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Chiesa cattolica
GERMANIA
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otenza di Dio è la pazienza
D
al 22 al 25 settembre
Benedetto XVI compie
un viaggio apostolico in
Germania a seguito dell’invito rivoltogli dal
presidente federale Christian Wulff –
oltre che a Berlino, il papa si reca a Erfurt, presso la piccola chiesa mariana
di Etzelsbach e infine a Freiburg.
Al di là del profilo politico ufficiale,
il viaggio è caratterizzato anche da incontri di carattere interreligioso (con
rappresentanti della Comunità ebraica
in una sala del Bundestag e con quelli
islamici presso la Nunziatura a Berlino) ed ecumenico (con il Consiglio
della Chiesa evangelica tedesca a Erfurt e con i rappresentanti della Chiesa
ortodossa nel seminario di Freiburg).
Ma uno dei passaggi cruciali è anche il suo «attraversamento» del cattolicesimo tedesco: dalla Conferenza
episcopale al presidente del Comitato
centrale dei cattolici tedeschi, dall’incontro con i cattolici impegnati in ambiti ecclesiali e sociali fino a quello con
l’ex cancelliere Helmut Kohl. A differenza del primo viaggio, quasi autobiografico, questo rappresenta una
sorta di passaggio attraverso gli snodi
maggiori dell’Europa post-bellica, colti
nella loro sintesi rappresentativa, politica e culturale, della Germania
odierna. Non c’è luogo della convivenza umana europea che non sia attraversato oggi da profonde tensioni,
ma non sembra profilarsi all’orizzonte
un’idealità, tanto politica quanto religiosa, che sappia portarle all’altezza
dei compiti che si presentano oggi alle
istituzioni che presiedono alla comune
Appunti sulla Chiesa tedesca
in occasione del viaggio di Benedetto XVI
socialità umana e alla sua ispirazione
spirituale di fondo.
Più per valenza simbolica che per
effettività delle cose, l’attesa è alta sui
fronti sempre più frastagliati di una
Chiesa cattolica che mantiene un’unità formale a prezzo del dissipamento
di un fraterno riconoscimento reciproco delle diverse sensibilità che la
abitano. Ben prima delle questioni di
disciplina ecclesiastica, e a monte delle
tematiche dottrinali, sembrerebbe essere proprio questo il nucleo che indebolisce dall’interno la qualità della
rappresentanza ecclesiale e della testimonianza credente: l’aggressività
comunicativa con cui si nega un diritto
di cattolicità a chi pensa e vive la fede
e la Chiesa in maniera diversa dalla
propria. Una certa ingenuità rispetto
agli ingranaggi mediatici ha sostanzialmente permesso di fare di qualsiasi questione dibattuta, all’interno o
all’esterno della Chiesa, una sorta di
referendum di fedeltà al papa. Salvo
poi venire rapidamente risucchiate nel
grande dimenticatoio dell’informazione contemporanea (basti pensare
al fiume di inchiostro e di parole autorevoli spesi intorno ai cosiddetti «valori non negoziabili»).
La stessa sorte sembrerebbe essere
toccata al Memorandum del febbraio del
2011 sulla crisi della Chiesa cattolica
(cf. Regno-att. 4,2011,82 e Regno-doc.
5,2011,181). Alla veemenza dei toni
che, solo pochi mesi fa, ne ha accompagnato la pubblicazione corrisponde
la sua apparente assenza dal dibattito
pubblico ed ecclesiale – attratto, di
volta in volta, da nuove «notizie» da of-
frire all’ingordigia del mercato comunicativo. Da questa atmosfera complessiva che si è generata consegue una
banalizzazione senza precedenti di termini cardine per l’ordinamento cattolico, come possono essere quelli di eresia e ortodossia. Essi sembrano essersi
ridotti oggi a poco più che opinione, da
ancorare in continuazione a un principio di autorità perché sostanzialmente
incapaci di un’autorevolezza interna
alla loro formulazione.
La necessaria teologia
Eppure tanto l’ortodossia quanto
l’eresia sono esattamente il caso serio
della fede; quello che non capita ogni
giorno a uso e consumo della propria
sensibilità ecclesiale, quanto piuttosto
nel lento maturare di forme e strutture intorno alle quali, non certo senza
confronto talvolta anche aspro, si costruisce la figura della Chiesa del Signore. Giovanni Moioli era solito ricordare che per ben comprendere
un’asserzione dogmatica bisogna conoscere molto bene la posizione teologica rispetto alla quale essa si definisce
vincolando autorevolmente la fede a
venire della Chiesa.
Se si legge con un po’ di spassionata obiettività la storia del cristianesimo, si potrebbe cogliere abbastanza
facilmente quanto la qualità dell’ortodossia
sia legata a un’eresia dal profilo teologico
alto. La grande tradizione della Chiesa
non ha mai avuto timore di una teologia seria e all’altezza del confronto culturale coi tempi in cui si attua la fede;
essa ne è l’esercizio critico che può, e in
certe situazioni deve, spingersi al limite
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ed esplorare tutti gli spazi in cui la fides
Ecclesiae può andare ad abitare per essere fedele al desiderio del Dio di Gesù:
essere presente in presa diretta in ogni
frangente della storia comune degli uomini. Abbassare il livello qualitativo del
sapere teologico, pensando di potersi
garantire così un’aderenza immediata
all’ortodossia, significa spingere verso
il basso lo stesso contenuto normativo
del credere cristiano. E immaginarsi
una Chiesa senza il pungiglione critico
del sapere teologico vuol dire finire col
cedere la rappresentanza culturale della
fede a istanze e persone che non hanno
interesse alcuno per le forme di attuazione della coscienza credente.
Se guardiamo all’uso odierno che si
fa di queste parole, sembrerebbe che
esse da concetti teologici siano divenuti
semplici (e banali) termini politici: duttili, a geometria variabile a seconda dell’occasione, senza più vincolo con la res
del cristianesimo. Il dogma si indebolisce molto di più in questo modo che attraverso posizioni teologiche che lo mettono, o sembrerebbero metterlo, in
questione. Ma di questo pare esserci
poca avvedutezza nella Chiesa cattolica
– senza distinzione tra le diverse posizioni ideologiche in cui essa è scomposta –. Su questo siamo tutti accomunati.
In un’epoca in cui il rumore di
fondo rischia di coprire ogni voce, passare sotto silenzio può essere cosa
buona. Si potrebbe tentare di leggere
anche sotto quest’ottica il destino cui il
Memorandum è andato incontro ben
prima di uscire dalla culla. L’arena
della teologia è quella della fatica del
concetto e non quella dell’inflazione
delle prese di posizione e dei comunicati. Lontani dal fragore mediatico si
può iniziare a dare struttura a ciò cui
un Memorandum può fare al massimo
cenno;1 ma soprattutto si creano spazi
e atmosfere per poter argomentare
(teologicamente) le ragioni della propria adesione come quelle del dissenso.2
Questo recupero di un luogo argomentativo del confronto teologico è un
bene per tutta la comunità ecclesiale –
anche per il magistero. Quando la teologia fa il suo mestiere, e le si lasciano
i tempi e i luoghi atti a svolgerlo, essa sa
generare il circolo virtuoso di un controllo critico interno attraverso il gioco
di interazioni fra le diverse posizioni
che sono disponibili a sottoporsi al-
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l’esercizio paziente del rendere conto
delle proprie ragioni, senza ricorrere
immediatamente all’appello a un’istanza regolativa superiore a essa.
Sostenere questa possibile virtuosità del dibattito teologico è interesse
stesso del magistero, perché gli consente di evitare un eccesso di esposizione e ne preserva l’autorevolezza
della parola. Il fenomeno di un magistero che «produce» da sé la sua teologia è sostanzialmente recente; ed è potenzialmente superato dall’intenzione
stessa dell’attuale pontefice: distinguere
la portata della sua parola in quanto
teologo da quella che lo vede impegnato nell’esercizio del ministero petrino a favore dell’unità della Chiesa.
Valore e autonomia
dell’argomento teologico
È il papa in prima persona a distinguere dunque tra l’autorevolezza della
posizione teologica in forza della sua
portata argomentativa e della disponibilità con cui si sottopone al controllo
del dibattito della comunità teologica,
dal principio di autorità che presiede
alla vita della Chiesa; nella convinzione
che la prima sia funzione necessaria
all’attuazione ecclesiale non meno del
secondo. In questo risiede la sua persuasione che la teologia nel suo complesso sia luogo necessario alla maturazione del giudizio della Chiesa, cui
essa contribuisce secondo i propri modi
e tempi specifici. Un giudizio maturo e
adeguato chiede, da parte del magistero, l’esercizio di quella pazienza che
sola può affinare il discernimento autorevole della Chiesa: accettare i tempi
lunghi del confronto teologico, sostare
nelle ragioni che in esso si adducono,
permettergli di attuarsi secondo l’autorevolezza dell’argomentazione senza
schiacciarlo immediatamente sul principio di autorità, consente alla fede di
penetrare e attestare le presenze del
Dio di Gesù così come esse si danno
nella contemporaneità di ogni tornante
della storia. Al magistero compete certamente una parola, ma esso non esaurisce in sé tutte le parole di cui la fede
è capace e a cui la fede è doverosamente chiamata.
I fondamentali del cristianesimo
non sono principi astratti, ma forme
pratiche dell’esistenza cristiana e figure
concrete dell’istituzione della fede, se
vogliamo dare retta per una volta a
Tommaso, per il quale l’articulus fidei
(quello che noi oggi chiamiamo dogma)
era un’istruzione alla vita beata: il come
deve vivere il cristiano e come dovrebbe essere la Chiesa per poter testimoniare
adeguatamente il Dio di Gesù ed essere
pronti, nel qui della storia, all’incontro
ultimo con lui. La destinazione dell’esistenza credente si decide nella qualità testimoniale del suo abitare la terra.
Per questo il come si attua la Chiesa
nella sua fides non è affatto irrilevante
per la sua fedeltà alla missione che il Signore le ha affidato.
La separazione voluta da Benedetto
XVI tra autorevolezza argomentativa
del sapere teologico e principio di autorità ecclesiale crea da sé lo spazio per
una partecipazione critica della teologia
all’edificazione della Chiesa; e chiede
una teologia ancorata all’accademia dei
saperi e l’altezza di un ragionamento
della fede in grado di confrontarsi, con
liberalità e acutezza evangelica, con la
cultura contemporanea. Auspicandone
così un esercizio che sia anche critica di
civiltà interna alle forme attuali del dibattito pubblico – quello serio, per
quanto ristretti ne siano gli spazi oggi,
e non certo quello dei pamphlet informativi o dei talk-show televisivi –. Su
queste misure si provano la bontà e la
qualità delle posizioni «pro» o «contro» il Memorandum di febbraio.
L’arcidiocesi di Freiburg, nella persona del vescovo ausiliare Paul Wehrle,
ha accolto questa intenzionalità del
papa rispetto alla teologia come momento integrante della sua visita: offrire
un’interlocuzione teologica di alto profilo sui fondamentali del cristianesimo
come uno dei momenti del suo passaggio in diocesi. Lo ha fatto affidando il
compito a un teologo che di Ratzinger
è stato uno dei primi dottorandi, Hansjürgen Verweyen (professore emerito
di Teologia fondamentale dell’Università di Freiburg). Il testo che ne è venuto
fuori è disponibile alla lettura dagli inizi
di luglio con il titolo Domande dalla
Chiesa alla Chiesa.3
A partire dagli anni Sessanta quello
tra Ratzinger e Verweyen è un rapporto
di conoscenza reciproca, confronto
leale, schiettezza di parola, rispettoso
proprio perché aperto anche alla critica
e alla valorizzazione. Dopo il suo ritiro
dall’attività accademica, Verweyen ha
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C AT TO L I C A
Le cifre e i fatti
I
l contesto ecclesiale della terza visita di Benedetto XVI nella
sua patria è agitato e in movimento, come dimostrano sia le
cifre (secondo i dati aggiornati pubblicati dalla Conferenza
episcopale tedesca alla fine di agosto, cf. Zahlen und Fakten
2010/2011. Arbeitshilfe 249, in www.dbk.de), sia le cronache degli ultimi mesi.
Dati e cifre. Su 81 milioni di abitanti, 24,7 milioni sono cattolici: il
30,18% della popolazione (24,1 milioni gli evangelici, 1,2 milioni gli ortodossi, 4 milioni i musulmani, 100.000 gli ebrei). La Chiesa cattolica
conta su 27 diocesi e 11.483 parrocchie, 70 vescovi, 17.274 sacerdoti
(15.136 in servizio pastorale, contro i 19.707 del 1990), 3.032 diaconi permanenti, 28.651 religiosi, 1.657 membri laici di istituti secolari e 10.060
catechisti. I seminaristi minori sono 2.303 e i maggiori 1.151. La figura tipica del ministero laicale tedesco, l’assistente o referente pastorale e
l’assistente o referente di comunità cristiana, è raddoppiata dal 1990:
oggi sono rispettivamente 3.071 (di cui 1.264 donne) e 4.481 (di cui 3.450
donne). Nel 2010 ci sono stati 170.339 battesimi, il 90% dei quali negli
stati dell’ex Germania federale.
Un totale di 1.013.981 alunni frequenta i 9.439 centri di istruzione
di proprietà e/o diretti da ecclesiastici o religiosi, dalle scuole materne all’università. I centri caritativi e sociali di proprietà e/o diretti da ecclesiastici o religiosi contano: 444 ospedali; 1.368
ambulatori; 2.804 case per anziani, invalidi e minorati; 1.172 orfanotrofi e asili nido; 2.176 consultori familiari e altri centri per la protezione della vita; 2.204 centri speciali di educazione o rieducazione
sociale e 468 istituzioni di altro tipo.
Uno tra i numeri più impressionanti è quello delle uscite dalla
Chiesa (tramite l’uscita dalla tassa ecclesiastica): nel 2010 181.193 cattolici, il 50% in più rispetto al 2009, principalmente a seguito della crisi
legata alla pedofilia, ma anche a causa di un lento e progressivo distacco dei fedeli dalla Chiesa per sensibilità culturale e per stile di vita.
acceso dibattito sulla necessità e l’urgenza di riforme nella Chiesa.
Si tratta di una lettera di otto esponenti di spicco dell’Unione cristiano-democratica (CDU) a favore dell’ordinazione di «viri probati»,
diffusa il 21 gennaio, e di un Memorandum intitolato Chiesa 2011:
mettersi in cammino è necessario, sottoscritto tra febbraio e
marzo da molti docenti di teologia nei paesi di lingua tedesca (cf.
Regno-att. 4,2011,82; Regno-doc. 5,2011,181).
«Iniziativa di dialogo». La risposta dell’episcopato tedesco
consiste nella messa in campo di un ampio e strutturato processo
di dialogo (cf. Regno-att. 10,2011,301), che si svolgerà da subito fino
al 2015 e che coinvolgerà tutte le componenti del corpo ecclesiale
(non è un Sinodo, cioè un’assemblea chiamata a prendere decisioni,
ma un forum di dialogo che mira al confronto e alla riflessione, ha
detto il presidente della Conferenza episcopale ad Avvenire il 21
settembre). Sul primo appuntamento, che si è tenuto l’8 e 9 luglio
a Mannheim, i vescovi Marx (Monaco), Overbeck (Essen) e Bode
(Osnabrück) insieme al loro presidente hanno informato il papa a
metà agosto. A Mannheim dei 27 vescovi ne era presente la metà.
Davanti ai punti scottanti della piattaforma riformista è stato posto
il limite della «non negoziabilità». Il presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, Alois Glück, ha messo in guardia dalla
«cultura dell’inconcludenza».
«Ci potranno essere dei passi avanti». In un’intervista al settimanale Die Zeit il 5 settembre il presidente della Conferenza
episcopale tedesca mons. Robert Zollitsch si è detto convinto
che «sul tema dei divorziati risposati ci potranno essere dei passi
avanti». Il card. Meisner di Colonia e il nunzio apostolico in Germania, l’arcivescovo Jean-Claude Périsset, hanno preso le distanze da quanto l’arcivescovo di Freiburg avrebbe affermato
come opinione personale e non in quanto presidente dei vescovi.
Appelli e Memorandum per la riforma della Chiesa. Tra gennaio e febbraio due forti prese di posizione innescano un lungo e
contribuito non poco a introdurre il cattolicesimo tedesco al pensiero di Ratzinger;4 facendolo teologicamente e non
per compiacenza verso il ministero petrino esercitato ora dal suo antico maestro. In tal modo Verweyen ha onorato
debitamente quella distinzione e separazione che Benedetto XVI desidera
rispetto alle proprie parole. Anche questa sua ultima pubblicazione rientra in
questo stile. Proprio perché i fondamentali del cristianesimo si decidono
nell’attuazione pratica della fides Ecclesiae, Verweyen auspica che «Benedetto
XVI, nonostante tutte le ambivalenze
che si trovano in esso, non solo prenda
nota del Memorandum, ma che lo prenda
anche molto, molto sul serio» (p. 8).
Perché uno dei compiti della teologia è
quello di essere pronta a «rendere ragione della lieta notizia di Gesù davanti
alla ragione mondana, che oggi percepisce ancora solo poca gioia in quell’annuncio» (p. 9).
Due i cespiti fondamentali di questo
agile libretto di Verweyen: da un lato il
ruolo e la funzione della Scrittura rispetto all’attuazione della Chiesa e al
lavoro teologico; dall’altro il senso dell’eucaristia e dell’immagine della presenza di Dio cui si accede nella sua celebrazione. Anche quando va a toccare
questioni di disciplina ecclesiale, legate
ai punti avanzati dal Memorandum, Verweyen ne cerca il raccordo con questi
due luoghi originari del cristianesimo,
D. S.
e profila soluzioni possibili che non vadano a intaccare la costituzione teologica della Chiesa cattolica. Il concreto
esistente, quello che la Chiesa già è,
offre spazi per un dibattito, sereno e
non polarizzato, e per soluzioni effettive dei problemi esistenti. Nessuna richiesta di adeguazione allo spirito del
tempo, ma un’intelligenza del fatto che
essendo quello che è la Chiesa può far
fronte a questioni aperte che le si pongono nell’oggi della sua missione a favore degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Accessi alla Scrit tura
Il cristianesimo non può fare a
meno della storia, data la «materialità»
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corporea dell’accadere di Dio nella
carne del suo logos filiale; ma in quanto
evento di una donazione ultimamente
valida del senso, proprio quella «materialità» oppone una resistenza all’accesso della verità della sua donazione
mediante il solo accumulo di informazioni, il più possibile accurate, sull’effettività del suo accadere.
Non si accede dunque alla res delle
Scritture cristiane senza un’adeguata
conoscenza storica, ma non si entra
nel loro senso teologico senza l’accertamento dell’impatto esistenziale che
essa ha prodotto sulla testimonianza
scritturistica del suo accadere: «Una
testimonianza ecclesiale credibile non
può sfuggire alla questione di come
essa porti al linguaggio veramente
Gesù di Nazaret, senza presentarlo in
un rivestimento mitico (...). Il problema
fondamentale, che non è stato scorto, è
che gli esiti della critica storica, che
sono in grado di avocare per sé al massimo la migliore probabilità possibile,
svuotano l’incondizionatezza della confessione resa a Gesù, a meno che non
venga inclusa la persuasione che regge
tale confessione della fede» (p. 27).
La percezione dell’evento (teologico) del senso che ha generato tale
persuasione, che ne è parte integrante
in quanto ne realizza la verità, si sottrae
alla lente della «scienza storico-critica»
in quanto presuppone una «musicalità» (p. 33) che si genera dall’accordare
fiducia incondizionata al carattere promettente di quell’accadere: «Per cogliere la dinamica che prende le mosse
da Gesù devono essere trovate, e diagnosticate nella maniera più precisa
possibile, proprio quelle mura colpite e
segnate dalla pietra gettata che è Gesù.
Come “oggetto” di questa indagine all’indietro troviamo degli uomini che,
mediante il loro incontro con Gesù,
hanno messo radicalmente in questione
la vita vissuta fino ad allora e i modi di
vedere le cose a essa legata, divenendo
così disponibili a una conseguente conversione» (p. 34).
La qualità testimoniale della fides
Ecclesiae è la disponibilità di far accadere nella propria carne la medesima
forma dell’evento «materiale» di Dio
che è il vissuto di Gesù di Nazaret. Tale
disponibilità si realizza, nell’ordine
scritto della parola, in forma «canonica» nella fase redazionale dei quattro
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Vangeli. L’analisi storico-critica è necessaria, in quanto ci permette una conoscenza del materiale sul quale ha lavorato la fede testimoniale degli
evangelisti stessi, il loro «essere colpiti»
dall’evento cristiano di Dio; su questa
base, e solo su di essa, è possibile percepire e cogliere il lavorio che quel
colpo ha prodotto su di loro stratificandosi testimonialmente nella redazione finale del testo: «L’importanza
maggiore risiede piuttosto nelle “modifiche redazionali” che gli evangelisti
hanno apportato alle fonti che erano
giunte loro, ritenendo che così facendo
avrebbero trasmesso esattamente ciò
che avevano ricevuto. È proprio a partire da queste modifiche redazionali
che si può accedere alla specifica teologia che è propria a ogni evangelista,
ossia riconoscere quei luoghi in cui il
messaggio partito da Gesù è penetrato
in essi indirizzando il loro parlare e
agire lungo nuove vie» (p. 35).
L’originaria forma testimoniale
della fede si diffrange canonicamente nel
prisma quadriforme dell’attestazione
scritturistica dell’identità teologica del
vissuto di Gesù con la presenza reale di
Dio nella storia umana. Gli «scarti» redazionali fra questa pluriforme testimonianza di Dio non possono essere
fatti giocare l’uno contro l’altro, pena
mancare la realtà di un evento che accende il plurale canonico della sua attestazione; ma non è possibile neanche selezionare esclusivamente una di
queste diffrazioni testimoniali a scapito
delle altre, perché così facendo la si sottrarrebbe alla funzione regolativa della
pluriforme attestazione evangelica dell’evento cristiano di Dio che, solo in
quanto tale, vale come regula di ogni
fede a venire.
Le ragioni redazionali interne, che
sono alla base degli «scarti» caratterizzanti la policromia evangelica dell’attestazione del canone scritturistico cristiano, fanno parte della regola normativa stessa della fede. Esse nascono
dalle esigenze di un’interlocuzione culturale con le diverse condizioni in cui il
cristianesimo veniva chiamato a rendere testimonianza dell’evento di Dio
che è il vissuto di Gesù. Tale gesto è costitutivo del carattere canonico delle
Scritture, aprendo così spazi inaspettati
per la rappresentazione istituzionale e le
rappresentazioni testimoniali della fede
davanti all’«inedito» incessante che nasce dal loro radicamento corporeo nella
realtà della vita e della storia così come
esse si danno. Spazi a cui la Chiesa può
attingere per far fronte alle questioni
che le si pongono nel suo essere segno
evidente della contemporaneità di Dio a
ogni passaggio ed epoca dell’esistenza
umana, nella persuasione incondizionata che proprio così facendo essa rimane
fedele al suo Signore.
Memoria eucaristica
di Gesù come dedizione
di sé e at tesa degli altri
La forma cristologica della dedizione incondizionata di sé quale rappresentanza definitiva della verità cristiana di Dio si condensa realisticamente
nella memoria eucaristica del Signore:
«Se non si vuole che il messaggio della
Chiesa si esaurisca in aride parole, allora la reale e permanente presenza della vittoria di Gesù sulla morte deve essere riconoscibile per tutti anche nella
forma di segni (...). Nella misura in cui
in tali segni è realmente presente il nucleo incandescente della vita, morte e risurrezione di Gesù, allora la Chiesa non
può fare altro che considerare questo essere presente memoriale come parte integrante dell’annuncio che le è affidato» (p. 38).
Nel segno memoriale dell’eucaristia è presente anche quella tensione caratteristica dell’attestazione evangelica fra
Dio, il Padre, e il Figlio, che giunge all’apice nella preghiera del Getsèmani e
si concretizza drammaticamente nell’urlo
crocifisso di Gesù, in cui egli fa esperienza del radicale abbandono di Dio
proprio nel cuore dell’incondizionata fiducia che gli concede rivolgendogli
questa sua ultima parola. È questo il punto attraverso il quale è possibile una ripresa del difficile concetto di espiazione.
Verweyen distingue accuratamente
due aspetti opposti e inconciliabili iscritti in esso: davanti alla consapevolezza delle ferite che ho provocato all’altro sorge
il giusto sentimento di dover riparare a
quanto fatto, poiché è in questo sentimento che vedo per la prima volta le ferite inferte agli altri, così che esso disàncora il mio essere centrato su me stesso; d’altro lato, abbiamo l’idea religiosa
della nostra ingiustizia davanti a Dio accompagnata dalla paura per le conseguenze che dovremo scontare per essa
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e, quindi, il sorgere di un sentimento di
espiazione che ci preservi da esse. Ma,
in tal modo, sono di nuovo l’egoismo del
proprio io e la preoccupazione per sé a
muovere la dinamica di espiazione, cui
corrisponde un’immagine di Dio ben
lontana da quella realizzatasi nella dedizione incondizionata di sé che è Gesù:
«Prima di ogni nostra decisione per la
conversione, e al di là di ogni inutile tentativo di aggraziarci Dio, Gesù Cristo si
è già messo al nostro posto, ed è soltanto così che possiamo riottenere accesso
a Dio» (p. 45).
Accanto a questa commercializzazione di scambio è importante evitare
tanto una comprensione magica della
partecipazione eucaristica alla dedizione di sé di Gesù Cristo, quanto una
sacralizzazione mitica dell’eucaristia
stessa. Verweyen sviluppa questi aspetti
sul filo della tradizione paolina della
cena del Signore. Che i molti siano un
corpo in Cristo (cf. Rm 12,5) implica,
da un lato, che le differenze sociali presenti nella comunità cristiana non vengano duplicate nello spazio dell’assemblea eucaristica che, nell’essere partecipazione al corpo di Cristo, deve essere
partecipazione e condivisione effettiva
dei vissuti di ciascuno; e, d’altro lato,
implica che partecipare al Signore significa aver parte al realismo del suo vivere e morire: quando Paolo parla della
Chiesa come corpo di Cristo (senza articolo) si tratta «di un’affermazione di ciò
che essa deve essere, più che di ciò che
essa è: nella sua vita la comunità deve
trarre le conseguenze dall’unità con il
corpo offerto, e che si offre sempre di
nuovo, della dedizione di sé di Gesù Cristo – unità fondata nel battesimo e resa
presente nell’eucaristia» (p. 63).
A Corinto il vincolo fra l’atto cultuale eucaristico e il vissuto quotidiano
dei cristiani era espresso dal legame che
univa un pasto in comune tra i membri
della comunità e la celebrazione cristiana: la presenza reale del Signore,
per Paolo, si situa proprio nella qualità
esistenziale di tale legame. È questo il
luogo in cui si realizza l’essere-corpoper che è la dedizione incondizionata di
Gesù, dove «la “sostanza-corpo” consiste solo nella relazione del “per”» (p.
66): l’essere-per della dedizione di sé
fissa l’essenza stessa del corpo di Cristo
cui si ha parte nella celebrazione eucaristica: essa è lieto «annuncio di questo
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vivificante essere per altri, anche e proprio al di là dello spazio interno della
Chiesa, nell’attesa del ritorno del Signore, che non significa volgere impazientemente lo sguardo verso una gloria
futura, ma che nell’imparare ad attendere gli altri è in grado di ottenere la necessaria perseveranza» (p. 68) per l’attesa del Signore di tutti.
L’eucaristia non consiste nella fissazione su oggetti/elementi sacri, quanto
piuttosto trova il suo «elemento integrante, se non addirittura essenziale» in
questa attesa degli altri, dei poveri, di
chi è nel bisogno e nella sofferenza: è
solo così che si celebra la cena di colui
«che è qui solo nella forma dell’esistenza per altri (...). In memoria della
morte di Gesù dovremmo fare quello
che egli ci dice con estrema chiarezza
attraverso i suoi messaggeri: spezzare il
pane in modo tale che anche altri possano trovare il coraggio di passare al vaglio le loro cattive abitudini. Insieme a
loro potremmo utilizzare tutta la nostra immaginazione per trovare il modo
in cui sia possibile trasporre questo
nuovo inizio nel piccolo all’interno della
realtà politica ed economica del nostro
tempo – con un esercizio impegnato, e
proprio per questo gratuito, delle nostre
forze» (p. 71.75).
La pazienza del contadino
«Potenza di Dio è la pazienza», il suo
voler essere attesa di un libero riconoscimento da parte di ogni uomo e ogni
donna, tempo dato al lavorio spirituale
e culturale di una conversione dalla concentrazione preoccupata solo di sé alla
dedizione di sé in favore di chiunque.
Pazienza che costituisce l’armonica dell’Alleanza, la cui passione per l’umano
genera effetti inaspettati e sorprendenti
di attaccamento di Dio proprio là dove ci
sarebbero tutte le ragioni per un congedo definitivo (cf. Osea).
La pluralità evangelica dell’attestazione dell’essere-corpo-per del vissuto
di Gesù rappresenta la sedimentazione
regolativa di questa pazienza divina,
che la Chiesa, nel segno realistico della
sua presenza, celebra come legame fra
effettività della vita quotidiana e atto liturgico della memoria del Signore. Pazienza alla quale Gesù non cessa mai di
istruire i suoi discepoli, nell’esercizio
teologale di un’attesa sapienziale necessaria al discernimento delle multi-
formi presenze di Dio. Dalla sua Chiesa
Dio si aspetta quantomeno la pazienza
del contadino, quella che sa dei tempi
del seme e dei ritmi della terra, quella
capace di attendere prima di mettere
mano al campo in cui crescono insieme
l’erba buona e la gramigna, quella che
non teme che i segni sicuri della rivelazione nei gesti della liberazione dal
male accadano anche al di fuori di
quelli che sono con noi.
La pazienza è la virtù seria dell’esercizio teologico, senza la quale la
fatica del concetto diventa semplice slogan o banale asservimento a uso e consumo del mercato mediatico; è quel
tempo lungo in cui, mediante il confronto critico e la dialettica delle diverse
posizioni, essa genera un sano e fecondo
controllo reciproco. L’unità della Scrittura non ha alcun timore della pluralità
che ne costituisce l’attestazione normativa; anzi, vive proprio di essa come il
Dio che testimonia a canone di ogni
fede a venire. Quello di cui oggi abbiamo bisogno è esattamente una teologia di alto profilo che, nel suo essere
dalla Scrittura,5 sia al tempo stesso generata dalla «materialità» corporea dell’evento cristiano di Dio e destinata alla
pratica quotidiana del credere nella contemporaneità. Abbassare ulteriormente
il livello del sapere teologico, quale che
sia la ragione per cui si mira a questo,
non fa bene alla Chiesa: la lascia più debole nell’esercizio della sua missione e
più esposta alla strumentalizzazione dei
fuochi fatui di un’«apologia» del cattolicesimo che non ha interesse alcuno per
la cura della fede e la dedizione di sé a
favore dell’umano chiunque.
Marcello Neri
1
Cf. M. HEIMBACH-STEINS, G. KRUIP, S.
WENDEL (a cura di), Kirche 2011: Ein notwendiger
Aufbruch. Argumente zum Memorandum, Herder, Freiburg 2011.
2
J. KÖNEMANN, T. SCHÜLLER (a cura di),
Das Memorandum. Die Positionen im Für und Wider,
Herder, Freiburg 2011.
3
H. VERWEYEN, Fragen aus der Kirche an die
Kirche, Freiburger Texte 59 (Schriftenreihe des
Erzbistums Freiburg), Freiburg 2011.
4
Cf. H. VERWEYEN, Ein unbekannter Ratzinger.
Die Habilitationsschrift von 1955 als Schlüssel zu seiner Theologie, Pustet, Regensburg 2010; ID., Joseph
Ratzinger - Benedikt XVI. Die Entwicklung seines Denkens, WBG, Darmstadt 2007, cf. Regno-att.
12,2007,421.
5
Cf. ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA,
Teologia dalla Scrittura. Attestazione e interpretazioni,
Glossa, Milano 2011.
IL REGNO -
AT T UA L I T À
16/2011
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