4 NUMERO VI ANNO OTTOBRE-DICEMBRE 2009 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in aabbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) CEEP QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE Solidarietà e sobrietà per uscire dalla crisi INDICE Gianni Bottalico Editoriale pag 3 Franco Giulio Brambilla Dottrina sociale della Chiesa e scenari della crisi pag 6 Mauro Magatti La crisi e il futuro del nostro modello di sviluppo pag 11 Bruno Manghi (Intervista) I riflessi della crisi nella vita della società (a.c. Paolo Colombo) pag.16 Luciano Larivera Quanta modestia coraggiosa ci vuole pag 22 Carlo Stelluti La crisi non è uguale per tutti pag 26 Giovanni Bianchi Qualche passo oltre la crisi pag 31 Alessandro Maggioni L’esperienza cooperativa come educazione ad una democrazia (e ad un’economia) responsabili pag 37 Aldo Novellini Pil: una misura imperfetta del nostro benessere pag 42 Mirto Boni ...Nessuno ci ha presi a giornata... pag 46 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • ottobre-dicembre 2009 • NUMERO quattro Centro ecumenico europeo per la pace Il Centro ecumenico europeo per la pace nasce dall’esigenza di offrire alla società civile percorsi formativi e proposte culturali a fronte dei processi di trasformazione e delle nuove sfide epocali. Nell’Europa, chiamata ad integrare tra loro società di tipo multietnico, multiculturale e multireligioso, la formazione al dialogo – per la soluzione dei conflitti e per la ricerca di una dialettica di convivialità delle differenze – appare sempre più come il nuovo nome della pace. L’esigenza del dialogo interpella laicamente ogni coscienza e costituisce un imperativo per i cristiani chiamati ad una testimonianza radicale e comune dell’evangelo, al di là delle loro divisioni storiche. Per questo Europa, pace, ecumenismo sono tre parole-chiave dell’impegno che i soci fondatori e le presidenze milanese, lombarda e nazionale delle ACLI hanno inteso assumere e promuovere con la costituzione del Centro ecumenico europeo per la pace. CEEP Quaderni per il dialogo e la pace Direttore Paolo Colombo [email protected] Redazione Vitaliano Altomari, Giovanni Bianchi, Mirto Boni, Giuseppe Davicino, Virgilio Melchiorre, Fabio Pizzul, Franco Totaro Segreteria di Redazione Marina Valdambrini [email protected] Supplemento a “Il giornale dei lavoratori” n. 6, 2009 Redazione e amministrazione: Via della Signora 3, 20122 Milano. Registrazione n. 951 del 3/12/1948 presso il Tribunale di Milano Direttore responsabile: Monica Forni Grafica Ellemme Via Stefini, 2 - Milano Stampa Sady Francinetti Via Casarsa, 5 - Milano QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO EDITORIALE Gianni Bottalico «La crisi – ha scritto Benedetto XVI nella Caritas in Veritate – ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno» (§21). Ma siamo noi in grado di ottemperare a questo “obbligo”? Lo sono le istituzioni politiche e gli organismi economici internazionali? Lo sono le forze sociali e il “terzo settore” economico? Lo sono i cristiani impegnati nella società in Europa? Dopo oltre un anno di crisi economica e finanziaria conclamata e dopo qualche decennio di predominio della finanza speculativa sull’economia e sulle istituzioni politiche questa domanda appare più che giustificata. Gianni Bottalico presidente Acli provinciali di Milano- Monza e Brianza I governi (occidentali) ed i vari organismi internazionali sanno benissimo che cosa si dovrebbe fare. In sintesi. Presentare al sistema finanziario il conto delle sue colpe, anziché aumentare il debito pubblico ed indebolire i sistemi di welfare, rubando in questo modo il futuro ai giovani e impoverendo sempre più le classi medie e lavoratrici. E nel caso di consistenti aiuti pubblici, provvedere almeno al cambio dei dirigenti senza precludere la possibilità di una gestione pubblica delle entità in crisi. In Italia i Tremonti bond vanno timidamente in questa direzione e per questo sono stati evitati come la peste dalla maggior parte delle banche. Domare la speculazione finanziaria o per lo meno ricondurla a livelli “fisiologici”. A tal fine va reintrodotta una netta distinzione fra le banche che gestiscono il risparmio privato e le banche d’affari. Va ricondotta a livelli sostenibili la finanziarizzazione e la privatizzazione del welfare: bisogna impedire che le risorse per pensioni e sanità siano fatte sparire dalla speculazione, come sta accadendo a causa della crisi nei Paesi che più si sono spinti in questa direzione. Vanno scoraggiate le transazioni finanziarie puramente speculative, soprattutto quelle sul cibo (grano, riso, mais), sulle materie prime e sulle fonti energetiche, che generano squilibri sociali ed economici molto acuti. Va recuperata la sovranità monetaria, oggi lasciata al mercato. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO Va remunerato in modo meno ingiusto il lavoro, oggi svilito da una smodata ricerca dei profitti. Ciò va fatto non solo per una questione di giustizia ma anche per ridare fiato alla domanda interna, presupposto per la ripresa. In particolare, sul nodo della remunerazione del lavoro la crisi dovrebbe aiutarci a cambiare mentalità, a mettere bene in chiaro che l’attività economica non può essere concepita in funzione dei guadagni esorbitanti dei fondi speculativi (questo uccide l’economia e il futuro, come ci insegnano le vicende di questi ultimi anni) ma deve poter creare valore anche per i lavoratori e per le loro famiglie, sia nei Paesi cosiddetti “ricchi” che in quelli “emergenti. 1) Questa è una delle idee guida della Caritas in Veritate sul tempo presente. 2) Benedetto XVI, Caritas in Veritate, §46. Ora, se tutte queste cose sono chiare, sia all’opinione pubblica che ai governanti, si può dire che dalla distanza tra le dichiarazioni d’intenti e le effettive scelte si misura la qualità delle nostre “democrazie”. E, come rileva l’economista Stefano Zamagni, risulta evidente che la crisi è il frutto della separazione tra mercato e democrazia1. Una divaricazione che, per alcuni aspetti, sembrerebbe essere arrivata ad un punto tale da inibire ai pubblici poteri di azionare il freno d’emergenza, costituito da incisive misure anti-crisi, pur di non toccare i “santuari” della speculazione finanziaria internazionale. La questione posta dall’attuale crisi è dunque quella del rapporto fra economia di mercato e democrazia, non in termini astratti ma in termini di stringente attualità e concretezza. Ci sono nella società le energie necessarie per una svolta. Come quelle che provengono dall’economia sociale «una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali»2. Per fare in modo che la politica si assuma le proprie responsabilità nell’affermazione delle ragioni del “bene comune”, per ricostruire un quadro di regole che vada a tutela del libero mercato, del rischio d’impresa, del risparmio, e che sia incentrato sull’economia reale e sul lavoro e sostenuto da un settore finanziario trasparente ed orientato allo sviluppo sociale ed economico. C’è bisogno di una forte coesione, perché i contraccolpi della crisi non sono ancora finiti. Il 2010 si preannuncia delicatissimo: la produzione ristagna e la disoccupazione non cala. Ciò sot- QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO topone il debito pubblico dei principali Paesi occidentali ad una forte tensione. E il nostro Paese non è neanche fra quelli che se la passano peggio. Le difficoltà di tenuta dei conti pubblici esplose in autunno in Grecia preoccupano più che per il caso in sé, per quanto preludono a ciò che può accadere in altre ben più grandi economie, epicentro della crisi. La crisi, manifestatasi come rischio di insolvenza dei grandi detentori di titoli tossici, tamponata dall’intervento di fondi pubblici e delle banche centrali verso soggetti finanziari lasciati colpevolmente divenire “troppo grandi per fallire”, rischia ora di riversarsi sulla solvibilità stessa degli Stati più esposti, alcuni dei quali, come se il dissesto finanziario non fosse già abbastanza grave, continuano a svenarsi nell’interminabile guerra in Afghanistan, la stessa che negli anni Ottanta precedette la dissoluzione dell’Unione Sovietica. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO Franco Giulio Brambilla vescovo ausiliario dell’Arcidiocesi ambrosiana DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA E SCENARI DELLA CRISI Franco Giulio Brambilla Il bene comune e percorsi di vita buona* »Il bene comune è per così dire deflagrato nella rivendicazione dei “beni comuni” Il richiamo alla nozione di “bene comune”, che la dottrina sociale della Chiesa pone quale chiave di volta dei pilastri della vita comune (libertà, solidarietà, sussidiarietà), è diventato problematico nella sua pretesa di valere a monte del riconoscimento e dell’impegno concreto con cui i soggetti sociali concorrono alla costruzione della vita civile e della partecipazione politica. Il bene comune è per così dire deflagrato nella rivendicazione dei “beni comuni” (acqua, aria, energia, ambiente naturale, patrimonio artistico, ecc), che funzionano come sostituti, quasi allo stesso modo dei diritti umani. Essi rappresentano una sorta di linea a difesa dell’umano minacciato, ma faticano ad indicare un orizzonte di ricerca e di impegno per l’umano ricercato. Sono un sintomo chiaro della società globalizzata sul mercato, il cui indicatore principale è il consumo, e della convivenza frammentata, che fatica a proporre persuasive convergenze etiche su un progetto sociale. Per questo la prospettiva dei “beni comuni” (come quella dei “diritti umani”) trova facile consenso, perché essi sono fatti valere in modo parcellizzato, senza che si giunga a pensare e a praticare l’intero di una visione etico-sociale. Tutti sono d’accordo quando vengono affermati uno per uno, molti si dividono allorquando bisogna farli convergere in un disegno sintetico. Appunto il disegno del “bene comune”. Esso sembra appartenere ancora al momento delle grandi ideologie o, per dirla con la civetteria dei francesi, alle “grandi narrazioni”. Il “bene comune” era come il sedimento delle “visioni del mondo” che avanzavano la pretesa di valere come orientamento sintetico della vita associata. Con il crollo delle grandi ideologie, che ha fatto finire anzitempo il secolo XX con la caduta del muro di Berlino, sono venuti meno anche i grandi ideali. Ne è rimasto solo come un maldestro collage sostitutivo. Basta prendere in mano un programma QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO politico qualsiasi: è come un puzzle, dove tutti i pezzi sono simili e intercambiabili, ma si è perso il disegno d’insieme. Mutando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia. E nessuno più s’arrischia a dichiarare e a disegnare l’intero della vita sociale. Viene sostituito dal mitico confronto (e scontro) degli interessi in gioco, al massimo regolato dall’istanza del potere politico che dovrebbe calmierare l’eccesso delle pretese dei gruppi di pressione, più che favorire il confronto culturale e lo scambio sociale per costruire la “cosa comune”. Per questo mi sembra più interessante riferirsi non solo alla nozione di bene comune, ma tentare di praticare e costruire percorsi di vita buona. La prima nozione (bene comune) sembra marcata da un tratto oggettivistico, quasi un sistema valoriale riconoscibile al di là e prima del consenso delle persone e della loro vita sociale effettiva; i percorsi di vita buona, invece, suppongono la possibilità di indicare una pratica di vita sociale e di suscitare una convergenza che faccia da sogno e da cemento dell’impegno civile. Ma ancora di più: nell’espressione percorsi di vita buona è contenuta insieme l’istanza universale del bene comune e gli itinerari singolari delle persone e dei gruppi sociali che lo devono riconoscere e praticare. Ma riconoscere e praticare il bene comune non è operazione meramente passiva, quasi che esso sia noto a monte del suo discernimento pratico, ma la decisione di costruirlo socialmente e la ricerca per determinarne i contenuti materiali e le prospettive valoriali appartiene alla stessa definizione del bene comune. La “vita buona” è quindi sintesi di valore e di pratica, di sogno e di programma storico, di momento culturale e di rischio personale o associato. »E nessuno più s’arrischia a dichiarare e a disegnare l’intero della vita sociale »tentare di praticare e costruire percorsi di vita buona L’orizzonte di comprensione: tra carità e politica È soprattutto chiarendo alcuni elementi in gioco nelle questioni fondamentali che è possibile disegnare lo sfondo su cui pensare a una rinnovata prassi formativa. Quando ci si avvia a progettare appare sempre da capo l’importanza di una chiarificazione delle coppie concettuali chiesa e mondo, fede e politica, carità e giustizia. Ora queste coppie sono sovente pregiudicate da un dualismo tra le due sfere che genera in modo simmetrico una specie di autonomismo che riproduce lo stesso schema capovolto. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO Per spiegarmi meglio, prendo come punto di riflessione la coppia carità e giustizia: quest’ultima, la giustizia, trova il suo criterio nel favorire buoni rapporti sociali nella città, definititi con la sola ragione, in modo laico si dice oggi, addirittura al di là delle convinzioni religiose: essa riguarda solo le prestazioni a prescindere dalle convinzioni; mentre la carità si riferirebbe alla forma utopica dei rapporti umani, lasciata alle convinzioni personali e in particolare religiose: essa deriva dalla buona volontà del singolo, ma non presiede al rapporto sociale. La giustizia in questo modo regge la città e assume un tratto universale, che oggi si proclama laico, al prezzo della sua separazione dalla coscienza; la carità è promossa e praticata come forma della libera scelta di fronte alle situazioni di bisogno e si colloca ai confini della città, molto valorizzata, ma marginale rispetto alla comune dinamica del rapporto sociale. In tal modo la giustizia può regolare i rapporti civili e si prefigge il consenso sociale, mentre la carità farebbe leva solo sulle convinzioni personali e non può essere che richiamata alla coscienza di ciascuno. »alla carità, nella specifica forma dell’amore Questo modo di vedere le cose è molto rassicurante, ma produce di conseguenza molti problemi spuri: la città secolare sarebbe regolata dalla giustizia, che propone un’etica intesa come la regolazione del vivere civile che compone gli interessi dei singoli e dei gruppi, mentre la carità è lo specifico della pratica cristiana, molto apprezzata ma marginale rispetto allo spazio pubblico, ricondotta alla sfera privata e all’iniziativa personale e/o di gruppo ma senza rilievo sociale, se non come crocerossa dei mali della società. Così l’impegno del cristiano nel mondo viene identificato nel volontariato, nell’assistenza sociale, nel servizio al povero, o nelle forme utopiche del pacifismo e della salvaguardia del creato. Si stabilisce così oggi una facile equivalenza tra impegno cristiano e servizio sociale. Occorre forse, anzitutto, mettere in discussione questo schema e dire in modo chiaro che alla carità, nella specifica forma dell’amore del prossimo, va riconosciuto un rilievo politico. Certo per comprendere questo rilievo bisogna superare l’identificazione frettolosa tra carità e cura del povero o degli ultimi, tra carità e relazione di aiuto al bisognoso. La carità è certamente tutto questo, ma non deve essere ridotta a questo. La carità deve riferirsi ai rapporti primari, alla forme elementari della vita, a quei modi di vivere che sono mediate dall’ethos, cioè da quelle forme QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO con cui il desiderio si configura e sta al fondamento dell’alleanza sociale. A partire da questo riferimento alle forme fondamentali della vita si troverebbe la corretta comprensione della giustizia e dei modi della sua formulazione giuridica. Ma la maniera di pensare il rapporto tra carità e giustizia è stato configurato secondo lo schema dei due ordini: l’una appartiene all’ordine della grazia soprannaturale; l’altra all’ordine della giustizia sociale. Tale rapporto si presenta secondo uno schema additivo, ma fatica ad indicarne le relazioni; e tale schema si ripresenta addirittura nella forma della contrapposizione nella lettura protestante. Da essa deriva la separazione tra pubblico e privato e tra società e coscienza. Lo schema di matrice protestante è quello che ha influito di più sulle società moderne configurando una separazione tra individuo e società, tra privato e pubblico: in esso si pensa a un individuo che sarebbe costituito a monte dei suoi rapporti sociali. Così l’identità del singolo è data nella sfera privata (religiosa), mentre i rapporti sociali sono regolati dalla convenzione tra gli uomini e la giustizia è legittimata dall’accordo tra i cittadini, da un contratto stabilito tra di loro. L’alleanza sociale assume la forma di una convenzione. Tale concezione contrattuale della società si collega poi al discorso della laicità politica che prevede la separazione tra diritto e morale. Occorre riprendere la riflessione affermando che la stessa identità dell’individuo è mediata dalla relazione sociale: l’individuo sorge nel rapporto parentale, si articola nel rapporto uomo donna e vive attraverso la relazione di fraternità. È attraverso queste relazioni, presenti nel costume e nella cultura (in senso antropologico), che è possibile alla coscienza morale di volere e al rapporto sociale di offrire una grammatica alla convivenza tra gli umani. Ciò ci consente di pensare il valore politico della carità: solo mostrando come nel riconoscimento dell’altro è sempre in gioco la coscienza di sé, e solo mostrando come questo riconoscimento dell’altro assuma le forme della prossimità (prima che della relazione di aiuto, anche se la prossimità è sempre da capo suscitata della cura del bisogno e del povero), è possibile mostrare la profonda relazione e la distinzione tra rapporto fraterno e rapporto sociale, tra essere prossimo e essere socio, e come essi s’intreccino reciprocamente. Come, in altre parole, la carità abbia una rilevanza politica e la giustizia si alimenti sem- QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO »la stessa identità dell’individuo è mediata dalla relazione sociale pre di nuovo al rinnovamento delle forme elementari del rapporto fraterno. Il rapporto sociale, infatti, mediato dalle leggi e dal diritto, deve necessariamente riferirsi sempre al riconoscimento dell’altro in cui è in gioco anche la coscienza di sé. E, reciprocamente, le forme giuste della convivenza civile (o la critica alle loro contraffazioni), plasmino sempre in certo senso e rendano possibile anche i modi delle relazioni umane: la parola e il riconoscimento reciproco, il dono e la promessa. Non si dà dunque separazione tra singolo e società, tra coscienza e diritto. Solo così la carità non sarà ai margini della società, ma sarà come l’atmosfera che favorirà rapporti giusti e l’impegno sociale, così come reciprocamente il miglioramento della grammatica sociale favorirà forme sempre nuove della relazione di prossimità (e di aiuto/servizio). *Sintesi dell’intervento al XXVI Incontro di Studi delle Acli Milanesi, del 26-27 giugno 2009. L’intero contributo è pubblicato sul portale www.aclimilano.com 10 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO La crisi e il futuro del nostro modello di sviluppo Mauro Magatti Mauro Magatti preside della Facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano Crisi come perdita di rapporto con il reale* Di fronte ad una crisi di rapidità e intensità inaspettate, la tesi secondo la quale il crollo dei mercati finanziari sarebbe da attribuirsi agli illeciti di un gruppo di manager attratti dalla prospettiva di facili guadagni appare ormai del tutto inadeguata. A “deviare” – per riprendere l’espressione usata dal ministro Tremonti1 – non è stato un gruppo di malaffare che avrebbe espugnato Wall Street, ma un intero modello di sviluppo o, per meglio dire, quello “spirito del capitalismo”2 che – affermatosi come nuova ortodossia - ha, negli anni, raggiunto le sue conseguenze più estreme. A teorizzare le pratiche che oggi vengono condannate ci sono stati premi nobel, grandi manager, politici di primo piano, per non dir nulla della presidenza della FED, di gran lunga l’istituzione più importante dell’intera architettura americana. Altrove ho parlato di “capitalismo tecno-nichilista”3 come di un sistema che, sfruttando la sistematica separazione tra le funzioni e i significati, si è progressivamente affermato quale modello di riferimento nel corso degli ultimi due decenni. E come negli anni ’70 – con la crisi fiscale dello stato, l’esplosione della soggettività, l’ingovernabilità degli apparati burocratici - sono affiorati i problemi dello statalismo, così la crisi nella quale siamo immersi (per limitarci solo a quella economico-finanziaria) mette a nudo le contraddizioni derivanti dall’eccesso di “mercatismo”. Come allora, ci troviamo di fronte ad una crisi di crescita: se gli anni ’70 hanno messo a nudo l’esaurimento del modello che aveva permesso vent’anni di sviluppo iniziato nel secondo dopoguerra, così la crisi finanziaria dell’autunno 2008 porta in superficie l’urgenza di correggere il modello capitalistico che si è imposto negli ultimi vent’anni. Ciò non significa affatto pensare che siamo alla vigilia di cambiamenti epocali, ma che, più modestamente, da questa crisi prenderanno avvio movimenti profondi che porteranno – lenta- QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 1) Ripetuta più volte e riaffermata nel discorso di inaugurazione dell’anno accademico 2008-2009 dell’Universita Cattolica di Milano. 2) Per riprendere la nota espressione usata da J.L. Boltanski e E. Chiappello, in Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999. 3) Si veda Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecnonichilista, Feltrinelli, Milano 2009. 11 »la crisi non è riducibile ad una questione di tipo tecnico mente e faticosamente – ad una revisione di un tale modello. In tale prospettiva, la crisi non è riducibile ad una questione di tipo tecnico: per quanto non possa essere compresa trascurando tale dimensione, la sua origine e la sua natura sono molte diverse. Quanto accaduto può essere spiegato ricorrendo ad una similitudine. Per fare la maionese occorre sbattere il tuorlo dell’uovo in modo da farne aumentare il volume, che aumenta facendovi entrare aria. Ma, come sanno tutti coloro che hanno provato, la miscela che in questo modo si viene a formare, ha la caratteristica di essere altamente instabile. Basta poco e la maionese “impazzisce”. In effetti, lo sviluppo del sistema finanziario degli ultimi 30 anni ha reso possibile uno straordinario aumento del volume delle risorse disponibili su scala globale: mediante l’introduzione di strumenti tecnici sempre più raffinati, non solo è aumentata vorticosamente la velocità degli scambi finanziari, ma è cresciuto anche, su scala planetaria, il volume complessivo delle risorse disponibili. È stato grazie a questo movimento che ciò che abbiamo chiamato globalizzazione ha potuto sostenersi. Proprio quella innovazione finanziaria, di cui oggi vediamo l’inconsistenza, è stata uno degli ingredienti dello sviluppo economico globale degli ultimi due decenni. Il sistema ha funzionato molto bene per diversi anni e la sua crisi – come quando la maionese impazzisce - è probabilmente dovuta a errori e esagerazioni che avrebbero potuto essere evitate. Ma il punto su cui conviene soffermarsi è un altro. zione tra un discorso di tipo tecnico e una visione iperindividualizzata dell’essere umano Il problema è che, come la nostra maionese, l’architettura finanziaria su cui tale sistema si basava era estremamente precaria. E nonostante molti osservatori ne abbiano sottolineato la vulnerabilità, poco o niente è stato fatto. La ragione sta nel fatto che “il regime di giustificazione” di un tale modello si è basato sulla combinazione tra un discorso di tipo tecnico e una visione iperindividualizzata dell’essere umano. Il sistema, cioè, si è affermato ed è cresciuto perché “funzionava” e perché, nel contempo, era in grado di espandere la libertà individuale. L’edificazione di un tale sistema è stato un processo piuttosto lungo. Ma, alla fine, esso si è imposto, sbaragliando le visioni economiche concorrenti. Ciò è avvenuto mediante la sistematica rimozione di una serie di restrizioni la cui origine risaliva all’epoca del new deal 12 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO »combina- e, più in generale, alla revisione - fino al completo abbandono - del pensiero economico operato da J.M. Keynes4. A lungo andare, questo regime di giustificazione e le pratiche che esso ha legittimato hanno provocato una crescente separazione tra l’economia e la realtà. In primo luogo, nell’agire economico – così come in altri campi della vita sociale - si è insediata la convinzione dell’assenza di limiti all’agire umano. O meglio, che sistemi tecnici sufficientemente potenti potessero ampliare indefinitivamente la libertà d’azione individuale - che nello specifico si è tradotta in aumento esponenziale dei rendimenti finanziari. Concretamente, attraverso i famigerati bonus ai top manager, chi ha diretto il capitalismo globale era la prova vivente del fatto che i guadagni potessero aumentare ad una velocità che, secondo i parametri dell’economia tradizionale, non sarebbero stati nemmeno immaginabili. Nel momento in cui rendeva il 100 o il 200%, l’attività finanziaria ha di fatto preso il posto di quella reale. In secondo luogo, nel capitalismo tecno-nichilista, l’economia ha perso qualunque scopo sociale: il modello presupponeva, infatti, che la giustizia sociale e la cure della persona si realizzassero per mero effetto secondario. In gergo ciclistico, il “plotone” avrebbe seguito, grazie all’effetto di trascinamento generato dalla fuga in avanti del drappello di testa. E in un certo senso così è stato: come mi ha ricordato uno dei principali manager di una grande banca italiana, la stessa globalizzazione non avrebbe potuto darsi e centinaia di milioni di persone non avrebbero avuto accesso ad un livello di benessere superiore senza gli strumenti che oggi chiamiamo “tossici”. Il che è senz’altro vero, salvo mettere tra parentesi gli inevitabili “costi umani” che l’accelerazione impressa dal capitalismo tecno-nichilista ha comportato su individui e comunità5. 4) Non si deve dimenticare che, negli ultimi vent’anni, proprio quelle banche d’affari che sono state l’epicentro del terremoto finanziario sono state considerate la punta di diamante del capitalismo globale. »nel capita- lismo tecnonichilista, l’economia ha perso qualunque scopo sociale 5) Su cui ha scritto tra gli altri Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Bari 2006. Oltre l’emergenza, sul modello di sviluppo Con il crollo repentino del volume delle risorse disponibili, la crisi finanziaria fa riemergere una parte dimenticata della realtà. Il crack finanziario è stato di ampiezza tale da rendere inevitabile il trasferimento dei suoi effetti all’economia reale, con una riduzione della ricchezza complessiva disponibile su scala globale. Gli ultimi segnali sembrano far pensare che il crollo si sia arrestato, il che ha spinto a sostenere che possiamo sperare di riuscire a scampare all’apocalisse. Il che è, per fortuna, pro- QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 13 6) U. Beck, La società del rischio,Carocci, Roma 1999. »un sistema esposto a grandi rischi babilmente vero. Ma, detto questo, ciò non toglie che le conseguenze di quello che è successo segneranno profondamente gli anni a venire. Come ha capito già da molti anni U. Beck6, nel dispiegare la sua potenza, il capitalismo tecno-nichilista ci espone a enormi rischi. E, in effetti, che un tale modello di sviluppo, rinunciando ad ogni ricomposizione di senso, fosse un sistema esposto a grandi rischi – proprio perché raggiunge livelli di complessità sistemica mai visti - lo dimostra la storia di questo primo decennio del XXI secolo: dalle torri gemelle alla crisi finanziaria, passando per i focolai di grandi epidemie globali, la diffusione impressionante della criminalità, il disastro ambientale, l’aumento della percezione di insicurezza, ci troviamo immersi in un mondo dove, a fronte di una dimensione dei fenomeni sempre più grande, non disponiamo di livelli e strumenti di governo pertinenti. Nel caso della crisi finanziaria, è come se il mondo fosse stato colpito da un grave infarto. In una tale situazione, la prima preoccupazione è, ovviamente, quella di sopravvivere. E, in effetti, l’intervento d’urgenza delle autorità nazionali di questi ultimi mesi ha avuto – e ha ancora – proprio questo obiettivo: quando la crisi è acuta, il problema è usare i farmaci giusti; non c’è posto per nessun’altra considerazione. Per fortuna, la paura è stata così grande da consigliare a tutti prudenza. Il che ha favorito il coordinamento delle azioni e la definizione di alcuni interventi globali. In particolare, l’insperato successo dell’ultimo G20 ha rappresentato un momento di grazia che ha certamente aiutato a tirare un respiro di sollievo all’intero pianeta. Ma, ammesso e non concesso che possa essere considerata superata, la fase acuta altro non è che l’anticamera di un periodo – più o meno lungo – di convalescenza nel quale è fondamentale riconoscere che non si può più tornare quelli di prima. Pretendere il contrario, far finta che non è successo niente, tornare a vivere esattamente nello stesso modo, è una reazione comprensibile, umanissima, ma, molto spesso, sbagliata e, per giunta, molto rischiosa. Come dice il proverbio, non tutto il male viene per nuocere. Potrebbe essere, infatti, che proprio l’impossibilità di continuare a essere quelli di prima possa alla fine rivelarsi un vantaggio. Forse, attraverso le limitazioni che la crisi sta imponendo può di- 14 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO ventare possibile recuperare dimensioni dimenticate o scoprire di avere qualità che non conoscevamo. Come dopo un infarto, per affrontare quello che la crisi sta provocando è probabilmente utile tenere presente che ci vorranno anni per riassorbire i costi umani e sociali che lo sconquasso ha provocato e che se ne uscirà solo grazie ad un pensiero e un’azione innovativi, soprattutto per quanto riguarda la transizione individuo-istituzione. Nel medio termine, la soluzione della crisi non è semplicemente di tipo tecnico. O per meglio dire, ciò di cui c’è bisogno è di una tecnica che esprima una nuova visione culturale e una rinnovata logica istituzionale. Volendo risalire alla radice, la questione è, in ultima istanza, antropologica, perché la tecnica – compreso l’ambito economico e finanziario – ha fatto enormi passi in avanti nell’ultimo scorcio di secolo senza che il nostro pensiero (e le nostre pratiche) siano ancora in grado di governarli. »c’è biso- gno è di una tecnica che esprima una nuova visione culturale e una rinnovata logica istituzionale *Sintesi dell’intervento al XXVI Incontro di Studi delle Acli Milanesi, del 26-27 giugno 2009. L’intero contributo è pubblicato sul portale www.aclimilano.com QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 15 Bruno Manghi sociologo, già direttore del Centro Studi Nazionale CISL I RIFLESSI DELLA CRISI NELLA VITA DELLA SOCIETÀ (a cura di Paolo Colombo) In quella che molti esperti definiscono come la peggiore crisi dai tempi della recessione del ’29 non poche sono le questione aperte, sia a riguardo delle cause (prossime e remote) che l’hanno scatenata sia delle prospettive future. Anche a partire dalle analisi specialistiche, quello che interessa è soprattutto comprendere le ricadute sulla vita quotidiana della gente, dunque sull’esperienza concreta di milioni di persone e famiglie che popolano le nostre città. A tale scopo, onde avere una chiave di lettura più precisa, abbiamo intervistato Bruno Manghi, il quale ci ha offerto alcune intuizioni che sicuramente contribuiranno all’approfondimento e al confronto su temi di così grande rilevanza. In breve tempo la crisi finanziaria si è trasformata in crisi economica ed occupazionale. Per quanto la domanda sia evidentemente generica, cosa è possibile intravedere per il futuro? Come la crisi ci sollecita a cambiare l’approccio ai temi del lavoro? La crisi finanziaria è stata la grande – se non da pochissimi – inattesa novità. Però si è innestata su una difficoltà precedente: la crisi di domanda, nel senso che il sistema planetario delle disuguaglianze faceva sì che la capacità produttiva del sistema internazionale fosse molto al di sopra delle capacità d’acquisto delle persone. Questo substrato esisteva già prima; anche a prescindere dalle varie bolle, noi avevamo una situazione in cui la produzione si era solo ridimensionata rispetto alla capacità d’acquisto delle persone, a causa delle permanenti e crescenti disuguaglianze sia dentro i paesi, sia soprattutto a livello internazionale. Allora si tentò una risposta speculativa, particolarmente negli Stati Uniti, invitando la gente a indebitarsi: se non hai i soldi per comprarti la casa o altri beni, noi ti offriamo la possibilità di indebitarti nella speranza che poi, trasferendo continuamente questi debiti, in qualche misura il problema si risolva; a un certo punto, invece, l’insolvenza è esplosa. 16 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO La cosa che mi interessa sottolineare è questa: una volta tamponata la crisi finanziaria, senza una sufficiente uguaglianza, il problema della domanda e della capacità produttiva rimane inalterato. È infatti arduo pensare che l’enorme capacità tecnica di produrre non crei di nuovo situazioni di grave difficoltà. Ci sono analisti e studiosi che lo hanno sottolineato e il tutto è riassunto in un bel libretto di Alberto Berrini recentemente pubblicato da Bollati Boringhieri, dal titolo: “Come uscire dalla crisi”. C’è stato un intervento pubblico che ha impedito gli effetti catastrofici che ebbe la crisi del ’29. Però, normalmente, dalla crisi si esce con una trasformazione profonda dell’economia, e non sono in grado di dire quale; sicuramente avverrà, e questo da un punto di vista occupazionale creerà dei problemi, perché se si riorganizza l’economia, quindi la produzione di beni e servizi, i problemi dell’occupazione si ripresentano. Credo perciò che la questione dell’intervento sociale, per evitare situazioni drammatiche, si porrà ancora a lungo. »dalla crisi si esce con una trasformazione profonda dell’economia Come giudica gli interventi che in questi mesi hanno visto come protagoniste le autorità politiche e le istituzioni finanziarie? Qualcosa è stato fatto, ma si poteva fare di più, di meglio, con maggiore tempestività… E non è forse vero che, ai primi spiragli di luce, già si rischia di tornare agli antichi abusi finanziari, con tutte le ricadute che conosciamo, ad esempio per quanto riguarda la tutela del risparmio? Sicuramente gli interventi pubblici, quelli statali in particolare, sia in Italia che nel mondo sono stati provvidenziali, nel senso che il rischio di non intervento avrebbe riprodotto la situazione di crack del ’29. Bisognava impedire alle banche e alle imprese finanziarie, pur colpevoli, di fallire. Gli interventi di emergenza fatti nei vari paesi si assomigliano un po’ tutti; in alcuni punti sono stati più drastici, in altri meno. Nel caso italiano, che presentava problemi forse minori rispetto ad altri paesi, gli interventi sono stati abbastanza modesti; non dimentichiamo tuttavia che questa modestia dipende anche dalla scarsità delle risorse a disposizione e dai vincoli di bilancio. Si poteva fare meglio, fare di più, affrontando di petto la questione degli ammortizzatori sociali. La cosa che oggi chiedono prevalentemente i sindacati è una mossa audace ma non facile: rilanciare la domanda detassando coloro che le tasse le pagano, cioè i lavoratori, i pensionati e QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO »Gli inter- venti di emergenza fatti nei vari paesi si assomigliano un po’ tutti 17 in parte le imprese. Si tratta di una mossa complessa, naturalmente, perché almeno nel breve periodo sottrae risorse pubbliche derivanti dalle imposte, però dal punto di vista dell’equità è giustissima. Diciamo che questa è la cosa che non è stata fatta, che forse si farà e che sarebbe sensibilmente diversa dal “pronto soccorso necessario” che si è prodotto fino ad oggi. Non per tutti tra l’altro, perché il pronto soccorso funziona solo per i pazienti che sono iscritti alla mutua; per i non iscritti ci sono piccoli interventi, ma non soluzioni vere e proprie. Cosa è lecito chiedere al mondo delle associazioni e più in generale del Terzo settore in ordine ad un apporto progettuale e di azione nel contesto attuale? »il Terzo settore non riesca ad avere un risalto pubblico, a contare veramente come voce autorevole 18 Anzitutto il Terzo settore, là dove assume la forma della cooperazione, subisce oggi una sfida molto pericolosa, perché la cooperazione virtuosa è messa in scacco da una cooperazione malata che sfrutta le continue esternalizzazioni che il sistema pubblico opera attraverso criteri di conduzione e di sfruttamento impressionanti. Quindi un primo problema è riuscire a distinguere, parlando dell’economia civile nel suo complesso la cooperazione virtuosa, quella che rappresenta un tesoro sociale, dalla cooperazione malata, che ahimè prevale. Oggi, se uno va in giro tra la gente più modesta sbandierando la parola “cooperativa”, sente che la percezione non è positiva. La cooperativa viene vissuta come una condanna dall’operatrice sanitaria, dal facchino, dalla ex guardia giurata, dall’addetto alle pulizie. Tutto ciò ha avuto origine da una squilibrata esternalizzazione del servizio pubblico, che non regge neppure dal punto di vista dell’efficacia: il sistema ospedaliero, il sistema dell’assistenza, il sistema dell’igiene pubblica ci mostrano delle cose eloquenti. Il secondo problema che mi sembra evidente è che il Terzo settore, pur essendo così ricco di esperienze positive di per sé esemplari, non riesca ad avere un risalto pubblico, a contare veramente come voce autorevole. Viene usato da tutti per parlare di una cosa bella, di una cosa buona, però di qui a contare ce ne passa molto. Ciò dipende anche dalle divisioni interne a questo vasto mondo, nonché da una logica ancora un po’ arretrata del nostro paese, che è la seguente: il sistema pubblico continua a presumere di doversi occupare lui del sociale, quando poi si rende conto di non avere i mezzi sufficienti ricorre al Terzo QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO settore. Invece dovrebbe essere esattamente il contrario: il sistema pubblico dovrebbe dire che le cose sociali appartengono principalmente al Terzo settore e soltanto in funzione di regolazione, di coordinamento, subentra la dimensione pubblica. Direi che il Terzo settore viene usato in questa visione distorta come una stampella quando il sistema pubblico si arresta. Questo è il cambiamento che va attuato; il Terzo settore ne è abbastanza consapevole ma la cultura politica no, perché è tuttora ancorata ad una visione di supplenza. Il compito formativo è sempre più urgente. Come valuta i passi da intraprendere in vista sia della riqualifica della forza lavoro, sia dell’individuazione di nuovi stili di vita? Riqualificazione della forza lavoro. Questa idea della formazione continua che appare nei noiosissimi documenti europei, che viene continuamente evocata pensando che poi tutti si impegnino a formarsi, mi sembra una visione un po’ nazimaoista: questi poveri diavoli che fanno salti mortali continui. Le cose non vanno assolutamente così, bisogna essere più naturali. Le persone di tutti gli strati, quando intravedono delle chances, degli stimoli, ci pensano loro a formarsi usando ovviamente le istituzioni presenti, le agenzie formative, ma anche facendo da soli. Porto un esempio che, secondo me, è decisivo. In Italia, negli anni Novanta, milioni di persone di tutte le età hanno imparato il linguaggio dell’informatica. Pochissimi lo hanno fatto attraverso lunghi percorsi di studio. È stato un imponente fenomeno di autoformazione di massa, stimolato da una visione molto corretta: ce n’era bisogno. Se uno invece fa delle chiacchiere infinite sulla formazione senza sapere perché, dove si va a parare, verso quale economia, questa proposta sarà destinata a fallire. In altri termini, chi ha responsabilità deve essere in grado di influire e assecondare la nascita di nuove forme economiche, dopo di che la formazione ne consegue. Una delle più belle esperienze in corso in Italia è l’Unitre: centinaia, migliaia di persone – e non solo anziani – spendono una quota di tempo per coltivarsi. Questo non è senza conseguenze sull’economia e sulla società, ma non è fatto per questo, bensì è qualcosa che parte dalle persone, dalle loro curiosità, da una maniera buona di occupare gli spazi in libertà di tempo. Di formazione ce n’é tantissima, ce ne QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 19 »gruppi di persone che vivono in maniera diversa il loro rapporto con il consumo, la natura, il tempo »Darsi una mano serve per resistere alla potenza della moda sarà sempre di più, ma molto varia; non così intruppata in una visione lavoristica, che poi è destinata sovente a fallire. Quanto agli stili di vita, l’importante è che ve ne siano di diversi, che esistano gruppi di persone che vivono in maniera diversa il loro rapporto con il consumo, la natura, il tempo. Io credo nel pluralismo, non nello stile di vita universale. Oggi poi c’è l’enorme vantaggio che le cose si vengono a sapere anche se non si è vicini di casa: di qui nascono il confronto e una competizione positiva. L’importante è che di fronte ad un giovane che cresce vi siano più possibilità e dunque la consapevolezza che si può vivere in modi diversi. Tutto ciò è già molto: non c’è un solo modo di vivere ma ci sono modi di vivere diversi e uno si accosta, passa da uno all’altro, magari viene deluso, affascinato, prova, sperimenta… È chiaro che nel caso di stili di vita “eretici” rispetto a quelli principali bisogna darsi una mano, creare un collegamento tra coloro che vogliono attuare uno stile diverso (senza per questo isolarsi, facendo quasi un falansterio). Darsi una mano serve per resistere alla potenza della moda. Lo stesso vale per il rapporto tra il Terzo settore e l’economia per il profitto. A me interessa che ci sia una influenza reciproca, che l’economia e il profitto costringano il Terzo settore ad essere efficiente, lo spronino trasmettendogli i saperi che vengono dal loro mondo; nello stesso tempo il Terzo settore deve sfidare l’economia del profitto ad essere decente. Anche per gli stili di vita vale quanto ho detto. Il consumatore normale non è uno stolto. È uno che fa dei consumi al cui interno è racchiusa una forte valenza simbolica; non è solo un accumulatore di oggetti e quindi va visto e capito come persona. Il consumatore sobrio è colui che consuma in maniera più attenta, valuta il proprio consumo e può anche mettere in crisi il consumatore tradizionale. Quello che conta è lo scambio pluralistico tra le persone. Poco fa parlava in prospettiva di una “nuova economia”. E d’altra parte per molti aspetti ci muoviamo nell’orizzonte del “pensiero unico”, ossia del dominio del mercato e del denaro. In che cosa si può intravedere tale novum? Il denaro è un fenomeno fortemente simbolico, e tuttavia non so se è così vero che ci sia questo impero. Il mondo in cui viviamo è pieno di sentimenti, anche sbagliati, ma questi sentimenti ci 20 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO sono; non è vero che è preso soltanto dall’accumulazione primitiva, dal mettere un oggetto sopra l’altro, un euro sopra l’altro. Ci sono molte più facce nelle nostre vite. Non credo ci sia un pensiero unico; c’è piuttosto una opacità, una difficoltà ad orientarsi in questa vita molteplice, ma la cosa principale, mi sembra, per la generazione attuale è che per la prima volta, in maniera soggettiva, si viva il pianeta. Questo un tempo non c’era, se non quando scattavano le grandi guerre, i grandi cataclismi. Ciò ci riempie di curiosità, però ci fa anche paura, ci fa sentire più piccoli, in balia degli eventi. Quindi qui sta la difficoltà: dobbiamo rielaborare la consapevolezza di essere in tanti, e che c’è interdipendenza tra di noi e tra noi e l’ambiente. Tutte cose che chiedono tempo per essere elaborate: penso che la generazione attuale sarà in grado di elaborarle, su questo non sono pessimista; naturalmente con la solita fatica che ci vuole in questi casi. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 21 Luciano Larivera gesuita, scrittore de: “La Civiltà Cattolica” QUANTA MODESTIA CORAGGIOSA CI VUOLE Luciano Larivera Dal settembre 2008 al marzo 2009 si è temuta la «fine “di un” mondo». La prima fase di politica monetaria è stata di salvare il «bene pubblico globale» della fiducia nei mercati finanziari. Finalmente c’è stato «lo sforzo di entrare per la porta stretta». È arrivato il coraggio di allargare e intensificare il coordinamento politico internazionale, prima carente. È un passo verso il riconoscimento pragmatico che la nostra sorte è comune. Siamo membri della stessa famiglia umana. »una sorve- Adesso le Autorità hanno il problema di non tornare alla situazione di partenza. Rinnovando le regole dei mercati finanziari e dei sistemi di vigilanza, soprattutto su banche globali e «paradisi fiscali», si spera in una maggiore prevedibilità del sistema economico. Speriamo che sia premiata l’innovazione finanziaria intelligente, perché benefica alla vitalità del sistema. Ma il compito è immane. Sono molti i mercati e gli operatori privati da regolamentare e sono numerosi gli attori pubblici da coordinare: quelli politici, le autorità di regolamentazione, di vigilanza, di fissazione degli standard contabili ecc. Vanno tutelate congiuntamente, sia a livello nazionale sia internazionale: la sovranità degli Stati nella politica economica, la stabilità finanziaria, l’efficienza e la redditività degli operatori finanziari, l’accesso delle imprese al credito e ai capitali di rischio, la tutela dei risparmiatori da comportamenti predatori e truffaldini, le prospettive di crescita e sviluppo, e la morale pubblica e d’impresa. Occorre evitare che gli Stati si facciano «concorrenza regolamentare», cioè attirino operatori stranieri ponendo meno oneri fiscali, ambientali e sul lavoro. glianza sobria e incessante, regolamentata e indipendente Si attende una sorveglianza sobria e incessante, regolamentata e indipendente dalla cattura della politica e delle lobby. Andrà potenziata la magistratura che si occupa di reati finanziari internazionali e che assicuri la certezza delle sanzioni. Il G20 e il Financial Stability Board nascono per supportare politicamente e tecnicamente questa svolta, che è un’impresa di cultura orga- 22 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO nizzativa. Possiamo parlare quindi della «vigilanza» come prima esigenza di conversione per le nostre comunità politiche e per gli operatori a ciò maggiormente delegati (inclusi gli ispettori del lavoro). La terza fase di politica monetaria, dopo il salvataggio e la nuova vigilanza-regolamentazione, sarà di ridimensionare gli aiuti alle banche, che nel frattempo devono accumulare utili per coprire le perdite attese. Senza questa exit strategy può generarsi ulteriore instabilità, perché si incentivano gli istituti di credito (data la loro possibilità di indebitarsi a basso costo) a prestare a chi specula in titoli, derivati, materie prime ecc. Se mancherà il coordinamento internazionale ci saranno movimenti ingenti e repentini, quindi destabilizzanti, di capitali finanziari tra Paesi e continenti. Una quarta fase dovrà riguardare le valute. Il renminbi cinese ha un cambio ancorato al dollaro, occorrerà che diventi flessibile. Gli Usa non potranno illudersi che, tenendo svalutato il «biglietto verde», manterranno il quasi monopolio valutario nel commercio internazionale e nelle riserve delle banche centrali. Alcune regioni stanno progettando nuove valute condivise. E l’Unione Europea dovrà decidersi se avere una politica comune sui cambi e se desidera espandere l’uso dell’euro nei mercati finanziari. Perché questo avvenga occorrerà che l’Ue cominci a emettere propri titoli di debito per progetti europei. L’euro sarebbe così un nuovo pilastro per la stabilità finanziaria e non soltanto uno scudo di autodifesa. Compito faticoso che spetta un po’ a tutti, e non soltanto a economisti e politici, è l’apprendimento. C’è il problema di migliorare la comprensione teorica del sistema finanziario ed economico internazionale. La seconda conversione è «intellettuale». Essa è parte imprescindibile della complessa sfida educativa per affrontare un mondo del lavoro e dei consumi globale. Chi risparmia deve sapere quale logica e quali rischi assume. Chi consuma deve intuire come i propri atti influenzano gli equilibri ambientali ed entrano nella distribuzione internazionale del lavoro e nella sua valorizzazione. Chi vota deve riuscire ad interpretare con rigore le politiche monetarie delle banche centrali, quelle economiche dei governi (incluse quelle di cooperazione internazionale) e le strategie delle corporation. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO »Chi rispar- mia deve sapere quale logica e quali rischi assume 23 »Il rispetto dell’autonomia e della libertà economica ha un costo Per gli operatori finanziari (e i loro clienti) è il momento di amare il rispetto delle regole e di verificare che tutti le rispettino. Va regolamentata la deregolamentazione. Il rispetto dell’autonomia e della libertà economica ha un costo, incluso l’aumento dell’insicurezza, che non deve essere scaricato su risparmiatori traditi, contribuenti ignari, su coloro che non riescono mai avere l’opportunità di emergere, ad esempio non avendo accesso al credito. Si tratta qui della conversione alla «responsabilità». Adesso l’«apocalissi» temuta è la disoccupazione di massa e il crollo dell’aspirazione a un lavoro dignitoso, soprattutto per i giovani. In reazione aumentano i disavanzi e i debiti pubblici. Ma non saranno a lungo sostenibili se non inizia un nuovo ciclo di crescita sostenuta e stabile, centrata anche sulle energie «verdi». Qui si affaccia la quarta conversione allo «sviluppo sostenibile», che è tale perché include tutti. Senza dubbio sarà l’imprenditorialità privata, inclusa quella no-profit, a generare la crescita di lungo periodo, ma è necessaria un’equa distribuzione ex ante dei redditi. L’imposizione fiscale grava in modo sproporzionato sui lavoratori dipendenti, mentre gli stipendi sono troppo squilibrati verso l’alta dirigenza, i professionisti. È stata pure eccessiva la remunerazione ai prestatori di capitale finanziario e di rischio. Il risultato è stato di non espandere la capacità di spesa della gente, i cui debiti al consumo sono aumentati. Senza la domanda delle famiglie, l’economia ristagna e le imprese, quindi, sono poco invogliate a fare investimenti. C’è poi un’equità distributiva ex post verso chi è escluso dal mercato del lavoro, o addirittura intrappolato nella miseria. Questa è la conversione alla «solidarietà», che è «modo indicativo e imperativo» del verbo amare. Occorre l’atto di fede che lo sviluppo si auto-genera e si auto-sostiene quando si allarga e non resta organico al proprio ceto, alla propria comunità locale o nazionale. In un’ottica di utilitarismo «illuminato», cioè tecnico e pragmatico, più che una nuova «alleanza sociale globale» si prospetta un «grande baratto». Si tratterebbe di un «contratto sociale mondiale» per cui i Paesi sviluppati potranno mantenere il loro benessere facendo crescere i mercati dei Paesi poveri (sui lati dell’offerta e della domanda interne e del commercio internazionale) e il tenore di vita delle loro masse. 24 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO A livello di cooperazione internazionale è cruciale il sostegno ai Paesi meno sviluppati perché creino un loro autonomo sistema agro-alimentare nazionale o interregionale di auto-sostentamento. L’assistenzialismo cronico alimenta la corruzione. Lo sviluppo durevole richiede, invece, sistemi scolastici e universitari avanzati, il trasferimento di tecnologia e il credito all’impresa privata nei Paesi poveri. Vanno sostenuti i loro sistemi finanziari nazionali perché siano liquidi, efficienti, regolamentati e vigilati, integrati con quelli dei Paesi vicini e del proprio continente, protetti dalla rapacità internazionale e, quindi, al servizio di un nuova imprenditoria locale. A questo proposito un risparmiatore «solidale» può considerare quale parte del proprio reddito possa dirigersi al microcredito allo sviluppo. »A livello di cooperazione internazionale è cruciale il sostegno ai Paesi meno sviluppati Quanta fortezza ci vuole − dono dello Spirito Santo – per queste cinque conversioni. Non ci si può illudere che da vizi ed egoismi privati nascano pubbliche virtù e istituzioni al servizio del bene comune. Questa antropologia sociale è fasulla. Una vita felice è frutto delle virtù. Ripartiamo da quella della modestia. Presunzione, vanità, avidità e arroganza fanno crescere bolle speculative, disoccupazione, sottosviluppo e infelicità. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 25 Carlo Stelluti già parlamentare Sindaco di Bollate »la crisi è un insieme di fatti concreti che partono da lontano LA CRISI NON È UGUALE PER TUTTI Carlo Stelluti Molte sono le circostanze della vita degli individui e della società in cui si parla di crisi. In questa sede vorremmo occuparci solo di crisi dell’economia e della società, cercando di dimostrare in particolare che la crisi che stiamo attraversando non è una condizione psicologica di un popolo particolarmente depresso, non è uno stato d’animo, ma è un insieme di fatti concreti che partono da lontano, hanno delle radici profonde e possono produrre conseguenze socialmente devastanti che possono condizionare pesantemente le prospettive future di molte persone. Se la crisi è uno stato transitorio, più o meno lungo, di particolare difficoltà o turbamento dell’andamento dell’economia e della società, le conseguenze negative sulle condizioni di vita della popolazione dipenderanno necessariamente dal prolungarsi dello stato di depressione dell’economia e dalla sua profondità. Siamo convinti che non necessariamente al termine “crisi“ debba essere attribuita un’accezione negativa se si considera solo la sua transitorietà, ma gli effetti percepiti della crisi hanno sempre un aspetto negativo e per i soggetti più deboli della società possono avere conseguenze traumatiche, possono cambiare radicalmente le condizioni di vita di intere classi sociali e il posizionamento nella scala di intere generazioni. Siamo in presenza di una caduta della produzione, della riduzione conseguente del livello di occupazione e di un arresto prolungato della crescita economica che ha investito tutti i paesi industrializzati, tale da far dire ai più attenti osservatori che la crisi che stiamo vivendo è la più significativa dal dopoguerra ad oggi e addirittura a qualche altro, di aggiungere ad essa, l’aggettivo epocale. Se i dati confermano questi giudizi è improbabile che le conseguenze possano essere riassorbite in breve tempo e senza traumi, semplicemente diffondendo un ottimismo di maniera, tanto più stridente quanto più distante dalle reali condizioni di vita di moltissime persone. Questo atteggiamento di stile levantino, assume semplicemente il significato di attendere impotenti che dopo la tempesta prima o poi ci sarà il 26 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO sereno di “bertoldiana saggezza”. Se tale comportamento può essere giustificato se accolto da un comune cittadino, non può trovare giustificazione alcuna se adottato da chi ha responsabilità nella politica, nell’economia, nella società. La crisi non è uguale per tutti, se non governata, i suoi effetti possono essere assorbiti dai soggetti più forti e assumere caratteristiche devastanti per i più deboli. Così è stato nel ’29, nel periodo bellico e nella crisi energetica degli anni ’70. La politica, la buona politica è quella invece che oltre a gestire l’emergenza coglie, anche nei momenti più difficili, le opportunità per riformare, per superare le storture esistenti, per ridurre le disuguaglianze, affinché si creino le condizioni per contribuire a realizzare una società più equa e solidale. Molti si chiedono le ragioni di questa crisi. Non è facile descriverle in qualche battuta e senza strumenti tecnici adeguati. Gli studiosi stanno indagando sulle ragioni remote e prossime, ed elaborando le loro teorie, aprono scenari sui quali si discuterà certamente per i prossimi decenni. Se le cause sin qui indagate e più evidenti, vengono fatte risalire ad una crisi di sistema, è indispensabile coglierne almeno i tratti essenziali ed agire di conseguenza. La crisi pare che arrivi da lontano, dalla scelta fatta dal modello americano, di “drogare” la produzione e i consumi attraverso un ingigantimento del credito e facendo assumere un ruolo spropositato alla finanza a sostegno dell’economia, dell’impresa e per sanare i bilanci aziendali. La molla che ha spinto gli operatori economici ad andare in questa direzione va ricercata nel tendenziale calo dei consumi, insito nell’Occidente ricco e saturo di merci e nell’invasione dei prodotti a basso costo, provenienti dall’Oriente, particolarmente dalla Cina e dall’India. Se poi consideriamo che la finanza in sé, da tempo, è stata sempre più protagonista di una integrazione globale di sistema e che, nella materiale impossibilità di verificare la bontà e la serietà dei prodotti finanziari, ha contaminato la finanza di tutti i paesi con prodotti definiti “tossici”, ci si rende conto che alla base della crisi finanziaria in ultima analisi esiste una crisi di valori etici e morali, che non esita a favorire la formazione di bolle speculative gestite da uomini senza scrupoli. L’idea che sia possibile arricchirsi senza l’operosità umana, senza produrre alcunché, semplicemente usando l’astuzia e approfittando della buona fede delle persone semplici, ha portato ad una vera QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO »L’idea che sia possibile arricchirsi senza l’operosità umana 27 »una vera e propria crisi del modello economico e sociale dei paesi industrializzati e propria crisi del modello economico e sociale dei paesi industrializzati. Anche in Italia, nella primavera dello scorso anno, si sono cominciate a percepire le prime avvisaglie di una crisi più intensa di altre che pure hanno ciclicamente attraversato l’economia nel passato. Nel 2008 il PIL è diminuito dell’1%; nel 2009 il dato su base annua sembra attestarsi attorno ad una diminuzione del 4,8%. Se dovessimo ottimisticamente ipotizzare che a partire dal 2010 si possa registrare una ripresa che sta sopra la media degli incrementi italiani degli ultimi anni, attorno quindi all’1%, affinché la nostra economia possa raggiungere i livelli del 2007, dovremo attendere almeno 4/6 anni. Le previsioni di Confindustria dicono che nel corso di questa crisi potrebbero chiudere i battenti 1 milione di piccole imprese, col rischio fondato che solo una piccola parte potrà riprendere la propria attività. Al fondo i sintomi evidenti si riducono a una difficoltà estrema di accesso al credito bancario, ad una mancanza di commesse, ad una mancanza di danaro e di fiducia da parte delle banche e fra operatori. La disoccupazione nel frattempo è passata dal 6,2% nel 2007 al 7,4% nel 2009 e proprio qualche giorno fa è stata superata la soglia dell’8% su base annua, il che significa oltre 2 milioni di disoccupati, 300.000 inoccupati e 500.000 cassintegrati. È grave il fatto che ben il 27% sono giovani che vedono così stroncate le loro aspettative e i loro progetti futuri. Gli economisti classici hanno sempre sostenuto che l’occupazione italiana comincia a crescere se il PIL supera almeno la soglia del 2% l’anno. Nell’ultimo decennio la crescita del PIL raramente ha raggiunto tale soglia, eppure i dati statistici ci hanno mostrato una diminuzione significativa del dato sulla disoccupazione. Ciò si spiega solo in presenza di un mercato del lavoro fortemente flessibile, con una significativa varietà di contratti di lavoro atipici che, di fatto, non hanno aumentato le ore complessivamente lavorate dalla popolazione occupata, ma hanno prodotto solo un maggior numero di persone coinvolte nei processi produttivi, quasi tutte a tempo parziale e determinato, con conseguente riduzione del reddito e dei salari. E sono proprio costoro che da una condizione di rapporto di lavoro flessibile sono ritornati in una condizione di precarietà o di assenza completa di lavoro, in gran parte senza alcuno strumento di protezione sociale. In un mercato del lavoro ove una parte significativa è gestita dalle 28 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO mafie, una parte da un sistema familistico clientelare ove il nepotismo e la politica la fanno da padroni, in cui conta più l’appartenenza che la professionalità e solo una residua fetta si può dire rimanga a libero mercato, è quest’ultima l’unica sottoposta alle intemperie della crisi. In prima istanza vi è la necessità di un massiccio intervento di emergenza, potenziando e generalizzando gli ammortizzatori sociali. In secondo luogo vi è la necessità di una profonda azione culturale riformatrice, affinché la più grande risorsa della nostra economia, l’intelligenza nel lavoro dell’uomo, non venga sprecata, mortificata, sottomessa agli interessi dei più forti. Senza progetti di largo respiro e senza riforme, il dramma della mancanza di lavoro rischia di produrre un progressivo declino con effetti che potranno protrarsi nel tempo ed essere irreversibili. Come è sempre accaduto sono in definitiva i più deboli coloro che sopportano le conseguenze più pesanti della crisi. Così come nella crisi del sistema finanziario sono i piccoli risparmiatori, sono i meno avveduti, su cui viene scaricata, anche in maniera fraudolenta, la degenerazione del sistema. Nel nostra piccola dimensione nazionale, i casi Cirio e Parmalat sono l’emblema di una totale dissoluzione dei valori etici e morali del sistema finanziario. »Senza progetti di largo respiro e senza riforme, il dramma della mancanza di lavoro rischia di produrre un progressivo declino L’Italia è uno dei paesi ove le tasse, che dovrebbero essere pagate secondo le leggi, sono tra le più alte d’Europa e paradossalmente è uno dei più generosi paradisi fiscali, solo per italiani però, perché notoriamente furbi e capaci di navigare tra le norme. L’evasione fiscale, secondo l’Agenzia delle entrate, ha superato la soglia dei 300 miliardi l’anno pari al 22% del PIL, oltre il doppio della media europea. Curzio Maltese, in un libro recente, ci ricorda che il 78% delle entrate provengono dai lavoratori dipendenti e pensionati, da loro derivano i 4/5 delle risorse per far funzionare il welfeare, mentre industriali, commercianti, professionisti, autonomi contribuiscono per il 22%. Nel 2007 il reddito medio denunciato dagli italiani è pari a 18.000 Euro/anno. I pensionati denunciano in media 16.000 Euro, i ristoratori 14.000, gli albergatori 4.600, gli industriali tessili 18.000, i costruttori 21.000. Sono solo 300.000 su 40 milioni di contribuenti coloro che denunciano un reddito superiore a 150.000 Euro/anno. È questo lo scandalo degli scandali nazionali, la base delle ingiustizie e delle disuguaglianze, il prezzo del consenso pagato QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 29 da governi accondiscendenti. Anche in alcuni settori dell’economia, particolarmente nel settore energetico, sarebbe necessario uscire dalla crisi con un radicale intervento riformatore ed una maggiore sobrietà nei consumi. Ci si può ad esempio rivolgere alle fonti rinnovabili, rilanciando l’idea di fondo che il sole, l’aria, l’acqua, il suolo, le foreste, tutto il creato, sono beni dell’umanità e il loro uso deve essere ispirato ad un grande rispetto per ciò che abbiamo trovato lungo il nostro cammino e non abbiamo su di esso alcun diritto di proprietà e men che meno possiamo farne oggetto di arricchimento e di speculazione. »La crisi è una opportunità per una svolta culturale, atta a correggere gli errori del passato 30 Qualche segno di ripresa comincia a intravedersi oltre atlantico ma abbiamo l’impressione, almeno in Italia, in questo paese dalle forti contraddizioni, che tutto stia ricominciando come prima, che alle disuguaglianze, alle ingiustizie, alle disfunzioni, alla condizione di debolezza strutturale precedente, si sommi la nuova debolezza indotta dalla crisi e dall’incapacità di produrre riforme che guardino lontano. La crisi per sua natura mobilita nuove energie, è una opportunità formidabile per indirizzarle, governarle, perché tutto non resti come prima, non rimangano le ingiustizie nel sistema fiscale, nel mercato del lavoro, nel sistema di protezione sociale; non restino le profonde e ingiustificate disuguaglianze di reddito, delle opportunità di impiego, della impossibilità a garantire ai più meritevoli una reale mobilità fra i vari strati sociali. La crisi è una opportunità per una svolta culturale, atta a correggere gli errori del passato, per realizzare prospettive più giuste ed equilibrate. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO QUALCHE PASSO OLTRE LA CRISI Giovanni Bianchi Giovanni Bianchi già parlamentare e presidente delle Acli nazionali Coccaglio Non credo alle congiunzioni astrali né agli scoop. Ma mi pare impossibile evitare di introdurre le poche considerazioni che intendo fare a prescindere dal caso di Coccaglio, comune a una trentina di chilometri da Brescia e tutto inserito in quell’area metropolitana che oramai costituisce un continuum conurbato tra la metropoli milanese e la zona che si spinge ad est della Lombardia. Conosco Coccaglio, terra di un leader del cattolicesimo democratico del calibro di Gervasio Pagani, per avervi svolto molteplici incontri culturali e politici. Un anno e mezzo fa presi parte a un dibattito con Paola Binetti e l’allora presidente dell’associazione dei teologi italiani Giacomo Canobbio sui temi riguardanti i rapporti tra politica e bioetica. La sala era gremitissima e anche gli interventi dal pubblico si susseguirono con grande civiltà. Proprio per questo non va passata sotto silenzio l’iniziativa dell’attuale amministrazione comunale che ha pensato bene di promuovere in avvento un’autentica operazione di pulizia etnica sotto il nome di White Christmas, setacciando casa per casa le famiglie di immigrati ed espellendo quanti non sono ancora in possesso del permesso di soggiorno. Tra le cose più irritanti dell’operazione è il titolo che non fa tanto pensare a Bing Crosby e alla sua voce suadente quanto al bambino che apre, col Natale, l’era cristiana, e che pochi giorni dopo essere venuto alla luce a Betlemme dovette prendere con la famiglia la via dell’esilio in Egitto perché braccato da quel re Erode, uno dei politici più astuti e sanguinari del tempo, cui viene imputata la strage degli innocenti. Ci mancava ancora tra i colpi di scena di quest’Italia un esperimento di orchismo politico-amministrativo. Come non bastasse, la notizia è esplosa nei giorni in cui si celebrava la Convenzione dei diritti del bambino, che recita tra l’altro che tutti i bambini e le bambine del mondo hanno gli stessi diritti, non importa il colore della pelle e se ricchi o poveri. Il diritto a QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 31 frequentare la scuola. Diritto all’anagrafe. Diritto a esprimere la propria opinione e a scegliersi gli amici così come i giochi. »aumento della ricchezza e aumento delle disuguaglianze »mancanza di speranza della società civile assai più che nelle istituzioni Siamo arrivati dunque al punto cruciale della crisi (non solo finanziaria) di questa globalizzazione: aumento della ricchezza e aumento delle disuguaglianze, crescita delle povertà con la comparsa, anche in Italia, dei “lavoratori poveri” e di una conseguente e “classica” guerra tra poveri, la messa in crisi di un rapporto tra mercato e democrazia sul quale per decenni si era pensato di poter dormire sonni tranquilli corredati di dotte citazioni, la spinta alle istituzioni internazionali garanti dei diritti umani (il vero filo di coerenza che unisce da tempo l’iniziativa della diplomazia del Vaticano) e il rigurgito di paura, tirchieria e xenofobia che fa rinculare verso le “piccole patrie”, l’assenza clamorosa dell’Europa dallo scenario della crisi, impotente a pensare nuovi scenari e a prendere qualche decisione risolutiva… Insomma, non di un raffreddore stiamo parlando. Il limite è stato passato. Nel nostro Paese siamo oltre il buon gusto e il buon senso di chi poi ama farsi paladino dell’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche, ma che non soltanto nel caso bresciano mette ulteriormente in rilievo che il primo problema a questo punto non sono i flussi, la loro regolabilità e sostenibilità, ma come noi ci stiamo trasformando a fronte del fenomeno immigratorio, come cioè in una parte non piccola degli italiani sia in atto una metamorfosi rapida e incredibile della propria concezione della democrazia e del vissuto della cittadinanza e dei diritti e dei doveri che essa comporta. Una sorta di mutazione del virus indotta dalla crisi nella globalizzazione. Un’epidemia di mancanza di speranza della società civile assai più che nelle istituzioni. A rischio le culture provinciali e le democrazie deboli. Una società civile che però non va considerata separata dalle istituzioni. La sua funzione anzi è quella di porsi a ponte tra il magma delle trasformazioni e la regola delle posizioni istituzionali. Soltanto in questo modo è possibile creare, ancorché per gradi, pienezza di cittadinanza e non soltanto pratiche che alla fine rischiano di rivelarsi o ferocemente impotenti o assistenziali. A campeggiare è la geniale metafora della “membrana” come intercapedine ed elemento generatore di una socialità che sviluppa i suoi dinamismi a partire dalle radici nel quotidiano (oggi 32 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO anch’esso globalizzato) per distendersi fino all’assetto istituzionale, sempre complesso e complicato, per toglierlo dalle sole geometrie e renderlo evento. Dice Magatti: “Tale socialità costituisce una membrana tra l’individuo e le istituzioni nel senso che consente la comunicazione e lo scambio tra questi due elementi della vita sociale. Da un lato, tale membrana rinvia alla sfera istituzionale la rilettura soggettiva che viene fatta della realtà e le conseguenze che essa può produrre sulla nascita di nuove modalità di azione con altri; dall’altro lato, la membrana consente di far filtrare fino a livello soggettivo regole, norme, valori che tendono a cristallizzarsi in istituzioni. Questo doppio movimento è essenziale per spiegare che cosa tiene insieme i singoli individui con l’organizzazione istituzionale e soprattutto per spiegare la flessibilità e il continuo dinamismo della vita sociale”1. Una società civile capace di quella auto-organizzazione del sociale che universalizza e si fa istituzione. Che per questo risulta di sua natura istituente. Per questo i suoi confini lambiscono il mercato, lo Stato, il Terzo settore: tutti ambiti dai quali attendiamo contributi a quella nuova politica della quale il Paese, da troppo tempo inoltrato nella transizione infinita, continua a restare in attesa. 1) M. Magatti, Il potere istituente della società civile, Laterza, Bari 2005, p .85. Ridefinire il civile Il quadro è così delineato, con i non pochi vizi che attraversano e intristiscono la realtà italiana dove il venir meno di una pratica dignitosa e coerente delle autonomie apre falle e distorsioni non soltanto tra le diverse sfere dell’agire pubblico, ma anche in ogni singolo campo. Occorre a questo punto ridefinire con qualche rigore il concetto di società civile, anche per non trasferire la confusione dal campo della prassi quotidiana a quello dei concetti chiamati a prendere distanza per meglio vedere nelle cose e nelle prospettive. Per chiarire questo punto ci viene incontro un’annotazione di Castoriadis. il quale scriveva: «Il sociale può presentarsi solo entro e attraverso le istituzioni, ma esso è anche sempre infinitamente più dell’istituzione, poiché è, paradossalmente, ad un tempo ciò che riempie l’istituzione, ciò che si lascia formare da essa, ciò che ne sovradetermina costantemente il funzionamento e ciò che, in fin dei conti, la fonda: la crea, la mantiene in vita, la altera, la distrugge. Vi è il sociale istituito, ma esso pre- QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO »ridefinire con qualche rigore il concetto di società civile 33 2) In M. Magatti, Il potere istituente, op. cit., p. 85. suppone sempre il sociale istituente»2. Non siamo lontani né dal filo che attraversa la dottrina sociale della Chiesa, né dal tenore degli interventi del giovanissimo Aldo Moro alla Costituente. La solidarietà organizzata »radici che tradizionalmente fanno riferimento al solidarismo Non basta. È risaputo che il volontariato nasce e vive come un fenomeno complesso in una società complessa. Non stupiscono allora le difficoltà cui va incontro e i punti di svolta che lo caratterizzano nella fase critica. In particolare esso sembra muoversi tra radici che tradizionalmente fanno riferimento al solidarismo (né sarebbe pensabile altrimenti) ed esiti che sembrano, per molti versi, catturabili in un orizzonte individualistico. Eviterei in proposito qualsiasi approccio moralistico, convinto che la deriva non sia tanto imputabile a un difetto o alla regressione delle persone, ma allo spirito del tempo, infeudato a un persistente Pensiero Unico che francamente mi intristisce. Questo è infatti lo stato delle cose e degli animi all’inizio del secolo ventunesimo, laddove il secolo precedente s’era aperto con le cooperative dei socialisti e dei popolari. Aggiungerò che nelle sedi istituzionali il termine “solidarietà” ha ricominciato a circolare, dopo un lungo periodo di procurato silenzio, da meno di due anni, essendo stato fin lì sostituito non proprio da sinonimi che andavano dal merito alla sussidiarietà. Ma questo è stato ed è il clima generale: lo “spirito del tempo” appunto, non l’egoistica volontà di autoaffermazione o di potenza di individui evasi dalla solidarietà e magari anche un poco usciti di testa… Ho inteso così incorniciare un problema che, in maniera documentata, ha posto Aldo Bonomi sul numero 8 della rivista Communitas. Bonomi, dopo aver evocato con stile letterario i “sussurri della moltitudine” rispetto allo statuto dell’agire sociale a seguito dei mutamenti delle tradizionali associazioni di rappresentanza, osserva che «nella moltitudine ci si muove anche secondo logiche “egoistiche” tipiche del “volontariato fai da te». Lo dice la ricerca degli scout inglesi in cui si svela che si fa volontariato in primo luogo per sé e poi per l’altro da sé. “Il volontariato, in altri termini, non è necessariamente configurabile come altruismo sociale, ma come ambiente in cui si riproducono esigenze di affermazione del sé e di tutela dei propri obiettivi meno condivisibili in una comunità ampia. Appare un mondo di 34 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO cooperatori sociali che si intreccia con l’outsourcing dei servizi degli enti locali e con il patrimonio delle fondazioni ex-bancarie. Il tutto in una generale tendenza alla produzione legislativa di riconoscimento sempre più ampia che coinvolge le Fondazioni e gli enti locali”3. Questo il contesto generale che ho trovato utile richiamare, vuoi per segnalare le curvature del costume e i segni dei tempi, vuoi anche per testimoniare la pressione di un’atmosfera e di interessi corposi dai quali non è soltanto umiltà non ritenersi comunque riparati. L’inchiesta richiamata da Bonomi è stata realizzata nel Paese di Bentham, ma non è detto parli esclusivamente inglese. Il volontariato italiano ha tra i capostipiti un uomo del rigore e della generosità di mons. Giovanni Nervo, ha tra gli analisti e suggeritori un Borzaga e un Costanzo Ranci, ma vive in un mondo globalizzato, del quale già la mia nonna osservava nella sua saggezza che “è tutto attaccato assieme”. Il contesto è dunque il medesimo, attraversato da tendenze generali e da spinte all’adattamento, perché in tutto il mondo il volontario incontra e rischia di incontrare anche troppo presto un assessore… Ethos, etica e cultura subiscono un inarrestabile processo di meticciato che le sottrae progressivamente, in positivo e in negativo, agli steccati della Nazione. Il rapporto tra movimenti e istituzioni non solo partecipa della fisiologia delle democrazie, ma è comunque incombente. Non a caso Bonomi sottolinea che “è difficile districarsi dalle normative del welfare community, come testimonia il dibattito sulla destinazione a fini sociali del 5 per mille. Senza contare poi il fatto che nella logica della moltitudine e dei suoi sussurri vi sono movimenti che si organizzano per un solo obiettivo. Li chiamiamo per questo “movimenti a un colpo solo”, movimenti che volutamente non dispongono di un repertorio di issues, ma soltanto di un obiettivo raggiunto che si sciolgono o confluiscono in altre organizzazioni”4. Col che sembra suggerito che nella società “liquida” di Bauman possono trovar posto anche i volontariati “liquidi”. Fisionomia movimentista peraltro già messa sotto accusa, sullo scenario internazionale qualche anno fa, da Michael Hardt e Toni Negri. Scrivevano infatti i due nel loro saggio Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, prendendo di mira le ONG più prestigiose come Amnesty International, Oxfam e Médicins sans frontières: “Queste ONG umanitarie sono di fatto (anche se QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 3) A. Bonomi, Dalla società del “chi” alla società del “per”, in “Communitas”, n. 8, aprile 2006, p.12. »Ethos, eti- ca e cultura subiscono un inarrestabile processo di meticciato 4) A. Bonomi, op. cit., p.12. 35 5) M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002, pp. 49 – 50. 36 ciò è in contrasto con le intenzioni degli individui) una delle più potenti armi pacifiche del nuovo ordine mondiale – le campagne caritatevoli e gli ordini mendicanti dell’Impero. Conducono delle “guerre giuste” senza armi, senza violenza, senza confini”5. L’antica tradizione marxista, sempre diffidente nei confronti dei Lumpen e delle “anime belle” che a loro prestano attenzione e cura, considera dunque esperienze e sigle del volontariato internazionale più prestigioso alla stregua di dame di San Vincenzo al servizio (utili idioti) del disegno imperiale – ormai inabissato – di George W. Bush… QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO L’ESPERIENZA COOPERATIVA Come educazione ad una democrazia (e ad un’economia) responsabili Alessandro Maggioni È difficile di questi tempi fermarsi, fare pausa, riflettere su quanto accade attorno a noi. Si ha la sensazione di essere su un enorme hula-hoop scosso da anche inquiete. Quante speranze, per assurdo, si riponevano un anno fa, all’alba di quella che era definita come “la più grave crisi economica dopo quella del ‘29”! Speranza di una stagione di ri-pensamento globale sui modelli di crescita; speranza di rigore nella gestione della ricchezza privata e pubblica; speranza di ridimensionamento dello strapotere cleptocratico di oscuri, ignoti, corrotti e codardi signori della finanza al servizio della finanza e della cupidigia. Oggi, di tutte queste speranze concrete resta – per chi ci crede, naturalmente – la Speranza Cristiana che, come scrive Papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate è una «potente risorsa sociale al servizio dello sviluppo umano integrale». Stando ai commenti di autorevoli analisti economici, i corollari concreti di queste aspirazioni sembrano invece essersi polverizzati: le “regole”, comunicativamente molto ammalianti, si sono fermate allo stadio dell’enunciazione; i ladri che hanno rubato e hanno pagato si contano sulle dita di una mano; le sperequazioni sembrano aumentare mentre i posti di lavoro reali evaporano, drammaticamente. I ricchi, quindi, continuano a restare quieti nel loro dorato empireo, i ceti medi – dove resistono – boccheggiano, i poveri soccombono. Alessandro Maggioni dirigente Consorzio Cooperative Lavoratori e ConfcooperativeFederabitazione »Oggi, di tutte queste speranze concrete resta la Speranza Cristiana Allo sguardo ingenuo di chi, come il sottoscritto, poco conosce della inesatta scienza economica, ma si cimenta ogni giorno nella pratica e nella rappresentanza dell’impresa cooperativa, pare che ancora una volta si sia eluso – nelle analisi, nei provvedimenti economici e nel dibattito politico – uno dei nodi QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 37 »una pericolosa e ormai cronicizzata insensatezza dello sviluppo »crisi di una società che ha perso il significato e la direzione del proprio agire 38 sostanziali che stanno dietro e sopra questa crisi: il nodo del “senso dello sviluppo”, nella duplice accezione di significato e direzione di marcia. Una preoccupata intuizione a tal proposito mi è balenata alla mente imbattendomi, su una Tv satellitare, in un programmino che si potrebbe definire banale (se non stupido!). Il programma si chiama “Come è fatto?” e, in pochi minuti, mostra i processi realizzativi di molti oggetti o prodotti consumati nella parte di mondo che questo consumo può permetterselo. Al di là del soddisfacimento di una certa curiosità tecnologica retrostante ai modi di realizzare molti beni d’uso quotidiano, due questioni mi hanno reso, se non inquieto, pensoso: in prima istanza l’espulsione pressoché totale delle persone dai processi produttivi e, in seconda battuta, l’enorme quantità e varietà di articoli realizzata in pochissimo tempo. A chi e a cosa serve, ad esempio, produrre 400 palline da baseball in 2 ore, o 1.000 tazze da wc in un giorno? Estremizzando mi pare si possa dire che in questa incerta fase dello sviluppo umano, in cui il pensiero calcolatore e quantitativo spadroneggia, si ha la percezione di una pericolosa e ormai cronicizzata insensatezza dello sviluppo. Affrontiamo, dunque, un momento pericoloso, definito da Stefano Zamagni “crisi entropica”: una crisi che differisce dai tradizionali momenti dialettici, che contengono in se stessi le chiavi per il loro superamento, una crisi distruttiva che rischia, cioè, di fare collassare il sistema. Questo, per tornare alla dimensione del “senso”, perché si tratta della crisi di una società che ha perso – come detto – il significato e la direzione del proprio agire. La recente enciclica papale ha il merito di riconoscere i tre elementi favorenti tale crisi, le tre fratture tra ambiti fondativi delle società cosiddette “avanzate”: la separazione tra dimensione sociale e dimensione economica, quella tra lavoro e ricchezza e quella tra mercato e democrazia. La riflessione non si limita però alla sola analisi di questa camminata dell’uomo sull’orlo dell’abisso, ma propone una serie di chiavi di lettura e sentieri capaci di reindirizzare, forse, il senso di questo nostro esser-ci sulla terra. In queste intense righe, ravviso la traccia che delinea i contorni di un modo di fare impresa certamente non nuovo ma, nello sterile panorama odierno, ancora rivoluzionario: l’autentica impresa cooperativa. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO La cooperativa, infatti, è un’impresa particolare, capace di produrre ricchezza, ridistribuire benessere in maniera diffusa, rispondere alla domanda di bisogni molto spesso primari, facendo il tutto attraverso procedure di gestione partecipata e democratica. Questa esperienza nasce, se mai si volesse dare alla sua nascita ufficiale una datazione, grazie ai “Probi Pionieri di Rochdale” nel 1844, quando un gruppo di lavoratori inglesi si associarono in cooperativa, dichiarando i punti ideali e pragmatici a cui avrebbero ispirato il loro agire, princìpi che ancora oggi costituiscono le radici culturali, ideali e operative del Movimento Cooperativo. I più importanti tra questi punti sono l’adesione libera e volontaria, l’amministrazione democratica e trasparente, la cooperazione tra cooperative, l’impegno alla formazione e all’educazione dei soci e il divieto di pagare interessi speculativi sui capitali prestati. Si tratta, quindi, di imprese ontologicamente sociali, ossia imprese che, mutuando dall’enciclica, «informano il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico». Senza volere fare una lettura ideologica dell’enciclica papale, mi pare si possa scorgere una profonda assonanza tra le esortazioni in essa contenute e i riferimenti ideali che dovrebbero sempre ispirare l’impresa cooperativa, in quanto impresa libera e volontaria. Questa libertà non è esercitata con lo spirito “animale” del capitalismo, bensì nella logica formativa di una mutualità – o reciprocità che dir si voglia – responsabile. Nella vera cooperativa non c’è un padrone, ma c’è lo sforzo di ottenere risultati imprenditoriali attraverso la prassi dialettica e democratica. Ecco allora che il richiamo dell’enciclica risuona chiaro, laddove si enuncia una forte e necessaria correlazione tra libertà, responsabilità e sviluppo. Scrive, infatti, Papa Benedetto che «lo sviluppo umano integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità». E, ancora, richiamando tutti gli uomini di buona volontà a una «comune assunzione di responsabilità», afferma che «solo se libero, lo sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in maniera adeguata». La vera impresa cooperativa è un’impresa che, grazie al princìpio QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO »le radici culturali, ideali e operative del Movimento Cooperativo »una forte e necessaria correlazione tra libertà, responsabilità e sviluppo 39 »il punto di equilibrio tra le istanze di solidarietà e quelle di economicità »L’impresa cooperativa ha connaturati nella propria essenza i princìpi di un’economia “solidale” mutualistico, è per sua natura impresa responsabile, educativa e solidale. Nell’espletare la propria azione, infatti, la cooperativa trova sempre il punto di equilibrio più efficiente ed efficace tra le istanze di solidarietà e quelle di economicità, sintetizzando così una caritas rigorosa che non lascia spazio a indulgenze che, troppo spesso, soverchiano con furbizia e irresponsabile opportunismo l’amore caritatevole e la disponibilità all’ascolto. Non si possono che ritrovare assonanze profonde con l’impresa cooperativa anche quando il Pontefice affronta il tema del profitto: «Il profitto – viene detto – è utile se, in quanto mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo, quanto sul come utilizzarlo. L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà». Queste parole diventano richiamo forte anche per i cooperatori, per i quali il termine “profitto” è bandito. Ciò a cui volge la cooperativa è il soddisfacimento di un bisogno per i propri soci, marcando così con chiarezza la propria identità di impresa diversa, tesa verso fini altri rispetto a quelli solipsistici spesso alla base di numerose imprese orientate al “profitto per il profitto”. L’impresa cooperativa ha connaturati nella propria essenza i princìpi di un’economia “solidale”: accompagna le persone nel processo di ottenimento dei propri bisogni, avendo ben chiaro che non esistono solo diritti, ma anche doveri; educa alle regole della convivenza e della dialettica, con il sempre costante sottofondo della responsabilità reciproca e, per dirla con Hans Jonas, diacronica. Anche qui i passi di Papa Benedetto sono fondativi, quando afferma che «è importante sollecitare una nuova riflessione su come i diritti presuppongono doveri senza i quali si trasformano in arbitrio» e che «i diritti individuali svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri». Ciò che in cooperativa non si deve mai dimenticare è il continuo, reciproco rimando tra diritti individuali e doveri collettivi e viceversa, esercitato nella costante dialettica negli organi di governo democratici dell’impresa cooperativa, laddove si è obbligati a pensarsi responsabilmente sempre in una dimensione che dall’“Io” passa al “Noi”. E non solo per ragioni ideali. Al contrario 40 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO potremmo dire che la motivazione prima è economica: se non ci fosse questa condivisione reciproca dei doveri, tracollerebbe la stessa efficienza dell’impresa poiché prevarrebbero l’interesse e il diritto di uno (o di qualcuno), rispetto a quello generale: l’obiettivo esistenziale della cooperativa stessa. Insomma, l’impresa cooperativa, organizzazione produttiva con fini mutualistici e sociali, come dice Papa Benedetto, può essere un motore di «bridazione dei comportamenti d’impresa» che porti a una «civilizzazione dell’economia». Ciò è tanto più necessario di fronte al quadro attuale in cui l’economia pare essere tornata a uno stato brado difficile da addomesticare. È chiaro però che quanto detto vale come meta cui tendere. Troppo spesso, infatti, anche il Movimento Cooperativo rischia di dimenticare la linfa che alimenta le proprie radici ideali. È necessario percorrere queste strade con convinta ostinazione e con uno sguardo creativo, capace di reinterpretare tali princìpi alla luce delle sfide della contemporaneità. Una falsa cooperativa è ben più nociva di una cattiva multinazionale, poiché sperpera non solo un patrimonio mobiliare e immobiliare, ma anche un patrimonio di senso e idealità ineguagliabili. «Lo sviluppo – dice Papa Benedetto – è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nella loro coscienza l’appello del bene comune. Sono necessarie sia la preparazione professionale, sia la coerenza morale». QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 41 Aldo Novellini giornalista PIL: UNA MISURA IMPERFETTA DEL NOSTRO BENESSERE Aldo Novellini »Basandosi solo sul Pil pro capite anche i confronti tra diversi Paesi restano alquanto superficiali »Un elemento essenziale è proprio la distribuzione della ricchezza La classifica dei redditi pro capite 2008 vede in testa la Norvegia con 51.472 dollari. Gli Stati Uniti sono al quarto posto con 47.769 dollari dodici lunghezze sopra la Germania (37.369). La Francia (36.915) segue a ruota i tedeschi precedendo la Gran Bretagna (32.393). Due gradini sotto c’è l’Italia con 26.476 dollari, ben collocata nella parte alta di una graduatoria che dopo di noi allinea oltre i tre quarti delle restanti nazioni. Sono dati che in qualche modo conosciamo, anche se, a dire il vero, il Pil evidenzia solo parzialmente l’effettivo livello di benessere di un Paese. Essendo una media, non ci dice, ad esempio, come è ripartito realmente il reddito. Eppure ciò è fondamentale poiché eccessive disuguaglianze distributive minano alla radice l’equità e la coesione sociale. Basandosi solo sul Pil pro capite anche i confronti tra diversi Paesi restano alquanto superficiali. Dati alla mano sembrerebbe che la qualità della vita sia migliore a Singapore, cinque posizioni più in alto che Francia e Germania. Meglio cioè la deregulation asiatica del welfare europeo. Una tesi piuttosto ardua da sostenere. È pertanto evidente come occorra affinare gli strumenti di rilevazione, tenendo conto di molteplici grandezze. Un elemento essenziale è proprio la distribuzione della ricchezza, misurata dall’indice di concentrazione Gini, su una scala tra zero ed uno. Quando il valore è zero vi è totale equidistribuzione, ossia una società completamente egualitaria. Prima di esprimere un reale giudizio su questo o quel Paese in funzione del reddito, bisogna quindi verificarne la sua distribuzione. Un aspetto pressoché trascurato dal liberismo imperante nell’ultimo ventennio che mai ha badato all’equità sociale, giungendo quasi ad esaltare le disuguaglianze come libero sviluppo dei talenti naturali delle persone. Da qui tutta una serie di ricadute sul mondo del lavoro (precarietà contrattuale), sulla fiscalità (le imposte, un gravame da eliminare) e sul welfare (da privatizzare il più possibile). Come era inevitabile, questo modello mostra ora la corda e tra gli studiosi sta maturando la consapevolezza che lo stesso Pil, 42 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO indice economico per eccellenza, sia in realtà pieno di contraddizioni. Ce lo diceva già Robert Kennedy, negli anni Sessanta, spiegando che il Pil cresce anche con l’aumento dell’inquinamento, dell’economia criminale e degli incidenti automobilistici, mentre gli è indifferente l’economia domestica, la cura familiare dei bambini o il volontariato. Il Pil, concludeva Bob Kennedy, misura tutto eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Un’affermazione magari eccessiva ma che si avvicina molto al vero, perché il Pil in effetti non distingue tra attività che contribuiscono al benessere e quelle che lo diminuiscono. Di certo la qualità della vita, intesa anche come grado di libertà dai bisogni primari, non sempre coincide con il prodotto interno lordo. »Di certo la qualità della vita, non sempre coincide con il prodotto interno lordo Partendo da questo presupposto, sono stati pensati diversi indici alternativi. Abbiamo così l’Isew (Indice di benessere economico sostenibile), frutto degli studi degli economisti americani, John Cobb ed Herman Daly, che vuol misurare il progresso reale e la qualità della vita, facendo una ponderazione tra spese positive e negative (criminalità, inquinamento, ecc…) e considerando non solo il valore dei beni e dei servizi prodotti ma anche i costi sociali e i danni ambientali a lungo termine. Un altro misuratore è l’Indice di sviluppo umano (Hdi – Human development index) che tiene conto di molteplici fattori quali l’alfabetizzazione, la speranza di vita, la promozione dei diritti umani e il livello dei servizi sanitari. La scala è in millesimi decrescente da 1 a 0. I Paesi ad alto sviluppo si trovano tra 1 e 0,800; quelli a medio tra 0,799 e 0,500; quelli sottosviluppati tra 0,499 e 0. L’Italia è a 0,951, la Francia a 0,961 mentre sul fondo scala vi sono l’Afghanistan con 0,352 e il Niger con 0,340. C’è poi un presunto indicatore della felicità (Fil), basato su valutazioni morali e soggettive che sconfinano nella sociologia. Qualcosa forse di troppo empirico e poco misurabile rispetto all’oggettività richiesta ad un efficace indicatore socio-economico. Da qualche tempo trova spazio anche il Quars, come indice di qualità dello sviluppo regionale, attraverso sette macro-indicatori: ambiente; economia e lavoro; diritti e cittadinanza; pari opportunità; istruzione e cultura; salute; partecipazione. Cercare sempre più efficaci misuratori della qualità della vita non significa ovviamente mandare in soffitta il Pil. Esso resta comunque un buon indice della ricchezza prodotta. Si tratta QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 43 »dodici rac- comandazioni per leggere, sotto altra luce, i misuratori della ricchezza però di ridiscutere la logica che assegna solo al Pil il compito di valutare il benessere di una nazione, provando ad integrarlo con altri indicatori (Hdi, Gini, ecc…) che consentano di fotografare meglio la realtà. Affidarsi solo ad una media come il Pil pro capite può trarre in inganno perché, come insegnava Trilussa con la ben nota immagine del pollo a testa, si rischia di credere che vi sia una rassicurante equità laddove si nascondono invece profondi squilibri. A partire dallo scorso anno un gruppo di 25 economisti sotto la guida di Jean-Paul Fitoussi e dei premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz (capo fila degli studiosi liberal americani) ha così svolto una ricognizione per giungere a più affinati strumenti valutativi delle performance economiche e del progresso sociale. Dai lavori di questo gotha di studiosi, chiamato a Parigi da Nicolas Sarkozy, sono uscite dodici raccomandazioni per leggere, sotto altra luce, i misuratori della ricchezza. Si tratta di: . valutare il benessere attraverso redditi e consumi oltre che sulla sola produzione; 2. considerare il punto di vista delle famiglie: esaminando le tasse, le prestazioni sociali e i servizi forniti dallo Stato (sanità, istruzione, ecc….); 3. tenere conto del patrimonio delle famiglie, perché c’è chi è costretto a spendere tutto il reddito annuo per mantenere il suo livello di benessere, chi attinge dal proprio capitale depauperandolo e chi riesce invece ad accrescere la propria ricchezza traendone poi dei benefici futuri; 4. dare più importanza alla ripartizione dei redditi, rinunciando alle sole medie matematiche ed optando invece per misurazioni più sofisticate quali il livello di reddito che divide il 50% della parte più povera della popolazione dal 50% della parte più ricca; 5. estendere gli indicatori alle attività non direttamente legate al mercato (agricoltura di sussistenza, cura dei neonati, ecc…); 6. valutare la qualità della vita: povertà, educazione, ambiente, anche attraverso sondaggi sulle percezioni soggettive; 7. esaminare le ineguaglianze connesse alla qualità della vita, analizzando anche le differenze tra le persone con specifico riferimento alle classi sociali, alla nazionalità, al sesso e all’età; 8. correlare differenti ambiti della qualità della vita per osservarne la reciproca incidenza (es. l’istruzione sul benessere, ecc….); 44 QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 9. creare una misura sintetica ed aggregata della qualità della vita; 0. mettere a fuoco l’evoluzione socio-professionale delle persone e delle generazioni (ossia il cosiddetto ascensore sociale); . considerare la sostenibilità del benessere nel tempo; 2. prendere in esame gli indicatori della pressione che lo sviluppo esercita sull’ambiente (inquinamento, deforestazione, consumo di terreno agricolo o di fonti idriche, ecc...). In definitiva servono statistiche capaci di cogliere la qualità della vita nelle sue molteplici forme. Anche nei suoi aspetti non materiali, come il tempo libero. Se questo fosse infatti incluso nell’indice di benessere, il vantaggio degli Usa su molti Paesi europei in termini di reddito pro capite potrebbe annullarsi. Il Pil è indubbiamente correlato al progresso e al benessere ma non li racchiude in maniera univoca. L’analisi teorica prova quindi ad offrire nuovi metodi di valutazione, poi si tratta di trarne le necessarie conseguenze e in gioco entra allora la politica. C’è infatti bisogno di un’accurata analisi degli assetti politici e legislativi per comprendere verso quale tipo di società siamo indirizzati: se verso un modello che punta a soddisfare al livello più elevato possibile i bisogni primari ed essenziali oppure in altra direzione. La politica per assolvere al suo compito, pena la propria irrilevanza di fronte al potere economico-finanziario, deve dunque attivarsi per ridurre le disuguaglianze, restituire equilibrio alla distribuzione dei beni e fornire opportunità a tutti nel segno di una società inclusiva e solidale. »un’accurata analisi degli assetti politici e legislativi per comprendere verso quale tipo di società siamo indirizzati Da più parti si pongono spesso interrogativi sulla crisi dei movimenti riformisti e sulla loro difficoltà nell’interpretare le problematiche e le aspettative della nostra società. Ebbene forse si tratta semplicemente (si fa per dire, perché gli interessi contrari sono enormi) di spostare l’azione politica verso – come diceva Aldo Moro – equilibri sociali più avanzati. Non bisogna aver timore di farlo e se ben dotati di strumenti indicatori che mostrano la realtà così com’è, senza fornirne un’immagine superficiale o alterata, si potrà forse farlo con maggior precisione ed efficacia. Torna alla mente il monito togliattiano di conoscere bene la realtà per poterla poi trasformare, ovvero l’imprescindibile missione delle forze progressiste e riformatrici in ogni parte del mondo. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO 45 Mirto Boni già presidente Acli Varese ...NESSUNO CI HA PRESI A GIORNATA... Mirto Boni Nel mare di inchiostro dedicato alla grande crisi del 2008 uno degli aspetti particolarmente trascurati, o comunque sottovalutati, è la rapida e diffusa crescita della disoccupazione; non soltanto quella dei giovani in cerca di impiego, già ben presente anche prima dello scoppio della bolla finanziaria, ma anche e soprattutto quella dei lavoratori “a posto fisso” e ben sistemati; sorte che accomuna anche professionisti, artigiani e altri lavoratori autonomi, fino a poco tempo fa in piena e fruttuosa attività. Sono persone di mezza età, generalmente con famiglia, con un tenore di vita non lussuoso ma confortevole, che spesso implica anche esposizioni finanziarie a breve o a lungo termine. Nelle rare occasioni in cui se ne parla, sembra che il rimedio si riduca a un opportuno adeguamento ed estensione delle misure di welfare, in particolare dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”. »un sen- timento di frustrazione e di umiliazione che accresce la sofferenza della vittima 46 A mio parere il problema è molto più complesso e va ben oltre la improvvisa penuria di mezzi di sostentamento per chi ne è toccato. La perdita improvvisa dell’occupazione, tanto più se con scarse prospettive di rapido reinserimento (come purtroppo avviene nella maggior parte dei casi), comporta, oltre a una brusca diminuzione del reddito familiare, altri aspetti negativi. C’è intanto il rischio di un degrado nella capacità professionale, soprattutto per la rapida obsolescenza dei processi che caratterizzano il nostro tempo; ancora più grave però è il sopraggiungere di un sentimento di frustrazione e di umiliazione che accresce la sofferenza della vittima e sovente ne guasta i rapporti con i familiari, gli amici, la società. Nei casi più seri si arriva a veri e propri disturbi patologici. Una delle poche voci che hanno rilevato questa particolare situazione di disagio è stata quella del card. Tettamanzi, che ne ha parlato in varie occasioni. In modo particolare ha sottolineato il problema nel lanciare il Fondo di solidarietà diocesano, specificando chiaramente che l’intervento programmato non doveva limitarsi a un soccorso in denaro, ma era necessario impegnare le comunità nell’accompagnamento amicale alle famiglie colpite, e alla diffusione di informazioni utili QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO ad uscire al più presto dalla situazione di non-impiego. La professione esercitata è una componente intrinseca della personalità: è un fatto comune che le persone siano spesso conosciute e identificate per l’attività che svolgono; del resto lo stesso Gesù di Nazareth per i suoi compaesani era semplicemente “il figlio del falegname”1 Rivolgendosi a un pubblico cristiano, vale allora la pena di rammentare i fondamenti biblici da cui risulta chiaramente che per l’uomo il lavoro non si limita ad essere la fonte abituale di reddito per vivere. Già in princìpio, cioè nel progetto iniziale della creazione, leggiamo che all’Adam vengono assegnati due compiti: coltivare il giardino che rappresenta il lavoro; e custodirlo, che significa l’attività politica per il bene comune2. Una concretizzazione importante di questo principio generale la troviamo nelle clausole dell’Alleanza offerta dal Signore al popolo di Israele sul monte Sinai. Tutto il lungo capitolo 25 del Levitico è dedicato all’istituzione e alla regolamentazione del Giubileo. Ora la ragion d’essere principale di questa originalissima pratica è appunto quella di garantire ai figli di Israele la possibilità di non perdere mai in modo definitivo il possesso del podere di famiglia, cioè dello strumento principe – a quei tempi – per esercitare il lavoro con libertà e profitto. Anche in caso di disgrazia o di cattiva gestione, comportanti la necessità di vendere il fondo, non dovevano privare per sempre l’Ebreo, e la sua discendenza, dal disporre dell’avita proprietà; essa avrebbe dovuto in ogni caso ritornare al proprietario d’origine all’occasione di ogni scadenza giubilare. Come viene ribadito anche altrove, questa è la ricetta per giungere ad eliminare i casi di povertà assoluta fra il popolo3. Non si tratta – come ha interpretato qualcuno – di una sacralizzazione del diritto di proprietà privata; nella Bibbia è detto ben chiaro e in molti testi che “tutta la terra è di Dio”4. L’assegnazione di un terreno da coltivare liberamente, cioè non per conto di altri, è un dono del Signore che fa parte integrante della Sua Alleanza, liberamente proposta e liberamente accettata dal popolo di Israele. Come afferma solennemente il finale del citato capitolo 25 del Levitico: “...se ne andrà libero l’anno del Giubileo, lui con i suoi figli. Poiché gli Israeliti sono miei servi, che ho fatto uscire dalla terra di Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”. Le vicissitudini successive della storia hanno condotto nei secoli alla perdita dell’indipendenza politica da parte del popolo eletto, QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • ottobre-dicembre 2009 • NUMERO quattro 1) Mt 13, 55; Mc 6, 3. 2) Gen 2, 15. 3) Cfr Dt 15, 4. 4) Es 19, 5; Lv 25, 23; Ps 24, 1; ecc. 47 e alla dispersione ai quattro angoli del mondo dei discendenti di Giacobbe. Tuttavia il valore liberante e la dignità del lavoro non hanno mai perso validità nella religione e nella prassi dei credenti in JHWH. Ne fa fede anche il Nuovo Testamento i cui testi non trascurano le questioni sociali e ribadiscono su questo tema la dottrina dell’Antico, in particolare dei Profeti. Due citazioni mi sembrano particolarmente significative. 5) 2Ts 3,10. 6) Mt 20, 1-161. »la duplice condizione di sofferenza che anche oggi affligge tanti lavoratori: la precarietà e la disoccupazione forzosa 48 Paolo, che dopo la conversione ha dedicato tutta la sua energia e la sua intelligenza all’opera di evangelizzazione, si è in più occasioni vantato nelle lettere del proprio lavoro manuale, che gli permetteva di non dipendere da nessuno, neppure dai suoi stessi discepoli e catecumeni. Ma l’Apostolo va più in là, e ribadisce anche ai suoi convertiti l’obbligo di mantenersi col lavoro, e col lavoro ben fatto; e lo esprime col fortissimo e notissimo slogan, che tanto gli sarà invidiato dai marxisti, “Chi non vuole lavorare neppure mangi”5! Mentre Paolo afferma in positivo la dignità del lavoro, una delle più note (e provocatorie) parabole evangeliche esamina il caso della involontaria disoccupazione. È il testo del padrone della vigna, che lungo tutta la giornata cerca operai per la coltivazione del proprio fondo6. Mi riferisco in particolare al breve dialogo con gli assunti dell’ultima ora: “Perché ve ne state qui senza far niente? Perché nessuno ci ha presi a giornata…”. Sappiamo benissimo che le parabole vanno lette per il loro significato simbolico, e non per il senso letterale dell’episodio riferito. Nel testo in questione l’evangelista intendeva sottolineare il disagio e la fatica di una vita vissuta senza un preciso orientamento spirituale; disagio e fatica che meritano un compenso, e cioè la piena cittadinanza del Regno, pari a quello di chi fin dall’inizio ha camminato secondo la Legge. Ma è significativo, e non certo casuale, che per esprimere quel disagio e quella frustrazione sia stata scelta la duplice condizione di sofferenza che anche oggi affligge tanti lavoratori: la precarietà e la disoccupazione forzosa. Concludendo, mi pare che un progetto di una nuova cultura economica, sulla cui necessità quasi tutti concordano, non possa non tenere conto della importanza della tutela dell’attività occupazionale e della professionalità di tutte le persone a tutti i livelli; un valore “in sé” che supera abbondantemente il puro dato contabile della “resa” del lavoro prodotto. QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • OTTOBRE-DICEMBRE 2009 • NUMERO QUATTRO Numeri pubblicati Anno 1 (2004) • fascicolo 1 - Gesù e l’orecchio di Malco • fascicolo 2 - Europa, un cammino di integrazione e di pace • fascicolo 3 - Laicità e libertà religiosa: una sfida per l’Europa • dossier 1 - Il conflitto israeliano-palestinese Anno 2 (2005) • fascicolo 1 - Gerusalemme • fascicolo 2 - I cristiani, l’Europa, la politica • fascicolo 3 - Sibiu 2007 - Verso la IIIa Assemblea Ecumenica Anno 3 (2006) • fascicolo 1 - Uguaglianza e giustizia: diritti e doveri nell’era della globalizzazione • fascicolo 2 - Esiste un relativismo cristiano? • fascicolo 3 - Quali prospettive per il cattolicesimo democratico? Anno 4 (2007) • fascicolo 1- L’Assemblea Ecumenica di Sibiu • fascicolo 2 - Il “Grande Medio Oriente”” • fascicolo 3 - L’Assemblea di Sibiu. Risultati e prospettive Anno 5 (2008) • fascicolo 1 - Il bene comune • fascicolo 2 - Il Concilio Vaticano II. Il conflitto delle interpretazioni • fascicolo 3 - Multiculturalità: caso, necessità od opportunità Anno 6 (2009) • fascicolo 1 - L’Europa tra presente e futuro • fascicolo 2 - La Chiesa nel mondo contemporaneo. Sfide ecumeniche e attualità del Concilio • fascicolo 3 - La Caritas in Veritate: per una società a misura d’uomo • fascicolo 4 - Solidarietà e sobrietà per uscire dalla crisi I numeri arretrati possono essere richiesti presso la Segreteria delle Acli provinciali milanesi e sono inoltre disponibili (in formato PDF) sul sito internet www.ceep.it.