno le corde vocali si potevano escludere dal miracolo. Una volta recuperate voce ed energie, la suocera di S. Pietro riprese la sua attività di maldicente a tempo pieno. Quando morì aveva detto male di tutto e di tutti quelli che aveva avuto a tiro di schioppo. Ovviamente, ad onta del solennissimo funerale che gli organizzarono i fans di suo genero (già da allora intorno al Papa e ai Vescovi si addensavano nugoli di adulatori), finì all'inferno. Giunta rapidamente a destinazione, attaccò subito a testa bassa. “Giusto, non dico di no! Ma - e qui roteò simultaneamente occhi e mascelle, alla maniera di Beruschi - sta di fatto che io sono stata e rimango la moglie del primo Papa, o no?!” E subito dopo: “Io qui?! State sicuri che più di tanto non ci rimango! Oh! Non ci resto di sicuro!”. Il secondo giorno aveva già trovato il modo per mettersi in contatto con il suo illustre genero; quando ancora sia lui che il suo Maestro macinavano a piedi la polvere della Palestina, lei aveva conosciuto tra i Dodici e vicnop ai Dodici tanti di quei personaggi che ora occupavano in cielo le nicchie più ambite…: Non le fu difficile far arrivare un suo messaggio a S. Pietro. “Se ti pare il caso!? Se ti pare giusto!? Tu predichi la salvezza agli altri, un tuo successore istituirà addirittura una Congregazione de Propaganda Fide, per salvare anche gli zulù e gli attori di Hollywood, e poi lasci che la madre di tua moglie veda in malora!? Questo, francamente, non ti fa onore. Ma… lo sai – sia detto fra noi – ma lo sai cosa dicono di te, quaggiù?”. Appassionata. Anche un po’ ricattatoria. S. Pietro non rimase insensibile, anche perché nella sua giurisdizione le tangentopoli non avevano spazio, visto che le raccomandazioni si chiamavano preghiere. Venne dunque la raccomandazione da parte del Number One, arrivò a chi di dovere e subito scattò subito l’Operazione Suocera Out. “Si prepari Signora. Venerdì prossimo, verso le tre del pomeriggio, un angelo sorvolerà le fiamme dell’inferno: gli afferri la mano, il resto… ci pensa lui”. Venerdì, le tre del pomeriggio: si fosse verificata in futuro una qualche contestazione il responsabile dell’Operazione Suocera Out avrebbe sempre potuto appellarsi ai fatti successi a quell’ora nel 33 d.C., a dar< per buoni i sommari calcoli di Dionigi l’Aeropagita. E, puntuale come i treni ai tempi del Duce, su ordine cifrato proveniente dalla “segrete stanze”, il venerdì alle tre del pomeriggio un angelone robusto e boccoluto si librò sulle fiamme. Pareva uscito da un dipinto di Benozzo Bozzoli: appena qualche minuto prima aveva lasciato la viola. Faceva lo gnorri. Aveva braccia muscolose e smisuratamente lunghe, più di quelle dei suoi cugini raffigurati da Piero della Francesca ai lati della Madonna del Parto. Con bella non chalence oscillò a 5 lungo, il suo braccio destro, pochi centimetri sopra le fiamme, a lungo, indolente come il batocco del campanone quando l’alzata è finita. Al momento giusto la Suocera di S. Pietro spiccò un balzo prodigioso e si aggrappò alla mano dell'angelo, dondolante verso il basso, e subito le ali del celeste messaggero si azionarono. Decollo ovviamente perfetto. Ma da quando il Paradiso aveva inciato alla Suocera le istruzioni, ella, appena saputo che l’anonima raccomandazione aveva sortito buon esito, non era riuscita a tenersi la notizia tutta per sé, come gli era stato caldamente suggerito in un ambiente già di per sé troppo caldo, e aveva chiacchierato, ammiccato, alluso....; e così la notizia che la madre della moglie del primo Papa se ne sarebbe andata il prossimo venerdì alle tre del pomeriggio era diventata di dominio comune. Alle tre del pomeriggio tutti erano oculis intenti arrectisque auribus. Ad un passo da lei due altri disgraziati, un napoletano che aveva venduto decine di migliaia di ampolle contenenti l’ultimo respiro di Lady Diana e un monsignore che aveva lavorato in Segreteria di Stato, da ore stavano sul chi va là. Hoplà! Nel momento stesso in cui lei s’aggrappò alla mano dell’angelo i due fecero in tempo ad aggrapparsi alle sue garognole, e subito dopo quattro altri riuscirono a fare altrettanto con le garognole di quei primi due. Chiaro il seguito, no? Poi altri 8, e poi 16, e poi 32: si chiama “progressione geometrica”. Fu così che un enorme grappolo triangolare a base sempre più larga prese a librarsi sopra l'inferno, enorme, gioioso nel cielo; lieve, danzante verso quel Paradiso nel quale nessuno ormai sperava più. Non s’era mai visto nell’universo nulla di simile. Il Gran Ripieno di un organo invisibile suonava la Fuga Trinitaria di J.S. Bach. La Via Lattea intera ne vibrava. Venere sorrideva luccicando come gli occhi di un bambino la mattina di Natale sotto l’albero. Improvviso, il primo scossone. Qualcuno (penultima fila) aveva guardato in basso, aveva visto come ogni pochi secondi s’aggiungeva al triangolo una fila doppia rispetto alla precedente, aveva avuto un dubbio: E se fossimo troppi?: E l'aveva comunicato ad alta voce ai suoi vicini. E aveva accennato a scalciare, per saggiare la resistenza a staccarsi di quei due che gli si erano aggrappati alle garognole Saremo troppi? Nel dubbio, si sa, bisogna pensare sempre male. Si fa peccato, ma ci si azzecca, come dice il Direttore di 30 giorni. Fu così che, nel giro di pochissimo tempo, coloro che, in onore d'un principio che nei secoli ha avuto tanta fortuna, cominciarono a scalciare. L'esempio contagia. Furono in tanti. Praticamente tutti. Mio Dio, che angoscia!! Un brandello qua, uno là, il grande grappolo triangolare prese rapidamente a disintegrarsi, e le fiamme tornarono a impadronirsi, l'uno dopo l'altro, di quegli illusi. La suocera di S. Pietro, che occupava il vertice del triangolo e vedeva dall'alto macchie nere di gente ripiombare inerti tra le fiamme, avvertì una sensazione strana: man mano che si andava sfilacciando e assottigliando il triangolo, il peso che lei avvertiva ai piedi non solo non diminuiva, ma cresceva. Guardò l’Angelone: anche lui faticava tremendamente. Mascelle contratte. Ruscelli di sudore che gli stavano sfacendo i boccoli Appesi ai piedi della Suocera rimasero ad un certo punto solo i due che erano stati pronti ad aggrapparcisi per primi; due soli ma pesantissimi! "Debbo liberarmi di loro!" pensò la donna, e con le ultime energie che le rimanevano, scalciando come una pazza, riuscì a "sganciarli". I due precipitarono anch’essi, senza un grido. Ma in quel preciso istante anche per l’angelo il peso del corpo della donna crebbe all'ennesima potenza, si fece insostenibile, e la suocera di S. Pietro, ad onta della credibilità delle sue lettere commendatizie, avvertì urlando che quella mano si apriva, e fu costretta ad abbandonare urlando l’aggancio col celeste messaggero, e ripiombò per sempre là donde, anche se solo per un attimo, aveva presunto di poter uscire da sola. Un consiglio da amico: riprendi in mano la Bibbia Esiste la fede ed esiste la concezione del mondo che nasce dalla fede. La fede è dono di Dio, nessuno può metterla in preventivo: Arriva quando arriva. 6 Ma la concezione del mondo che la fede genera, quel sapere sull’uomo che nasce dalla fede può, anzi deve essere preso in considerazione, masticato, ruminato, digerito, da quanti intendono battersi per la causa dell’uomo e non semplicemente praticare la solidarietà degli uomini in mutande per il bene dei poveri: per dirla con l’antico Trilussa parafrasante S. Paolo, godere con chi gode, piangere con chi piange e non limitarsi ballare per chi piange. La Bibbia è un libro di fede per chi ha fede. Un libro normativo per chi, come gli Ebrei, ha deciso di fidarsi di JHWH e di affidarsi a Lui direttamente, o per chi, come i Cristiani, ha deciso di fidarsi di JHWH e di affidarsi a Lui tramite suo figlio Gesù. Ma la Bibbia, se letta correttamente, cioè nella prospettiva storico/culturale che l’ha vista nascere nell’arco di un millennio, è un pozzo di umanità fresca e feconda per tutti, un libro propositivo ad altissimi livelli, per tutti. Riprendila in mano. Come faccio io in questo libro. Per quello che riguarda la solidarietà, nessuno al mondo l’ha motivata con altrettanta radicalità, nessuno al mondo ne ha articolato il tema con tanta ricchezza. Credo che questo scritto possa aiutarle i lettore a verificare questa affermazione.. 7 Parte I SULLE SULLE TRACCE del DIO DI ABRAMO, ABRAMO, DI ISACCO E DI GIACOBBE 8 “Solidali perché. Riprendendo in mano la Bibbia”. L’esortazione a riprendere in mano la Bibbia, rivolta chi è in cerca del ruolo tocca alla solidarietà nella definizione pienamente umana dell’uomo, si basa sulla constatazione che l'istanza solidarista, nella Bibbia non solo è materialmente onnipresente, ma o assume un suo volto irrepetibile grazie al suo strutturale correlarsi a due categorie bibliche di fondamentale importanza: berìth (in ebraico: alleanza) e ad agàpe (in greco: amore oblativo) 8; o fa registrare, alla pari di tutte le altre verità religiose che la Bibbia propone, un crescendo di luce, che nel Vangelo ha il suo acme. 1. IL PERCHÉ DELLA SOLIDIARIETÀ SECONDO LA BIBBIA 1.1 La solidarietà, dimensione fondamentale della Bibbia Potremmo dire che, considerando l’insieme del messaggio biblico negli oltre millenni che in suo iter abbraccia, la solidarietà diventa progressivamente carità, ma senza cessare di essere solidarietà. Vale la pena di ricordare qui il diverso contenuto dei due concetti: o SOLIDARIETÀ è la ferma e perseverante determinazione a impegnarsi, sulla base di un forte senso di appartenenza alll’umanità del proprio paese e del proprio tempo, per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo responsabili di tutti.9 o CARITÀ è altra cosa10, è un dinamismo integralmente nuovo che interessa la coscienza dell’uomo e la rende capace di comunicare personalmente con Dio e di unirsi a Lui. Un dinamismo che si articola in tre momenti distinti: 1. la fede, che ci fa partecipare alla luce della conoscenza divina; 2. la speranza che applica le prospettive della fede all'esistenza storica del credente; 3. la carità che, come riflesso in noi dello Spirito Santo, ci fa partecipare alla forza e alla bellezza dell'amore con cui Cristo ha amato il Padre e i fratelli nel suo sacrificio pasquale. La Bibbia esorta incessantemente gli esseri umani a solidarizzare, a sostenersi l'un l'altro, a farsi carico l’uno dell’altro: una esortazione che, per cerchi concentrici, a partire cioè dai genitori, dai parenti, dai membri della propria tribù, fino a raggiungere tutta l'umanità, è talmente insistita e 8 Per l'insieme di quanto trovate nelle pagine che seguono abbiamo fatto riferimento a J. L. SKA, Narrativa ed esegesi biblica, in Civiltà Cattolica 142 111 (1991) 219-230; id. Come leggere l’Antico Testamento, in C.C. 144 111 (1993) 209-223; id. Dal Nuovo all’Antico Testamento, in C. C. 147 Il (1996),14-23; id Alcuni principi di teologia veterotestamentaria, in C.C. 147 Il (1996) 457-470; Canone ebraico e canone cristiano dell'A T, in C.C. 180 1 1 1 (1 997) 213-295; L 'eterna giovinezza di Abramo, in i.C. 111 (2000), 213-221 9 Si ricorderà che così l’ha definita Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis, 38-40, aggiungendo poi i motivi con i quali la visione cristiana del mondo ne supporta la scelta: perché tutti siamo uguali come immagine di Dio, riscattati dal sangue di Cristo, oggetto dell'azione perenne dello Spirito 10 cfr CEI, La verità vi farà liberi, catechismo degli adulti, Roma 1995, 410-11 9 diffusa da giustificare la limpida intuizione di Benedetta Bianchi Porro, secondo la quale quel vivere che il Signore ha insegnato a noi cristiani equivale ad abitare negli altri11. Anche in questo la rivelazione della Bibbia è progressiva; all'inizio gli altri sono quelli che appartengono alla mia parentela, alla mia tribù, ma dietro di loro s’intravede già l’umanità intera, quel popolo sterminato, “più numeroso delle stelle del cielo e dei granelli di sabbia che stanno sulla riva del mare” la cui leadership era sta promessa ad Abramo12, al quale era stato anche detto che in lui sarebbero state benedette tutte le famiglie della terra13; dai Profeti in poi la dimensione universale della solidarietà trionfa e, come la più ricca ed intensa tra le immagini che possono dare un’idea dall’approdo finale del popolo degli uomini si afferma l’immagine del banchetto con il quale avrà compimento la storia, quello che impropriamente noi chiamiamo “fine dei tempi”14. Più tardi quando con la stesura del libro della Genesi, durante l'esilio babilonese, questa posizione verrà teorizzata in forma di racconto, a suo fondamento emergeranno15 le tre relazioni essenziali che definiscono l'essere umano", e il giardino nel quale JHWH, dopo averlo creato, pone l'uomo16 ne sarà la figura simbolica: la relazione con JHWH, cui Adamo deve amore ed obbedienza, la relazione col mondo che egli deve custodire e far crescere, la relazione con l'altro da sé, sia nella sua dimensione globalmente umana (Caino/Abele) che nella sua dimensione specificamente sessuale (Adamo/Eva). L'identità di un uomo e di conseguenza la qualità del rapporto che egli riesce ad instaurare con i propri simili secondo la Bibbia dipendono dalla qualità del suo rapporto con Dio. Il racconto del "peccato d'origine"17 dice in sostanza che, "saltato" il rapporto uomo/Dio, 1. davanti a JHWH che lo cerca (Dove ti sei cacciato?), Adamo si accorge di essere nudo18, cioè completamente smarrito, pauroso di tutto, in radicale crisi d'identità personale; 2. subito dopo, e con assoluta coerenza, Adamo butta all'aria la solidarietà con l'altro, l’unico altro di cui in quel momento dispone, Eva, e dà il via a quell'osceno scaricabarile delle responsabilità che segnerà a fondo tanta parte della storia umana: la colpa non è mai la mia, la colpa è sempre di un altro; Adamo scarica su Eva, Eva sul serpente19, tutti contro tutti, la colpa è sempre di un altro. Ancora più emblematica, da questo punto di vista, la vicenda di Caino ed Abele20: un racconto che, come sempre, è l'involucro esterno di affermazioni di principio, teologiche e antropologiche, di grande portata Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offri primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradi la sua offerta, ma non gradi Caino e la sua offerta. Caino fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: Perché sei irritato e il tuo volto è abbattuto? Quando tu agisci bene, il peccato resta accovacciato alla tua porta, la sua bramosia ti minaccia, ma tu la domini. Caino disse al fratello Abele: Andiamo in campagna. Mentre erano in campagna Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora Dio disse a Caino: Dov'è Abele tuo fratello? Egli rispose non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? 11 AA. VV., Abitare negli altri, Forlì 1964, 5. Benedetta Bianchi Porro (+1964), romagnola di Dovadola e cugina del prof Fabrizio Ravaglioli, docente nel nostro Corso di Laurea di Gubbio, è una ragazza bella e ricca di molte qualità, studentessa di medicina che, nel dolorosissimo calvario che la portò alla morte in giovane età, per una sclerosi devastante, rivelò un'inaudita capacità di trasformare il male in bene. 12 Gn 12 e 13, passim 13 Gn 12, 3 14 Is. 25, 6 15 cfr G. BORGONOVO, Commento al Genesi, in La Bibbia, Piemme 1995, 75 s 16 Gn 2 e 3 17 Gn 3 18 Gn 3, 9 19 Gn 3, 1l-13; 16 20 G. BORGONOVO, o.c., 81-82 10 Riprese il Signore che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Da ora in avanti sarai maledetto... Poi il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato21 A tema la fratellanza, che viene prima messa in crisi e poi rovesciata nel suo contrario da quella che oggi chiameremmo "diversità di reddito" tra due fratelli. La fratellanza in ordine di tempo è la prima forma di solidarietà. Non l'unica, e nemmeno la più intensa, come si evidenzierà nella luce progressivamente crescente della rivelazione biblica. Ma a metterla in crisi basta un intoppo produttivo: il lavoro di uno dei due fratelli va a gonfie vele, il lavoro dell'altro non rende nulla; una situazione che dovrebbe suscitare un moto di solidarietà. No, Caino reagisce con l'invidia e lo scoraggiamento più totale (l'abbattimento del volto) e concepisce un piano omicida; JHVH lo mette in guardia a non assecondare quei suoi pessimi consiglieri interiori, l'invidia e l'abbattimento, ma Caino rompe con Dio e uccide Abele; a Dio che gliene chiede conto, Caino risponde negando la fratellanza che lo legava ad Abele: Non sono io il suo custode! La verità dell'uomo è esattamente l'opposto di quello che grida Caino (Non sono mica io il custode di mio fratello!!): sì, ognuno è custode dei proprio fratello; e la maledizione di JHWH, che include anche il divieto di uccidere Caino, lo sottolinea con forza. Oggi la più nota delle associazioni di volontariato che in Italia lottano contro la pena di morte, ancora purtroppo presente in tante parti del mondo, si chiamo proprio Nessuno tocchi Caino. Che la solidarietà rappresenti una dimensione fondamentale della visione biblica del mondo è dunque fuori discussione. 1.2 Il taglio della solidarietà biblica: solo un’eco della solidarietà di JHWH Ma perché gli esseri umani dovrebbero solidarizzare e sostenersi l'un l'altro? Perché uno dovrebbe farsi carico dei proprio fratello? Perché è bello che sia così? Perché tutti vivremo meglio se sapremo essere solidali l'uno con l'altro? Perché l'uomo è un essere intrinsecamente sociale? La Bibbia ignora tutti questi motivi, peraltro lodevolissimi. La Bibbia impegna gli uomini ad essere solidali fra loro per un solo motivo: perché per primo JHWH solidarizza con loro, li sostiene nell’essere, li associa alla sua opera di creatore, stringe con loro patti di comune intesa, diviene ad un certo punto uno di loro, s’identifica infine con il più povero tra di loro. Queste scelte divengono progressivamente più impellenti, al punto di indurre le varie culture al cui interno la Bibbia fiorisce a superare quella fobia dello straniero che tutti i popoli antichi avevano nel loro DNA: Il Signore nostro Dio non usa parzialità, ama il forestiero e gli dà pane e vestito: amate dunque anche voi il forestiero22. Del resto ogni precetto biblico ha sempre e soltanto questa motivazione: dovete comportarvi in questo modo perché il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe si comporta in questo modo. Siate santi, perché io sono santo: la santità di Dio è l’unica radice di ogni impegno morale23. L’intuizione teologica del taglio rigorosamente religioso del dovere di solidarizzare con gli altri maturerà durante l'esilio babilonese e farà da fondamento alle tante denunce dell'ingiustizia sociale da parte dei profeti postesilici. Ma già ben prima dell’esilio Amos24, il primo dei profeti scrittori, un ex contadino di Tekoa che vive nel Regno del Nord alla metà dell'VIII sec. a. C., in un contesto di grande floridezza denuncia per primo, e con parole sferzanti, l'ingiustizia che i più subiscono da parte di una minoranza che vive stravaccata nel benessere come una profanazione del nome di Dio: State vendendo il giusto per denaro, il povero per un paio di sandali, state calpestando come polvere la testa dei poveri, e gli 21 Gn 4, 2-11 Deut. 10, 17-19 23 Lv 10, 3 e 19, 2; Dt 4, 21-24; I Ts 4, 1-8; 1 Pt 1, 14-16 24 cfr S. VIRGULIN, Amos, in La Bibbia PIEMME, 1995, 2141 ss. 22 11 emarginati di sempre sono quelli che pagano di più: ... e padre e figlio vanno a letto con la stessa ragazza, profanando così il mio nome25. Quell’ingiustizia è un sacrilegio agli occhi di JHWH, che ricorda tutto quello che ha fatto per Israele e grida: Io vi affonderò nella terra come affonda un carro quando è sovraccarico di paglia… e il più coraggioso tra i prodi fuggirà nudo in quel giorno! Dopo l’esilio questa impostazione diventa coscienza comune del popolo ebraico, collegata ancora più strettamente al concetto di berìth: la solidarietà è il presupposto del disegno grandioso che JHWH ha sugli uomini: compattarli tutti in un unico, grande, definitivo corpo, all’interno di un disegno comunitario sconfinato e insieme strettamente personalizzato, che trascenderà le singole individualità e al tempo stesso valorizzerà al massimo l’unicità di ognuno. Al messianismo dinastico subentra il messianismo profetico: nel Deuteroisaia26 il Messia promesso si rivela come servo di JHWH. Ora il Servo di JHWH spingerà all’estremo la solidarietà con noi uomini, sarà addirittura trafitto per i nostri delitti27; sarà al tempo stesso apice dell’alleanza del popolo d’Israele e luce delle nazioni28, da una parte radunerà le tribù disperse della casa d’Israele, ma dall’altra porterà luce e salvezza fino all’estremità della terra29. 1.3.1 Una sapienza sui generis: del tutto anomala Siamo di fronte ad una sapienza del tutto anomala, una visione delle cose che si distacca anni luce dalla sapienza dei popoli di quella regione del mondo30, dalla concezione della vita tipica delle culture insediatesi nei territori che si stendono dalla Mesopotamia all’Egitto. Per questi popoli, non diversamente da quanto pensano i VIP che oggi occupano stabilmente i mass media più popolari, la sapienza era “l’arte del ben vivere”, il segreto della riuscita nella vita, la cifra del successo, la chiave di come vivere felici. Quei popoli la cui visione del mondo è attraversata da un profondo pessimismo, erano anche convinti che, per il “ben vivere”, occorresse inserirsi nell’ordine cosmico e farsi amico il pantheon oscuro e minaccioso che sovrasta l’uomo e lo condiziona, e cercare di esorcizzarlo, per piegarlo poi al proprio utile. Anche per l’Israele dei profeti la sapienza è l’”arte del ben vivere”, ma il contenuto di questa “arte” non è determinato dall’uomo, ma ha il suo punto focale nell’iniziativa liberante e gratuita di Dio (la “grazia”); essere sapienti vuol dire muoversi in una dialettica serrata tra esperienza e fede in JHWH, fra attenta osservazione dei fatti della vita e tensione ad illuminarla con gli insegnamenti che JHWH impartisce al suo popolo. Dopo i profeti, sono ben cinque i libri del VT che scavano in questa direzione: Giobbe, Proverbi, Qoelèt, Siracide e Sapienza. Libri che non pretendono né portare avanti una ricerca filosofica, né di fondare un’etica, né di delineare una cosmologia: siamo piuttosto di fronte a quella che oggi chiamiamo ricerca di senso31, tensione estrema alla scoperta dell’autenticità umana. L’uomo autentico secondo la Bibbia si colloca nell’intersezione di tre diverse coppie semantiche: o sapienza/stoltezza32: l’uomo autentico è colui che ha preso le distanze dalla falsità delle visioni atee o agnostiche della vita, per avvicinarsi sempre più alla saggezza che vede tutto ruotare intorno a JHWH; 25 Am 2, 6-7 Si tratta degli ultimi capitoli del Libro di Isaia; gli esegeti sono unanimi nel ritenerli opera non di Isaia, ma i un profeta anonimo, probabimente appartenente alla sua cerchia. 27 Is 53, 5 28 Is 42, 6 29 Is 49, 6 30 cfr. A. FANULI, Sintesi teologica dell’Antico Testamento, in La Bibbia PIEMME, o.c., 2283 31 cfr. M. PRIOTTO, Teologia della sapienza, in Grande enciclopedia della Bibbia, Piemme 1997, 279-281 32 cfr. Pv 10 – 22: dodici capitoli che rappresentano uno dei testi biblici più antichi 26 12 o giustizia/iniquità: l’uomo autentico rinuncia ogni giorno all’iniquità e adotta comportamenti che sempre più s’ispirano a quel “dare a ciascuno il suo” che nella sua sostanza è un “dare a Dio quello che è di Dio”; o pietà/empietà: l’uomo autentico lotta ogni giorno contro la tentazione dell’empietà, per vivere pienamente “nella pietà”, cioè nell’abbandono fiducioso e totale a JHWH 1.3.2 Una sapienza sui generis: tendente alla follia L’anomala sapienza del VT si rivela nel NT autentica follia: così la definirà S. Paolo. Follia: ogni schema razionale salta, implode ogni ragionevolezza umana, l’assolutamente impensabile, l’atipico assoluto fa irruzione nel cuore della storia umana. Lo sgomento di Giovanni, che pure un giorno, da fratellino minore, aveva posato il capo sul suo petto, ma oggi, verso la fine del primo secolo, chiamato a incarnare l’acquisizione più alta della fede comune, la centralità della croce, bisbiglia le parole che Gesù aveva pronunciato in quel giorno ormai tanto lontano: Quando innalzerete il Figlio dell’Uomo, allora conoscerete chi sono io…33. Tre anni di vita insieme, e non avevano colto il nocciolo duro del suo essere tra noi. Si noti bene: “innalzerete”, non “crocifiggerete”. Gli omini presuntosi credono di crocifiggerlo, in realtà lo innalzano. Lo sgomento di Paolo, che pure un giorno, appena qualche anno prima, non avrebbe chiesto nulla di meglio che annegare nel sangue quei maledetti eretici dei suoi seguaci, e che oggi grida: I Giudei vanno dietro al potere, i Greci cercano la sapienza, ma noi Cos’è successo? È successo che la comunità cristiana ha preso coscienza della linea/guida dell’intervento di JHWH nella storia non sale dal basso verso l’alto, ma scende dall’alto verso il basso. Paolo la chiama la follia della croce. 1.3.3 Una sapienza sui generis: la follia come forma suprema della saggezza Ma arriva il momento in cui la follia biblica si rivela saggezza suprema, che trascende ogni povera saggezza umana. Il momento è quello in cui appare chiaro che, alla luce della fede In Cristo, il primum intentum della creazione è la solidarietà tra JHWH e l’uomo, il progetto del camminare insieme, l’incredibile partneship cha associa l’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Era quello il modo più corretto e più concreto di associare al piano di Dio, in forme sempre nuove e in maniera progressivamente più intensa, non un'asettica umanità, ma l'uomo concreto, impastato di peccato, l’uomo storico che galleggia sul grande fiume di sangue, di lacrime e di sperma nel quale Giovanni Papini34 vedeva l’immagine più vera della storia. Non potendo innalzare l’uomo alla sua altezza, JHWH si è abbassato lui alla debolezza dell’uomo. 1.4 Quale Dio A questo punto occorre riprendere da capo il discorso su Dio, talmente fuori ordinanza sono i le affermazioni che qui sopra abbiamo accennato. “Solidali perché. Riprendendo in mano la Bibbia”: il motto programmatico di questo libro va capito all’interno di un approccio nuovo alla fede, un approccio che s’è fatto strada sullo scorcio del II millennio; e la novità di questo approccio è proprio nella domanda che i teologi sono tornati a porsi: chi è Dio? Come - verrebbe da dire – ancora ci si domanda chi è Dio, quando il catechismo di Pio X l’ha definito senza se e senza ma? “Dio è l’Essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra”. Nessuno contesta la validità di quella formula, che, accanto ai difetti di tutte le formule, ha il 33 Gv 8, 29 Scrittore fiorentino, cattolico anomalo, controverso, amante dei sapori forti, autore di una Storia di Cristo che ebbe grande fortuna nell’Italia della prima metà del sec. XX 34 13 pregio della chiarezza; ma nessuno può pretendere che quella formula chiuda il discorso su Dio. Quella domanda infatti (“Chi è Dio”?) accompagnerà l’uomo lungo tutto il corso della sua storia, senza mai avere una risposta definitiva. Se così non fosse, vorrebbe dire che Dio non è Dio. Gli uomini girano intorno al mistero di Dio come i turisti giapponesi intorno al Colosseo: senza alcuna speranza di poterlo cogliere con un unico colpo di obiettivo. 1.4.1 Quale Dio: no al Dio dei filosofi Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe: sembra una frase litanica da repertorio liturgico, in realtà nella storia e nella spiritualità cristiane segna l'inizio di un approccio nuovo alla fede. Parigi, 1662. Quando senti vicina sorella morte, Blaise Pascal, eccellente matematico e pensatore cristiano di prima grandezza, cucì di sua mano nella fodera dei vestito che gli avrebbero messo addosso dopo morto un Memoriale, uno scritto che cominciava con queste parole: Dio d’Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti; l’aveva scoperto, questo Dio, nel corso di quella che lui stesso aveva chiamato la notte di fuoco, ore di passione travolgente e di annegamento gaudioso nel mistero dell’Indicibile, la notte tra il 23 e il 24 novembre del 1654; la notte in cui lo scienziato e l’uomo si arresero per sempre a Gesù Cristo e al suo Vangelo. No al Dio dei filosofi e dei dotti. Al Dio dei filosofi il Cristiano riserva il plauso che meritano tutti concetti ben lavorati dal tornio dell’intelligenza, ma rifiuta di identificarlo con JHWH. Un rifiuto che non nasce dalla constatazione che questo tale filosofo nel suo argomentare a proposito di Dio è meno convincente di quell'altro. Se davvero, come insegna la Bibbia, solo JHVH si rivela per quello che è, la fatica dei filosofi che tentano di dargli un volto è per forza di cose destinata a partorire solo piccole caricature inadeguate. Ma non era follia liquidare così un cammino di pensiero secolare, esaltante? Per secoli e secoli tutti, a partire dal libro della Sapienza35 e da S. Paolo36, avevano dichiarato legittimo, doveroso e fecondo il tentativo della ragione umana di risalire dalle creature a Dio; Aristotele a partire dal movimento incessante e caduco che a tutti i livelli caratterizza ogni realtà conoscibile aveva definito Dio come Motore Immobile, S. Anselmo come l'Essere del quale non è possibile pensare il maggiore, S. Tommaso come Colui la cui natura è quella di esistere ... : non è folle liquidare tanta ricchezza di speculazione? In realtà Pascal non liquidava, ma rimetteva le cose al posto loro. Il realtà il problema che poneva Pascal era un altro: era il problema del Volto. La validità di quei ragionamenti rimane fuori discussione. Che il creato nella sua interezza rimandi con forza ad un Creatore personale e trascendente è fuori discussione. Che nell’ambito del pensiero Dio d’imponga come necessario, è più che accettabile. Che la distinzione fra essenza ed esistenza, materia e forma, sostanza e attualità sia il principio della contingenza, e che per converso l’identificarsi delle due istanze sia il principio della perfezione, il segno della divinità, tutto questo apre squarci formidabili sul mistero di Dio. Il problema era un altro. Il problema è un altro: l'immagine di Dio, il volto di Dio che emerge da quei ragionamenti è un'immagine talmente slavata, sfocata, esangue, anonima, generica da risultare, in ultima analisi, insignificante. Mille cervelli poderosi e perfettamente funzionanti non riusciranno mai a produrre un volto. Mille idee da ammirare e cui consentire, certo: ma nemmeno un volto da amare. Quella che noi credenti dobbiamo respingere è la pretesa di disegnare il volto di Dio attingendone i tratti caratteristici tramite procedimenti razionali induttivi: dal basso verso l'alto, dal particolare all'universale, dal finito all'infinito. Questo percorso non è inutile, ma non porta al volto di Dio. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe parla dal roveto che brucia e non si consuma. La faccia di Mosè che ha visto il suo volto ne è rimasta trasformata, splendente al punto di dovere essere velata quand’egli parla al popolo. Il Dio “geloso” del Vecchio Testamento, quasi passionale, che rincorre Israele, lo rimbrotta, lo accarezza, lo blandisce, lo punisce… 35 36 13, 1-10 Rm 1, 18-32 14 Il Dio che nel suo silenzioso colloquio notturno Gesù chiama “Papà”... Il credente nel suo DNA ha la memoria viva di questo Dio: come fa a gratificarsi della pallida immagine di Dio che gli fornisce la Teodicea (il discorso della ragione filosofica su Dio)? 1.4.2 Quale Dio: sì al Dio “complice” La ricerca di “Quale Dio” secondo Quinzio37 presuppone il recupero della visione della storia che ci ha suggerito Walter Benjamin, secondo il quale essa non scorre dal passato verso il futuro, ma da futuro verso il passato, e consiste tutta nello zoommare sulla scelta che Dio opera in Cristo, la scelta di ciò che non è38. La scelta di ciò che non è fa di Dio un Dio complice. La particolarità irrepetibile di JHWH, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è stata formulata in diversi modi; uno dei più recenti e, per quanto mi riguarda, più affascinanti è stato quello di un Dio "complice dell’uomo”39. Prima che creatore, onnipotente, onnisciente, misericordioso ecc. Dio si è rivelato come uno che propone. Chi è JHWH secondo la Bibbia? Prima di ogni altra cosa JHWH è colui che ha chiamato Abramo e ne ha fatto il capostipite e il prototipo dei credenti. È colui che ha parlato a Mosè. Lo si dirà onnipotente, fedele, misericordioso, ecc.: ma solo dopo. In prima battita JHWH si rivela come complice dell’uomo. "Complice" è oggi una parola d’estrazione giudiziaria, con implicazioni fortemente negative nell’uso corrente: “complice”è chi partecipa a un’azione criminosa (o, in genere, riprovevole); chi ne è consapevole e contribuisce all’esecuzione, anche se non vi prende parte direttamente e personalmente; ma complice, per estensione (con senso attenuato e a volte anche ironico e scherzoso) è anche il compagno in un’impresa, in una burla, di uno scherzo40. Nell’esegesi biblica dei nostri giorni l’uso del sostantivo “complicità” e dell’aggettivo “complice” per parlare dell’alleanza fra JHWH e l’uomo, scartata in partenza la connotazione criminosa o comunque riprovevole, accoglie ma al tempo stesso trascende il significato/base della parola. Sul piano essenziale, JHWH vuole che tra lui e l’uomo si instauri una collaborazione stabile, sicura, programmata a monte anche se (per forza di cose) frammentata a valle, continua, gioiosa per le cose che si stanno realizzando insieme. Una collaborazione creativa, agevole nell’inventare sempre nuovi modi di portare insieme il peso di un'impresa, forte nel recuperare la fiducia ogni volta che essa, per qualsiasi causa, viene messa in crisi. Una collaborazione intessuta d’intelligenza e di fiducia, di perspicacia e di decisione, di tenacia e di coraggio, di entusiasmo e di cooperazione, di lealtà ma anche (quando serve) di astuzia. Non un hobby, ma un'impresa ambiziosa dal cui successo dipende la bontà dell’intesa fra tutti i complici. Come dire: il regno dei cieli si costruirà se siamo uniti per lottare insieme contro tutto quello che impedisce a Dio di realizzare in questo nostro mondo i progetti ai quali tiene di più. Sul piano della comunicazione, “complicità” vuol dire che ci s’intende a mezze parole, a strizzatine d’occhio, a motti, come una coppia al gioco della briscola:le lunghe spiegazioni non servono, le intenzioni dell'altro si indovinano d'istinto, le mosse giuste vengono compiute con naturalezza al momento opportuno. Quello che del significato laico di “complicità” va assolutamente negato sul piano biblico è anche solo l’ipotesi che uno dei due complici, JHWH o l’uomo, possa non prendere personalmente parte all’impresa: la complicità tra JHWH e l’uomo non solo è basata su un'intesa di taglio personale e sulla determinazione a raggiungere sempre e comunque insieme una meta del tutto condivisa, ma 37 cfr o.c., 46 s 1 Cor 1, 28 39 cfr J. L SKA, Introduzione in Credere,, l'avventura globale, su Rinascere, periodico del MRC (Movimento di Rinascita Cristiana), luglio-agosto 2001, 9 - 17 40 cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, UTET 1971, III 415-416 38 15 viene rieditata con modalità del tutto personalizzate per ogni uomo: milioni e miliardi di volte, per quanti sono gli uomini ad essa interessati, tutti gli uomini, cioè. Anche in questo caso (soprattutto in questo caso) Dio non fa le cose in serie. L'azione di questo Dio che vuole rendere l'umanità complice dell'avvento del suo regno sulla terra si dipana lungo tutto l'arco degli oltre 1000 anni che i testi biblici abbracciano. Una complicità sui generis: straordinariamente ordinaria, come il pilastro che regge tutto l’edificio e nessuno dei visitatori lo nota. Un clichet che va capito nella sua sostanza pensando alla civiltà contadina sul quale esso si è strutturato. Il contadino lavora il campo, ma a garantire il frutto del suo lavoro non basta il suo lavoro. Il frutto dipende dalla complessa complicità che le sue fatiche debbono intessere con la terra e con il cielo, con la pioggia e con il sole, il tempo, le stagioni. Tutt'e due conoscono benissimo il loro mestiere, l’uomo la terra, JHWH il cielo. Tutt’e due sanno bene cosa compete a ciascuno, e che occorre lealtà ma anche (quando serve) astuzia, per muoversi nella maniera giusta nel campo del comune interesse. Il contadino sa quando e come seminare, quanto seme deporre nelle varie zone del campo, e come, e quanto aspettare, come intervenire, come e quando mietere, come leggere nel colore del cielo e nel profumo del suolo i cambiamenti di stagione che Dio garantisce con l’efficacia della sua parola. Grazie a questa complicità, operante nel cuore della vita, la vita va avanti 1.4.3 Quale Dio: sì al Dio “debole” La scelta di ciò che non è fa di Dio un Dio debole41. “Dio debole”: ma non è una contraddizione in termini? Schelling aveva previsto che l’onnipotenza di Dio può anche implicare la rinuncia all’onnipotenza.; Dio è libero di rinunciare all’onnipotenza perché la sua libertà non è, come la libertà degli uomini, scelta fra due alternative possibili, la libertà di Dio è l’assenza di qualsiasi condizionamento nell’atto di porre se stesso; nessuno può avere nulla di obiettare se, nell’atto di porres se stesso, Dio decide di farlo autolimitandosi e scegliendo di lasciarsi condizionare da qualcosa che non è se stesso.. Questo non è possibile per il Dio di Aristotele, l’Essere Perfettissimo, il Motore Immobile, ma la cultura ebraica per bocca di Scholem sostiene che questo Dio non è compatibile con JHWH: tanto meno lo è con il Dio della Trinità. Due sono, secondo il catechismo di Pio XX, i misteri principali della fede: unità e trinità di Dio, incarnazione passione e morte del nostro Signore Gesù Cristo; e per ricordarlo prima (si spera) a se stesso e poi ai fedeli affidati alle sue cure, il Papa benedice che indice e medio levati a forma di “V” maiuscola. Il primo dei due misteri riguarda l’essere di Dio, il secondo il suo agire nella storia. Fin dagli inizi la comunità cristiana aveva intuito, come abbiamo già rilevato, che il diagramma dell’azione di JHWH nella storia non è sale dal basso verso l’alto, ma scende dall’alto verso il basso. E si configura come un inabissamento. Un bradisismo. Uno sprofondamento. L’agire di Dio nella storia ha - per così dire - dei “picchi”, quattro per lo meno, che la nostra tradizione cristiana individua come i magnalia Dei, le grandi opere di Dio42. 1. la creazione, 2. l'esodo, 3. l’incarnazione, 4. la croce. Questi quattro eventi sembrano totalmente disomogenei tra di loro; in realtà un tenace filo rosso li lega in un unico disegno. Un disegno unico che genera un processo unitario, che non ha soluzioni di continuità. 41 42 cfr. S. QUINZIO, Il Dio debole, in o.c., 39-49 SKA e MAGGIONI anche in questo capitolo sono i nostri referenti biblici. 16 Un processo che Paolo chiama kènosis, da kenòo (=rendo vuoto): svuotamento, abbassamento, annichilimento, sprofondamento, bradisismo, inabissamento. Quelli che Paolo riferisce nella sua lettera ai cristiani di Filippi43 sono probabilmente gli stichi di una canzone che essi cantavano nella loro liturgia domenicale: Cristo Gesù essendo in forma di Dio// non tenne lo stato di uguaglianza con Dio come una preda, // ma si vuotò di se stesso assumendo la forma di uno schiavo, // diventando simile agli uomini;// ed essendo stato trovato come un uomo per il suo aspetto,// si umiliò obbediente sino alla morte,// e ad una morte sulla croce.// Così Dio lo ha esaltato// e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome. E dunque non da pensatore isolato, ma in presa diretta con la fede di quei suoi figli spirituali, che egli stesso, portando il Vangelo a Filippi, aveva generato alla fede, Paolo ha chiamato la vicenda di Dio nella storia kènosis, svuotamento, abbassamento, annichilimento, sprofondamento, bradisismo, inabissamento. Dalla creazione in poi, riproponendo in ognuno di quei quattro eventi, ogni volta in maniera diversa e più intensa, la stessa, folle logica, Dio "sprofonda" progressivamente nella storia umana, sempre di più, fino a scomparire dentro quella condizione, fino ad attingerne il cuore angosciante, che è il grido di Gesù in croce: Elì, Elì, lamà sabactanì? (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?). Un grido senza risposta. Come è rimasto senza risposta il grido morto nella strozza dei milioni di disperati, amatissimi fratelli minori di Gesù di Nazareth, che da quando esiste il mondo non ce l’hanno fatta più e si sono tolti la vita 1.4.4 Quale Dio: il primato dell'esperienza JHWH, questo Dio, inguaribilmente complice dell'uomo, non lo si dimostra: lo si sperimenta. Non lo si può dimostrare: sul piano razionale anche solo l’ipotesi di un Essere Supremo che ci comporti così risulta contraddittori in terminis.. Nella dinamica biblica della conoscenza di Dio il primato tocca all'esperienza. IL DIO DELLA BIBBIA NON SI RIVELA NELLE RIFLESSIONI LIMPIDE, CORRETTE E ASTRATTE DEI FILOSOFI. JHWH non è mai innanzitutto un concetto, lo è solo di riflesso. JHWH innanzitutto è una presenza. Ma se il primato tocca all’esperienza, come si può sperimentare Dio? Non in maniera diretta, immediata; in proposito il Nuovo Testamento è categorico: Dio, nessuno l'ha mai visto44; altrettanto categorico era stato il Vecchio Testamento: Non si può vedere JHWH senza morire45. Nessuno. Nemmeno chi ha imparato a meditare nella maniera più pura, profonda, sublime. Nemmeno chi nell'estasi più sconvolgente è stato travolto dal soffio dello Spirito come un granellino di sabbia dal vento impetuoso del deserto. Nessuno. Anche Mosè, che aveva chiesto a JHWH di poter vedere la sua faccia, si sentì rispondere: Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo46. Solo dopo la morte lo vedremo così come Egli è veramente47. Nel corso di questa vita tutt'al più possiamo o metterci sulla via che va verso Dio, 43 44 Fil 2, 6-9; riferiamo la traduzione che ne dà nell’o.c. Sergio Quinzio Gv l, 18; 1 Gv 3,2 45 Gn 32,3 1; Es 19,2 1; 33,20-23; Lv 16,2; Nm 4,20 28; Es 33, 29 Es 33, 20-23 47 ! Gv 3, 2 46 17 o sentire la sua presenza in modo intenso, o vivere momenti di profonda consolazione spirituale. Eppure tutti gli autori spirituali, tutti i più grandi mistici nel momento nel quale ci mettono in guardia dall'illusione di scambiare gli stati emozionali, anche i più intensi, con la "visione" di Dio, testimoniano che questa visione è possibile e dunque perseguirla è doveroso. Naturalmente questo non esclude dalla dinamica di fede né la riflessione, né il "sentire" del cuore, anzi implica l'una e l'altro, a livello profondo, radicale. L'importante è che la riflessione poggi sull'esperienza. L'importante è che la speculazione filosofica non pretenda di surrogare l'esperienza di fede. Qual è il suo percorso? IL DIO DELLA BIBBIA SI RIVELA NELLE ESPERIENZE CONCRETE DEI PERSONAGGI BIBLICI48. All'interno del popolo che ha scelto, JHWH ha individuato delle persone che ha reso “profeti”, abilitate a parlare a suo nome. In cima all’elenco, Gesù di Nazareth. Non esiste altra via, non esistono scorciatoie, il passaggio è obbligatorio, il viaggio che porta al Padre è solo questo. La ricchezza di questa ininterrotta rivelazione o s'intensifica nei suoi contenuti a mano a mano che matura e si evolve la ricchezza della coscienza religiosa di Israele, e raggiunge il suo culmine in Gesù, che con la vita prima e con la parola poi, dice a tutti che hanno mente e cuore per capirlo: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me49; e ancora Chi ha visto me, ha visto il Padre50; chi mi ha visto percorrere le strade della Palestina, chi mi ha sentito predicare, chi mi ha visto morire e risorgere, solo lui è in grado di conoscere Dio; o si concentra tutta in un’affermazione: NELL’ESPERIENZA DEI PROFETI DIO È IL CENTRO. 1.5 Dio come centro Sul piano filosofico passare dalla considerazione di Dio come Essere Perfettissimo a Dio come Centro sembrerebbe comportare un brutto calo di tensione semantica: la forte differenza di densità fra i due concetti salta all’occhio. Ma non è così. Questa frase (“Dio è il centro”) ha una sua lettura nel Vecchio Testamento e un lettura ben diversa nel Nuovo Testamento, interpretato (com’è doveroso) alla luce della moderna sensibilità. Naturalmente, nella dinamica della “rivelazione progressiva”, la lettura ulteriore non cancella né umilia la lettura precedente, ma la rilancia su orizzonti nuovi e inattesi. Nel Vecchio Testamento, JHWH è talmente al centro che tutto ciò che accade viene attribuito a Lui, senza distinguere, come fa tutta la tradizione cristiana, ciò che Dio vuole direttamente e ciò che invece Dio permette. Ma accanto a questo tipo di centralità di JHWH, un’altra ne emerge: JHWH è al centro di un disegno che si dispone introno all’obiettivo della liberazione degli oppressi. Secondo la Bibbia un re è giusto quando - a imitazione di JHWH51 - si fa protettore degli orfani e delle vedove, di quanti non sanno farsi rispettare52. Questo secondo tipo di centralità è quello che si afferma nel Nuovo Testamento. Il Dio di Gesù è al centro di un universo nuovo, che ha al centro i poveri. Il gesto emblematico, in questa direzione, è quello di Gesù che, Preso un bambino , LO POSE AL CENTRO e abbracciandolo disse loro: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato53; non siamo di fronte ad una riedizione del tradizionale vezzeggiamento dei bambini, 48 J. L. SKA, Con Cristo sulle strade del mondo, in Rinascere, o.c., 2000 IV, 9-18 Gv 14, 6 50 Gv 4, 9 51 Sal 72; 82, 1-4; Is 11, 1-9; 61, 1-3 52 cfr CEI, La verità vi farà liberi, catechismo degli adulti, Roma 1995, n. 129 53 Mc 9, 36 s 49 18 né ad una piccola esortazione morale: qui il bambino, l’unico essere umano che non aveva diritti di sorta nelle antiche culture del Medio Oriente, proprio perché debole e indifeso54 è assunto come terminale di un disegno grandioso, quello dell’accoglienza, che non è uno dei capitoli del galateo divino, ma un’istanza teologica che investe la struttura stessa del mondo, perché - prima ancora – è l’anima dei rapporti che vigono tra le tre Persone della Trinità. L’accoglienza di Dio e il bisogno dell’uomo si richiamano, sono direttamente proporzionali l’una all’altro, al punto da indurre Paolo a formulare la legge che presiede alla crescita della comunità cristiana: Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per confondere le cose esistenti55; e questo in linea con quella pietra scartata dai costruttori che è diventata testata d’angolo della quale parlava il salmo 11856 e che i Cristiani hanno senza esitazione identificato in Cristo57. In questa linea Dio in Cristo è al centro, compiutamente, solo sulla croce. Solo dopo che Il Figlio dell’uomo sarà stato innalzato, chi crede in lui avrà la vita eterna58. Un centralità, dunque, del tutto anomala. Anomala, ma perfettamente in linea con la costante di tutte le iniziative di JHWH nella storia: sono tutte fallite, umanamente parlando. La sconfitta di Dio: Sergio Quinzio ne ha fatto il titolo di un suo libretto prezioso. La storia così come la racconta la Bibbia è la storia di una continua caduta, nei confronti della quale gli eventi che testimoniano Dio sono momenti puntiformi, eccezioni che consentono di misurare il decadimento. Allora? Allora bisogna ri/comprendere la Bibbia intera, che in questa luce non è più leggibile come il dispiegarsi di una divina provvidenza che regge il mondo, ma va invece vista nel suo nocciolo come il dispiegarsi di una divina pedagogia che fa crescere gli uomini e li attrae a sé59. 1.5.1 Al centro non perché necessario, ma perché gratuito Sulla scia del suo grande maestro Karl Barth, su questa tematica della centralità anomala ai nostri giorni si è inserito prepotentemente Dietrich Bonhöffer. Nato nel 1906, pastore della Chiesa Luterana e docente di teologia, Dietrich Bonhöffer di fronte alla tragedia dilagante del nazismo maturò la convinzione che per un cristiano era del tutto impossibile continuare a cantare il gregoriano sullo sfondo della shoàh, come se niente fosse, e si convinse della giustezza del progetto di uccidere Hitler, portato avanti dal gruppo di antinazisti che faceva capo all'Ammiraglio Canaris, con il quale entrò in contatto. Per questo nel 1943 fu incarcerato dalla Gestapo nel carcere di Tegel, senza che si riuscisse a provare la sua colpevolezza. In carceter il Pastore Dietrich si dedicò alla preghiera e allo studio, che approdò ad alcuni saggi di grande valore teologico; ma soprattutto dal carcere inviò numerose lettere, quasi tutte a Eberhard Bethge, marito di Renate, una sua nipote. Bethge, sottufficiale della Wehrmacht che aveva occupato l’Italia dopo che questa aveva firmato l’armistizio dell’8 settembre 1943, aveva coscienza del grande valore teologico delle lettere che lo zio di sua moglie, lui che aveva celebrato anche il loro matrimonio, gli spediva, e le sollecitava al massimo; poi, a mano a mano che, all’interno della generale risalita verso il nord dei Tedeschi che si ritiravano, si sposta l’Alto Comando al cui servizio era addetto, egli nascondeva nell’alloggiamento che stavano lasciando, magari seppellendole in un angolo del giardino, quegli scritti preziosi: dopo la guerra sarebbe tornato a recuperarli. Cosa che Bethge fece puntualmente. Ma nel frattempo, quando ormai l'Armata Rossa era alle porte di Berlino, e Hitler 54 Non per nulla la stessa parola, ţaliāh, in ebraico significa sia “bambino” che “schiavo”, cfr. F. LAMBIASI, Il Vangelo secondo Marco, in La Bibbia Piemme, 1995, 2398 55 1 Cor 1, 27 s 56 cfr versetto 22 57 Mt 21, 42; At 4, 11; Ef 2, 20; I Pt 2, 6 58 Gv 3, 14 59 cfr. S. QUINZIO, La sconfitta di Dio, Adelphi 1992, 50 19 alla vigilia del suicidio, il 9 aprile del 1945 Dietrich Bonhöffer era stato impiccato per ordine personale (pare) dello stesso Hitler, impartito dal suo tetro bunker di Berlino. Lettere e saggi sono stati pubblicati in Italia prima a spizzichi, poi integralmente, dalla San Paolo, nel 1988, con il titolo Resistenza e resa. Bonhöffer è pienamente consapevole che da come uno imposta la ricerca di Dio dipenderà lo spessore dell'immagine che questo ricerca produrrà; e l’istanza fondamentale alla quale egli chiede di dover dare risposta è quella di un mondo religiosamente adulto. Nella lettura che ne dà Bonhöffer, i filosofi fondamentalmente vedono in Dio un'ipotesi funzionale, l’invisibile ma necessario pilastro senza il quale il mondo intero crolla: e questa sua funzione è anche il fallimentare criterio sul quale essi tentano di disegnarne il volto. Invece il mondo si regge benissimo anche senza Dio È sacrilego ridurre JHWH a pilastro del mondo. Dio non può servire a qualcosa che non sia Lui stesso. Su quel piano Dio non è necessario. JHWH è assolutamente gratuito, non serve a nulla, su quel piano. Al punto di rivelarsi molto prima come amico che come creatore. Da quando ha creato il mondo, egli ha preso a ritirarsi dal mondo, al punto che oggi i grandi problemi non solo della scienza ma anche della cultura, dell'arte, dell'etica vengono risolti senza chiamarlo in causa. Tutto funziona come prima, anche senza Dio60. Questa intuizione non solo non crea problemi seri per la fede adulta, ma apre la strada maestra alla sua autentica interpretazione: è la famosa polemica contro il Dio tappabuchi. 61 Dio è il centro di tutto e di tutti, ma in maniera assolutamente gratuita, del tutto diversamente dal Dio tappabuchi, che entra nella storia del mondo come per risucchio, come aspirato dai grandi buchi neri che la storia lascia irrisolti (la sofferenza, la morte, la colpa, la disperazione ecc.), come puntello di una situazione altrimenti incomprensibile, come elemento di un'ipotesi interpretativa del mondo che altrimenti si affloscerebbe su se stessa. Questo Dio - sostiene Bonhöffer - non è quello del quale ci ha parlato Gesù Cristo. Da quando la nostra cultura ha deciso di parlare di Dio a partire dall’uomo, un dilemma di fondo presiede ad ogni a scelta teologica: vogliamo rapportarci con Dio dal cuore dell'esistente o dalle sue periferie? Dal positivo della nostra esperienza o dal negativo? Dalla vita che chiede spazio o dalla morte che ci umilia e che ci ripiega su noi stessi? Molto spesso i Cristiani hanno optato per il secondo corno di questi dilemmi62. Una posizione troppo facile, una strada troppo praticata. Bonhöffer la ritiene esiziale per il futuro della fede. Tutti quelli hanno studiato nelle superiori conoscono (dovrebbero conoscere) 1 Trionfi di Francesco Petrarca (1304-1374); il poeta ci lavorò su per gli ultimi 34 anni della vita, perché da quel poema in terzine egli si riprometteva la gloria (molto più che dal Canzoniere). In sei grandi quadri il poema illustra questa idea: la grandezza di Dio eterno e invisibile ha la sua base nel fallimento di tutte le dimensioni della vita terrena; nella vita di ogni uomo è l'Amore che sembra destinato a trionfare, ma poi la Pudicizia trionfa sull'Amore, ma poi la Morte trionfa sulla Pudicizia, ma poi la Fama trionfa sulla Morte, ma poi il Tempo trionfa sulla Fama e infine l'Eternità trionfa sul Tempo. La colpa, lo scacco, il fallimento, la morte: queste le basi della grandezza di Dio. La fede, quella che abbiamo ereditato da Abramo, gode anche di una sua inestimabile funzione consolatoria, ma ridurla ad analgesico che attutisce i dolori della vita è un errore. La fede va presentata per quello che è: un strada non facilmente praticabile. Perché non gratifica, ma mette in crisi. Perché non riempie, ma scava. Perché crea più problemi di quanti ne risolve. 60 cfr DIETRICH BONOEFFER, Resistenza e resa, lettera dell'8.6.44, San Paolo 1996, 399 B. GROTHUYSEN, Le origini dello spirito borghese in Francia, trad. ít. Milano 1975, 108 e 90 Il dilemma è una figura retorica di pensiero che sviluppa ragionamenti convincenti nella misura in cui (aut / aut ) formula il ragionamento in forma di due ipotesi contrapposte, ognuna delle quali esclude del tutto l'altra; le due ipotesi vengono chiamare corni del dilemma (corni, non corna, che sono... altra cosa). 61 62 20 1 trionfalismi non si addicono ai Cristiani. I trionfalismi sembrano giovare nell’immediato, ma in ultima analisi rendono incredibile il Cristianesimo agli uomini migliori. Un grande e sconosciuto pensatore cristiano, il belga Grothuysen, aveva scritto già negli anni 30 del XX sec.: Mentre la vita è divenuta pagana, la morte può ancora dirsi cristiana; la Chiesa affida alla morte la sua grande sfida al mondo ed è sicura di vincerla perché ha dalla sua parte la morte, e la morte è più forte della vita; ma cantando il trionfo della morte, la Chiesa non ha potuto impedire che il grosso della vita si svolgesse sempre più fuori dell'ambito della fede. Cristo ci ha rivelato che, in lui, Dio è il centro. Lui che s’è proclamato Dio dei vivi e non Dio dei morti. Ma non lo è come un dato logicamente necessario, la conclusione di una ricerca, un qualcosa che va a sommarsi ad altri dati della ricerca religiosa. Dio è il centro in maniera assolutamente misteriosa, e totalmente diversa da come lo mettono al centro i filosofi. Il Dio dei filosofi (e anche il Dio della religione tradizionale) è al centro come presenza che non si può toccare con mano, ma alla quale si può risalire se si ragiona correttamente; un potere invisibile ma realissimo; la garanzia di senso di una vita che giunge al limite e non ha altro cui appoggiarsi: allora Dio è al centro. Il Dio della Bibbia, infaticabile nel guidare gli uomini verso la libertà, o meglio verso la liberazione, visto che gli uomini sono tutti - ai titoli più diversi – schiavi, opera non dall’alto, ma dal centro, dal luogo che, rappresentato con una tenda, esprime l’ostinata volontà divina di essere presente, di restare con il suo popolo63. Ma questa stessa frase (Dio è al centro) ha un valore totalmente diverso quando viene attribuita al Dio di Gesù Il Dio di Gesù è al centro64 perché muore ai margini. Il Dio di Gesù è al centro perché vive nell’attesa di giustizia che sale dai meno fortunati65. 1.5.2 Al centro non della speculazione ma della narrazione Torniamo al passo dell’Esodo qui sopra citato: nel momento stesso in cui scoraggia Mosè dal tentare di vederlo in faccia, JHVH gli suggerisce l'unico modo66 per fare esperienza di Lui: cogliere l’attimo in cui Egli passa, ascoltare il suo grido, guardare le sue spalle mentre Egli si allontana: Mosè disse a JHWH.- Mostrami la tua Gloria! JHWH gli rispose: Farò sfilare davanti a te tutto il mio splendore e griderò ad alta voce il mio nome: JHWH! davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e farò misericordia a chi vorrò fare misericordia. Soggiunse: ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessuno può vedere il mio volto e restare vivo. Aggiunse JHWH.- Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierà la mia mano e vedrai le mie spalle: ma il mio volto, quello no, non lo si vedere. Fuori metafora: Mosè ha un'unica chance per vedere JHWH, quella di seguirlo non direttamente, ma nel suo percorso all’interno della storia degli uomini. Il Dio dei filosofi è immobile come Anubi, il dio egiziano della morte. Il Dio della Bibbia è movimento, provocazione, interpellanza, attesa di un coinvolgimento. "Mentre cammina”: ma verso dove cammina JHWH? Il movimento di JHWH nella storia ha un terminus a quo e un terminus ad quem? Certo! Il cammino di JHWH nella storia67 63 Cfr. G. CASTELLO, Sintesi teologica di Numeri, in La Bibbia Piemme, 1995, 389 cfr. Mc 8,3 1; 9,3 1; 10, 33-34 65 cfr Mt.25 66 Es 33,23 67 Questa esegesi può sembrare cervellotica, in realtà essa era comune nella Chiesa già ai tempi di S. Gregorio di Nissa, fratello di S. Basilio, che commentava così questi versetti dell’Esodo: “Se la visione diretta della faccia di Dio è impossibile, è invece possibile una "visione di fede" che consiste nel seguire Dio nel deserto, con Mosè e il popolo d'Israele”. 64 21 o è sempre e contemporaneamente un moto da luogo, ha sempre un punto da cui ci si allontana: la schiavitù; o è sempre e contemporaneamente un moto a luogo, ha sempre un punto sul quale ci si dirige: la terra promessa; o è sempre e contemporaneamente un moto per luogo: il deserto. Sembrava un episodio, quello dell’uscita dall’Egitto alla Terra Promessa, e invece il libro dell’Esodo ne ha fatto il clichet di lettura di tutta la storia umana. JHWH cammina sempre e soltanto dall'Egitto alla Terra Promessa, attraverso il deserto. Seguire JHWH significa sempre e soltanto uscire dalla schiavitù (dalle schiavitù) e camminare verso la pienezza della vita attraverso le contraddizioni della vita stessa. Anche su questo punto non vi sono vie alternative. E la pienezza è quella che i nostri padri indicavano quando sulla facciata delle loro chiese scrivevano A.M.D.G., ad maiorem Dei gloriam, a maggior gloria di Dio; ma già S. Ireneo aveva scritto che la vera gloria di Dio. è l'uomo che vive in pienezza. Conoscere Dio non equivale dunque a lambiccarsi il cervello cercando di distillarne il succo della verità somma. Chi vuol conoscere JHWH ha solo da ripercorre le vie percorse dai patriarchi e dal popolo d'Israele. Un cammino spirituale lungo il quale il Dio/Padre di Gesù Cristo è lo JHWH di Abramo, di Isacco e di Giacobbe68, lo JHWH d'Israele69. La fede non solo non è riconducibile ad una serie di verità articolate in un discorso chiaro, completo e definitivo, ma non è nemmeno in grado di fornirci risposte a tutte le nostre domande. La fede non può ridursi a certezze messe in fila, che ci rassicurano definitivamente davanti a quanto ci angoscia in questa vita. La fede apre porte, cammina, ripercorre. Nel Vecchio Testamento la professione di fede è sempre un racconto. Ad esempio, durante la cerimonia dell'Offerta delle primizie, quando il pio Israelita saliva al tempio portando con sé i primi frutti del suo campo, nell'atto di offrirli a JHVH la liturgia gli chiedeva di ripetere questa storia: Mio padre (Giacobbe) era un Arameo errante; scese in Egitto, vi dimorò come straniero con poca gente e vi diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci repressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore udì la nostra voce, vide qual era la nostra oppressione, il nostro travaglio e la nostra afflizione, e il Signore ci fece uscire dall'Egitto con potente mano e con braccio steso, con grandi e tremendi miracoli e prodigi, ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele. E ora io porto le primizie dei frutti della vita che tu, o Signore, mi hai data70. Se Dio non fosse intervenuto gli Ebrei sarebbero ancora in Egitto, schiavi; se un Israelita può oggi coltivare la propria terra e raccoglierne il prodotto, se può liberamente esercitare qualsiasi altro mestiere, è solo perché il suo Dio si è ricordato del suo popolo, l'ha fatto uscire dalla "casa di schiavitù", l'ha condotto attraverso il deserto, gli ha dato la terra dove abita. Questa del Deuteronomio è la professione di fede più nota, ma di richiami al primato del racconto ce ne sono tanti altri71. Ne emerge una precisa concezione della vita: la vita presente è il frutto di una lunga storia, e questa storia è fatta da una serie di interventi divini a favore di noi, suo popolo, e di tutti gli uomini; Israele e l’umanità intera esistono solo grazie a questi interventi, il loro racconto è come la nostra carta d'identità. Chi vuol conoscere Israele deve leggere questa storia. E chi legge questa storia sa chi è Israele, ma sa anche chi è il Dio d'Israele. Nel Nuovo Testamento72 i procedimenti per confessare la propria fede sono identici. Inedito rispetto al Vecchio nel Nuovo Testamento è il raggio d'azione: la storia d'Israele aveva un'incidenza limitata 68 Mt 22,32; Mc 2,26 Mt 15, 31; Lc 1, 68 70 Dt 26,5-10 71 cfr Nm 20,14-16; De 6,21-23; Gs 24,2-13; Gd 11,15-23; 1 Sm 12,7-1 1; 4 72 cfr At 1,21-22; 2,22-24; 3,12-26; 4,9-12; 5,29-32; 13,16-41; 1 Cor 15,3-8 69 22 esplicitamente sul popolo d'Israele, la storia di Gesù Cristo ha un impatto diretto su tutta l’umanità, perché Lui è il Signore di tutti gli uomini73 e con la resurrezione è diventato giudice dei vivi e dei morti cambiando di segno la morte: non più il punto finale dell'esistenza, ma il suo nuovo inizio74. Così Pietro: Voi sapete quello che è avvenuto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni,- vale a dire, la storia di Gesù di Nazareth, come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com'egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; essi lo uccisero, appendendolo a un legno. Ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che egli si manifestasse non a tutto il popolo, ma ai testimoni prescelti da Dio, cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha comandato di annunziare al popolo e di testimoniare che egli è colui che è stato da Dio costituito giudice dei vivi e dei morti. Di lui attestano tutti i profeti che chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome75. La fede della prima comunità cristiana va narrata, prima che annunciata o elaborata, perché il suo epicentro è in una serie di accadimenti che iniziano da Giovanni Battista che predica la conversione e, passando per la vita, passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, finiscono con i discepoli che testimoniano la risurrezione. EXCURSUS La PAROLA DI DIO e le SCATURIGINI DELLA CULTURA PERSONALISTA Alla luce di tutto questo molte diciture che l’uso rischia di logorare vanno ri/calibrate in tutta l’ampiezza e la profondità del loro significato. A cominciare da ”Parola di Dio”. PAROLA DI DIO, certo. Parola efficace, certo76, ma anche incarnata in vicende che Dio stesso ha indicato come emblematiche. Tutto il racconto biblico, in tutte le sue sfaccettature, ha come primo scopo quello di permettere ai suoi lettori l’accesso alle sorgenti dell'esistenza autentica. È indispensabile un approccio personale con questo testo, anche se esso non va assolutizzato: da sempre la Bibbia viene letta dai seguaci di Cristo all'interno di una comunità di fede che possiede quindi una lunga tradizione di lettura e che per questo la garantisce da eventuali travisamenti: è la stessa comunità ecclesiale che, sulla scia della comune lettura della Parola, celebra i momenti più importanti della sua vita nei Sacramenti. Questo non intacca la validità dell’approccio personale con la Bibbia; esso, se non può "generare" né la fede né la salvezza, apre nella nostra esperienza finita delle finestre che si affacciano sull'infinito dell'esperienza di fede. E come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe si conosce conoscendo la storia di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, così il Dio di Gesù, che è la pienezza del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, si conosce conoscendo la storia di Gesù Cristo. 73 At 10,36 ibid. 10, 42 75 At 10, 37 - 43 76 Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver innaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata: Is 55, 10 -11 74 23 Non si perde tempo, pertanto, se si leggono storie che apparentemente hanno poco da fare con il mistero di Dio: tutto è religiosamente significativo nella vita dei patriarchi o nella storia d’Israele, anche i dettagli. Niente è accessorio nella Bibbia. Di più: questo Dio che si manifesta nelle storie della Bibbia può anche manifestarsi nella storia della nostra vita. Niente è accessorio nella nostra esistenza. Le narrazioni bibliche sono letteratura popolare non solo e non tanto nella forma, ma soprattutto nei contenuti. Gli "eroi" della Bibbia, a cominciare dai discepoli di Gesù, appartengono al popolino. E molti di quelli che la Bibbia qualifica come "incontri con Dio" non sono eventi eccezionali, ma esperienze semplici, materialmente banali. I patriarchi incontrano Dio nelle more di un viaggio faticoso, nelle difficoltà che vive la loro famiglia, nei matrimoni gioiosi e nella sterilità che li angoscia, in occasione di una nascita ma anche nel cuore di una rivalità, conflitti per banali questioni di eredità; durante l'esodo la ricerca quotidiana dell’acqua e del cibo, i pericoli e le fatiche di un lungo cammino, la contestazione dei capi. Non sembrerebbe che Dio infinito potesse rivelarsi in questo mare di "banalità", a volte addirittura triviali. E invece proprio nello stile umile e anche grezzo dei racconti biblici si nasconde e si rivela l'umiltà di un Dio che si rende accessibile a tutti e non solo ai raffinati, ai colti, purché - dice S. Agostino - non siano "leggeri di cuore". In realtà nella Bibbia non c'è nulla né di banale, né di triviale, perché (prima ancora) nella vita non c’è nulla né di banale né di triviale. Le SCATURIGINI della CULTURA PERSONALISTA. Da tutto quanto è stato detto qui sopra, ben si capisce come la Bibbia vada collocata alle sorgenti della cultura personalista. Nella Bibbia o ogni persona, anche la più umile e sperduta nel mondo, può e deve assurgere a protagonista dell'avventura umana, perché Dio si accorge di lei e la valorizza; o ogni momento della vita, anche il più apparentemente banale, ha il suo "peso di grazia" e di bellezza perché nessun momento è troppo umile per non poter accogliere il dono di Dio e l'ospite divino che viene a sedersi alla nostra tavola. Una cultura che non si limita a contestare tutte le barriere sociali, come contesta, nel mondo letterario, le distinzioni fra "letteratura epica" e "letteratura umile", letteratura che tratta di gesta straordinarie e letteratura che tratta delle mansioni della vita quotidiana. E la ricerca di Dio invade ogni campo: Natanaele, non cercare Dio se non dappertutto, il motto che Theilard de Chardin leggeva, scritto a grandi lettere davanti a sé, non appena alzava gli occhi dal suo tavolo di studio Pilastri di un’antropologia tutta nuova. Un’unica concezione della vita, in due punti chiave: o la vita nella sua vera identità, nel suo nucleo autentico77, è un bene che si realizza solo nella misura in cui viene messa a disposizione degli altri ed evapora quando uno pretende di spremerla solo per sé; o nel dinamismo tipico della vita, ad ognuno che abbia occhi per vedere e orecchi per intendere78 viene quotidianamente chiesto di mettere a disposizione il proprio tempo, la propria intelligenza, gli averi, la fantasia, la sensibilità: ma il tutto è solo un... anticipo del momento in cui la richiesta sarà quella di mettere a disposizione la vita stessa, e di partire per un logo che nessuno conosce, lasciando tutto, ma proprio tutto, assolutamente…. 77 È questo il senso complessivo del famoso aforisma Chi avrà trovato (accaparrato per sé solo) la sua vita la perderà, e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la ritroverà”: cfr Mt 10, 39 78 Mt 13, 14-16 24 Parte II II LE GRANDI OPERE DI DIO, RADICE ULTIMA della SOLIDARIETA’TRA SOLIDARIETA’TRA GLI UOMINI 25 2.1 LA CREAZIONE COME SCELTA DI SOLIDARIETÀ Che la Bibbia inizi il suo racconto dell’ìintervento di JHWH nella storia dalla creazione può sembrare ovvio, ma le cose non stanno così. La genesi non è il primo libro della Bibbia. La Genesi - come vedremo - è stata composta durante l’esilio di Babilonia, e solo successivamente inserita al primo posto, in testa a tutti gli altri librii. Il libro che dà il la a tutto l’Antico Testamento non è la Genesi, ma l’Esodo. Israele ha conosciuto JHWH prima come liberatore e solo dopo, molto dopo, come creatore. E non si tratta solo di precedenza cronologica, ma anche di priorità logica: è stata l’esperienza del Dio che libera che ha portato con sé la scoperta del Dio che crea. E crea per solidarizzare con lui, per entrare in dialogo con l’uomo, per chiedere all’uomo di coadiuvarlo nella realizzazione di quel mondo che egli ha volutamente lasciato incompleto, per associarlo con sé in questo compito, in vista di quell’alleanza che l’Esodo definirà. L’anima del Genesi è la ricerca inesausta di un dialogo fra l’uomo in tensione verso la propria identità e il “Dio assente”, il Dio che non si lascia catturare; un dialogo tutt’altro che facile, sempre minacciato dal fascino di forme religiose accattivanti perché più concrete, ma inconsistenti e soprattutto disastrose nel loro esito; un dialogo reiterato da parte di JHWH con quell’umanità che ha creato a sua immagine e somiglianza, in vista del settimo giorno, completamento e fine dell’opera divina79. Al settimo giorno – dice JHWH all’uomo – ci arriviamo insieme. 2.1.1 Creazione di Adamo, creazione di ogni uomo. Nel linguaggio biblico "Adamo" non è un nome proprio, ma un nome comune; non è l'uomo, con l'articolo determinativo, come si conviene ad un concetto, il re dei concetti; ma non è nemmeno un uomo, con l’articolo indeterminativo, un essere concreto ma generico, uno dei tanti; no, Adàm andrebbe tradotto con "ogni singolo uomo", è il soggetto umano individuale, pensato però in un grande disegno comunitario. Siamo di fronte alla primissima formulazione del concetto di persona80, così come l’intendiamo oggi: realtà compatta in sé e al tempo stesso strutturalmente aperta all’altro (all’Altro). 79 80 .cfr G. BORGONOVO, Sintesi teologica in Genesi, La BiBBia PIEMME 1995, 178 ss cfr. E. H. MALY, Creazione dell'uomo e della donna, in AA. VV., Commentario biblico, Queriniana 1974, 21 22-25 26 Tutto questo va detto all’interno di una corretta riflessione filosofica sulla creazione, secondo la quale la creazione correttamente intesa è coestensiva all'esistenza della creatura. È del tutto puerile immaginare che Dio abbia creato il mondo milioni, o miliardi di anni fa, e che poi il mondo sia andato e vada avanti per conto suo. Dio crea la creatura momento per momento, visto che la creatura non ha in sé quanto occorre per esistere. 2.1.2 Creazione come chènosis Della creazione così intesa la teologia biblica recente dà una lettura che non è certo quella che la gran parte dei credenti ha sommariamente assimilato al catechismo. La creazione, più che come una manifestazione di potenza, viene letta come una scelta di debolezza. Creando infatti JUWH da una parte esprime tutta la sua potenza, ma dall'altra - in qualche modo - ... “esce da se stesso" per solidarizzare con la creatura che ha creato, che per forza di cose è debole, ma che Egli intende associare a sé. JHWH “esce da se stesso” e si fa debole nella misura in cui o decide di costruire il mondo contando sulla collaborazione dell’uomo, che di per sé è un essere poco affidabile; o decide di lasciarsi condizionare da quelle leggi che presiedono allo sviluppo della natura e della storia che Egli stesso ha preposto alla natura e alla storia. La parola/chiave diventa quella che Paolo ha usato per parlare di Cristo: κήνωσις, abbassamento, sprofondamento. Il diagramma che riassume la linea d’intervento di Dio nella storia non va dal basso verso l’alto, come si sarebbe tentati di pensare, ma dall’alto verso il basso: una sempre più radicale immedesimazione di Dio nella vita concreta dell’uomo concreto. In questa traiettoria la creazione è il primo, fondamentale passo nella traiettoria della κήνωσις, il passo che rende possibili quelli successivi. Ai nostri giorni la creazione come scelta di solidarietà di JHWH nei confronti dell’uomo è stata riproposta con straordinaria intensità da Bonhöffer81, in uno snodo teologico particolarmente delicato e significativo: la lettura teologica di quel fenomeno che la sociologia religiosa cataloga come il più tipico del nostro tempo, la secolarizzazione. Negli ambienti ecclesiali la secolarizzazione viene letta in chiave eminentemente negativa, ci si piange sopra con una certa voluttà. Bonhöffer invece ne dà una lettura eminentemente positiva. La secolarizzazione è l’ultima e più alta conquista della coscienza religiosa Dio crea e abbandona il mondo solo perché lo ama e, amandolo, lo vuole pienamente... mondano; al suo interno Dio perde qualsiasi utilità, non ha più alcune funzione, non serve più a nulla: una scelta pagata a caro prezzo? No, è solo la rinuncia a utilizzare Dio, per rimetterlo sul trono della sua sovrana solitudine, gremita di presenze, ma tutte gratuite e adoranti, tutte e soltanto di adesione fiduciosa alla sua volontà. Non gli si chiede più di fornire spiegazioni né sullo scheletro che tiene in piedi il mondo, né sulla storia umana, non gli si chiede più di mettere le toppe sulle lacerazioni che su quella storia ha prodotto la stupida malvagità umana. Solo chi ha rinunciato a richieste di questo genere accede, una volta che ha incontrato Cristo, alla fede autentica, adulta, motivata da null’altro che dall’abbandono in Lui. La “fede fiduciale” di cui parlava Luterano, nella quale l’affidarsi, pur senza annullarlo, prevale nettamente sul fidarsi. 2.1.3 Creazione e alleanza 81 A. GALLAS, Saggio introduttívo: la centralità del Dio inutile, in D. BOHNHOEFFER, Resistenza e resa, lettere dal carcere, San Paolo 1996, 5 - 50 27 Nella Bibbia creazione e alleanza vanno sempre insieme, di pari passo, ma non nella sequenza temporale che ci si aspetterebbe: abbiamo già visto come Isarele incontra JHWH prima come salvatore e solo poi come creatore; prima ha sperimentato JHWH come “Dio nazionale” e solo poi come “Dio universale”. La salvezza attraverso il dialogo personale tra Dio e l'uomo logicamente e cronologicamente dovrebbe venire dopo la creazione, ma nella logica biblica essa viene prima, è il primum íntentum della creazione. Ma quando e perché il volto del Dio salvatore ha assunto i tratti del volto del Dio creatore? La Genesi non è il libro più antico della Bibbia, tutt'altro; la Genesi è il frutto di un travaglio teologico che si è catalizzato dopo oltre mille anni dall’esperienza di fede di Abramo, sullo sfondo dell’immane sofferenza spirituale e culturale dell'esilio babilonese (586 - 538 a.C.). Sofferenza spirituale: l’esilio di Babilonia sembrava vanificare la figura del Dio che offre amore e chiede collaborazione. Sofferenza culturale: il “modulo di autocoltivazione” che ogni Ebreo si portava dentro implode e si vanifica. In quegli anni la relazione tutta intima e personalizzata del pio Ebreo con JHWH traballò dalle fondamenta quando il Dio nazionale JHVM dovette confrontarsi - e da sconfitto! - con le esuberanti tradizioni letterarie e mitologiche della tradizione mesopotamica, che (in tema di creazione) avevano già alle spalle almeno due millenni di ricerca82. Non abbiamo più il nostro tempio, non abbiamo più un territorio nostro, non abbiamo più un re che ci governi in nome di JHWH; il tempio, "casa" di JHVH nel senso più pieno della parola, ormai da decenni è ridotto ad un cumulo di macerie, e non esistono ragionevoli speranze che risorga; la Palestina, la feconda terra di Canaan tanto a lungo sognata dai nostri padri usciti dall’Egitto, luogo di tutte le promesse, ormai da decenni privata delle braccia migliori perché quasi tutti i capifamiglia di Gerusalemme sono stati deportati a Babilonia, è ridotta ad un deserto; il re Sedecia83, l' unto del Signore, il consacrato da JHVH con l'unzione solenne da parte del Sommo Sacerdote, ha visto sgozzare i suoi due :figli in piazza; poi Nabuccodonosor, prima di trascinarlo a Babilonia legato come un cane, gli ha ficcato negli occhi la punta della sua lancia d’oro. E intanto coloro che ci opprimono hanno templi grandiosi e ricchissimi, insistono su territori vasti e fecondi, sono guidati da re alteri e potenti: ma che razza di Dio è il nostro JHWH, se è stato sconfitto su tutta la linea e non può più fare conto nemmeno su una casa da abitare? La risposta fu folgorante: o non necessariamente JHWH deve avere un tempio, perché egli non abita il tempio, JHWH ABITA IL TEMPO. Il tempo degli uomini, lo scorrere delle stagioni e degli anni: lì egli abita; o JHWH Dio abita il tempo perché ha voluto chiamare l’uomo dal nulla all'esistenza per associarlo ai propri progetti e in qualche modo realizzarsi nella sua realizzazione. 2.1.4 La radice prima della solidarietà biblica: Dio abita il tempo Siamo di fronte alla più radicale delle radici della solidarietà: bisogna solidarizzare con tutti gli uomini perché JHWH solidarizza con loro, al punto che il loro tempo è la sua casa e nei il loro impegno nel mondo lo trova non solo benedicente, ma complice. L’incipit della Bibbia, quei primi versetti del suo primo libro, i vv. 1,1 - 2,4 del Genesi. Un racconto che in realtà è una riflessione su Dio, sull'uomo, sul mondo, sulla storia: una riflessione dai contenuti ricchissimi84. Una leggenda? È stato detto che la leggenda è il modo in cui gli antichi fanno storia, e la favola è il genere letterario che essi usano per teorizzare. In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre le chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno. 82 G. BORGONOVO, o.c., 177 Ultimo re di Giuda (regno del Sud), 597 -587 a.C 84 cfr. J. L. SKA, Oltre le appartenenze, in Rinascere, periodico di MRC, o.c., Roma 1998, 11-14 83 28 Dio disse: "Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque ". Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina, secondo giorno. Dio disse: "Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto ". E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie ". E così avvenne: la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: terzo giorno. Dio disse: "Ci siano luci nel firmamento dei cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra". E così avvenne: Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto giorno. Dio disse: "Le acque brulichino di esseri, viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo ". Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra". E fu sera e fu mattina: quinto giorno. Dio disse: "La terra produca esseri viventi secondo la loro specie. bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie". E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra". Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra". Poi Dio disse: "Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli dei cielo e a tutti gli esseri eh. e strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde ". E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto ed, ecco, era cosa molta buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. Queste le origini dei cielo e della terra, quando vennero creati. Gli autori di questo piccolo trattato di teologia sono un gruppo di pii intellettuali, attanagliati anche essi dall'angoscia che ha progressivamente invaso tutto Israele durante l'esilio in Babilonia. Dura la schiavitù che gli Assiri hanno imposto. Ma più dura e beffarda la fida che le religioni e le culture mesopotamiche lanciano ad Israele: il vostro JHWH è stato battuto dalle nostre Divinità: Alla provocazione mortale Israele risponde con un autentico colpo di reni, un formidabile balzo in avanti della sua coscienza religiosa, una delle più grandi conquiste del pensiero umano, articolata su due livelli distinti e interconnessi: JHWH ha creato il tempo, JHWH abita il tempo. 29 Nell'architettura complessiva del racconto biblico, Dio crea il mondo in sette giorni e dieci parole: parole efficaci come lo è sempre la Parola di Dio. Parole come opere. Dieci "opere" distribuite in sette giorni. Tra i dieci giorni i più importanti sono tre: il primo, il quarto e il settimo, i due giorni che si collocano alle estremità della settimana, e quello che si trova in mezzo ad essa. Ognuno di questi tre giorni contiene un'affermazione diversa circa il rapporto tra JHWH e il tempo. JHWH HA CREATO IL TEMPO Abbiamo conosciuto JHVH - questa la riflessione dei pii intellettuali ebrei - perché JHVH stesso ha preso l'iniziativa di rivelarsi ai nostri padri, prima ai Patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli), poi, a distanza di secoli ( i secoli della schiavitù in Egitto), a Mosè, poi ai profeti dei tempi andati, come Isaia che scomparve ai tempi del crollo del regno del Nord (729 a.C.), e i profeti del nostro tempo, quelli che abbiamo conosciuto di persona, come Geremia, scomparso mentre noi venivamo deportati a Babilonia; analogamente a quanto accadeva - dicono - a tanti altri popoli, anche noi siamo stati tentati di collocare JHWH, il Dio dell'Esodo, tra le tante divinità locali o nazionali: più potente degli altri, vincitore sul Panteon egiziano, ma pur sempre uno tra i tanti, sostanzialmente della stessa famiglia. Ora invece sappiamo che JHWH è ben altra cosa rispetto agli Dèi di coccio o di basalto che venerate sui vostri altari; JHWH è l'unico creatore di tutte le cose, anche degli dèi davanti ai quali voi vi prostrate, a Babilonia o in Persia; è lui che ha creato il sole, la luna e le stelle, quegli astri ai quali la Mesopotamia riserva gli onori dovuti alla divinità. L’intenzione polemica del racconto di Genesi 1 è evidente dal tipo di immagini usate per descrivere la creazione: esse echeggiano molto da vicino le rappresentazioni mesopotamiche nelle quali il creato non è un panorama che illuminandosi emerge dalle tenebre, ma una pianura che affiora lentamente dalle acque: nelle grandi pianure tra í due fiumi per eccellenza, quelli dell’attuale Baghdad, il Tigri e l'Eufrate, ogni anno le piogge dell'inverno e lo scioglimento della neve sulle montagne provocavano a primavera grosse piene e allagamenti. Poi l’acqua si ritirava, le terre riapparivano in un tripudio di vento leggero e di sole crescente, e si poteva dare inizio alla semina85. JHWH non ha concorrenti, non ha bisogno di misurarsi con nessuno, perché egli opera In principio86: quello che era prima è sempre più importante di quello che segue. Il Dio d'Israele esisteva prima di tutto il creato, con i suoi dèi, i suoi templi, le sue vittorie e le sue sconfitte. Lui e lui solo stava "all’inizio". “Trascendente” diremmo oggi. JHWH DETTA IL RITMO/BASE DEL TEMPO E SCANDISCE LA VITA; Dopo aver creato le piante87 al terzo giorno, nel quarto giorno88 JHWH crea gli astri; gli astri, con il loro moto regolare e perpetuo, sono come l'orologio dell’universo; attraverso gli astri e la funzione che JHWH ha loro assegnato, quella di segnalare "le feste, i giorni e gli anni" in una specie di "calendario cosmico", JHVH scandisce il ritmo della vita89. JHWH ABITA IL TEMPO 85 In Gn. 2, 4b - 25 esiste un secondo racconto della creazione, ma appena abbozzato, in funzione di preludio al racconto della creazione dell'uomo; in esso la creazione viene narrata in riferimento alla situazione della Palestina, dove l'acqua non si ritirava per far emergere la terra come accadeva in Mesopotamia, ma irrigava il paese e lo fecondava per trasformare intere zone desertiche in plaghe vitali. 86 Gn 1, 1 87 Noi ci saremmo aspettati la creazione degli animali: le piante infatti dovrebbero presumibilmente servire a nutrire gli esseri viventi, e invece, spezzando il ritmo ovvio della logica, al quarto giorno Dio crea gli astri. Ben altra, dunque, nelle intenzioni dei narratore, è l'importanza del giorno che si trova a metà settimana, non la semplice logica che vuole piante e animali in sequenza. 88 Gn 1, 11-12 89 Gn 1, 16.18 30 Infine nel settimo giorno, l'ultimo della settimana, JHWH si riposa, entra in un tempo del tutto sui generis, un tempo "vuoto", nel quale JHVH "è" solo JHWH90, non agisce più, per sempre rimane identico a se stesso. li settimo giorno non ha una sera. Questo vuoi dire che JHVM ABITA IL TEMPO in maniera dei tutto originale, operando in sei giorni, e ritirandosi poi in se stesso, nella perfezione assoluta del settimo giorno: lui può fare a meno del non solo del tempio, ma anche del tempo Dio non abita il tempio, ma il tempo. Paradossalmente queste due parole, tempo e tempio, hanno la stessa radice, il verbo greco τέµνω (taglio, spezzo: da cui anche a/tomo, il non/spezzabile), e dunque indicano la parte, la porzione di un qualcosa: Dio eterno può abitare tra gli uomini solo scegliendosi una parte, una porzione... di che cosa? Una porzione di spazio, dicono tutte le religioni che fanno riferimento al tempio come spazio sacro, recintato, inviolabile, "abitazione di Dio". Solo la Bibbia afferma che il tempo è più importante dello spazio. Una convinzione maturata dopo aver condiviso la concezione del tempio che tutti avevano.: Il primo santuario stabile fu costruito dagli Ebrei molto tardi rispetto ai tempi dell'alleanza; le istruzioni che in proposito Mosè ricevette da JHWH nel deserto91 riguardavano una struttura mobile, destinata a spostarsi con il popolo, nel cui dinamismo essa abitava; ma anche quando non dispone ancora di un santuario in cui incontrarlo, Israele venera JHWH cooperando alla sua attività durante la settimana e celebrandolo durante il "tempo sacro" dei sabato. Dio abita il tempo e la storia per sei giorni, il settimo abita il "tempo sacro" delle feste liturgiche92. Gli uomini sono stati creati dopo che fu creato il tempo: questo, tradotto nella nostra lingua moderna, vuol dire che la condizione umana è chiamata a operare costantemente nel tempo e a confrontarsi col tempo. JHWH abita il tempo, che è l'unico, vero tempio del Dio d'Israele e gli è sacro nella sua interezza, ma insieme, nel sabato, lo trascende. 2.1.5 Dio si fa complice dell’uomo così com’è Creandolo, Dio si fa complice dell'uomo, in un duplice senso: 1. IN CHIAVE DI ESTREMA IDEALITÀ DIO CHIAMA OGNI UOMO AD ABITARE IL TEMPO E A GOVERNARE IL MONDO INSIEME CON LUI. È la seconda risposta alla seconda, drammatica domanda che tormentava gli Ebrei in esilio a Babilonia: JHWH non ha più un re che lo rappresenti nel mondo? Nel tempo creato e abitato da Dio c'è un re al quale JHVM consegna non questa o quella specifica funzione, ma la custodia dell'intero creato: è l'uomo. Adam: ogni uomo. E infatti nella seconda parte della settimana Dio crea gli esseri viventi, ogni specie diversa riempirà una diversa parte dell'universo: gli uccelli il cielo, i pesci le acque, gli uomini la terra. Dio li rende fecondi benedicendoli, perché solo se fecondi essi potranno riempire la parte di mondo che è stata loro assegnata. Ma alla benedizione riservata all'uomo si abbina l’affidamento di una precisa responsabilità, quella di dominare la terra; non per nulla, dopo aver creato piante e animali secondo le loro specie93, JHVH ha creato l'essere umano, e solo lui, "a sua immagine e secondo la sua somiglianza94. Dominare la terra: svolgere una funzione analoga a quella che gli astri svolgono nel cielo; come essi sono responsabili dei buon andamento del calendario universale fissato nel moto dei cieli, così gli esseri umani sulla terra sono responsabili che ogni cosa cresca secondo la propria specie. Eccolo, il Dio che si ritira dal mondo di Dietrich Bonhöffer, e si riposa: non perché non ha più niente da fare, non perché il tempo è estraneo alla sua eternità, ma perché lascia al mondo lo spazio necessario per funzionare come se Lui non ci fosse, lo spazio indispensabile perché gli uomini possano 90 È quella che noi chiamiamo eternità Es capp. 35 - 40 92 Gn 1, 14; i "tempi fissi", erroneamente tradotti con "stagioni" o "feste", in realtà sono le feste liturgiche 93 Gn 1, 22-25 94 Gn 1, 31 91 31 esercitare la loro libertà e assumersi le proprie responsabilità; il tempo rimane comunque la sua casa: egli va cercato non nel "vuoto" statico che circonda il mondo, ma nei dinamismi delle creature che ne conservano l’immagine. 2. IN CHIAVE DI DOVEROSO REALISMO, DIO VIENE A PATTI CON L’UMANITÀ COSÍ COM’ESSA È E SI ADATTA ALL’UOMO COSÍ COM’È95. Il racconto della creazione si conclude con il racconto del diluvio: altra tesi di principio esposta in forma narrativa96. Dio ha avuto appena dopo la creazione del mondo la delusione più grande: l'uomo ha guastato lo splendido giocattolo di cui JHWH gli aveva fatto dono, un mondo in cui tutto funzionava alla perfezione. JHWH allora si è scoraggiato e ha deciso di distruggere l'umanità: il diluvio, si salva solo il giusto, Noè97. Il sacrificio che egli, una volta tornato a terra, offre a JHWH è finalmente degno della sua grandezza, al punto che Dio promette allora che non manderà mai più un diluvio sulla terra98. Accettando quel sacrificio JHWH è venuto a patti con l'umanità, ha preso atto che essa ormai è quella che è, che non cambierà mai più dì tanto. Soprattutto l’umanità non potrà mai più fare a meno totalmente della violenza. La violenza fa parte ormai del tessuto di base del mondo. Per esorcizzare la minaccia che essa rappresenta per l'universo bisogna incanalarla- per questo JHVH permette all'umanità di uccidere, ma unicamente gli animali (mai e poi mai un proprio simile), e solo per nutrirsi, e solo rispettando precise regole nella procedura della macellazione99, a partire dal divieto di nutrirsi del sangue dell’animale ucciso, perché il sangue è il luogo della vita, sacro a Dio. JHWH dunque sì è messo dalla parte dell'umanità, si è fatto concretamente complice anche della sua inguaribile debolezza, della sua costituzionale incapacità di resistere alla tentazione della violenza. Ne è nato un patto; grazIe ad esso viene assicurato un futuro all'universo, poiché o JHWH veglia a che la violenza non pregiudichi i diritti della vita, o l'umanità può sfogare in posItivo, uccidendo degli animali, i suoi impulsi alla violenza e piegarli al servizio dei suo bisogno di cibo. Un racconto antropomorfico di enorme portata morale: con questa umanità è pericoloso vivere solo di principi troppo rigorosi, bisogna prendere gli uomini per quello che sono; senza peraltro smettere di additare loro quello che devono (e potrebbero) essere. È il PRINCIPIO DI REALTÀ, destinato ad informare, come uno dei poli dell'agire autenticamente umano, ogni morale cristianamente ispirata alla Bibbia; l'altro principio è il PRINCIPIO DI SANTITA100, grazie al quale la santità di JHWH, che è la sua gloria ultraterrena, per forza endogena diventa nell'uomo "giustizia" cioè corretto rapporto con JHWH e con gli altri uomini, e col mondo. In chiusura: quale solidarietà “Bisogna essere solidali tra noi perché Dio è solidale con noi, e nelle forme nelle quali questa solidarietà si esprime”: la delibazione della portata semantica del racconto della creazione riempie questa affermazione di tali e tanti significati da giustificare l’auspicio con il quale s’è aperto questo libro: riprendete in mano la Bibbia… In essa la solidarietà tra<Dio e gli uomini e degli uomini rtra loro si respira a pieni polmoni. Tutti, credenti e non credenti, mistici e scettici. 2.2 L’ESODO COME SCELTA DI SOLIDARIETÀ 95 Gn 6,5-7 cfr. J. L. SKA, o.c., 14 97 Gn 6,8 e 13-14; 7, 21-23 74 98 Gn 8, 21-22 77 Gn 9, 2 - 6 99 Gn 8, 20-22 e 9, 2-6; la macellazione degli animali conserva comunque un aspetto sacrificale 100 cfr.O. KOBLER, Santo, santità, in Enciclopedia della Bibbia, III, PIEMME 1997, 276 96 32 Seconda tappa della chènosis di JHWH, seconda articolazione della sua volontà di solidarizzare con l'uomo: l'ESODO101. Il libro che porta questo nome è il più importate di tutto il VT; ed è di fondamentale importanza anche per capire il NT. I fatti storici risalgono sicuramente al tempo di Ramses II (1290-1224) e coinvolgono anche il suo predecessore Seti I (1310.1290) e i suo successore Merneptah (1224-1214). Ma, come sempre, essi interessano molto relativamente, al punto che di connotazioni storiche precise l’Esodo ne offre solo una, già nota agli studiosi della storia dell’Egitto: quella della costruzione di due città/magazzino, una di nome Piton e una, in onore del faraone che le costruì, di nome Ramses. Quello che interessa all’autore o agli autori dell’Esodo, e in questo coinvolge sia il Libro dei Numeri che il Deuteronomio, è fissare i tratti di ogni autentico cammino di liberazione: quello che Israele visse allora e quello che si para davanti ad ogni uomo che voglia uscire dalla propria schiavitù102. 2.2.1 L"Esodo, proposta di un cammino da condividere Con l'Esodo la solidarietà che JHWH aveva dimostrato nei confronti dell'uomo, creandolo, diventa proposta storica d'un preciso cammino storico, che JHWH intende percorrere con un popolo ben individuato, ma a beneficio di tutta l'umanità. La complicità fra Dio e uomo diventa stringente, concreta, quotidiana, ma mantiene un respiro di fondo ampio, universale. JHWH, dando per un momento l'impressione quasi di voler mettere fra parentesi la grandiosità che compete ai suoi disegni, decide di compromettersi con un popolo piccolo e sperduto, ignorato da quasi tutti gli altri popoli del mondo, disprezzato da chi lo conosce, ignorante e arretrato rispetto a tutti gli altri popoli. Gente che caratterialmente - a sentire tutti i Profeti - si distingue per la dura cervice. Gente che non ha dato all’umanità nessun contributo di un qualche rilievo, in nessuna delle attività e delle discipline che fanno civile l'uomo. Fa eccezione la teologia, nella quale gli Ebrei sono di gran lunga i più raffinati e profondi.. La proposta che JHVH avanza a questo popolo è schematica: lasciarsi guidare da Lui e uscire dall’Egitto, insieme; e attraversare insieme il deserto; ed entrare insieme nella Terra promessa. Uscire da, attraversare per, puntare su: gli elementi essenziali del movimento (moto da e a luogomoto per luogo) ci sono tutti. o Il terminus a quo di questo "camminare insieme" è l'umiliazione subita in Egitto. o Il suo terminus ad quem è la possibilità di divenire finalmente un popolo, un'unità forte. o Passando attraverso... : in negativo attraverso la liberazione dagli idoli; in positivo attraverso la costruzione quotidiana, faticosa, di un’appartenenza sempre più radicale • tra JHWH e il suo popolo, • tra gli individui all'interno di quel popolo. La proposta è dunque semplice, ma le sue potenziali implicazioni sono formidabile: occorreranno dei secoli per esplicitarne qualcuna. 2.2.2 L’Esodo, emblema della vita Il sensus ecclesiae ha enormemente dilatato le implicazioni insite nell’esperienza dell’uscita dall’Egitto e della conquista della Terra Promessa, fino fare e delll’ Esodo l'emblema della vita tout court. 101 È il titolo del secondo libro della Bibbia; la Bibbia si apre con il Pentateuco, cioè 1 cinque libri, per eccellenza: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio: i primi due raccontano, gli altri tre contengono leggi. 102 cfr. G. CASTELLO, Numeri, in o.c. 388 33 Il vero volto della vita ci sfugge: la catechesi cristiana ha tra i suoi compiti fondamentali quello di rivelare a chi intende lasciarsi illuminare il vero volto della vita. Il primo dei significati dell’affermazione “Cristo ci salva” è proprio qui: Cristo ci rivela il vero volto della vita. VIVERE SIGNIFICA USCIRE INSIEME Su questa base i Cristiani daranno al paradiso il nome che massimamente le si addice: Patria. In questa prospettiva i concetti/base della vita sì rovesciano: è vitale tutto ciò che ci spinge fuori, oltre la prigione che ci blocca in ceppi di ferro; è mortale tutto ciò che ci trattiene, che ci lega, che rende inutili le ali delle quali Dio ci ha dotato. Vivere equivale ad uscire: se nel dinamismo tipico non solo della religione biblica, ma di tutte le concezioni trascendenti della vita, era ipotizzabile un'affermazione di questo genere, oggi l'ipotesi è diventata realtà, perché JHWH l'ha fortemente voluta. Se veramente le cose stanno così, se il senso della vita non è immanente103, ma trascendente104, il paradigma che meglio coglie la sostanza della vita dell'uomo alla luce della rivelazione è la vita del feto105. Per il feto è male tutto quanto lo tiene dentro l’abitacolo del seno materno, è bene tutto quanto lo spinge fuori, anche in maniera traumatica, tutto quanto crea le condizioni perché esso esca dal ventre materno; ben venga il trauma, quando esso è il costo da pagare per uscire. Siamo di fronte ad una logica interamente nuova, che sconvolge i nostri criteri di valutazione della vita e della morte; una logica che avrà il suo acme nella morte di Cristo: imposta dal carnefice e al tempo stesso liberamente accettata dal condannato, da allora quel tipo di morte costituisce la più esemplare delle uscite verso la vita. 2.2.3 L’Esodo come alleanza fondante d’Israele Se il proposito è quello di un cammino comune, la prima cosa da fare è quella di allearsi. ALLEANZA, berìth: un concetto centrale in tutta la Bibbia, anche nel messaggio di Gesù. L'alleanza genericamente intesa è un accordo che crea legami stabili, che vanno oltre i legami di sangue e oltre tutti gli altri legami fondati sulla natura; essa suppone un obiettivo comune integralmente condiviso dai contraenti; e un atto pubblico che la suggelli: il matrimonio, ad esempio. Su questa base, la storia ha conosciuto una gamma molto diversificata di alleanze. La niù storicamente importante è l'alleanza fondante, quella che dà origine, all’interno di una certa società, ad un nuovo Stato, oppure, innovandone le radici, ridisegna con modalità nuove il vecchio stao preesistente. Tali possono essere considerate ai giorni nostri la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d'America nel 1776 e tutte le varie Carte costituzionali che fungono da leggi fondamentali di ogni stato moderno: in Italia quella calla quale l’Assemblea Costituente cominciò a lavorare subito dopo il referendum del 2 giugno 1946, che aveva liquidato i Savoia e aveva instaurato la Repubblica Italiana: la sua promulgazione avvenne il 1 gennaio 1948. Una volta approvata la Carta Costituzionale, tutta la successiva attività legislativa deve confrontarsi con essa. In tutte le culture coeve alla cultura del VT gli stati nascono o sotto l'egida di un unico re: il giuramento di fedeltà a lui trasformava in popolo106 quello che fino a quel momento era solo un aggregato tribale in un re quello che fino a quel momento era stato solo un capotribù nomade; 103 Immanente, da in + manēre, è ciò che rimane in: se la ragion d'essere di una certa realtà è immanente, vuoi dire che la giustificazione della sua esistenza va cercata al suo interno, senza bisogno di proiezioni che vadano al di là di essa 104 “trascendente” equivale a “che si colloca oltre (trans)”, “che i proietta al di là”: la radice del verbo scandĕre è la stessa radice di scalino e di scendere 105 cfr C. MOLARI, Storia dell'uomo, storia di Dio, in AA-VV. Condivisione e marginalità - dall'emarginazione una lettera alle Chiese, EGA Torino 1984, passìm 106 Dt 17, 14; I Sam 8,4 34 o in un territorio ben definito come ambito della giurisdizione regale. 2.2.4.1 Un’ alleanza anomala: per le modalità che la realizzano L'Alleanza con JHWH è fondante per gli Ebrei, per la loro stessa identità, ma secondo modalità del tutto originali. Il testo più autorevole in proposito è un testo redatto negli stessi anni e nell'ambito degli stessi circoli religiosi che redassero il testo della creazione, durante l'esilio di Babilonia (586 - 538 a.C.) o subito dopo, e dunque a molti secoli di distanza dai fatti di Mosè e di Ramses II (sec. XIII a.C.); un testo - ancora una volta - d'impianto narrativo che in realtà non racconta, ma propone, riflette, provoca: Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: "Tutti i comandi che ci ha dato il Signore, noi li eseguiremo!” Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: "Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo! " Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo dicendo: "Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”107 Questo testo sarebbe stato sicuramente il primo articolo della sua "costituzione", se mai Israele ne avesse avuta una: qui Israele acquisisce quell’identità che sempre rivendicherà con orgoglio. Ma le modalità con le quali questa identità viene acquisita sono del tutto anomale. Nel processo che porta gli Ebrei a sentirsi popolo, mancano proprio i due elementi che di norma ne sono la struttura portante: il re e il territorio. Si diventa un popolo - dicevamo qui sopra - nella misura in cui ci si insedia in un territorio definito, sotto la guida di un unico re: Israele invece diventa un popolo nel deserto, quando ancora la terra promessa è un obiettivo lontano, e sotto la guida di Mosè, che è un "profeta", uno che parla a nome di (di JHWH), non un re. Israele ripone altrove il fondamento della propria identità; la ripone in un comportamento (il SÍ a JHWH) nutrito di libro acclamato e di sangue versato. IL libro acclamato, la gente ascolta la solenne proclamazione della Torah, s'impegna a farne la sostanza della propria vita, tutta intera, e acclama non un uomo, ma un libro; IL sangue versato, due fasi consecutive: parte del sangue viene versata sull'altare108, per offrirlo a Dio; parte viene aspersa sul popolo, consacrazione di un legame particolarissimo infrangibile fra JHWH e il popolo che ha appena promesso di osservare la Torah. Il sangue versato conferisce sacralità al libro che il Sommo Sacerdote ha proclamato e che tutto il popolo ha acclamato. Questo perché nella Bibbia il sangue equivale tout court alla vita109 ed appartiene solamente a Dio, Signore della vita. Spargere il sangue significa uccidere; perdere il proprio sangue significa morire. E questo sangue che fa di d'Israele, al tempo stesso e allo stesso titolo, una nazione santa e un regno sacerdotale110. 107 Es 24, 3-8 nell'Antico Testamento, l'altare è uno dei luoghi dove la presenza di Dio è più "densa" 109 cfr Gn 9, 3-4; Lv 17, 11.14; Dt 12, 23; consumarlo come cibo o bevanda è sacrilegio. La sua sacralità ne fa il segno più incisivo della consacrazione quello che viene in contatto con il sangue sacro diventa anch'esso sacro, cioè appartenente in modo particolare a Dio solo. 110 Es 19,6 108 35 La visione del mondo che soggiace a queste affermazioni è quella che tutt'ora soggiace all'integralismo e all'integralismo che oggi minacciano la convivenza umana. Per l'Islam ortodosso non meno che per gli Ebrei osservanti dimensione politica (nazione/regnò) e dimensione religiosa (santità/sacerdozio) non solo si illuminano, ma si definiscono reciprocamente. Gli Ebrei si sentivano nazione in quanto sapevano di essere sacerdoti, e si sentivano un regno in quanto l'Alleanza li autorizzava a chiamarsi ed essere davvero santi. 2.2.4.2 Un’ alleanza anomala per quanto si estende nel mondo degli uomini La funzione santificatrice del sangue veniva perpetuata nel tempio, dimora di JHWH, grazie al sangue dei sacrifici offerti senza soluzione di continuità il tempio era santo per eccellenza; e lo era soprattutto nel Santo dei Santi, la piccola cella che, situata nel suo centro fisico, conservava le tavole della legge e nella quale entrava solo il Sommo Sacerdote, e solo una volta all'anno (il giorno di Pasqua), per offrire il sacrificio più solenne di tutto l'anno. La mansione essenziale dei sacerdoti era il servizio del tempio: per questo essi venivano chiamati la servitù di JHWH. Ma anche tutta la vita del popolo, sia religiosa che civile, sia idealmente che praticamente, gravitava intorno al Tempio. Ma abbiamo visto come, ad un certo punto, verso la fine dell'esilio babilonese, nell'atto di stendere i primi libri del Genesi, dal crogiuolo della sofferenza comune sia emersa nella coscienza biblica la convinzione che il vero tempio di JHWH è il tempo. Da quel momento sarà sempre più chiaro che di questo tempio Israele è al servizio. Israele, per lo meno nella coscienza degli anawìm, acquisisce la consapevolezza di essere la servitù di JHWH nel mondo, perché chiamato a operare su scala mondiale, mantenendone lo spirito, quel servizio che con tanta dedizione svolgeva nei confronti del tempio. E nei confronti del tempio Israele sapeva coniugare solo un verbo: servire. Dietro il carattere assoluto dell'Alleanza s'intravede quel concetto di servizio all'uomo che, in chiave universalistica. Gesù porterà alle estreme conseguenze. 2.2.4.3 Un’ alleanza anomala per quanto si estende nel tempo NEI CONFRONTI DEL PASSATO l'alleanza è la chiave giusta per leggerlo nella sua intima verità. Questo concetto di alleanza viene proiettato all'in dietro nel tempo, per cogliere la vera natura di fatti che solo alla sua luce assumono il loro compiuto significato. Il primo dei fatti che l'Alleanza decifra è il diluvio universale. Solo alla luce dell'iniziativa di JHWH che si allea col suo popolo si capisce - come abbiamo visto - la vera portata del diluvio: JHWH ha deciso non solo di affidare a Israele una missione unica al mondo, ma anche (e prima ancora) ha deciso di accettarlo così confesso è. Esige da lui la santità della vita, ma al tempo stesso è disposto ad accettarlo così com'è. NEI CONFRONTI DEL FUTURO D’ISRAELE l'alleanza è la pietra di paragone di tutte le sue scelte, anche in campo politico. In conclusione: Esodo» una proposta a base nazionalista, ma di respiro universale. “Base nazionalista”: non poteva essere diversamente, visto che nazionalismo e razzismo sono presenti in dosi massicce in tutte le antiche religioni indoeuropee; ognuno di quei popoli sa di poter contare su di un Dio tutto "suo", che esalterà il popolo ch'egli si è scelto, a detrimento degli altri popoli, e l'arricchirà con i loro beni e l'allieterà con le loro lacrime. L'Esodo è un fatto che riguarda Israele in maniera precipua, ma non certo esclusiva. L'Esodo è un'esperienza alla quale JHWH sollecita tutti i popoli, a cominciare dai massimi antagonisti di Israele: nella coscienza che ne hanno i profeti, questo ci è stato detto esplicitamente111 Io ho fatto uscire Israele dall'Egitto, così come ha fatto uscire i Filistei da Kaftòr e gli Aramei da Kir, gli altri popoli sono, alla stregua di Israele, oggetto di specifica sollecitudine da parte di 111 Am 9, 7 36 JHWH; quello che distingue Israele è che solo lui ha avuto gli strumenti per prenderne coscienza, e questo ha trasformato un fatto in evento, di portata enorme, addirittura fondante112. Ma anche quando (e succede quasi sempre) il discorso à.e\V elezione si concentra su Israele, il respiro di fondo è sempre universale; l'Esodo infatti costituisce il rilancio della promessa fatta nel Genesi ad Abramo122113: In tè saranno benedette tutte le genti", dietro il piccolo e pugnace popolo d'Israele si delinea quell'altro popolo, quello numeroso come le stelle del cielo e come i granelli che stanno sulla riva del mare114 che nel Genesi è assurto a protagonista della storia, visto che la colpa originaria (il peccato originale) riguarda tutta l'umanità; la Torre di Babele (volevano farsi ciascuno il proprio nome, mentre solo JHWH può dare ad ogni creatura il suo nome) e la conseguente "confusione delle lingue" riguardano tutta l'umanità. In termini moderni “confusione delle lingue” vuoi dire vita relazionale povera, quasi polverizzata da un individualismo agnostico e immanentista115 che investe tutta l'umanità e non può non mettere116 gli uomini in feroce concorrenza fra di loro. Babele, paradigma dell'antisolidarietà. Essa si riproporrà infinite volte lungo tutta la Storia Sacra, ma s'infrangerà sempre contro la Fedeltà senza pentimenti di JHWH. L'alternativa a Babele, ultima, definitiva, sarà la "vita obbediente allo Spirito”, pienamente vivibile solo nella prospettiva della Pentecoste117. Per questo la preghiera biblica per eccellenza, quella dei Salmi, ha sempre un respiro universale. 2.2.5 L’ESODO E I PROFETI La vera portata culturale e religiosa dell’Esodo si fa chiara nei Profeti. Interamente centrata sul primato assoluto dell’alleanza, la loro predicazione, nel progressivo disvelarsi della verità biblica, realizza un balzo in avanti decisivo della coscienza religiosa ebraica. Decisivo 1. nella definizione del volto del “Re” che tutti attendono al posto dei poveracci che hanno ricoperto quella carica, nel Regno del Nord in quello del Sud, in situazioni di estrem difficoltà, assolutamente al di fuori delle loro possibilità di controllarle. I tratti fisionomici del Messia, colui che in greco verrà chiamato Cristo, cioè dell’Unto del Signore che gli Ebrei attendono, vengono “spiritualizzati”: no, non che si fugga nell’astratto, perdendo il contatto con la realtà, come accade negli spiritualismi deteriori della nostra epoca, ma la presa del nuovo Re sulla realtà, la sua attitudine a dominarla e cambiarla in meglio (questo fanno i Re) s’incarna in una prospettiva molto più ampia e soprattutto molto più radicale di quella si cui avevano capeggiato due secoli prima David e Salomone, una prospettiva che attinge le radici della vita umana; 2. nell’esplicitazione della VERA PORTATA DELL’ALLENZA:non un evento acceso e spento dalla storia, ma un’istanza operante nel cuore della vita del popolo e di tutte le sue vicende: religiose, civili, politiche, militari. E con questo la fede diventa anche criterio di discernimento sui fatti della storia. 2.2.5.1 Il contesto storico Dopo due secoli di “reggenza provvisoria” da parte di quella specie di capotribù che la Bibbia chiama “Giudici”, gli Ebrei che, tra mille conflitti coi Cananei delle valli e i Filistei delle pianure, tra la fine del XII sec. e la metà del sec. XI118 erano riusciti ad insediarsi abbastanza saldamente 112 cfr. R. DE ZAN, L'azione di Dio per un popolo nuovo, in Diaconia della carità nella pastorale della Chiesa locale, Gregoriana 1988, 89 - 98 113 E. H. MALY, o.c. 255 114 Gn 22, 17.18 115 Le concezioni globali dell'esistenza possono raggrupparsi in due grandi categorie: tutte le diverse concezioni globali dell'esistenza possono raggrupparsi in due grandi categorie: le concezioni immanentiste, secondo le quali il senso della vita è immanente, manet - in (rimane dentro), va ricercato cioè all'interno di quei pochi o molti anni che trascorriamo su questa terra; e le concezioni trascendenti, secondo le quali il senso della vita è trascendente, va al di là, scandii trans (sale oltre), si colloca fuori e oltre la vita stessa. 116 Gn 11, 1-9 117 At. 2, 1-11 118 cfr. L. MAZZINGHI, Tavole cronologiche, in La Bibbia… o.c. 3178 37 nella terra di Canaan e ormai, negli ultimi anni del II millennio a. C., erano effettivamente diventanti un popolo, a tutti gli effetti, anche se secondo le modalità anomale, ma ricchissime di significato, alle quali abbiamo accennato. Le frontiere erano abbastanza sicure, non esistevano più conflitti interni, il territorio era sotto controllo, rispondente ai bisogni la legislazione di tipo casistico (come vedremo più avanti): per tutto questo l’ultimo e il più famoso dei Giudici, Samuele, aveva ritenuto119 che fosse venuto il momento di accettare la volontà del popolo che voleva Saul come re; poi, giudicandolo reo di disubbidienza a JHWH per non aver (fra l’altro) portato fino in fondo la strage degli Amaleciti, l’aveva sostituito120 con un ragazzetto fulvo e sveglio, il più piccolo dei figli di Iesse, un certo David, che fu re dal 1010 al 970 a. C.; sul trono di David era poi salito Salomone (970 – 931), il figlio suo e della sua ex amante adultera, Betsabea, . Ma alla morte di Salomone dieci tribù, con alla guida Geroboamo (931-910 a.C.), si ribellarono al figlio di Salomone, Roboamo (931-914), e dettero origine al Regno del Nord, o Regno d'Israele, o Efraim121, con capitale prima Sichem e poi Samaria. Solo due tribù rimasero fedeli al re legittimo, e formarono il Regno del sud, o Regno di Giuda, con capitale Gerusalemme; solo due, ma una delle due era la tribù di Giuda, di gran lunga la più consistente e organizzata (l’altra era un suo piccolo satellite, la tribù di Beniamino). Frammentati e litigiosi, i figli di Abramo si trovano in una condizione storica di estrema debolezza quando si scatena la lotta fra i colossi della Mesopotamia, quando il Medio Oriente è percorso senza interruzione dagli eserciti degli Assiri, dei Babilonesi, dei Persiani, la cui politica imperialista ha il suo costante polo d’attrazione nell’Egitto; la ribalta cambia rapidamente, e la Palestina è sempre al centro. Di volta in volta tocca allearsi con un padrone diverso, l'alternativa è quella di rimanere stritolati dai loro giuochi di potere. Su questo sfondo levano la loro voce i Profeti dei sec. VIII- VII, su tutti Osea, Isaia, Geremia. 2.2.5.2 Il problema storico/teologico La grande e durissima gara per il dominio delle terre che si dispongono dalla Mesopotamia all’Egitto pone dunque agli Ebrei, come a tutti gli altri popoli che insistono su quell’asse, il problema di allearsi per sopravvivere: è troppo importante il controllo delle vie commerciali che collegano la Mezzaluna Fertile alla terra dei Faraoni. Ci provano per primi, alla metà del sec. IX a.C., gli Assiri di Assurbanipal II (+859) e Salamanassar (+824); nel sec. VIII essi si scatenano con Tiglat Pileser III e Sargon II e, mentre l'Egitto è da tempo in crisi profonda122, conquistano Biblos, Tiro, Sidone, l’intera Palestina; poi, nel sec. VII, all’apogeo(il penultimo della teoria degli assassinati) (il penultimo della teoria degli assassinati) della loro potenza, con Assurbanipal III (+ 619 a.C.) conquistano l’Egitto. Rapidissima la decadenza: tra il 625 e il 610 a. C., con l’aiuto dei Medi, i Babilonesi di Nabopolassar conquistano Assur, Ninive e Haran, la capitale, e subentrano all'Assiria come prima potenza nella regione. Gli Egiziani, dopo averli da sempre contrastati, si sono da poco alleati con gli Assiri, e i Babilonesi li travolgono a Karkemish123 (605 a.C.). Splende l'astro di Nabuccodonosor II (604 – 562). Assediata nel 598, Gerusalemme viene conquistata nel 597 da Nabucodonosor, che organizza una prima deportazione in Babilonia e nomina Sedecia re d‘Israele; ma nel 587 Sedecia si 119 cfr. 1 Sam, capp. 8-12 ibid. 16 121 Sono i grandi profeti del sec. VIII-VII che prediligono il nome Efraim; di per sé la tribù che riconosceva come suo capostipite Efraim, il secondo dei dodici figli di Giacobbe detto anche Israele, era numericamente poco consistente, ma in questo secolo VIII aveva acquistato grande prestigio per il fatto che Geroboamo era un Efraimita e che nel territorio della tribù si ergeva la capitale del regno. 122 Nel 663 a.C. gli Assiri sotto la guida di Assurbanipal arriveranno a conquistare e a saccheggiare Tebe ; è il contesto nel quale profetizza Naum, uno dei 12 profeti minori. 123 Geremia fa riferimento a questa famosa battaglia in 46,2 120 38 ribella, e Nabuccodonosor lo batte e lo giustizia di propria mano in piazza. 586: gran parte dei capifamiglia vengono deportati a Babilonia., . Ma l’'impero babilonese crolla a sua volta nel 539 a.C., quando la città di Babilonia si arrende a Ciro II, re di Persia124. Nel 538 un apposito editto di Ciro permette agli Ebrei di tornare in Palestina, lo stesso anno il primo contingente di deportati torna a Gerusalemme sotto la guida di Zorobabele. Inizialmente esaltati come liberatori inviati da JHWH, i Persiani non tarderanno a far sentire anche loro il morso della ragione di stato: la Palestina diventa una provincia dell’impero persiano. . Il dato costante di questa lunga vicenda è l'assoluta necessità degli Ebrei di integrarsi tramite le alleanze giuste nei giochi di politica internazionale impostati dalle grandi potenze. S'impongono cosi scelte drammatiche, da assumere mentre eserciti nemici, spesso spietati125, sono alle porte126, e impongono o sottomettersi e diventarne vassalli o resistere coalizzandosi con i loro avversari127. Una storia che mette a dura prova la loro fede, nel suo nocciolo duro: la fede assoluta nell'Alleanza. Se - come abbiamo accennato - le contingenze storiche legano la sopravvivenza degli Ebrei (come di tutti i piccoli popoli) alla stipula di alleanze con i potenti di turno, che fine fa l'alleanza dell'Esodo con JHWH? Va riposta in soffitta? Il messaggio dei profeti è fermo: o l’Alleanza, quella con la maiuscola e con l’articolo determinativo, deve comunque rimanere a fondamento di tutte le scelte contingenti, e ridimensionarle tutte; o non è saggio fidarsi troppo delle potenze umane perché non durano a lungo. Parola d'ordine: bere l'acqua del proprio pozzo. Questa posizione si articola con diverse diversamente nei diversi testi profetici che J.L. Ska ha disposto come in un florilegio. 2.2.5.3 OSEA Osea128 profetizza tra il 750 e il 722 a. C., nel Nord, nel periodo più tragico della breve storia del Regno d'Israele. È morto da poco Geroboamo (782-753); sotto di lui gli Israeliti hanno vissuto un periodo di notevole prosperità; la loro indipendenza non ha mai corso seri rischi, anche grazie ad una lunga eclisse della potenza assira dallo scenario internazionale. Ma adesso, alla metà dell’VIII sec. a.C., aleggia nell’aria una diffusa sensazione di sfacelo imminente: il risveglio degli Assiri ha posto di nuovo, e con urgenza, il problema delle alleanze. Il problema si pone in un contesto estremamente drammatico, visto che tra il 746 e il 722, ben quattro dei sei inconcludenti re che si succedono in rapida sequenza sul trono del Regno del Nord muoiono assassinati per ragioni politiche. All’insegna di un "fremito di ribellione" contro la potenza egemone degli Assiri, il re Pekach (il penultimo della teoria degli assassinati, +732), mal consigliato da suo padre Romelia, insieme con il re di Siria Rezin dà vita ad una coalizione anti/Assiria alla quale aderiscono diversi piccoli potentati locali; è la guerra siro/efraimita, un’iniziativa stolta, che offre agli Assiri di Salmanassar V un ottimo motivo per muovere contro Israele e occuparlo, mentre anche Damasco, la capitale della Siria, viene conquistata (732). . 124 La Persia dominerà la Palestina fino all'arrivo di Alessandro Magno, nel 333 a.C. Gli Assiri in particolare erano noti per la loro crudeltà 126 Alcuni oracoli,di Isaia e di Geremia fanno riferimento esplicito ad una situazione del genere 127 Quando gli invasori erano gli Assiri, l'alternativa ad esempio era l'alleanza con il regno di Damasco e con l'Egitto 125 128 cfr. S. VIRGULIN, Osea, in LA BIBBIA….o.c., 1995, 2095 - 2125 39 Quando Osea leva la sua voce gli Assiri sono alle porte. Sul trono c'è quello che sarà poi l'ultimo monarca del Regno del Nord. Si chiama anche lui Osea, e ha avuto la bella idea di rifiutare il pagamento del tributo promesso agli Assiri e di allearsi con l'Egitto, nella cieca speranza di riconquistare la propria indipendenza. Nel 721 Sargon II distruggerà Samaria, sterminerà i suoi abitanti, deporterà a Ninive i pochiu superstiti. 2.2.5.3.1 Osea, la denuncia: una fiducia mal riposta 5,13 s Efraim ha visto la sua infermità e Giuda la sua piaga, Efraim è ricorso alla Siria e Giuda al Gran re; ma egli non potrà curarvi, non guarirà la vostra piaga, perché io sarò come un Ieone per Efraim, come un leoncello per la casa di Giuda: farò strage e me ne andrò, porterò via la preda e nessuno me la toglierà. Osea denuncia la follia di Efraim e di Giuda, cioè sia del Regno del nord che del Regno del sud: due... opposte insipienze; hanno pensato di risolvere tutti loro problemi appoggiandosi gli uni al Regno di Damasco, gli altri agli Assiri, riponendo in essi quella fiducia che andava invece riservata solo a JHWH, l'unico che può davvero curare le piaghe mortali, l'unico che, come il leone nella foresta, ha il potere di dominare incontrastato e di portarsi via indisturbato la preda. 7,11-13 Efraim è come un'ingenua colomba, priva d'intelligenza: ora chiamano l'Egitto, ora invece l’Assiria. Dovunque si rivolgeranno stenderò la mie rete contro di loro e li abbatterò come gli uccelli dell'aria, li punirò nelle loro assemblee. Guai a loro, perché ormai sono lontani da me! Distruzione per loro, perché hanno agito male contro di me! Li volevo salvare, ma essi hanno proferito menzogne contro di me. Il re omonimo del profeta, Osea, dopo aver intavolato trattative con Salmanassar, ci ha provato anche con l'Egitto129. E la critica del profeta s'appunta su questa risibile furbizia: titolari di regni minuscoli che, confrontandosi con potenze politicamente ben superiori, si illudono di poter giocare su due tavoli. Stupidi come colombe. Il riferimento è alle tante reti che gli uccellieri solevano tendere in cielo: tra gli uccelli, quella che più facilmente si lasciava irretire era proprio la colomba, soprattutto quando era in cerca di cibo. 8,8-19 Israele è stato inghiottito, si trova ora sperduto in mezzo alle nazioni, come un vaso spregevole. Essi sono saliti fino ad Assur, asino selvaggio che si aggira solitario; Efraim si è comprato dei ganzi. Altri ganzi se li acquistino anche le nazioni: io ne farò un fascio, e tra poco cesseranno di eleggere re a governanti.. Il riferimento storico è qui ad un momento successivo a quelli sottintesi dai passi finora esaminati: dopo il 732 (fine della guerra siroefraimitica, conquista di Damasco da parte degli Assiri), le regioni della Galilea e del Galaad erano diventate province assire130; Israele, povero vaso d'argilla d'infima fattura! La testardaggine insulsa caratterizza gli Assiri (splendida e sferzante l'immagine dell'asino che si aggira solitario) e caratterizza gli Ebrei che si rivolgono a loro. Ormai tutta la politica internazionale è diventata un puttanaio. 12, 2 Efraim di vento si pasce e il vento d'oriente va inseguendo: quotidianamente moltiplica bugie e violenze, si allea con l'Assiria e subito dopo porta olio all’Egitto. Il "vento d'oriente" è quello che in Palestina fa più danni, perché dissecca tutto, e Osea più volte l'ha usato131 come immagine della prepotenza assira. Di esso il Regno del Nord s'è addirittura nutrito, riponendovi chissà quali speranze, e subito dopo si è rivolto agli Egiziani, deboli antagonisti degli Assiri. "Portare olio" vuoi dire fare atto di vassallaggio. 129 130 131 2 Re 17,.4 cfr. S. VIRGULIN..., o.c-, 2112 in 5,13; 8,9; 13, 15 40 “Nutrirsi di vento”, "inseguire il vento": la forza delle immagini è di quelle che stroncano. 14, 3- 4 Preparate le parole da dire e tornate a JHWH. Ditegli: "Togli ogni iniquità e accetta ciò che è bene, ti offriremo il frutto delle nostre labbra. Assur non ci salverà, non cavalcheremo più su cavalli, ne chiameremo più Dio nostro l'opera delle nostre mani, poiché presso di te l’orfano trova misericordia” È la formula della liturgia penitenziale che si celebrava nel tempio. Osea parla quando ormai la devastazione è alle porte. La città di Samaria cadrà nel 722/721 a.C. dopo un assedio di tre anni132, e Osea scomparirà anche lui. Il bilancio è tragico e sofferto: abbiamo condotto una politica non solo sbagliata, ma idolatrica, perché abbiamo avuto una fiducia smodata in questa o quella alleanza, e in questo ci siamo fatti anche noi degli idoli. La conclusione somma: chi è in stato di debolezza, in ultima analisi solo in Dio può sperare. IN CONCLUSIONE: Osea non nega la necessità di stringere alleanze con questa o quella parte politica, ma vuole ridimensionarne in ogni caso la portata: anche quando si trattasse di scelte impeccabilmente logiche, il popolo d'Israele non dovrebbe mai e poi mai attribuire ad esse una portata salvifica. Chi garantisce il cammino storico di Israele e il servizio che Israele deve rendere a tutte le nazioni è solo la fedeltà di JHWH a se stesso e ai propri disegni. 2.2.5.3.2 Osea, la proposta 11, 1-11 Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli a' amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Ritornerà al paese d'Egitto, Assur sarà il suo rè, perché non hanno voluto convertirsi. La spada farà strage nelle loro città, sterminerà i loro figli, demolirà le loro fortezze. Il mio popolo è duro a convenirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo. Ma come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Zeboìm133? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a tè e non verrò nella mia ira. Seguiranno il Signore ed egli ruggirà come un leone: quando ruggirà accorreranno i suoi figli dall'occidente, accorreranno come uccelli dall'Egitto, come colombe dall'Assiria. E li farò abitare nelle loro case. Oracolo del Signore. L’alternativa della tenerezza (tra le più belle cose della vita c'è la guancia di un bambino che sfiora la tua), mentre la violenza dilaga; una trama di relazioni positive, intessute di legami di bontà, di vincoli di amore, mentre la spada versa fiumi di sangue. Un Dio che partecipa in maniera passionale alla vicenda umana, ma è pur sempre Dio, e non un uomo: Un Dio che ruggisce come un leone eppure non sa serbare rancore. Se si dimentica questo quadro di fondo, se si pensa di surrogarlo con altre amicizie/alleanze, magari necessarie, ma lontanissime da questa portata, la rovina è inevitabile. La salvezza viene solo da JHWH. La "storia" che Israele non può mai dimenticare se vuole fare altra storia o anche solo sopravvivere, è la storia della sua elezione a popolo di riservato dominio di JHWH. 132 2 Re 17,5-6; 18,9-12 II libro della Genesi per "raccontare" la creazione attinge a due fonti, una cosiddetta jahwista (perché in essa Dio viene chiamato JHWH), una cosiddetta elohistica (pe Dio viene chiamato elohìm, signore); quelle che al fonte jahwista chiama Sodomia e Gomorra (le due città distrutte da Dio col fuoco dal ciclo, al tempo di Abramo, a causa della loro perversione) la fonte elohista le chiama Adma e Zeboìm 133 41 2.2.5.4 ISAIA Isaia vive e profetizza a Gerusalemme, capitale del Regno del Sud, appena un po' dopo Osea, in circostanze quasi altrettanto drammatiche. Pur essendo quasi contemporanei, le vite dei due profeti non hanno punti di contatto. Lo sfondo è ancora quello della Guerra siro/efraimitica. Pecach e Rezin hanno tentato di convincere Acaz, re a Gerusalemme (+716 circa), a far entrare nella coalizione anche il Regno del Sud; ma Acaz ha rifiutato, probabilmente perché giudicava l'avventura troppo rischiosa. Allora gli eserciti di Samaria e di Damasco hanno assediato Gerusalemme, senza riuscire ad espugnarla134; e Acaz si è comprato la benevolenza di Tiglat Pileser III (+727), facendosi dell’Assiria e impegnandosi a pagare un pesantissimo tributo. Tiglat Pileser distrugge gli eserciti siroefraimiti, rade al suolo Damasco e Samaria, annette all'Assiria sia la Siria che gran parte del regno del Nord135. Acaz si è salvato per adesso dalla distruzione, sacrificando il Regno del Nord. Ma anche il suo Regno del Sud ha praticamente perso la sua indipendenza, talmente oneroso è stato il tributo che s'è impegnato a pagare136. Ezechia (+687), figlio e successore di Acaz, approfitta di un temporaneo indebolimento dell'Assiria per provare a riconquistare l’indipendenza del Regno del Sud. Come? Alleandosi con l'Egitto e Babilonia, non c'era altra strada: o con me o contro di me. Ma l'Assiria rifiorisce con Sennacherib (+681), che placa la Mesopotamia e, movendo verso ovest per sottomettere i ribelli, arriva sotto le mura di Gerusalemme. Siamo nel 701: Ezechia s'è arreso, l'Assiria ha imposto a Gerusalemme un ulteriore aggravamento del precedente tributo, già spropositato137. In questo contesto leva la sua voce il profeta. Isaia o sul piano generale riconduce i disastri alla loro vera origine: l'infedeltà del popolo e l'orgoglio dei suoi capi, che per motivi diversi disattendono le indicazioni che vengono da JHWH; o in relazione alla situazione interna è l'ingiustizia sociale la realtà del tutto inconciliabile con l'Alleanza: è la stessa, identica denuncia che aveva fatto Osea nel Regno del Nord; o in relazione alla situazione internazionale la denuncia di Isaia si fa radicale. 2.2.5.4.1 Isaia: il parametro di giudizio delle scelte storiche Secondo Isaia la politica estera del Regno del Sud equivale al totale rinnegamento di quella concezione della storia alla quale l'Alleanza vincola il popolo eletto. Questo è lo snodo essenziale di tutto il suo discorso. La storia non è un cumulo di eventi insensati, casuali, meccanici. La storia non è nemmeno il frutto del vario intrecciarsi delle forze politiche, economiche e militari che confliggono nella vicenda dei popoli: questo è solo il suo fondale immediato; vero, nessuno lo nega, ma immediato. Il fondale ultimo è un altro. Sul fondale ultimo e definitivo della storia opera JHWH, che dirige il corso della storia, della storia di tutti i popoli, attuando in essa la sua promessa di salvezza. Attraverso le vicende che gli uomini attuano e registrano, ma anche trascendendole del tutto, JHWH "dischiude agli uomini le vie della giustizia e della solidarietà"138. 2.2.5.4.2 Isaia, le denunce CONTRO LA NOSTALGIA DELL'EUFRATE. 134 2 Re 16,5; Isaia 7,1 2 Re 16,6-9; 15,29 136 Is 7,4.16-17; 8,4-8 137 2 Re 18,13-16 135 138 cfr. G. ODASSO, Isaia, in La Bibbia Piemme, 1995,1677 s 42 8, 6 - 8 Poiché questo popolo ha rigettato le acque di Siloe, che scorrono piano, e trema per Rezin e per il figlio di Romelia, per questo, ecco, il Signore gonfierà contro di loro le acque del fiume, impetuose e abbondanti: cioè il re assiro con tutto il suo splendore, irromperà in tutti i suoi canali e strariperà da tutte le sue sponde. Penetrerà in Giuda, lo monderà e lo attraverserà fino a giungere al collo. Ma le tue ali distese copriranno tutta l'estensione del suo paese, o Emmanuele. .… Agli inizi del suo ministero, Isaia tenta di dissuadere il regno di Giuda e il suo re Pecach (il figlio di Romelia) dall'allearsi con Rezin, re di Damasco contro l'Assilla: L'Assiria non è affatto in crisi, presto punirà la vostra protervia e la vostra incapacità di cogliere le autentiche risorse della nostra tradizione. Le parole dissuasive del profeta sono, al solito, intensamente poetiche; Gerusalemme ha una sola, modesta sorgente che le fornisce acqua, il Ghicon che alimenta la piscina di Siloe; acque tranquille, senza pretese, nemmeno lontanamente paragonabili a quelle maestose del Tigri e dell'Eufrate: eppure tutti ne hanno bevuto a sazietà; ma da qualche tempo il popolo, stravolto dalla falsa prospettiva di potersi inserire nei grandi giochi della politica internazionale, ha sentito crescere la propria sete e ha pensato che per placarla non fossero sufficienti le sorgenti di sempre: pensano al fiume per eccellenza, l'Eufrate. Certo che ne berrete, perbacco!, esso anzi tramite la rete dei suoi canali arriverà fino a casa vostra e fino al vostro collo...: ne morirete annegati. Eppure l'ultima parola sarà quella dell'Emmanuele che, in un futuro che appartiene solo a JHWH, oscurerà con le sue ali anche l'invincibile potenza assira139. CONTRO LE RIBELLIONE DEI FIGLI DEGENERI E IDOLATRI. 30, 1-5 Guai a voi, figli ribelli - oracolo del Signore — che fate progetti da me non suggeriti, vi legate con alleanze che io non ho ispirato così da aggiungere peccato a peccato. Siete partiti per scendere in Egitto senza consultarmi, per mettervi sotto la protezione del faraone, per ripararvi dall’ombra dell’Egitto. La protezione del faraone sarà la vostra vergogna e il riparo all’ombra dell’Egitto la vostra confusione. Quando i suoi capi saranno giunti a Tanis140 e i messaggeri avranno raggiunto Canes, tutti saranno delusi di un popolo che non gioverà loro, che non porterà loro ne aiuto ne vantaggio, ma solo confusione e ignominia Isaia scrive queste cose intorno al 720 a. C. Nel 722 è morto Salmanassar V, che aveva rapidamente conquistato il Regno del Nord e ne stava assediando la capitale, Samaria. Nel 721 il successore di Salamanassar V, Sargon II, porta a termine l'operazione; Samaria è stata rasa al suolo, il Regno del Nord è stato cancellato per sempre. Poi però Sargon II è dovuto precipitosamente tornare in Assiria, a causa di una grave crisi interna141. E subito hanno rialzato la testa Egitto e Siria, e stanno tentando di coinvolgere il Regno del Sud nell'ennesima alleanza contro Ninive e Assur. Isaia non esprime un giudizio politico sulla validità o meno di questa alleanza. Secondo Isaia la vera colpa sta nel progettare e stipulare alleanze senza prima essersi chiesti quale sia la volontà di JHWH in proposito. Per questo egli usa termini attinti al tradizionale linguaggio antidolatrico. Delitto grave quanto la ribellione dei figli al padre che ben presto la legislazione ebraica del Deuteronomio142 punirà con la morte143. 139 Siamo di fronte ad una reinterpretazione apocalittica della figura dell'Emmanuele che, impersonando la fede che confessa la presenza salvifica di JHWH, orienta la comunità a guardare verso il futuro ultimo, quando tutte le potenze saranno ridotte a nulla: cfr. G. ODASSO, o. e., 1696 140 Tanis e Canes sono due località non meglio identificate, ma evidentemente molto vicine a Gerusalemme 141 cfr. D.J. WISEMAN, Sargon, in AA. VV. Grande enciclopedia illustrata della Bibbia, III, PIEMME 1997, 285 134 Evidentemente, pur collocandosi al quarto posto tra i cinque libri del Pentateuco (dopo Genesi, Esodo e Numeri, prima del Levitico), il Deuteronomio non è tra i più antichi della Bibbia: effettivamente fu messo insieme dopo l'esilio; cfr. V. GATTI. Deuteronomio, in La Bibbia ...,. o.c., 396 143 cfr. G. ODASSO, o.c., 1732 43 CONTRO LA MIOPIA DI CHI VEDE SOLO L'EFFICIENZA POLITICO/MILITARE 31, 1-3 Guai a quanti scendono in Egitto per cercar aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo di Israele e senza cercare il Signore. Eppure anch'egli è capace di mandare sciagure e non rinnega le sue parole. Egli si alzerà contro la razza dei malvagi e contro l'aiuto dei malfattori. L'Egiziano è un uomo e non un dio, e i suoi cavalli sono carne e non spirito. Il Signore stenderà la sua mano: inciamperà chi porta aiuto e cadrà chi è aiutato, tutti insieme periranno. Siamo verso il 701, e dunque alla fine dell'attività di Isaia. La sua denuncia non solo non arretra di un passo, ma si radicalizza: chi s'è alleato con l'Egitto (dando a vedere di considerare gli Egiziani come vere e proprie divinità) ha sbagliato perché ha badato solo all'efficienza politico/militare , ha contato i cavalli egiziani e s'è entusiasmato per loro (come se i cavalli egiziani fossero spirito e non carne), ha gongolato come un idiota pensando a quanto sono robusti i carri egiziani, ha glissato del tutto sul fatto che esiste, non solo sul popolo eletto ma su tutto il mondo, un piano di JHWH con il quale necessariamente le scelte politiche contingenti di volta in volta debbono misurarsi. 2.2.5.4.3 Isaia, la proposta. LA STABILITÀ DI FONDO VIENE SOLO DA JHWH 7, 1- 9 Nei giorni di Acaz figlio di Iotam, figlio di Ozia, re di Giuda, Rezin re di Aram e Pekach figlio di Romelia, re d’Israele, marciarono contro Gerusalemme per muoverle guerra, ma non riuscirono ad espugnarla. Fu dunque annunziato alla casa di Davide: "Gli Ararne! si sono accampati in Efraim”. Allora il suo cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano i rami del bosco per il vento. Il Signore disse a Isaia: " Va’ incontro ad Acaz, tu e tuo figlio Seariasub, fino al termine del canale della piscina superiore sulla strada del campo del lavandaio. Tu gli dirai: Fa’ attenzione e sta’ tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta per quei due avanzi di tizzoni fumosi, per la collera di Rezin degli Aramei e del figlio di Romelia. Poiché gli Aramei, Efraim e il figlio di Romelia hanno tramato il male contro di te, dicendo: Saliamo contro Giuda, devastiamolo e occupiamolo e vi metteremo come re il figlio di Tabeel144. Così dice il Signore Dio: Ciò non avverrà e non sarà! Perché capitale di Aram è Damasco e capo di Damasco è Rezin. Capitale di Efraim è Samaria e capo di Samaria il figlio di Romelia. Ancora sessantacinque anni ed Efraim cesserà di essere un popolo. Ma se non credete, non avrete stabilità. Siamo verso il 734 a. C., inizi del ministero di Isaia, quando ancora i due regni sono integri. Appena ieri, dando inizio alla guerra siro/efraimitica, l'esercito degli Aramei della Siria si è congiunto con quello degli Israeliti del Regno del Nord e insieme, alla guida dei due tizzoni fumosi Rezin e Pekach, marciano contro il Regno del Sud, per costringerlo a coalizzarsi con loro contro l'Assiria. Terrorizzato, il Re del Sud, Acaz, si è rivolto all'Assiria. Contro questo tentativo di alleanza con l'Assiria, non meno che contro l'alleanza con l'Egitto stipulata dai due sullodati tizzoni fumosi, si batte Isaia, perché convinto che quella richiesta di aiuto si concluderà con un ulteriore asservimento di Gerusalemme ad Assur145. Ma al di là del suo giudizio politico contingente, al di là del conclamato convincimento che la guerra siro/efraimitica si risolverà in un fiasco, Isaia dimostra di aver chiari fin dall'inizio quei criteri di fondo dei quali Giuda non può fare a meno: Rezin (perché non appartiene al popolo eletto) e Pekach (il cui regno si è messo fuori dal popolo eletto con la secessione del Nord dal Sud, da Gerusalemme, dalla "casa di David") sono re umani, mentre il vero re di Gerusalemme è JHWH, e dunque le scelte del Regno del Sud debbono sempre confrontarsi con il piano che JHWH ha sulla vicenda umana e in particolare su Giuda. 144 Nominato solo qui; doveva trattarsi di un fanatico fautore dell'alleanza con i Siriani e il Regno del Nord. 145 cfr G. ODASSO, o..c., 1694 44 Emerge la tesi di fondo: l'unica, forte, sicura stabilità è quella che viene dalla fede, che garantisce la indefettibilità del disegno di salvezza che JHWH va costruendo a vantaggio del popolo che si è scelto e, tramite esso, a beneficio di tutta la grande famiglia umana: non è nemmeno pensabile che esso venga meno solo perché un determinata vicenda storica sembra suggerirlo. LE VIRTÙ CHE OCCORRONO PER AFFRONTARE LA STORIA 30, 15 - 16 Poiché dice il Signore Dio, il Santo di Israele: "Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell'abbandono confidente sta la vostra forza”. Ma voi non avete voluto, anzi avete detto: "No, noi fuggiremo sui cavalli”. Ebbene, fuggite! Avete detto: "Cavalcheremo su destrieri veloci ". Ebbene più veloci saranno i vostri inseguitori. Il primo di tutti i doveri politici è quello di "ritornare al Signore, rimanere serenamente fedeli alla sua parola in mezzo alle prove, sviluppando a livello esistenziale un abbandono confidente nella potenza salvifica del Signore146: senza questo atteggiamento di fondo non esistono cavalli abbastanza numerosi e veloci da metterci al riparo dal disastro. Questo atteggiamento di fondo non è frutto di una pia intuizione o di una folgorazione dal cielo: : è la logica conseguenza di quel concetto di storia che soggiace a tutti i discorsi di Isaia. 2.2.5.5 GEREMIA Geremia vive un secolo dopo Isaia e profetizza a Gerusalemme tra il 625 e il 586 a.C., anno della deportazione in Babilonia. Nella sua produzione la denuncia di Osea e di Isaia diventa come un lungo, quasi stereotipo grido di dolore, che cristallizza la sua voce in modalità angosciami, più che giustificate sullo sfondo degli eventi più drammatici147 della storia ebraica: la conquista di Gerusalemme da parte di un esercito babilonese, l'incendio e il saccheggio della città, la distruzione del tempio, la fine della monarchia davidica e la deportazione di una parte consistente della popolazione (molti capifamiglia) in Babilonia. È la desolazione assoluta: come si fa a fidarci ancora di JHWH quando non c'è più un tempio, ne un re, e nemmeno un territorio? Geremia scompare nel 586, forse ha pagato anche lui con la vita. Ma dall'oceano di dolore che egli ha espresso con la forza grandiosa della desolazione assoluta nascerà presto quella splendida riflessione sul dove di JHWH che darà origine ai primi capitoli del Genesi. All'origine della catastrofe l'ennesima alleanza sbagliata, quella che l'ultimo re di Gerusalemme, Sedecia, ha stipulato con l'Egitto148, ribellandosi contro Babilonia della quale era da tempo vassallo. 2,12-13.18 Stupite, dell’inorridite come non mai. Oracolo del Signore. Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato misere cisterne screpolate, che non tengono acqua. 17,13 O Signore, speranza dì Israele, quanti ti abbandonano resteranno confusi, quanti si allontanano da tè saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte dell’acqua viva, il Signore. 17,5,8 Maledetto l'uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore. L'uomo che confida nel Signore è come un albero piantato lungo un corso d'acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono sempre verdi; nell'anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti. 146 cfr. G. ODASSO, o..c., 1733 2 Re25;Ger 39;52 148 Ger 37, 5 147 45 LA SOSTANZA DEL MESSAGGIO PROFETICO Geremia, Isaia, Osea: idealisti fuori tempo, sognatori impenitenti, uccelli di malaugurio? Oppure semplicemente tradizionalisti cocciuti e ottusi? Gente alienata dietro una fede che non permette loro di imparare nemmeno l'ABC del vivere nella storia, quel vivere che consiste nella capacità di adattarsi il più rapidamente possibile alle situazioni emergenti, che spesso sono totalmente nuove, del tutto imprevedibili, sempre cangianti. Tutt'altro. Geremia, Isaia, Osea sono portatori di una visione teologica che, lungi dal subire passivamente la storia, ne contesta come angusta e superficiale la visione che ne danno gli uomini. Essi sostengono che IL SOLO VERO SOCCORSO VIENE DA JHWH E NON DALLE POTENZE UMANE. Il "soccorso che viene da JHWH" e il "soccorso che viene dal potente di turno" non sono sullo stesso piano; pronunciata nei due contesti, la parola "soccorso" indica realtà totalmente diverse. L'autentico spirito religioso non necessariamente nega la possibilità e magari l'opportunità di stipulare un'alleanza con questa o quella potenza politica, ma chiede a gran voce che questa alleanza non surroghi mai e poi mai l'Alleanza con JHWH; al contrario, sarà il raffronto con l'alleanza di JHWH la sua vera pietra di paragone. Il problema è quello di ridimensionare, ricollocandole incessantemente nella giusta prospettiva e calibrandone la portata, le contingenti alleanze con il potere politico provvisoriamente emergente. Senza questa incessante ri/collocazione, senza questa continua ri/calibratura della prospettiva di fondo di tutte le scelte, ogni politica si riduce a opportunismo dal respiro corto. Poiché esiste un proscenio della storia ed esiste il suo fondale. Sono ambedue veri, ma di una verità ben diversa. E se le contingenze storiche lo obbligano a fare scelte di proscenio, la missione specifica che JHWH ha affidato al profeta è quella di mantenere operante il fondale della storia. E la storia149 non viene più vista come il semplice susseguirsi di vicende che capitano a casaccio, né come lotta tra le diverse potenze che aspirano a monopolizzare il potere; dietro il concatenarsi degli eventi emerge chiaramente la logica che li governa, la volontà di JHWH che tiene saldamente in mano le fila della storia. Per questo nella presentazione dei vari re assume importanza decisiva il suo rapporto con JHWH, quella che oggi è una notazione marginale nella presentazione che i giornali fanno dei candidati alla Casa Bianca. Il primato di JHWH applicato alla decifrazione dei fatti della storia comporta risposte a volte totalmente diverse da quelle che dànno gli uomini. La sconfitta che ha portato gli Ebrei alla deportazione di Babilonia viene interpretata come il risultato di scelte politiche errate e di eventi di taglio internazionale e di dimensioni troppo grandi per Israele: questa è una parte della verità, non tutta la verità; la verità globale è quella delle conseguenze di un’alleanza disattesa e calpestata. Assiri e Babilonesi, Medi e Persiani sono i popoli via via emergenti, ma sono anche e soprattutto gli strumenti in mano a JHWH Applicate tutto questo ai nostri tempi, alla Chiesa che, contrariamente ad Israele che era un popolo in senso inscindibilmente religioso e politico, è un popolo solo in senso religioso, mentre in senso politico è una comunità di popoli. Certo che i Cattolici possono militare a destra o a sinistra, cooperare con gli atei, gli agnostici, i laicisti impenitenti, i guerrafondai…: ma in un mondo come il nostro, dominato dal potere fine a se stesso, e dal denaro col quale si compera tutto, e dal non/senso quanto contano le istanze di fondo delle quali Cristo ha fatto loro carico? 2.3 L’INCARNAZIONE COME SCELTA DI SOLIDARIETÀ 149 cfr W. ZWICKEL, Profezia, in Enciclopedia illustrata della Bibbia, Piemme 1997, 3. 157 46 La chènosis divina si fa drammatica; con la venuta del Verbo eterno di Dio in mezzo a noi, a sprofondare nella storia umana non è più l'azione di Dio, ma Dio stesso, una delle Persone divine. Totale coinvolgimento personale. Και ο λογοσ σαρζ, εγενεστο; et Verbum caro factum est; e il Verbo si fece carne: in questi termini, verso la fine del I sec. d.C., la comunità cristiana per bocca di Giovanni apostolo, autorevolissimo autore del quarto Vangelo, esprimeva lo specifico della sua fede, quello specifico che ormai impediva a tutti di confondere i Cristiani con una scheggia impazzita dell'Ebraismo. Incarnazione: l’eresia docetìsta150, già presente alla fine del I sec. vedeva in Gesù di Nazareth il Dio vero ed eterno, ma riduceva la sua umanità a pura apparenza, rivestimento tutto esteriore, poco più che un abito. Contro questa falsa interpretazione Giovanni, che con Gesù ci aveva vissuto tre anni, e ne era stato il prediletto, e la sera dell'ultima cena aveva poggiato un attimo la testa sul suo petto, nell'atto di chiedergli chi era colui che l'avrebbe tradito, non dice che in Gesù Dio divenne uomo ànthropos, ma come sarx151. 2.3.1 Un predicatore? Anche, e di qualità eccellente Ricostruiamo rapidamente quello che successe all’alba dell’era volgare Successe che in Palestina un uomo di circa trent’anni all’improvviso cambiò mestiere: fino a quel giorno Gesù (nome comunissimo) aveva fatto il falegname a Nazareth, da quel giorno si fece “predicatore itinerante”. Non era il primo né sarebbe stato l’ultimo a fare una scelta del genere. Di straordinario ci fu il successo che, non senza contrasti da parte delle lobbies politico/relgiose del tempo, la sua predicazione fece registrare152. Diceva di avere una gran bella notizia da dare, ai suoi connazionali153 e a tutto il mondo154: il Regno di Dio che i suoi connazionali aspettavano da tanto tempo già presente in mezzo a loro, con i suoi due VALORI FONDAMENTALI : LA LIBERTÀ E LA COMUNIONE. Ma perché nel suo regno Dio potesse rivelarsi in tutta la sua forza di coinvolgimento e insieme di consolazione occorreva fare delle scelte radicali, come quelle di chi ha trovato un tesoro e vende tutto per poterlo fare suo, occorreva discernere attentamente i fatti della vita, come fanno i pescatori all’alba sulla spiaggia. I suoi ascoltatori capirono subito che parlava del Messia e che si presentava di persona come Il Messia, il misterioso personaggio del quale si parlava da quasi mille anni, inviato da JHWH a rivelare agli uomini il vero volto della vita e a dare loro gli strumenti adatti per realizzarla in pienezza. Si presentò per la prima volta come Messia quando per la prima volta tornò a Nazareth e la sua fama di brillante predicatore suggerì ai responsabili della sinagoga del paese di farlo parlare in pubblico; per l’ultima volta lo disse durante il processo religioso che i capi del popolo gli intentarono, e con questo firmò la sua condanna a morte come bestemmiatore. Ma Gesù aggiungeva qualcosa di molto importante a quanto era stato detto nella Bibbia, sia sul Messia sia sul Dio che lo avrebbe inviato sulla terra. Gli Ebrei rimangono i destinatari della Promessa di Dio, ma non sono più i destinatari ultimi; il destinatario ultimo della Promessa è tutta grande famiglia umana. Tutti avranno una patria quando Dio sarà tutto in tutti, ma non sarà più la terra di Canaan. JHWH alla fine trionferà, ma le modalità di questo "trionfo" saranno inaudite.. Il Regno ha una sua evidenza, ma nella sua sostanza rimane un mistero. È una realtà personale e al tempo stesso comunitaria; il Regno prevede dei ruoli, ma tali da non pregiudicare la circolazione degli affetti e delle responsabilità; la sua crescita è silenziosa e graduale, ma a volte fa registrare forti accelerazioni, a volte delle brusche frenate; si diffonde per contagio: come l’influenza, ognuno l’attacca al suo vicino: il Regno non è un evento miracoloso, anche se a volte a beneficio della sua crescita avvengono segni grandi ed inattesi. 150 dal greco dokèo, = sembro, appaio cfr M. BORDONI, Incarnazione, in Nuovo dizionario di teologia, S. Paolo 1985, 621 - 683 152 Mt 7, 28; 8, 27; 9,8; 33; Mc 1, 22-27, 2, 12; 4, 41; 5, 42; Lc 4, 36; 8,37 153 Mt 15, 24 154 Mt 8, 11 151 47 Il Regno è dentro le cose e al tempo stesso le trascende; dentro e oltre i nostri rapporti quotidiani; dentro e oltre la nostra fatica, la nostra speranza, la nostra disperazione: dentro e oltre. Il Regno è parziale: è per i poveri. Non esclude nessuno, ma privilegia chi, a qualsiasi titolo, può essere definito come "povero". Chiede solo disponibilità alla metànoia, al cambiamento di mentalità, che abbatte gli idoli e fa spazio a JHWH e al suo modo di vedere le cose; chiede radicalità, di non scartare l’ipotesi di cavarsi un occhio o di tagliarsi una mano quando l’uno o l’altra rappresentano un "grave inciampo"; chiede sintonia profonda con gli altri uomini e con tutto il creato, e un sorriso appena di fronte ai piccoli calcoli utilitaristici in uso tra gli uomini; ma prospetta anche l’ipotesi di "vendere tutto" per acquistare ciò in cui sappiamo risiedere la vera gioia. La strada maestra che porta a tutto questo si chiama libertà, o - meglio – liberazione: liberazione dalla bramosia del possesso, dalla tentazione di servirsi degli altri invece che mettersi al loro servizio, dal familismo che spegne le energie migliori nel tepore del “nido”, dai ricatti del Palazzo gestito da volpi del calibro di Erode Antipa, dal conformismo sempre pronto a saltare sul carro del vincitore, dalla paura paralizzante del dover pagare di persona, dal legalismo che strozza la responsabilità personale. Il fine è la comunione totale, con Dio e con gli altri, nel tempo e nell’eternità. Legge è la legge fondamentale della vita: la è un bene intrinsecamente paradossale, che può conservarsi e crescere solo se viene incessantemente donata155. Un predicatore dunque eccezionale, dal repertorio vastissimo, nuovo, spesso sconvolgente, e dalla forma scintillante, se è vero che la gente pendeva dalle sue labbra per ore. Inventò anche un genere letterario tutto suo, la parabola 2.3.2 Un uomo di fede? Anche, e come nessun altro Tutt’intorno all'affermazione centrale, che Il Regno dei cieli è vicino, Gesù ha voluto disporre una vera e propria rete di segni che ne rivelassero la portata. Cinque soprattutto: 1. S’è fatto battezzare da Giovanni, mettendolo in grande imbarazzo: nella folla anonima dei peccatori il suo destino si allinea con quello di tutti gli uomini. 2. S’è esposto alla tentazione: per imparare prima e insegnare poi come si superano le facili prospettive materialistiche, come si rifiutano il messianismo miracolistico e il fascino del potere. 3. In presa diretta con quanto andava insegnando, in prima persona ma per rispondere a necessità variamente emergenti, ha operato molti segni (i “miracoli”): atti che non tengono conto delle leggi della natura e che destano ammirazione; non lo ha fatto mai come strumento di promozione personale, mai come spettacolo, ma sempre e solo come manifestazioni della grandezza di Dio, possibile sostegno alla fede di chi ha già deciso di fidarsi di lui. Il Vangelo ne racconta una trentina. 4. Ha fatto del perdono una dimensione feriale dell'esistenza, di quell’esistenza nella fede che nel banchetto fraterno e succulento ha la sua immagine più appropriata. 5. Lasciando ad altri la cura delle anime belle, s’è giocato tutto sulla Comunità. Il "segno" per eccellenza. La città che biancheggia sul monte per orientare il viandante. La fiaccola sul moggio. Il "piccolo gregge" che custodisce il Regno. Il Maestro itinerante ha vicino a sé sia persone che lo seguono con regolarità, ma mantengono casa e lavoro, sia persone (qualche decina?) che hanno piantato tutto e vivono alla giornata con Lui, si guadagnano la vita con lavoretti occasionali, dormono nei fienili.Tra questi ultimi ne ha scelto 12, perché "stessero con lui" e andassero a predicare di lui".Li ama molto. Li considera la sua vera famiglia. Li sostiene nelle prime prove del loro ministero. Li convoca a pregare. Man mano che si fa chiaro la fine che attende il Maestro, Egli li stringe a sé con crescente intensità. Dà loro un "capo", Pietro. 155 Mt.8, 34- 35 48 Al culmine della sua attività, l’obbedienza al Padre: all’inesausto disvelarsi del piano che JHWH ha su lui Gesù risponde con filiale disponibilità. Nell’obbedienza al Padre Gesù ha rivisitato e al tempo stesso trasceso l’Ebraismo, rivelandosi capace di comporre in sé gli opposti più stridenti. Strano, questo Gesù!! Nei comportamenti: e forte fino a prendere a frustate di venditori del Tempio, e debole fino a piangere in pubblico di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro; è rispettoso della Torah ed è provocatorio nel suo anticonformismo; poverissimo ("non ha un sasso dove posare la testa”), sta bene alla tavola dei ricchi; sempre vicino ai poveri, permette che in suo onore si “sprechi” un profumo costosissimo che avrebbe potuto alleviare le sofferenze di molti di essi; ossequiente all'autorità sia religiosa (l'episodio dei 10 lebbrosi) che civile (il tributo a Cesare), dà della “volpe”, in pubblico, a Erode Antipa, e rintuzza, sempre in pubblico, l’albagia di Pilato che ghigna sulla sua regalità solo perché la flagellazione l’ha ridotto ad un grumo di sangue; maestro sommo, esorta da imparare anche dai bambini, e lo fa lui per primo; abilissimo nel parlare, rinunciatario di fronte agli interlocutori...decisivi: Pilato e il Sinedrio; capace di gesti clamorosi e schivo di fronte alle folle in delirio; rifiuta il potere ("Nessuno mi ha costituito giudice": ai due fratelli in lite che gli chiedevano di fare da "Giudice conciliatore"), e ne rivendica il monopolio (Ogni potere, in cielo e sulla terra, è stato dato a me); culturalmente segnato dall'appartenenza al popolo ebraico, trascende questa appartenenza in un universalismo che lascia spiazzati i suoi ascoltatori. STRANO nelle scelte di fondo: venuto per salvare tutti, fino a trent'anni si limita a condividere la fatica oscura d'un povero falegname qualsiasi in uno dei più sperduti paesini del nord, Nazareth, il "paese degli scemi"; vero maestro, non appartiene a nessuna scuola, e i suoi discepoli se li sceglie lui; commenta la Torah, ma in parte ancora maggiore propugna una dottrina tutta sua. STRANO in certe "assurde pretese": la pretesa di essere decisivo per ogni uomo (Chi non semina con me disperde); la pretesa di esigere che uno, per seguire lui, doni tutto ai poveri, si amputi una mano se necessario, si cavi un occhio se serve, metta sul piatto la vita intera; la pretesa di chiamare "papà" l'inaccessibile JHWH, in un folle rapporto privilegiato con Lui. Un uomo vero, completo, eccezionale. Autorevole e discreto. Oblativo e di buon appetito. Magnanimo e umile. Giusto e capace di perdono infinito. Libero e impegnato. Forte coi prepotenti, bambino con gli ultimi. Profondo e chiaro. La gente semplice ne resta affascinata. Alcuni dei Farisei lo maledicono. Che dovesse finire male, era nelle cose. Ma immediatamente prima che quanto doveva accadere accadesse…: Pasqua, il turbante in testa, il bastone in mano; il pane è azzimo, non c'è stato tempo per farlo fermentare; le erbe sono amare, non c'è stato tempo per caparle. Nle cuore del banchetto…: IL MIO CORPO. DATO. IL MIO SANGUE. VERSATO. Il "servo sofferente di JHWH" sono io; credono d'ammazzarmi, in realtà sono io che liberamente mi consegno alla morte; le apparenze sono quelle del fallimento totale: in realtà è proprio in questo momento che sto salvandovi, tutti; vogliono separarmi da voi, e credono che ci stanno riuscendo: in realtà da oggi io non solo sarò con voi fino alla fine dei secoli, ma sarò piantato nel cuore di ogni vicenda umana. Io e questo corpo dato. Io e questo sangue versato. Subito dopo, il secondo gesto, la lavanda dei piedi. L’Eucarestia, centro della vita teologica. Il sevizio, centro della vita morale. La morte. Clinicamente per soffocamento, o per tetano. Culturalmente perché aveva osato troppo. Giuridicamente perché i suoi nemici hanno trovato l’incastro giusto (Pilato e i Romani, punti sul vivo; la gente - la mitica gente - sobillata a regola d’arte) per farlo condannare. Sul piano della fede “è morto secondo le Scritture”, cioè per solidarietà con gli uomini in quanto peccatori. RISCATTO, SACRIFICIO, ESPIAZIONE, SODDISFAZIONE: categorie che nei secoli sono servite per leggere quella morte, e anche oggi conservano una loro validità; ma oggi nella coscienza della Chiesa di oggi la categoria da privilegiare è quella dell’AMORE OBLATIVO. Un uomo di fede,come nessun altro. Solo una parte delle cose che ha fatto ci è stata riferita, eppure basta a provocarci, in positivo, fino alla fine dei tempi. 49 Tutto qui? No, c’è ben altro 2.3.4 Di più, molto di più. Dio incarnato Chi sei, Gesù di Nazareth? La gente lo giudica buono e bravo, magari… “un momentino astratto”. Per gli Ebrei devoti è un buon credente, ma di una religiosità oggettivamente deviante. I Sadducei lo prendono di mira, perché snobba il Tempio (la cui gestione, tramite il Sinedrio, è nelle loro mani). I potentissimi Farisei lo vedono come uno che sovverte la Torah, viola il Sabato, pratica la magia: tre capi d’accusa ognuno dei quali comporta, se provato, la pena di morte. Gli Apostoli nei tre anni che hanno vissuto con lui l’hanno sentito parlare di se stesso come di un profeta156, protagonista d'una realtà superiore157,Cristo/Messia, "unto" per servire e non per dominare158), il "Servo di JHWH di Isaia, 53; lui ha sempre preferito il titolo di FIGLIO DELL'UOMO, colui al quale secondo il profeta Daniele, apparirà sulle nubi, colui al quale verrà conferito il potere universale ed eterno, anche se (aggiungerà Lui) attraverso il dolore. Ma dopo la resurrezione… Tutti l'hanno visto morire. Appena fuori le mura, nel pieno di una festa grandiosa. Pilato ha voluto garantirsi della sua morte prima di consegnarne il cadavere a chi ne aveva fatto richiesta. Giuseppe di Arimatea gli ha messo a disposizione un sepolcro nuovo. Il Sinedrio ha organizzato precauzionali turni di guardia alla sua tomba. I suoi si sono letteralmente volatilizzati. Ma appena qualche settimana dopo sono già tutti di nuovo in circolazione. "E' vivo!!": e non lo dicono a gente di passaggio, ma a chi quei fatti li ha vissuti e visti in prima persona. “E’ vivo!!”: gli Apostoli sono stati stravolti e trasformati dai ripetuti contatti con lui, risorto; hanno mangiato e bevuto di nuovo con lui; ci hanno parlato a lungo; e da pavidi, gretti, pusillanimi, concorrenziali quali erano sono diventati coraggiosi, saggi, magnanimi, oblativi. Intorno al 55 d.C. Paolo afferma che le apparizioni del Risorto hanno seguito un ..."criterio gerarchico" (a Pietro - ai Dodici - a Giacomo - a me), ma una volta l'hanno visto tutti insieme oltre 500 persone, molte viventi. Ormai la morte-resurrezione è il centro di tutto il disegno di Dio. I Dodici non si limitano all'annuncio verbale, ma intorno a loro, autentica risposta a quell'annuncio, fiorisce prodigiosamente la comunità del 4 cap. degli Atti degli Apostoli: tutti formano un cuore solo e un'anima sola e -fatto inaudito fina dalla fondazione del mondo- mettono da parte il più tenace di tutti i diritti: il diritto di proprietà. Non lo contestano teoricamente, no: gli scivola via di dosso, come un vestito ormai inutile. Morì - fu sepolto -è risuscitato -apparve: la struttura portante dell'annuncio è ormai fissata, per i secoli. E DOVUNQUE E' PASQUA. "Pasqua", passaggio. Dovunque un uomo passa dalla superficialità alla consapevolezza, dalla grettezza alla generosità, dalla faciloneria all'intelligenza...IN UNA PAROLA, DOVUNQUE UN UOMO PASSA DALLA MORTE (dalle mille diverse forme di morte) ALLA VITA (alle mille diverse forme di vita), LÀ E' PASQUA. 2.3.5.1 Incarnazione: che tipo di scelta IN RADICE la scelta del Verbo è stata una scelta "ontologica", una scelta cioè che ha riguardato l'essere di Cristo prima ancora che il suo operare. Il Verbo eternamente preesistente di Dio è divenuto terrestre senza cessare di essere divino, fragile senza abdicare alla sua onnipotenza, effimero e provvisorio e indifeso come lo siamo tutti noi, senza per questo cessare d'esser colui di fronte al quale il mondo intero ha la consistenza di una goccia di rugiada e mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, o come un turno di veglia nella notte, e ha accettato di nascere, crescere, morire in prima persona. 156 Lc 13, 33 Mt 12, 41; Mt.11, 11 158 Mc 10,45 157 50 Una scelta ontologica che ha fatto di lui il centro reale (e non semplicemente affettivo) di tutta la storia umana: grazie alla sua divinità. Gesù di Nazareth è l'uomo, in quanto una specie di cordone ombelicale, attraverso il quale passa tutta la vita, lo collega invisibilmente ma realmente, come reale erogatore di vita reale, a tutti gli altri uomini; questo vuoi dire il Concilio quando sostiene che, assumendo la natura umana. Cristo ha legato a sé come sua famiglia, con una solidarietà soprannaturale, tutto il genere umano159. Una scelta ontologica che lo ha esposto come tutti alle contraddizioni e ai conflitti della vita e con ciò stesso è divenuta scelta morale di grandissima portata: secondo il Concilio, essa ci ripropone che il più grande dei comandamenti della legge è amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi160, ma lo fa arricchendolo d’un nuovo significato, avendo voluto identificare se stesso con i fratelli come oggetto della carità161... ha stabilito che la carità fosse il distintivo dei suoi discepoli. CONCRETAMENTE, storicamente, l'Incarnazione, oltre che mistero e proprio perché mistero, è un processo di totale condivisione della condizione umana. Il fatto che una così gran parte della vita di Cristo, che umanamente è poi l'immagine di Dio nel senso più alto e compiuto162, sia stata spesa nell'oscurità d'un paese sconosciuto e disprezzato lasciava perplessi i primi cristiani così come lascia perplessi noi. Ma come!?: s'è fatto aspettare mille anni e poi, quando finalmente ha deciso di venire, è sparito nell'anonimato d'una botteguccia artigiana d'infima classe, nel "paese degli scemi"163, misero villaggio di una delle nazioni più arretrate164 del mondo. Per i dieci undicesimi della sua vita ha condiviso in silenzio la condizione umana, uscendo dal riserbo solo gli ultimi tre anni. Che senso ha tutto questo? In genere ne è stata data una lettura in chiave di nascondimento e di ascesi. I primi Cristiani invece ne davano una lettura di tipo diverso: la condivisione della vita è stata il nocciolo duro di quei trent'anni. Questo era ben chiaro già nei testi che gli esegeti giudicano più antichi, come questo passo del Vangelo di Marco: // Figlio dell'uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la vita in riscatto per le moltitudini165. Un testo la cui esegesi va attentamente calibrata166: o Non è venuto per farsi servire, ma per servire;"servire" non significa "fare una bella esperienza di volontariato", ma "collocarsi dalla parte degli schiavi". Il mondo greco/romano nel quale i primi Cristiani stavano lanciando il Vangelo era un mondo nettamente diviso in due: chi veniva sempre e comunque servito, ed erano i detentori del potere, e chi faceva lo schiavo, per tutta la vita, e per tutta la vita non faceva altro che servire; tra costoro si colloca Gesù. o E venuto per dare la vita; "dare la vita" in questo contesto non significa "morire": una tale eventualità non viene certo esclusa, ma non è il primum intentum di chi scrive; qui "dare la vita" significa "progettare l'intera esistenza in termini di donazione"167. o In riscatto è da intendersi come "a favore di", "solidale con", "prendendosi in carico". o Per le moltitudini: traduzione estremamente infelice; sembrerebbe che Cristo non sia morto per tutti, ma solo per una maggioranza, magari una grande maggioranza di uomini; la vera traduzione è "per tutti gli uomini, che sono moltitudine". 159 cfr Apostolicam actuositatem, Decreto conciliare sull'apostolato dei laici, n.8 Mt. 22, 37-40 161 Mt.25, 40 162 2 Cor 1, 4; Eb 1, 3 163 Questo traspare dalla frase pronunciata da Natanaele, il futuro apostolo Bartolomeo, quando ebbe saputo che il presunto Messia di cui gli andavano parlando era di Nazareth: "£' quando mai da Nazareth è venuto qualcosa di buono!” 164 Effettivamente gli Ebrei sono stati gli ultimi della classe in tutte le discipline, dalla filosofia all'astronomia, dalla matematica alle scienze naturali e alla storia dell'arte; pruni, con anni luce di vantaggio su tutti, solo in religione, per la profondità delle intuizioni e la ricchezza di articolazioni che il discorso su Dio assume nella Bibbia. 160 165 Mc. 10, 45 cfr B. MAGGIONI, o.c 167 Mc. 8, 35 166 51 Ma l'elemento di gran lunga più chiarificatore di questo testo è quell'"E". Quell'"E" è una congiunzione copulativa con valore epesegetico, cioè esplicativo, in pratica equivale ad un cioè. Il Figlio eterno di Dio, venendo tra noi, s'è messo dalla parte degli schiavi e cioè ha optato per un'oblatività a 360°. Ai nostri giorni i socialisti avrebbero visto in Lui uno di loro, il primo, perché per primo s'è immedesimato nella classe operaia e dal di dentro della condizione del povero ha parlato di libertà. Vero, verissimo, ma non era questo il suo primum intentum. Il suo primum intentum, la sua opzione fondamentale era un'altra: ha fatto propria la condizione di vita dello schiavo perché essa era intessuta tutta e solo di disponibilità, la più incondizionata, e di oblatività la più completa, senza quei "se" e quei "ma" che fanno parte della vita di un uomo libero, ma che uno schiavo non poteva permettersi nemmeno dì ipotizzare. 2.3.5.2 Incarnazione: pagando quale prezzo Un prezzo altissimo. A Filippi i primi Cristiani lo indicavano con i tre verbi secchi e irreversibili168. dell’inno169 che abbiamo sopra presentato nella traduzione di Sergio Quinzio e che Paolo, scrivendo da lontano a quei fratelli amatissimi, ricordava con nostalgia e riporta per esteso. Non ritenne. Si spogliò. Si umiliò. Egli era come Dio, / ma non ritenne come un geloso possesso / il suo essere uguale a Dio. / Si spogliò di tutto, / divenne come uno schiavo, /uomo tra gli uomini, / classificato come uno di loro. / Si umiliò / e fu obbediente fino alla morte, / e fu una morie di croce. o Non ritenne. I primi Cristiani vedevano nell'Incarnazione anzitutto il rifiuto di quella logica del bottino che è onnipresente nella cultura antiche. Chi ha vinto ha diritto di accartocciarsi a difesa del bottino. Gesù ignora questa logica e rinuncia a difendere non "una" preda qualsiasi, ma una condizione di vita di assoluta eccellenza. Non avrebbe fatto torto a nessuno, se la sua condizione divina l'avesse mantenuta solo per sé. Invece volle condividerla con gli uomini. o Si spogliò. È il primo prezzo che deve pagare chi per condividere ha rinunciato a una condizione eccellente di vita. La condizione divina non si può cancellare, ma la si può mettere da parte. Come un vestito la sera, quando vai a letto, sulla sedia. o Si umiliò. Il "vivere al livello della terra" ("humilis") rappresenta lo scopo di tutta l'operazione. Il senso del rifiuto della logica del bottino e della rinuncia alla condizione divina è in questa scelta d'una condizione in tutto e per tutto simile alla nostra,...anziché di una condizione umana a livello della sua condizione divina170. Il rifiuto del "geloso possesso" era dunque in vista della condivisione della vita. Quell'inno veniva cantato durante l'Eucaristia, che per i Cristiani di allora come per quelli di oggi era il condensato sublime della vita offerta e condivisa, gesto di donazione rifiutato, espressione della solidarietà al livello più radicale...,sangue bevuto e condiviso secondo una nuova e inedita riproposizione del rito sacrificale antico, nella sua più decisa esigenza, quella di non limitarsi ad assistere, ma a prendere parte"171. Vita eucaristica, come dire vita offerta in dono172. 2.4 LA CROCE COME SCELTA DI SOLIDARIETÀ Nella croce Dio solidarizza con noi uomini. È uno dei molti significati di questo evento centrale della storia 168 I tre verbi, sono formulati tutt'e tre all’aoristo, un tempo verbale greco che connota un evento non solo passato, ma perfettamente consumato, un evento dal quale non si può tornare indietro. 169 Fil.2, 6-11 170 B. MAGGIONI, Leggere la Parola di Dio nell'emarginazione, AA.VV. Condivisione e marginalità, EGA 1984, 51 ibid. 194-200 171 172 CEI, La verità vi…o.c., 82-94 52 2.4.1 La risposta al più drammatico di tutti i bisogni La solidarietà di Dio nei nostri confronti consiste nel fatto che con la croce il Figlio di Dio risponde al bisogno più drammatico della storia umana, quello di vincere il male, in tutti i suoi aspetti: o il male ineliminabile, almeno per il momento, dall'esistenza umana, perché dipendente dalla condizione di creatura (la malattia, la morte, ecc.) o dalla forma che attualmente ha assunto l'esistenza dell'uomo (la scomparsa della forma/stato alla fine del primo millennio, la perdita di senso alla fine del secondo millennio); o il male che cominciamo ad avvertire come eliminabile perché il cammino dell’umanità offre strumenti nuovi per batterlo, ma in ogni caso la vittoria di domani comporta oggi sofferenze, è segnata dal sudore e dal sangue, costituisce la lunga passione dell'umanità, o il male legato alla malvagità degli uomini, che “dipende dalle scelte deliberate degli uomini, dal loro egoismo, dalle ingiustizie alimentate...in una parola: dal peccato”. Teoricamente questa forma di male è la più aggredibile, in realtà è qui Il male più deleterio, perché sconvolge le strutture intime della persona, mina i rapporti che alimentano la vita, corrompe le forme di comunione tra gli uomini173. 2.4.2 Nella maniera più radicale Con la croce il Figlio di Dio solidarizza con il nostro estremo bisogno di vincere il male nella maniera più radicale: facendosene carico. È la verità espressa dalla Croce come sacrificio, una delle categorie più usate dalla tradizione cristiana per coglierne il significato profondo: in un modo misterioso, ma reale, il Signore crocefisso ha portato a compimento i sacrifici dell’Antico Testamento; essi tendevano ad attuare la comunione tra l’uomo peccatore e la JHWH infinitamente santo: per questo l’animale sacrificato sull’altare veniva in parte bruciato, e quindi sottratto al legittimo uso dell’uomo, in onore di JHWH, per attestare la sua signoria universale, in parte veniva mangiato dai presenti per esprimere la piena adesione a quel gesto da parte di gente che aveva coscienza di aver meritato lei la morte che invece aveva colpito l’animale ucciso. La croce è, una volta per tutte174, il compimento di tutti i sacrifici del VT, ma anche di tutti i sacrifici che gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno offerto al loro Dio, perché la croce ha reso possibile la comunione alla quale tendevano tutti quegli atti di culto: con il suo carico infinto di sofferenza/amore Cristo crocifisso è l’agnello di Dio immolato che porta/toglie il peccato del mondo: grazie al “cordone ombelicale” che lo lega ad ogni uomo egli abilita ogni uomo a vincere il peccato, nella situazione nella quale si trova, come mentalità contraria a Dio e insieme strutture di vita che contraddicono alla volontà di Dio o prescindono da lui175. Tutto questo equivale a dire che con la croce il Figlio di Dio, proclamando il mistero della "forza che si esprime e si rivela nella debolezza", dà valore anche ai minimi frammenti di vita autentica che un uomo riesce ad esprimere, è la tesi che ricorre continuamente176 e costituisce quasi il leit motiv177 della seconda lettera di S. Paolo ai Corinzi. 2.4.3 L’istanza solidaristica nelle diverse categorie di lettura della croce L’istanza della solidarietà nei confronti dell’uomo peccatore è presente in tutte la chiavi di lettura che della croce sono state date via via lungo i secoli. Il mistero della croce è assolutamente centrale nel messaggio cristiano, e lo dimostra il fatto che, dal punto di vista quantitativo, il testo evangelico riserva al racconto della passione uno spazio talmente 173 C. MOLARI, Storia dell’uomo, storia di Dio, in AA.VV. Condivisione e..., o.c. EGA 1984, 19 s 174 Eb 7, 27 Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo è stato per me crocifisso e io per il mondo Gal 6, 14 176 1, 3-11; 2, 14-16; 4, 7-15; 6, 3-10; 11, 30-33; 12, 7-10; 13, 3-4 177 cfr V. SCIPPA, Sintesi teologica, in La II lettera ai Corinzi, in LA BIBBIA o.c., 2793 175 53 ampio da far apparire i vangeli come delle storie della passione, alle quali è stata premessa una introduzione particolareggiata178; a riprova di questa centralità nessuno nella storia della Chiesa si è mai limitato semplicemente a raccontare la passione, ma ciascuno ne ha sottolineato una certa chiave di lettura. E questo già negli scritti del Nuovo Testamento Nella TEOLOGIA DI GIOVANNI la croce ha un valore duplice: o vita offerta in sacrificio, a beneficio di coloro che si amano179; o giudizio di Dio sul mondo180, inteso non come la grande famiglia umana, per la quale Gesù è morto, ma come la mentalità perversa, ribelle a Dio e conflittuale nei rapporti interumani, che grazie al peccato d’origine ha dilagato in tutta la grande famiglia umana. In ambedue i casi i beneficiari siamo noi, amati da Dio non perché lo meritiamo, ma perché Dio non riesce a non solidarizzare con la nostra miseria. Nella TEOLOGIA DI PAOLO, la più radicale nel parlare di croce181, abbiamo tre gruppi di testi: o testi che "leggono la croce" in chiave giuridica: come riscatto (ha pagato il nostro debito182); come espiazione ( ha sofferto al posto nostro183); la croce in chiave sacrificale: anche se non è stato lui a a “condannarlo”, lui lo ha “consegnato”, al posto nostro. All’impegno nella storia del Dio di Gesù noi dunque interessiamo come schiavi e come peccatori: è la nostra schiavitù, è il nostro peccato che attiva la sua solidarietà nei nostri confronti. Ma un terzo gruppo di testi apolini parla della croce in chiave esplicitamente solidarista: Tutti siamo stati crocifissi con lui184 e con lui siamo risorti, per questo non siamo più noi che viviamo, ma è Cristo che vive in noi185. Su queste tesi s’innesta saldamente la teologia del corpo mistico, che fa di tutta l’umanità un corpo solo, al cui interno circola la stessa vita, e ogni membro ha una sua funzione. L’agore solidale è la più logica delle conseguenze di questo stato di cose. La TEOLOGIA DELL'IGNOTO AUTORE DELLA LETTERA AGLI EBREI offre infine una chiave interpretativa di taglio anche pedagogico: Cristo dalle cose che soffrì imparò l'obbedienza186 e, divenuto modello perfetto per tutti, per tutti è diventato causa di salvezza. La TEOLOGIA PATRISTICA187 e la TEOLOGIA SCOLASTICA188 per "leggere la croce" hanno usato diverse delle categorie qui sopra accennate: quella del riscatto, quella del sacrificio, quella dell’espiazione, del merito, con la TEOLOGIA DI S. ANSELMO sembrò prevalere la categoria della cosiddetta soddisfazione ("satisfactio vicaria”): Cristo ha onorato col suo sangue un debito che nessun uomo avrebbe potuto onorare, perché la gravità dell’offesa si misura sulla persona 178 L’espressione di M. Käler è citata da B. FORTE in Alle sorgenti della carità, AA.VV. Diaconia della carità nella pastorale della chiesa locale. Gregoriana Padova 1988, 233 179 Gv. 10, 11; 13,1;15,13 180 Gv. 12,31; 16, 11; 16,33 181 Gal 3, 13 182 1 Cor 183 Rm 3, 25 184 Col. 2, 12 185 Gal 2, 20 186 Eb 5, 8 s 187 La teologia patristica è il "discorso su Dio" elaborato dagli scrittori cristiani a partire dal II sec. d. C. (la Didachè, S. Giustino, Tertulliano, ecc.) e che, passando attraverso il più grande dei "Padri", S. Agostino, arriva fino agli inizi del secondo millennio dell'era cristiana, quando sulla scena culturale del nostro Occidente, attraverso la grandissima tradizione islamica (Avicenna, Averroè, Mosè Maimonide) fa irruzione la filosofia di Aristotele. 188 La teologia scolastica è il "discorso su Dio" elaborato in Europa a partire dal sec. XIII, con epicentro alla Sorbona di Parigi (Riccardo e Ugo di S. Vittore, Pietro Lombardo): il grande sistema filosofico elaborato da Aristotele diventa l'intelaiatura di una filosofia che ha il suo vertice nel più grande degli "Scolastici", S. Tommaso d'Aquino. 54 offesa (la gravità del peccato è infinita come quel Dio che il peccato offende), la riparazione dell’offesa invece si misura sulla persona che la offre, e l’uomo è l’infinitamente piccolo di fronte al Dio che ha offeso; solo Cristo, dunque, poteva adeguatamente satisfacere le esigenze della giustizia divina: come vero Dio, infatti, la sua riparazione aveva un valore infinito, come vero uomo poteva a pieno diritto parlare a nostro nome. Nella storia dei Cristiani la croce ha sempre avuto un ruolo di capitale importanza, a volte in chiave anche fortemente contraddittoria189: ha suggerito gli inauditi eroismi della carità, ma anche certa inaudita barbarie del colonialismo; Madre Teresa di Calcutta e Francisco Pizarro, lo sterminatore degli Indios, la cui tomba è tuttora nella cattedrale di Lima; ha ispirato i mille tentativi di umanizzare la cura dei poveri, ma anche certi tentativi di rinchiuderli per proteggersi da loro. Ha ferito il cuore di Francesco, di Caterina, di P. Pio e ha tenuto irrimediabilmente lontani Greci e Giudei190, Carducci (Gesù è il "biondo Galileo" che salì il Campidoglio e gettò la sua croce su Roma dicendole: "Portala e servi!!"), Nietzsche, e tanti altri. In tutte queste diverse interpretazioni del mistero della croce l’istanza solidaristica è sempre di fondamentale importanza: Cristo, che fa tutt’uno con noi, proprio per questo, secondo il dettato del Credo, ha fatto tutto quello che ha fatto propter nos homines et propter nostram salutem: Per noi uomini e per la nostra salvezza. 2.4.4 L’istanza solidaristica nelle categoria di lettura della croce privilegiata oggi dalla Chiesa Se in tutte le diverse interpretazioni del mistero della croce che abbiamo rivisitato a volo d’uccello l’istanza solidaristica è sempre di fondamentale importanza, nella chiave di lettura che oggi la coscienza della Chiesa indica come la più giusta la solidarietà di Dio con l’uomo tramite Cristo è il contenuto stesso di quella lettura. Le altre chiavi di lettura (espiazione, sacrificio, ecc.) mantengono una certa validità, ma nella prospettiva dell'amore gratuito, l'unica che aiuta a capirle191. Premettiamo che la croce è al tempo stesso, e allo stesso titolo, il luogo della salvezza e il luogo della rivelazione del volto di Dio192; sulla croce Dio si rivela salvandoci in Cristo e ci salva rivelandosi in Cristo; Dio sulla croce tramite Cristo rivela un certo tipo di amore e al tempo stesso tramite Cristo lo realizza. Quale tipo di amore? Tutti parlano di amore. La croce conferisce all’amore del quale tutti parlano quattro caratteristiche, che ne fanno l’amore che trascende e al tempo stesso ingloba tutti gli altri: o gratuità, o universalità, o oblatività o condivisione. Ma la gratuità e l'universalità dell'amore di Dio erano dei dati già consolidati nella coscienza biblica veterotestamentaria. L'aspetto nuovo e inaudito è quello del carattere oblativo/condividente che, già centrale nel mistero dell'incarnazione, nella croce raggiunge la sua massima manifestazione. La croce costituisce, nella linea dell'amore oblativo/condividente, il punto più intenso. Sulla croce c'è un Dio "che fa suo il dolore dell'uomo, condividendolo. In realtà il dolore di Dio è il nostro dolore. Dio non ha un dolore suo esclusivo. Dio fa proprio il nostro"193; il Verbo incarnato si fece carico del peccato dell’uomo, per reinnescare in continuazione le traballanti dinamiche della verità e del bene abbracciò quella croce che gli ripugnava194 e sprofondò195 in quella terrificante disperazione estrema dalla quale grazie a lui ogni uomo può attingere la speranza di risalire. 189 cfr M. FLICK, Croce, in AA.VV. Nuovo dizionario di teologia, Paoline 1985, 262-279 1 Cor. 1, 23 191 CEI, La verità…, o.c., 132 192 B. MAGGIONI, Uomini vanno a Dio nel loro dolore...", in AA.VV. Annunciare la carità, vivere la speranza, a cura del CNCA, Comunità Edizioni 1997, 79 190 193 B. MAGGIONI, ibid. 77-78 Padre, se è possibile, allontana da me questo calice!: Mc. 14, 36 195 Padre, perché mi hai abbandonato?: Mc 15, 34 194 55 Da questo punto di vista il racconto della passione diventa solenne come le epopee più autentiche più autentiche, un inno di passione ritmato dal verbo consegnare (paradìdomi). Triplice la consegna della malvagità umana: 1. Giuda consegnò Gesù ai sommi sacerdoti196, 2. i sommi sacerdoti lo consegnarono a Pilato197, 3. Pilato lo consegnò ai carnefici198; Triplice la consegna della misericordiosa onnipotenza di Dio: 1. il Figlio consegnò se stesso per noi199, 2. il Padre consegnò il Figlio ai suoi crocifissori200, 3. lo Spirito nella morte di Cristo lo riconsegnò in potenza al Padre201. È l’amore/disponibilità centrato sul pane eucaristico202: il pane spezzato, il sangue versato per le moltitudini , offerto a tutti e l’amore/servizio condensato nel gesto di lavare i piedi agli Apostoli; è stato Gesù stesso a collegare quel gesto a due facce (pane spezzato e vino offerto a tutti - servizio al fratello) a ciò che sarebbe accaduto sul Golgota il giorno dopo. 196 Mc 14, 10 Mc 15, 1 198 Mc 15, 15 199 Gv 19, 30 200 Mc 9,31; Rm.8,32 201 At 10, 38-40 202 Mt 26. 28; Mc 14, 24; Lc 22, 20 197 56 Parte III III SIGNIFICATIVE ARTI ARTICOLAZIONI 57 del SOLIDARISMO SOLIDARISMO BIBLICO nel VECCHIO TESTAMENTO 3. POVERI E POVERTÀ NELLA TEOLOGIA DEL VECCHIO TESTAMENTO Con la stessa parola ( "povertà") la lingua italiana indica o una situazione negativa: la carenza di beni essenziali (economici, o d'altro genere); o una situazione positiva: la virtù, cioè un atteggiamento costante e di alto spessore morale, che consiste nel distacco, interiore e operativo, dal denaro e dalle ricchezze, ricollocate nel posto che compete loro: mai dei fini, ma sempre e soltanto dei mezzi per realizzare la vita propria ed altrui. Questo equivoco linguistico ha prestato il fianco ad una lettura pietistica ed equivoca della “Beatitudine della povertà” proclamata da Gesù e dalla sua Chiesa nel loro discorso programmatico, noto come Discorso della Montagna: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli203, o, più semplicemente, Beati i poveri204. C'è stato chi, magari per continuare a pensare solo a se stesso, si è sforzato di trasformare i poveri in uomini pieni di meriti, le cui disposizioni profonde attirano le benevolenze divine. “Nei sobborghi di Bogotà tu avverti davvero vicina la presenza di Dio”; “nella periferia di Nairobi la gente è ancora capace di sorridere”: mezze verità, che ci consolano interiormente ma non ci spingono ad andare ad abitare in quei luoghi, per avvertire vicina la presenza di Dio o per recuperare anche noi la capacità di sorridere. A volte una stortura analoga ("il tuo ruolo nella vita è soffrire", "Dio ti ha fatto povero nella vita presente per renderti ricco nella vita eterna") serviva a legittimare l'emarginazione dei disabili: la "valorizzazione della sofferenza" è vitale per ogni uomo, ma la "professionalizzazione della 203 204 Mt 5, 3 Lc 6, 20 58 sofferenza", magari agganciata in maniera surrettizia al detto paolino secondo il quale appartengo a Gesù, e le cicatrici che porto nel mio corpo ne sono la prova205, al di là di tutte le buone intenzioni, serviva ad istigare soggetti ventenni in carrozzina a rassegnarsi precocemente e a rinunciare al sacrosanto diritto/dovere di partecipare come tutti alla costruzione del mondo206. L’Antico Testamento conosce ambedue i volti della povertà: come li giudica? Una drammatica iattura o una chance di vita? Prima di addentrarci nella disamina del problema, ricordiamo che secondo la fede cristiana la Bibbia rivela il volto di Dio progressivamente, in un crescendo di luce che solo nel volto di Cristo raggiunge pienezza. In tema di povertà ci troviamo di fronte ad un'evoluzione che parte dai testi biblici anteriori a quelli profetici e approda al Vangelo. LA POVERTÀ COME CARENZA DI BENI ESSENZIALI ALLA VITA DI UN UOMO VA COMBATTUTA CON TUTTE LE FORZE. Nell'Antico Testamento207 la povertà, come oggettiva carenza di mezzi vitali, è sempre una sventura causata dal peccato208, bisogna evitarla per sé e combatterla negli altri. Combatterla: a mano a mano che la luce della rivelazione cresce, questo contro la povertà/carenza diventa un impegno morale/religioso stringente; così in Amos209, il primo profeta/scrittore210, un ex pastore che profetizza a metà dell'VIII sec., poco dopo che il Regno di David si è spaccato in due; così in Isaia211. Impegno confermato e radicalizzato (come vedremo) dal Vangelo: fino a fame il metro del successo o dell'insuccesso di tutta la vita. La miseria è sempre un male212 da condannare; da soccorrere quando non dipende dalla cattiva volontà di chi le subisce, le sue cause vanno ricercate nella pigrizia e dell'ignavia personale. La legge mosaica cerca di porvi rimedio213, la predicazione sociale dei profeti si scaglia con continuità e a volte con grande violenza contro coloro che tengono il popolo nella miseria214. L'ideale è un altro: "Non darmi ne povertà ne ricchezza, ..., perché, se troppo sazio, potrei rinnegarti e dire: Chi è il Signore? Oppure, se troppo povero, potrei rubare e profanare il tuo nome"215. Appare dunque quanto meno parziale l'interpretazione famosa elaborata da Max Weber, dell'etica protestante come etica del profitto, sulla base di un'equiparazione biblica fra ricchezza e benedizione di Dio, che va tutta dimostrata e calibrata. LA POVERTÀ COME VIRTÙ NEL VECCHIO TESTAMENTO È UN VALORE CHE SI AFFERMA A FATICA E SOLO IN UNA MINORANZA DI COSCIENZE. Prima tappa, quando ancora la terra promessa è lontana. Non c'è traccia delle povertà come virtù, a volte la povertà può rientrare in un circolo virtuoso, in quanto è JHWH che attraverso di essa mette alla prova216 o punisce217, ma è indubbio che nell'età dei Patriarchi218, da Abramo a Mosè, e 205 Gal 6, 17 cfr A. M. FANUCCI, Il manifesto della Comunità di Capodarco, in La logica dell’utopia. Cittadella 1999, 52-71 207 cfr. J. LÉVÊQUE, Anawìm, in Grande dizionario delle religioni, Piemme/Cittadella, 1988, 59 s 208 Prv. 6, 9-1 1; 10, 4; 21, 17 209 Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne : Am 5,21.23-24 210 I frutti del grande fenomeno del profetismo sono arrivati a noi solo in parte, perché molti di quelli che hanno "parlato a nome di" (JHWH) non hanno lasciato nulla di scritto. 211 Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo?:Is 58,6-7 212 Gb 24, 2-12 213 Es 21,2s; 23, 10s;Dt l5, 11 214 Am 2, 6s; 4, 1; 5, 7; Mic 6, 12s; Is 3, 14s; 10, 2; Ger 5, 28 215 Prv. 30, 8 s. 216 1 Sam 2, 7 217 Prv. 17, 5; 22, 2 206 59 più oltre ancora, fino all'età dei Giudici, "magistrati" molto sui generis che reggono Israele prima dell'avvento dei Re219, la ricchezza è considerata tout court come il primo effetto della benedizione di JHWH220. Seconda tappa, dopo l'insediamento nella terra promessa. Si scatena la cupidigia dei ricchi, che sempre più spesso ricorrono alla frode o alla violenza: impossibile,dunque, intendere il benessere economico sempre e comunque come benedizione di JHWH. Anche per questo nella letteratura sapienziale221 la speranza della prosperità diventa progressivamente sempre meno terrestre e sempre più escatologica222, e contestualmente la povertà assume sempre più un volto parzialmente positivo, perché grazie ad essa l'uomo pio223 impara ad affidarsi a JHWH che può restituirgli quanto gli è mancato in questo mondo224. Il pio Israelita comincia a scoprirsi anàw, spiritualmente povero, socialmente debole, dipendente in tutto e per tutto dagli altri, e reagisce a questa sua situazione affinando la propri interiorità col farsi umile e dolce225 e con abbandonandosi fiduciosamente a JHWH. Da esperienza personale a paradigma universale: ci si rende conto che questa fiducia totale in JHWH, eroicamente vissuta, corrisponde alla verità della condizione umana: tutti dovrebbero praticarla, perché tutti sono e saranno sempre poveri davanti a Dio. All’inizio del VI sec. a.C. il typos dell’anàw/homo pius diventa Geremia226, il profeta contestato e perseguitato, che si affida a Dio in un rapporto fiducioso, ma anche venato di amarezza; qualcosa del genere accadrà all’anonimo autore del libro di Giobbe. Ad un certo punto gli anawìm (plurale di anàw) diventano visibili, e il profeta ne consacra il ruolo storico/sociale: Sopravviverà in te un popolo umile e povero; confiderà nel nome di JHWH227. Terza tappa, durante l'esilio a Babilonia. tra gli anawìm levano la loro voce228 i cosiddetti "profeti della tradizione di Isaia". Essi hanno saldamente acquisito il senso della povertà come virtù e questo colora la speranza messianica della quale sono portatori: il Messia promesso e atteso sarà un Messia povero; l’affermazione è inaudita, ma avrà un seguito tortissimo. Quarta tappa, dopo l'esilio: l'arricchimento teologico della nozione di povertà si intensifica; nei salmi postesilici: i poveri di JHWH, coloro che JHWH "adorna di salvezza"229, sono descritti come i santi, i giusti, i servi che onorano e cercano JHWH e, pur avendo il cuore spezzato230, capaci di abbandonarsi a JHWH con una fiducia da bambini231, ma anche di interpellarlo come fece Geremia e come fa Giobbe, quasi con risentimento: perché mi hai mandato questa malattia, perché sono solo, inerme e perseguitato?; ma il lamento sfocia sempre nella certezza che la provvidenza di JHWH da senso a quelle prove232. Progredendo nel tempo, tra gli anawìm si sviluppa una sensibilità comunitaria nuova233, che approda alla consapevolezza di costituire "la discendenza dei giusti"234 e di dover affrontare insieme 218 Con questo nome si designano i personaggi che campeggiano nella Genesi e nell'Esodo: da Adamo a Mosè (1200 a.C.), passando per Abramo (1800 a.C.), suo figlio Isacco, i suoi nipoti Esaù e Giacobbe (detto anche Israele) 219 Sono i due secoli successivi alla conquista della terra di Canaan da parte di Giosuè 220 Gn. 13, 15;26,3;28,13 221 Considerando a parte il Pentateuco, i primi 5 libri che la tradizione vuole scritti da Mosè (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio) si è soliti dividere i libri del Vecchio Testamento in tre categorie: libri storici (racconti), libri profetici e libri sapienziali, così detti del principale di loro, il libro della Sapienza. Sono quei libri che contengono esortazioni, riflessioni, preghiere, ecc 222 Dal greco èschaton, "ciò che nel futuro è ultimo" (novissimum in latino); l'escatologia è quella parte della teologia che parla dei novissimi (nel Catechismo di Pio X vengono chiamati così morte, giudizio, inferno e paradiso) 223 Sal 9, 10; Prv 19, 1.22; 28, 61 Sal 9, 10; Prv 19, 1.22; 28, 61 224 Sal. 37; 72; Is. 29,19 225 Nm 12, 3; Am 2, 7; Is 29, 19; 61, 1 226 Ger 11, 28; 12, 6; 15, 10-21; 17, 12-18; 18, 18-23; 20, 7-18 227 Sof 3, 12 228 Is 52, 13 40, 12; Zac 9, 9s 229 Sal 149, 4 230 Sal 34 231 Sal 131 232 Sal. 119, 67 233 Sal 69,33s; 133, ss 60 il gruppo degli schernitori e degli arroganti235, nemici loro e nemici di Dio236. In Palestina l'ideale dei poveri di JHWH si perpetuerà, nel corso degli ultimi due secoli a.C., prima nel movimento dei Chassidìm (i ferventi), poi in quello dei Farisei. 3.1 JHWH e i poveri: il paradigma dell’Esodo Il libro dell'Esodo è uno dei libri più importanti dell’intera Bibbia; e non solo perché è quello che racconta l'istituzione del rito pasquale, il passaggio del Mar Rosso, la consegna delle tavole della legge scritte sul Sinai dal dito di JHWH, ecc., ma anche e soprattutto perché esprime una tesi di fondo concernente la concezione biblica della vita: la vita è eminentemente liberazione, vivere è liberarsi e, prima ancora, lasciarsi liberare da JHWH. Liberazione a 360°, e quindi anche politica, mai però esclusivamente politica, perché la liberazione politica rimanda ad un universo complessivo nel quale il concetto di liberazione spazia su ben altri orizzonti; e l’Esodo è, sì, un libro squisitamente politico207, perché l'evento centrale, quello che gli dà il nome, è la lotta di un popolo intero per la propria liberazione, per scrollarsi di dosso le pesanti, realissime catene di ferro e le angherie reali di ogni tipo che venivano esercitate sugli Ebrei resi schiavi, le prepotenza oltre ogni prevaricazione e lo sfruttamento che travolge e schianta la dignità della persona. Ma al di là della vicenda concreta vissuta da alcuni uomini la schiavitù e la liberazione investono tutti gli uomini e tutto l’uomo, in ogni luogo e in ogni tempo. L’Esodo come paradigma della condizione umana237: vi abbiamo già accennato. Nel prosieguo del discorso biblico il concetto di liberazione non solo non verrà mai abbandonato, e rimarrà sempre centrale come lo era stato nella professione di fede del pio Ebreo238, ma si dilaterà su altre frontiere, senza mai smentire se stesso; l’Egitto rimase per sempre casa di schiavitù e al tempo stesso divenne emblema di altri molteplici fattori di schiavitù che inquinano la vita umana. “La memoria dell’evento liberatorio, ritualmente rinnovato nell’annuale Festa di Pasqua, mantenne viva la speranza della libertà nel periodo dell’esilio di Babilonia e delle successive dominazioni straniere, fino alla dispersione seguita alla distruzione del tempio nel 70 d.C.”239 Non ci fu nessun motivo che al popolo d’Israele meritasse una particolare attenzione da parte di JHWH, oltre quello di essere in condizione di povertà insopportabile: JHWH, rispondendo ad una suo disegno eterno e per noi imperscrutabile, intervenne nella storia a favore del popolo d’Israele solo perché esso era duramente schiavizzato dagli Egiziani e aspirava con tutto se stesso alla liberazione. Nel prosieguo del libro sacro la categoria “liberazione” identificherà la risposta di JHWH al peccato, alla morte, alla schiavitù della carne, alla dominazione di Satana, all’inefficacia della Legge, alla pesantezza degli “elementi del mondo” (la corruzione e la distruzione); e anche allora non ci sarà nessun altro motivo che giustificherà questa operazione al di là del fatto che i peccatori, i morituri, gli schiavi della carne, gli schiavi di Satana, i legalisti, i succubi degli “elementi del mondo” sono tutti dei poveri: riedizioni diverse, su frontiere diverse, della stessa costituzionale povertà dell’uomo. 3.2 JHWH e i poveri: le ragioni dell’uomo contro la ragione di stato JHWH prende le difese del povero quanto la ragione di tato tenta di schiacciarlo. In merito a questo, nell'Esodo240 c'imbattiamo in una concezione della politica totalmente anomala, almeno nel contesto storico e culturale di quella regione del mondo. 234 Sal. 11,2 Mi 3, 13-16 236 Sal 73, 3-1 1; Gb 21, 7.14; Sal 22, ss 237 cfr. V. GATTI, Esodo, in La Bibbia…, 185 238 Dt 26, 5-9 239 C. MOLARI, Liberazione, in Nuovo dizionario di teologia, Paoline 1985, 728 240 J. L. SKA, La schiavitù d’Israele in Egitto, in Rinascere, bimestrale di MRC, anno 4 1999, 15 - 16 235 61 All'intero dell'epico scontro personale tra Mosè e Ramses II, nell'ultimo periodo del lunghissimo regno di quest'ultimo (1290-1224), entrano in rotta di collisione due concezioni politiche antitetiche. Due modi radicalmente opposti d'intendere il bene comune e il posto che, all'interno della politica, tocca alla ragione di Stato, e il posto che tocca all'uomo come persona, cioè - in linguaggio biblico - come "immagine di Dio". Mosè e Aronne si recarono dal faraone e gli annunziarono: il Signore, il Dio d’Israele, ti da quest'ordine: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto! Il faraone rispose: Ma chi è il Signore? Perché mai io dovrei ascoltarlo e lasciar partire Israele? lo non lo conosco e non ho intenzione di lasciar partire Israele! Essi insistettero: II Dio degli Ebrei ci è apparso. Vagliamo andare nel deserto per tre giorni di cammino. Offriremo là un sacrificio al Signore nostro Dio, altrimenti egli ci farà morire di peste o di spada. Il re dell’Egitto rispose: Mosè e Aronne, ma perché volete allontanare la gente dal lavoro? Anzi... dovrete andare anche voi a lavorare! E soggiunse: Proprio ora che questa gentaglia è diventata così numerosa, dovrei farli smettere di lavorare? In quello stesso giorno il faraone diede quest'ordine ai capi del popolo israelita e ai sorveglianti: Finora avete dato voi agli Israeliti la paglia per fare i mattoni; adesso basta! Vadano loro stessi a cercarsi la pagliai Ma obbligateli a fare lo stesso numero di mattoni di prima, non uno di meno! Sono dei fannulloni e continuano a insistere, vogliono andare a offrire dei sacrifici al loro Dio. Rendete dunque ancor più duro il lavoro di questa gente, e lo facciano senza tante storie! I capi del popolo e i sorveglianti uscirono e dissero agli Israeliti: Questi sono gli ordini del faraone: non vi sarà più fornita la paglia, andate a cercarvela da voi! Ma dovrete continuare a fare lo stesso lavoro di prima. Il popolo si disperse così in tutto l'Egitto a raccogliere le stoppie da usare come paglia per i mattoni. I capi li sollecitavano: «Portate a termine il vostro lavoro secondo il quantitativo stabilito, come quando c'era la paglia! ». I sorveglianti degli Israeliti, che a suo tempo erano stati scelti dai capi del faraone, furono bastonati e rimproverati: Perché non avete fatto anche oggi la quantità di mattoni di prima? I sorveglianti israeliti andarono dal faraone a protestare: Perché ci tratti così? Non ci danno più la paglia e ci costringono a fare la stessa quantità di mattoni di prima! Non abbiamo nessuna colpa, però siamo bastonati! Egli rispose: Siete dei fannulloni! Per questo dite: «Vogliamo andare a offrire sacrifici al Signore! Andate a lavorare! La paglia non vi sarà data, ma dovete fare la stessa quantità di mattoni! I sorveglianti israeliti si resero conto di essere nei guai, quando videro che il numero giornaliero dei mattoni non veniva ridotto. Appena lasciato il faraone, essi s'incontrarono con Mosè e Aronne che stavano ad aspettarli, e inveirono contro di loro: II Signore stesso vi giudichi! Per causa vostra infatti il faraone e i suoi ministri non possono più vederci. Voi gli avete dato il pretesto per farci morire! Allora Mosè si rivolse al Signore: Signore, perché hai fatto del male a questo popolo? Perché mi hai mandato? Da quando sono andato dal faraone per parlargli in tuo nome, lui continua a maltrattare il tuo popolo e tu non hai ancora fatto niente per liberarlo! Il Signore rispose a Mosè: Ora vedrai quel che farò al faraone: con il mio intervento lo costringerò a lasciar andare via gli Israeliti. Addirittura li caccerà via dall'Egitto!241 241 Es. 5.1-6.1 62 IL CONTESTO STORICO. La Genesi, libro redatto verso il V/IV sec. a.C., condensa in tre secoli equiparati a tre generazioni (Abramo, Isacco, Giacobbe detto anche Israele) una storia molto più lunga e articolata, che ha inizio già nel sec. XVIII. Nel sec. XVIII un capo tribù nomade di nome Abramo, proveniente da Ur (sud della Mesopotamia), prese stanza nella terra di Canaan. La svolta drammatica la vita sua e della sua tribù l’ebbero quando una serie di carestie particolarmente dure e prolungate costrinsero gli Israeliti (che hanno preso a chiamarsi così dal secondo nome di Giacobbe, Israele) a trasferirsi in Egitto: è la storia di Giuseppe, il figlio minore di Giacobbe, venduto dai suoi fratelli a dei mercanti di schiavi che lo rivendettero in Egitto, dove egli assurse a un ruolo governativo di grande importanza. In Egitto gli Israeliti si rivelano ben presto, in termini di forza/lavoro, una risorsa per i Faraoni; sotto il loro occhio benevolo essi crescono di .numero, si dànno strutture di vita sempre più valide, diventano politicamente sempre più forti. Ma non si fondono con gli Egiziani, secondo quella sconcertante caratteristica che li accompagnerà nei millenni, fino ai nostri giorni, e sarà il pretesto per molti degli innumerevoli pogroms che la storia ha riservato agli Ebrei come a nessun altro. Per primo il faraone Seti I (1300 - 1290), padre di Ramses II, ha mostrato viva preoccupazione per questa imponente crescita e ha inasprito la normativa che li riguardava. In questo contesto un giovane leader ebreo, Mosè, ha fatto qualche sterile tentativo di intervenire a favore dei suoi fratelli242, ed è stato costretto a fuggire nel deserto243. Con Ramses II, il cui regno praticamente abbraccia tutto il XIII sec. a. C., si arriva alla vera e propria oppressione244. Ramses ha in mente una grandiosa politica di espansione e si sta attrezzando in vista di essa. Gli occorrono fra l’altro capienti città/magazzino, per coprire le spalle ad eserciti numerosi e impegnati in campagne militari che potrebbero risultare anche molto lunghe; ora gli Ebrei non sono affatto affidabili come soldati, a fianco degli odiati Egiziani, ma costituiscono un enorme serbatoio di manodopera per i lavori civili. E Ramses grava questo compito sulle loro spalle. L'oppressione induce gli Israeliti a “gridare verso Dio”245, la risposta di Dio246, come spesso nella Bibbia, si concretizza nell'invio di un suo Profeta, Mosè, che, dopo lunghe esitazioni, si presenta al Faraone con suo fratello Aronne247. È il nostro racconto. Che si conclude con un fallimento (ci vorrà un secondo intervento di Dio e un secondo "mandato"248 per rilanciare l'azione che sfocerà nella liberazione d'Israele249) ma contiene ugualmente una lezione di grande importanza. QUALE POLITICA, QUALE GIUSTIZIA, QUALE INGIUSTIZIA. Mosè e il Faraone: due opposte visioni della "politica", e prima ancora due opposte visioni della "giustizia”: totalmente alternative nel modo di coglierne i cardini, di fissarne gli scopi e i valori essenziali. Lo scontro si articola in una catena di azioni/reazioni che però sono tutte riconducibili a quella iniziale, quando il Faraone oppone una no assoluto alla richiesta di Mosè, di lasciar partire il popolo per un suo pellegrinaggio rituale. Muro contro muro. Oggetto immediato del contendere: si o no al pellegrinaggio? Oggetto ultimo del contendere: quale giustizia? Sia Mosè che Ramses perseguono con totale determinazione la giustizia e combattono l'ingiustizia; ma con quelle parole (giustizia/ingiustizia) essi intendono realtà totalmente diverse: 242 Es. 2; 1-11 e 12-15 Es. 2, 15-22 244 Es.l 243 245 Es. 2, 23-25 Es. 3-4 247 Es. 3, 1-4, 21 248 Es 6, 1 e 6, 2-8 249 Es 12-13 e 14 246 63 o Il Faraone si muove solo nella logica della ragione di stato: le fortune dello Stato sono l'unico criterio di valutazione della “giustizia”, cioè della positività politica di una certa azione decisa da chi governa; la compattezza dello Stato al suo interno e la sua forza espansiva all'esterno sono per Ramses II l'unico metro sul quale impostare la gestione del potere. Lo Stato egiziano ha bisogno del lavoro degli Ebrei? Questo basta per inchiodarli alla loro responsabilità tramite un sistema repressivo, a ondate successive: iI Faraone minaccia i sorveglianti egiziani, i sorveglianti egiziani minacciano i sorveglianti ebrei, il popolo paga i conti di tutti. Ramses, antesignano di Hitler e di Stalin? Anche, ma un po’ tutti i politici dell'antichità si comportavano come lui. Abile come loro nel cercare quinte colonne per i propri scopi, nell'opprimere utilizzando gli oppressi stessi. La purezza della razza o la lotta di classe: un'unica ragione, una sola, per giustificare una certa linea politica: come allora la gloria dell’Egitto.. o Mosè muove da un senso della giustizia abissalmente lontana da quella da cui muove il Faraone: secondo Mosè la politica non può autogiustificarsi, ma deve avere a monte qualcosa che, trascendendola, la giustifica; un ragionamento del genere è totalmente estraneo alla logica del Faraone. Due mondi che non hanno punti di contatto; i valori politici di Mosè sono totalmente alternativi rispetto a quelli del Faraone, perché secondo Mosè esiste un legame molto stretto fra "conoscenza di Dio" e "giustizia", legame che lo schema del Faraone ignora del tutto. Quelli difesi da Mosè a favore degli oppressi del suo tempo sono quelli che (mutatis mutandis) noi oggi chiamiamo i diritti naturali (alla vita, alla sopravvivenza, alla dignità personale, all'esercizio di un proprio culto, ecc.): diritti legati al fatto puro e semplice di essere uomini, e che quindi lo Stato non fonda, ma riconosce. II Faraone non riconosce diritti naturali di sorta, perché ha deciso di ignorare quel Dio che è il loro unico garante. In nome di questo ordine di diritti Mosè rivendica a favore del popolo d'Israele la possibilità di esercitare un diritto naturale che ha anche implicazioni politiche: dar corso a quel pellegrinaggio annuale al Sinai che gli Ebrei hanno in uso da tempo, e che ha anche precisi risvolti civili: è la grande festa del reciproco riconoscimento e dell'incoraggiamento a rimanere uniti. Questo solo coglie il Faraone, ne è preoccupato, vi si oppone fino a negare l'elementare diritto che è in giuoco. Oggi? o Oggi Mosè in nome di Dio rivendicherebbe come allora un "modello" di società ove il potere e la produzione non siano degli assoluti, ma si compongano con i diritti primari alla sopravvivenza, alla libertà di pensiero, alla libertà di espressione e di culto. o Oggi Mosè avrebbe qualcosa di radicale da contestare non solo agli Ayatollah dell'Iran, ma anche al taylorismo capitalista e all'idolatria del mercato. Mosè vede fallire il suo tentativo e ne rimane interiormente abbattuto. JHWH interviene, ma non in chiave consolatoria, non per attenuare la pesantezza della sconfitta, ma per rivendicare a sé il futuro. Presto il Faraone dovrà pagare un prezzo altissimo per la sua protervia: le "dieci piaghe d'Egitto" gli dimostreranno quanto sia limitato il suo presunto potere sulla natura e lo indurranno a prendere atto di quanto sia assurda l’altra sua pretesa, quella di poter esercitare un analogo potere sugli uomini. 3.4JHWH e i poveri: dalla parte della vittima, ma salvando anche il carnefice David, re santo, adultero e omicida: una storia assolutamente fondamentale250. Il II libro di Samuele 251, dopo aver dedicato ben 10 capitoli all’irresistibile ascesa di David al trono e alle sue straordinarie imprese, nel capitolo 11 racconta in termini sobri ma incisivi uno dei reati più odiosi di tutta la Bibbia. Durante una campagna militare il Re David, che è dovuto rimanere a Gerusalemme, nel tardo pomeriggio di un giorno di gran caldo s’affaccia da un terrazzo della sua reggia sul balcone di una casa vicina, dove una donna bellissima si sta lavando; è Betsabea, la moglie di uno dei suoi più valorosi ufficiali, Uria l'Hittita; Uria è al fronte. La carne è debole, anche 250 251 J. L. SKA, La nefandezza di David e la parabola di Natan, o.c.., 17 - 18 2 Sam 11 64 quella dei Santi Re. Fuori di testa, David fa venire la donna a palazzo per qualche giorno. Betsabea rimane incinta. Per coprire la sua colpa, David comanda a Uria di tornare a casa dal fronte e fa di tutto per indurlo a passare la notte con sua moglie; ma Uria rifiuta, in nome di un antico codice d'onore militare, che vietava ai soldati di avere relazioni sessuali durante le campagne di guerra. David fa festa con lui, e lo fa ubriacare, ancora con quella segreta speranza; ma, per quanto ubriaco, Uria tiene fede al suo codice d’onore. A David, fallita la gherminella, non resta che salutare Uria che torna al fronte; ma nel salutarlo gli consegna una missiva sigillata indirizzata la capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Gioab, al quale chiede di assegnare ad Uria un posto pericoloso durante i combattimenti che infuriano intorno alla città che Israele sta assediando. E accade quello che "il santo Re" aveva previsto: Uria viene ucciso. Tout va bien. Funerali di stato. Il silenzio d’ordinanza, e tutto si chiude. Nel migliore dei modi: in regime di conclamata poligamia David può tranquillamente sposare Betsabea. Il racconto biblico non insiste sull'adulterio come tale, un po’ come fa Alessandro Manzoni con la relazione che Suor Virginia de Leyva, la Monaca di Monza, istaurò con Egidio Osio; i narratori seri ignorano le atmosfere pruriginose, sanno che prima o poi verrà il cineasta di turno aed entrerà nel dettaglio; Manzoni si concentra sul prima , l’autore del II libro di Samuele sul dopo, sul freddo cinismo col quale il "santo Re David" pianifica come trarsi d'impaccio, poi decide che se qualcuno deve morire, muoia pure. Tutto a posto. Nessun indizio. Ma. Inatteso e sgradito, il profeta Natan252. Ma. Ma il Signore mandò il profeta Natan da Davide. Natan andò e gli disse: In una città vivevano due uomini, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva pecore e buoi in quantità. Il povero aveva soltanto una pecorella che aveva comprato e allevato con cura. La pecorella era cresciuta in casa insieme con lui e con i suoi figli. Egli le dava bocconi del suo pane, la faceva bere alla sua tazza, la teneva a dormire accanto a sé. Per lui era come una figlia. Un giorno, un ospite di passaggio giunse in casa dell’uomo ricco. Per preparargli il pranzo egli si guardò bene dal prendere una delle sue pecore o dei suoi buoi. Portò via la pecorella del povero e la cucinò per l’ospite. David andò su tutte le furie contro quell'uomo: "Giuro per il Signore, - disse a Natan - che quell'uomo meriterebbe la morte. Ha agito senza alcuna pietà: pagherà quattro volte tanto la pecora che ha rubato”. "Quell’uomo sei tu” gli disse Natan. E aggiunse: "Ascolta quel che ti dice il Signore Dio d'Israele. Io ti ho consacrato re d'Israele e ti ho liberato dagli attacchi di Saul. Anzi, ho sottomesso a tè la sua famiglia; ho messo nelle tue broccia le sue donne. Ti ho fatto diventare capo del popolo d'Israele e di Giuda. Se ciò non ti bastasse potrei darti altro ancora. Perché hai disprezzato il Signore e hai fatto il male? Tu hai fatto morire in battaglia Uria l’Ittita. Per prenderti in moglie la sua sposa, hai agito in modo che Uria fosse ucciso dagli Ammoniti. Poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la sposa di Uria l’Ittita, la tua famiglia sarà per sempre colpita da morti violente”218. JHWH VENDICA L'OPPRESSO. A tema c'è la vendetta operata da JHWH a vantaggio di una delle figure di povero più frequenti fra i poveri non solo dall’Antico Testamento, ma di tutte le culture antiche: la figura del subalterno schiacciato da chi ha il potere di disporre della sua vita. Uria sembra spacciato non solo fisicamente ma anche moralmente, con la beffa delle onoranze funebri che hanno mascherato il delitto perfetto. A questo punto JHWH si erge a sua difesa. E questo già di per sé rappresenta un'anomalia. Si pensi allo stato confusionale nel quale piomba l'Azeccagarbugli de I promessi sposi quando si rende conto di chi è quel Renzo Tramaglino che gli siede dinanzi per avere da lui un parere legale: è NIENTEMENO! un poveraccio che presume di impedire al ricco di metterlo sotto i piedi. NIENTEMENO. Mio Dio, non c’è più 252 ibid 12 65 religione!! E parte -secco, inconsueto- l’ordine per la cucina: “Restituite subito a questo giovane i polli che ha portato!!”. NIENTEMENO. L’avvocato si asciuga la fronte. Di casi come questo ne sono accaduti a milioni, nel corso della storia: era la norma. Lo è stata per millenni. E la religione spesso ha tenuto il sacco. Le religioni antiche il più delle volte non solo non prendevano le difese del povero, ma prestavano copertura ideologica a tutte le prevaricazioni e i capricci del ricco. Non di rado lo hanno fatto anche i Cristiani. JHWH SALVA IL CARNEFICE. Il castigo del delitto è esemplare, e tuttavia segue un iter del tutto inconsueto. Il profeta, per arrivare dove vuole arrivare, utilizza una parabola anonima, ma così ricca di tensione morale da impegnare David a prendere posizione quando ancora non sospetta che Natan sta parlando di lui Si sarebbe tentati di pensare che la scelta della parabola serva sostanzialmente ad evitare guai a Natan; se infatti avesse accusato frontalmente David, egli avrebbe certamente potuto giustiziarlo seduta stante, per lesa maestà (la legge glielo permetteva), o avrebbe potuto comunque zittirlo con le cattive maniere. Si sarebbe tentati di ridurre la strada scelta dal profeta ad un semplice tranello, teso solo a portare David all’autocondanna. Nemmeno questa è la verità. La verità è che siamo di fronte ad una dimensione del tutto originale: lo scopo dell'intervento del profeta non è tanto quello di denunciare il misfatto e di punire il colpevole, quanto piuttosto quello di portare David ad una presa di coscienza dell'enormità di quello che ha fatto. Il carattere anonimo della parabola porta la discussione su un piano puramente teorico, e grazie a questo ripristina in David la capacità di "giudicare" in modo sereno e oggettivo. David ritrova se stesso e coglie i tratti enormi del proprio misfatto quando ancora non si rende conto che proprio di esso si sta parlando. In questa prospettiva si capisce anche perché Natan abbia accentuato nel cuore del suo raccontino il contrasto fra ricco e povero e le cure del povero per la sua pecora: David, che era stato pastore, sapeva bene cosa significasse una pecora per chi possedeva soltanto quella. Quando, abilmente attizzata da Natan, la capacità di indignazione di David ha raggiunto il giusto punto di rosolatura, il santo Re, ad onta dell’immane porcheria che ha combinato, reagisce sdegnato ed emette la sentenza di morte. Solo in quel momento il profeta dà un volto ai protagonisti della parabola anonima e rivela a David d'aver condannato se stesso: Quell’uomo sei tu!253 La scena è finalmente piena dell'unico vero protagonista: JHWH vindice, il "mandante" di quella operazione che Natan ha condotto tanto abilmente a nome suo: Così dice il Signore254 Il processo, forte del ricordo dei favori accordati a David255, decolla. "Stringe" l’accusa: Hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi, hai colpito di spada Uria l’Hittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti256. La sentenza: La spada non si allontanerà mai dalla tua casa257, con tutte le dovute aggravanti: Prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle ad un tuo parente stretto, che si unirà loro alla luce di questo sole: tu l’hai fatto in segreto, ma io farò sì che avvenga davanti a tutto Israele e alla luce del sole258. 253 ibid 12, 7 II Sam, 12, 11 255 Io ti ho unto re di’Israele, io ti ho liberato dalle mani di Saul, io ti ho dato la casa del tuo parone, io ti ho messo tra le braccia le donne del tuo padrone, io ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda, e, qe qusto fossew troppo poco,io vi avrei aggiunto anche altro: ibid, 7 s 256 ibid 9 257 ibid 10 258 ibid 11 s ; la predizione si verificherà puntualmente quando il figlio prediletto di David, Assalonne, si ribellerà contro di lui e -in segno di estremo disprezzo- si unirà alle sue donne, dopo aver ucciso il fratellastro Ammon, reo di aver violentato sua sorella Tamar. 254 66 JHWH SALVA L’OPPRESSORE. Accanto all’anomalia che abbiamo sottolineato, ne emerge un'altra, ancora più... anomala: la vendetta dell'oppresso comporta la salvezza l'oppressore. David si pente del suo peccato e compone uno dei salmi più belli, il salmo 50 (51 secondo un’altra numerazione), quel Miserere che, musicato migliaia di volte da musicisti di tutti i tempi, a Gubbio da almeno otto secoli viene ancora cantato per le strade, in quaresima, di notte, a due voci semplici e accorate. Le disgrazie che gli sono state predette cominciano con la morte del figlio adulterino, che David tenta di scongiurare con digiuni e penitenze, che si concludono con il suo reingresso nel etmpio; poi Betsabea ha un secondo figlio, Natan ricompare e gli dà un soprannome, Iedidìa, che vuol dire “amato dal Signore”; il bambino rimarrà nella storia con il nome di Salomone. Quel Dio che tra i numerosi e vigorosi figli di Jesse aveva scelto David perché era il più piccolo259, lo reintegra totalmente nelle sue funzioni regali solo perché è un uomo secondo il suo cuore260, il cuore di un Dio che salva la gente umile, mentre abbassa la vista dei superbi261; la santità nojn risiede innanzitutto nella purezza o coerenza morale, bensì nell’umile accoglienza della grazia, che l’Alleanza garantisce “per sempre”262 3.4 JHWH e i poveri: dalla parte dell’oppresso anche quando tutto è contro di lui In seguito avvenne il seguente episodio263: Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab, re di Samaria. Acab disse a Nabot: Cedimi la tua vigna; siccome è vicina alla mia casa, ne farei un orto. In cambio ti darò una vigna migliore oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale». Nabot rispose ad Acab: Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri. Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato: Non ti cederò l'eredità dei miei padri. Si coricò sul letto, si girò verso la parete e non volle mangiare. Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: Perché mai il tuo spirito è tanto amareggiato e perché non vuoi mangiare?. Le rispose: Perché ho detto a Nabot di Izreèl: cedimi la tua vigna per denaro o, se preferisci, te la cambierò con un’altra vigna ed egli mi ha risposto: Non cederò la mia vigna!. Allora sua moglie Gezabele gli disse: Sei o non sei tu che ora eserciti l’autorità regate su Israele? E allora alzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Tè la darò io la vigna di Nabot di Izreèl!. Essa scrisse lettere a nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai capi, che abitavano nella città di Nabot. Nelle lettere scrisse: Bandite un digiuno e fate sedere Nabot in prima fila tra il popolo. Di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui, i quali l'accusino: Hai maledetto Dio e il re! Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia. Gli uomini della città di Nabot, gli anziani e i capi che abitavano nella sua città, fecero come aveva ordinato loro Gezabele, ossia come era scritto nelle lettere che aveva loro spedite. Bandirono il digiuno e fecero sedere Nabot in prima fila tra il popolo. Vennero due uomini iniqui, che si sedettero di fronte a lui. Costoro accusarono Nabot davanti al popolo affermando: Nabot ha maledetto Dio e il re. Nabot fu portato fuori della città e ucciso a sassate. Poi mandarono a dire a Gezabele: Nabot è morto, ucciso a colpi di pietra. Appena ricevette questa notizia, Gezabele disse al re Acab: Puoi andare a prendere possesso della vigna che Nabot si rifiutava di cederti: ormai lui è morto!. A queste parole, Acab si alzò e andò a impadronirsi della vigna di Nabot. Allora il Signore disse a Elia di Tisbe: Va’ dal re d'Israele; lo troverai nella vigna di Nabot, della quale è andato a prendere possesso. Riferiscigli queste parole da parte mia: Tu hai 259 1 Sam 16, 11 1 Sam 13, 14 261 2 Sam 22, 28; 1 Sam 2, 3-9 262 cfr Sintesi teologica, in A LANFRANCHI, 1-2 Samuele, in La BIBBIA …., o.c., 679 263 1 Re 21, 1-24 260 67 ucciso un uomo e ora vuoi impadronirti dei suoi beni?, e poi aggiungi: i cani leccheranno il tuo sangue nello stesso posto dove hanno leccato quello di Nabot. Quando il re Acab vide Elia, gli disse: Sei riuscito a trovarmi, mio nemico? Sì, ti ho trovato, rispose Elia - perché tu non fai altro che andar contro la volontà del Signore. Perciò egli ti manda a dire: manderò la rovina sulla tua famiglia; eliminerò ogni maschio della tua famiglia, dal primo all’ultimo, in tutto Israele; farò fare alla tua dinastia la fine di quella di Geroboamo, figlio di Nebat, e di quella di Baasa, figlio di Achia, perché tu mi hai esasperato e hai spinto il popolo d’Israele nel peccato! Il Signore ha anche parlato di Gezabele aggiunse Elia - : il suo corpo sarà divorato dai cani nella città di Izreèl. Acab, - concluse Elia - tutti quelli della tua famiglia che morranno in città saranno sbranati dai cani quelli che morranno in campagna li mangeranno gli uccelli rapaci. IL CONTESTO264. Se Davide si era impadronito della moglie altrui, Acab s'impadronisce del campo altrui: due dei reati più comuni tra i potenti dell'epoca. Protagonista Acab, re d'Israele. Abbiamo già più volte accennato al fatto che, dopo la morte di Salomone, dieci tribù del Nord, sotto la guida dell’intraprendente Geroboamo, avevano dato vita ad una loro aggregazione politica, il Regno d’Israele, con capitale Samaria/Efraim/Sichem, separato dal Regno del Sud o Regno di Giuda, ereditato dall’imbelle figlio di Salomone, Roboamo, con capitale Gerusalemme. Il Regno del Nord è spesso presentato in maniera piuttosto negativa; non per nulla i libri della Bibbia che ne raccontano la vicenda sono stati redatti per lo più a Gerusalemme. Ciò premesso, l’uomo che agisce nel brano che abbiamo riportato è Acab, esponente di quella che è stata forse la più potente dinastia di tutta la storia ebraica, la casa di Omri265 visto che anche fonti documentarie di provenienza assira la menzionano; e per lungo tempo i re d'Israele furono a lungo chiamati "re della casa di Omri", anche quando non appartenevano a quella famiglia. Omri (885-874 a. C. circa) è il primo re d'Israele; fu Omri che decise di costruire una nuova capitale, Samaria266, un centro economico, commerciale e culturale più importante di Gerusalemme, in posizione strategica, e al centro di una regione abbastanza fertile. Il figlio di Omri, Acab (874-853 a. C. circa) è menzionato anche lui in un documento assiro, come colui che nell'854/853 a. C. partecipò con 2.000 carri e 10.000 uomini alla battaglia di Qarqar, nella quale probabilmente guidò la coalizione di piccoli regni che riuscì (per la prima e unica volta) a fermare Salmanassar III (859-824), arginando momentaneamente l'espansione assira verso il Mediterraneo: una battaglia della quale la Bibbia non parla affatto. Con Omri prima e con Acab poi si sviluppò molto nel Regno d'Israele il commercio, in particolare con la Fenicia: non a caso Acab scelse come sposa una principessa, figlia del re di Sidone267, Gezabele. Ma con il commercio crebbe anche l'influsso culturale e religioso della Fenicia, radicali quanto prevedibili i cambiamenti: la struttura tribale tradizionale, basata sulla proprietà terriera, si sfilacciò rapidamente a vantaggio di una struttura sociale di tipo classista ("capitalista"), basata sul danaro; il potere economico/politico passò dalle mani degli agricoltori e dei pastori a quelle dei commercianti. In questo contesto di prevaricazione del denaro il re affidò la sua autorità non più ad un esercito di leva popolare, ma ad un esercito di mestiere; per mantenerlo fu necessario imporre tasse crescenti; il divario fra ricchi e poveri prese a crescere rapidamente. La storia di Nabot si colloca in questo contesto. Siamo di fronte ad una costruzione letterariamente pregevole, organizzata in quadri successivi, che si connettono l'uno all'altro e danno un gran ritmo alla vicenda. Ad un certo punto quel ritmo sembra placarsi, perché tutto sembra andare come voleva il Potere, che si appresta a celebrare la sua 264 J. L. SKA, La vigna di Nabot, o.c.,19-20 1 Re 16, 23-28 266 1 Re 16, 24 267 1 Re 16, 31 265 68 ennesima vittoria. Ma irrompe il profeta, tutto ritorna in giuoco, l'esito finale è diametralmente opposto a quello che al Potere sembrava lecito aspettarsi. Il tono del racconto si fa sobrio, oggettivo, quasi freddo e indifferente: niente emozioni in chi legge, niente sdegno nel narratore. I CONTENUTI. JHWH vendica l'oppresso anche quando l'oppressore è un esponente di quei latifondisti ingordi che, in nome delle superiori ragioni del mercato, aggiungono casa a casa e uniscono campo a campo, finché non vi sia più spazio e così restino soli ad abitare in mezzo al paese268. Acab ha dalla sua la necessità che gli "economisti" del suo tempo propugnano: bisogna accorpare le proprietà per reggere la concorrenza; in questo Acab rappresenta un tipo di mentalità che per gli Ebrei è nuova: bando alle remore a che la terra venga venduta e comprata. La rapida mutazione socio/culturale ha reso ormai obsoleti i vecchi diritti e la tradizionale mentalità. Bisogna vivere all’altezza dei tempi! E invece JHWH non ha alcuna voglia di “vivere all’altezza dei tempi”. JHWH non permette che la vita del suo popolo sia regolata da un'istanza di questo genere, per quanto essa sia ormai vincente. JHWH vendica l'oppresso anche quando egli non è all'altezza dei suoi tempi, quando culturalmente è "un imbranato"; e Nabot lo è; dalla risposta che dà alla pretesa del re si deduce chiaramente che egli è un sopravvissuto, un uomo di vecchio stampo, uno che pateticamente coltiva intatti i valori di una volta; uno che o ha vivissimo il senso dell'appartenenza familiare; o sente il dovere religioso di mantenere intatto il patrimonio che i suoi avi gli hanno lasciato. È pur vero che egli viene calunniato, visto che nella frase che Acab, deluso, ripete a se stesso e ha Nabot come protagonista non compare il secondo di questi valori nostalgici, e nella frase con cui ne da notizia alla moglie è sparito anche il primo: Ma anche indipendentemente dalle sottolineature negative che Acab gli riserva, è fuori di dubbio che Nabot è un cocciuto insensato, un rudere, uno che, in un contesto di vivace espansione economica, continua a considerare inalienabile la proprietà terriera perché lìsopra ci è vissuto il babbo, e pirma ancora il nonno, e prima ancora… Dio grande e buono, come si fa a professare tesi del genere, a considerare oggi (NB: oggi!!) sacrilega anche solo l'ipotesi di quello scambio sul quale si basa la fortissima ripresa economica in atto in tutta la regione!? Ma il diritto di un imbranato non è meno diritto di quello di un manager dai neuroni voraci. E profeta non si allinea. Il profeta, sia sul piano religioso, come rappresentante di JHWH, sia sul piano sociale, come vindice del povero, prende le difese del suo diritto a pensarla come ritiene giusto. Gezabele, la donna venuta dalla Fenicia, è agli antipodi rispetto a Nabot. Ha le idee chiare e riconosce solo un diritto, quello "positivo", quello determinato dalle leggi del re, al quale spetta il monopolio della forza. Sei o non sei il re? Non esiste nulla al di sopra del re. Sulla base di questa convinzione organizza l'esecuzione di Nabot: fa indire il digiuno teso a placare JHWH, nel caso che si fosse verificato qualche grande peccato pubblico269; arruola falsi testimoni per organizzare un'accusa capitale contro Nabot ("Ha insultato Dio e il re"); segue passo passo la realizzazione del suo piano diabolico, fino a quando un suo uomo di fiducia le riferisce che "tutto è a posto". Gezabele crede d'aver fatto trionfare l'unica "legge" che riconosce, quella del più forte, quella di Acab. Ma il narratore non la pensa così: quell'Acab che per Gezabele è la fonte unica del diritto, agli occhi di JHWH Acab è solo un assassino e un ladro270 e di fronte alla storia è uno che si è venduto271 alla 268 Is. 5, 8 269 cfr. G. CORTI, 1-2 Re, in La Bibbia, Piemme 1995, 737 s. 21, 19: il fatto che l'assassinio venga citato per primo stabilisce una precisa gerarchia di gravità. 271 21, 20 270 69 nuova mentalità importata da fuori, uno che si è lasciato "istigare"272 da una donna straniera, prepotente e ingiusta, oltre che arrogante e antipatica. Di qui non si passa. Il diritto del povero non può essere violato impunemente. 272 21, 25 70 Parte IV IV LA PRASSI SOLIDARISTA SOLIDARISTA nel VECCHIO TESTAMENTO 4. POVERI E POVERTÀ NELLA PRASSI DEL VECCHIO TESTAMENTO La Bibbia non si limita a radicalizzare progressivamente l'imperativo categorico della solidarietà, ma ne propone applicazioni di grande interesse, ai vari livelli della vita associata: nella famiglia, nell'ambito istituzionale, nell'ambito lavorativo, nel rapporto coi fuori casta273. Parliamo di "applicazioni" perché nel mondo biblico (come oggi in tanta parte dell'Islam) anche lo Stato nasce dall'istanza religiosa; anche "popolo" nella Bibbia è una categoria d'impianto religioso, 273 B. MAGGIONI, Radici e figure bibliche della solidarietà, AA.VV. La solidarietà. Vita e Pensiero 1990,41-5 71 alla sua radice non c'è nessun patto sociale alla Hume o alla Rousseau; alla sua radice c'è solo l'Alleanza; di conseguenza anche la solidarietà che lo compatta è intesa come un tradursi della solidarietà di Dio in termini di strutture umane. 4.1 La famiglia, luogo primario della solidarietà Le forme nelle quali la famiglia s'è strutturata, lungo l'arco dei molti secoli occorsi per "scrivere la Bibbia", sono molte e molto diverse fra loro. Ma il nucleo ispiratore è rimasto sempre lo stesso: la famiglia nella Bibbia è per eccellenza il luogo della solidarietà dialogica e feconda che, centrandosi sulla coppia come alleanza definitiva fra un uomo e una donna, per cerchi concentrici si estende al proprio esterno coinvolgendo soprattutto i poveri. La famiglia proposta dalla Bibbia è IL "luogo della solidarietà"; Gesù rimpiange che essa si sia deteriorata col tempo e proprio per recuperarne. la primitiva purezza dichiara indissolubile il matrimonio274. Recuperare la famiglia vuoi dire recuperare quell'irrepetibile incontro interpersonale che l'ha originata, nel momento in cui Adamo ha esclamato di fronte a Eva che vedeva per la prima volta: Questa volta sì che essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa!275, come dire: finalmente una persona come me!; recuperare l'impegnativa prospettiva originaria, quella di un'assunzione di responsabilità che abbraccia la storia intera: Crescete e moltiplicatevi : CIOÈ governate la terra276. Quel CIOÈ è di fondamentale importanza. Di nuovo una congiunzione copulativa ("e") di valore epesegetico, con valore - appunto - di "cioè". Governare la terra, cioè tornare ogni giorno a creare e ri/creare un mondo degno del disegno di Dio, è compito primario che definisce la fisionomia della famiglia così come la Bibbia la propone. Al punto da imporci la domanda: ma chi ci ha convinto a soprannominare "cristiane" quelle "famiglie" borghesi che tanto spesso sono solo una micragnosa aggregazione di piccoli egoismi? INCONTRO INTERPERSONALE La Genesi nei suoi due primi capitoli propone non una sola volta, ma due volte, e con ton notevolmente diversi, il racconto della creazione. Uno dei due racconti lo si usa chiamare jahwista, l'altro lo si usa chiamare sacerdotale. Ebbene, secondo ambedue i racconti, la famiglia ha due connotati essenziali: è un fenomeno dialogico; è un fenomeno strutturalmente aperto verso l'esterno. Dietro la creazione c'è uno splendido disegno di JHWH, di taglio radicalmente solidarista. Il serpente fa di tutto per metterlo in dubbio, e convincere Adamo ed Eva che si tratta solo di una stessa277 gherminella con la quale JHWH tenta di puntellare la sua traballante superiorità. Per questo la forma tipica della famiglia, sia nel primo che nel secondo racconto, è l’alleanza: non un patto di piccolo cabotaggio, ma l'altra faccia dell'alleanza con Jahwè: un diventare una sola carne278 che non può ridursi ad un rendere lecito dopo quello che non era lecito prima, ma che dall'assoluto della obbedienza al disegno di Jahwè assume il suo vero spessore. L'obbedienza a Jahwè conferisce alla famiglia quel crisma d'interpersonalità e di dialogicità che le è assolutamente essenziale nella concezione biblica del mondo. In verità JHWH, che ha creato gli uomini perché vivessero in totale sintonia tra di loro e in totale sintonia con Lui, ha fissato due termini a difesa di quel disegno: 274 Mc 10, 11-l2 Gn 2, 23 276 Gn 1, 28 277 Gn 3, 1-5 275 278 Gn 2, 24 72 il "dono di sé" a difesa della solidarietà Dio-uomo; il "rapporto dialogico" a difesa della prima di tutte le solidarietà, quella uomo-donna. Nell'ambito di questa tesi comune a tutt'e due i racconti, il racconto jahwista sottolinea da diverse angolazioni279 l'interpersonalità, il racconto sacerdotale invece sottolinea la dialogicità: due diverse dimensioni che si iscrivono talmente nella natura stessa dell'uomo che ridurle ad un precetto di taglio giuridico equivarrebbe a stravolgerne il senso. Il racconto jahwista ribadisce che o fondamento dell'autentica umanità è la qualità del rapporto personale che JHWH intende instaurare con l'uomo, totalmente libero e reciprocamente responsabile; o in questo progetto di umanità autentica s'inserisce anche la famiglia, che può contare anch'essa su di un rapporto sereno e solidale fra le persone che la compongono, a patto che i suoi componenti la custodiscano dalla passionalità disordinata280 dalla voglia di sopraffazione281. Sulla linea della dialogicità il racconto sacerdotale propone a chiare note e in due distinti luoghi282 un "sottile giuoco" di brusca alternanza fra singolare e plurale (..a sua immagine LO creò, maschio e femmina LI creò): è un particolarissimo linguaggio, etico e poetico al tempo stesso, che vuole affermare contemporaneamente la distinzione e l’unità, i due elementi essenziali di ogni autentica solidarietà:… non è facile immaginare un modo più limpido e incisivo per dire che la struttura dell'uomo è dialogo e solidarietà, un uscire da sé per stringere un patto. L'uomo è dialogico alle sue sorgenti283 . RESPONSABILTÀ SOCIALE CONDIVISA I processi interni alla coppia non sono fine a se stessi, ma sono in funzione di un servizio che va reso dalla coppia fuori della coppia. La famiglia biblica nasce e funziona come famiglia strutturalmente “aperta”. Quel grande respiro di fondo che ritma i racconti del Genesi fa della famiglia biblica il centro d'una struttura complessa, disposta a centri concentrici. II primo di questi cerchi è espresso dal comandamento Onora il padre e la madre284: secondo il commento del Siracide285, questo IV comandamento non mira a scoraggiare le disobbedienze dei bambini, ma si configura come un imperativo rivolto agli adulti perché sappiano riconoscere valore pieno alla vita degli anziani non autosufficienti e se ne facciano carico. Ma questo è solo286 il primo dei cerchi concentrici. Molti altri ne appaiono. In uno dei cerchi successivi si collocano anche gli emarginati, che contribuiscono a definire la figura portante della famiglia, il padre: nella Bibbia la figura del padre trova i suoi tratti caratteristici non solo nel bene che vuole ai suoi figli, ma anche nella capacità di sentire come figli propri gli emarginati, quelli che nessuno vuole 287. La famiglia/rifugio contro le durezze della vita, la famiglia/nido, hortus conclusus, giardinetto riservato, recintato, protetto, esclusivo, è sconosciuta alla Bibbia. Nella Bibbia anche un rito a base o o 279 vedi i vv. l8, 23, 24 del cap.2 Gn 3,7 281 Gn 3, 16 Gn. 1, 27 e 5, 1-2 282 Gn 1, 27 e 5, 1-2 283 B. MAGGIONI, o.c., 43 284 Es 20. 12; Deut 5, 16 285 Sir 3, 1-16 286 cfr G.RAVASI, Secondo Le Scritture, anno B, Piemme 1996 81 B 287 così in Giobbe (cfr. 29,16). "Io ero un padre per gli orfani"; e nel Siracide (cfr .4, IO): Sii come un padre per gli orfani e come un marito per la loro madre. 280 73 strettamente familiare, come l'offerta delle primizie, prevede come obbligatoria la presenza d'uno straniero288. Al culmine di questa concezione "aperta della famiglia" la drastica relativizzazione che della famiglia opera Gesù, quando gli dicono che lì, appena fuori della casa nella quale sta facendo catechesi, c’è la sua famiglia, e lui afferma: la mia famiglia vera sono tutti coloro che fanno la volontà di Dio289. Gesù ancora una volta non inventa nulla, ma radicalizza un solidarismo che ha una gittata secolare. 4.2 La solidarietà nell'ambito istituzionale La legislazione biblica veterotestamentaria muove dall'assunto fondamentale che JHWH ha preso il povero sotto la sua protezione; questo vuoi dire che -in negativo- a nessuno è permesso di calpestare il diritto del povero290 e che -in positivo- ciascuno è impegnato ad aprire con larghezza la mano al fratello povero e oppresso291; anche nella legge sui sacrifici, a che tutti possano offrirli degnamente, vanno tenute in considerazione le scarse possibilità economiche dei poveri292. 4.2.1 La solidarietà nell'ambito istituzionale: la difesa del povero Nell’antico Medio Oriente293 la povertà in genere era molto diffusa, e i poveri erano tali al livello al quale oggi lo sono gli 800 milioni di persone che nel mondo rischiano a ogni pie’ sospinto la morte per fame. Faceva eccezione il mondo dei nomadi, al cui interno non era possibile una marcata differenza fra ricchi e poveri, in quanto anche a livello economico l’interdipendenza fra famiglia e clan era forte e inevitabile e la conduzione del gregge comportava una quota consistenze di proprietà comune. Ma mentre le mondo greco i poveri erano sostanzialmente indifesi, e si pensava a loro (quando ci si pensava) come a dei soggetti abbandonati da Dio, e l’elemosina è collegata alla nobiltà d’animo del singolo, ma non ha nessuna valenza morale, nella Mesopotamia e in Egitto le cose stavano ben diversamente. Certo, non troviamo in quelle culture traccia di giustizia sociale, e nemmeno reazioni di sorta contro il fatto che la ricchezza fosse concentrata tutta nelle mani del re, ma al povero si riconosceva il diritto che il ricco non si approfittasse di lui, soprattutto corrompendo i giudici nei processi; e questo è già nel Codice di Hammurabi, che promulga le sue leggi affinché (tra l’altro) “il forte non opprima il debole”. In Egitto la cosiddetta “Istruzione di Merikare“ sorta il re a non discriminare il povero quando si tratta di assumere qualcuno per un incarico pubblico.; e la cosiddetta “Sapienza di Amenhopte” afferma che “è meglio la povertà nelle mani di Dio che la ricchezza in un deposito”, ed ammonisce il ricco a non essere avido del poco di cui dispone il povero. In questo contesto si inserisce la legislazione sociale veterotestamentaria; e ce n’era varamente bisogno, da quando, diventato un popolo stanziale, Israele aveva assistito al moltiplicarsi della ricchezza di pochi a detrimento della miseria di molti. Nell’Esodo il “Codice dell’Alleanza”, la più antica raccolta di leggi d’Israele, contiene precise disposizioni a difesa del povero: Il periodo di schiavizzazione debitore che s’è venduto come schiavo, per saldare il suo debito, non può superare i sei anni294. Nell’anno sabbatico i campi vanno lasciati incolti anche al fine di permettere al povero di nutrirsi di quello che spontaneamente vi 288 Deut 26, 1-11: Gioirai con il levita e il forestiero che sarà accanto a tè, per tutto il bene che il Signore tuo Dio avrà dato a te e alla tua famiglia 289 Mc 3, 31-35 290 Es 23, 6 291 Dt 15, 11 292 Lv 1, 14-17; 12, 8; 14, 21; 27, 8 293 cfr. JOHN L. MC KENZIE, Povero, povertà in Dizionario Biblico, Cittadella, 1975, 753 -756 294 Es 21, 2 74 cresce295. I giudici non possono né disattendere né minimizzare il diritti riconosciuti al povero296. Tra i titoli che convengono a JHWH c’è quello di “vendicatore dei poveri”297. Nel libro del Deuteronomio298 tutto questo trova la sua versione in positivo: ci si interessa di chi è bisognoso d'aiuto: vedove e orfani, forestieri, poveri. Dalla ricchezza delle articolazioni di questa legislazione si può inferire che in origine il popolo ebraico, dopo l'arrivo a Canaan, non ha praticamente conosciuto la povertà299. Solo ai giudici viene raccomandato che, pur riservando al povero tutta la premura possibile, non faccia preferenze neppure per lui300. Ma con la nascita della monarchia e il formarsi di aggregati urbani relativamente consistenti si affermò quella che oggi chiameremmo una cultura fortemente secolarizzata, un modo d'intendere i rapporti sociali che teneva JHWH fuori campo quando si parlava di potere o di soldi; il processo era già in atto sotto David, ma dilagò soprattutto dopo Salomone; in questo contesto il divario tra ricchi e poveri non solo si fece stridente, ma si tentò di contrabbandarlo come giusto e naturale. Fu allora che contro i ricchi oppressori scesero in campo i profeti, pieni di energia e forti solo del nome del Signore. Amos301 accusa il potere di non riconoscere al povero nessuna fondamentale dignità umana e di esigere le tasse senza traccia di misericordia. Isaia302 maledice coloro che non si accontentano mai dei possedimenti recenti che sono riusciti ad aggiungere ai loro possedimenti antichi; denuncia che troppo spesso il povero viene schiacciato ed esorta i ricchi non solo a non lesinare loro i prestiti, ma anche a largheggiare con le regalie. Per Geremia303 JHWH è per definizione il difensore del povero. Si può ben dire che la solidarietà tra gli uomini e particolarmente nei confronti dei soggetti deboli, in nome dell'alleanza con JHWH, è l'anima della legislazione biblica. 4.2.2 La solidarietà nell'ambito istituzionale: due leggi molto particolari Estremamente interessanti, su questa linea, due leggi apparentemente primitive, che al contrario rimandano ad un'idea di giustizia sorprendentemente moderna. IL CONTESTO304. Le leggi e le istituzioni della società rimandano ad una idea del diritto che è ben diversa dalla nostra; è la stessa idea di diritto che soggiace ai codici legislativi della Mesopotamia, la stessa -con qualche approssimazione - della tradizione anglosassone. Nella nostra storia giuridica, dalle Leggi delle Dodici Tavole fino ai Codici Napoleonici, il diritto fissa innanzitutto delle norme generali che cercano di "coprire" tutti i casi potenzialmente insorgenti, poi si affida ai giudici dei tribunali il compito di applicarle, e si predispone l'irrogazione di un'adeguata sanzione a chi le trasgredisce; è il cosiddetto "diritto apodittico", al quale la Bibbia non a caso - ricorre solo quando formula il Decalogo, attivando il modo imperativo: "Non ucciderai (in nessun caso). Non ruberai (in nessun caso)". I codici legislativi dell'antico Medio Oriente305 e quelli del mondo anglosassone non ignorano questo procedimento, che enuncia un principio generale e alla sua trasgressione collega determinate sanzioni, precise (la pena capitale, la prigione, pene corporali, una multa in danaro o un risarcimento): ma non è questo il loro procedimento normale. 295 Es 23, 10 Es 23, 6 297 Es 22, 21-24 298 cfr. passim; la seconda sezione del cap. 24, vv. 5 - 22, è interamente dedicata alla misure in favore dei poveri. 299 cfr. AA.VV., Enciclopedia illustrata della Bibbia, Piemme 1997, III 132 300 Es. 23, 3; Num.19, 15; 2 Sam. 15, 2-4 301 Am. 2, 7; 4, 1; 5, 11 302 Is. 5, 8; 10, 2 303 Ger. 34, 8 ss. 304 cfr J. L. SKA, Diritto e leggi nell’Antico testamento, o.c., 11-14; il Vecchio Testamento contiene tre diversi codici legislativi: Es. 20-23, Lv. 17-26, Dt. 12-26. 305 Quattro i principali: il Codice di Ur-Nammu (2050 circa a.C.), quello di Eshnunna (1925 circa a.C.), quello di Lipit Ishtar (1830 circa a.C.) e quello famosissimo di Hammurabi (1680 circa a.C.) 296 75 Di norma i codici legislativi dell'antico Medio Oriente e quelli del mondo anglosassone, nessuno sa dire fino in fondo perché, procedono in altro modo: o si concentrano su "casi" particolari, più che sui principi generali; o più che fissare delle regole, vengono forniti degli "esempi"; o non c'è nessuna pretesa di completezza; o spesso non si dice chi deve giudicare; o spesso non si dice quale sanzione si deve imporre a chi infrange la legge. E questo il diritto casistico. Quei codici, in buona sostanza, non si può nemmeno dire che "contengono delle norme": contengono una serie di sentenze deliberate da vari giudici in alcuni casi paradigmatici e ogni giudice successivo che si trova a doversi confrontare con un caso simile è impegnato a giudicare in modo analogo. In altri termini, il diritto casistico è fondamentalmente un diritto consuetudinario, che in quanto tale può permettersi di omettere l'indicazione di chi deve giudicare e di quale sanzione va irrogata al trasgressore perché vige in un contesto in cui tutti sanno chi deve giudicare e la sanzione è automatica; esistono in quella certa società alcune regole di comportamento accettate da tutti perché la pura e semplice appartenenza a quella società richiede l'adozione di certi comportamenti, e chi sgarra viene automaticamente punito da una specie di "giudizio popolare" che scatta, come un riflesso condizionato, sotto forma di "vergogna"; la “vergogna” non è un sentimento, ma una struttura della vita sociale grazie alla quale chi trasgredisce pubblicamente le norme/base della società viene isolato, disprezzato, ostracizzato, escluso dalla comunità. Per una società dove "l'onore" è un valore fondamentale, un tale giudizio ha grande forza. La formula tipica del diritto è a scansione binaria: muove da una congiunzione ipotetica ("se..." o "quando") e arriva subito alle conseguenze di quel "Se". Viste così, quelle leggi sono meno "primitive" di quanto poteva risultare d'acchito. Niente da meravigliarsi, dunque, se esse contengono elementi fortemente stimolanti anche per l'uomo di oggi306. Oggi, dopo Auschwitz e di fronte alle spaventose prospettive aperte dalla manipolazione genetica, il problema della "fondazione del diritto" ha assunto una rilevanza fortissima. Ebbene, il "primitivo" diritto biblico ci offre due indicazioni di fondo di grandissimo rilievo: o in negativo, il diritto non può essere un feticcio; o in positivo, il diritto deve trovare un'istanza di base che, trascendendolo, ne giustifichi il nocciolo duro. Se questa istanza non emerge, il diritto rimane ancora una volta quello che tante volte è stato: la cinica ratificazione della vittoria del più forte. Nessuna relazione fra uomini si può seriamente strutturare su di un fondamento diverso da questa istanza; è questa l'unica base solida dell'obbligo di amministrare equamente la giustizia, o del divieto di appropriarsi della proprietà altrui. La Bibbia ancora una volta ribadisce la natura religioso/morale di quella istanza; o la legge trova il suo senso solo all'interno dell'iniziativa di solidarietà da parte di Dio nei confronti del suo popolo: la legge è legge soltanto "perché Dio solo è Dio"; o di conseguenza la legge è interamente ordinata alla compattezza del popolo e alla difesa del più debole. LA LEGGE DEL MANTELLO DEL POVERO Es. 22, 25-26 Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, devi restituirglielo prima del tramonto del sole, perché il Mantello è la sua unica coperta: come potrebbe altrimenti ripararsi dal freddo mentre dorme? Se egli invocherà aiuto da me io lo ascolterò, perché io sono misericordioso. La formulazione, in quattro punti, tipica del diritto casistico: 1. un "se" apre il "caso" (" Se prendi in pegno l'unico mantello del tuo prossimo"); 306 o.c., 46 76 2. un 'impegno preciso consegue il verificarsi di quel "se" ("glielo renderai al tramonto del sole"); 3. viene dichiarata la motivazione di questo impegno ("perché è la sua coperta, è il mantello per la sua pelle"); 4. per il trasgressore viene comminata una sanzione che propriamente non è una sanzione, ma piuttosto un avvertimento ("altrimenti, quando invocherà il mio aiuto, io ascolterò il suo grido perché io sono pietoso"): è Dio che si fa garante del rispetto della legge. Siamo in pieno diritto consuetudinario, caratterizzato, fra l'altro, da un tasso di approssimazione ben evidente: non si precisa la procedura da seguire se il creditore non rende il mantello la sera, la pena che il suo atto merita si riduce ad un generico, anche se minaccioso, intervento di JHWH. La legge va inquadrata in un contesto sociale nel quale gran parte della popolazione riesce a mala pena a sopravvivere. L'uomo medio ha solo un mantello, che gli serve anche da coperta durante la notte. Di norma nessuna ha un secondo mantello. Per questo il privare qualcuno del suo mantello significa ridurlo alla disperazione. Ebbene, anche in un quadro di miseria così estrema è legittimo che un creditore esiga come pegno dal suo debitore insolvente il mantello, per conservarlo fino al pagamento di tutto il debito. Ma... c'è un "ma" grande come una casa: il creditore non può esercitare questo suo diritto quando quel mantello è l'unico che il suo debitore possiede. Per ragioni umanitarie. Quel poveraccio rischierebbe addirittura di morire nella gelida notte dalla quale è uso ripararsi proprio grazie a quell'unico mantello. È JHWH in persona che si fa carico della necessità di invalidare l'esercizio di quel diritto in questo caso particolare. Traduzione moderna: il Fondo Monetario Internazionale ha il diritto di esigere dai popoli del Terzo Mondo il pagamento dei debiti che hanno contratto con noi popoli del colesterolo, ma quando in oltre una trentina di quei paesi il reddito medio pro capite non arriva ad un dollaro al giorno, e i bambini muoiono come mosche, è Dio stesso, lui che è il garante di tutti i diritti, che lo invalida. LA LEGGE DELL'ASINO E DEL BUE DEL NEMICO Es. 23, 4-5 Se il bue o l'asino del tuo nemico si sono persi e tu li trovi, devi riportarglieli. Se vedi l'asino del tuo nemico cadere sotto il carico, non devi abbandonare il tuo nemico, ma aiutarlo a tirare su la bestia. Formalmente anche questa legge è costruita secondo lo schema casistico, ma semplificato rispetto alla legge del mantello del povero; la formulazione cammina su di un doppio ritmo binario: due "se" ("Se incontrerai un bue o un asino appartenente al tuo nemico"; "Se vedrai l'asino di chi ti odia") seguiti da due obblighi precisi ("glielo riporterai"; "astieniti dall'abbandonarlo"); manca rispetto alla legge precedente la giustificazione ultima del precetto. Anche in ordine ai contenuti siamo ancora in pieno diritto consuetudinario: non si dice ne chi deve intervenire quando qualcuno decide di non riportare l'animale smarrito al suo proprietario, o di non aiutare il suo asino che crepa sotto lo sforzo, ne a quale tribunale deve rivolgersi chi ha subito il torto, ne chi giudicherà in caso di trasgressione, ne qual'è la pena prevista. Anche qui l'unica sanzione atta a ristabilire l'equilibrio violato è l'intervento reattivo di JHWH. Il "nemico" qui non va inteso in chiave militare, non è nemmeno il membro di un'altra tribù, tanto meno il membro di un altro popolo; "nemico" qui è qualcuno che vive vicino, un avversario nei litigi di villaggio, o un avversario in un'aspra contesa che finisce davanti al tribunale, spesso formato dall'assemblea degli anziani del villaggio. Quel tipo di "inimicizia" era però spesso incredibilmente dura e tenace, esistevano faide che dividevano famiglie per generazioni. Anche questa legge va letta in un contesto di pura sopravvivenza simile al precedente. Rubare un asino o un bue sono due delitti talmente gravi da essere diventati paradigmatici; infatti Mosè, accusato di essere troppo duro come guida del popolo, rigetta questa accusa e protesta la propria innocenza gridando di non aver mai sottratto l'asino a qualcuno307. In termini analoghi protesta la sua buona coscienza 307 Num. 16, 15 77 Samuele di fronte agli Israeliti che vogliono farlo fuori dalla sua funzione di Giudice e chiedono un re che lo sostituisca: "A chi ho portato via il bue? a chi ho portato via l'asino? chi ho trattato con prepotenza?"308. L'asino e il bue sono animali assolutamente indispensabili, non solo per il lavoro del coltivatore diretto (l'asino trasporta le merci, il bue ara e trebbia), ma anche per la sua sopravvivenza e, o quanto meno, per il mantenimento della sua condizione di cittadino libero. Una volta privato del suo asino o del suo bue, un piccolo coltivatore diretto, ammesso che riesca a sopravvivere, non può fare altro che abbandonare la sua terra e diventare, lui e tutta la sua famiglia, servo di un grande proprietario: ipotesi che doveva verificarsi piuttosto di frequente. Traduzione moderna: nel "villaggio globale" sempre più spesso il diritto alla proprietà entra in conflitto con il diritto all'esistenza, sempre più spesso si scontrano il diritto sulle cose e il diritto al minimo necessario per sopravvivere. Quando "al tramonto del sole", la vita stessa è in pericolo diventa indilazionabile la restituzione non solo dei beni usurpati al povero, ma anche dei beni che legittimamente egli ha dovuto cedere. IL SUCCO DELLE DUE LEGGI. La legge del mantello del povero e la legge dell'asino e del bue del nemico muovono da una stessa istanza di base: esistono comportamenti del tutto ammissibili in circostanze normali che diventano del tutto inammissibili in circostanze eccezionali. Ogni uomo è tenuto ad abbandonare i suoi atteggiamenti abituali quando qualcosa di superiore lo esige. Di questa istanza di base la legge del mantello del povero costituisce un'esemplificazione vista dalla angolazione dell'accoppiata debitore/creditore: il diritto del creditore sul mantello del debitore insolvente si vanifica se la posta in gioco è una grande sofferenza o addirittura la morte per assideramento; la legge dell'asino e del bue del nemico ripropone la stessa istanza dall'angolazione dell'accoppiata amico/nemico: quando un "nemico" è in pericolo di vita, o quando è a rischio la sua libertà, ogni inimicizia deve essere accantonata; di più: tutti, anche il suo "nemico", sono impegnati ad aiutarlo. 4.2.3 La solidarietà nell'ambito istituzionale: il giubileo Anche questo originalissimo tra gli istituti fondamentali della legislazione ebraica, si colloca nella prospettiva di fondo delle due leggi che abbiamo esaminato. La Bibbia, confermando anche qui (se ancora ce ne fosse bisogno!) la sua strepitosa saggezza, prevede forse il più drastico ridimensionamento delle pretese della proprietà privata che la storia del diritto abbia conosciuto; il feticcio della proprietà privata, la cui spietata arroganza non s'è mai attenuata attraverso i secoli, viene ricondotto ad una misura umana; la proprietà privata delle case, della terra (e anche delle persone che per un verso o per l'altro si sono giocate temporaneamente la propria libertà) è un diritto che non va assolutizzato. Case e campi si possono vendere e comperare, ma solo a titolo di temporaneo utilizzo: il diritto del proprietario a riscattare gli uni e le altre va tutelato, in ogni caso ogni 50 anni esse tornano agli antichi proprietari. Le persone che, per debiti o per altre cause previste dalla legge, hanno perso libertà e proprietà allo scoccare dell'anno giubilare debbono riottenere la libertà e tornare in possesso delle loro antiche proprietà. La terra stessa nell'anno giubilare (e anche nell'anno sabbatico) va lasciata incolta. Due le motivazioni appositamente addotte come base di questa legge: 1. perché sono io il Signore Dio vostro; 2. perché la terra è mia, e voi siete solo residenti e ospiti309. In tempi come i nostri, nei quali riaffiora virulenta la tentazione del liberalismo selvaggio, del mercato che automaticamente genera giustizia, queste parole risultano straordinariamente attuali. Alla radice c'è ancora e sempre Lui, JHWH: 308 309 1 Sam. 12, 3 Lv 25, 17 e 23 78 o la "giustizia dei diritti stabiliti dal costume o dalle regole riconosciute da tutti" non è l'unica, esiste una giustizia superiore, quella voluta da JHWH, quella centrata sui valori fondamentali dell'esistenza; o il fatto che il creditore e il debitore siano ben distinti, uno di fronte all'altro, su posizioni diverse, magari pronti ad azzannarsi, non annulla il fatto che ognuno dei due davanti a JHWH per l'altro è e rimane "prossimo"; o JHWH non interviene a favore del creditore sempre e comunque, ma solo quando sono in giuoco valori fondamentali, "sacri"; o JHWH agisce solo in nome della sua "pietà": perché nel messaggio biblico la misericordia non è il superamento della giustizia, ma la sua pienezza. 4.3 La solidarietà nell'ambito lavorativo II senso e il valore del lavoro umano è anch'esso nella solidarietà tra gli uomini in nome dell'alleanza con JHWH. Prima della torre di Babele gli uomini collaborano tra loro (si capiscono) perché sono in linea con il piano divino. Da quando si ribellano a JHWH e con la torre tentano la scalata al cielo, non riescono più a capirsi e il frutto del loro lavoro si disperde. L'uomo biblico conosce il lavoro in tutta la gamma delle sue espressioni (agricoltura, piccolo artigianato, commercio) e conosce tutte le possibili collocazioni dell'uomo nel mondo del lavoro (piccolo proprietario terriero, artigiano in proprio, piccolo imprenditore, grande imprenditore, lavoratore dipendente, personale supersfruttato: straniero sottopagato, schiavo per debiti, schiavo vero e proprio). E la riflessione sul lavoro si estende lungo tutto il libro sacro. Ma le fonti più autorevoli sono ancora una volta gli splendidi "racconti a tesi" della Genesi, secondo i quali il lavoro è essenziale perché l'uomo è stato messo da JHWH nel mondo per due scopi: • per completare quello che volutamente JHWH ha lasciato incompleto; • per produrre, tramite il lavoro, quanto necessita al proprio sostentamento. Se l'uomo accetta la proposta di JHWH, il lavoro è collaborazione; se invece rifiuta, con la stolta arroganza di chi sopravvaluta enormemente le proprie capacità, se nega la fiducia a JHWH, si ha come una deflagrazione all'interno del concetto stesso di lavoro, che diventa pena e fatica. Il lavoro riesce a non essere alienante solo nella logica del dono. Il lavoro dell'uomo trasforma la terra in un giardino, ma è Dio che ha piantato il giardino e ne garantisce i frutti310: l'apparente contraddizione è in realtà un invito a considerare l'operosità umana solo nel contesto del dono di JHWH. L'imperativo di "dominare la terra"311 ha un senso solo dopo la benedizione, segno del dono di JHWH. Gesù ha recepito questo insegnamento quando ha esortato i suoi a non cedere al demone dell'accumulo, che è esattamente l'opposto della logica del dono312. Tutto questo si concretizza in alcune precise consapevolezze, che sono delle vere e proprie condizioni necessarie per un'esistenza nella solidarietà: o che la terra sulla quale l’uomo esercita il suo dominio non è sua, ma di Dio; o che l’attività umana è feconda unicamente se benedetta da Dio; o che i doni di Dio sono per tutti; o che la terra è PER l'uomo, ma non è il TUTTO dell’uomo313. Se dovessimo estrarre dal discorso biblico delle affermazioni di principio in merito al lavoro dovremmo dire: o il lavoro nel piano di Dio doveva servire all'uomo per "farsi pienamente uomo", e solo per godere umanamente dei propri frutti la fatica umana aveva un senso; 310 Gn 2, 5-9 Gn 1, 27-28 312 Mt 6, 24-34 313 B. MAGGIONI, o.c., .48 311 79 spesso invece, da quando il legame di solidarietà tra Dio e uomo e tra uomo e uomo è stato infranto, il lavoro viene alienato, orientato ad altri fini, destinato ad alimentare la struttura e non a far crescere le persone; la strada della ricostruzione passa per la reintegrazione di quella solidarietà; o per quanto l'uomo faccia, il suo lavoro resterà sempre un quid strutturalmente incompiuto; qui Qoelèt attinge a piene mani per il tema della vanitas rerum omnium che gli è così caro; e questo da una parte perché il lavoro è stato concepito da JHWH, nell’attop di associare l’uomo alla sua iniziativa che vcea il mondo, non come un valore autonomo, ma come parte di un processo che sostanzialmente lo trascende; e d'altra parte se il Signore non costruisce la casa, lavorano a vuoto coloro che si affannano ad edificarla314; o il lavoro può rovesciarsi anche nel suo esatto contrario: nonostante che sia stato concepito come volontà di associare l'uomo alla progettualità di Dio, esso può anche generare irresponsabilità, ingiustizia, oppressione, ottusità di coscienza. Da tutt'e tre le angolazioni, la corretta calibratura del senso del lavoro nel contesto della vita umana presuppone che lo si ricollochi nell'originario disegno di Dio. Questa visione del lavoro è agli antipodi rispetto a quella che vige nel nostro mondo, dove il lavoro è stato ridotto a mercé e il lavoratore a ingranaggio della macchina produttiva. Un operatore di condivisione non potrà mai "vendere" giornalmente 7 ore e 40 del proprio tempo per averne in cambio il... becchime necessario per tornare a lavorare anche domani; l'operatore di condivisione... condivide, si fa carico, e in questo contesto attinge anche quanto gli serve per vivere decorosamente. 4.4 La solidarietà verso i senza dignità Quest'ultima articolazione del valore teologico del lavoro nella vita sociale concreta è anche la più importante. Quella che già nel VT può a buon diritto chiamarsi "preferenza per gli ultimi" ha qui la sua prima frontiera: L'ambito privilegiato in cui Israele deve manifestare la solidarietà di Dio è la difesa dei "senza-dignità”. Per questo le leggi, le prescrizioni, i richiami in direzione dei "senzadignità” (vedove, orfani, schiavi, immigrati, nullatenenti) sono numerosissimi, e presenti in tutti gli strati del discorso biblico: dalla legislazione alla predicazione profetica, dalla preghiera alla esortazione edificante315. Si veda, ad es., l'obbligo di accogliere il forestiero: il "forestiero" in genere designava lo straniero immigrato in Palestina in cerca di un lavoro, per migliorare la propria condizione di vita. In nessun paese egli godeva dei pieni diritti civili; non gli era permesso, ad esempio l'acquisto d'un terreno da lavorare in proprio: sempiterno lavoratore dipendente, doveva scegliere per sé i lavori più faticosi e meno pagati. In questo contesto il VT esorta con forza ad "accogliere" il forestiero. Un fatto di enorme spessore culturale; l'insistenza e la frequenza con le quali quelle esortazioni vengono riproposte da una parte dicono la difficoltà che esse incontrano a "passare", ma dall'altra ripropongono l'anomalia della storia socio-culturale del popolo ebraico: questo piccolo popolo, la cui cultura se raffrontata con quella di altri popoli per tanti aspetti appare "in ritardo", e tale è davvero, su tanti fronti, si rivela capace di proporre un pensiero religioso che sopravvanza di anni luce il pensiero religioso di tutti gli altri popoli: ancora un motivo per stupirti a fondo. Tutti i popoli dell'antichità sono stati intimamente classisti e razzisti. Anche il popolo ebraico; ma, nonostante questo, dal più profondo dell'esperienza di Israele, cioè dall'Alleanza continuamente recuperata con JHWH, affiora ininterrottamente l'appello di grande forza a favore della pari dignità di tutti gli uomini. 314 315 Sal 126,1 B. MAGGIONI, ibid 80 Parte V SIGNIFICATIVE ARTICOLAZIONI del SOLIDARISMO SOLIDARISMO BIBLICO nel NUOVO TESTAMENTO 81 5. POVERI E POVERTÀ NELLA TEOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO Gesù di Nazareth da una parte si proclamò Figlio di Dio e signore di tutto, ma dall’altra fece dei poveri i protagonisti del regno vicino316, anzi già presente in mezzo a loro317; e prima ancora, in perfetta coerenza con questo insegnamento, condivise le condizioni concrete, materiali, lavorative ed economico/sociali dei ceti più poveri. Siamo di fronte alla più eclatante valorizzazione della povertà come scelta virtuosa. Come tutti gli uomini saggi Gesù valorizza al massimo coloro che, per essere liberi, per vivere più vicini a Dio, per poter servire meglio i propri fratelli scelgono di vivere del minimo indispensabile: È la scelta che lui stesso ha praticato, dichiarandosene orgoglioso, la scelta che ha raccomandato ai suoi318, quella che -inascoltato- ha proposto al giovane ricco319 che gli aveva chiesto cosa doveva fare per avere la vita eterna. Ma Gesù va ben oltre: egli valorizza la povertà anche come condizione. Il tema è molto delicato. C’è di mezzo la validità dell’accusa che la grande cultura marxista ha sempre rivolto alla religione, pensando soprattutto al Cristianesimo: la religione è l’oppio del popolo. I preti sono stato e saranno sempre i manutengoli ideali di tutte le prevaricazioni del capitalismo, perché hanno sempre incitato i poveri alla rassegnazione, disinnescando le loro sete di giustizia in nome del paradiso che attende chi si rassegna. Il tema è molto delicato, ma è indubbio che certi catechismi dei vescovi italiani del 1800, così come il Sillabo320 del Beato Pio IX, proprio mentre i “nuovi poveri”, cioè i proletari resi poveri dalla rivoluzione industriale, si organizzavano per ottenere il livello minimo dei loro diritti, hanno una potente funzione soporifera. E invece il Vangelo non solo impegna i seguaci di Cristo a combattere la miseria di chi non ha da mangiare, ma alla concretezza di un simile impegno lega addirittura il successo o l'insuccesso complessivo della vita di ogni uomo. Questo vale per la miseria degli altri, la miseria imposta, sempre e comunque intollerabile. Ma quando la miseria riguarda il seguace di Cristo, egli può anche sceglierla liberamente, e farne condizione la condizione ideale per aderire al Regno; in questo senso Gesù nel suo discorso programmatico i poveri in spirito li dichiara "beati", cioè pienamente uomini, perfettamente in linea con la volontà del Padre, titolari della prima di tutte le beatitudini, quella che dà il la alle altre. Illuminante la prima delle lettere di Don Milani, quella a Pipetta, giovane e fervente comunista. Don Lorenzo si rammarica che l’adesione alla lotta per la giustizia abbia portato Pipetta fuori della Chiesa, lontano dall’Eucaristia, ostile a lui come pastore della sua anima. Don Lorenzo riconosce che anche lui, fresco prete di 24 anni, quel 18 aprile 1948 i cui la Democrazia Cristiana ha battuto sonoramente nelle elezioni politiche il Fronte Popolare composto dai due grandi partiti della sinistra storica, il PCI e il PSI, ha contribuito a battere non solo i torti di Pipetta, ma anche le sue ragioni; e gli assicura che lui, il prete Milani, da ora in avanti sarà con lui nella lotta per la giustizia, e Pipetta potrà contare sulla sua dedizione alla causa dei poveri fino a quando sfonderanno insieme il cancello della villa del ricco. 316 Mc 1, 14-15 Lc 17, 21 318 Lc 10, 4 319 Mc 10, 17-22 320 “Sillabo” (raccolta, di tutti gli errori del mondo moderno) è il nome del documento che Pio IX pubblicò alla vigilia del Concilio Ecumenico Vaticano I, 1870 317 82 Fino a quel punto, non oltre. Perché proprio in quel punto egli lo tradirà. Non avrà nulla a che Pipetta s’installi nella splendida casa del ricco, ma in quello stesso momento egli gtornerà nella sua canonica umida e puzzolente, per proclamare la beatitudine che il Signore ha formulato pensando a lui: Beati i poveri in spirito,perché di essi è il Regno dei cieli. A nessuno è lecito rassegnarsi alla miseria altrui. Ma della propria miseria si può anche fare il trampolino di lancio della più vertiginosa di tutte le avventure, quella della santità.. Don Milani è l’ultimo rilancio di una profezia antica quanto il Cristianesimo. MARIA. Sulla scia del decisivo affinamento del concetto di povertà che avevano portato avanti i profeti e i salmi postesilici, l'attesa dei "Poveri di Israele", fatta di apertura a Dio, di disponibilità e di umiltà davanti a lui, ma anche di contestazione radicale delle logiche della ricchezza e del potere, trova un'interprete di altissimo profilo nel Cantico di Maria, madre di Gesù321; è il Vangelo di Luca che attribuisce a Lei quelle splendide aperture dello spirito, che coniugano - in un contesto di contemplante stupore - situazione personale e condizione umana, speranza escatologica e giudizio sulla storia umana; non c'è motivo di non credere a Luca: sicuramente Maria non si è mai seduta ad uno scrittoio per vergare di persona quelle parole (probabilmente non sapeva scrivere, ma solo leggere), ne ha mai dettato a nessuno il Magnificat, ma è più che logico che il gruppo di Cristiani che visse intorno a Lei, dopo che Gesù dalla croce l'aveva affidata a Giovanni, avesse imparato da lei e con lei a pregarlo con quelle splendide parole. GESÙ. Gesù di Nazareth è al tempo stesso, inseparabilmente, il Messia povero e il Messia dei poveri322. Fin dall'inizio della sua predicazione in Galilea, Gesù, pur avendo piena coscienza della drammaticità dei bisogni materiali che gravano sulla sua gente323, si pone con grande chiarezza nella categoria degli anawìm324 e afferma che, se sanno leggere davvero la propria condizione, i poveri sono godono di una condizione di oggettivo privilegio davanti a Dio. Ma che cosa coglie Gesù di tanto coinvolgente nella condizione del povero? Gesù in quella condizione coglie una sottolineatura forte di quella semplicità, di quell'umiltà, di quella disponibilità che sono condizione previa per la crescita del Regno di Dio325. Nel suo progetto di vita la virtù della povertà ha un ruolo essenziale, egli la esige da tutti coloro che invia a predicare: una povertà radicale, gioiosa e libera326. Lui è sempre in loro compagnia. Circondato da una specie di "corte dei miracoli" (ciechi sordi storpi muti, ex indemoniati e indemoniati in servizio permanente effettivo), egli non si arresta nemmeno di fronte a quei soggetti moralmente poveri che tutti chiamano "pubblici peccatori", e con loro fa comunella. PAOLO. S. Paolo dirà che questa doppia faccia della condizione umana del Messia, esempio di virtù anche per quanto riguarda la povertà e capace al tempo stesso di cogliere la grande ricchezza che i poveri afferiscono alla vita, è la conseguenza di una sua precisa scelta, perché Gesù che, "da ricco che era, si fece povero per noi, perché noi fossimo resi ricchi dalla sua povertà"327. 5.1 L'autopresentazione PREMESSA 321 è il Magnificat, Lc 2, 46-55 cfr. J. DUPONT, Gesù Messia dei poveri. Messia povero, in Seguire Gesù povero, Qiqajon Bose 1984, 7-89 323 Gv 13, 29 324 Imparate da me, che sono mite e umile di cuore: Mt. 11, 29 325 Mt. 5,3; Mt. 19, 23 s.; Lc. 1 53; 6, 24; 12, 16; 18, 23; 1 Tm. 6,17 326 Mc. 6, 8s 327 2 Cor 8, 9 322 83 È noto che il Vangelo è un libro molto sui generis. Il Vangelo è una specie di vademecum messo insieme a benefìcio e su richiesta dei predicatori della seconda generazione. Verso il 60/70 d.C. cominciavano a morire quelli che avevano "mangiato e bevuto con Gesù dopo la sua resurrezione" e i giovani predicatori che partivano per "rendere discepole di Gesù tutte le genti"328 dicevano loro: Voi avete raccontato quello che avete vissuto, visto, udito, ma noi? Già circolavano nella primitiva Comunità, sia a Gerusalemme che altrove, delle raccolte chiamate "Detti di Gesù" e "Fatti di Gesù". Quelle raccolte venivano usate quando si annunciava la buona notizia a chi non la conosceva affatto, quando si approfondiva il messaggio di Gesù a beneficio della crescita inTeriore dei battezzati, quando si celebravano l'Eucarestia o uno degli altri Santi Segni. Le raccolte più semplici erano già confluite, gradualmente, in raccolte più complesse, si rischiava la proliferazione selvaggia. Fu così che, per incarico e sotto la vigilanza dei Dodici, in tempi diversi (ma sicuramente deopo il 70 d.C.) e con modalità diverse vennero "incaricati" di dare una sistemata al tutto quattro cristiani emergenti: due dei Dodici (Giovanni e Matteo) e due che appartenevano alla seconda generazione di seguaci di Gesù, ma ben noti a tutti: Luca, che per un certo periodo aveva fatto da "segretario" a S, Paolo e Marco, che, dopo aver incappato da adolescente alla cattura di Gesù nell’orto degli ulivi, qualcosa del genere l'aveva fatto al sevizio di S. Pietro. È chiaro che i fatti della vita di Gesù e i suoi detti sono stati raccontati per sommi capi, con criteri che non sono quelli dello storico e i suoi insegnamenti sono stati spesso raggruppati per argomento, o con altri criteri. Ma gli studiosi sono in grado di dire quando (e succede piuttosto raramente) un versetto evangelico può essere considerato come detto in quella forma precisa da Gesù stesso: ipsissima verba Christi. Mc. 2, 17 Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. E io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori Parole probabilmente da catalogare tra gli ipsissima verba Christi294. IL CONTESTO. Il vangelo di Marco sta puntualizzando elementi/chiave che contrappongono la mentalità di Cristo alla mentalità del mondo. Tra cap. 2 e cap. 3 sono ben cinque gli spunti polemici; tra di essi quello che riguarda il giusto modo di trattare i peccatori occupa il secondo posto della serie. Gli altri contenziosi con i Farisei vertono su chi possa e debba rimettere i peccati, su quale sia la vera novità del Vangelo, sul primato dell'uomo sul sabato e sulla vera natura del riposo sabbatico. Lo spunto più acremente polemico è proprio questo: i peccatori pubblici, tutti quelli che la cultura ufficiale segna a dito, gli esattori delle tasse, i ladri, le prostitute, vanno emarginati si o no? I Farisei gridano: Sì! Non per nulla loro hanno voluto chiamarsi "I separati" (questo vuol dire fariseo: separato da tutti gli altri). E Gesù? Che ne pensa? Per una corretta lettura del pensiero di Gesù occorre calibrare il valore delle parole: o sani equivale a giusti e malati equivale a peccatori; o chiamare, nel linguaggio messianico, è un verbo "tecnico", che equivale ad associare alla missione del Messia. Gesù dunque non solo denuncia ancora una volta la dicotomia manichea tra giusto e peccatore, alla quale i pii Ebrei tenevano tanto, ma addirittura abilita questa gente ("Questi disgraziati!" dicevano i benpensanti) ad affiancare l'opera del Messia. Immaginarsi lo scandalo profondo e violento che parole del genere provocavano nei suoi ascoltatori. Quando lo condanneranno a morte, se la sarà proprio voluta, quella condanna! 328 Mt. 28, 19 84 5.2 La parabola del buon Samaritano Lc. 10, 25-37 Un dottore della legge sì alzò per metterlo alla prova: "Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?". Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi? ". Colui rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come tè stesso ". E Gesù: "Hai risposto bene; fa' questo e vivrai ". Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è il mio prossimo? ". Gesù riprese: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli sì fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatelo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più tè lo rifonderò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? " Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' lo stesso”.. La parabola329 è un racconto nel quale tutto è inventato allo scopo di illustrare un particolare punto di dottrina o di morale. Nella parabola del Buon Samaritano i fatti sono inventati, ma non è inventata quella strada, la più trafficata del paese, non è inventato l'alto tasso di criminalità che essa faceva registrare, i personaggi del racconto sono attinti dalla vita reale, fanno parte del "paesaggio sociale" dell'epoca; e la domanda del dottore della legge non è di puro interesse generale, ma s'inserisce nelle discussioni via via sempre più intense che l'insegnamento del Rabbì di Nazareth suscita tra gli scribi, i "commentatori autorizzati della Torah330. LA QUESTIONE DI FONDO. La domanda sulla vita eterna: una domanda assai comune nelle dispute fra gli scribi e i dottori della legge; il giovane ricco ne formulerà una simile a Gesù331. L’AMBIENTAZIONE. La strada sul cui sfondo si svolge la fìction è una strada conosciuta e praticata da tutti332, che collega due centri abitati importanti, un percorso di circa 30 km. che scende rapidamente dai 750 mt. sopra il livello del mare, a cui è situata la capitale Gerusalemme, ai 350 mt. sotto il livello del mare di Gerico, cittadina della regione del Giordano; una strada percorsa non solo dal viandante che da Gerusalemme deve raggiungere Gerico, che è ad est della capitale, ma anche dal viandante che sale vero nord. Per recarsi in Galilea: invece di puntare direttamente al nord, si prendeva normalmente questa strada, per poi risalire verso il nord lungo il Giordano, che è il confine est dello stato d’Israele: si allungava il tragitto, ma si evitava di passare per l'odiata Samaria. I COPROTAGNOSTI. Il sacerdote e il levita fanno parte del personale del tempio; il levita (= "membro della tribù di Levi") è una persona addetta al servizio del tempio, ma che riveste un ruolo inferiore a quello del sacerdote; sacerdoti e leviti in gran numero abitavano333 proprio a Gerico. I due personaggi non vanno demonizzati, come a volte accade; essi sono tenuti ad osservare regole di purità per poter svolgere i loro compiti; per esempio non possono toccare un cadavere334; se un sacerdote o un levita tocca 329 J. L. SKA, La parabola del buona samaritano, in Rinascere, MRC, 4 - 1999, 22-23 C. MARCHESELLI CASALE, Vangelo secondo Luca, in La Bibbia… o.c. , 2461 331 Mt 19, 16; Mc 10, 17; Lc 18, 18 332 Anche Gesù passa da Gerico per salire verso la città santa: Mt. 20, 29; Mc. 10,46; Lc. 18, 35; 19, 1 333 C. MARCHESELLI - CASALE, o.c., 2462 334 Lv 21, l; Ez 44, 25-27 330 85 un cadavere, resta impuro per sette giorni e non è quindi atto al servizio del tempio. Così si spiega in genere perché non vogliono fermarsi ed occuparsi dell'uomo che giace sulla strada: credono che sia già morto, e si affrettano ad andare al tempio per il servizio o a tornare a casa dopo il servizio. La parabola non si sofferma sui motivi che hanno indotto questi due personaggi a passare oltre, essi servono soprattutto a mettere in rilievo il terzo...; la loro "colpa", semmai, col senno di poi, è quella di aver dato la precedenza alla legge sulla solidarietà, ma questo per la mentalità del tempo era non solo possibile, ma doveroso. IL PROTAGONISTA. Il personaggio totalmente inaspettato è il Samaritano, anche nei momenti nei quali la tensione fra Samaritani e il resto della nazione si allentava, i Samaritani evitavano di andare a Gerusalemme; per un Samaritano ogni Giudeo era sempre e comunque uno straniero335; l'atteggiamento dei Giudei in proposito, invece, non sempre era speculare a quello dei Samaritani, la risposta all'antico dissidio a volte era orientata alla pacificazione336, anticipando in qualche modo la morale del Nuovo Testamento della quale qui Gesù disegna la base. Fra parentesi: questo vuoi dire che la parabola sicuramente non avrebbe lo stesso effetto se Gesù avesse presentato un Giudeo che si fosse occupato di un Samaritano in difficoltà. Tre tappe, il "fatto", descritto a rapidi tocchi realisti; le reazioni; la conclusione. Le reazioni sono di due tipi: o quelle del sacerdote e del levita, identificate come un vedere e andare oltre; o quella del Samaritano, che non è un vedere e farsi prossimo, ma il suo contrario, farsi prossimo e vedere: il "vedere" è la conseguenza, non il presupposto del "farsi prossimo". Sul piano narrativo manca la cronaca della conclusione: non si dice come l'albergatore abbia recepito la proposta del buon Samaritano, in quanto tempo quel poveruomo sia guarito, se poi il buon Samaritano sia effettivamente tornato... La vera conclusione della parabola è il suo contenuto forte, che tratteggia una morale totalmente nuova. L'epicentro della parabola (che è sempre uno solo, in tutte le parabole): di fronte ad un vita in pericolo occorre ad ogni costo salvare la vittima. È il punto di vista della vittima che diventa prevalente. In questa prospettiva Gesù, di fronte alla domanda "Chi è il mio prossimo?", impostata dalla visuale dell'uomo normale, la riformula nella prospettiva di colui che è stato malmenato dalla vita: "Chi è stato, effettivamente, il prossimo di colui che fu colpito dai briganti?" Eccellente dunque la "trovata" di don Milani, che ai suoi ragazzini il primo giorno di scuola mostrava un poster con la foto di un prigioniero alla cui tempia qualcuno puntava una pistola: "Tu da che parte stai?". Promosso solo chi, senza chiedere ulteriori spiegazioni, si schierava dalla parte della vittima. L'" emergenza/vita" obbliga a dimenticare regole o abitudini e a cancellare tutte le barriere esistenti. L'uomo nel bisogno ha la precedenza su tutto, anche sulla Torah, a misura della drammaticità di quel bisogno. Il sacerdote e il levita non l'hanno capito. L'ha capito invece il Samaritano, che pure aveva davanti a sé barriere altissime. L'interesse per i colpevoli diventa secondario, non si parla affatto dei banditi dopo i primi versetti. In questo contesto non sono importanti. L'esortazione finale ("Fate come lui!") non è un'appendice pragmatica, ma la risposta teologica alla domanda teologica che ha dato inizio337 al dialogo: in che cosa consiste quella vita divina di cui parla sempre Gesù? Inserita in un dialogo che si sta inceppando, quello fra Gesù e un dottore della legge, la parabola lo utilizza come quadro di fondo: molto spesso Gesù ricorre alla parabola quando la discussione rischia di prolungarsi indefinitamente, ma per rilanciare il tema, non per divagare da esso. Tra scoperta della miseria umana ("II samaritano vide.,.") e apertura alla disponibilità totale ("ebbe pietà") deve instaurarsi un collegamento immediato, un riflesso condizionato come un corto circuito; Gesù avrà anche lui questo tipo di reazione immediata: ne aveva dato prova sia di fronte al dolore della donna di Nain che aveva perso il figlio338, sia, e più ancora, di fronte alla tomba dell'amico Lazzaro339. Ma stavolta, di fronte alla domanda "Chi è il mio prossimo?", la sua risposta è ricca e articolata: 335 Es 22, 20; 23, 9; Lv 19, 33-34; Dt 24, 17-18; 27, 19 Lv 19, 33-34 337 ibid 25 338 Lc 7, 13 339 Gv 11, 33 336 86 o non si limita ad un risposta sentimentale, bensì si fa carico del problema e impegna la propria potenza divina per risolverlo, e invita tutti a fare altrettanto, ognuno secondo le sue possibilità; o risponde non in astratto, ma storicizzando fortemente la risposta: il prossimo (degli Ebrei del suo tempo, come di qualsiasi popolo che viva in conflitto strutturale con altri popoli) è quello nei confronti del quale è umanamente comprensibile nutrire il massimo dell'avversione e al quale invece lui chiede di riservare il massimo della disponibilità. Dovendo rispondere oggi a quella domanda, dovremmo calarla anche noi a fondo nella nostra storia, personale e civile. Per riuscire a vedere fino in fondo le sofferenze altrui bisogna, farsi prossimo all'altro. La prospettiva opposta ("Dopo aver visto mi faccio prossimo") è fallace. Come nella fede; non è assolutamente vero che chi vede un miracolo comincia a credere; è vero il contrario: chi ha deciso di fidarsi di Dio in Cristo comincia a vedere i miracoli nel loro vero significato. 5.3 Il "giudizio universale" Questo famoso capitolo del Vangelo appartiene al genere letterario apocalittico340; la forma è quella della "rappresentazione scenica", tesa a disegnare il ritorno del Signore nella gloria a tinte forti, ma anche con un riferimento concreto didatticamente felicissimo: Gesù sceglie un'immagine che impegna subito la fantasia dei suoi ascoltatori, l'immagine del pastore che "separa le pecore dalle capre", un'operazione faticosa che molti di loro dovevano ripetere ad ogni spostamento e ad ogni tramonto. IL CONTESTO. Siamo in pieno "discorso escatologico". Il "discorso escatologico" ("le ultime cose", tà eskatà, Mt. 24 e 25) presenta una serie di insegnamenti di Gesù circa l'approdo definitivo della vicenda umana. Quegli insegnamenti gli Apostoli non li hanno ben capiti e il Vangelo li riferisce in maniera confusa. Nel capitolo precedente (il 23) troviamo le due parabole che già in qualche modo introducono il tema dell'approdo definitivo della storia umana, quella delle dieci damigelle341 e quella dei talenti342. Con il successivo cap. 26 inizia il racconto della passione. LA TESI. Quell'accoglienza fattiva di chi si trova in necessità, che nel Vecchio Testamento era stata tanto raccomandata,qui assurge a criterio ultimo del successo o del fallimento della vita intera343. IL TESTO Mt. 25, 31-46 Quando il Figlio dell’uomo verrà nel suo splendore, insieme con gli angeli, si sederà sul suo trono glorioso. Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dalle capre: metterà i giusti da una parte e i malvagi dall’altra. Allora il re dirà ai giusti: Venite, voi che siete i benedetti dal Padre mio: entrate nel regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e mi avete dato i vestiti; ero malato e siete venuti a curarmi; ero in prigione e siete venuti a trovarmi. 340 Il linguaggio apocalittico (Apocalisse vuoi dire "rivelazione circa gli ultimi tempi") è un linguaggio che non va mai interpretato alla lettera. Gli Ebrei, e anche tanti altri popoli del Medio Oriente, esponevano le loro riflessioni sull'uomo incarnandole in particolari forme narrative. Nel genere narrativo favolistico, ad esempio, quello che troviamo nei racconti della Genesi a proposito della creazione del mondo e dell'origine dell'uomo: nessuno si sogna di prendere quei raccontini alla lettera, perché nella loro verità quelli non sono dei racconti, ma sono piccoli trattati di antropologia teologica esposti in forma di racconto. Altrettanto si dica dei racconti espressi in linguaggio apocalittico che sembra "raccontare" quello che avverrà alla fine del mondo. 341 25, 1-13 25, 14-30 343 Mt 25 342 87 E i giusti diranno: Signore, ma quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti? Il re risponderà: In verità, vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me! Poi dirà ai malvagi: Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, che Dio ha preparato per il diavolo e i suoi simili! Perché, io ho avuto fame e voi non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e non mi avete dato i vestiti; ero malato e in prigione e voi non siete venuti da me. E anche quelli diranno: Quando ti abbiamo visto affamato, assetato, forestiero, nudo, malato o in prigione e non ti abbiamo aiutato? Allora il re risponderà: In verità, vi dico che tutto quel che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l'avete fatto a me. E andranno nella punizione eterna, mentre i giusti andranno nella vita eterna. Il contenuto del messaggio è talmente dettagliato da risultare assolutamente trasparente. 5.3.1 Il "giudizio universale": la chiave esegetica La difficoltà esegetica che si presenta (I più piccoli fra i miei fratelli chi sono?) investe in realtà la chiave stessa di lettura dl brano: la risposta eh si da a questa domanda è assolutamente vitale per la comprensione di uno degli aspetti/chiave del Cristianesimo, l'universalismo. Alcuni esegeti ritengono che Gesù alluda ai suoi discepoli; le nazioni - cioè - verranno giudicate in base al loro comportamento nei confronti della Chiesa, che porta in sé Cristo, che a sua volta porta in sé Dio344. Per la grande maggioranza degli esegeti, invece, "i più piccoli fra i miei fratelli" sono gli uomini che versano in stato di bisogno. Questa seconda interpretazione è quella giusta. Innanzitutto perché quando Gesù parla dei piccoli "in quanto discepoli", il testo lo dice esplicitamente345, mentre in Mt 25 non vi è alcuna precisazione di questo tipo; In secondo luogo perché il capitolo parla di “tutte le nazioni” e di “tutti i tempi”: a breve non ci saranno certo discepoli di Gesù in tutte le nazioni, né ci saranno in tutti i tempi. In terzo luogo - l'abbiamo visto – questo capitolo non introduce alcuna distinzione fra gli uomini; il giudizio che esso prospetta è universale, il criterio del giudizio di conseguenza è anch'esso universale e va applicato al comportamento di ogni uomo verso ogni suo fratello. Esegesi abbondantemente confermata da quello che segue. 5.3.2 Il "giudizio universale": tre novità assolute PRIMA NOVITÀ: non si parla ne di fede ne di decalogo. Altrove la fede346 e l'osservanza dei comandamenti347 sono il criterio discriminante del successo complessivo della vita. Qui invece sembrerebbe che contino solo le opere, e non l'obbedienza al Padre, la filiale docilità al suo disegno rivelato in Cristo, ecc. Come mai? La risposta è ovvia: qui il tema non è quello del giudizio dei discepoli di Gesù348, bensì quello del giudizio di tutte le nazioni. In questa prospettiva, il criterio di successo di una vita è tutto nella 344 345 346 Mt 10, 40-42 Mt 10,42 Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anche io lo riconoscerò davanti al padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli: Mt.10, 32 347 348 Mt 19, 17 ibid 25, 31 88 capacità di rispondere positivamente a quella spinta ulteriore alla verità e al bene che Dio immette in ogni uomo e che impegna chi l'accoglie nell'infinita gamma delle varie opere di misericordia. SECONDA NOVITÀ: Gesù si autoproclama giudice e rè349 : due termini che nella cultura giuridica del tempo si equivalgono: lui che aveva sdegnosamente rifiutato l'offerta che in proposito gli aveva avanzato Satàn nel deserto350, lui che tante volte si era isolato proprio perché volevano farlo re. Nel pensiero dell comunità che rilegge la vita di Gesù quell'autoproclamazione assume tutto il suo valore o nel contesto della Passione: o oralmente, con la bocca piena di sangue, davanti a Pilato351; o per iscritto, tramite la tabella352 affissa dalla competente autorità sull'alto della croce; o nel contesto della missione con la quale il Risorto manda i suoi discepoli su tutta la terra353. La pietà cristiana celebrerà questa dimensione inaudita della regalità con tutta una serie di immagini (come il celeberrimo Volto Santo di Lucca) che rappresentano Cristo trionfante in croce, con abiti regali indosso, scettro in mano e corona d'oro sulla testa. TERZA NOVITÀ: l’unico peccato previsto dal "Giudizio Universale” è il peccato di omissione. Con quali criteri? Gesù/re/giudice non separa i "colpevoli" dagli "innocenti", vale a dire coloro che hanno commesso delitti da coloro che non ne hanno commesso, no; da una parte i "giusti", vale a dire coloro che si sono impegnati per rendere il mondo più giusto e più fraterno, dall'altra coloro che di fronte a questo compito sono rimasti indifferenti o inattivi. Siamo di fronte ad uno snodo assolutamente essenziale per la morale cristiana: "non ho fatto niente di male" non dice più nulla. 5.4 I criteri di valutazione dello stato di salute di una comunità (la Lettera di Giacomo) La Lettera di Giacomo nella Bibbia viene subito dopo la Lettera agli Ebrei354, che a sua volta viene dopo le 13 lettere di S. Paolo355. Siamo di fronte ad uno scritto di taglio eminentemente pragmatico: quello che interessa il suo autore non è l'esposizione dei misteri della fede, ma il modo in cui la visione del mondo che nasce dai misteri della fede viene tradotta nella pratica dalla comunità cristiana. In altri termini, se ci chiediamo con quali categorie mentali le prime comunità cristiane facessero l'esame di coscienza, la lettera di Giacomo ci permette di rispondere a ragion veduta. L'AUTORE Secondo la tradizione l'autore è Giacomo il Minore. Due degli Apostoli si chiamavano Giacomo. Nella piccola e a volte litigiosa comunità itinerante che circondava il Messia emergevano Giovanni e suo fratello Giacomo detto il Maggiore, famosi come "figli del tuono" (così li aveva soprannominati Gesù, per la loro congenita irruenza); della madre sappiamo che un giorno si presentò a Gesù e gli chiese per quei suoi due figli la titolarità di due importanti Ministeri nel futuro regno di Dio; dal padre Zebedeo avevano imparato il mestiere di pescatore, che quando Gesù li conobbe e li volle con sé stavano esercitando in società con altri due 349 350 ibid 25, 34 Tutte queste cose io ti darò se prostrandoti mi adorerai. . Vattene, Satana! Mt 4, 9 e 10 Gv 18, 37. Pilato gli disse: Allora.. tu sei re. Rispose Gesù: Sì, io sono re proprio come tu dici. Per questo sono nato, per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Gv. 18, 37 352 Mt 27, 37 353 Mt 28,18 354 Per lunghi secoli la Lettera agli Ebrei è stata attribuita a S. Paolo, oggi non più; il suo autore è sconosciuto, ma nessuno mette in dubbio la legittimità della sua appartenenza al canone biblico; cfr. R. GISANA, Lettera agli Ebrei, in La Bibbia… o.c., 2955 355 Nell’ordine: ai Romani, le due ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, le due ai Tessalonicesi, le due a Timoteo, a Tito, a Filemone (quest'ultima è appena un bigliettino) 351 89 fratelli, anch'essi chiamati da Gesù, Simone, che sarà poi detto Pietro, e Andrea: le due coppie di fratelli furono il primo nucleo dei futuri Dodici. Ma inaspettatamente chi nella prima comunità cristiana acquisì grande autorevolezza non fu Giacomo il Maggiore, ma l'altro Giacomo, detto il Minore356. Di lui i Vangeli non riferiscono altro che il nome, ma altre fonti neotestamentarie ci informano che egli era di Nazareth ed era un parente stretto di Gesù (uno dei suoi fratelli). Era nato da Cleofa e da Maria, quella Maria che avrebbe fatto parte del gruppetto di donne che discretamente seguivano nei loro spostamenti Gesù e i Dodici e che sarebbe rimasta vicina all'altra Maria, la madre di Cristo, anche sotto la croce. Anche nella coscienza di Pietro357 Giacomo il Minore nella primissima comunità cristiana, la Chiesa vivissima di Gerusalemme, fu il capo indiscusso (tra poco lo si chiamerà vescovo, epìscopos, “colui che guarda dall’alto”); Paolo lo cita (insieme con Pietro e Giovanni) come colonna della Chiesa358 e gli chiede lumi sulla corretta impostazione della predicazione alla quale sta per dare inizio359, anche perché sa che una delle prime apparizioni del Risorto fu riservata proprio a lui360. È Giacomo il Minore la massima autorità di quello che viene riconosciuto come il I Concilio Ecumenico della storia cristiana, quello tenutosi -appunto- a Gerusalemme e centrato sul tema vitale: chi vuoi diventare cristiano deve o no passare per l'Ebraismo, e farsi circoncidere? L'OCCASIONE L'occasione dello scritto probabilmente va colta in un velato desiderio di polemizzare con S. Paolo, prendendo spunto d alcuni scompensi che si verificavano nella comunità cristiana in tema di ricchezza e povertà, e contrapponendo alla esaltazione della fede che S. Paolo aveva fatto nella Lettera ai Romani (che ormai molte altre comunità conoscevano) l'affermazione, perno centrale della lettera, che la fede senza le opere è morta. Per questo Martin Lutero, la cui forte spiritualità, sulla scia delle lettere paoline ai Romani e ai Calati, è tutta incentrata sulla giustificazione per la sola fede, avrebbe voluto espungere la lettera di Giacomo dal Canone biblico: l’anno prossimo ci accendo la stufa, soleva ripetere. Come forma la lettera attribuita a Giacomo non segue un'esposizione unitaria e ordinata su di un tema unico o su più temi logicamente collegati tra loro, è piuttosto un centone di riflessioni diverse, ma tutte orientale alla prassi. LA VERA FEDE Sul piano dei contenuti la Lettera di Giacomo non propone tanto riflessioni teologiche quanto piuttosto un progetto di vita cristiana centrato sulla vera fede. Evidentemente, se tiene tanto alla vera fede, è perché lo preoccupa una falsa fede: falsa non tanto sul piano di principio, quanto nella quotidiana prassi della prima comunità cristiana. In altre parole, non è una questione di ortodossia, ma di ortoprassi361. Quello che, nella prassi scorretta della comunità alla quale scrive, preoccupa Giacomo, più di ogni altro aspetto, è la prevaricazione sui poveri. Contro questa prevaricazione Giacomo a due riprese362 sembra quasi scatenarsi, violentemente, con argomenti non di taglio morale, ma di taglio teologico. Tesi centrale: la vera fede, la sola che salva, è quella che fa tutt'uno con la prassi che essa ispira e motiva, perché la salvezza viene non dalla fede come adesione della mente a tesi che ci hanno convinto della loro giustezza, ma dalla fede come scelta di vita che fa tutt'uno con una serie di altre scelte conseguenti: una fede viva e operosa363. 356 cfr. G. BESSIÈRE, I Santi del Nuovo Testamento, in Storia dei Santi e della Santità Cristiana, Grolier Hachette International, I, 1991, 243 357 At 12, 16-17 358 Gal. 2, 7-9 359 Gal. 1, 18-19 360 1 Cor. 15, 7 361 l’aggettivo òrthos = diritto, corretto; doxa = dottrina; praxis = azione 362 1, 13-18 e 4.13-5.6 363 2, 24 90 Questa tesi è incastonata in tre affermazioni che la illuminano: 1. esiste una sapienza vera ed esiste una sapienza falsa, antitetiche l'una rispetto all'altra364; la falsa sapienza è fatta di egoismo, la sapienza vera è apertura a quanto viene dall'alto365;. l'etica cristiana si riassume nell'accogliere questa sapienza che è dono di Dio; 2. la vera sapienza è stata rivelata366 all'uomo con la "parola di verità" ed è stata seminata367 nell'uomo con il Battesimo; in questo contesto la vera libertà, intesa non come potenzialità pura e semplice, ma come effettiva capacità di produrre autonomamente scelte ricche di vera umanità, consiste nell'accogliere quella rivelazione e nel far fruttificare quel seme nella vita quotidiana368; 3. l'uomo che, per forza di cose, rifiuta più di ogni altro questo tipo di vita è il ricco che ripone tutta la sua fiducia nelle proprie ricchezze: un vero e proprio idolatra perché, presumendo di costruire la propria vita su se stesso, si rende del tutto incapace di accogliere la sapienza che viene da Dio; 4. fondamentalmente quello che deteriora la prassi cristiana è il venir meno della pazienza369 e della perseveranza370, la hypomoné come capacità di sopportare non passivamente, ma nella tensione ad accogliere la parola e farla propria, e la makrothimia come attesa fiduciosa e operosa dell'azione di Dio. Ma quand'è che la fede può dirsi "viva e operosa"? E... "operosa" in ordine a quale "opera"? 1, 26 - 27 Se qualcuno immagina di essere religioso, e intanto non tiene a freno la sua lingua, ma inganna il suo cuore, la sua religiosità è priva di ogni valore. Religiosità pura e incontaminata davanti a Colui che è Dio e Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nella loro tribolazione, e guardarsi da ogni contaminazione col mondo. La fede dunque, secondo Giacomo, è viva e operosa quando è capace di accogliere il povero371 e di instaurare rapporti costruttivi con il prossimo, opposti diametralmente a quelli che l'egoismo produce. LA FALSA RELIGIOSITÀ È QUELLA CHE PRESUME DI POTER FARE A MENO DELLA GIUSTIZIA FRA GLI UOMINI372. È l'affermazione che più sta a cuore a questo autorevolissimo testimone di Cristo. Alle spalle questa affermazione ha una lunga scia di testi veterotestamentari: o Amos373 che cerca Dio nei vari santuari, nei quali dicono che abiti, si rende conto che la vera ricerca di Dio consiste nell’odiare il male e amare il bene, non però in chiave spiritualistica e intimistica, ma ristabilendo nei tribunali il diritto stravolto dalla prevaricazioni dei ricchi sui poveri; o Osea374 è esplicito: Voglio l'amore e non il sacrificio; o nel messaggio di molti profeti375 viene detto a chiare note che il culto non può sostituire la vita, la preghiera e l'elemosina non possono surrogare la giustizia; 364 In questo contrapporre la vita secondo lo Spirito alla vita secondo la carne siamo molto vicini alla teologia paolina, cfr Gal 5, 13-23 365 Anche questo elogio della sapienza per molti aspetti è vicino all'elogio paolino della carità in 1 Cor. 13, 1-13 366 1, 18 367 1, 21 368 1, 25 369 1, 2-12 370 5, 7-11 371 4, 1- 12 372 cfr B. MAGGIONI, La lettera di Giacomo, Cittadella Editrice, 1991, 60 - 68 373 374 5, 15; Amos è il contadino/pastore di Tekoa che scrive (ed è il primo profeta che lo fa) nell’VIII secolo a. C. 6,6; Osea è contemporaneo di Amos, ma profetizza nel regno del Nord; la frase che abbiamo citato verrà ripresa poi da Gesù per giustificare l'accoglienza che Lui riservava ai peccatori: Mt. 9, 13; 12, 7 375 Is. 1, 11-17; Mi 6, 6-8; Ger 7, 21-23 91 o lo Pseudoisaia376, profeta sconosciuto i cui testi dopo il ritorno dall'esilio di Babilonia furono aggregati in coda al libro di Isaia, ridicolizza il digiuno di chi, con bell'effetto estetico, piega il capo come un giunco e fa sapere in giro che lui dorme su sacco e cenere, ma sfrutta e malmena i suoi operai; altro è il digiuno che Dio vuole: sciogliere le catene inique, rimandare liberi gli oppressi, dividere il pane con l’affamato. AGLI ANTIPODI DELLA VERA FEDE: L’ILLUSIONE DELLE MOLTE PAROLE. Quello che secondo Giacomo priva la religiosità di ogni valore non è tanto una generica indifferenza verso la giustizia, ma il molto parlare («non tiene a freno la sua lingua»). Giacomo è come ossessionato dalla minaccia che le "parole vuote" rappresentano per la vita della Comunità377 e ci torna su ben cinque volte378; chi si fida solo delle parole è vuoto come lo sono gli idoli379, come lo sono i sofismi degli uomini che presumono di costruire senza Dio380, e l'insegnamento di chi si atteggia a dottore della legge senza averla capita381. Non è Giacomo il primo che nella Bibbia abbia messo in guardia dal pericoloso fascino delle parole, il Siracide382 ci aveva insistito molto: non bisogna parlare molto, ne nell'assemblea e ne nella preghiera; invito, quest'ultimo, ripreso sia dal Qoelèt383 che dallo stesso Gesù, che ne fece il uno dei tratti distintivi della vera preghiera384. DALLA VERA FEDE, LA VERA RELIGIOSITÀ: PRENDERSI CURA DEGLI EMARGINATI, TENENDOSI LONTANI DALLA MENTALITÀ DEL MONDO. Religiosità vera Per dire religiosità vera Giacomo usa un'endiadi385: pura e incontaminata. Ogni religione ha sempre inserito, tra i capisaldi dell'offerta di salvezza avanzata ai suoi adepti, la possibilità di conservarsi puri; la purezza che veniva garantita era quella prodotta dai gesti rituali, ma Gesù aveva radicalmente innovato questo concetto, sia sul piano generale della persona pura (riportandolo alla sua dimensione tutta interiore386, sia sul piano specificamente caritativo dell’elemosina pura: invece di purificare il piatto, occorre donare al povero quello che c'è nel piatto, e tutto per voi sarà puro387. Visitare gli orfani e le vedove, nella loro tribolazione: FARSI CARICO DEGLI EMARGINATI. La dicitura orfani e vedove è molto diffusa nel Vecchio Testamento: Dio è il loro Padre e difensore388, li sostiene momento per momento389; l'uomo pio tra i suoi primi doveri ha quello di non maltrattare la vedova e l’orfano390, anzi, di essere per loro come un padre, un marito e una madre391. Il Nuovo Testamento parla solo di vedove: Gesù condanna gli scribi che si dedicano a lunghe preghiere e poi divorano i beni delle vedove392 e addita come esempio di vera religiosità il gesto della vedova che offrì al tempio tutto quanto aveva per vivere393; Luca sottolinea che quel ragazzo resuscitato da Gesù in quel dato giorno era il figlio unico di una 376 Is. 58, 3-7 Tt. 3, 9 378 1, 19; 3, 1-12; 4, 11; 5, 9; 5, 12 379 At. 14, 15 380 Rm. 1,21 381 I Tm. 1, 6 382 È uno degli ultimi libri del Vecchio Testamento, scritto dal figlio di Sirach, un dotto e pio Gerosolimitano della metà del III sec. a.C.; il libro è anche chiamato Ecclesiastico; cfr.5, 9-15; 18, 15-18; 20, 1-8 ecc. 383 Scritto da un anonimo di genio, presumibilmente verso la metà del III sec. a. C., è chiamato anche Ecclesiaste; con le tinte forti del suo totale pessimismo è forse il libro più poetico di tutta la Bibbia Famosissimo il suo incipit: “Vanità di vanità, tutto nel mondo è vanità…”. 384 Pregando, non sprecate le parole, come fanno i pagani: Mt 6, 7 385 L’endiadi consiste in una coppia di aggettivi sinonimi, l'uno dei quali rafforza l'altro: "affaticato e oppresso" per dire "molto affaticato" oppure "molto oppresso". 386 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che purificate l'esterno del bicchiere e del piatto mentre all'interno sono pieni di rapina e d'incontinenza. Fariseo cieco, purifica prima l'interno del bicchiere, perché anche l'esterno diventi puro: Mt. 23, 25-26. 387 Lc 11, 41 388 Sl 68, 6 389 Sl 46, 9 390 Es 22, 21 391 Sir 4, 10 392 Mc 12, 40 e Lc 20, 47 393 Mc 12,42 e Lc. 21,49 377 92 madre vedova394 e riporta la parabola del giudice e della vedova395: la vedova è palesemente l'emblema del soggetto del quale nessuno si prende cura; logico che la primitiva comunità cristiana, così attenta ai poveri, già a Gerusalemme organizzasse una distribuzione quotidiana per le vedove396. Alla consueta dicitura orfani e vedove Giacomo aggiunge nella loro tribolazione: non è la loro anagrafe che lo preoccupa, ma la loro emarginazione, lo stato endemico di sofferenza, di thlípsis ( = compressione, schiacciamento) di questi soggetti che erano tra i meno garantiti del tempo. Essi vanno visitati: nel testo greco c'è episképtesthai, un verbo che significa non un "vedere" generico e superficiale, ma un vedere che si accorge e, quindi, che si prende cura. È la radice da cui viene anche la parola, epìscopos (vescovo); è così che Dio coglie i bisogni dell'uomo e se ne prenda cura397; è così che il Cristiano si comporta nei confronti dei malati e dei carcerati398, per meritare, alla fine dei tempi, di essere aggregato alle pecore e non ai capri. Il messaggio di Giacomo si chiude con un'ultima raccomandazione: Prendere le distanze dal mondo399; letteralmente: conservarsi incontaminato dal mondo Nel Nuovo Testamento "mondo" indica due realtà ben diverse: l'insieme degli uomini che popolano la faccia della terra, per i quali Cristo ha dato la sua vita; la mentalità vincente nella società e nella cultura, decisamente antitetica a quella del seguace di Cristo; Giacomo356 usa la parola "mondo" in questo secondo senso. Conservarsi incontaminati dal mondo: terèin àspilos attinta ancora una volta al vocabolario rituale, l’espressione viene usata per connotare il potenziale di purificazione che è insito nell’esercizio della solidarietà, in velata polemica con il Fariseo che si ritiene àspilos solo quando, tornato a casa dal mercato, s'è lavato ben bene le mani e gli avambracci, fino al gomito, per liberarsi dalla densa patina di impurità che il contatto anche involontario con pagani e peccatori gli ha lasciato addosso. In conclusione, per il nostro autore "conservarsi puri dal mondo" equivale a ragionare in modo del tutto diverso da come ragiona la mentalità corrente, in tema di poveri, perché Dio ha scelto i poveri secondo il mondo come ricchi nella fede400. I poveri della Parola rivelata non sono i "poveracci" su cui il bravo cittadino si piega in maniera pietistica, ma sono un luogo propriamente teologico: lì (non solo lì, ma anche lì) s'incontra il Dio di Gesù. 394 7, 12 18, 2-5 396 At. 6,1 395 397 Sl 8, 5; Eb. 2, 6 Mt. 25, 36,43 399 1, 27 s 400 2, 5 398 93 Parte VI LA PRASSI SOLIDA SOLIDARISTA LIDARISTA nel NUOVO TESTAMENTO 94 6.1 POVERI E POVERTÀ NELLA PASTORALE DI GESÚ 6.1.1 Nel "programma pastorale" di Gesù II "programma pastorale" che la Chiesa delle origini attribuì a Gesù personalmente, se così è lecito esprimersi, è quello tracciato con grande solennità nel discorso che egli tenne nella sinagoga di Nazareth: Lc. 4, 14-30 Gesù tornò in Galileo con la potenza dello Spirito Santo e la sua/ama si diffuse in tutta la regione. Si recò a Nazareth, dove era stato allevato, ed entrò - secondo il suo solito - nella sinagoga, di sabato, e si alzò a leggere. Gli fu dato il libro del profeta Isaia; apertolo, trovò il brano dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò ali 'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi su di lui. Ed egli disse: Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi. La cornice è straordinariamente solenne. Il ritmo narrativo è disuguale, prima veloce poi lento, solenne, e sale, fino a quando gli occhi di tutti si concentrano su Gesù. Nel silenzio di tutti egli fa di se stesso l'epicentro della grande speranza di libertà del profeta401, "operando dei ritocchi al testo" per "accentuarne sia la carica di liberazione, sia l'universalità"402. Gesù quindi non solo sostiene che quello che ha detto Isaia si attaglia perfettamente a lui, ma rende ancora più radicale e cogente la presenza dei poveri e degli oppressi nella vita del Messia, per definirne compiutamente la figura. Questo tipo di radicalità lo si riscontra in ogni momento della sua vita: o Gesù è costantemente circondato da una specie di… corte dei miracoli, dove c'è di tutto: ...condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, ed egli li guariva403, o la sua non è una prassi episodica, ma consolidata e centrale nel suo quotidiano, se è vero che più volte gli viene rimproverato di “perdere tempo” con gli ultimi nella scala sociale404. 401 Is. 61,1 cfr B. MAGGIONI, o.c., 50 403 Mt 4, 24 402 95 Del suo rapporto con gli ultimi fa parte anche il miracolo, ma in misura estremamente ridotta, se è vero che i miracoli sicuramente tali nel Vangelo sono solo una trentina405, mentre i suoi contatti con la gente che versava in estremo bisogno dovettero essere molte migliaia. Il contesto storico/economico nel quale Gesù vive ed opera, non come un fuori/serie, ma come uno dei tanti senza-fìssa-dimora406, è quello di una drammatica degradazione economica, dovuta a due secoli di guerre, violenze, saccheggi di ogni genere; i piccoli contadini sono costretti a vendere quello che possiedono e a mettersi al servizio dei grossi proprietari, che spesso vivono all’estero...: la situazione dei vignaioli omicidi407 era familiare agli ascoltatori di Gesù; l'emigrazione ha svuotato la Palestina, che al tempo di Gesù doveva contare fra 500 e 750mila abitanti, mentre gli Ebrei che vivevano fuori della Palestina dovevano essere circa 4.500.000; imperversava il privilegio. La grande sofferenza diffusa, economica, sociale, culturale, psichica, che attanagliava il popolo in molte persone si manifestava con forme di drammatico disagio: la presenza di Gesù, la sua parola, le sue mani “compivano miracoli”, ridavano fiducia, lenivano la sofferenza interiore. La religione tradizionale non solo non attenuava questa sofferenza, ma l’aggravava. I “padroni” di quella religione, gli scribi e i farisei, avevano adottato come categoria fondante dei comportamenti, sociali la distinzione fra. puri e impuri; o puri nelle loro... classifiche erano coloro che osservavano l'intera serie delle prescrizioni rituali, minuziose fino alla paranoia; o impuri invece erano coloro che non osservavano quelle prescrizioni, anche quando per oggettive condizioni di vita non potevano assolutamente osservarle; impuro è anche chi esercita un mestiere o è portatore di una patologia (come l'invalidità permanente) che rendono impossibile l'osservanza408. Questo si rende ragione non solo dell’eccezionale delicatezza con la quale Gesù si prese cura di questi autentici paria del giudaismo, ma anche della violenza verbale con la quale egli stigmatizzò più e più volte il comportamento di chi li angariava409. Non per nulla tre furono gli scandali che secondo Marco410 il Signore suscitò: o quello delle sue umili origini, o quello della croce, o quello della sua familiarità con gli emarginati, cioè con soggetti che, sia sul piano sociale che sul piano religioso, per la cultura del tempo andavano giustamente emarginati. Su questa linea il pio ebreo Gesù di Nazareth trascende culturalmente il suo tempo oltre ogni dire, innescando la miccia d'un conflitto devastante. 6.1.2 Nel suo... originale rapporto con i "peccatori" Su questa linea Gesù abbatte anche l'ultima barriera; quella che separa i giusti dai peccatori. E con questo negli Scribi e nei Farisei suscita l'odio più cieco e (dal loro punto di vista) più motivato. Riflette Dupont411: lo statuto sociale di Gesù era quello di un uomo istruito nelle cose della religione, che sapeva parlarne e farsi ascoltare, e questo spiega il fatto che molti si rivolgessero spesso a lui dandogli del rabbi... e questo lo collocava ipso facto nel ceto dirigente. E proprio a partire da questo fatto si capisce il conflitto che sfocerà nel dramma del Calvario: Gesù trasgredisce apertamente le tradizioni, sia sociali che religiose, che distinguono il ceto di cui naturalmente fa parte. Non solo bada poco ai precetti concernenti il riposo del sabato, non solo fa 404 Lc. 7, 34.28 cfr. CEI, La verità…, o.c., 107 406 J. DUPONT, Gesù Messia dei poveri, in AA. VV. Seguire Gesù povero, Qiqajon 1984, 46 407 Mc 12, 1-12 408 Gv 9, 34 409 J. DUPONT, o.c., 14-17 405 410 411 Mc 5, 30; 15, 2; 19, 7 o.c., 55 96 delle dichiarazioni che mettono in forse le regole fondamentali della purezza rituale412, ma soprattutto frequenta senza vergognarsi gente con la quale un rabbì che si rispetti evita di avere rapporti. Viene chiamato l'amico dei pubblicani e dei peccatori413 ...Che un uomo da poco frequenti gente da poco, non ci sarebbe niente da scandalizzarsi. Ma che un rabbì abbia amicizie di quel genere... La sollecitudine di Gesù nei confronti dei paria della società ebraica è tale da scuotere questa società proprio perché Gesù non è uno di loro. Era uno di loro da tanti altri punti di vista, attinenti alla sostanza dell’ebraismo, ma non lo era da questo punto di vista. Osserva acutamente la Linemann: secondo Scribi e Farisei i peccati e i vizi non dovrebbero esistere, e quando la loro esistenza si fa innegabile, il primo dovere morale della comunità è quello di ripristinare l’equilibrio dell'ordine disturbato con provvedimenti unanimemente condivisi, cioè punendo i peccati, proibendo severamente i vizi, bandendo il peccatore ed evitandolo; ma quando Gesù non rispetta la divisione fra peccatori e giusti414, quando cena tranquillamente in casa d'un pubblicano, quando si lascia toccare da una prostituta, quando pretende di far digerire ai suoi ascoltatori la parità di trattamento tra chi ha lavorato dalla mattina presto e chi è stato ingaggiato solo nel pomeriggio è come se creasse una falla nella diga che deve proteggere la comunità dallo straripare del peccato415. Ma non aveva detto di essere venuto non per abolire, ma per portare a compimento416? Certo! Ancora una volta alla base di queste scelte di Gesù c'è non l'invenzione di qualcosa di nuovo, ma la rigorosa applicazione e il logico compimento (“logico” secondo la folle logica che presiede a tutta la Bibbia) del grande messaggio di solidarietà del Vecchio Testamento. La missione dell'inviato di Dio non riguarda della gente che s'è distinta per la propria pietà, ma semplicemente degli uomini che sono nella miseria, e quindi un discepolo di Gesù deve sapere che può rendersi gradito a Dio solo condividendone la sollecitudine per i diseredati, solidarizzando realmente con tutti quelli che portano il peso dell'ingiustizia che regna nella società umana417. ZACCHEO Lc 19, 1 – 10 Entrato in Gerico, (Gesù) attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della/olla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poter vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo. Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo formarmi a casa tua”. In fretta egli scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: E andato ad alloggiare da un peccatore! Ma Zaccheo, alzatesi, disse al Signore: Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto. Gesù gli rispose: Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto. IL CONTESTO. È uno degli ultimi episodi del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dove sarà accolto in maniera trionfale, anche se effimera418. Siamo a Gerico, città di dogana, oltre che residenza di molti Leviti. A Gerico abita il capo dei doganieri, "pubblicani" (cioè esattori delle tasse) particolarmente esosi; il suo nome, Zaccheo, per colmo d'ironia significa "il puro". 412 Mc 7, 15; Mt 15, 11 Mt 11, 19; Lc 7, 34 414 Mt 20,10.12 415 E. LINNEMANN, in Le parabole di Gesù, Brescia 1982, 111 416 Mt 5, 17 417 J. DUPONT, o.c., 32 418 cfr. J. L. SKA, in Rinascere, bimestrale di MRC, 4 1999, 26 s 413 97 Luca, il solo evangelista che racconta questo episodio, uno fra i più caratteristici del terzo vangelo, dà per scontato che il lettore sappia quale alone di pessima fama circondi i "pubblicani", autentici "ladroni per contratto"; secondo un costume tipicamente ellenista419 essi, singolarmente o sotto forma di impresa, compravano da Roma il diritto di riscuotere le tasse locali, rifacendosi poi abbondantemente quando, nella trattativa con il rappresentante di Roma, si trattava di stabilirne l'entità. Luca lascia capire, da come Gesù lo chiama e prima ancora dalla naturalezza con la quale gli si rivolge, che Gesù e accheto non solo si conoscevano da tempo, ma con ogni probabilità si cercavano reciprocamente420. Determinante per definire lo spessore di tutto l'episodio è l'identità culturale dei Farisei. I FARISEI. Il movimento farisaico421 probabilmente aveva avuto origine alla metà del II secolo a. C., dopo le guerre di liberazione condotte da Giuda Maccabeo e dai suoi fratelli.. Al tempo di Gesù, quando Gerusalemme contava un 25/30.000 abitanti, i Farisei erano un 5/6.000, prevalentemente artigiani e contadini, ma è certo che, ben al di là dell'effettivo numero dei "fratelli", i Farisei facevano opinione.. Una minoranza di loro si era specializzata nella conoscenza della Torah ed era stata annoverata tra gli "scribi", interpreti “ufficiali” della Parola. I Farisei vivevano in comunità chiuse e strutturate un po' come le nostre cooperative e coltivavano una spiritualità che voleva essere rigorosa, ma troppo spesso riusciva soltanto ad essere rigida. Il modello ascetico da proporre a tutti era quello del sacerdote, nei due suoi elementi caratteristici: o separato dagli altri; o attentissimo alla purità legale e scrupolosamente osservante di tutte le regole della Torah e della tradizione rabbinica. Quella loro antica proposta di spiritualità, che aveva originato una cultura diffusa e radicata, col tempo si era ulteriormente irrigidita. Essi o ritenevano come loro preciso impegno religioso/morale quello di distinguersi dalla grande maggioranza dei buoni Ebrei che non condividevano le loro opinioni e che loro, con una venatura di disprezzo, chiamavano il popolo della terra; o erano scrupolosissimi nel pagare la decima di tutto quello che possedevano all'amministrazione del tempio, ma ritenevano un furto la riscossione delle tasse per conto di Roma; o erano scrupolosissimi nell’osservanza, che era un po’ il concentrato del loro ideale di vita: rispettare tute le regole, anche le più minuziose; ei pensi che 613 –seicentotredici- erano le prescrizioni ritenute "essenziali" per salvarsi l'anima.. o si impegnavano in molte opere di carità. Grazie al diffondersi di questo tipo di spiritualità, la qualifica di "peccatore" era diventata, non solo per i Farisei, ma un po' per tutti, una specie di dato anagrafico; il peccatore, più che uno che ha offeso JHWH e che ha bisognosi prendere coscienza di questo fatto, è una specie di lebbriosoi che si porta appiccicato addosso il proprio peccato, proprio come il lebbroso la lebbra: l'opinione pubblica lo deve segnare a dito e condannarlo senza "distinguo" di sorta. Uno che va additato ai bambini per far loro capire cosa vuoi dire evitare il male422. Zaccheo423 era molto ricco, ma si rivolge a Gesù che è ormai entrato in casa sua come una persona onesta, in regola con la legge mosaica: se dovesse risultare che ha frodato qualcuno (ma è tutto da 419 cfr. F. HERRENBROCK, Pubblicano, in Grande enciclopedia illustrata della Bibbia, Piemme 1997. III 169 C. MARCHESELLI CASALE, in La Bibbia o.c., 2486 421 cfr. D. SCHNEIDER, ibid., I, 531 s 420 422 423 cfr. il pubblicano di Lc. 18, 13, la "peccatrice" di Luca 7, 39; cfr anche Lc. 15, 1-2 19, 2 98 dimostrare!) egli restituirà quattro volte tanto come vuole la Torah424, ma indipendentemente da questo egli ha preso una decisione ben più impegnativa: rende immediatamente disponibile per i poveri la metà dei suoi beni. Alla gente che assiste alla scena questo non basta: Zaccheo era e rimane un peccatore. Persona e ruolo si identificano. Lo scandalo è enorme, in proporzione di come era radicato nella gente l'orrore per chiunque contribuisse a far pagare le tasse a Roma. Ma Gesù ha deciso di abbattere anche quell'ultima barriera, tra giusto e peccatore; è entrato in casa di Zaccheo, si è seduto alla sua mensa e ha detto parole che ai presenti hanno fatto lì’impressione di altrettante pugnalate: Anche lui è figlio di Abramo. Zaccheo percepisce nettamente la stupefacente radicalità del comportamento e delle parole di Gesù, ed è proprio questa radicalità che lo converte. Gesù riconosce425 l'onestà mentale di Zaccheo, ma…: ma non è solo lui, ne lui principalmente, che deve convertirsi ad una giustizia incredibilmente più alta di quella in circolazione; è la cultura dominante, è il contesto che circonda Zaccheo che dovrebbe lasciarsi convertire, abolendo prima di ogni altra cosa dentro di sé il concetto stesso di esclusione e aprendosi all'esperienza che Zaccheo ha vissuto con un senso di enorme liberazione. LA PECCATRICE Lc 7, 36-50 Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco che una donna, una Roccatrice di quella città, saputo che (Gesù) si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo che l'aveva invitato pensò tra sé. "Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”. Gesù allora gli disse: "Simone, ho una cosa da dirti”. Ed egli: "Maestro, di’ pure”. "Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta: Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?”. Simone rispose: "Suppongo quello a cui ha condonato di più”. Gli disse Gesù: "Hai giudicato bene”. "E volgendosi verso la donna, disse a Simone: "Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco”. Poi disse a lei: "Ti sono perdonati i tuoi peccati”. I commensali cominciarono a dire tra sé: "Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati?”. Ma egli disse alla donna: "La tua fede ti ha salvata; va’ in pace”. IL CONTESTO426. Chi è la "peccatrice" di questo brano del vangelo di Luca? Non è possibile identificarla. Non è sicuramente (come alcuni hanno pensato) Maria, sorella di Marta e di Lazzaro, che, in uno slancio di devozione verso Gesù che tanto spesso si fermava nella loro casa di Betania, e quindi in un contesto tutto diverso, verserà anche lei427 un profumo costoso sui suoi piedi428. 424 Più esattamente la legge di Es. 21, 37 esigeva la restituzione del quadruplo solo in un caso, quello di chi ruba un montone, lo scanna e lo vende. La legge romana invece prevede questa misura di risarcimento per i furta manifesta. 425 19, 9 426 cfr. J. L. SKA, in Rinascere, bimestrale di MRC, 4 1999, 28 - 30 427 Luca è l'unico evangelista che non racconta l'episodio 428 Gv 12,3; anche Mt. 26,6-13 e Mc. 14,3-9 riferiscono lo steso episodio, senza però nominare Maria di Betania 99 Non è nemmeno Maria di Magdala, come altri hanno ipotizzato, la famosa Maddalena che, dopo che Gesù aveva scacciato da lei ben sette demoni429, era entrata a far parte del gruppo di donne che, discrete e onnipresenti, seguivano a rispettosa distanza l'infaticabile Rabbì di Nazareth e i suoi discepoli itineranti con lui, provvedendo ad alcune delle loro necessità quotidiane. Peccatrice non necessariamente equivale a prostituta; di sicuro possiamo dire che questa donna da una parte non si attiene scrupolosamente all'osservanza farisaica e quindi agli occhi di ogni Fariseo essa vive nel peccato, ma dall'altra, anche se non è una prostituta, qualcosa di grosso deve pure aver fatto, se Gesù dice che molto le è stato perdonato. Ma il problema dell'identificazione di questa donna, che probabilmente per entrare in casa del Fariseo s'è intrufolata nel gruppo che accompagnava Gesù al pranzo, non è poi molto importante, Importante invece è tenere ben presente, come contesto socio/culturale che permette di cogliere lo spessore dell'episodio, le regole ormai codificate dell'ospitalità conviviale: o era vietato he uomini e donne mangiassero insieme: la presenza di donne nella sala dove banchettavano uomini, e viceversa, fin dai tempi di Ester430, era segno sicuro di depravazione e dissolutezza; e dunque la donna che entra nella sala dove il Fariseo padrone di casa e Gesù suo ospite d'onore stanno pranzando non può dunque non creare scalpore, ipso facto; o invitare qualcuno a tavola non era mai un gesto di pura cortesia, ma presupponeva una vera comunione nella fede tra l'anfitrione e l'invitato: gli Ebrei rifiutavano di sedersi a tavola sia con i pagani431 che con i peccatori notori432; se il Fariseo ammette Gesù alla sua tavola, significa che non lo considera né come un pagano o come un peccatore; o ma, pur non considerandolo un peccatore, il Fariseo non lo considera nemmeno come un uomo eccellente al punto di osservare in occasione della sua venuta il rituale solenne previsto quando l’ospite era di grande levatura, quando tre erano sostanzialmente i gesti rituali dell’accoglienza che gli era dovuta: la lavanda dei piedi, il bacio e l'unzione di olio sulla testa; Gesù vi allude parlando con il Fariseo433; o toccare era un gesto che nel mondo ebraico poteva avere conseguenze assai gravi; toccare un cadavere, ad esempio, anche quello del proprio padre, anche per il più elementare gesto di umana riconoscenza come quello della sepoltura, significava diventare impuro per sette giorni434; toccare un peccatore o avere contatti con lui significava contrarre un'impurità da cui ci si doveva purificare secondo i rituali previsti; perciò gli ebrei ortodossi e praticanti evitavano ogni tipo di contatto fisico con i pagani e i peccatori435. o a disposizione della peccatrice c’era uno dei compiti istituzionali della giustizia biblica: quello di "giustificare", permettendo a qualcuno che non era "giusto" di diventarlo o di ridiventarle; Gesù si muove in questa prospettiva, dando una sua versione di quell'istanza, ma in un contesto del tutto particolare, quello di un banchetto. L'ospitalità che l'anonimo Fariseo ha riservato a Gesù è stata dunque una… mezza ospitalità. Se l'ha invitato vuoi dire che lo stima, o quanto meno è curioso di vederlo da vicino; non è pensabile che l'abbia fatto per metterlo l'ennesima volta alla prova, visto che i suoi confratelli lo facevano già dovunque e in tutti i momenti. C'è dunque una base di simpatia in questo invito, ma il Fariseo ha ben presenti le durissime polemiche che, fin dagli inizi della sua predicazione, hanno contrapposto frontalmente Gesù ai Farisei, e tutte su temi di vitale importanza: la remissione dei peccati, il 429 430 Lc 8, 2 Est 1 431 Gal 2, 11-14 Lc 15, 1-2; Mt 9, 10-13 433 7, 44.46 434 Lv 21,1 435 Per questo scribi e farisei non entreranno dal "pagano" Pilato durante il processo di Gesù: per non "insudiciarsi" e poter così celebrare la Pasqua: Gv. 18, 28. 432 100 rapporto fra la dottrina di Gesù e la dottrina del Vecchio Testamento, la corretta interpretazione del sabato e soprattutto su come trattare i peccatori436. L'asprezza di questa conflittualità ha sconsigliato all'anonimo Fariseo di "esagerare" nelle modalità dell’accoglienza riservata a Gesù: sì, gli ha aperto la sua casa, ma non ha compiuto in suo onore i gesti che il rituale dell'ospitalità prevede. Irrompe la donna, che in rapida sequenza compie e amplifica i gesti che il Fariseo non ha compiuto: gli lava non la testa ma i piedi, e li asciuga con i suoi capelli, e li bacia e li cosparge di profumo. Una tempesta di emozioni sincere e di interrogativi autentici si scatenano nel Fariseo. Per lui Gesù è un "profeta", o dovrebbe esserlo, ma che razza di profeta è Gesù se non impedisce subito alla donna di fare quello che sta facendo; anche lui diventa impuro, visto che dovrebbe sapere e non sa. E invece Gesù "sa", solo che il suo "sapere" è abissalmente distante dal "sapere" dei Farisei. Gesù è portatore di una saggezza totalmente nuova, che abbatte anche l'ultima frontiera di ogni emarginazione: la barriera fra giusto e peccatore. Ed è questo che coglie con gioia travolgente la donna "peccatrice". La traduzione corrente del v. 47, che conclude la grande lezione offerta da Gesù ai presenti, è errata: Gesù non dice "le sono stati perdonati i suoi peccati perché ha molto amato", ma " le sono stati perdonati i suoi peccati: e di conseguenza ella ha molto amato". L'amore della peccatrice è la conseguenza del perdono, non la sua causa. Si può amare veramente solo se si percepisce di essere stati perdonati. L'ADULTERA Gv. 8, 1-11 Gesù... all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatesi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E, chinatesi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatesi allora Gesù le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: "Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: "Neanch’io ti condanno; va e d’ora in poi non peccare più”. IL CONTESTO437 L’adulterio interessa molto al Pentateuco, che è la parte della Bibbia in cui è piùevidente il suo carattere di testo legislativo sia religioso che civile. La pena da comminare ad ambedue gli adùlteri secondo i codici legislativi della Torah438 è la pena di morte. Le modalità dell'esecuzione capitale non erano precisate; Gv parla di lapidazione. 436 L'intero capitolo 3 di Marco è dedicato a queste controversie cfr. J.L. SKA, in Con i poveri per la giustizia, in Rinascere, bimestrale di MRC, 4 1999, 3 Is. A raccontare un episodio del genere ci aspetteremmo che fosse Luca, lo "scriba della mansuetudine di Cristo" (secondo l'antichissimo appellativo attribuito dalla tradizione all'autore del terzo Vangelo); ed effettivamente questo brano è assente dai più antichi manoscritti del Vangelo di Giovanni, come anche dalle versioni più note e dalle citazioni evangeliche dei Padri della Chiesa; qualcuno ha ipotizzato che il brano sia "scivolato" qui dal vangelo di Luca, per una qualche anomalia nella trasmissione del testo, certo è che gli stilemi tipici di Luca e assenti nel normale testo di Giovanni in questo brano sono moltissimi. Resta fuori discussione la sua autenticità; cfr. S. MIGLIASSO, in La Bibbia Piemme 1995, 2359 s. 438 Lv 20, 10; Dt 22, 22 437 101 Nel brano evangelico, che di per sé si presenta come l’innocua richiesta di un parere autorevole, gli scribi e i farisei in realtà hanno istruito un piccolo ma rigoroso processo, che del processo ha tutti gli elementi essenziali: o atto di accusa, o richiesta della sentenza, o discussione, o sentenza. Quello che più interessa a chi ha pensato il tutto è la sentenza che viene chiesta a:Gesù. L'intento è quello di farlo cadere nel tranello di quello che gli Scolastici chiamavano dilemma cornuto, un autaut che non lascia via di scampo: Gesù o decide di non lapidare la donna, e allora lo accuseranno di snobbare la torah, o oppure acconsente alla lapidazione, e allora lo tacceranno di insensibilità e crudeltà: vedi, buono qui buono là, ma alla resa dei conti di fronte alla umana debolezza anche lui è duro, inflessibile come tutti gli altri! Teoricamente è possibile che Gesù si rifiuti di rispondere,ma… solo teoricamente: se lo facesse gli sghignazzi spazzerebbero via una volta per sempre la sua fama di maestro. La frase famosissima ("Quello di voi che è senza peccato scagli per primo una pietra contro di lei") non è improntata al gusto della risposta ad hominem, bruciante, ma ricorda ai farisei e ai giudici che, prima ancora di questo, anch'essi sono uomini. ANCORA CONTRO L’UTLIMA BARRIERA EMARGINANTE Un testo "strano", QUESTO DI Gv 8, 1-11, strano a diversi livelli. Strano perché non accenna affatto all'uomo adultero; è vero che la donna è stata colta in flagranza, e tanto basta per processarla sommariamente, ma sembrerebbe naturale almeno accennare con chi ella ha commesso adulterio. Nulla. Di questa prima "stranezza" si può dare una spiegazione stilistica: i racconti biblici, anche quelli evangelici, ubbidiscono a regole semplici, grazie alle quali - ad esempio - il numero dei personaggi è ridotto al minimo. Nel nostro caso, se il racconto avesse menzionato l'uomo e la donna, la sua linea evolutiva si sarebbe complicata e frammentata e la lezione sarebbe risultata meno chiara; preso isolatamente, il caso della donna risulta più paradigmatico, perché una donna davanti ad un tribunale come quello ebraico, che non riconosceva alcun valore alla testimonianza resa da una qualsiasi rappresentante del gentil sesso, è sempre più indifesa dell'uomo. Strano perché ci risulta che all'epoca di Gesù i Romani avevano proibito agli Ebrei di mettere a morte i condannati alla pena capitale, all’esecuzione ci pensavano loro439: era quindi impossibile lapidare un'adultera. Il nostro testo però sembra non tenerne conto. Forse erano previste eccezioni, in casi che noi non conosciamo. Strano per quello che abbiamo ripetutamente sottolineato: Gesù abbatte anche l'ultima frontiera dell'emarginazione, la barriera fra giusto e peccatore. Ai Farisei, che si ritengono totalmente superiori a quella povera donna. Gesù grida che essi non sono affatto migliori di lei, e li costringe a dimostrare la verità di questa affermazione allorché essi prendono ad andarsene uno dopo l'altro, con la coda tra le gambe, cominciando dai più vecchi. IL COME Interessante notare anche come Gesù arriva a questo risultato. Per rilanciare questa sua posizione scandalosamente estremista Gesù rinuncia a difendere la donna, non ribatte mezza parola alle accuse contro di lei, non fa obiezioni al loro modo di giudicare, non si oppone alle legge. Prende tempo. E provoca: nell’imbarazzato silenzio generale, si china e scrive a lungo sulla sabbia con la punta del dito. 439 Gv. 18, 31 102 Per secoli ci si è interrogati a proposito di questo gesto: quali segni, quali parole Gesù traccia sulla sabbia? E perché quella testa china rifiuta a lungo di alzarsi? Il Vangelo non offre alcuna indicazione chiara ne sul significato globale del gesto, ne sui suoi particolari. Solo questo imbarazzante silenzio, nel quale sta maturando un'inversione a "U": quando smetterà di tracciare nella polvere quello che solo lui sa, una questione di diritto penale diventerà per sempre un momento fortissimo di provocazione morale e religiosa contro la morale dei benpensanti. A Gesù interessa difendere la donna: Per questo non entra nemmeno nel merito della sua vicenda, ma trascende, d’un solo balzo, il piano della giustizia immediatamente giusta per accedere ad un piano totalmente diverso: quel piano della “giustizia che supera quella dei farisei”, quella concezione della vita che vola alto, là dove non si condanna, né si giustifica, ma si genera vita, mettendo gli essere umani feriti in condizioni di riprendere la strada della vita. A questo mira l'abbattimento della barriera giusto/peccatore: non per chiudere gli occhi sul male che è stato fatto, non per licenziare i peccatori con una pacca sulla spalla. L'alternativa è un'altra: aiutarlo a ripartire. LA SCENA FINALE Incontrarsi come persone, questo sì che è vivere. Si danno del tu. Si chiamano per nome, il Rabbì infinitamente buono e la donna che è stata svergognata davanti a tutti. Si chiamano per nome. Nessuna sentenza contro l’adultera, nessuna giustificazione dell'adulterio. E arrivata poco fa sulla carretta scoperta dei condannati a morte, scarmigliata e ansimante. Se ne va col passo lieve di una bambina, lieve sotto il carico impegnativo di quella esortazione sommessa, carica d'affetto. Va’, cerca di non farlo più. Il peso di quelle parole sulla sua vita futura sarà infinitamente superiore al peso di ogni possibile sentenza, assolutoria o di condanna che fosse. “Assoluzione”, “condanna”: parole ormai vuote di senso. Lei lo chiama "Signore". Non sa fino in fondo cosa vuoi dire quella parola applicata a Gesù, ma almeno in confuso sa che in Lui ha "toccato" Dio. 6.2 POVERI E POVERTÀ NELLA PASTORALE DELLA CHIESA PRIMITIVA 6.2.1 La gerarchia dei valori nella Chiesa delle origini Nel capitolo 18 del suo Vangelo, Matteo enuncia il "programma pastorale" (o Discorso ecclesiale) di quella comunità cristiana di Gerusalemme per la quale scrive il suo Vangelo. E lo inserisce nella terza e ultima parte del suo scritto440, la più importante, quella che parla della passione, morte e resurrezione di Gesù; lo fa dopo aver ricordato per due volte, intercalandogli il racconto della trasfigurazione, l'annuncio profetico di Gesù in merito alla conclusione della sua vita terrena, Questo sta a dire quanta importanza Matteo e la sua Chiesa attribuiscono a quello che stiamo per leggere. Ed effettivamente si tratta di un tema vitale: si parla del criterio organizzatore della mappa valoriale che ogni Cristiano dovrebbe aver fatta propria. Mt. 18 1-7 e 19-14 In quella particolare circostanza441 i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli? Allora Gesù chiamo accanto a sé un bambino, lo mise in mezzo a loro e disse: In verità vi dico che se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chiunque diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche solo uno di questi bambini in nome mio, accoglie me. Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da 440 cfr. M. GRILLI, Vangelo secondo Matteo, in La Bibbia PM, 1993, 2341 La formula d'apertura (en ekèine te ora: "in quella particolare circostanza").conferisce al brano un forte timbro di ufficialità 441 103 sino e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali. È inevitabile che avvengano degli scandali.... Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel ciclo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. Il Figlio dell’uomo è venuto infatti per salvare ciò che era perduto. Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, io vi dico che si rallegrerà per quella più che per la novantanove che non si erano smarrite. Così il Padre mio non vuole che si perda nemmeno uno di questi piccoli. Un sospetto: nonostante il forte impegno contro l’emarginazione che esprimeva, secondo il racconto degli Atti che presto prenderemo in esame, la prima comunità cristiana, alcuni suoi membri forse avevano la sensazione di non farlo adeguatamente: altrimenti non si spiegherebbe come mai i primi 14 versetti di un capitolo di così grande importanza ruotino tutti intorno al concetto di piccolo, per rilanciare il senso della sua presenza nella comunità e ribadirne il primato. IL TEMA II tema è uno dei più... dibattuti, a volte in chiave acerbamente polemica, tra i Dodici: chi (tra loro) nel Regno dei cieli possa legittimamente aspirare al titolo Leader maximo. I Dodici pensavano seriamente alla propria possibile "carriera" nel regno prossimo futuro. Gesù li invita a fare un passo indietro, a lasciare da parte per un momento le prospettive di carriera personale, per chiedersi: nel nuovo ordine di cose che il Regno porterà con sé, quali saranno i parametri di grandezza? LA SCENEGIATURA del tema prevede una scena unica: un bambino al centro del piccolo cerchio di persone alle quali Gesù si rivolge. Attesa: che vorrà dire con quel gesto? LA TESI CENTRALE Gesù risponde a quell'unica domanda ("Chi sarà il più grande nel futuro regno dei cieli?") con una doppia risposta: 1. chiunque diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli; 2. chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me. Il regno dei cieli è dei bambini. Gesù faceva riferimento ai bambini del suo tempo, creature tra le meno protette di tutto il creato. Non il bambino di oggi, superprotetto, ipervitaminizzato. Il bambino come essere totalmente indifeso e bisognoso di tutto. Non per nulla, nel prosieguo del testo, la parola "bambino" viene sostituita dalla parola "piccolo". "Bambino" come esponente di una categoria più ampia, i piccoli. "PICCOLO": cosa debba intendersi con questa parola Matteo l'ha chiarito quando, al culmineo di una delle tante polemiche con la povera saggezza dei Farisei, ha colto sulla bocca di Gesù l'ennesima "strana" preghiera: Ti benedico, Padre, signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli442; piccolo dunque non s'oppone a grande (di età, di statura), e dunque non designa i bambini; piccolo si oppone a sapiente e a intelligente, e allude agli emarginati di allora, a coloro che vivono agli antipodi rispetto a quelli che "fanno la storia". Piccolo è colui al quale, nella scala sociale, è stato assegnato stabilmente l’ultimo posto, piccolo è il povero che è nel bisogno, il debole facilmente scandalizzabile, colui che non conta e che sei tentato di trascurare, il peccatore443. Ma nel programma pastorale della Chiesa di Gerusalemme, per la quale Matteo scrive, quella del piccolo, del tapèinos, diventa una figura di riferimento centrale, una categoria non biologica, ma religiosa: tapèinoi è la traduzione di anawìm, i poveri di JHWH, gli unici che, nell'universale 442 443 Mt l1, 25-26 B. MAGGIONI, o.c., 51 104 corruzione della coscienza religiosa, conservano l'autentica concezione del regno di Dio; piccoli non si nasce, piccoli bisogna diventarlo; in direzione di questa opzione fondamentale per la sequela di Cristo il v. 4 (Se non vi convertirete, se cioè non diventerete come bambini...) usa il verbo strèfein, tornare indietro, fare una conversione a “U”: il verbo... tecnico di quel cambiamento di mentalità che il Vangelo chiede a tutti444. 6.2.2 Il primato dei poveri nella Chiesa delle origini A proposito di poveri e di povertà, l'eredità che Gesù di Nazareth aveva lasciato ai suoi era talmente chiara che l'attenzione ad essi riservata doveva per forza imporsi come una delle linee pastorali portanti del messaggio evangelico. Il nostro informatore in merito al posto riservato ai poveri nella prima Comunità cristiana è Luca, che negli anni 80 (in un contesto di riferimento ormai evoluto rispetto a quando i Dodici avevano dato l’abbrivo all’evangelizzazione del mondo) scrive per alcune comunità formate da cristiani che provenivano dal paganesimo, le stesse delle quali si era preso cura S. Paolo; nei primi otto capitoli degli Atti Luca, idealizzando il sistema di vita della prima Comunità di Gerusalemme, la propone alle comunità del suo giro come modello alto, da imitare, proprio nella coltivazione del primato dei poveri; successivamente ci informerà su diverse raccolte di denaro organizzate a suo beneficio a suo beneficio dalla comunità di Antiochia445 e da Paolo stesso446; il quale Paolo scrive molto prima, tra il 47 e il 58 d.C., ma ci parla solo, anche se ripetutamente447, di una colletta da lui organizzata nelle sue comunità a beneficio della comunità di Gerusalemme. Ma è lecito parlare di primato dei poveri nella Chiesa primitiva? Lo snodo fondamentale per rispondere a questo quesito è nelle parole che Pietro pronunciò davanti ai Dodici quando, convinto che non potessero conciliarsi con l’impegno della predicazione, propose di non lasciare più gestire dagli Apostoli le attività caritative della Comunità e di individuare sette cristiani di fede sincera per delegare loro quel servizio: Non è giusto che noi (i Dodici) trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Che senso avevano quelle parole? Pietro pensava che esistesse un servizio pastorale di serie A, quello della predicazione, che doveva prevalere sul servizio di carità? Oppure voleva dire tutt’altra cosa, il primo papa, tipo: “Purtroppo non dobbiamo scegliere, servizio delle mense o predicazione; e siccome solo noi abbiamo vissuto con Gesù, abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione, e quello che possiamo testimoniare noi …in questo nessuno potrà sostituirci. Mentre del servizio delle mense, parimenti irrinunciabile, possono farsene carico anche altri”. Non la pensava così S. Paolo448, che per almeno 8 anni (tra l'anno 50 e l'anno 58) organizzò di persona collette di denaro a beneficio soprattutto della Chiesa di Gerusalemme; questo potenziava quell'attività assistenziale che - come abbiamo visto - già si era affermata in quella comunità. La domanda è cruciale, anche oggi. Oggi la Chiesa ama definirsi come un “prisma a tre facce” (annuncio, celebrazione e testimonianza della carità), ma la terza faccia di questo prisma è di gran lunga la più debole e pallida: dipende dal fatto che qualcuno interpreta quelle parole di Pietro come una ratifica della convinzione che l’annuncio e la celebrazione sono attività pastorali di serie A, l’esercizio della carità è di serie B? La prassi di Pietro e Paolo, i "principi degli Apostoli", è perfettamente in linea con questo primato della vicinanza del seguace di Cristo agli ultimi. 444 M. GRILLI, Il Vangelo secondo Matteo, in La Bibbia… o.c., 2344 cfr. At 11, 27-30; 12, 25 446 cfr. At 24,17 447 Gal 2,10; 1 Cor 16,1-4; 2 Cor capp. 8-9; Rm 15, 25-32 448 At 6, 1-6 445 105 Pietro. Sulla scia di quello che era stato rimproverato a Gesù, anche a lui449 viene fatta pesare come una pessima abitudine quella che egli invece ha vissuto, da discepolo di Gesù, come un'esperienza di liberazione: la frequentazione della casa di un pagano, il centurione Cornelio. Paolo. Basti ricordare come, parlando ai presbiteri di Efeso in un momento di grandissimo spessore ideale ed emotivo, il momento degli addii, abbia così riassunto le sue fatiche: In ogni occasione vi ho mostrato che, così lavorando, occorre prendersi cura dei deboli, e ricordarsi delle parole di Gesù che disse: è più bello dare che ricevere450. Una splendida sintesi di tutta una vita spesa nella solidarietà. Oltre che la trasmissione d'un prezioso logion di Cristo, che i Vangeli canonici non hanno conservato. Se il primato dei poveri era fuori discussione, le prime comunità cristiane, di fronte alla situazione in continuo movimento, dovuta soprattutto al loro rapido dilatarsi, dovettero ben presto451 porsi il problema di COME tradurlo in azioni concrete452. Tre furono le risposte concrete che, in rapida successione, la prima comunità di Gerusalemme dette al problema dei poveri: 1. la spontanea condivisione dei beni453; 2. un abbozzo di struttura assistenziale gestita direttamente dagli Apostoli454; 3. l'istituzione di un corpus di sette incaricati specifici (6,1-6). 6.2.3 La spontanea condivisione dei beni e il suo plafond culturale Negli Atti degli Apostoli sono due i cosiddetti “sommari”, o “squarci panoramici”, con i quali Luca abbraccia l’insieme della vita di quei primi Cristiani, ambedue sono centrati sul tema della koinonia. Dal primo di questi due “sommari” sappiamo che i circa tremila cristiani che avevano ricevuto il battesimo nel giorno di Pentecoste erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune: chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. La caratteristica fondamentale della nuova comunità è dunque l’ASSIDUITÀ, che si esplica in quattro direzioni: 1. Assiduità all'insegnamento degli Apostoli, i Dodici, ascoltati e venerati perché scelti dal Signore come testimoni della sua vita pubblica e del suo messaggio455; 2. Assiduità alla “koinonía”: la koinonìa non è una generica “unione fraterna”, come vorrebbero alcune interpretazioni minimaliste, ma una vera e propria comunanza di beni economici; i credenti stavano insieme, cioè facevano comunità non alla maniera delle assemblee in uso tra gli Ebrei, ma in quanto avevano tutte le cose comuni (koinà), talmente koiná da far sì che la koinonía si traduceva in alienazione dei propri beni, venduti per condividerli fra tutti, in 449 At 11, 13 At 20, 35 451 Le fonti sono gli Atti degli Apostoli (2, 42-47; 4,32-5,11; 6, 1-6; 11,27-30; 12,2524,17) e le lettere di S. Paolo (Gal 2,10; 1 Cor 16,1-4; 2 Cor capp..8 e 9; Rm 15, 25-32); Paolo scrive tra il 47 e il 58, Luca scrive gli Atti circa 20 anni dopo e riflette una sua situazione ormai più evoluta. 452 Cfr. G. LEONARDI, Le prime comunità cristiane: la carità si fa struttura, in AA.VV. Diaconia della carità della pastorale della Chiesa locale, Gregoriana Padova, 1988, 127 - 149 453 cfr. At 2, 42-47 454 cfr. At 4, 32-37 455 cfr. At 1, 1-3 . 21-22 450 106 proporzione del bisogno di ciascuno. Luca ci tiene a sottolineare la materialità di questa koinonìa, e tornerà a parlarne. 3. Assiduità alla “frazione del pane”; il greco klásis toú ártou traduce l’ebraico cena, che poteva essere o familiare o comunitaria; celebrata a gruppi, per caseggiati456, la cena dei Cristiani includeva certamente anche il rito eucaristico istituito da Gesú457; non sapremmo dire se ogni giorno o solo la domenica. 4. Assiduità alle preghiere comunitarie. Ne nasceva un clima di letizia e di semplicità di cuore: relazioni limpide, senza doppiezza e senza inganno, tipiche dell’era messianica. Estrema attenzione va riservata all’ultima espressione di questo passo famosissimo. Luca riferisce come ultimo e conclusivo dato che i cristiani avevano chárin pròs hólon tòn laón, cioè grazia di fronte a tutto il popolo, frase che comunemente viene tradotta con. Si erano accattivati la simpatia di tutto il popolo; ma un esegeta estremamente attento, il Gamba458 ha dimostrato che il significato di quella frase è tutt’altro: i primi Cristiani non erano un gruppo chiuso, non si limitavano ad esercitare la carità tra di loro, ma esprimevano profonda benevolenza verso tutto il popolo, cioè si facevano carico dei bisogni dell'intero popolo di Gerusalemme, erano attivamente impegni nel soccorso ai poveri dell'intera comunità gerosolimitana. Del resto è difficile pensare che un servizio delle mense talmente estesa da richiedere l’impegno a tempo pieno sette Cristiani eminenti459 potesse essere riservato, idealmente e operativamente, ai soli credenti. Nel secondo “sommario”, o “squarcio panoramico”, Luca riprende il tema della koinonia: La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli Apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessun infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno460. Il bis concesso da Luca ribadisce la sua volontà di presentare la prima Comunità di Gerusalemme come modello, non di un’amicizia non generica, ma improntata alla fede e tradotta in un coerente “comunismo d’amore”; molti cristiani della città sacra lo praticarono, come conferma l’esempio implicitamente elogiativo di Barnaba461, che avendo un campo, lo vendette e ne diede tutto l'importo ag. Apostoli e come ribadisce, per contrasto, l’esempio in negativo, fortemente ed esplicitamente biasimato, dei coniugi Anania e Saffira462 che vendettero pure loro il podere del quale erano proprietari, ma consegnarono agli Apostoli solo una parte di quanto avevano realizzato, affermando che era tutto lì463. “Molti”, non tutti. Luca come storico racconta con esattezza, come portatore d’un grande ideale di fraternità generalizza una situazione che, in ogni caso, doveva essere molto diffusa; ma l’esempio di Anania e Saffira sta a dire che non tutti i Cristiani di Gerusalemme praticarono quel ”comunismo d’amore”… 456 cfr. At 2,42 cfr. Lc 9,16; 22,14; 24,30; At 20,7, in raffronto a 1 Cor 10,16 458 cfr. G.C. GAMBA, Significato letterale e portata dottrinale dell’inciso partecipiale di Atti 2, 47b, citato da G. LEONARDI, Le prime comunità…, o.c.150 cfr. G.C. GAMBA, Significato letterale e portata dottrinale dell’inciso partecipiale di Atti 2, 47b, citato da G. LEONARDI, Le prime comunità…, o.c.150 459 cfr. At 6, 1-6 460 cfr. At 4,32 35 461 cfr. At 4, 36 s 462 cfr. At 5, 1-11 463 l’aspetto più grave del loro comportamento secondo Luca non è l’incompletezza della consegna, ma per la menzogna ingannatrice che l’ha accompagnata. 457 107 Dietro questa presumibile generalizzazione affiora un plafond culturale di tutto rispetto, emerge il profilo di un sogno che appartiene sia alla cultura greca, sia la cultura ebraica. Luca aveva una buona base di cultura greca e nella CULTURA GRECA aveva avuto e tuttora aveva un grande spazio il mito dell'età dell'oro, l’età favolosa nella quale la felicità perfetta era figlia della totale comunione dei beni: quando tra gli uomini tutto è comune, il conflitto viene estirpato alla radice; un sogno vissuto da Pitagora e dai suoi discepoli464, un sogno che affascinò Platone465 e venne rieditato dalle varie scuole filosofiche: la cinica, la stoica e la neopitagorica, invadendo ovviamente anche la cultura latina e condensandosi poi in un proverbio che divenne famosissimo: Tra gli amici le cose sono comuni; non certo in senso giuridico, ma in senso morale; la vera amicizia, prima che uno stato sentimentale/emotivo, è un modo di essere: prima di ogni altra cosa, gli amici - come spiega Aristotele – sono tali perché sono Un’anima sola che abita in due corpi, e questo li induce a mettere a disposizione l’uno dell’altro i beni di cui dispongono. Luca riprende questa espressione, “un’anima sola”, ma per non appiattirsi su di essa le premette “un solo cuore”, dandole una colorazione maggiormente biblica. Il riferimento alla cultura greca inserito nel racconto della vita della prima comunità cristiana voleva dire: l’ideale di amicizia e di comunione dei beni, propugnato dai migliori pensatori greci, è stato realizzato dai cristiani fin dalle loro origini. Nella CULTURA EBRAICA. Forse pensando anche alla più nota delle comunità ebraiche, quella degli gli Esseni di Qum Ran, Luca sottolinea che nella condivisione dei beni adottata dalla prima Comunità cristiana si realizza l’attesa dell'Israele messianico: la frase con la quale si conclude questa parte del brano che stiamo esaminando (Nessuno... tra loro era bisognoso), è attinta dalla famosa raccomandazione del Deuteronomio466: la chiesa di Gerusalemme, nella coscienza di essere lei l'Israele messianico, intese come rivolta a sé quella raccomandazione; si capisce perciò il motivo per cui si impegnò a metterla subito in pratica. La Comunità cenobitica degli Esseni di Qumran s’era dato il nome di Yahad, corrispondente al greco koinonía, e praticava la più rigorosa condivisione dei beni; la prospettiva di questa scelta, come quella della prima comunità cristiana, era escatologica e investiva la mensa, la preghiera, l'istruzione, tutte rigorosamente comuni. Ma, diversamente dalla scelta cristiana, quella degli Esseni era una comunanza di beni istituzionalizzata, obbligatoria, sanzionata penalmente, con una curvatura prevalentemente ascetica, riservata a un gruppo chiuso e dotato di un marcato senso di separatismo, nazionalismo e antipaganesimo. C’erano un economo e dei curatori/amministratori delle cose comuni, con funzioni analoghe a quella degli Apostoli nella prima Comunità cristiana. Ma secondo Luca la vera matrice della condivisione dei beni era L’INSEGNAMENTO DI GESÙ, che aveva messo al centro del suo messaggio una comunità di fratelli in cui nessuno doveva vivere nell’indigenza. Il ricavato della vendita dei beni veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno perché lo scopo della vendita non era la spogliazione di chi alienava i propri beni, ma l’aiuto a chi non aveva nemmeno il necessario; l'ideale non era la povertà, ma la condivisione fraterna dei beni: la prassi della chiesa primitiva che distribuiva era esattamente l’opposto di quella del giovane ricco che aveva rifiutato di seguire Gesù perché era stato invitato da lui a distribuire ai poveri le sue ricchezze467; i discepoli di Gesù per bocca di Pietro avevano dichiarato di aver lasciato le cose proprie468, e nella prima comunità di Gerusalemme nessuno diceva suo proprio469 quello che gli apparteneva. 464 Le stesse cose erano comuni tutte a tutti e nessuno possedeva privatamente alcunché: cfr. GIAMBLICO, La Vita pitagorica, XXX, 168, Laterza 1984 465 cfr. Crizia 110c; Repubblica 464d 466 15,4: Non ci sarà presso di te (mio popolo) nessun povero 467 Lc 18,22; diadìdomi: Mc 10,21: dìdomi = dare 468 Lc 18, 28: tà ídia 469 At 4, 32: idion 108 6.2.4 Un abbozzo di struttura assistenziale gestita direttamente dagli Apostoli Dal punto di vista organizzativo, in At 4,32-35 siamo di fronte ad una struttura elementare di assistenza ai poveri, di taglio spontaneistico/privato: sono i singoli benefattori a distribuire il ricavato delle vendite ai poveri, assumendo come criterio unicamente il bisogno di ciascuno; in At 4, 35.37 (con il suo corrispettivo in 5,2), si intravede un tentativo di organizzazione assistenziale centralizzata: il ricavato delle vendite viene deposto ai piedi degli apostoli, consegnato direttamente ai Dodici, che si incaricano in prima persona di recapitarlo ai membri bisognosi della comunità. Al suo interno il “servizio delle mense” fu uno dei primi impegni concreti della comunità. Ne usufruivano le vedove, gli orfani, i poveri. Gli Apostoli vi provvedevano di persona. Con questo i Cristiani si inserivano nella tradizione ebraica, le cui comunità prevedevano, per il sostegno ai poveri, degli amministratori (parnasìm) che fornivano due tipi distinti di assistenza: un piatto di minestra quotidiano per i poveri forestieri e un cesto settimanale, distribuito il giorno prima del sabato, per i poveri residenti, con vivande sufficienti per 14 pasti ma anche vestiti e altro. E i poveri a Gerusalemme erano numerosi, anche perché i pii ebrei della diaspora amavano tornare a morire nella città santa. Questa assistenza non dovette essere centralizzata, ma distribuita secondo le habhurot o sinagoghe locali.Nelle comunità ebraiche il sostegno della comunità ai poveri prevedeva degli amministratori (parnasìm) che fornivano due tipi distinti di assistenza: un piatto di minestra quotidiano per i poveri forestieri e un cesto settimanale, distribuito il giorno prima del sabato, per i poveri residenti, con vivande sufficienti per 14 pasti ma anche vestiti e altro. E i poveri a Gerusalemme erano numerosi, anche perché i pii ebrei della diaspora amavano tornare a morire nella città santa. Questa assistenza non dovette essere centralizzata, ma distribuita secondo le habhurot o sinagoghe locali. I destinatari del servizio caritativo sono le vedove. La frase può essere intesa letteralmente, indicare cioè le donne che, dopo la morte del marito, rimanevano del tutto indifese, ma alcuni vedono nel dettato di Luca una sinèddoche, cioè una figura retorica che concentra in una sola parola un concetto più complesso: la triade semantica consolidata, non solo nella Bibbia ma in tutto il mondo ebraico e medio/orientale, era straniero, orfano e vedova : la triade dei poveri per antonomasia: la triade dei poveri per antonomasia; Luca dunque dice “vedove” per dire “poveri veramente poveri”. Il contenuto del servizio è il servizio alle mense; ma anche qui le parole usate d Luca non vanno intese in senso restrittivo, di “servire a tavola”; analogamente a quanto abiamo detto a proposito di destinatari, bisogna dire che nei confronti delle vedove (dei poveri) gli Apostoli si limitavano a sorvegliare sul pasto comunitario allestito quotidianamente, che peraltro era un servizio prezioso, ma promuovevano tutta una serie di attività caritative oltre il vettovagliamento: vestiario, sussidi in denaro, sussidi vari: questo, ancora una voltas per sineddoche, è il servizio alle mense in senso lato. 6.2.5 Il servizio dei sette collaboratori degli apostoli Con il rapido ingrossarsi delle fila della comunità, i Dodici dovettero abbandonare la promozione diretta delle attività caritative470 (Non è giusto che noi (i Dodici) trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense); e lo fecero in occasione di un colpo di malcontento da parte dei “cristiani ellenisti”471: si lagnavano che le vedove del loro gruppo venivano (non sappiamo se e in che senso) emarginate nella distribuzione quotidiana dei pasti. Le lagnanze di alcuni membri della comunità, il peso pastorale eccessivo che gravava sulle spalle degli Apostoli e anche le aumentate disponibilità a causa dell'aumentato numero dei discepoli, indussero gli apostoli a chiedere a comunità cristiana di scegliere sette loro membri della comunità per interessarsi direttamente delle vedove e dei poveri trascurati: dovevano essere di lingua greca, perché dai cristiani di lingua greca venivano le lamentele. 470 At 6, 1-6 con questo nome si designavano quei cristiani che parlavano il greco, invece che l’aramaico parlato da tutti, o l’ebraico che pure alcuni conoscevano 471 109 Luca ha raccontato l’episodio utilizzando la fraseologia con la quale la Bibbia aveva raccontato alcuni episodi di scontento contro Mosè nel deserto: una volta a motivo della mancanza di cibo472, un’altra per contestare la scelta dei 70 anziani come collaboratori di Mosé e dì Giosué suo successore473. Il parallelismo è voluto: come al tempo dell’esodo verso la terra promessa venne messo sotto accusa, senza fondamento, il comportamento di Mosè, così è capitato al comportamento dei primi responsabili della Chiesa. Come va inteso il malcontento degli ellenisti contro gli ebrei? A lungo si è detto: i giudeo/cristiani di lingua greca mormorano contro i giudeo/cristiani di lingua ebraico/aramaica, perché pensavano che le vedove (i poveri) appartenenti al loro gruppo fossero in qualche modo trascurate nella distribuzione quotidiana all'interno della comunità cristiana. Oggi non pochi esegeti interpretano il malcontento come proveniente dall'interno dell'intera comunità ebraica di Gerusalemme, della quale tutti i cristiani - come appare costantemente dagli Atti - continuavano a sentirsi membri: la separazione definitiva avverrà solo dopo il 140 d.C.; gli “ellenisti” sono i Giudei di lingua greca, e questo ha un'importanza ecclesiologica veramente notevole: vuol dire che già la prima comunità di Gerusalemme si era aperta ai bisogni altrui senza guardare all'appartenenza di gruppo, come insegnato da Gesù nella parabola del Buon samaritano. Con l'istituzione di questo servizio il gruppo cristiano di lingua greca aumentò il proselitismo, ma si attirò la persecuzione delle autorità e la (provvidenziale) dispersione. Una scelta, dunque, dovuta alla necessità di alleggerire gli apostoli, di permettere loro di dedicarsi al ministero specifico della parola evangelica e della direzione della preghiera comunitaria. I candidati devono avere tre precise qualità: buona reputazione, pienezza di Spirito cristiano e umana saggezza. I prescelti portano tutti nomi greci. Tra di essi c'è anche un proselita, cioè un convertito dal paganesimo: Luca sottolinea che l’apertura verso i pagani è ormai un frutto compiuta. Gli apostoli li investono dell'ufficio col rito tradizionale dell'imposizione delle mani, accompagnato dalla preghiera. Sorprende però che nello stesso contesto il loro capo Stefano474, e poi il successore Filippo475, appaiano dediti alla predicazione e alla fondazione di nuove comunità cristiane. 6.2.6 Sullo sfondo: una cultura radicalmente nuova Ma questa scelta operativa assumeva una straordinaria valenza culturale perché avveniva nel particolare clima tipico del primissimo cristianesimo, il clima dell'attesa per l’imminente ritorno di Cristo nella gloria: tornando presto, Cristo avrebbe presto realizzato in maniera piena e definitiva l'unica giustizia giusta, cioè la giustizia di Dio, e questa giustizia avrebbe spazzato via non solo le ingiustizie interpersonali, ma anche quelle strutturali, i rapporti tra le classi legittimati dall'uso e dalla giurisprudenza sui quali poggiava il razzismo consolidato e stratificato tipico della società greco/romana. La componente dell'attesa, liberata da ogni indebita urgenza, è fondamentale nella concezione cristiana del mondo, perché è essa che ridisegnala mappa dei valori per i quali vale la pena dì spendersi. Non per nulla uno dei due tempi forti dell'anno liturgico, l'Avvento, sarà proprio centrato sull'attesa. E dunque, se è vero che la prassi conseguente a quella scelta ideale viene fortemente motivata dall'attesa del ritorno di Cristo nella gloria, interpretato come imminente, è anche vero che, prima ancora, essa si salda alla complessiva e perenne visione cristiana del mondo. Ma nella loro tensione ad anticipare il giorno della giustizia, nella coscienza di come sia "breve il tempo" che li separa dal suo ritorno, seguaci di Cristo non si limitano a pregare, non giocherellano con la fratellanza intesa come pura comunione di spirito, visto che il mondo è destinato a dissolversi 472 cfr. Es 16,8-20 cfr. Num 11,1-25 e 27,16-23 474 At 6, 8-8,2 475 At 8, 5-13.26-40 e 21,8 473 110 presto: al contrario, da una parte ne perseguono l’espressione concreta, dall’altra ne fanno il perno di una nuova cultura, centrata sulla concezione biblica della vita: la vita è un grande convito, al quale tutti sono invitati, la vita è un bene da condividere con tutti. Quando ancora il profumo del Risorto e il bagliore dello Spirito aleggiano su di loro, gli Apostoli dànno vita ad una riedizione di altissimo profilo dell'unico comunismo serio che la storia abbia conosciuto: quel "comunismo d'amore"476 che può praticare solo chi ha cancellato nel proprio intimo la categoria stessa del padrone, solo chi si sente davvero, fino in fondo, amministratore di risorse destinate a tutti Pregano insieme, fanno catechesi insieme, mettono in comune tutti i beni che possiedono. Si è tentato di minimizzare la portata culturale di quei comportamenti. Qualcuno pensa che quell'esperienza estrema fu propria solo di gruppi ristretti, ma gli Atti degli Apostoli parlano della prima Comunità Cristiana, quella di Gerusalemme, nel suo insieme. Altri dicono: si trattò di una scelta di taglio unicamente religioso. Verissimo, ma con implicazioni socio/culturali forti e connaturate; oggettivamente chi opera una scelta del genere cancella le categorie socio/economiche che tutti dànno per scontate. Nella prospettiva dell'attesa, che valore volete che conservino le gabbiette mentali che da sempre scatenano l'odio e le cupidigie tra gli uomini? Non c’è più Giudeo né Greco, non c'è più schiavo né libero, non c'è più uomo né donna perché tutti siete uno in Cristo477. In positivo, tutto quadra – in fondo - con l'esortazione di Gesù a vendere tutto, seguirlo e così disporre di un tesoro nel regno dei cieli478: quelle scelte esemplificano con totale naturalezza di che tipo sarà la vita nuova dell'uomo nuovo. Siamo davvero di fronte ad una cultura radicalmente nuova. 6.2.7 Un cultura nuova e dialettica479 Un "comunismo d'amore" diversissimo da quello élitario praticato qua e là nella storia, diversissimo da quello che dopo Marx dilagò in Europa e nel mondo, con esiti finali decisamente negativi. Il “comunismo d’amore”480 si radica nella libertà dell'uomo disponibile a lasciarsi trasformare il cuore e non tollera forzature di sorta; il suo presupposto è la comunione profonda e libera; senza libertà non può esserci autentica comunione, ma solo collettivismo disumanizzante; come scriveva Paolo a Filemone, nell'atto di chiedergli la libertà per lo schiavo Onèsimo che era scappato: Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità ... perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo481 A questo punto appare essenziale in ogni morale sociale cristianamente ispirata una forte tensione dialettica tra libertà che tende a responsabilizzarsi mettendo in comune i propri beni e responsabilità che tende a umanizzarsi nella libertà che porta alla comuniuone; dietro questa dialettica, la dialettica teologica tra l'incarnazione che spinge alla comunione e il rispetto di Dio per l'uomo che ne garantisce in ogni caso la libertà. Comunione/libertà dovrebbero essere sempre i due propulsori che. lavorando in coppia, spingono in avanti l'autentica esperienza ecclesiale. Il "comunismo d'amore" scomparve rapidamente. O - meglio - continuò a fermentare nei secoli dopo essere stato come incorniciato in una cornice di rimpianto e di desiderio: puntualmente nei secoli si riproporrà tra i cristiani l’utopia della Apostolica vivendi forma, la "forma di vita tipica degli Apostoli", alla quale guarderanno tutti coloro che in duemila anni metteranno mano alla riforma della Chiesa. Una funzione di fermento che non è mai venuta meno. 476 cfr. V. PAGLIA, Storia dei poveri in occidente, Rizzoli BUR 1994, 50 Gal 3, 28 478 Mc 10, 23 479 si dice dialettico quel rapporto nel quale i due termini si contrappongono e al tempo stesso sì definiscono l'uno in relazione con l'altro. 480 cfr. J. I. GONZALEZ FAUS, o.c. , 16 - 17 481 Fil 8-9-14 ; la lettere di Paolo a Filemone è poco più che un bigliettino 477 111 Se Francesco d'Assisi avesse sognato qualcosa di meno impegnativo per sé e per i suoi, non sarebbe mai stato... Francesco d'Assisi. Ma nemmeno lui riuscì a ridare vita a quel sogno, e ne soffrì moltissimo, soprattutto nei suoi ultimi giorni. Il primato dei poveri nella Chiesa prese ad assumere di età in età forme sempre nuove, preziose, sì, ma... Ma con la fine di quell'esperienza generosa il Regno di Dio tendenzialmente apparve sempre di più come una realtà spirituale, che in maniera più o meno cosciente si è tentato di confinare nella zona dell'ultraterreno, svincolandolo da concrete dimensioni storico/politiche. Ma quello stile di vita, talmente nuovo, così intenso, verrà sempre individuato, sia dai riformatori seri che da quelli abborracciati, come l'unico stile che si confà alla Chiesa ideale. Un mito, l’Apostolica vivendi forma, perché anche la Chiesa delle origini fu attraversata da forti tensioni e oscurata dai peccati dei suoi membri. Ma quel mito alimentò nei secoli il sogno generoso dei Cristiani che – per dirla con Bonhöffer non riuscivano a cantare i salmi mentre l’ingiustizia dilagava nel mondo. E anche oggi, oggi come ieri, riformare la Chiesa significa proiettarla in avanti, sì, ma sulla base del recupero e della ti/attualizzazione di quello stile di vita. INDICE PREMESSA………………………………………………………………..pg…….. Parte I: SULLE TRACCE del DIO DI ABRAMO, DI ISACCO E DI GIACOBBE EXCURSUS: LA PAROLA DI DIO E LE SCATURIGINI DELLA CULTURA PERSONALISTA………………………………………….pg……. Parte II: LE GRANDI OPERE DI DIO, RADICE ULTIMA della SOLIDARIETA’TRA GLI UOMINI……………………………………………….pg……. Parte III: SIGNIFICATIVE ARTICOLAZIONI del SOLIDARISMO BIBLICO nel VECCHIO TESTAMENTO ………………………………pg……. Parte IV: LA PRASSI SOLIDARISTA nel VECCHIO TESTAMENTO……pg…… Parte V: SIGNIFICATIVE ARTICOLAZIONI del SOLIDARISMO BIBLICO nel NUOVO TESTAMENTO………………………………….pg…….. Parte VI: LA PRASSI SOLIDARISTA nel NUOVO TESTAMENTO…………….pg…… 112