PERSONAGGIO
Giovanni Tarello:
un “avvocato genovese”
sopra un cavallo da battaglia,
impetuoso e fiero
di Pierluigi Chiassoni*
“Non mi è possibile ripercorrere la storia della filosofia
del diritto di questi ultimi trent’anni senza ritrovarmi
continuamente, nei momenti decisivi di questa storia,
a tu per tu con Giovanni Tarello”.
I
l discorso commemorativo pronunziato da Norberto Bobbio nell’aula magna dell’Ateneo genovese il 3 giugno del 1987, a poco più di un mese dalla scomparsa
di Tarello, si apre con queste parole1.
Pur scontate da iperbole, in virtù della risaputa schiettezza del loro autore, esse potrebbero apparire come suggerite dalla circostanza. Paradossalmente, però, alla luce dei diversificati interessi investigativi di Tarello, e dei suoi numerosi e innovativi lavori, pubblicati a partire dal 1957, le parole di Bobbio si rivelano riduttive2.
Giovanni Tarello, infatti, non fu presente soltanto nei “momenti decisivi” della storia della filosofia del diritto, ma anche in momenti decisivi nell’evoluzione di altri settori della cultura giuridica italiana ed europea, al punto da rappresentare, nell’ideale galleria
dei preclari giureconsulti ligustici, la figura di maggior spicco del secondo Novecento.
Un primo aspetto della personalità di Tarello che ha richiamato l’attenzione di amici
(ed avversari) è stato il suo peculiare “stile”. Bobbio, nell’accennare alla prima opera della bibliografia tarelliana – un libretto dedicato alla “crisi del diritto”, tema in voga nell’Italia giuridica della seconda metà degli anni Cinquanta3 – osserva che essa, sebbene mancasse “ancora di quel mordente, letteralmente di quel gusto di mordere, che sarà una caratteristica del suo stile, parlato e scritto”, conteneva però, qua e là, “qualche scatto polemico che faceva intravvedere lo scrittore dai dardi acuminati, e talora anche avvelenati,
che sarebbe diventato”4. Un’altra descrizione dello stile di Tarello, forse la più immaginifica, si deve però a Uberto Scarpelli – fondatore, con Bobbio, della filosofia analitica
del diritto italiana, ed annoverato da Tarello tra i suoi maestri. Paragonando il proprio
stile, e il proprio percorso intellettuale, a quelli del più giovane collega, Scarpelli scrive:
“Qualche volta, ripensando ai nostri destini, al tipo di lavoro che abbiamo coltivato, mi
sono sentito come uno che abbia percorso a piedi, lentamente, prudentemente, un tratto abbastanza breve di una strada. A un certo punto, ho visto passare, assai più veloce,
con la capacità di andare lontano, un collega montato sopra un cavallo da battaglia, un
cavallo impetuoso, fiero e qualche volta anche bizzarro”5.
Un secondo aspetto notevole della personalità di Tarello è stata la sua versatilità – e d’altronde, come lui stesso dichiarò per terzi, “un grande accademico (…) per essere gran-
Giovanni Tarello.
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de deve essere elastico, mutevole, capace di molti mestieri e versipelle”6.
Si è insistito molto, a tale riguardo, nell’identificare i molteplici ruoli che Tarello ha saputo interpretare con valentìa sulla scena giuridica: sul suo essere stato – oltreché “filosofo del diritto”, “teorico del diritto”, “fine” e “avveduto”
“metodologo”, “sociologo del diritto”, e “storico della cultura giuridica” – anche “giurista”: intendendo con ciò uno
studioso del diritto a tutto tondo, che non si arrestava dinanzi ad alcun confine disciplinare, o barriera accademica, nel portare avanti le sue spregiudicate investigazioni
su esperienze giuridiche del passato o contemporanee, e
anzi tendeva a dissolvere quei confini, e ad abbattere quelle barriere, mettendone a nudo l’artificiosità e il loro essere, sovente, di ostacolo a una proficua cooperazione
scientifica tra sinceri, e severi, cultori del giure7.
Due ruoli ulteriori meritano però d’essere qui richiamati, accanto ai precedenti, per rendere meno incompleto
il profilo di una personalità di studioso al di là del convenzionale, quale fu Tarello. Alludo al ruolo dell’avvocato genovese e al ruolo del servitore della cosa pubblica.
Uno dei ruoli che Tarello amava talvolta assumere, soprattutto se presenziava a convegni di filosofi professionali (“puri”, “del diritto”, “della politica”, o “della morale”),
era quello del (“modesto”) “avvocato genovese”: dello scettico, schietto, e perciò importuno, causidico che si chiedeva – e chiedeva agli illustri relatori, “col volto impassibile e senza lasciar trapelare minimamente l’intenzione ironica” –, a “che cosa gli servissero” i discorsi ascoltati8. Quella dell’avvocato genovese – scettico, schietto e importuno
– non era però una maschera indossata per civetteria intellettuale. Al contrario, essa era la forma esteriore dell’abito mentale radicalmente pragmatistico, che informa l’intera opera tarelliana e costituisce uno dei punti salienti della sua metodologia investigativa. Tarello riteneva, in particolare, che la filosofia – giammai “pura”, ma sempre del
diritto, della politica, della morale, della matematica, ecc.
– fosse cosa socialmente utilissima, se condotta secondo i
“suoi” canoni – che erano poi i canoni dell’empirismo, del
neopositivismo logico, e della filosofia analitica del linguaggio. E diffidava in via presuntiva delle costruzioni intellettuali dei “filosofi” di professione, per il rischio, a suo
modo di vedere sempre in agguato, di un loro risolversi in
oziose “metafisicherie”, opera di “pretenziosi superficiali”
e di “sospirose anime belle”.
In un’intervista rilasciata a Mario Bessone nel 1979, Tarello confessa la propria giovanile aspirazione a divenire un
Grand Commis dello Stato9. Scrive Tarello: “ero uno studente di giurisprudenza, e stavo maturando una solida vocazione burocratica. Avevo deciso (…) di mettere le competenze giuridiche che andavo acquisendo con sgobbonesca letizia al servizio della P.A.: sognavo pompose carriere
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di solerte funzionario, sotto il segno di uno dei dicasteri
più tradizionali, come quello dell’Interno o della Giustizia; mi vedevo consigliere di prefettura, e poi viceprefetto,
e poi prefetto, o, talvolta, sognando, china la testa sui libri, in magnifiche e dispotiche posizioni quali l’Ispettore
generale degli istituti di pena, o il Capo della polizia (…)
mi spiaceva un po’ che i tempi e i luoghi mi precludessero
posizioni ancor più graziose, come quella di Governatore
dell’Erzegovina, ma confidavo che nulla mi avrebbe precluso l’entrata, per concorso, nei quadri di un orgoglioso
dicastero e, successivamente, una lunga carriera di concorsi
interni per meriti distinti e, da vecchio, l’assunzione nell’empireo del Consiglio di Stato per concludere – Grand’ufficiale – una onorata vita di burocratico servizio”10. Tali sogni, però, non poterono avverarsi. Il Ministro dell’Interno del tempo, l’on. Mario Scelba, aveva emanato “circolari rigidissime”: Tarello non poté accedere né ai corsi
per allievi ufficiali, né ai pubblici concorsi. Così prosegue
il racconto di Tarello: “non sei Uomo d’Ordine; la tua condotta politica non è ineccepibile; le informazioni date dal
portiere alla polizia sono pessime; hai partecipato alla fondazione del Circolo Gobetti e della Società di Cultura;
tuo nonno era comunista, tanto è vero che i tedeschi l’avevano preso e che, liberato, è stato fatto alle elezioni democratiche Sindaco comunista di Genova; tuo padre è comunista; tua madre è una pericolosa calvinista svizzera e
questo annulla il vantaggio della prozia Badessa (…) non
hai inclinazione a votare per i partiti dell’ordine; vuoi diventare funzionario dello Stato per minarlo dall’interno”11.
E pertanto – conclude Tarello – l’unica carriera nella P.A. che gli rimanesse aperta era quella universitaria: una carriera cui si dedicò prontamente e che percorse, come sappiamo
da Scarpelli, con la velocità e la potenza di un cavallo da battaglia.
Possiamo non credere a questa pretesa confessione di Tarello. Svariati indizi lessicali
(“sgobbonesca letizia”, “Governatore dell’Erzegovina”, “onorata vita di burocratico servizio”) inducono a sospettare che Tarello intendesse, forse, prendersi gioco del suo compassato intervistatore, e di noi lettori con lui.
Un altro documento, in origine non destinato a divenire di pubblico dominio, e dunque
più credibile, sembra però accreditare la confessata “vocazione” di Tarello a divenire un solerte servitore della cosa pubblica, sia pure in un ruolo assai lontano da quello di Viceré
delle Indie, o simili. Racconta Bobbio, che nell’ottobre del 1979 Tarello lo aveva invitato a
tenere una lezione all’università di Genova; che egli aveva declinato l’invito di Tarello, con
l’argomento, “un po’ specioso”, di essere oramai quasi “fuori ruolo” e di non parergli il caso “di continuare a fare lezioni, sia pure straordinarie, all’università”; che Tarello gli rispose con una lettera, datata 23 ottobre, nella quale – dopo avere osservato che Bobbio correva da una parte all’altra dell’Italia a fare discorsi “ora all’udienza della Società degli Aletofili sardi e della Dialogante canavese, ora all’Associazione nazionale estimatori di Menghistu” ecc. – concludeva così: “Apprezzo tutte queste associazioni. Sono lodevoli. I loro membri sono, tutti, gente per bene. Niente da dire. Ma l’Università statale viene prima”12.
Al di là del rifiuto opposto a Tarello, la dedizione di Bobbio al progresso morale e civile del Paese, contro ogni forma di pensiero tendenzioso e di oscurantismo è cosa nota;
ed è noto che una tale dedizione si è manifestata, anzitutto, nei corsi impartiti per quarant’anni nelle aule di Università statali.
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Il palazzo, sede
dell’attuale Università,
in Strada Balbi.
Acquaforte del 1769.
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Un’analoga dedizione traspare dai lavori di Tarello. Anche Tarello ritiene che il “luogo”
di essa debba essere, anzitutto, l’Università statale: la quale, come ricorda a Bobbio con
fugace appunto, “viene prima”.
Il servizio alla cosa pubblica, in Tarello, governatore mancato di un impossibile oltremare, diviene servizio scientifico e didattico, a beneficio della formazione delle folte
schiere di studenti delle facoltà di giurisprudenza statali riformate. Come non ricordare le sue lezioni per il corso di “Filosofia del diritto”? Erano lezioni dalla forte carica evocativa, durante le quali viaggiavamo con Pufendorf per il contado di Erfurt; assistevamo sbigottiti agli atti dell’affaire Calas; vedevamo passare, per le strade polverose della
Pomerania, la carrozza con le insegne di Federico II, sulla quale Samuel Cocceio meditava ardite riforme processuali; parteggiavamo per Bernardo Tanucci contro i parrucconi incipriati del Sacro Regio Consiglio, e, in una parola, apprendevamo che cosa fosse il diritto nella prospettiva dei giuristi del passato, osservando la meccanica del loro
operare, smontandone le “ideologie” pezzo a pezzo, e registrando le aspirazioni, le aspettative, e gli appetiti dei loro sovrani committenti.
Occorre chiarire un ultimo punto riguardo ai servigi che, secondo Tarello, un giurista
– tarellianamente inteso: e dunque giurista positivo, storico, sociologo, e filosofo ad un
tempo – dovrebbe rendere alla cosa pubblica. Per Tarello, una parte non secondaria dell’attività dei giuristi dovrebbe consistere nella demistificazione della cultura giuridica
esistente (che nel suo caso era la cultura giuridica dei tardi anni Cinquanta): nel sottoporre a una critica spassionata e radicale il complesso dei modi di pensare, di parlare,
e di operare, sovente ereditati dalle epoche precedenti, che si perpetuano vuoi per acritica e inconsapevole adesione, vuoi per la loro funzionalità a occultare interessi partigiani, o a favorire “doppie verità” percepite come “necessarie”.
L’obiettivo – scientifico e di politica culturale, con immediate ricadute didattiche –
della demistificazione della cultura giuridica costituisce la chiave che tiene assieme gli
indirizzi di ricerca, apparentemente disparati, coltivati da Tarello: è l’idea, fondamentale e costante, che informa il suo operare nei diversi ruoli, cui ho accennato prima, del
“filosofo del diritto”, del “teorico del diritto”, del “metodologo del diritto”, del “giurista
positivo”, del “sociologo del diritto”, dello “storico della cultura giuridica”, dell’“avvocato genovese”, e del “servitore della cosa pubblica”.
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La storiografia del diritto sembrava avere dimenticato, con l’eccezione di risalenti studi
di Gioele Solari, i due secoli dell’età moderna nei quali ebbero origine buona parte delle istituzioni giuridiche nelle quali tuttora viviamo, e si dedicava non di rado a estenuate indagini documentali, non illuminate da “robusti” punti di vista ricostruttivi affinati
alla luce della storia delle idee. In veste di “storico della cultura giuridica”, Tarello mise a
punto un modello di storiografia giuridica analitica, in cui la storia delle leggi e delle istituzioni deve procedere di pari passo con la storia delle idee, e delle ideologie, dei giuristi, che della prima costituiscono il motore intellettuale, accanto al braccio armato dei
transeunti detentori del potere politico13.
La dottrina giuridica, con le consuete, poche eccezioni, si cullava nel mito della propria
scientificità e tecnicità. Si riteneva che il compito della dogmatica fosse puramente concettuale: fornire ricostruzioni, rigorosamente adiafore, di “concetti” e di “istituti”, da cui
ricavare, per via di pura logica, soluzioni giuridicamente corrette per qualsivoglia caso.
Si riteneva inoltre che l’attività dei giudici fosse, parimenti, tecnica, logica, e adiafora. In
veste di “metodologo del diritto” – e di attento osservatore, cronista, e “sociologo”, della
cultura giuridica del proprio tempo – Tarello esplorò la dottrina del diritto sindacale posteriore alla Costituzione, al fine di esibire ai colleghi giuristi, con l’ausilio di un esempio paradigmatico, una prova inconfutabile del carattere necessariamente impegnato, e
in molti casi altamente creativo, delle loro costruzioni dottrinali, e insistette sull’assunzione di responsabilità morale e politica che, nel bene e nel male, il mestiere del giurista
fatalmente comporta14. A tale esplorazione settoriale unì ricerche sui caratteri del discorso dei giuristi in generale15; ricerche sugli “orientamenti” e sugli “atteggiamenti” della dottrina e della magistratura – orientamenti e atteggiamenti destinati a ripercuotersi
fatalmente sul loro operare quali agenti, mediati e immediati, di mutamento del diritto
positivo16; nonché ricerche, infine, sulle ripercussioni, per il mestiere di giurista e di giudice, di quel rilevante mutamento strutturale rappresentato dall’introduzione, al vertice
del sistema delle fonti del diritto italiano, di una Costituzione rigida e sovrana (la Costituzione repubblicana), destinata a infondere di sé l’intero ordinamento, con l’inevitabile intermediazione attiva delle su menzionate categorie di operatori giuridici17. Un aspetto, quest’ultimo, che diverrà uno dei temi centrali delle più recenti teorie del diritto “neocostituzionalistiche” e “garantistiche”.
La volta dell’Aula
Magna dell’Università
di Genova con l’affresco
moderno di Francesco
Menzio.
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L’atrio e il cortile
dell’Università.
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La dottrina giuridica si esauriva tipicamente in velate proposte de iure condito e de iure
condendo, accompagnate spesso da motivazioni scarse, o fondate su costruzioni concettuali astruse e incomprensibili. In veste di “giurista positivo”, Tarello indicò alla dottrina civilistica un modello “realistico” di dogmatica giuridica, esemplificato dal corso
di diritto civile, da lui tenuto nell’anno accademico 1972-1973, e dedicato alla “Disciplina costituzionale della proprietà”18.
La “filosofia del diritto” si risolveva in molti casi nelle astruse “metafisicherie” di sospirose
anime belle, ed era comunque distante, troppo distante, dalla realtà del diritto. Qui Tarello,
come ricorda Bobbio, fu una presenza significativa nei “momenti decisivi” della storia della
disciplina, nel trentennio tra il 1957 e il 1987, sviluppando indagini in tre diverse direzioni.
In primo luogo, Tarello svolse ricerche di teoria del linguaggio normativo, volte a forgiare l’apparato concettuale necessario ad analizzare i discorsi dei giuristi e degli altri
operatori del diritto, distinguendo con cura gli enunciati in funzione precettiva da quelli in funzione assertiva19.
In secondo luogo, Tarello condusse ricerche per un lessico “decostruttivo” di teoria del
diritto, in esito alle quali termini come “diritto”, “diritto positivo”, “obbligo giuridico”,
“sistema giuridico”, “ordinamento giuridico”, e “positivismo giuridico” sono “definiti”,
sulla base di attente rilevazioni lessicali e acute congetture sui contesti e sulle ideologie
retrostanti, in modo da fornire al fruitore, non già un qualche concetto opaco, da utilizzare in modo servile, ma strutture concettuali aeree e articolate, delle quali fare un
uso consapevole e controllato20.
In terzo luogo, last but not least, Tarello coltivò ricerche in tema d’interpretazione dei
documenti normativi. Si riteneva fosse compito dei filosofi del diritto occuparsi “del
problema” dell’interpretazione; si riteneva, inoltre, che l’interpretazione fosse attività
conoscitiva la quale, magicamente, partiva da “norme” e perveniva a “norme”. Questi
miti furono attaccati e dissolti da Tarello in una serie di lavori, a partire dal 1966, che
culmina con uno degli scritti più importanti nella cultura giuridica italiana del secondo Novecento. Alludo al volume, ben noto agli studenti della Facoltà giuridica genovese, su L’interpretazione della legge, scritto da Tarello per il “Trattato di diritto civile e
commerciale” già diretto da Antonio Cicu e Francesco Messineo21.
Tarello partecipò attivamente al rinnovamento della cultura giuridica italiana anche attraverso una “politica delle riviste”: con l’assidua collaborazione alla rivista “Politica del diritto”, fondata nel 1971; con la fondazione, sempre nel 1971, di una sua propria rivista, a
vocazione interdisciplinare: i “Materiali per una storia della cultura giuridica”, tuttora editi; partecipando infine alla nascita della “sociologia giuridica” in Italia – propugnata da Renato Treves e suggellata dalla pubblicazione, a partire dal 1974, della rivista “Sociologia
del diritto” – nel consueto ruolo di convitato mastinesco e importuno.
* Professore straordinario di Teoria generale del Diritto, Università di Genova.
1
N. BOBBIO, Ricordo di Giovanni Tarello, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 17,
1987, p. 303. Nato a Genova il 4 ottobre 1934, Tarello morì il 20 aprile 1987.
2
La più completa bibliografia degli scritti di Tarello, che include 192 lavori, può leggersi in Studi
in memoria di Giovanni Tarello. Volume I. Saggi storici, Milano, Giuffrè, 1990, pp. ix-xxi.
3
G. TARELLO, Sul problema della crisi del diritto, Torino, Giappichelli, 1957.
4
N. BOBBIO, Ricordo di Giovanni Tarello, cit., p. 304.
5
U. SCARPELLI, Apertura, in L’opera di Giovanni Tarello nella cultura giuridica contemporanea, cit.,
p. 13. Il passo prosegue così: “Interessi largamente comuni. Temperamenti diversi, che non ci impedivano tuttavia di avere incontri e scontri assai stimolanti. Benché (almeno per me) non di
rado inquietanti”.
6
G. TARELLO, Politiche del diritto e strategie dei giuristi. In margine alle considerazioni di Rodotà,
in “Politica del diritto”, 17, 1986, p. 252.
7
Fondamentali, sul punto, due contributi di R. GUASTINI: Questione di stile, in “Materiali per una
storia della cultura giuridica”, 17, 1987, pp. 479-528, nonché la Introduzione alla seconda parte del
volume L’opera di Giovanni Tarello nella cultura giuridica contemporanea, a cura di S. Castignone,
Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 117-131. Si veda inoltre M. BARBERIS, Tarello, l’ideologia e lo spazio
della teoria, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 17, 1987, pp. 317-355.
8
N. B OBBIO, Ricordo di Giovanni Tarello, cit., p. 303.
9
M. BESSONE (a cura di), Sullo stato dell’organizzazione giuridica. Intervista a Giovanni Tarello,
Bologna, Zanichelli, 1979.
10
M. BESSONE (a cura di), Sullo stato dell’organizzazione giuridica. Intervista a Giovanni Tarello,
cit., p. 73.
11
M. BESSONE (a cura di), Sullo stato dell’organizzazione giuridica. Intervista a Giovanni Tarello,
cit., p. 74.
12
N. BOBBIO, Ricordo di Giovanni Tarello, cit., p. 311.
13
In questo àmbito, l’opera fondamentale è G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna.
I. Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, Il Mulino, 1976; altri lavori storiografici concernono la cultura giuridica medioevale – si veda, p.e., Profili giuridici della questione della povertà nel francescanesimo prima di Ockam, Milano, Giuffrè, 1964 ; la cultura giuridica ottocentesca – si veda, p.e., la voce Scuola dell’Esegesi, in Novissimo Digesto Italiano, 1969, pp. 3-16 (estratto); la cultura giuridica contemporanea – si veda, p.e., Il realismo giuridico americano, Milano,
Giuffrè, 1962; Dottrine del processo civile. Studi storici sulla formazione del diritto processuale civile, a cura di R. Guastini e G. Rebuffa, Bologna, Il Mulino, 1989.
14
Cfr. G. TARELLO, Teorie e ideologie nel diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, Milano, Comunità, I ed. 1967, II ed., con una nuova Appendice, 1972.
15
Cfr. G. TARELLO, Discorso assertivo e discorso precettivo nel linguaggio dei giuristi, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 44, 1967, pp. 419-435; La semantica del neustico. Osservazioni sulla parte descrittiva degli enunciati precettivi, in Scritti in memoria di W. Cesarini Sforza,
Milano, Giuffrè, 1968, pp. 761-795.
16
Cfr. G. TARELLO, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista-interprete, in P. Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto, I. Scienza giuridica e
analisi marxista, Bari, Laterza, 1973; Atteggiamenti dottrinali e mutamenti strutturali dell’organizzazione giuridica, in “Materiali per una storia della cultura
giuridica”, 11, 1981, pp. 157-166.
17
Cfr. G. TARELLO, Gerarchie normative e interpretazione dei documenti normativi, in “Politica del diritto”, 5, 1977, pp. 499-526.
18
Cfr. G. TARELLO, La disciplina costituzionale della proprietà. Lezioni introduttive, Corso di diritto civile 1972-73, Genova, Ecig,
1973.
19
Cfr. G. TARELLO, Studi sulla teoria generale dei precetti. I. Introduzione al linguaggio precettivo, in “Annali della Facoltà di
Giurisprudenza”, Università di Genova, 7, 1968, pp. 1-113.
20
Cfr., p.e., G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e
metateoria del diritto, Bologna, Il Mulino, 1974, parte I; Progetto per la voce “diritto” di una enciclopedia, in “Politica del diritto”, 2, 1971, pp. 741-747; Prospetto per la voce “ordinamento
giuridico” di una enciclopedia, in “Politica del diritto”, 5, 1975,
pp. 73-102; Positive Law. From the Viewpoint of Italian Legal
Culture, in Associazione Italiana di Diritto Comparato, Italian National Reports to the Xth International Congress of Comparative Law, Budapest 1978, Milano, Giuffrè, 1978, pp. 95-107.
21
Cfr. G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, Giuffrè, 1980.
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Note
Il cortile dell’Università.
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