Un nobile cuoco: l’afragolese Cavalcanti, nell’'800, deliziava i palati
Ippolito Cavalcanti è una singolare figura di nobile afragolese poco o quasi
sconosciuto ai conterranei. Il solo Luigi Piccirilli e Gaetano Capasso lo citano in
brevi scritti apparsi su periodici o pubblicazioni a carattere locale. Al profilo dettato
dai due studiosi di storia locale, aggiungo ora il mio apportando qualche notiziola in
più con la speranza di appagare la curiosità del lettore.
Futuro duca di Buonvicino, titolo nobiliare concesso nel 1795 alla sua famiglia per
«Reale Benevolenza», come lui stesso
avrebbe più tardi scritto, Ippolito
Cavalcanti era nato ad Afragola il 2
settembre del l787. Il padre, Guido
Cavalcanti, omonimo e discendente di
quel Cavalcanti, amico di Dante e poeta
anche lui del dolce «stil novo», era stato
inviato ad Afragola da Napoli - dove
«era nato da un ramo cadetto della
famiglia trasferitosi prima dalla Toscana
in Calabria, e poi da qui nella città
partenopea – in qualità di Governatore
Regio di cappa e spada, importante
incarico giudiziario dell’epoca. Il
duchino, dopo lungo periodo passato a
Napoli a educarsi, si dedicò, quasi fino ai
cinquant’anni, ad amministrare il proprio
patrimonio e a svolgere «i suoi doveri di
Nobiltà», doveri che non cessò, a detta
del suo biografo Pietro Martorana
(Notizie biografiche, Napoli, l874), nel
prosieguo della sua vita dedicata a
scrivere un opuscoletto sul Ruolo dei
Seconda edizione del Trattato
Cavalieri conventuali e serventi d’Armii
di I. Cavalcanti (1839)
del Sovrano Ordine Gerosolimitano, ect.
(introvabile); e un libretto tascabile
intitolato Esercizio di cristiana virtù, con vari salmi, canti ed inni dedicati alla
Vergine, tradotti in versi edito a Napoli per i tipi di Bore e Bompard nel 1811, con
dedica a Isabella di Borbone, madre del sovrano; ma soprattutto a scrivere e a
riscrivere ben otto edizioni di cucina: La Cucina Teorica pratica con Corrispondente
Riporto. Un trattato che non si limita, come sembrerebbe suggerire il titolo, solo a
un’arida elencazione di ricette e consigli pratici; e che, invece, attraverso il racconto
di feste e banchetti, la codificazione sul modo di disporre e presentare le portate, le
disquisizioni sulla quantità e la qualità dei cibi. In elogio al padrone di casa e ai suoi
commensali, ci tramanda anche uno spaccato della vita sociale dell’epoca, sia pure
quasi del tutto attinente alla Corte e all’ambiente a essa circostante. Apparso per la
prima volta nel 1837, il Trattato è, infatti, riservato prevalentemente alla cucina
nobile e soprattutto a tutto quanto ruota attorno al banchetto; quantunque nella
seconda edizione, quella del 1839, nella sesta parte del libro, scritta in napoletano,
l’autore non manchi di discorrere circa i pranzi «de li santi juorni», dalla Domenica
delle Palme a Natale. A ogni buon conto, anche in questo caso, non si discorre, come
si potrebbe pensare, di cucina popolare; semmai di cucina «possibile» ai meno
abbienti in occasione delle grandi ricorrenze. Quanto alle ragioni per cui il duca, che
aveva mostrato, come abbiamo visto, altre e più ambiziose velleità letterarie - senza
peraltro mietere grandi consensi - si fosse così vivamente dedicato a scrivere di un
argomento «minore», qual era, allora come adesso, la gastronomia, si può ipotizzare
che egli, appassionato d`arte culinaria, fosse stato oltremodo sollecitato in questa
impresa dal desiderio di emulare i vari Platina e Scappi, Cristoforo da Melisburgo,
Stefani e soprattutto il Corrado, che, prima e meglio di lui, avevano prodotto per le
rispettive corti molti esempi di libri di cucina, anche se con intenti più chiaramente e
squisitamente umanistici rispetto al nostro esperto culinario di due secoli fa.
Franco Pezzella
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Un nobile cuoco: l`afragolese Cavalcanti, nell``800, deliziava i palati