Lionel Shriver Tutta un’altra vita Traduzione di Laura Prandino Titolo originale:So Much for That © 2010 by Lionel Shriver All rights reserved. Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI) I Edizione 2011 © 2011 - Edizioni Piemme Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it Uno Shepherd Armstrong Knacker Conto Merrill Lynch numero 934-23F917 1° dicembre 2004 – 31 dicembre 2004 Valore netto portafoglio: US$ 731.778,56 Cosa metti in valigia per il resto della vita? In occasione dei loro viaggi di ricerca – lui e Glynis non li avevano mai definiti “vacanze” – Shep finiva sempre per caricarsi troppo, per ogni evenienza: abbigliamento da pioggia, un maglione nella remota possibilità che a Puerto Escondido facesse improvvisamente freddo. Ma davanti all’incommensurabilità degli imprevisti, l’impulso era di non portarsi niente. Non c’era un motivo logico per aggirarsi in casa furtivo come un ladro venuto a svaligiare la sua stessa abitazione, badando a come appoggiava i piedi sulle assi del pavimento e sussultando quando scricchiolavano. Si era assicurato che Glynis rimanesse fuori fino a sera (per un “appuntamento”: anche se gli scocciava che non gli avesse detto con chi, né dove). Con la debole scusa di verificare i piani per la cena di suo figlio Zach, che da almeno un anno non consumava un pasto regolare con i genitori, si era fatto confermare che si sarebbe opportunamente fermato a dormire da un amico. Shep era solo in casa. Non 9 c’era ragione di sussultare quando scattava il riscaldamento. Non c’era ragione che gli tremasse la mano mentre la infilava nel primo cassetto alla ricerca delle mutande, come se da un momento all’altro qualcuno dovesse ammanettarlo e leggergli i suoi diritti. Solo che, a modo suo, Shep era davvero un ladro. Forse il tipo più temuto nelle case americane. Era rientrato dal lavoro prima del solito per rubare se stesso. La sacca interna della sua grossa Samsonite nera era aperta sul letto, spalancata come lo era sempre stata per partenze meno radicali, un anno dopo l’altro. Fino a quel momento conteneva solo un pettine. Si costrinse all’abituale procedura di mettere insieme uno shampoo da viaggio e il kit da barba, per quanto dubitasse che nell’Aldilà avrebbe continuato a radersi. Però lo spazzolino elettrico gli pose un dilemma. Sull’isola l’elettricità c’era, certo, ma non si era preoccupato di scoprire se usassero le prese americane con due contatti piatti, le più grosse spine inglesi a tre contatti, o il tipo europeo più sottile, con i contatti cilindrici distanziati. Non sapeva neppure se il voltaggio locale fosse 220 o 110. Negligente: erano proprio i dettagli che avevano sempre controllato con scrupolo per i precedenti viaggi di ricerca. Anche se, in effetti, negli ultimi tempi erano diventati molto meno sistematici, specie Glynis, che per i viaggi all’estero più recenti si era addirittura lasciata sfuggire il termine vacanze. Un cambiamento rivelatore, e ce n’erano stati altri. Dapprima refrattario al ronzio trapanacranio dell’Oral B, Shep aveva poi cominciato ad apprezzare la sensazione di levigatezza dei denti quando il fastidio finiva. Come per tutti i progressi tecnologici, sarebbe apparso innaturale tornare al vigoroso strofinamento con setole di nylon e manico di plastica. Ma se tornando a casa Glynis fosse andata in bagno e si fosse accorta che lo spazzolino di 10 Shep, quello con l’anello blu, non c’era più, mentre il suo, con l’anello rosso, era ancora al suo posto sul lavandino? Meglio che proprio quella serata non cominciasse all’insegna di perplessità o sospetti. Poteva sempre prendere quello di Zach – non gliel’aveva mai visto usare –, ma non ci si vedeva, a sgraffignare lo spazzolino di suo figlio. (L’aveva pagato Shep, ovviamente, come buona parte di quello che c’era in casa. Eppure quasi niente gli sembrava suo. Un tempo la cosa lo turbava, ma ora gli era più facile abbandonare la centrifuga per l’insalata, lo StairMaster e i divani.) Peggio che mai, lui e Glynis condividevano la stessa base caricabatterie. Non voleva lasciarla con uno spazzolino destinato a sopravvivere solo cinque o sei giorni (in realtà non voleva lasciarla e basta, ma quella era un’altra storia): la vibrazione sempre più debole fino a spegnersi, colonna sonora perfetta per una delle ricorrenti depressioni della moglie. Perciò, dopo aver già allentato di un paio di giri il supporto a parete, lo riavvitò al suo posto. Rimise il rassicurante spazzolino elettrico nella sua base e ne scovò uno tradizionale nell’armadietto dei medicinali. Avrebbe dovuto abituarsi alla regressione tecnologica e questo, lo sentiva confusamente, non poteva fargli che bene. Una specie di ritorno a uno stadio di sviluppo ancora comprensibile. Non aveva intenzione di tagliare la corda, di fuggire dalla sua famiglia senza avvisare o senza dare una spiegazione. Sarebbe stato crudele, o ancora più crudele. E nemmeno voleva metterla davanti al fatto compiuto, un saluto mentre era già sulla porta. Ufficialmente le avrebbe proposto una scelta, una scelta che per risultare credibile gli era costata un occhio della testa. Con tutta probabilità si era comprato solo un’illusione. Ma un’illusione non aveva prezzo. Per questo aveva comprato non un solo biglietto ma tre. Non rimborsabili. Se il suo istinto 11 l’avesse tradito e la scelta di Glynis l’avesse sorpreso, Zach di certo non l’avrebbe apprezzato. Ma il ragazzo aveva quindici anni e poteva diventare un buon esempio di regressione dello sviluppo: una volta tanto, un adolescente americano avrebbe fatto quello che gli si diceva. Per la paura di farsi cogliere in flagrante, aveva finito troppo presto. Glynis non sarebbe rientrata per un altro paio d’ore e la Samsonite era piena. Per via dei dubbi su prese e corrente, ci aveva infilato anche qualche attrezzo manuale e un coltellino svizzero; nei momenti di crisi, un paio di pinze a becco lungo ti davano più fiducia di un BlackBerry. Solo un paio di camicie, perché progettava di indossare camicie diverse. O di non indossarle proprio. Un po’ di cianfrusaglie che per uno come Shep potevano fare la differenza tra il disastro e la beata autosufficienza: nastro isolante, un assortimento di viti, bulloni e rondelle; lubrificante, sigillante, elastici (bande elastiche, per i tipi all’antica del New Hampshire come suo padre), e un piccolo rotolo di fil di ferro. Una torcia elettrica per quando mancava la luce e una scorta di pile. Un romanzo che avrebbe dovuto scegliere con più cura se aveva intenzione di portarne uno solo. Un frasario inglese-swahili, pillole per la malaria, repellente per insetti. La pomata al cortisone per il suo persistente eczema alla caviglia, un tubetto destinato a finire presto. E per evitare di portarsi altro, il suo libretto d’assegni Merrill Lynch. Non voleva sembrare calcolatore, ma la scelta di continuare a mantenere il conto corrente solo a suo nome si era rivelata fortunata. Poteva – e l’avrebbe fatto, ovvio – offrirsi di lasciarne metà a Glynis; non che lei ne avesse guadagnato un centesimo, ma erano sposati e così stabiliva la legge. Però doveva metterla in guardia: poche centinaia di migliaia di dollari non sarebbero durate a lungo, 12 a Westchester, e prima o poi le sarebbe toccato abbandonare il “suo lavoro” e lavorare invece per qualcun altro. Aveva dovuto imbottire la Samsonite con carta di giornale perché le sue poche cianfrusaglie non sbatacchiassero troppo nel deposito della British Airways. La infilò nell’armadio a muro, coprendola quasi del tutto con una vestaglia. Una valigia pronta sul letto avrebbe allarmato Glynis molto più della scomparsa di uno spazzolino da denti. Shep si piazzò in salotto con un bicchiere di bourbon. Non aveva l’abitudine di cominciare la serata con roba più forte di una birra, ma, se avesse continuato a rispettare le abitudini, quella serata non sarebbe mai arrivata. Sollevò i piedi sul tavolino e si guardò attorno nella stanza piacevole ma arredata al risparmio, incapace di rimpiangere il panorama familiare che stava per lasciarsi alle spalle, a parte la fontanella. Quanto a separarsi dai cuscini decorativi o dall’anonimo tavolino su cui la fontanella zampillava, non poteva che esserne felice. Al contrario, la fontanella l’aveva sempre riempito di una cupidigia tipicamente borghese, il desiderio di quello che è già tuo. Si chiese oziosamente se, avvolta nei giornali che imbottivano la valigia semivuota, sarebbe entrata nella Samsonite. Continuavano a chiamarla la “fontana matrimoniale”. Quell’apparato d’argento aveva fatto da centrotavola al modesto ricevimento nuziale fra amici di ventisei anni prima, raccogliendo lavoro, talento e natura stessa di sposo e sposa. Fino a quel momento la fontana matrimoniale era l’unico progetto al quale lui e Glynis avessero collaborato alla pari. Shep si era fatto carico degli aspetti tecnici dell’aggeggio. La pompa era ben nascosta da una finitura di metallo a specchio attorno al bacino; visto che il meccanismo era costantemente in funzione, nel corso degli anni l’aveva sostituita più volte. Competente sulla meccanica dell’acqua, aveva stabilito lui portata e pro- 13 fondità degli zampilli, e l’altezza delle cadute da un livello all’altro. Glynis aveva invece deciso le forme da dare al metallo, la linea artistica, forgiando e saldando le singole parti nel suo vecchio studio di Brooklyn. Per i gusti di Shep, la fontanella era austera; per Glynis, ornata. E così, anche da un punto di vista stilistico, il manufatto era un compromesso fra due menti. Ed era romantica. Uniti alla sommità, due zampilli argentei ondulati si separavano per poi ricongiungersi come colli di cigno, uno di sostegno e l’altro che si infrangeva nella coppa del compagno in attesa. Più sottili all’apice, i due flussi centrali della loro creazione si allargavano e ricadevano in volute più ampie e complesse verso il bacino. Lì, il contributo dei due tributari della fontana formava una bassa polla interna, fondendo le risorse nel vero senso della parola. La maestria artigianale di Glynis era di alto livello. Persino nei momenti in cui era più occupato, Shep rendeva omaggio al suo virtuosismo mantenendo costante il livello dell’acqua e svuotando regolarmente il marchingegno per lucidarlo. Senza la sua costante manutenzione, l’ingiallirsi dell’argento avrebbe potuto suggerire una patina che non si limitava al solo metallo. Partito lui, c’era da aspettarsi che lei staccasse tutto e facesse sparire la fontana. L’allegoria dei due zampilli che alimentavano una polla comune rappresentava un ideale mai raggiunto. Eppure la fontana era riuscita a integrare felicemente i rispettivi elementi. Glynis non solo lavorava i metalli (o almeno li aveva lavorati in passato): era lei stessa metallo. Rigida, ferrea, inflessibile. Dura, rifrangente, e scintillante di sfida. Alta, sottile e spigolosa come i gioielli e le posate che modellava un tempo; alla scuola d’arte Glynis non aveva scelto a caso il suo mezzo espressivo. Per lei era naturale identificarsi con un materiale che si rifiutava così fieramente di fare quello che volevi, resisteva a ogni cambia- 14 mento di forma e rispondeva solo alle maniere forti. Il metallo era irriducibile. Se maltrattato, le ammaccature e i graffi catturavano la luce come se portassero rancore. Che a lui piacesse o no, l’elemento di Shep era l’acqua. Adattabile, duttile, pronta a seguire il percorso di minore resistenza, seguiva la corrente, come si diceva ai suoi tempi. L’acqua era remissiva, docile, facile da catturare. Non che andasse fiero di quelle doti; l’arrendevolezza non gli sembrava virile. D’altra parte, l’apparente malleabilità del liquido poteva ingannare. L’acqua era piena di risorse. Come ogni proprietario di casa con un tetto vecchiotto o tubature corrose sapeva anche troppo bene, l’acqua era insidiosa e, silenziosamente, riusciva sempre a farsi strada. L’acqua aveva una sua volontà contorta, un’insistenza infida e insinuante, uno speciale istinto per individuare l’unica fessura o punto di congiunzione permeabile. Prima o poi l’acqua riuscirà a entrare, se così vuole, oppure – com’era il caso di Shep – a uscire. Le prime fontane della sua infanzia, assemblate con materiali poco adatti come il legno, perdevano regolarmente, e il suo parsimonioso padre lo rimproverava per quelle «cannelle malriuscite», come le chiamava lui, che facevano solo sprecare acqua. Ma Shep diventò più ingegnoso con gli oggetti che rimediava in giro: coppette ammaccate, pezzi di vecchie bambole di sua sorella. Le creazioni successive rilasciavano acqua solo per evaporazione. Le sue bizzarrie diventarono anche dinamiche, con ruote a pale, tazze che si riempivano e svuotavano, getti che tenevano in sospensione qualche oggetto, zampilli che facevano risuonare bubboli di conchiglie o frammenti di vetro colorato. Aveva sempre conservato quella passione. Come contrappeso all’incessante razionalità della sua vocazione, le fontane erano favolosamente frivole. Quell’eccentrico passatempo non costituiva certo una 15 pretenziosa metafora del suo carattere, ma derivava, molto più banalmente, da un ricordo d’infanzia. Tutti gli anni, a luglio, i Knacker affittavano una casetta nelle White Mountains, accanto alla quale scorreva un ampio torrente impetuoso. A quei tempi i bambini avevano il privilegio di godersi vere estati, ampie distese di tempo privo di impegni che sconfinavano in orizzonti indistinti. Un’apparenza di infinito ovviamente illusoria, ma non per questo meno allettante. Tempo su cui improvvisare, da suonare come un sassofono. E così, per lui, lo scorrere dell’acqua si associava indelebilmente alla pace, all’ozio e a una languida serenità che ormai i bambini, tra corsi estivi di matematica, lezioni di recupero, lezioni di scherma e giochi organizzati sembravano non riuscire mai ad assaporare. Era quella la ragione dell’Aldilà, riconobbe non per la prima volta mentre si versava un altro dito di bourbon. Rivoleva indietro le sue estati. Per tutto l’anno. Nessuno dei vari tentativi di scuola domenicale o gruppi cristiani giovanili aveva mai affascinato Shep, ma la vera esperienza formativa che Gabriel Knacker aveva offerto al figlio allora sedicenne era stata un viaggio in Kenya. Sotto l’egida di un programma presbiteriano di scambio, il reverendo aveva accettato un incarico temporaneo come insegnante nel piccolo seminario di Limuru, a un’ora d’auto da Nairobi, portandosi dietro la famiglia. Per la disperazione di Gabe Knacker, a impressionare di più suo figlio non era stata la fervente adesione al Vangelo degli studenti, ma le spedizioni per fare la spesa. Alla prima uscita per comprare provviste, Shep e Beryl avevano seguito i genitori tra le bancarelle del mercato locale in cerca di papaie, cipolle, patate, frutto della passione, fagioli, zucchine, un pollo macilento e un grosso taglio di manzo non meglio identificabile: in totale, quanto bastava per riempire cinque borse di plastica fino alla massima 16 capienza. Da sempre orientato verso le questioni economiche – una delle critiche ricorrenti di suo padre, ancora adesso, era che pensasse troppo al denaro –, Shep aveva fatto una conversione mentale degli scellini. L’intera spesa era costata meno di tre dollari. Persino in valuta del 1972 erano pochi spiccioli per una settimana di provviste. Shep non capiva come quei commercianti potessero ricavare un profitto da prezzi tanto miserabili. Suo padre si era affrettato a chiarire che erano molto poveri; in vaste aree di quel continente arretrato si sopravviveva con meno di un dollaro al giorno. Eppure il reverendo riconosceva che i contadini africani potevano permettersi di vendere i loro prodotti a pochi centesimi perché anche le loro spese erano contenute a pochi centesimi. Shep aveva qualche familiarità con le economie di scala, ma era quello il suo primo vero contatto con la scala delle economie. Quindi il valore di un dollaro non era fisso ma relativo. A casa, nel New Hampshire, ci si comprava una scatola di graffette; nelle campagne kenyote un’intera bicicletta, di seconda mano ma perfettamente funzionante. «Allora perché non prendiamo i nostri risparmi e ci trasferiamo qui?» aveva chiesto mentre trascinavano i loro acquisti lungo un viottolo di campagna. In un raro momento di dolcezza, Gabe Knacker aveva posato la mano sulla spalla del figlio, lo sguardo perso tra il verde dei campi di caffè lambiti dal sole equatoriale. «A volte me lo chiedo.» Se l’era chiesto anche Shep, e aveva continuato a chiederselo. Se in posti come l’Africa orientale con un dollaro al giorno si poteva sopravvivere, che vita ci si sarebbe potuti permettere con molto di più, tipo venti dollari al giorno? Già alle superiori Shep aveva cercato la sua strada. Proprio come Zach, se la cavava benino in tutte le mate- 17 rie ma, ahinoi, senza distinguersi in nessuna in particolare. In un’epoca che apprezzava soprattutto la padronanza dell’astratto – mancava giusto un decennio all’avvento dell’era sconcertante dell’informatica – Shep preferiva lavori che dessero risultati tangibili per le mani come per la mente, tipo sostituire una ringhiera sgangherata. Ma suo padre era un uomo istruito, e non voleva un figlio che lavorasse nelle costruzioni. Con il suo cuore d’acqua, Shep non era mai stato un ribelle. Per la sua inclinazione a fabbricare e riparare, una laurea in ingegneria era sembrata la soluzione migliore. E, come da allora aveva ripetutamente assicurato a suo padre, era davvero sua intenzione andare al college. Ma intanto la fantasticheria concepita a Limuru si era consolidata in una ferma risoluzione. Il risparmio era forse passato di moda, ma di certo un reddito medio americano permetteva ancora di mettere da parte qualcosa. Mettendo a frutto operosità, parsimonia e abnegazione – un tempo i puntelli di quel paese – c’era modo di gonfiare un gruzzolo grande quanto un uovo di tordo fino alle dimensioni di un uovo di struzzo semplicemente saltando su un aereo. Nel Terzo Mondo era in corso un’offerta speciale: due vite al prezzo di una. Da quando aveva raggiunto la maggiore età, Shep si era dato da fare per crearsi la seconda. Forse non la si poteva neppure definire operosità, se lo scopo di tutto quel lavoro era smettere di lavorare. Così, con un occhio al suo vero fine, i soldi, Shep si era rivolto d’istinto al luogo in cui l’America ne conservava la maggior parte, e aveva fatto domanda al City College of Technology di New York. Perché, se per Gabe Knacker l’adorazione del falso dio Mammona era una pecca nel carattere di quel “filisteo” di suo figlio, Shep era invece profondamente convinto che il denaro – la rete delle connessioni economiche tra gli individui e con il mondo in 18 generale – costituisse il carattere, e che la migliore verifica del valore di una persona fosse il modo in cui maneggiava i suoi soldi. Perciò, da ragazzo corretto e responsabile, non avrebbe attinto al misero salario paterno da pastore di un piccolo centro (imposizione alla quale Beryl si era mostrata immune quando si era beatamente fatta pagare da papà la scuola di cinema alla nyu, quattro anni più tardi). Dal momento in cui aveva guadagnato i suoi primi cinque dollari spalando la neve a nove anni, Shep si era sempre pagato tutto, che si trattasse di una tavoletta di cioccolato o della propria istruzione. Deciso a mettere da parte in anticipo quanto gli serviva per finanziarsi gli studi, aveva rimandato l’ingresso al City Tech di Brooklyn e si era trovato un monolocale dalle parti di Park Slope che all’epoca – difficile a credersi, ormai – era una zona malfamata ed economica. Per la maggior parte erano case fatiscenti, abitate da famiglie che avrebbero voluto fare lavoretti di manutenzione ma non potevano permettersi le tariffe da ladrocinio delle imprese regolari. Shep aveva imparato le basi dei lavori da carpentiere e da elettricista collaborando alle riparazioni della casa di famiglia del New Hampshire, un edificio vittoriano in perpetuo disfacimento: così aveva cominciato a disseminare volantini nei negozietti dei dintorni, proponendo i suoi servizi da tuttofare vecchio stampo. La voce che c’era un ragazzo bianco capace di riparare lavatrici e assi del pavimento per una cifra ragionevole si era sparsa in fretta, e in breve Shep si era ritrovato con più lavoro di quanto potesse smaltirne. Quando aveva posticipato per il secondo anno l’ingresso al City Tech, era già titolare di una ditta individuale, e “Knack il Tuttofare” doveva a volte ricorrere a un aiuto part-time. Due anni dopo, Shep aveva assunto il primo collaboratore fisso. Come imprenditore in ascesa disponeva di pochissimo tempo libero, tanto più che si era appena sposato. 19 Così, per pura e semplice comodità, allora come ora Jackson Burdina aveva assunto anche il ruolo di suo migliore amico. Che suo figlio non fosse mai andato al college restava tuttora un tasto dolente per il padre di Shep; era ridicolo, visto che Knack il Tuttofare si era sviluppato e andava a gonfie vele senza alcun pezzo di carta. Il vero problema era che Gabriel Knacker aveva scarso rispetto per il lavoro manuale, a meno che non si trattasse di scavare pozzi con i Peace Corps per i contadini poveri nel Mali, o di sistemare il tetto di un vecchio pensionato per pura gentilezza d’animo. Non aveva inclinazione per il commercio. Qualsiasi attività che non conducesse direttamente alla virtù era disprezzabile. Il pensiero che se tutti si fossero dedicati unicamente al bene fine a se stesso il mondo intero si sarebbe fermato non gli passava nemmeno per la testa. Fino a poco più di otto anni prima, la “Vita A” aveva avuto i suoi meriti, e Shep non sentiva di aver sacrificato i suoi anni migliori a un’illusione. Il lavoro fisico gli era sempre piaciuto, godeva di quella sensazione di stanchezza che non derivava dalla palestra ma dall’aver montato uno scaffale. Gli piaceva condurre lui lo spettacolo, non dover rispondere a nessuno. Glynis poteva anche essersi rivelata più difficile da maneggiare del previsto, e forse lei non si sarebbe definita felice in assoluto, ma non sembrava azzardato affermare che fosse ragionevolmente felice con lui, o almeno tanto felice quanto lo sarebbe stata con chiunque altro, cioè non molto. Shep era lieto che fosse rimasta incinta di Amelia quasi subito. Aveva fretta, era ansioso di vivere tutta una vita in metà tempo, e avrebbe preferito che anche Zach fosse arrivato a ruota, anziché dieci anni dopo. Quanto all’Aldilà, quando si erano conosciuti ne sembrava entusiasta anche Glynis. 20 Di certo, ad attrarla in primo luogo era stata la sua condizione di uomo con una missione da compiere. Senza quella visione, senza l’edificio sempre più concreto della “Vita B” che prendeva forma nella sua testa, Shep Knacker era solo un piccolo imprenditore che si era creato una nicchia di mercato: niente di speciale. Individuare ogni anno un nuovo paese per i loro viaggi di ricerca era in effetti un rituale che rinvigoriva il loro matrimonio. Erano – o almeno così aveva creduto fino alle inquietudini di quell’ultimo anno – una squadra. Perciò, quando nel novembre del 1996 gli avevano proposto di vendere, l’offerta era stata irresistibile. Un milione di dollari. Razionalmente sapeva che un milione non era più quello di una volta e che bisognava togliere le tasse. Eppure la somma non aveva perso l’impressionante pienezza dell’infanzia; non contava quanti fossero i “milionari”: la parola faceva ancora il suo effetto. Insieme ai frutti di una vita di economie, il ricavato della vendita di Knack avrebbe completato il capitale necessario, e senza ripensamenti. E allora che importava se l’acquirente – un dipendente così pigro e sciatto che erano stati sul punto di licenziarlo ma, sorpresa, disponeva di un fondo fiduciario – era un cretino inesperto, fanfarone e ignorante? Che adesso era diventato il capo di Shep. Oh, certo, sul momento gli era parso sensato accettare un impiego in quella che era stata la sua azienda, prontamente ribattezzata “Randy il Tuttofare”, nome decisamente poco opportuno, visto che Randy Pogatchnik sapeva fare ben poco. Inizialmente l’idea era quella di restarci un mese o due mentre preparavano le loro cose, vendevano le ultime proprietà e individuavano quanto meno un’abitazione temporanea a Goa. Così non rischiavano di intaccare il capitale, che Shep aveva messo all’ingrasso in fondi comuni a prova di bomba, in attesa della macellazione. Il Dow Jones era effervescente. 21 “Un mese o due” si erano dilatati in più di otto anni di sottomissione ai sadici capricci di un furbastro ciccione e lentigginoso, che doveva aver subodorato il suo imminente licenziamento e si era comprato Knack – almeno quello bisognava concederglielo – come forma diabolica di vendetta. Dopo la cessione la qualità del lavoro era crollata, cosicché l’incarico di Shep al “Servizio clienti” che gestiva i reclami, praticamente inesistente quando era lui a capo dell’azienda, era diventato un impegnativo e sgradevole lavoro a tempo pieno. A posteriori, ovvio, era stata una stupidaggine vendere pochi anni prima la loro casa a Carroll Gardens – appena scampati alla recessione e alla vigilia di un crollo immobiliare – per trasferirsi a Westchester in affitto. Shep sarebbe rimasto volentieri a Brooklyn, ma Glynis aveva concluso che per concentrarsi sul “suo lavoro” doveva allontanarsi dalle “distrazioni” della città. (Approfittando del suo punto debole, ci aveva infilato anche una giustificazione economica: l’alto livello delle scuole pubbliche di Westchester avrebbe permesso di evitare il salasso per l’istruzione privata a New York. Ottimo per Amelia. Ma in seguito, quando Glynis aveva giudicato che a Zach servisse un sostegno, ed era vero, trovargli una “scuola migliore” era sembrato l’intervento più opportuno, e così adesso spendevano comunque 26.000 dollari all’anno di scuola privata.) Jackson e Carol erano rimasti a Windsor Terrace e persino la loro vecchia casa sgangherata aveva raggiunto un valore di 550.000 dollari. Se non altro, l’aver beneficiato direttamente del boom immobiliare aveva reso Jackson più tollerante di Shep nei confronti della categoria del Proprietario Compiaciuto. Non facevi in tempo a entrare in casa per una riparazione che subito la moglie cominciava a vantarsi di quanto valeva adesso quella fogna, quindi occhio a non rovinare il rivestimento in legno con quella cassetta per gli attrezzi. Or- 22 mai era la stessa storia in quasi tutte le grandi città, Los Angeles, Miami: una specie di isterismo collettivo, come se giocassero tutti a Okay il prezzo è giusto e avessero appena vinto l’auto. Forse Shep era solo invidioso. Eppure c’era qualcosa di disgustoso in quella loro esultanza, una fissazione che associava d’istinto alle slot machine. Figlio di un predicatore, non riusciva a capire che soddisfazione si potesse trarre da un premio non meritato e neppure guadagnato con il sudore della fronte. Anche a Westchester il valore degli immobili era triplicato negli ultimi dieci anni e quindi sì, con il senno di poi avrebbero dovuto comprare, accumulando così senza sforzo quasi la stessa somma ricavata dalla vendita dell’azienda, frutto di ventidue anni di duro lavoro. Ormai era così che la gente di questo paese faceva i soldi, a sentire Jackson: senza sforzo. Non ci si arricchiva certo con il proprio lavoro, si lagnava. Ci pensavano le tasse sui salari a impedirlo. Secondo Jackson solo eredità e investimenti – nessuno sforzo, appunto – rendevano qualcosa. Shep non ne era altrettanto convinto. Lui si era dato da fare, poco ma sicuro, però aveva anche avuto la giusta ricompensa. In fondo ai suoi pensieri c’era sempre Limuru, e aveva guadagnato molto più di un dollaro al giorno. Shep aveva scelto l’affitto per lo stesso motivo che guidava tutte le sue decisioni importanti. Voleva essere in condizione di far fagotto alla svelta, facilmente e senza ostacoli, senza dover aspettare di vendere la casa in un mercato immobiliare il cui futuro era difficilmente prevedibile. Ecco cosa gli dava fastidio dei Proprietari Compiaciuti: tutti quei babbei con una chiave in tasca che si comportavano come se avessero previsto il boom, come se fossero dei geni della finanza anziché i beneficiari di una fortuna sfacciata. Lui poteva anche rimpiangere di essersi perso il colpo di fortuna, ma non rimpiangeva il motivo per cui l’aveva perso. Ne era fiero, fiero di essere 23 in procinto di andarsene. Si vergognava solo di essere rimasto. Cercava di non biasimare Glynis. Se questo significava biasimare invece se stesso, gli pareva giusto. L’Aldilà era una sua aspirazione – parola che preferiva a “fantasia” – e ogni sogno si diluisce, se di seconda mano. Cercava di non prendersela con lei anche per tante altre cose, e di solito ci riusciva. Quando si erano conosciuti, Glynis gestiva una piccola attività in proprio, realizzando gioielli dalla linea sorprendentemente pura ed elegante in un periodo in cui andavano di moda schifezzuole abborracciate e piene di piume. Si era rivolta a Knack il Tuttofare per farsi costruire un banco da lavoro fissato al pavimento e poi di nuovo – perché le era piaciuto il titolare, le sue braccia robuste, il viso aperto come un campo di grano – per una serie di scaffali destinati a martelli, pinze, e documenti. Shep apprezzava le sue istruzioni meticolose, e lei apprezzava la sua meticolosa esecuzione. La seconda volta che si era presentato per finire il tavolo, lei aveva lasciato in giro diversi campioni dei suoi lavori (deliberatamente, gli aveva confessato con una risata quando già avevano cominciato a uscire insieme; aveva fatto dondolare quei gingilli luccicanti davanti al bell’artigiano, «come esche da pesca»). Pur non essendosi mai considerato un patito d’arte, Shep ne era rimasto affascinato. Delicati e morbosi, una serie di fermacravatta sembravano ossa d’uccello assemblate; quando lei si era provata i braccialetti per mostrarglieli, le si erano avvolti sull’avambraccio strisciando fino al gomito come serpenti. Vigorose, elusive e severe, le creazioni di Glynis erano manifestazioni arcane della donna che le aveva realizzate. Difficile dire se si fosse innamorato prima di Glynis o delle sue creazioni di metallo, perché per quanto riguardava Shep erano la stessa cosa. Durante il corteggiamento Glynis teneva corsi estivi e 24 realizzava lavoretti per il Jewelry District per pagarsi l’affitto. Nel frattempo vendeva collane a gallerie di second’ordine, e con le sue produzioni in argento riusciva appena a mantenersi. Eppure lavorava febbrilmente per lunghe ore e si pagava da sola la bolletta del telefono. Chiunque avrebbe concluso che per una lavoratrice indefessa come Glynis – disciplinata, ascetica e appassionata – contribuire economicamente alla vita matrimoniale sarebbe stato un punto d’impegno. (E riflettendoci, probabilmente era vero.) Perciò non si sarebbe mai aspettato di dover risparmiare da solo per l’Aldilà. Uomini meno comprensivi avrebbero sospettato di essersi presi una fregatura. La gravidanza era sembrata una buona scusa per accantonare attrezzi e metalli, ma valeva solo per diciotto mesi sugli ultimi ventisei anni. Il vero problema non era la maternità, anche se Shep ci aveva messo parecchio per capire quale fosse. Lei aveva bisogno di incontrare resistenza, la caratteristica più evidente che il metallo le offriva. D’un tratto Glynis non aveva più difficoltà da superare: basta con la vita dura da artigiana alle prese con gallerie che le rubavano metà del già esiguo ricavato per una spilla con lavorazione damasco che aveva richiesto tre settimane di lavoro. No, suo marito guadagnava bene, e anche se lei dormiva fino a tardi e oziava per tutto il pomeriggio leggiucchiando «Lustre», «American Craft Magazine» e «Lapidary Journal», la bolletta del telefono era pagata comunque. Il punto era che lei aveva bisogno del bisogno. Riusciva a vincere l’angoscia di affrontare un’opera che, una volta completata, rischiava di non adeguarsi ai suoi standard rigorosi solo se costretta. In quel senso l’aiuto di Shep l’aveva danneggiata. Fornendole il cuscinetto finanziario che avrebbe dovuto facilitare il suo lavoro con i metalli e qualunque cosa volesse fare, le aveva rovinato la vita. Impacchettato con un fiocco di indolenza, la comodità era un regalo pericoloso. 25 Eppure non era pigra. Dato che Glynis aveva continuato a fingere (la parola gli dava fastidio anche solo a pensarla) di essere un’artigiana professionista, le altre faccende domestiche si qualificavano automaticamente come procrastinazione, e andavano perciò sbrigate in maniera rapida ed efficiente. E non era neppure che avesse abbandonato del tutto la metallurgia. Dopo aver scartato i gioielli, di limitata soddisfazione, si era dedicata completamente alla posateria e nel corso degli anni aveva completato una serie di utensili sensazionali: memorabili la spatola da pesce intarsiata di bachelite; lo squisito servizio di bacchette cinesi d’argento forgiate a mano, perfettamente ergonomiche, con l’estremità più pesante che si piegava appena, quasi dolorosamente, come sul punto di sciogliersi. Eppure ogni lavoro portato a termine era frutto di un’elaborazione così lunga e angosciosa che alla fine non si risolveva a venderli. Così, quello che non era mai riuscita a fare erano i soldi. Se solo si fosse azzardato a farle notare che anche quando Zach e Amelia avevano cominciato ad andare a scuola lei continuava a non portare a casa un centesimo, Gladys lo avrebbe trafitto con la sua rabbia gelida (e allora aveva evitato). Ma che il suo reddito fosse zero non era un rimprovero, era un fatto. Com’era un fatto che, sposandosi, Shep non immaginava di dover mantenere lui solo e per sempre la famiglia. Però poteva mantenerla, e l’aveva fatto. Oltretutto la capiva. O almeno capiva fino a che punto non poteva capire, era già qualcosa. A rendere ancora più sconcertante la sua inerzia geografica, Shep era di solito il tipo che, se decideva di fare qualcosa, poi lo faceva. Per Glynis, passare dalla decisione all’atto era come saltare dal moncone di un ponte in rovina. Per metterla in un altro modo, il motore c’era, ma l’avviamento non funzionava. Glynis poteva decidere di fare qualcosa, solo che 26 poi non succedeva niente. Era un suo problema interiore, un difetto di progettazione che probabilmente non era in grado di risolvere. Dopo aver tenuto il becco chiuso per decenni, un paio d’anni prima (e nel corso di una settimana particolarmente irritante al lavoro) Shep non avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire a colazione, come se niente fosse, che era un peccato che per tutto quel tempo non avessero potuto risparmiare su due redditi, perché altrimenti sarebbero già partiti anni prima per l’Aldilà... Shep non aveva ancora finito la frase che lei si era alzata da tavola senza una parola ed era uscita dalla stanza. Quando la sera era rientrato, Glynis si era già trovata un lavoro. Evidentemente, per tutti quegli anni avrebbe fatto meglio a darle una svegliata, anziché cercare di blandirla. Da quel momento in poi aveva continuato a plasmare stampi per “Vivere nel peccato”, un chocolatier di lusso con sede nella vicina Mount Kisco. Quel mese la ditta si stava già organizzando per Pasqua. E così, invece di produrre posateria degna di un museo d’arte moderna, sua moglie plasmava coniglietti di cera per gli stampi, in cui colare cioccolato fuso da riempire poi con crema all’arancia. Un lavoro part-time e senza contributi. L’apporto del suo salario alle casse di famiglia era ridicolo. Aveva tenuto quel lavoro per pura ripicca. In cambio, e per ripicca, lui aveva lasciato che lo tenesse. E poi Glynis non poteva a farne a meno. Erano dei gran bei coniglietti. Era sconcertante venire punito sistematicamente per qualcosa che avrebbe dovuto suscitare piuttosto un minimo di gratitudine. Non che la pretendesse, la gratitudine, però avrebbe evitato volentieri il rancore, sentimento notoriamente sgradevole per chi lo prova come per chi lo subisce. Glynis provava rancore per la propria dipendenza, che trovava umiliante. Perché non era una famosa ar- 27 tista dei metalli, e perché per tutti, Glynis compresa, l’unica colpevole di quell’inconsistenza professionale era lei, e lei soltanto. Provava rancore per i due figli che avevano dirottato le sue energie quando erano piccoli, e perché non le dirottavano più adesso che erano grandi. Aveva provato rancore per il marito e adesso anche per i figli, che con la loro mancanza di pretese le sottraevano quanto aveva di più caro: una buona scusa. E poiché il rancore produce l’equivalente psichico del reflusso gastrico, provava rancore per il rancore stesso. Non avere mai avuto una ragione valida per lamentarsi era un ulteriore motivo di risentimento. Shep era caratterialmente predisposto a ritenersi fortunato, nonostante avesse più di un motivo di rancore, se quella fosse stata la sua inclinazione. Manteneva moglie e figlio. Sovvenzionava la figlia Amelia, che pure aveva finito il college da tre anni. Sovvenzionava l’anziano padre e faceva in modo che l’orgoglioso reverendo in pensione non se ne accorgesse. Alla sorella Beryl aveva concesso diversi “prestiti” che non sarebbero mai stati ripagati, e probabilmente gliene avrebbe concessi altri; eppure restavano ufficialmente “prestiti” e non regali, cosicché Beryl non lo ringraziava né si sentiva in colpa. Aveva sostenuto da solo le spese per il funerale della madre e, dato che nessuno ci aveva badato, non ci aveva badato neppure Shep. Ogni membro di una famiglia ha il suo ruolo, e quello di Shep era pagare i conti. Tutti lo davano per scontato, così lo dava per scontato anche lui. Di rado comprava qualcosa per sé, ma nemmeno voleva nulla. O meglio, voleva solo una cosa. Ma perché proprio adesso? Perché, dopo aver lasciato passare otto anni dalla vendita di Knack il Tuttofare, non potevano essere nove? Perché proprio quella sera, e non la sera dopo? Perché era l’inizio di gennaio nello stato di New York, 28 e faceva freddo. Perché aveva già quarantotto anni e, più si avvicinava ai cinquanta, più l’Aldilà – se mai ci fosse arrivato – rischiava di sembrare un normale pensionamento. Perché i suoi fondi d’investimento “sicuri” avevano recuperato il loro valore iniziale soltanto il mese precedente. Perché nella sua beata incoscienza aveva spiattellato per decenni a chiunque sembrasse vagamente interessato la sua intenzione di lasciarsi alle spalle il mondo dei regimi fiscali, delle revisioni dell’auto, degli ingorghi stradali e del telemarketing. (Con l’invecchiare del suo pubblico, la giovanile ammirazione si era da tempo inacidita in scherno alle sue spalle. E neanche sempre alle sue spalle, perché da Randy il Tuttofare le “fantasie di fuga” di Shep, come le aveva bellamente definite Pogatchnik, costituivano una fonte continua di divertimento.) Perché lui stesso aveva cominciato a dubitare pericolosamente dell’esistenza dell’Aldilà, e senza quella promessa di affrancamento non poteva – non poteva – tirare avanti. Perché aveva seguito la carota appesa davanti al proprio naso come uno stupido asino, si era lasciato sedurre dalla procrastinazione infinita, senza rendersi conto che, se davvero poteva andarsene da un momento all’altro, allora tanto valeva andarsene subito. In effetti era proprio l’assoluta arbitrarietà di quel venerdì sera a renderlo perfetto. Appena Glynis aprì la porta d’ingresso, Shep esordì sentendosi già in colpa. Aveva provato fino alla nausea le battute di esordio e adesso il copione era già dimenticato. «Bourbon» notò lei. «Qual è l’occasione speciale?» Ancora immerso nelle sue recenti riflessioni, avrebbe voluto spiegarle che l’occasione non aveva niente di speciale, ed era proprio quello a renderla speciale. «Le abitudini sono fatte per essere infrante.» «Solo alcune» lo rimbeccò lei sfilandosi il cappotto. 29 «Te lo verso?» Lei lo sorprese. «Sì, grazie.» Glynis era ancora snella e nessuno le avrebbe dato cinquant’anni, anche se quella sera c’era una stanchezza nei suoi movimenti che faceva intuire come sarebbe stata a settantacinque. Già da settembre si sentiva affaticata, lamentava una febbriciattola ricorrente di cui lui non si era mai accorto. E malgrado la pancetta che aveva messo su negli ultimi tempi, il resto del suo corpo era forse ancora più magro: una ridistribuzione di peso abbastanza normale con la mezza età, ma lui era troppo gentiluomo per commentarla. Indulgere insieme all’alcol appena dopo le sette aveva creato fra loro una calda complicità che Shep era riluttante a insidiare. Eppure il suo innocuo «Dove sei stata?» riuscì a sembrare un’accusa. Lei poteva essere evasiva, ma era strano che non rispondesse. Shep lasciò perdere. Raggomitolata protettivamente sul bicchiere, nella sua solita poltrona, Glynis sollevò le ginocchia e ripiegò le gambe sotto di sé. Sembrava sempre chiusa in se stessa, raccolta, ma quella sera più del solito. Forse aveva intuito il suo piano, così lento a manifestarsi. Quando Shep tirò fuori di tasca i tre biglietti elettronici e li posò silenziosamente sul piano di vetro del tavolino, accanto alla fontana matrimoniale, lei inarcò le sopracciglia. «Mostra e dimostra?» Glynis era una donna elegante e lui ne era affascinato, come gli animi semplici si lasciano spesso affascinare dalle personalità complesse. Si fermò a considerare se senza Glynis, come compagna o come antagonista, l’Aldilà gli sarebbe apparso desolato. «Tre biglietti per Pemba» disse. «Tu, io e Zach.» «Un altro “viaggio di ricerca”? Dovevi pensarci prima delle vacanze di Natale. Zach è già tornato a scuola.» 30 Non aveva mai avuto l’abitudine di sottintendere delle virgolette, ma l’intonazione acida di “viaggio di ricerca” richiamava quella beffarda di Pogatchnik per “fantasia di fuga”. A Shep non sfuggì la prontezza con cui aveva liquidato il suo capriccio come impossibile, fosse anche stata la breve vacanza per cui l’aveva scambiato. Nel lavoro Shep sfruttava la propria intelligenza per risolvere i problemi; Glynis usava la sua per crearli, per erigersi lei stessa degli ostacoli lungo il percorso. Shep non ci avrebbe nemmeno badato, se quel percorso non fosse stato anche il suo. «Sono biglietti di sola andata.» Si aspettava che, appena afferrato il concetto, appena compresa la vera natura del guanto di sfida che le aveva gettato sul tavolino, Glynis si rannuvolasse, si irrigidisse, si preparasse al combattimento. Invece sembrò vagamente divertita. Da Randy il Tuttofare si era abituato al ridicolo («Sì, come no, vi trasferite in Africa da un momento all’altro, tu e Meryl Streep») e certe volte, pur disprezzandosi per questo, si era prestato allo scherzo. Ma che anche solo una traccia di quel cinismo incurante e compassionevole venisse da Glynis lo uccideva. Che lei non ne fosse più convinta lo sapeva, ma non si aspettava che potesse essere così sprezzante. «Che spreco» disse lei con un sorrisetto. «Non è da te.» Aveva giustamente intuito che la sola andata costava più di andata e ritorno. «È il gesto» disse lui. «Non è una questione di soldi.» «Non ti ci vedo, a fare qualcosa che non sia una questione di soldi. Shep, per te la vita è sempre stata una questione di soldi.» «Non per i soldi in sé. Non sono mai stato così avido, lo sai, non ho mai voluto i soldi solo per averli. Li voglio per comprarci qualcosa.» «Una volta ci credevo» disse lei tristemente. «Adesso 31 mi chiedo se hai la minima idea di cosa vuoi comprarci davvero. Non sai neppure da cosa vuoi fuggire, figurarsi se sai cosa vuoi comprare.» «Lo so benissimo» ribatté lui. «Voglio comprare me stesso. Non vorrei esprimermi come Jackson, ma in un certo senso ha ragione lui, sono un servo a contratto. Questo non è un paese libero, in nessun senso del termine. Se vuoi la tua libertà, devi comprartela.» «Ma la libertà non è diversa dai soldi, non credi? Non ha senso, a meno che tu non sappia come spenderla.» L’osservazione gli sembrò vuota, quasi annoiata. «Ne abbiamo già parlato, di come intendo spenderla.» «Sì» disse lei stancamente. «All’infinito.» Shep ingoiò l’insulto. «Scoprirlo è una delle ragioni per andarsene.» Shep non poteva immaginare un argomento di conversazione più appassionante per sua moglie, ma avrebbe potuto giurare che lei era distratta. «Gnu» azzardò enfatizzando la “g”, una tenerezza che risaliva al loro primo viaggio di ricerca in Kenya, dove lei si era esibita in esilaranti imitazioni degli gnu, le mani sopra la testa a simulare le corna e il viso, già allungato, contorto in un’espressione triste e tonta insieme. Una buffonata infantile e tenera. All’epoca la chiamava sempre Gnu e ultimamente... be’, si rese conto con stupore che ultimamente non l’aveva proprio chiamata. «Questi sono biglietti veri. Per un aereo vero, che parte fra una settimana. Vorrei che tu venissi con me. Vorrei che Zach venisse con noi, e se partiamo come una famiglia lo trascinerò a bordo per i capelli. Ma io parto comunque, con voi o senza di voi.» Figurarsi se Glynis non sembrò trovare ridicola la sua dichiarazione. «Cosa sarebbe, un ultimatum?» Vuotò il bicchiere come per soffocare una risata. «Un invito» precisò lui. 32 «Tra una settimana sali su un aereo diretto verso un’isola che non hai mai visto prima e dove trascorrerai il resto della vita. A che sono serviti tutti quei “viaggi di ricerca”?» Nel suo utilizzo del tu, anziché del noi, aveva già letto la risposta, e non era pronto all’improvvisa sensazione di sprofondare che avvertì. Si era sforzato di essere realista, ma a quanto pareva aveva confidato che lei e Zach lo seguissero a Pemba, dopotutto. Però il confronto era ancora caldo, e Shep nutriva ancora qualche speranza di riuscire – per la prima volta nella storia – a farle cambiare idea. «Ho scelto Pemba proprio perché non ci siamo mai stati. Così non ti puoi inventare un fantastiliardo di ragioni per eliminare anche questa opzione dalla lista.» Quando lei non rispose, Shep ripensò a quello che aveva rimuginato fra sé quel pomeriggio, al volante della sua auto sulla Henry Hudson Parkway. «Goa aveva il via libera finché hai letto di quell’inglese assassinata in casa sua da un conoscente del posto, e di colpo è diventata una destinazione pericolosa. Un omicidio. Come se a New York la gente non si ammazzasse di continuo. Quando l’avevamo presa in considerazione, la Bulgaria era un vero affare, e oltretutto in Occidente, anche se solo per un pelo, con tanto di banda larga, servizio postale e acqua potabile. Ma il cibo era troppo insipido. Il cibo. Come se non ci si potesse procurare aglio e rosmarino. Nel frattempo i prezzi degli immobili sono saliti e ormai è tardi. Lo stesso con l’Eritrea, che aveva colpito la tua immaginazione: un nuovo paese pieno d’orgoglio, gente piacevole, caffè a tutti gli angoli di strada e l’architettura degli anni Cinquanta era una favola. Adesso, buon per te, è caduto il governo. Poi ti piaceva il Marocco, ricordi? Cannella e terracotta; né cibo né paesaggio erano insipidi. Sembrava così promettente che avevo persino accettato 33 di trattenermi quando mia madre ha avuto l’infarto, e quando siamo tornati eravamo in ritardo di mezza giornata per poterle dire addio.» «Hai rimediato.» Già, le spese del funerale. Shep non se la prendeva per le pretese familiari sulle sue finanze, ma Glynis se la prendeva anche per lui. «Dopo l’undici settembre,» continuò lui «tutti i paesi musulmani, Turchia inclusa, sono spariti di colpo dalla lista, con mia grande delusione. Con il crollo della valuta in Argentina abbiamo avuto un’occasione fantastica. E prima ancora, durante la crisi economica nel Sud-est asiatico, avremmo potuto permetterci chissà che cosa, da quelle parti. Invece adesso tutte le valute si sono riprese, e ormai le nostre risorse non ci basterebbero più per trenta o quarant’anni in uno di quei paesi. A Cuba non saresti sopravvissuta senza shampoo e carta igienica. Per la residenza in Croazia c’era troppa burocrazia. Gli slum in Kenya erano troppo deprimenti. In Sudafrica ti sentivi in colpa a essere bianca. Quanto a Laos, Portogallo, Tonga e Bhutan, non mi ricordo nemmeno più cosa c’era che non andasse, anche se» si concesse un momento di amarezza «tu di sicuro te lo ricordi benissimo.» Glynis trasudava una mitezza aggressiva, sembrava si divertisse. «La Francia l’hai scartata tu» gli disse soavemente. «Giusto. Le tasse ci avrebbero ammazzato.» «Sempre questioni di soldi» lo rimproverò lei. Strano come le persone più indifferenti al denaro – tipi artistici come sua sorella o il suo caro padre da Vecchio Testamento – fossero proprio quelle che non ne avevano mai guadagnato. Glynis sapeva benissimo che per l’Aldilà servivano risorse finanziarie, altrimenti sarebbe stata solo una lunga e disastrosa vacanza. «Ma sei stata tu a paralizzarci in tutti i sensi, non è forse vero?» insisté Shep. «Non solo nessuna destinazio- 34 ne ti andava bene, anche il momento non era mai quello giusto. Bisogna aspettare che Amelia finisca le superiori. Che Amelia finisca l’università. Bisogna aspettare che Zach finisca le elementari. Le medie. Adesso è alle superiori, e allora perché non il college? Bisogna aspettare che i nostri investimenti recuperino il crollo in borsa, e poi quello dell’undici settembre. Be’, hanno recuperato.» Shep non era abituato a parlare a lungo, e si sentiva stupido a blaterare in quel modo. Forse anche lui era succube alla resistenza passiva quanto Glynis, o meglio, alla resistenza opposta da Glynis. «Mi consideri egoista. Può darsi che lo sia. Per una volta. Qui non si tratta di soldi, si tratta» esitò, imbarazzato «della mia anima. Dirai, lo hai già detto, che non sarà come me l’immagino. Questo lo so. Non mi illudo certo di mettermi in panciolle su una spiaggia. Lo so anch’io che a lungo andare il sole è noioso, che ci sono le mosche. Però ti dico una cosa: voglio dormire otto ore al giorno. Sembra roba da poco, ma non lo è. Io adoro dormire, Glynis e» non voleva restare senza fiato proprio in quel momento, non prima di aver detto quello che aveva da dire «adoro soprattutto dormire con te. Ma lo sai cosa succede quando lo dico a qualche cena qui a Westchester, che voglio dormire per otto ore filate? Ridono. Per i pendolari che abitano qui è un’idea così campata in aria da sembrare divertente. Quindi non mi interessa cos’altro farò a Pemba o se mancherà la corrente di continuo. Perché se mi tiro indietro anche stavolta, dentro di me so che non partirò più. E senza la prospettiva di una terra promessa non ce la faccio a tirare avanti, Gnu. Non ce la faccio a passare la vita a rimediare alle cazzate di quelle teste di legno incapaci di Randy il Tuttofare. Non ce la faccio a stare in coda per ore sulla West Side Highway ad ascoltare la npr. Non ce la faccio a correre a comprare il latte al supermercato e accumulare punti fedeltà perché dopo aver speso 35 qualche migliaio di dollari ci tocchi un tacchino omaggio per il Ringraziamento.» «Ci sono destini peggiori.» «No» ribatté lui. «Non ne sono così sicuro. Lo so che abbiamo visto tanta povertà: fogne a cielo aperto e madri che scavano nella spazzatura alla ricerca di bucce di mango. Ma loro lo sanno benissimo cos’è che non va, e sanno che basterebbe qualche scellino o peso o rupia in più per stare meglio. Invece c’è qualcosa di orribile nel sentirsi ripetere che vivi la vita migliore del mondo e accorgersi che non migliora mai e continua a essere una vita di merda. Glynis, questo dovrebbe essere il paese più grande del mondo, ma ha ragione Jackson: è una fregatura. Avrò almeno quaranta password diverse per la banca e il telefono e le carte di credito e gli account internet, e quaranta numeri di conto, e se metti insieme tutto, quella è la nostra vita. Ed è tutto così brutto, fisicamente brutto. Quelle sfilze di centri commerciali a Elmsford, e i Kmart e i WalMart e gli Home Depot... plastica e cromature e colori allucinanti e tutti sempre di corsa, ma per fare cosa?» Non se l’era solo immaginato: Glynis non gli prestava attenzione. «Scusami» le disse. «Tutte cose che hai già sentito. Forse mi sbaglio e finirò davvero per tornare a casa triste e sconfitto come un cane bastonato. Però preferisco l’umiliazione di tentare e fallire, che non provarci neppure. Arrendersi sarebbe come morire.» «Credo che ti accorgerai» la voce di Glynis era così misurata, così colma di una nuova saggezza da non piacergli «che non sarebbe neppure lontanamente come morire. Non c’è niente come morire. Ce ne serviamo come metafora per altre cose. Più piccole e più stupide e molto più sopportabili.» «Se questo è il tuo modo per convincermi a cambiare idea, non funziona.» 36 «Quand’è che hai previsto di lasciare queste nostre sponde?» «Venerdì prossimo, volo ba-179 delle 22.30 dal jfk per Londra. Poi Nairobi, Zanzibar e Pemba. Tu e Zach potete raggiungermi fino a un attimo prima del decollo. Credo che nel frattempo mi toglierò di torno e ti lascerò il tempo per rifletterci.» Per sentire la mia mancanza era quello che intendeva. Per sentire la mia mancanza mentre ancora non ti mancherò davvero. E in tutta sincerità perché aveva paura di lei. Se fosse rimasto, lei sarebbe riuscita a fargli cambiare idea. Era brava, in quello. «Andrò a stare da Carol e Jackson. Mi aspettano, e puoi trovarmi là quando vuoi, fino alla partenza.» «Vorrei che non lo facessi» disse lei pigramente. Raccolto il suo bicchiere dal tavolo, Glynis si era alzata lisciandosi i pantaloni, un movimento in cui riconobbe il segnale che stava per mettersi a preparare un’altra delle solite cene. «Per una volta Randy il Tuttofare dovrà fare davvero qualcosa, e temo che mi servirà la tua assicurazione sanitaria.» Più tardi, mentre Glynis stava ancora riordinando la cucina, Shep sgusciò di sopra e tolse la vestaglia da sopra la valigia. Rimise a posto le due camicie nel terzo cassetto del comò, lisciandole perché fossero presentabili per il lavoro. Tirò fuori le pinze, i cacciavite e il seghetto e li ripose nella cassetta per gli attrezzi di metallo rosso ammaccato. Prima di rimettere a posto il pettine, accanto alla scatola da sigari piena di spiccioli stranieri, se lo passò fra i capelli. 37